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seconde contano, evidentemente, ben più delle prime: esse obbediscono ad una legge eterna che il pio buddhista è invitato a contemplare con rapita meraviglia." "Sempre gli stessi sono i momenti della nascita, gl'incontri che scatenano l'angoscia del futuro Buddha, ""Colui la cui mente è naturata di comprensione"" (Bodhisattva, in pali Bodhisatta), sempre gli stessi sono i trentadue segni prodigiosi che contraddistinguono il suo corpo impareggiabile, soprattutto sempre la stessa è la verità ch'egli giunge ad esperire al culmine della sua meditazione, nel ""risveglio"" che ne fa, a pieno titolo, il ""Desto"" (Buddha) della sua epoca. Tutto ciò, nella storia di Vipascit, si svolge su uno sfondo che ripete, ingigantendoli, i caratteri del mondo indiano contemporaneo ai redattori del testo: in questa preistoria - in cui il fatale declino delle cose ancora non incide nel tessuto stesso dell'esistere umano - si vive ottantamila anni, i discepoli sono contati a milioni, le regge hanno la bellezza e il fasto d'una fiaba. Occorre tenere presente come una siffatta visione sia solidale con i dati della biografia di Siddharta, ed anzi tragga, alla stessa stregua, la sua legittimazione da un discorso posto sulle labbra del Buddha in persona, come è uniformemente il caso dei diversi sutra (""fili"" onde si dipana l'insegnamento) contenuti nei Canoni delle varie scuole buddhistiche. Quello da cui i nostri testi son tratti, unico a sopravvivere nella sua intera estensione e in redazione ""popolare"" (nella lingua pali, basata sulla parlata stessa dei tempi del Buddha, anziché nel sanscrito - più o meno artificialmente regolarizzato - adottato per tempo dagli altri indirizzi dottrinali), appartiene alla ""setta"" affermatasi come ortodossia di stato nell'isola di Ceylon a metà del XII secolo d.C., quella che faceva capo al ""Gran cenobio"" (Mahavihara), affermatasi in un definitivo trionfo contro le rivali grazie al favore del re Parakkama Bahu I. Essa, che reclama per sé l'antico titolo di ""Dottrina degli Anziani"" (Theravada) - già portato dal partito conservatore nato con lo scisma della comunità buddhista consumatosi in occasione del Concilio di Pataliputra, tenutosi sotto Agoka -, fornisce oggi una guida spirituale ai popoli di tutta l'Indocina, là dove la repressione non ne ha indebolito la presa, ed è la sola sopravvissuta tra le numerose consorelle della più antica stagione del Buddhismo indiano. Nella loro struttura attuale, i diversi testi che compongono il Canone in lingua pali furono messi per iscritto all'epoca di Gesù, in occasione d'un Concilio tenutosi nella capitale di Ceylon, Anuradhapura, dominato dalla figura del
e Vattagamam, poi più volte rimaneggiati nei secoli successivi, fino alla revisione in concomitanza con il Concilio tenutosi in Birmania tra il 1868 e il 1871, sotto il re Mindonmin. Dove il confronto con le corrispondenti parti dei Canoni d'altre ""sette"", come i Mahisasaka e i Sarvastivadin, è possibile, questo lavoro di alterazione emerge limpidamente, come hanno dimostrato in particolare le ricerche di André Bareau. Il fondo comune ai diversi Canoni comprendeva sia testi orali direttamente risalenti alla comunità attorno a Gautama, sia pie leggende, talora adattate da altra fonte, che dovevano specialmente esser diffuse 5 nei centri, meta di pellegrinaggio, ricollegati all'una o all'altra tappa importante della carriera del Buddha: l'illuminazione, a Gaya, la prima predicazione, a Varanasi (Benares), la morte, a Kuginagara... In origine dovette trattarsi di passi brevi o brevissimi, concatenati soltanto in seguito dalla paziente fatica dei diascheuasti." "Il secondo testo che figura nella nostra scelta è appunto un saggio di quella che poté essere tale primitiva consistenza delle testimonianze confluite poi nei grandi sutra. Si tratta delle parole ""profferite"" dal Buddha (Udana), in forma poetica e spesso oscura, in occasione di determinate circostanze. L'asceta Gautama, negli altri testi solitamente impassibile e impersonale, privo di qualsiasi profilo individuale plausibile (a differenza della sua cerchia, in cui il carattere dei vari discepoli è spesso lumeggiato in modo verisimile - e coerente - dal punto di vista delle loro diverse reazioni agli incidenti narrati), qui invece effonde, trasportato dall'emozione, l'animo suo e ci appare molto più umano e vicino alla ""storicità"" dei personaggi dell'agiografia occidentale. Non mancano, invero, nelle ottantadue brevissime porzioni del testo, strutturate come altrettanti sutra, elementi mirabili e apparizioni ultraterrene, che danno ai ""fioretti"" del Buddha un profumo affine a quello dei racconti francescani che c'incantano nelle nostre pagine trecentesche. La sistemazione semicronologica dei passi, così come l'uso di epiteti invalsi relativamente tardi, quali quello di Tathagata (""Colui ch'è in tal guisa pervenuto""), mostrano, beninteso, che anche qui è intervenuto un certo lavoro d'adattamento, ma la natura stessa dei materiali depone a favore della loro sostanziale antichità." Il terzo testo, che con le sue parti in versi sembra riecheggiare le strutture espositive del precedente, è un compendio di norme per l'uomo che vive nel mondo,
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buddhista è invitato a contemplare con rapita meraviglia."<br />
"Sempre gli stessi sono i momenti della nascita, gl'incontri che scatenano l'angoscia del futuro<br />
Buddha,<br />
""Colui la cui mente è naturata di comprensione"" (Bodhisattva, in pali Bodhisatta), sempre gli<br />
stessi sono i<br />
trentadue segni prodigiosi che contraddistinguono il suo corpo impareggiabile, soprattutto<br />
sempre la stessa è<br />
la verità ch'egli giunge ad esperire al culmine della sua meditazione, nel ""risveglio"" che ne fa,<br />
a pieno<br />
titolo, il ""Desto"" (Buddha) della sua epoca. Tutto ciò, nella storia di Vipascit, si svolge su uno<br />
sfondo che<br />
ripete, ingigantendoli, i caratteri del mondo indiano contemporaneo ai redattori del testo: in<br />
questa preistoria<br />
- in cui il fatale declino delle cose ancora non incide nel tessuto stesso dell'esistere umano - si<br />
vive<br />
ottantamila anni, i discepoli sono contati a milioni, le regge hanno la bellezza e il fasto d'una<br />
fiaba. Occorre<br />
tenere presente come una siffatta visione sia solidale con i dati della biografia di Siddharta, ed<br />
anzi tragga,<br />
alla stessa stregua, la sua legittimazione da un discorso posto sulle labbra del Buddha in<br />
persona, come è<br />
uniformemente il caso dei diversi sutra (""fili"" onde si dipana l'insegnamento) contenuti nei<br />
Canoni delle<br />
varie scuole buddhistiche. Quello da cui i nostri testi son tratti, unico a sopravvivere nella sua<br />
intera<br />
estensione e in redazione ""popolare"" (nella lingua pali, basata sulla parlata stessa dei tempi<br />
del Buddha,<br />
anziché nel sanscrito - più o meno artificialmente regolarizzato - adottato per tempo dagli<br />
altri indirizzi<br />
dottrinali), appartiene alla ""setta"" affermatasi come ortodossia di stato nell'isola di Ceylon a<br />
metà del XII<br />
secolo d.C., quella che faceva capo al ""Gran cenobio"" (Mahavihara), affermatasi in un<br />
definitivo trionfo<br />
contro le rivali grazie al favore del re Parakkama Bahu I. Essa, che reclama per sé l'antico<br />
titolo di ""Dottrina<br />
degli Anziani"" (Theravada) - già portato dal partito conservatore nato con lo scisma della<br />
comunità<br />
buddhista consumatosi in occasione del Concilio di Pataliputra, tenutosi sotto Agoka -,<br />
fornisce oggi una<br />
guida spirituale ai popoli di tutta l'Indocina, là dove la repressione non ne ha indebolito la<br />
presa, ed è la sola<br />
sopravvissuta tra le numerose consorelle della più antica stagione del Buddhismo indiano.<br />
Nella loro<br />
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iscritto all'epoca di<br />
Gesù, in occasione d'un Concilio tenutosi nella capitale di Ceylon, Anuradhapura, dominato<br />
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