ULISSE 7-8 - LietoColle
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Editoriale<br />
Si apre con questa uscita una stagione nuova – ed una se ne chiude – de “l’Ulisse”. Il doppio numero 7-8<br />
vede l’avvicendarsi di Italo Testa a Carlo Dentali nella terna di direzione, oltre ad alcune altre novità di<br />
rilievo, come, ad esempio, l’adesione ad una apertura ad un taglio più “internazionale” (e l'ampliamento de<br />
“I Tradotti” è, infatti, uno dei mutamenti più consistenti).<br />
Si è voluto introdurre questa volta un tema prettamente linguistico: con un’indagine su quali siano i<br />
linguaggi/risorse attuabili e percorribili oggi, per rendere conto di alcune possibili esperienze del presente<br />
della poesia. Queste le coordinate di partenza, nella sezione “Saggi e incursioni” tripartite in: “Esperienze<br />
dei linguaggi”, “Linguaggi e traduzioni” e “Sui dialetti”.<br />
Autore del primo testo della sottosezione “Esperienze dei linguaggi” è Nanni Balestrini. In “Linguaggio e<br />
opposizione” (testo originalmente apparso in I novissimi. Poesie per gli anni ’60, Edizioni del Verri, 1961),<br />
Balestrini pone al centro – a ridosso delle evenienze che, nel “comune linguaggio parlato”, vengono dal<br />
«bisogno di servirsi con immediatezza delle parole», e che portano ad «un’approssimazione per difetto o<br />
per eccesso rispetto al contenuto originario della comunicazione, giunge[ndo] persino a modificarlo, a<br />
imprimergli direzioni nuove», con l’«improvviso scattare di impreveduti accostamenti, di ritmi inconsueti, di<br />
involontarie metafore» e di «straordinarie apparizioni che arrivano a illuminare da un’angolazione insolita<br />
fatti e pensieri» – l’idea di «una poesia che nasca e viva diversamente»: «apparentemente meno rifinita,<br />
meno levigata, non smalto né cammeo[; e] più vicina all’articolarsi dell’emozione e del pensiero in<br />
linguaggio, espressione confusa e ribollente». Ed «il risultato di questa avventura sarà una luce nuova sulle<br />
cose, uno spiraglio tra […] conformismi e […] dogmi». Una poesia che viga cioè come «opposizione», al<br />
«dogma e al conformismo che minaccia il nostro cammino, che solidifica le orme alle spalle, che […]<br />
avvinghia i piedi, tentando di immobilizzarne i passi».<br />
Marco Giovenale e Gherardo Bortolotti introducono ad un esame serrato di «soggetto (autore o lettore)» e<br />
«testo» nel “fare letterario”, e «costruendo un’opposizione tra installazione e performance». L’installazione<br />
è, qui, «oggetto che può darsi (ed emettere senso) indifferentemente dalla presenza del suo ideatore»,<br />
laddove la performance «in nessun caso può prescindere dal “performante”». In questa idea, «le scritture<br />
che si pongono il problema di fornire strumenti per l’esperienza contemporanea hanno deciso di lasciare il<br />
discorso “sul” mondo a favore del discorso “nel” mondo» e, come chiarisce poi Marco Giovenale, «una<br />
scrittura di ricerca che chiede e anzi prescrive al “pubblico” dei lettori e ascoltatori un certo tipo di reazioni<br />
riferite alla presenza dell'autore, è [sempre] paragonabile a (non uguale o coincidente con) una<br />
performance».<br />
Segue Stefano Guglielmin. L’interesse, in questo caso, si focalizza su come la realtà non sia «sostanza unica<br />
e omogenea», e su come questa non possa trovare «nell’eccellenza di una lingua la chiave di volta del<br />
disvelamento, laddove invece, […] l’apertura storico-linguistica è plurale, stratificata, conflittuale, e dunque<br />
non può che essere detta negli infiniti modi della singolarità».<br />
In “La metafora obliqua di Moresco” è offerta, per campionatura, l’analisi dello scrivere di Antonio<br />
Moresco, di come «uno dei suoi istituti fondamentali sia rappresentato dalla metafora». Giampiero Marano<br />
mette difatti ad attenzione come questa (la metafora) costituirebbe «il prodotto di un’irruzione, di un<br />
flusso minacciosamente indistinto di materia e senso verbale […], di una invasione»: e «in Moresco la<br />
frequentissima irruzione di metafore e, a tratti, la loro proliferazione assumono costantemente i connotati<br />
dell’obliquità, di un agire distanziato, differito o indiretto». In più una simile scrittura «non tende soltanto a<br />
una tipizzazione (e non esattamente nel senso lukacsiano del termine…), cioè a una stilizzazione in chiave<br />
formulare di linguaggio e di visioni tale da avvicinarla all’epos, ma inoltre, riconoscendo nel mondo<br />
l’immanenza di forme e strutture che tornano ciclicamente, si assicura la possibilità di cantare il caos».<br />
Il testo (in traduzione di Gherardo Bortolotti) di K. Silem Mohammad sui “Sought poems” pone luce su<br />
come guardare alle «procedure in cui il materiale testuale usato […] è fornito almeno in parte prima che<br />
l’atto della composizione in quanto tale abbia inizio», e «disciogliendo ulteriormente il ruolo dell’autore<br />
unitario nel riorganizzare e nel riformare il materiale di partenza». L’“elemento collaborativo” viene, in<br />
questo caso, da «un’autorialità multipla simulata, [da] una collaborazione forzata o finta con altri soggetti –<br />
soggetti la cui reale identità può anche essere sconosciuta o non rintracciabile». Il “Sought poem” guarda<br />
ad un «processo d[el] cercare […] aggressivo […], con l’intento di elencarlo in qualche struttura. I sought<br />
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poems emergono come il risultato di una chirurgia invasiva operata su corpi pre-straziati» e su voci che –<br />
attraverso il “medium” Google – «sono già state co-optate o dis-optate molte volte in conseguenza del loro<br />
inserimento nel grande catalogo casuale di Internet», e che opera «provoca[ndo], pungola[ndo] ed<br />
incita[ndo] all’esistenza» un testo.<br />
“Propositi per una decadenza” sposta il fuoco su varie ed altre vive questioni. È «quasi vanitas chiedersi<br />
quale sarà (o dovrebbe essere oggi) la lingua della poesia, ed è ovvio che non deve assumere – come<br />
accade – il ruolo di una conservazione illusoria (e: illusoriamente piccoloborghese, piccolocattolica, ecc.<br />
[…])»; «rispetto alle […] polarizzazioni sterilizzate dal cambiamento oggettivo del mondo» dovrebbero<br />
esserci «altre vie»: «qualcosa che si install[i], pietrificandosi e riconoscendo, nello stesso tempo, la propria<br />
deperibilità». «La comunità poetica italiana[, invece,] continua ad agire come se avessero senso e dignità<br />
cose diverse dai corpi e dal tempo (i corpi sono i veri parlanti, e il tempo è tempo anche per le lingue, oltre<br />
che per i corpi). Eppure: ora la poesia non deve trasformarsi ex abrupto, per senso di colpa, in un registro<br />
pedissequo dell’invecchiamento, della sostituzione etnica e della sopravvivenza del vecchio nel nuovo;<br />
mentre il suo corpo, non degradabile, ha il dovere della mediazione e dell’indipendenza». Infatti, oggi, la<br />
«maggior parte del suo lavoro» dovrebbe consistere nel «non scendere a patti con chi vuole coinvolgerla in<br />
dualismi che si riveleranno, non troppo tardi, mortali e vani: come chi li ha fomentati, confondendo uno<br />
struggle for life più che provinciale con un’esigenza artistica. Così il gioco del massacro tramonterà, senza<br />
troppi lamenti: perché la sua fine sarà contemporanea a quella dei suoi parlanti». Il testo è di Massimo<br />
Sannelli.<br />
Nel suo contributo Luigi Severi considera la marginalità di collocazione della lingua poetica in un contesto<br />
comunicativo popolato di lingue (giornalistica, pubblicitaria, telematica, ecc.), debolmente significanti ma<br />
potentemente pervasive e manipolative. Da questo sistema della parola a-semantica è inevitabile che la<br />
lingua della poesia sia messa al bando. La sua parola è pericolosa, infatti, in quanto non assimilabile dal<br />
mercato, poiché dotata di senso: in essa è insopprimibile la diacronia, affidando/affondando essa le radici<br />
nella propria tradizione, ma anche della lingua storica. La poesia è, per Severi, violazione del non-senso<br />
contemporaneo, e punto di vista esterno al sistema. Il che sarebbe tanto più vero, quando la sua lingua è<br />
sperimentale, di modalità accumulativa, cioè iper-rappresentativa. Esemplare, secondo l’autore, resta la<br />
strategia poundiana, che condurrebbe, per unica strada, a Tony Harrison. Per mezzo di mescidazione e di<br />
giustapposizione la lingua poetica arriva ad essere somma di rappresentazioni, e storia in atto.<br />
Formalizzando gli scoppianti materiali esogeni, essa ricostruirebbe un senso, lo reinventerebbe,<br />
riconducendo, contro la stasi attivistica e mercantile della realtà, a un principio di pensiero.<br />
Apre l’indagine su “Teoria e pratica della traduzione” Franco Buffoni, con il suo saggio “Traduttologia come<br />
scienza e traduzione come genere letterario”. Nodo, qui, è il “come” del «riprodurre lo stile»: poiché «la<br />
traduzione letteraria non può ridursi concettualmente a una operazione di riproduzione di un testo; essa<br />
dovrebbe piuttosto essere considerata come un processo, che vede muoversi nel tempo e – possibilmente<br />
– fiorire e rifiorire, non “originale” e “copia”, ma due testi forniti entrambi di dignità artistica». Nel fare del<br />
traduttore, solitamente, il «testo cosiddetto di partenza» è sempre «considerato come un monumento<br />
immobile nel tempo, marmoreo, inossidabile. Eppure anch’esso è in movimento nel tempo, perché in<br />
movimento nel tempo sono – semanticamente – le parole di cui è composto; in costante mutamento sono<br />
le strutture sintattiche e grammaticali, e così via». L’opera è sempre in «trasformazione o, per l'appunto, in<br />
movimento nel tempo». Vitale – ci dice con Friedmar Apel – è il «concetto di “movimento” del linguaggio»,<br />
e che deve essere messo al centro, per «togliere ogni rigidità all'atto traduttivo» e «guardare nelle<br />
profondità della lingua cosiddetta di partenza prima di accingersi a tradurre un testo letterario, idea [che è]<br />
comunemente accettata per la cosiddetta lingua di arrivo».<br />
Il secondo intervento è di Martha Canfield (con, anche, sue versioni di Sergio Badilla, Yves Prié, Jorge<br />
Arturo, Rami Saari, Eloy Santos, Samer Darwich, Yasuhiro Yotsumoto e Philip Meersman), che, attenta<br />
nell’indagare le dinamiche e i comportamenti del cambiamento avvenuti nel/dal Novecento, nota come la<br />
globalizzazione ha fatto sì che il «poeta del terzo millennio» possa «viaggia[re], legge[re] in molte lingue,<br />
conosce[re] e stabili[re] rapporti molto più facilmente di una volta con persone di altre nazioni e dai<br />
costumi molto diversi». E, così, «l'orizzonte personale si allarga, amore e amicizia diventano possibili al di là<br />
delle frontiere e delle consuetudini, i pregiudizi vengono messi in crisi dalla familiarità con il diverso».<br />
Propone, poi, una rassegna antologica di otto poeti provenienti da otto nazioni diverse che hanno fatto di<br />
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questa «aura internazionale e multiculturale» – di questa «dimestichezza con luoghi lontani dalla terra<br />
natia, [di] questa appartenenza ormai al “villaggio globale”» – vena di una prospettiva poetica nuova e di<br />
linguaggio.<br />
«Due fatti, tra tanti, s’inscrivono nell’idea di passaggio, di transito: il fatto che qualcosa è lasciato – per<br />
sempre oppure nella speranza di un prossimo ritorno là, dove si è partiti; il fatto che una novità è attesa,<br />
cercata, tentata». Carla Canullo in “L’incomprensibile e la traduzione” indica come «tradurre [sia] far<br />
accadere un trasferimento di senso; [ed] anche attingere alla potenza della metafora, della metonimia».<br />
Non soltanto il «passare – tramite vocaboli o lessici sempre più specifici ed aggiornati – ad una lingua che è<br />
altra, o un rendere disponibile a tutti, ma […] un mettere sul tavolo la posta in gioco del testo da tradurre,<br />
la sua complessità, il suo senso e la sua storia. È desiderare che nella banalità espropriante si acceda al<br />
proprium del testo e del suo linguaggio». Infatti «l’esperienza e la traduzione come esperienza sono un<br />
banalizzarsi per tornare a sé, per tornare al proprium del testo e, tramite ciò, a quel proprio proprium che<br />
non è mai il risultato di una appropriazione definitiva ma che è il segno dell’incessante divenire, noi stessi,<br />
ciò che si è; incessante divenire che accade grazie ai transiti e passaggi quotidiani che compiamo, vivendo.<br />
In fondo, la posta in gioco è il mistero che il linguaggio del testo custodisce. È il mistero del sé, di chi scrive e<br />
traduce». Mentre Giampaolo Vincenzi, con “Appunti sull’ermeneutica e sull’etica della traduzione da<br />
Schleiermacher a Berman”, mostra come l’analisi si possa giovare guardando alla «reciproca influenza tra il<br />
lavoro che il traduttore svolge nel traslare un’opera d’arte poetica, e quella rete di leggi inconsce e culturali<br />
alle quali il traduttore stesso è vincolato nell’operazione di lettura e di riscrittura». La traduzione, infatti,<br />
«non è solo un risultato testuale di un lavoro, ma è il processo stesso di trasformazione di un testo in un<br />
altro praticato da un individuo che possiede una sua cultura particolare, e nel contempo è posseduto da –<br />
fa parte di – una cultura. Il testo tradotto, oltre ad essere il risultato del processo, è anche il banco di prova<br />
sul quale il traduttore si misura e sul quale lo studioso tenta di ricercare le tappe tramite le quali il percorso<br />
traduttivo si è dipanato».<br />
Seguono, poi, esperienze di poeti traduttori. Luigi Ballerini porta in causa un testo che, da breve<br />
testimonianza iniziatica, rapidamente scorre, per exempla, lungo le quattro direzioni in cui l’autore ha<br />
svolto l’attività di traduttore: testi altrui portati dall’inglese in italiano, testi dello stesso autore volti<br />
dall’inglese in italiano, testi dell’autore tradotti dal milanese in italiano e, infine, testi altrui (di Cavalcanti)<br />
resi dall’italiano in milanese. In coda, con una sorta di affettuoso venenum, la divertita/divertente e<br />
rovinosa ingerenza di un hapax legomenon.<br />
Da parte sua, Yves Bonnefoy illustra in “La frase breve e la frase lunga” – testo a cura di Donata Feroldi, già<br />
apparso in La traduzione del testo poetico, a cura di Franco Buffoni, Marcos y Marcos, 2004 – come venga<br />
accolta con «impazienza», da altra tradizione linguistica, l’«abitudine» della/alla “frase lunga” francese. Ad<br />
essere “sospetto”: «lo spirito che […] accompagna le parole», ed «il fatto che colui che [scrive la frase<br />
lunga] sembra vederla accadere in un luogo mentale in cui, dispiegandosi in una forma intelligibile, essa<br />
può pretendere di costituire la verità dall’interno[,] trionfando così sull’oscurità dei fatti che ha il compito di<br />
analizzare ma anche, ancora di più, sull’idea stessa di oscurità, vincendo il timore che ciò che è sia<br />
impenetrabile a colui che pensa». L’analisi attraverso cui ci conduce muove a chiarire come «l’autore di<br />
questa frase tridimensionale non dubiti affatto del suo svilupparsi nello spazio stesso dello spirito,<br />
accedendo a una tale purezza attraverso l’esercizio congiunto della logica e di una sintassi che aiuta a<br />
dissipare, di fronte alle parole e in esse, quanto intralcia l’adæquatio rei et intellectu», e come «il discorso<br />
incriminato può non aver voluto far altro, nello specifico, che abbozzare ciò che il lettore dovrà portare a<br />
compimento, non la formulazione di una legge, ma la sintesi di un essere-al-mondo».<br />
Guarda ad una specie di “inventario” della sua «officina di traduzioni» Giovanni Giudici – ed è ancora un<br />
testo da La traduzione del testo poetico, a cura di Franco Buffoni, Marcos y Marcos, 2004. Vitali per lui,<br />
nella “necessità” del tradurre sono la spinta a «penetrare [n]ella poesia», ed un “mistero”. Giudici vede<br />
come «tra le condizioni favorevoli alla traduzione di poesia si debba comprendere anche quella di una forte<br />
“escursione” (o differenza) tra la lingua da cui si traduce e quella in cui si traduce; divario o “salto” o gap<br />
che sia sufficientemente apprezzabile da invogliare allo sforzo di colmarlo e nel quale si colloca appunto lo<br />
spazio ideologico-motivazionale-operativo della traduzione». E «tradurre una poesia in queste condizioni è<br />
una sorta di avventura, un inoltrarsi in un paese sconosciuto, mossi da un amor de lonh, affascinati come<br />
Jaufré Rudel da una bellezza non veduta, da un “sentito dire”; è un conquistare a noi stessi quella poesia e<br />
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con essa qualche più o meno vivo lacerto della “strana” ed “estranea” lingua in cui è scritta e magari del più<br />
o meno remoto tempo e/o luogo in cui venne scritta in origine».<br />
Niva Lorenzini in “Uno Shakespeare praticabile” – testo scritto come introduzione alle traduzioni dai<br />
Sonetti, di Edoardo Sanguineti, uscita per Manni nel 2004 – mette evidenza su alcuni dei moventi<br />
costituzionali dell’operare una traduzione per Sanguineti (e su ciò che «definisce la singolarità della [sua]<br />
resa»). Cifra è qui una contrainte, dove tale contrainte è intesa «come l’attenzione a mantenere, in<br />
traduzione, il ritornare di un termine, del suo suono, quasi a stimolare – parola d’autore – “associazioni<br />
libere”», e che «aiuta a definire una sorta di codice, cui Sanguineti resta fedelissimo». Ne viene una resa<br />
compiutamente leale, «ogni volta che si impongano nel testo shakespeariano forme di iterazione, stilemi<br />
anaforici, parallelismi».<br />
I successivi tre interventi immettono nel confronto la riflessione su campi/sopravvivenze/dinamiche<br />
odierne dell’operare/riflettere sul/nel dialetto. Il primo, di Giovanni Nadiani, introduce ad un esame della<br />
traduzione “commissionata” a “fini drammaturgici”: «la dominante – qui – propenderà […] per una resa<br />
scenica […], affidandosi a una visione traduttologica […] in buona parte “addomesticante”» e ripiegata<br />
«sulle esigenze della produzione e della regia con in mente il loro pubblico», sulla «usabilità performativa<br />
del testo scritto», e sulla sua «attuabilità da parte di attori/agenti». Il suo saggio muove quindi ad<br />
analizzare domande e questioni che sorgono da questo operare, con una operazione a tutto campo che<br />
sfocia nell’attenzione – viva negli ultimi anni – sulle «problematiche complesse come quelle di “minoranza”<br />
e di “minorità”, soprattutto in una prospettiva post-coloniale, inter- e multiculturale e di genere […] nonché<br />
– entrando nello specifico linguistico – alle difficoltà di riproduzione nella lingua d’arrivo di elementi<br />
linguistico-culturali minoritari, [e] concernenti la resa di elementi dialettali […] verso una grande lingua<br />
veicolare […] a scapito di tutto quanto non ha le sembianze di uno pseudo-standard».<br />
Elio Talon si appunta invece su una sezione dei propri moventi e del proprio cammino di poeta dialettale.<br />
«Lingua madre è – infatti – la lingua nella quale apprendi l’essenza vitale delle parole, il respiro che è loro<br />
concesso è lo spazio che hanno nell’esistenza quotidiana: si apprendono i concetti con le loro altezze e le<br />
loro profondità».<br />
Infine Edoardo Zuccato parte dal rilievo che la «sistematizzazione della poesia italiana del Novecento […] in<br />
corso tramite […] antologie e convegni non sembra deviare granché dalle linee impostate dalla storiografia<br />
risorgimentale, i cui contributi alla formazione di un canone nazionale unitario (e quindi di un’identità<br />
nazionale) sono stati tanto decisivi quanto falsificanti», ed in opzione sempre monolinguistica. E infatti, se<br />
in Italia le ultime generazioni «hanno dimenticato o stanno dimenticando il dialetto, senza aver per questo<br />
davvero imparato l’italiano, […] si potrebbe dire che dall’unità d’Italia a oggi si è verificato un passaggio<br />
dall’analfabetismo di massa all’analfabetizzazione di massa» – il cosiddetto italiano dei “semicolti” –<br />
«l’ostilità all’Italia delle regioni e delle città, quella cioè dei dialetti, ammessa tutt’al più come fenomeno<br />
comico e folcloristico, è l’altra faccia della mentalità diffusa da cui emerse un nazionalismo che si risolse in<br />
breve in un penoso provincialismo: […] troppo piccole per affrontare molti problemi materiali, le nazioni<br />
paiono invece a volte troppo grandi per soddisfare quelle esigenze emotive di appartenenza che, per<br />
quanto pericolose e criticabili, sembrano comunque necessarie ai più». Ma non si tratta qui «solo di<br />
difendere le minoranze linguistiche, cosa di per sé giustissima, ma di permettere che rimanga attivo e in<br />
vita tutto il patrimonio linguistico dell’Italia, che, come sappiamo, non ha eguali per varietà e ricchezza in<br />
nessun altro paese europeo»: la «sfida» è quella di «trovare un atteggiamento ragionevole ugualmente<br />
distante sia dall’ostilità verso i dialetti che troppo spesso è prevalsa in passato fra le autorità, sia dallo<br />
spirito da riserva indiana che le norme sulle minoranze si portano sovente appresso».<br />
Segue la sezione “In Dialogo”: Umberto Fiori intervistato da Italo Testa.<br />
Chiude il numero la consueta porzione antologica de “Gli Autori”: una panoramica molto variegata (e<br />
volutamente allargata rispetto ai numeri precedenti de “l’Ulisse”), che riprende lo schema ‘esperienze dei<br />
linguaggi/traduzione/dialetti’ proposto nella sezione saggistica. I testi sono di: Gabriele Frasca, Giuliano<br />
Mesa, Maria Grazia Calandrone, Annamaria Carpi, Lorenzo Caschetta, Alberto Cellotto, Mauro Ferrari,<br />
Vincenzo Frungillo, Andrea Inglese, Tommaso Lisa, Alberto Mori, Luciano Neri, Marina Pizzi, Jacopo<br />
Ricciardi, Lidia Riviello, Luigi Socci.<br />
Se ne “I tradotti”, da questo numero in avanti una partizione fissa della rivista, si accolgono testi originali di<br />
Pascal Quignard, Joë Bousquet, Kurt Drawert, Oliverio Girondo, Jean-Marie Gleize, Guy Goffette, Lyn<br />
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Hejinian e Chong Hyonjong; Pierluigi Cappello, Azzurra D’Agostino, Andrea Longeva, Gianni Priano ed Elio<br />
Talon ed Assunta Finiguerra vengono infine a rappresentare la voce “poesia dialettale”.<br />
La voce di Ulisse: Italo Testa<br />
***<br />
AUTOSCONTRO<br />
Stefano Salvi<br />
Si esce un giorno, a comporre un inventario, registrare le presenze, tentare uno scontro. A volte le cose<br />
che premono sulla soglia lasciano una traccia, mandano un segnale, a volte s’incuneano. A tratti<br />
penetrano minacciose, fanno piazza pulita delle parole. Non è mai solo all’interno che ci si muove, si<br />
prendono le misure. E neppure il linguaggio precede soltanto o segue unicamente: che se questo fosse<br />
l’oggetto, e finanche il soggetto, la porta rimarrebbe chiusa, il fantasma ripiegato in se stesso: lo scontro<br />
con le cose rinviato per sempre.<br />
SOLO CON ALTRI<br />
Ogni giorno, quando il bisogno di effrazione si rinnova in poesia, l’ottusa ontologia del linguaggio si<br />
spezza. Allora si è là, nel mezzo, esposti alla pluralità senza scampo: quanto più le lingue, i codici si<br />
moltiplicano, si ibridano nelle povere teste allo sbando, tanto meno queste stanno solo con se stesse. La<br />
noia limacciosa di una lingua che parla di sé e nient’altro turbata, ancora una volta, dall’urto delle<br />
esperienze. D’un soffio, almeno, poter sollevare la testa, sognare che non sia solo palude.<br />
CON ASTUZIA<br />
Non si sa se è la vita che si va a raggiungere. Consegnati si resta pur sempre ad un adombramento, ma<br />
per fuoriuscirne. Sensi, suoni, segni: inquadrarli esattamente, torcerli con astuzia. Nella mischia gettarsi<br />
in un corpo a corpo, rubare il bottino e fuggire.<br />
TRASPORTO ROVINE<br />
Lì c’era molto da puntellare, mettere in salvo. Ma la ricerca era poi d’altro, attraversava le lingue per<br />
fuoriuscirne. Sopra e sotto, sopra e sotto: da tutt’altra parte.<br />
CHE COSA VEDI?<br />
Dice: depredare il bambino del linguaggio per fissarlo in gesti. O ancora: spezzare il linguaggio per<br />
raggiungere la vita. Ma a volte: bisogno di penetrazione. Oppure: una luce nuova sulle cose. Dice e<br />
confonde, dice e annulla. Passando di qui, un giorno non ne sarà più niente: allora avranno finalmente<br />
attraversato il guado. E oltre questo che cosa vedi?<br />
Italo Testa<br />
6
SAGGI E INCURSIONI<br />
7
Esperienze dei linguaggi<br />
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LINGUAGGIO E OPPOSIZIONE<br />
Accade talvolta di notare con stupore, nello sclerotico e automatico abuso di frasi fatte e di espressioni<br />
convenzionali che stanno alla base del comune linguaggio parlato, un improvviso scattare di impreveduti<br />
accostamenti, di ritmi inconsueti, di involontarie metafore; oppure sono certi grovigli, ripetizioni, frasi<br />
mozze o contorte, aggettivi o immagini spropositate, inesatte, a colpirci e a sorprenderci, quando le<br />
udiamo galleggiare nel linguaggio anemizzato e amorfo delle quotidiane conversazioni: straordinarie<br />
apparizioni che arrivano a illuminare da un'angolazione insolita fatti e pensieri.<br />
Il bisogno di servirsi con immediatezza delle parole porta infatti a un'approssimazione per difetto o per<br />
eccesso rispetto al contenuto originario della comunicazione, giunge persino a modificarlo, a imprimergli<br />
direzioni nuove. La necessità di sottostare al tempo differenzia profondamente il linguaggio parlato da<br />
quello scritto, che offre la possibilità di una stesura dilazionata, con modifiche, apporti, soppressioni. Ciò<br />
che è detto è invece detto per sempre, e può venire corretto solo mediante addizioni successive, cioè<br />
mediante una continuazione nel tempo.<br />
Di qui si fa strada l'idea di una poesia che nasca e viva diversamente. Una poesia apparentemente meno<br />
rifinita, meno levigata, non smalto né cammeo. Una poesia più vicina all'articolarsi dell'emozione e del<br />
pensiero in linguaggio, espressione confusa e ribollente ancora, che porta su di sé i segni del distacco<br />
dallo stato mentale, della fusione non completamente avvenuta con lo stato verbale. Le strutture, ancora<br />
barcollanti, prolificano imprevedibilmente in direzioni inaspettate, lontano dall'impulso iniziale, in una<br />
autentica avventura. E da ultimo non saranno più il pensiero e l'emozione, che sono stati il germe<br />
dell'operazione poetica, a venire trasmessi per mezzo del linguaggio, ma sarà il linguaggio stesso a<br />
generare un significato nuovo e irripetibile. E il risultato di questa avventura sarà una luce nuova sulle<br />
cose, uno spiraglio tra le cupe ragnatele dei conformismi e dei dogmi che senza tregua si avvolgono a ciò<br />
che siamo e in mezzo a cui viviamo. Sarà una possibilità di opporsi efficacemente alla continua<br />
sedimentazione, che ha come complice l'inerzia del linguaggio.<br />
Tutto ciò contribuisce a considerare oggetto della poesia il linguaggio, inteso come fatto verbale,<br />
impiegato cioè in modo non-strumentale, ma assunto nella sua totalità, sfuggendo all'accidentalità che lo<br />
fa di volta in volta riproduttore di immagini ottiche, narratore di eventi, somministratore di concetti...<br />
Questi aspetti vengono ora situati sullo stesso piano di tutte le altre proprietà del linguaggio, come quelle<br />
sonore, metaforiche, metriche..., tendono al limite a essere considerati puro pretesto.<br />
Un atteggiamento fondamentale del fare poesia diviene dunque lo « stuzzicare » le parole, il tendere loro<br />
un agguato mentre si allacciano in periodi, l'imporre violenza alle strutture del linguaggio, lo spingere a<br />
limiti di rottura tutte le sue proprietà. Si tratta di un atteggiamento volto a sollecitare queste proprietà, le<br />
cariche intrinseche ed estrinseche del linguaggio, e a provocare quei nodi e quegli incontri inediti e<br />
sconcertanti che possono fare della poesia una vera frusta per il cervello del lettore, che quotidianamente<br />
annaspa immerso fino alla fronte nel luogo comune e nella ripetizione.<br />
Una poesia dunque come opposizione. Opposizione al dogma e al conformismo che minaccia il nostro<br />
cammino, che solidifica le orme alle spalle, che ci avvinghia i piedi, tentando di immobilizzarne i passi.<br />
Oggi più che mai questa è la ragione dello scrivere poesia. Oggi infatti il muro contro cui scagliamo le<br />
nostre opere rifiuta l'urto, molle e cedevole si schiude senza resistere ai colpi — ma per invischiarli e<br />
assorbirli, e spesso ottiene di trattenerli e di incorporarli. È perciò necessario essere molto più furbi, più<br />
duttili e più abili, in certi casi più spietati, e avere presente che una diretta violenza è del tutto inefficace<br />
in un'età tappezzata di viscide sabbie mobili.<br />
È in un'epoca tanto inedita, imprevedibile e contraddittoria, che la poesia dovrà più che mai essere vigile<br />
e profonda, dimessa e in movimento. Non dovrà tentare di imprigionare, ma di seguire le cose, dovrà<br />
evitare di fossilizzarsi nei dogmi ed essere invece ambigua e assurda, aperta a una pluralità di significati<br />
e aliena dalle conclusioni per rivelare mediante un'estrema aderenza l'inafferrabile e il mutevole della<br />
vita.<br />
[Apparso originalmente in: I novissimi. Poesie per gli anni ’60, Edizioni del Verri, 1961]<br />
Nanni Balestrini<br />
9
TRE PARAGRAFI SU SCRITTURE RECENTI<br />
1. INSTALLAZIONE vs PERFORMACE<br />
Uno schema per organizzare molti dei testi proposti oggi può essere preso dalle arti figurative,<br />
costruendo un’opposizione tra installazione e performance, questo soprattutto tenendo in considerazione<br />
due dei vari elementi che girano intorno al fare letterario: il soggetto (autore o lettore) ed il testo.<br />
In questo senso, l’installazione è quell’oggetto che può darsi (ed emettere senso) indifferentemente dalla<br />
presenza del suo ideatore. Cioè il testo viene "progettato per" e "collocato in" uno spazio segnato<br />
dall’assenza di una motivazione umana, per così dire.<br />
La performance, invece, in nessun caso può prescindere dal "performante". Si noti: nemmeno quando sia<br />
un attore a sostituire il poeta. Al centro sta comunque il corpo-testo (dunque daccapo l’autore) che si<br />
riversa in un corpo-voce solo parzialmente "altro".<br />
Questo, guardando l’evento artistico o testuale tenendo presente l’autore. Un discorso analogo può<br />
essere fatto, però, guardando al pubblico.<br />
L’installazione è quel loop oggettuale che può meccanicamente darsi e girare ed esistere anche durante<br />
periodi virtualmente infiniti di assenza di sguardi. Al contrario, la performance può sì aver luogo anche a<br />
sala vuota, ma in questo caso la si considera fallita. È un evento che chiede testimoni.<br />
A questo aspetto, sempre sul versante della fruizione, se ne collega un altro. Al pubblico dell’installazione<br />
viene richiesta una fruizione, un’esperienza (distaccata, come lettura/esplorazione della sua articolazione;<br />
o partecipe - ma nei termini decisi da chi esperisce, non da chi si esprime). Per la performance ci si trova,<br />
al contrario, di fronte a uno spettacolo, dunque certo ad una richiesta esplicita di reazione, quale che sia,<br />
ma soprattutto ad un automatico coinvolgimento nello spazio dell’opera.<br />
2. AUTORE E REALISMO<br />
L’opposizione di cui sopra può essere letta in filigrana anche partendo da un’altra coppia di elementi<br />
presenti nelle dinamiche della letteratura: il testo ed il mondo.<br />
In questo senso, si può notare che, a fronte del disfarsi del mondo nelle centomila versioni che<br />
quotidianamente ci vengono fornite, le scritture che si pongono il problema di fornire strumenti per<br />
l’esperienza contemporanea hanno deciso di lasciare il discorso "sul" mondo a favore del discorso "nel"<br />
mondo.<br />
Questo, nella pratica della scrittura, sembra avvenire in due modi.<br />
Da una parte, viene rifondata la funzione del narratore, collegandone lo statuto all’autore reale in quanto<br />
sua espressione: si attribuisce all’esistenza storica di chi scrive la forza carismatica di coordinare le forze<br />
centrifughe che disfano qualunque discorso sul mondo. Nella maggior parte dei casi, questa soluzione<br />
appare isterica, perché così facendo, anziché collocare il discorso nel mondo attraverso la persona<br />
dell’autore, in verità lo si rimette nel suo limbo ideologico-metafisico mitizzando l’autore stesso.<br />
Questa istanza, in diverse declinazioni, è forse reperibile già nell’ultimo Pasolini, per fare un esempio, o in<br />
Arbasino, ma se risaliamo agli ultimi anni, soprattutto in narrativa, è all’ordine del giorno: il narratore è<br />
un narratore onnisciente non perché sa tutto della vicenda, ma proprio perché è l’autore a sapere tutto<br />
del mondo (o almeno così dà ad intendere con varie strategie retoriche).<br />
Dall’altra parte, si pensa che la rappresentazione dell’incoerente è pur sempre coerente e come tale, per<br />
come va il mondo, non si situa nel mondo ma nel metafisico e, di conseguenza, si procede alla<br />
decostruzione del narratore, alla sua destabilizzazione. In qualche modo, allora, ci si appella<br />
all’esposizione della sintassi, dell’ordine realizzato come metonimia dell’ordine supposto o prova<br />
dell’azione di ordine sul mondo che chi scrive si incarica di dare. Si colloca nel mondo il discorso nel senso<br />
che lo si lascia nella fattispecie delle sue singole soluzioni. Questo tipo di lavoro lo si può vedere, nelle<br />
varie espressioni possibili, nel Balestrini della Signorina Richmond o nell’ultimo Calvino o nei tanti francesi<br />
e statunitensi che vengono scoperti in questo periodo: Rodrigo, Tarkos, Mohammad, Cadiot, Markson,<br />
Alferi, etc…<br />
3. ANTIRAPPRESENTATIVITÀ<br />
Un’ultima nota per sottolineare come caratteristica comune, che si ritrova su entrambi i lati di entrambe<br />
le polarità individuate, l’elusione o il rifiuto o il superamento della rappresentazione. Insomma<br />
l’antirappresentatività delle scritture in corso.<br />
[testo apparso anche su GAMMM, http://gammm.blogsome.com]<br />
Gherardo Bortolotti e Marco Giovenale<br />
10
_____________________________________________________<br />
SU INSTALLAZIONE “VERSUS” PERFORMANCE<br />
(in riferimento-commento a TRE PARAGRAFI SU SCRITTURE RECENTI)<br />
Una scrittura di ricerca che chiede e anzi prescrive al "pubblico" dei lettori e ascoltatori un certo tipo di<br />
reazioni riferite alla presenza dell'autore, è paragonabile a (non uguale o coincidente con) una<br />
performance. Mentre una scrittura di ricerca che non chiede questo tipo di reazioni, e che più in generale<br />
mette completamente tra parentesi la stessa esistenza reale o connotabile dell’autore (come accade alle<br />
tracce sui muri, ai graffiti, alle opere anonime in generale, e a centinaia di versi bellissimi o sciocchi e<br />
impalpabili della letteratura classica) assomiglia a (non è uguale o coincidente con) una installazione.<br />
La differenza di intenzioni che separa performance da installazione è paragonabile [solo paragonabile: e<br />
utilmente] alla differenza di intenzioni che separa i due tipi di scrittura. Sarebbe a dire:<br />
Come la performance si struttura chiedendo pubblico e quasi prescrivendolo, mentre l’installazione può<br />
esistere per anni senza spettatori favorevoli e reagenti e reattivi (che possono mancare, che non sono<br />
prescritti), altrettanto si può dire (per possibile paragone e non per necessaria coincidenza) che da una<br />
parte c’è un tipo di scrittura che intenzionalmente aspetta un pubblico e lo pre-forma e lo pre-scrive, e<br />
dall’altra c’è un tipo di scrittura (talvolta perfettamente aleatoria, e davvero a-autoriale) che non preforma<br />
e non pre-scrive niente.<br />
Inoltre. C’è una scrittura e prassi che adula/adora o anche solo sottolinea l’autorialità (o semplicemente o<br />
ingenuamente o malevolmente o sinceramente) la prevede o addirittura la impone: la dètta. E c’è invece<br />
una scrittura che prescinde tendenzialmente, anzi nettamente, per statuto proprio, dai connotati e dalle<br />
intenzioni e dalla stessa identità e identificabilità e esistenza dell’autore come figura forte, come<br />
‘detentore di ruolo’, come regolatore, se vogliamo. (Ergo, prescinde dal suo essere "garante" di "arte").<br />
Si tratta di una scrittura che, semplicemente, rimette al testo (a "sé come scrittura") l'emissione di senso.<br />
Diversamente, una scrittura paragonabile alla scrittura-per-performance non può di fatto essere esterna a<br />
una autorialità marcata, alla presenza del corpo o voce agente, al performer. Se questo manca, manca<br />
tutto, o facilmente (o plausibilmente, o spesso) "il testo non basta". (Può non bastare; è plausibile che<br />
non basti; o ancora, e meglio: è accettato pacificamente dal gioco della stessa performance che non sia<br />
prioritario che il testo in sé basti).<br />
Al contrario, una scrittura paragonabile a una installazione di fatto può - come un oggetto abbandonato -<br />
essere del tutto sganciata da una autorialità intesa in senso forte, connotante. Se manca l’autore, qui, se<br />
è ignoto, nessuno si stupisce: è/era il testo a sollecitare la lettura: solo il testo: la sua identità di oggetto,<br />
di nucleo linguistico, di rete di relazioni sonore e semantiche estranee al fatto che un tale individuo X<br />
precisabile o delineato ne sia (ne sia stato) autore.<br />
Codicillo. In una società spettacolare, la figura dell’autore è più importante dell’autore medesimo, che a<br />
sua volta è più importante dei testi che scrive (dei valori letterari che quei testi possono includere). In<br />
una società spettacolare possono coesistere autori ottimi e pessimi, questi ultimi acquisendo volentieri<br />
fama e consensi per una qualche abilità attoriale, reale o meno, forte o dubbia.<br />
In un contesto non-spettacolare, o anti-spettacolare, o indifferente o estraneo comunque allo spettacolo,<br />
la figura dell’autore (con o senza palco) può non contare nulla. Talvolta la sua stessa esistenza oggettiva<br />
viene serenamente svuotata di senso: non ne possiede alcuno. (Narciso non ha appiglio).<br />
Semmai tutta l’attenzione è o vorrebbe essere puntata sulla pagina. (Attenzione: la pagina è anche un<br />
vettore di suoni; è spartito e base di incisioni; dunque non esclude anzi fonda una esecuzione, cioè<br />
un'interpretazione. "Esecuzione" e "performance" sono termini differenti, e fanno riferimento a prassi<br />
niente affatto identiche).<br />
In un tempo storico segnato dal dominio dello spettacolare avanzato, questa posizione appare come<br />
conservativa semplicemente perché in Italia essa rinvia a quell’amore per la struttura materiale e<br />
concreta del testo che aveva in critici (tutt’altro che "d’avanguardia") come Debenedetti i suoi alfieri. Ed è<br />
bene che ad essi rimandi. Ma - in avanti - punta a linee artistiche ben attestate negli USA e in Francia<br />
(dove con lo spettacolo ci si confronta forse con un’attenzione produttivamente ossessiva e febbrile).<br />
11
L’idea o immagine di "installazione" è solo una metafora: ma è utile. Non si può attribuirle valore<br />
definitorio o eccessiva stabilità e funzionalità; ma nemmeno è inutile o assurda. Dà conto - appunto come<br />
metafora e immagine, non come descrizione - di un modo di fare letteratura. Un tipo di scrittura<br />
installativa esiste, è diffusa, è scritta e letta. C’è.<br />
È COME una scritta sul muro. Si è liberi di leggerla, valorizzarla, o no. In nessuno dei due casi essa<br />
smetterà di esistere, né di emettere senso (per chi vuole avvertirlo).<br />
Marco Giovenale<br />
12
QUALE LINGUAGGIO PER QUALE POESIA, OGGI?<br />
QUALE LINGUAGGIO PER QUALE ESPERIENZA, OGGI?<br />
Credo che “linguaggio”, al singolare, sia una pratica che non è mai esistita, né storicamente né<br />
poeticamente. Limitandoci alle origini della tradizione in volgare, è evidente infatti che, nel secolo della<br />
poesia cortese, si rimava in molti altri modi, da quello comico parodico, allo stilnovo, dall’umbro<br />
francescano, alla poesia didattica e religiosa dell’Italia settentrionale. A queste forme dell’immaginario,<br />
corrispondeva poi, in una relazione niente affatto meccanica, una stratificazione sociale, geografica e di<br />
potere tale da aprirci una complessità linguistica salutare, che la distanza dall’oggi ci permette di<br />
approfondire senza l’urgenza che anima la domanda preliminare. Perché la questione del linguaggio mi<br />
pare nasca, in questa sede, da un sentimento di comprensibile preoccupazione, effetto di un reale<br />
impoverimento semantico entro la società tardo capitalistica e dalla triste emarginazione della poesia<br />
italiana contemporanea, linfa in apparenza vitale entro la scorza della comunità, ma invero assente nei<br />
luoghi che contano: fuori dal mercato, fuori dal Parlamento, fuori dai media d’informazione.<br />
“Quale linguaggio per la poesia, oggi”, pur contenendo molte altre questioni interessanti (per chi<br />
scriviamo? Da quale serbatoio ideologico attingiamo? Che cosa significa scrivere ‘poesia<br />
contemporanea’?) è una domanda fuorviante perché pensa alla realtà come sostanza unica e omogenea,<br />
che trova nell’eccellenza di una lingua la chiave di volta del disvelamento, laddove invece, come<br />
accennavo all’inizio, l’apertura storico-linguistica è plurale, stratificata, conflittuale, e dunque non può che<br />
essere detta negli infiniti modi della singolarità, anche in quelli più banali. Anzi, in quelli più banali,<br />
l’apertura mostra meglio che altrove la propria superficie, il canto omologato che ci vorrebbe assoggettati<br />
a valori condivisi e spesso mediocri. Non si tratta, allora, di dire semplicemente l’apertura (a meno che<br />
non si sperimenti una poesia volutamente e criticamente di superficie), ma di mettere a dimora il nocciolo<br />
della nostra/non nostra singolarità, dopo averlo parzialmente spogliato (integralmente è impossibile) dei<br />
“si dice”, dei “si fa”, di quel Sì, insomma, che in Heidegger di Essere e tempo diventa il mondo<br />
dell’inautenticità. Il poeta, in questo senso, deve cercare la propria declinazione, la voce che meglio<br />
coniughi la complessità, in un canto unico eppure attraversato dalle fibre dell’esperienza comune.<br />
Sbagliato sarebbe credere che questa voce, oppure quella che si muove in superficie, si conficchi al<br />
centro di un bersaglio già dato, e sia dunque, fra tutte, la più vicina al modo in cui il vero s’incarna nella<br />
realtà di oggi. Io credo che non ci sia un vero che primeggi ante litteram, un vero preliminare, ma<br />
semmai che esso si dia, anche, come effetto di una costellazione poetica, a patto che quest’ultima sia<br />
“onesta”, per dirla con Saba, ossia sgorghi da un progetto abbracciato con passione, verso il quale ci si<br />
rimette con il metro dell’intelligenza e dell’impegno. Fare il meglio che si può, con la lingua che ci<br />
appartiene e alla quale apparteniamo, senza mai essere soddisfatti, con umiltà, convinti che il testo così<br />
forgiato sia degno di rispetto, ma senza idolatrie: è questa, credo, la via da seguire. E quando dico “con<br />
la lingua che ci appartiene e alla quale apparteniamo” intendo sottolineare l’infinità delle strade<br />
percorribili, perché, se preferisco la poesia della Bishop a quella di Charles Olson, il cinema di Lynch a<br />
quello di Rossellini, la pittura di Warhol a quella di Morandi, ma anche se vivo in un dato modo oppure in<br />
un altro, la lingua in fieri (quella che de Saussure chiama “Langue”) sboccerà diversamente, si farà<br />
“parola” nuova e imprevedibile anche per lo stesso poeta. Sarà un linguaggio, quello nato dall’incontro di<br />
differenti radici con la creatività dell’autore, che arricchirà l’esperienza, tanto più quanto la poesia (e la<br />
scienza e la filosofia e il senso comune) districheranno un significato credibile dalla muta verticalità delle<br />
cose.<br />
Dovremo tuttavia chiederci di quale forma d’esperienza stiamo parlando, considerato il fatto che quella<br />
dominante, oggi, è di tipo intellettivo, d’impianto logico-formale, che scavalca sia il piacere dei sensi (“i<br />
profumi, i colori e i suoni” delle corrispondances baudelairiane) e sia l’articolazione delle mani, per<br />
radicarsi nevroticamente nell’uomo ad una dimensione, che ora vive – ancor più di quello marcusiano –<br />
un eterno presente sovraccarico di stimoli senza altrove, un presente dai saperi omologanti e<br />
costantemente aggiornati, privi di teleologia. Se è questa l’esperienza comune (e castrante) nei Paesi del<br />
tardo capitalismo, allora interrogarsi su quale linguaggio sia più salutare alla contemporaneità, significa<br />
anzitutto riconoscere che esiste un’abbondanza di codici settoriali, tali da saturare le esperienze legate al<br />
sapere calcolante, mentre va sempre più inaridendosi quella lingua degli affetti e del profondo che certa<br />
poesia, appunto, coltiva con maniacale ostinazione: dare a queste due esperienze lacunose una lingua e<br />
una sintassi – plurali e votate alla metamorfosi, al farsi e disfarsi continuo del presente – mi pare sia<br />
l’azione spettante al poeta e che costituisce, dunque (e ciò è fondamentale), la sua eticità.<br />
Stefano Guglielmin<br />
13
LA METAFORA OBLIQUA DI MORESCO<br />
Considerando come, e quanto programmaticamente, la scrittura di Moresco sappia divincolarsi dalla<br />
stretta dell’antinomia poesia-prosa, non può stupirci il fatto che uno dei suoi istituti fondamentali sia<br />
rappresentato dalla metafora. Al riguardo vorrei per un momento soffermarmi sulla celebre definizione di<br />
questo tropo come onomatos allotriou epiphorà fornita da Aristotele nella Poetica (1457 b 10): la<br />
metafora consiste nel “ricorso a un nome d’altro tipo”, nel “trasferire a un oggetto il nome che è proprio<br />
di un altro”, nel “trasferimento ad una cosa di un nome proprio di un’altra”, traducono rispettivamente (e,<br />
del resto, in modo impeccabile) Gallavotti, Lanza, Pesce. La versione italiana (“trasferimento”) non<br />
accoglie però una sfumatura decisiva del sostantivo epiphorà: perché se è vero che il verbo epiphéro da<br />
cui esso deriva significa in primo luogo “portare su, verso”, “to bear upon, further”, una delle sue<br />
accezioni, secondaria ma non certo trascurabile, è quella di “portare contro”, “bring against”, “assalire”.<br />
Proprio in questo senso epiphéro viene per esempio usato da Omero nell’Iliade (ou tis … soi … bareias<br />
cheiras epoisei: “nessuno … ti … metterà le mani addosso”, I, 88-89), mentre nella medicina antica<br />
l’epiphorà designa, tra l’altro, l’”assalto” della febbre (correntemente, invece, questa parola denomina<br />
una patologia peculiare dell’occhio provocata dall’eccesso di secrezione lacrimale). Nella terminologia<br />
aristotelica sembra sottesa un’idea di ostilità e di debordante aggressività che segna la distanza più netta<br />
sia dalla visione della metafora come giustapposizione di saperi, sia da quella che la riduce a ornamento<br />
sovrastrutturale del discorso. Non semplice “trasferimento” di nomi, la metafora costituirebbe piuttosto,<br />
in questo tentativo di lettura, il prodotto di un’irruzione, di un flusso minacciosamente indistinto di<br />
materia e senso verbale: o anche, per usare un termine molto caro a Moresco, di una invasione. In<br />
Moresco la frequentissima irruzione di metafore e, a tratti, la loro proliferazione assumono costantemente<br />
i connotati dell’obliquità, di un agire distanziato, differito o indiretto che si esprime con la mediazione del<br />
genitivo - come nel classico precedente dantesco di Purg., I, 2: “la navicella del mio ingegno”. E’<br />
soprattutto la seconda parte dei Canti del caos (uscita presso Rizzoli nel 2003: da qui sono estrapolate le<br />
citazioni che seguono) a squadernare un abbondante campionario di metafore oblique che, con un esprit<br />
de systeme spero discreto, può essere segmentato in almeno una decina di aree archetipiche: la sfera<br />
(bolla, globo ecc.), che molto spesso investe oggetti come televisori e terminali (come a p. 14: “le bolle<br />
dei video”) ma può anche riguardare la pancia e il ventre: “la grande sfera del ventre” (p. 52); il calco,<br />
che interessa lo spazio e l’aria: “nel calco dell’aria immobilizzata” (p. 274); la catastrofe: “sotto la<br />
catastrofe della volta celeste” (p. 240), “nella catastrofe dell’annuncio” (p. 393); la voragine (cratere,<br />
buco nero), perlopiù con riferimento alla bocca (“il cratere della sua bocca tatuata”, p. 331), ma in<br />
qualche caso alla creazione e alla visione: “nel cratere della creazione e della visione” (p. 298); il<br />
passaggio stretto (il filo, il nastro, l’imbuto ecc.), nel cui àmbito rientrano p. es. la strada (“verso il nastro<br />
di una strada più grande”, p. 201) e ancora la bocca (“nell’imbuto della sua bocca aperta”, p. 266); il<br />
bozzolo (involucro, nicchia, sacco, scrigno, scafandro): “il bozzolo della sua testa” (p. 58); la maschera,<br />
riferita a testa, faccia, volto: “le maschere ottuse dei volti” (p. 249); la pietra (macigno, massa,<br />
mastodonte), ancora per il cranio e la testa: “il mastodonte della mia testa” (p. 197); la poltiglia (colla,<br />
polpa, schiuma, melma, grumo), con un raggio di applicazione svaria dalla luce alla bocca,<br />
dall’aria/atmosfera (“nella poltiglia dell’atmosfera”, p. 360) alle automobili, dalle radiazioni all’annuncio<br />
(“la polpa increata di questo annuncio”, p. 231), ecc.; il proiettile (bolide, freccia, meteora, meteorite,<br />
mitragliatrice, cuspide), in molti casi combinato con il cranio o con la testa (“il bolide della sua testa<br />
rovesciato e puntato”, p. 398) e con la visione (“da dove nasce il proiettile della visione?”, p. 297). Quale<br />
conclusione ci suggerisce questa veloce e certo incompleta ricognizione testuale? La scrittura di Moresco<br />
non tende soltanto a una tipizzazione (e non esattamente nel senso lukacsiano del termine…), cioè a una<br />
stilizzazione in chiave formulare di linguaggio e di visioni tale da avvicinarla all’epos, ma inoltre,<br />
riconoscendo nel mondo l’immanenza di forme e strutture che tornano ciclicamente, si assicura la<br />
possibilità di cantare il caos.<br />
Giampiero Marano<br />
14
SOUGHT POEMS (1)<br />
Una delle caratteristiche più identificanti della poesia sperimentale contemporanea è l’accento che pone<br />
sulle procedure in cui il materiale testuale usato dal poeta è fornito almeno in parte prima che l’atto della<br />
composizione in quanto tale abbia inizio: tra gli esempi andrebbero incluse le operazioni basate sul caso<br />
eseguite su testi-fonte, come in "Writing through the Cantos" di John Cage e nelle “Stanzas for Iris<br />
Lezak” di Jackson Mac Low; gli esercizi di cut-up burroughsiani come quelli eseguiti da Ted Berrigan in<br />
“The Sonnets”; altre forme di collage quali il sampling di Milton fatto da Ronald Johnson in “RADI OS”; e<br />
le traduzioni omofoniche secondo la maniera di “Catullus” di Louis Zukofsky e “Men in Aïda” di David<br />
Melnick .<br />
I surrealisti, il dadaismo, l’Oulipo, e le altre tradizioni d’avanguardia, che hanno di volta in volta<br />
esercitato una profonda influenza sulla New York School, sulla Language e le successive pratiche<br />
sperimentali, hanno spesso usato questi metodi in sistema con qualche tipo di collaborazione,<br />
disciogliendo ulteriormente il ruolo dell’autore unitario nel riorganizzare e nel riformare il materiale di<br />
partenza.<br />
Voglio parlare di una tendenza che mi sembra particolarmente visibile nelle opere recenti di certi poeti<br />
post-avant, in cui l’elemento collaborativo è fornito non necessariamente da un’effettiva autorialità<br />
multipla, almeno nel senso consueto (benché questo possa comunque accadere), ma da un’autorialità<br />
multipla simulata, una collaborazione forzata o finta con altri soggetti – soggetti la cui reale identità può<br />
anche essere sconosciuta o non rintracciabile. Potrebbe sembrare che il processo implichi una specie di<br />
cooptazione all’ingrosso di voci individuali, ma queste sono voci che sono già state co-optate o dis-optate<br />
molte volte in conseguenza del loro inserimento nel grande catalogo casuale di Internet, in cui i loro<br />
messaggi spesso carichi di intense motivazioni sono riprodotti ad infinitum in istanze di chiacchiericcio<br />
sublimemente immotivato. Nella democrazia estrema del web, gli hate groups di destra diventano<br />
compagni di letto di ideologi marxisti, di specialisti nelle riparazioni fatte in casa, di solitari amanti degli<br />
animali, ed i loro discorsi, in una tale stretta prossimità l’uno con l’altro, a volte formano improbabili<br />
reazioni chimiche. Queste fusioni di immaginario forniscono gli ingredienti di base per il sought poem.<br />
“Sought poem”, in quanto opposto a “found poem” (2) – o non tanto opposto a quanto estrapolato da.<br />
Mentre l’idea dietro i found poems è che sono solo qualcosa in cui inciampi e dici ehi, questa è poesia, in<br />
questo caso mi riferisco al processo di cercare in modo aggressivo qualcosa, con l’intento di elencarlo in<br />
qualche struttura. I sought poems emergono come il risultato di una chirurgia invasiva operata su corpi<br />
pre-straziati. Il poeta sa che questi felici – o infelici, a seconda dei casi – incidenti del linguaggio sono lì<br />
fuori, ma potrebbero servire ripetute incursioni nel sottobosco prima che siano stanati. Il sought poem<br />
non è atteso passivamente, ma provocato, pungolato ed incitato all’esistenza. Il poeta così assume un<br />
livello di coinvolgimento che è, in molti modi, vecchia maniera: ancora una volta mette a pieno regime il<br />
suo ego manipolatorio, e diviene responsabile di strutture aggressivamente intenzionali. Le intenzioni in<br />
questione, comunque, sono necessariamente confinate in larga parte al livello della riorganizzazione<br />
formale e degli elementi sonori e visivi dello stile, lasciando del tutto campo aperto ai casi del tema che,<br />
per primi, rendono possibile il fiorire dell’estetico.<br />
Nel mio caso, il medium prescelto è stato il motore di ricerca Google, o piuttosto le pagine dei risultati di<br />
ricerca che Google tira fuori. Il procedimento tipico – quello che ho rubato a Gary Sullivan, il padre di<br />
Flarf – fa come segue. Per prima cosa, inserisco qualche combinazione di parole e/o sintagmi per la<br />
ricerca: diciamo “shock”, “awe”, “reindeer” e “peace sign”. Questo mi da sei risultati (con delle<br />
intestazioni colorate che non possono essere duplicate qui per esigenze di stampa):<br />
Money Clips and Jewelry Designed by Skystone and Silver<br />
...Rebel Flag Moneyclip Red Panda Earrings Red Panda Pendant Reindeer Pendant<br />
Road Bombs Pendant 3rd Army Pendant 7th Cavalry Pendant Shock & Awe Pendant. ...<br />
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Sailor Moon S Movie<br />
...is actually a blimp carrying a sleigh with blow-up reindeer in front. ... Luna watches<br />
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...Highly Evolved’ is a short-sharp-shock of devastating ... around the hall, leaving you<br />
in absolute awe. ... When considering that The Reindeer Section is comprised of ...<br />
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[PDF]EDITOR’S NOTE<br />
15
File Format: PDF/Adobe Acrobat - View as HTML<br />
...The Idaho Press Tribune’s article was a shock to me ... signs that ranged from “Honk<br />
for Peace” to “Stop Operation Blood for Oil.” I chose the Honk for Peace sign. ...<br />
www.albertson.edu/coyote/0203/Issue62002.pdf - Similar pages<br />
[DOC]The Tale of “Snow Hex and the Seven Sprites”, Formally Known as ...<br />
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...is actually a blimp carrying a sleigh with blow-up reindeer in front ... AndrAIa watches<br />
on in awe and blushes slightly ... Dot has a look of shock on her face which is ...<br />
www.geocities.com/andraias_log/ PrincessDaimonsLover.doc - Similar pages<br />
Fandomination.net | If you build it... They will come...<br />
...his feet touched the ground gently, absorbing the shock of impact ... And to top it all<br />
off, Santa’s reindeer seemed to ... The other three stared in silent awe as Ami ...<br />
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E questo è ciò con cui lavoro. Il mio primo passo in genere è cercare con attenzione e togliere il grassetto<br />
alle parti in grassetto, mettere tutto con la stessa grandezza di carattere, rimuovere qualche puntino e i<br />
rientri di paragrafo, e cancellare tutti i testi di intestazione colorati, tranne qualche parola o sintagma che<br />
mi colpisce come materiale per il titolo. Questo mi lascia con<br />
Rebel Flag Moneyclip Red Panda Earrings Red Panda Pendant Reindeer Pendant Road Bombs<br />
Pendant 3rd Army Pendant 7th Cavalry Pendant Shock & Awe Pendant<br />
is actually a blimp carrying a sleigh with blow-up reindeer in front. Luna watches on in awe and<br />
blushes slightly ... Usagi has a look of shock on her face which is<br />
Highly Evolved’ is a short-sharp-shock of devastating ... around the hall, leaving you in absolute<br />
awe. When considering that The Reindeer Section is comprised of<br />
The Idaho Press Tribune’s article was a shock to me ... signs that ranged from “Honk for Peace”<br />
to “Stop Operation Blood for Oil.” I chose the Honk for Peace sign.<br />
is actually a blimp carrying a sleigh with blow-up reindeer in front ... AndrAIa watches on in awe<br />
and blushes slightly ... Dot has a look of shock on her face which is<br />
his feet touched the ground gently, absorbing the shock of impact ... And to top it all off, Santa’s<br />
reindeer seemed to ... The other three stared in silent awe as Ami<br />
Da qui in poi, si tratta per lo più di ridurre e spostare. Taglio via le parole indesiderate, riorganizzo i<br />
blocchi di testo e li aggiusto in un nuovo sistema di versi (potrei scegliere di mantenere lo schema<br />
formale che, di per sé, è già suggerito nel layout esistente, ma non in questo caso). Non aggiungo mai<br />
nulla che non fosse già là (ad eccezione di eventuali segni di punteggiatura o delle maiuscole, etc.). La<br />
prima passata a questo punto potrebbe lasciarmi con:<br />
The Reindeer Section<br />
Rebel Flag Moneyclip Red Panda Earrings<br />
Red Panda Pendant Reindeer Pendant<br />
Road Bombs Pendant 3rd Army Pendant<br />
7th Cavalry Pendant Shock & Awe Pendant<br />
a blimp carrying a sleigh with blow-up reindeer<br />
Luna watches on in awe and blushes slightly<br />
Usagi has a look of shock on her face<br />
a short sharp shock devastating the hall<br />
leaving you in absolute awe<br />
signs that ranged from “Honk for Peace”<br />
to “Stop Operation Blood for Oil”<br />
I chose the Honk for Peace sign<br />
a blimp carrying a sleigh with blow-up reindeer<br />
AndrAIa watches on in awe and blushes slightly<br />
Dot has a look of shock on her face<br />
16
his feet touched the ground gently<br />
absorbing the shock of impact<br />
Santa’s reindeer<br />
stared in silent awe<br />
Inizia un po’ più a sembrare una poesia, ma... è coerente? I miei pruriti aggiustativi non sono ancora del<br />
tutto soddisfatti. Dato che ho cominciato con solo sei risultati (il mio obiettivo ottimale è qualcosa tra i 40<br />
ed i 70 risultati), questa qui potrebbe facilmente ridursi ad essere una poesia molto breve nel momento<br />
in cui io finissi di grattar via. Se decidessi davvero di dargli un’altra ripulita, potrebbe venirne fuori questa<br />
specie di breve stanza haiku:<br />
Short Sharp Shock<br />
leaving you in a<br />
blimp carrying a sleigh<br />
with blow-up reindeer<br />
rebel flag moneyclip<br />
honk for peace sign<br />
shock & awe pendant<br />
absorbing the impact<br />
Guardandomi indietro, mi preoccupo del fatto che potrei avere perso qualcosa con le cancellazioni<br />
massive – specialmente il “ritornello” con i nomi di donne che cambiano che mi è piaciuto da subito e che<br />
continua un po’ a piacermi. A questo punto, comunque, l’esercizio si spiega da solo, e a dir la verità la<br />
poesia nel suo insieme probabilmente non è comunque un “colpaccio”. Nell’insieme il processo dà risultati<br />
alterni, un po’ come stare davanti ad un buco nel ghiaccio con una canna da pesca. Ciò non di meno, ho<br />
visto che con la giusta sintesi di risultati di ricerca e di “aggiustamenti” autoriali è un processo che può<br />
eccitare il lato compositivo del mio cervello in maniere molto utili e che mi aiuta a pensare a cosa avviene<br />
quando si compone anche in modo “normale”. Un approccio jakobsoniano esagerato, tutto selezione e<br />
combinazione, crea la finzione che il poeta stia lavorando non tanto con un testo-fonte, ma con un<br />
linguaggio molto piccolo, il solo linguaggio disponibile nelle date circostanze. Questo linguaggio come tutti<br />
i linguaggi è marcato dalle sue proprie preoccupazioni, che vi sono state collocate in parte dal poeta (che<br />
ha selezionato i termini per la ricerca) ed in parte dalla sezione trasversale della popolazione che<br />
scambia i propri pareri, vende le proprie merci, racconta le proprie storie e così via, sul web.<br />
In che modo tutto questo è diverso da una poesia fatta con le lettere-calamita da attaccare sul frigo? Da<br />
diversi punti di vista, non lo è. Ma poiché il poeta è attivamente impegnato nel decidere almeno una<br />
porzione dell’“argomento principale”, e poiché le decisioni combinatorie invariabilmente tornano a<br />
ragionare su quella decisione iniziale (benché esse ragionino via via anche su altre cose), l’intenzione<br />
rientra nell’equazione in un modo del tutto nuovo. L’intenzione è implicata anche nella composizione di<br />
una poesia fatta con le calamite, ma in quel in caso ha allo stesso tempo più e meno costrizioni. Ha più<br />
costrizioni nel fatto che tutti i magneti sono stati scelti per voi in anticipo – le vostre opzioni di selezione<br />
sono essenzialmente limitate all’acquisto del kit – ed ha meno costrizioni nel fatto che non avete un<br />
insieme di concetti carichi di motivazioni che guidino l’intera operazione di scrittura. Questi concetti<br />
iniziali assicurano che la poesia sarà su qualcosa (per esempio, la campagna di bombardamenti di Bush<br />
“shock & awe”), anche se solo in modo indiretto e assurdo.<br />
I sought poems collocano il poeta alla mercé della materia prima in un modo che è diverso dalla<br />
composizione “normale” solo nel grado; siamo sempre costretti dai limiti del nostro linguaggio, e questo<br />
metodo semplicemente aggiunge ulteriore enfasi alle costrizioni. Cosa che potrebbe essere una<br />
definizione generale della forma poetica, o del metro, e forse la poesia dei sought poems è soprattutto<br />
una metrica. Dato che le regole impongono delle fonti piuttosto che delle durate o dei ritmi, comunque, il<br />
fattore prosodico non può essere separato da quello tematico. Questo modo di procedere lascia davvero<br />
buon gioco alla stilistica individuale, poiché ogni poeta avrà un insieme completamente diverso di spinte<br />
istintive circa il come riorganizzare il materiale cercato (3). Ritornando ai risultati della ricerca iniziale,<br />
per esempio, posso immaginare di voler tenere il formato delle intestazioni e delle specificazioni sulle<br />
URL, e forse anche il colore di testo in cui appaiono, rendendo la poesia mimetica rispetto al suo contesto<br />
originale. I miei impulsi mi portano verso una strofa lirica molto più classica, in colonna, così come<br />
l’ossessiva ricomposizione che, a volte, può dare luogo ad una severità neo-imagista o peggio.<br />
Non prendo nemmeno in considerazione la possibilità che quando frugo in mezzo a queste voci ed a<br />
questi punti di vista io stia in qualche modo rappresentando i loro locutori. Essi sono irrappresentabili una<br />
volta passati attraverso la macina di Google. Ciò che cerco in questi sought poems non è un nuovo tipo di<br />
soggettività poetica. Piuttosto, sto cercando delle istanze di articolazione (o sì, inarticolatezza) in cui<br />
17
l’oggetto poetico si carichi di un’immediatezza che è il prodotto del suo essere incorporato (4) in un<br />
discorso culturale fresco (anche se non sempre sa di fresco). Questo oggetto incorporato, comunque,<br />
come i giornalisti embedded della seconda guerra del Golfo, è drasticamente compromesso nella sua<br />
capacità di riportare alcunché di simile ad un resoconto “oggettivo” di ciò che lo circonda. Il sought poem<br />
non solo riconosce questa limitazione, ma la prevede e la sfrutta. La cosa utile di Google, dal punto di<br />
vista del poeta, è il suo essere simultaneamente uno spaventoso strumento di sorveglianza totale (può e<br />
vuole tracciare la tua presenza, a prescindere da dove sei) ed un’assenza di frontiere indiscriminata (può<br />
tracciare la presenza di quelli che ti stanno tracciando mentre lo fanno).<br />
[traduzione di Gherardo Bortolotti]<br />
K. Silem Mohammad<br />
NOTE.<br />
(1) “Sought poem” significa “poesia cercata”. Si preferisce mantenere l'espressione in lingua, sia per alcune<br />
opposizioni lessicali che l'autore utilizza, sia perché viene usata nei termini di espressione tecnica.<br />
(2) Poesia trovata.<br />
(3) Nel testo: “sought”.<br />
(4) Nel testo: “embeddedness”.<br />
18
PROPOSITI PER UNA DECADENZA (1)<br />
1.<br />
«[…] il corpo del XX secolo tende a essere il più longevo e il più medicalizzato di tutti i tempi» (2):<br />
questo fatto influisce, da un lato, sulla riproduzione della specie umana occidentale (il numero dei nati<br />
diminuisce, per la minore necessità di sostituire i morti); dall’altro, sulla pubblicizzazione della sessualità:<br />
il corpo longevo e medicalizzato ha bisogno della pornografia (a pagamento, come tutte le merci di cui si<br />
circonda) e della libertà sessuale. Il concetto di famiglia ne viene intaccato, quindi, da una parte; e<br />
dall’altra subisce un’eloquenza moraleggiante troppo ostentata per essere sincera.<br />
2.<br />
L’incomprensione del rapporto dei nuovi stili con una risistemazione, non solo personale, dei concetti di<br />
vita e di morte – ogni corpo e «frate asino» che si asciuga o ingrassa – sarà deleteria, per alcuni:<br />
l’umanesimo dei quali resterà sempre su un piano di pura letteralità, anche politica, ma basata su una<br />
logica finita. In Italia, non aver capìto la prossimità e la necessità storica della Decadenza significa<br />
ostinarsi ad agire sul piano del piccolo io italofono e della piccola patria: come se una pietra scagliata<br />
potesse non cadere.<br />
O la nostra poesia è talmente inumana da non considerarsi coinvolta in questo processo – che lega la<br />
durata dei corpi alla loro morale – o dovrà prendere posizione sul problema della vita e delle vite. Non<br />
necessariamente con l’impegno o la denuncia, ma anche con la felicità religiosa della Gelassenheit:<br />
purché i gesti ‘politici’ e l’assenza ‘sacra’ di gesti siano in funzione di una presa d’atto. Che non può<br />
tardare, almeno per decoro o per scrupolo.<br />
3.<br />
La vecchia etnia italiana (bianca, formalmente cattolica, italofona a partire da una base prima dialettale e<br />
poi televisiva) sta per essere sostituita da un’etnia di etnie (extracomunitarie e/o extraeuropee, non<br />
necessariamente cattoliche, non bianche). Questo popolo futuro è già, grosso modo, italofono (e lo sarà<br />
sempre meglio) e già radicato nel sistema della produzione e circolazione della ricchezza. Questo popolo<br />
dovrà essere scolarizzato perpetuando le «categorie italiane» o no? E la sua letteratura, formalmente<br />
italofona, avrà o non avrà a che fare con le stesse categorie? Non è difficile intuire che il meglio e l’utile,<br />
in letteratura, saranno tramandati dal vecchio al nuovo popolo, e che il resto naufragherà, come è, anche<br />
moralmente, giusto. Come sopra: o la nostra poesia è talmente inumana da non considerarsi coinvolta in<br />
questo processo – che lega la storia dei corpi alla loro civiltà – o dovrà prendere posizione: non<br />
necessariamente con l’impegno o la denuncia, ecc.<br />
4.<br />
La comunità poetica italiana continua ad agire come se avessero senso e dignità cose diverse dai corpi e<br />
dal tempo (i corpi sono i veri parlanti, e il tempo è tempo anche per le lingue, oltre che per i corpi).<br />
Eppure: ora la poesia non deve trasformarsi ex abrupto, per senso di colpa, in un registro pedissequo<br />
dell’invecchiamento, della sostituzione etnica e della sopravvivenza del vecchio nel nuovo; mentre il suo<br />
corpo, non degradabile, ha il dovere della mediazione e dell’indipendenza. Oggi la maggior parte del suo<br />
lavoro consiste nel non scendere a patti con chi vuole coinvolgerla in dualismi che si riveleranno, non<br />
troppo tardi, mortali e vani: come chi li ha fomentati, confondendo uno struggle for life più che<br />
provinciale con un’esigenza artistica. Così il gioco del massacro tramonterà, senza troppi lamenti: perché<br />
la sua fine sarà contemporanea a quella dei suoi parlanti.<br />
5.<br />
Per questi motivi, a me – e parlo per me – sembra quasi vanitas chiedersi quale sarà (o dovrebbe essere<br />
oggi) la lingua della poesia, ed è ovvio che non deve assumere – come accade – il ruolo di una<br />
conservazione illusoria (e: illusoriamente piccoloborghese, piccolocattolica, ecc.: alcuni casi sono<br />
giganteschi e imbarazzanti, anche per la tutela gelosa della roba).<br />
Testi come i tetragoni alfabetici di Kervinen o i sought poems di Zaffarano sono tanto fuori-legge da<br />
neutralizzare l’abitudine, anche ideologica. Ché prima siamo stati troppo sedotti da istanze carnevalesche<br />
e di riscrittura più o meno ‘comica’; fino a non capire che nessun Potere le teme in realtà. Così si ragiona<br />
sempre sui termini rispettabilissimi – ma oggi non fruibili – di Bachtin; e si rivendicano le «vere<br />
presenze» di Steiner in rapporto ad oggetti non citati, né citabili, da Steiner. Contro Kervinen – e gli altri<br />
– si riesce a dire, intellettualmente, solo che «né Heaney né Walcott scrivono così» (succo, non<br />
manipolato, di parole autentiche, emerse da uno dei blog poetici nel 2006).<br />
Ma rispetto alle categorie di prima, e a polarizzazioni sterilizzate dal cambiamento oggettivo del mondo,<br />
ci saranno altre vie: qualcosa che si installa, pietrificandosi e riconoscendo, nello stesso tempo, la propria<br />
19
deperibilità. Ciò che si brucia hic et nunc, e guadagna ora il suo piccolo pubblico di clientes (tali sono)<br />
muore, già morto, e non vive: neanche nella sua piccola patria-lingua. La roba lo segue.<br />
Massimo Sannelli<br />
Note.<br />
(1) Queste pagine dovrebbero essere lette insieme ad altre: Il gioco del massacro, «Smerilliana», 3 (2004), pp. 363-<br />
370; Philologia Pauli. Il corpo e le ceneri di Pasolini, Fara, Rimini 2006; Del Massacro e della fine del Massacro,<br />
www.lattenzione.com (settembre 2006).<br />
(2) Angela Vettese, Dal corpo chiuso al corpo diffuso, in AA.VV., Arte contemporanea. Le ricerche internazionali dalla<br />
fine degli anni’50 a oggi, Electa, Milano 2003, pp. 188-221: p. 192.<br />
20
PAROLE DAL MARGINE.<br />
LA LINGUA POETICA COME ATTO POLITICO<br />
I<br />
Je ne geindrai pas comme Ovide<br />
Chassé du paradis latin.<br />
(Ch. Baudelaire)<br />
…who<br />
among us can speak with so fragile<br />
tongue and remain proud?<br />
(L.Clifton)<br />
dichiara che il canto vero<br />
è oltre il tuo sonno fondo<br />
(F. Fortini)<br />
1. La necessità di interrogarsi, oggi, sulle ragioni della lingua poetica non ha nulla di ovvio o di consueto.<br />
In questa fase della modernità, più che mai caratterizzata dalla perpetua crisi, prima ancora che della<br />
poesia, della parola significante, la possibilità stessa di una questione del genere non può essere data per<br />
scontata. Rispetto a una società dominata dalla socializzazione globale di luoghi, cibi, miti, ma anche di<br />
forme artistiche condivisibili perché mercificabili (cinema, certa narrativa, certa arte, molta musica), la<br />
poesia è socialmente fallimentare, non muovendo denaro, non potendo neanche aspirare (per sommo di<br />
paradosso) allo statuto di scrittura leggibile, poiché pubblicata a stento e in minime percentuali, dunque<br />
non comunicando e non circolando. La poesia è insomma un sistema di parola che, oggi più che mai,<br />
richiede un grado quasi assoluto di asocialità. Visto il suo anacronismo storico, ovvero la sua asimmetria<br />
radicale da una società che tende a rifiutarla come propria espressione culturale, su quale premessa<br />
implicita qualcuno può ancora indagarne la natura, l’attualità della lingua – ovvero le sue stesse<br />
condizioni di esistenza?<br />
2. La chiave di questa intramontata possibilità (e l’avvio di ogni ragionamento su di essa) sta proprio<br />
nella parola: lingua. Quella sopravvivenza di orgoglio che permette di intraprendere un ragionamento<br />
sulla lingua poetica – preliminare sia a una riflessione letteraria sia, a maggior ragione, alla composizione<br />
di un solo verso – è in effetti tutta interna al mezzo usato, quello linguistico.<br />
(Useremo linguaggio in quanto facoltà linguistica; lingua in quanto sua incarnazione fattuale, sia essa una<br />
lingua storica, sia essa una fattispecie linguistica come quella poetica).<br />
La poesia cresce dentro il linguaggio umano, che è lo strumento di interazione con la realtà in cui passa<br />
una maggiore dose di umanità. Questo, di là dal tipo di società in cui il linguaggio agisce, od è agito.<br />
3. Ha scritto Zanzotto nel 1965, dal fondo di una società industriale al trapasso da fordismo a<br />
postfordismo: «Bisogna rendere eloquenti secondo l’umano tutte le forze alloglotte con cui ci si deve<br />
misurare. Ma occorre fiducia nell’origine, nel coraggio iniziale della realtà, di cui, mi pare, la poesia è<br />
l’espressione più ostinata». Questo nucleo di orgoglio cosciente resta finora l’intramontato nucleo di<br />
resistenza nell’operato di ogni poeta e di ogni critico di poesia. E questo nucleo di orgoglio ha le sue radici<br />
nella coscienza del mezzo linguistico, dal cui corpo nasce il mezzo poetico.<br />
4. Ciascun individuo umano mediamente pensante sa che la propria vita è una vita linguistica. Proprio la<br />
silenziosa consapevolezza che il linguaggio articolato sia veicolo di vita e di tessuto umano è la ragione<br />
che spinge certi individui a immettersi nel suo flusso ordinario, per distillare da quel sangue un sangue<br />
nuovo, più ossigenante e (ciò che più importa) non corruttibile.<br />
In altre parole. Chi abbia scritto, nella sua vita, almeno un verso buono, era certo animato dalla<br />
coscienza, più o meno acuta ma indiscutibile, che il linguaggio sia la specificità dell’essere umano. La<br />
premessa in atto dell’umanizzarsi dell’ominide. La definizione aristotelica dell’uomo non ne è che<br />
constatazione: zóon lógon ékon, cioè l’animale che ha la facoltà del linguaggio. Tutto il resto<br />
(autopercezione; relazione cosciente col tempo; ambizione conoscitiva; dimensione morale; intenzione<br />
legislativa; ecc.) ne è, in questo senso, pura conseguenza.<br />
5. Il platonico come il democriteo come il sofista, come persino il pirroniano, sono legati dalla<br />
consapevolezza, dichiarata o semplicemente posta in atto, che «il linguaggio è inseparabile dall’uomo, e<br />
lo accompagna in ogni sua attività», ponendosi come «lo strumento con cui l’uomo forma pensieri e<br />
sentimenti, stati d’animo, aspirazioni, volizioni e azioni, lo strumento con cui influenza ed è influenzato, il<br />
fondamento ultimo e più profondo della società umana» (Hjelmslev).<br />
21
6. In quanto fondamento della successione delle società umane, la lingua storica acquista una forza<br />
diacronica, di vettore storico. Storia individuale: «esso sta nel più profondo della mente umana, tesoro di<br />
memorie ereditate dall’individuo». Storia del gruppo umano: «Le lingue non consentono solo di parlare o<br />
di scrivere per rappresentare, ben oltre la nostra scomparsa fisica, la nostra storia, ma la contengono»<br />
(ancora Hjelmslev).<br />
7. In quanto veicolo di confronto, di simbolizzazione di sé e dell’altro-da-sé, insomma in quanto fondativo<br />
della coscienza individuale e di gruppo, e in quanto storia in atto, la lingua coincide con la vita stessa<br />
dell’uomo: «Le lingue introducono alla vita non solo perché permettono di accedere al campo sociale, ma<br />
anche perché sono esse stesse la manifestazione della vita». Attraverso la lingua l’uomo impara a<br />
percepire se stesso nel tempo, a interpretare il mondo, ad astrarre. Come insegna l’esempio di Kaspar<br />
Hauser, «la lingua nutre colui che la parla, come l’aria che respira gli permette di vivere» (Hagège).<br />
8. La persistenza di orgoglio cosciente (o, nei casi peggiori, istintivo) in chiunque decida di investire una<br />
parte del proprio tempo nell’elaborazione di una propria lingua poetica, o nell’analisi dell’altrui lingua<br />
poetica, deriva dal fatto che essa, e in generale la lingua letteraria, nasce dal corpo del linguaggio, di cui<br />
pone in atto il radicamento storico e sociale. Nessuno, se non in malafede, potrà mai disconoscere che<br />
prima di tutto «la letteratura è una istituzione sociale che utilizza, come suo mezzo, il linguaggio, che è<br />
una creazione sociale; e sono sociali nella loro propria natura i tradizionali artifizi letterari, come il<br />
simbolismo e il metro» (Wellek-Warren).<br />
9. Ma la poesia, di tutte le componenti vive del linguaggio, coglie e assomma la sostanza. Si può anzi dire<br />
che il prestigio, paradossale o vòlto in ironia, di cui continua a godere la poesia presso coloro che ne<br />
abbiano almeno una qualche nozione scolastica, deriva dal fatto che essa è spontaneamente associata al<br />
più intimo motore del linguaggio, per così dire alla sua autosufficienza: dove per autosufficienza si<br />
intenda potenziale incrocio tra la vita diacronica di una comunità contenuta nella lingua, e l’idioletto<br />
emotivo del singolo parlante, condotto al massimo grado di distillata oggettivazione. Il tecnico Terracini<br />
non sfuggiva alla suggestione: «…l’analisi stilistica si concentra senza residue limitazioni nella<br />
considerazione della pura e libera espressione dell’individuo; questo ha dinanzi a sé anzitutto l’esigenza<br />
del suo spirito e non la preesistenza di una lingua storica che tale esigenza racchiuda come in una<br />
prigione». Frase nella quale i residui crociani valgono a porre meglio in evidenza il nesso tra diacronia<br />
condensata nella «lingua storica», che ne fa la potenza sintetica, e l’intenzione linguistica del singolo:<br />
nesso cruciale e bruciante, alla cui esplorazione per anni si è dato Zanzotto, come Giordano Bruno a<br />
quella dell’infinito.<br />
10. La poesia non è altro che ambizione di sottrarre una porzione di vita linguistica sviluppandone le<br />
caratteristiche che le permettano di essere ripetibile. Un’operazione tutta interna alla lingua, per<br />
potenziarne gli aspetti di rappresentatività vitale, e gli aspetti vitali della storicità, con l’illusione di elidere<br />
le caratteristiche di vulnerabilità insite nel tempo attraverso le manovre dello stile.<br />
II<br />
1. Riflettere sulla poesia ha sempre significato, e significa tuttora, a conti fatti, riflettere su una priorità<br />
umana. Pertanto la sua marginalità sociale di oggi, più che rendere impossibile tale riflessione, ne<br />
ispessisce la complessità: quando la lingua poetica era una funzione strutturale alla società umana,<br />
occorreva indagarne le modalità (materia per la retorica), mentre oggi che essa ha perduto questa sua<br />
centralità occorre indagarne prima la necessità, poi le modalità.<br />
2. In tempi di crisi del sistema culturale la necessità di messa a fuoco teorica si è sempre moltiplicata. Si<br />
pensi al rinascimento italiano successivo al 1494. Sebbene in quel momento il linguaggio letterario<br />
raggiunga forse il momento di più alta apertura sperimentale, paragonabile solo all’impeto novecentesco<br />
(bastino le vette assolute dell’Hypnerotomachia, del Baldus, di tutto Ruzante a dimostrarlo), vince, in un<br />
sol tratto, l’operazione severa di Bembo, retore potente e lungimirante, che con un colpo di vista e di<br />
mano avverte i segni del prossimo sfacelo culturale italico, e tenta di circuirlo mummificandone la lingua<br />
poetica, allora il principale vettore di civiltà. L’operazione che sottostà alle Prose della volgar lingua deriva<br />
da una violenta, contraddittoria intuizione: il linguaggio della poesia è più resistente quando replicabile, e<br />
dunque durevole; questa durevolezza, che è poi un principio di classicità, sfida il tempo, principale<br />
nemico delle cose umane; la lingua poetica, quando abbia una grammatica eterna, veicola in sé un<br />
principio di eternità, anche in periodo di collasso culturale. Immobilizzare (e in parte negare, a conti fatti)<br />
la lingua poetica, le permette di ergersi, in momento di crisi, a più nobile baluardo contro la crisi stessa.<br />
(Non a caso frequenti tendenze alla grammaticalizzazione della poesia, mai disgiunta da un alto<br />
sentimento di essa, attraversano la poesia moderna: si pensi al lungo periodo simbolista, a quello<br />
ermetico, ecc.).<br />
22
3. Quando i cambiamenti della prima età moderna conducono alla società industriale, allora la condizione<br />
di crisi perpetua della poesia diviene persino fondativa. Il romanzo si pone fin dal principio come genere<br />
eccellente. L’epoca borghese ha bisogno di una realtà stilizzata in eventi (Lepage), o di travestimento di<br />
realtà (Swift), o di sua ginnastica morale (Defoe). Attraverso il genere del romanzo la letteratura sposa il<br />
mercato. Non manca la rappresentazione polemica della crisi dell’intellettuale: Tristram Shandy è il nonromanzo<br />
della crisi del vecchio umanista, della sua mente libera da condizionamenti.<br />
4. La poesia, oltre il limite d’abisso segnato da Tristram Shandy, si pone giocoforza sulla difensiva.<br />
L’estremo tentativo sistematico, e non fallimentare in partenza, di costruire un edificio enciclopedico<br />
affidato a premesse di superiorità inclusiva della poesia è senz’altro il Faust di Goethe, scritto proprio<br />
dalla soglia del baratro, come testamento di una civiltà poetica. Per il poeta goethiano «è l’armonia che<br />
egli da sé esprime e per cui fa rifluire in sé l’universo», di contro alla «frivola folla davanti a cui ogni<br />
nostra ispirazione si affloscia…, quella massa ondeggiante che, nostro malgrado, ci trascina nel suo<br />
gorgo». Anche se poi l’ultima parola del Prologo in teatro spetta al Direttore: «Basta ormai di chiacchiere,<br />
passiamo ai fatti! Mentre vi scambiate tutti questi complimenti, si potrebbe combinare qualcosa di utile. A<br />
che giova parlar tanto d’ispirazione? Al dubbioso l’ispirazione non vien mai… Quel che ci occorre, lo<br />
sapete: vogliam bere roba forte, affrettatevi a confezionarcela!».<br />
Questo misto di fiducia e paura (poi certezza) di perdita sarà il sottofondo psicologico della poesia in tutta<br />
l’età industriale. Ma sebbene essa (dal 1750 in poi) sia attraversata da tendenze costanti, è possibile<br />
distinguervi delle fasi che corrispondono a successivi momenti di realizzazione di tali tendenze.<br />
5. Alla fine dell’Ottocento agisce un primo scarto: l’impennata tecnologica; la moltiplicazione del<br />
problema energetico; la manifesta aggressività politica del sistema (imperialismo); la prima forma larvale<br />
di società di massa (telegrafo, carta stampata, poi finalmente: radio). Sul piano culturale: Marx condensa<br />
in sé teorizzazione del capitalismo de facto, e utopismo anticapitalistico. Sul piano culturale: il terremoto<br />
di molto pensiero ottocentesco, soprattutto di quello nietzscheano da Umano troppo umano a Aurora<br />
scende a gocce, inoculando un progressivo laicismo dialettico (Camus ne sarà il culmine). Sul piano<br />
culturale: Freud laicizza l’incubo e il fantastico, sottraendo alla condivisione divina il delirio e la follia,<br />
riportati al più gretto privato quotidiano, così da rispecchiare per tempo l’implosione nevrotica e<br />
claustrofobia della società urbanizzata e borghese.<br />
6. Altro poderoso scarto a partire dagli anni Cinquanta, quando prende ad affermarsi quella società<br />
industriale avanzata, in cui si riassume società di massa, industria culturale, e tecnocrazia. Caratteristica<br />
essenziale ne è il paradosso della libertà coercitiva. Spiegava (poi rimosso) Marcuse: «L’indipendenza del<br />
pensiero, l’autonomia e il diritto alla opposizione politica sono private della loro fondamentale funzione<br />
critica in una società che pare sempre meglio capace di soddisfare i bisogni degli individui grazie al modo<br />
in cui è organizzata». E ancora: «Una simile società può richiedere a buon diritto che i suoi principi e le<br />
sue istituzioni siano accettati come sono, e ridurre l’opposizione al compito di discutere e promuovere<br />
condotte alternative entro lo status quo».<br />
7. Con la fine degli anni Settanta la società industriale avanzata è maturata nuovamente, intorno a un<br />
duplice avvenimento:<br />
- Il trionfo della tecnologia informatica, che ha permesso l’abbattimento delle distanze, il<br />
perfezionamento della società di massa;<br />
- Il tramonto delle ideologie post-illuministe, o meglio dell’ideologia anticapitalista (accanto al<br />
definitivo sterminio di Dio nell’Occidente).<br />
Dalla combinazione di questi due elementi deriva:<br />
a. Un’ammutolita rassegnazione per la situazione data. Siamo alla fine della teleologia storica; alla fine<br />
di ogni tensione utopica. La realtà ha il sopravvento perché accontenta. Seppellisce di beni. Perché<br />
non immaginare che un giorno tutti, anche la gran parte del pianeta oggi a secco di beni, un giorno<br />
non ne sia sovraccarica? Subentra anche una forma di senso di colpa endemico. Opporsi a un sistema<br />
che oggettivamente sazia non vorrebbe dire essere ingrati? E (suggerisce un generico senso comune)<br />
prima non “si stava peggio”? Riflessione che segna di per sé la sconfitta di ogni pensiero critico, dando<br />
per scontato che l’uomo non tenda ad altro che a produrre beni materiali. E dando per scontato che il<br />
liberalismo d’oggi rappresenti il migliore dei mondi possibili. Scrive Bauman: «La nostra è un tipo di<br />
società che non riconosce più alcuna alternativa a se stessa e di conseguenza si astiene dal dovere di<br />
esaminare, dimostrare, giustificare (e ancor meno provare) la validità dei suoi assunti taciti ed<br />
espliciti».<br />
b. Il trionfo della logica del lavoro (moderna schiavitù) come metro di giudizio sull’individuo ha finito di<br />
deprivare il singolo del proprio tempo intimo. Questa è l’altra faccia dell’equazione tra progresso<br />
umano e progresso materiale, e dell’assiomatico asserto che la qualità della vita coincida con<br />
l’aumento dell’età media o con la sovrabbondanza di oggetti, non col radicamento sereno nel<br />
presente, o con un fruttifero ozio, premessa indispensabile al pensiero. La soddisfazione dei bisogni<br />
materiali (peraltro moltiplicati ad hoc, e dunque tendenzialmente infiniti) è l’espressione prima del<br />
23
livello di civiltà? Allora sbaglierebbe chi ritenesse vertici di civiltà l’Atene di Pericle, la Cina di Lao Tzu,<br />
la Firenze laurenziana, il regno di Cordoba, ecc.<br />
c. La sostituzione di cultura con informazione, di storia con informazione, di letteratura con<br />
informazione. Inevitabilmente, la cessazione della capacità di produrre visioni del mondo, immaginari<br />
collettivi che non siano industriali, porta a un isterilimento del tramite tradizionale degli immaginari: la<br />
parola. Si assiste all’annientamento della parola significante. La parola deve informare perpetuamente.<br />
La realtà offre di sé milioni di informazioni ogni giorno, che cumulano insignificanze e sottraggono la<br />
visione della struttura. Non solo l’immagine del passato e la progettazione del futuro, ma l’insieme<br />
delle regole profonde della realtà (prima di tutto economiche) sono coperte. Il che vuol dire non avere<br />
la capacità di immaginare regole altre da quelle date, una volta per tutte.<br />
8. Per questo ulteriore passaggio della modernità Bauman parla di fluidità, che comporterebbe, a suo<br />
modo di vedere, la completa cessazione del totalitarismo. Il che è indiscutibile e discutibile al tempo<br />
stesso. Non è questa la sede per sviluppare la questione: ci limiteremo ad uno spunto, utile ai nostri fini.<br />
Viviamo in un paradosso in apparenza insolubile: l’ampliarsi della tolleranza nel sistema ha conciso con<br />
l’affermarsi di un totalitarismo morbido, che i contrari fluidamente abbraccia in sé, funzionalizzandoli al<br />
sistema di consumo, il cui dinamismo propositivo soddisfa di momento in momento miriadi di falsi<br />
bisogni, occultando i significati strutturali più profondi – significati di rappresentazione del proprio mondo:<br />
chi gestisce realmente il potere economico e finanziario? come il potere economico multinazionale<br />
sopravanza i singoli poteri politici? come manipola l’industria culturale? come combatte per il controllo del<br />
sistema mediatico? ecc.<br />
Il sistema, autoproclamatosi tollerante, è necessariamente un meccanismo di assorbimento degli opposti.<br />
Si pensi a come No logo della Klein, o i documentari e i libri di Moore, in apparenza dirompenti, in realtà<br />
non dirompano alcunché, alimentando anzi, per culmine di paradosso, il meccanismo politico-produttivo<br />
cui pure vorrebbero porsi in attrito. E si pensi a elementi tipici dell’antagonismo politico, come<br />
ambientalismo, anarchismo, pacifismo, solidarietà al terzo mondo, che oggi (opportunamente stemperati<br />
ed anestetizzati) sono entrati nel lessico visivo delle marche multinazionali.<br />
«La razionalità tecnologica rivela il suo carattere politico allorché diventa il gran veicolo d’una<br />
dominazione più efficace, creando un universo veramente totalitario in cui società e natura, mente e<br />
corpo sono tenuti in uno stato di mobilitazione permanente per la difesa di questo stesso universo»:<br />
questa tendenza, già viva nella società industriale avanzata tratteggiata da Marcuse, si perfeziona nella<br />
società informatica, in cui la parola si indebolisce fino al punto da diventare moltiplicata didascalia delle<br />
immagini, o raffica neutra di informazioni.<br />
9. Il sistema della parola asemantica e acritica predilige i linguaggi artistici semplici, assimilabili. Come<br />
quelli visivi, o quelli in cui il linguaggio, modulare e replicabile, sia riconoscibile e consumabile a prima<br />
occhiata. Da qui il trionfo e la persistenza del cinema, ovvero di un cinema sempre più semplificato e<br />
rappresentativo di una superficie della realtà già conosciuta. Il cinema degli ultimi venti anni ha<br />
rinunciato definitivamente al proprio statuto d’arte, declinando ogni intento conoscitivo nell’unica<br />
direzione della mimesi facile. Il suo punto di debolezza, sempre più marcato dopo il sonoro e il colore,<br />
non è stato più ricacciato in un regime di fruttifera ambiguità, ma è viceversa divenuta la sua risorsa<br />
unica. La realtà (o i sogni più borghesi del consumatore d’oggi) viene stilizzata e tradotta in prodotto<br />
visivo iper-mimetico, sostitutivo di ogni facoltà autonoma. Se il potere potesse, ridurrebbe tutti i<br />
linguaggi d’arte a linguaggio cinematografico, o, anche meglio, a videoclip.<br />
Resiste la lingua narrativa, che più che mai è rappresentazione viva, affabulata. Per sopravvivere agli<br />
sguardi, tuttavia, il romanzo sempre meno si deve porre il problema stilistico e formale, sempre più<br />
quello semplicemente rappresentativo. Che poi gli scrittori teorizzino la necessità di azzerare lo stile, che<br />
cioè tentino di far passare l’azzeramento dello stile per scelta estetica, è altra questione. Di fatto, in<br />
prima istanza sono costretti a piegare la lingua narrativa alla lingua standard, così da creare il minor<br />
numero di problemi ad editori, lettori, recensori.<br />
Niente di strano. Il romanziere, così come nasce in età borghese, si è sempre posto il problema del<br />
pubblico. Sennonché oggi si è spostato il punto di equilibrio tra rappresentazione mediata dallo stile, da<br />
una parte, e pressioni dell’industria culturale dall’altra. Rassicurante, ad esempio, è per l’editoria il<br />
sistema dei generi, da sempre forte ma oggi moltiplicato e pervasivo al punto, che è ormai impossibile<br />
distinguere la letteratura un tempo denominata “alta” da quella di genere. La stessa narrativa cosiddetta<br />
postmoderna è diventata una sorta di grosso genere, provvista di regole precise: inclinazione all’operamondo;<br />
vene di enciclopedismo, che arrivi anche a sostituire lo psicologismo; uso di una lingua il più<br />
possibile fredda (De Lillo), o animata da lievi corrosioni di ironia (Wallace), o anche di istrionismo, purché<br />
nel crisma della leggibilità divertita (Safran Foer).<br />
L’editoria filtra su criteri di genere e di commerciabilità più che mai in passato. In particolare, la scrittura<br />
“difficile” resta fuori. Chi pubblicherebbe (e chi leggerebbe) oggi Corporale?<br />
10. Il problema diventa radicale per la poesia.<br />
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Linguaggi televisivi, commerciali, giornalistici, triturati poi e irradiati a pioggia per mezzo di internet e di<br />
cellulari, creano un tessuto capillare e inquinante di parole volatili, del tutto privo di pensiero, e<br />
nell’insieme orientate alla manipolazione delle intenzioni di che ne subisce i colpi.<br />
Questo regime della parola asemantica e commerciabile, che ha la funzione di sostituire per saturazione<br />
la parola critica, ha finito di esautorare la parola poetica, che invece è parola ipersemantica per<br />
eccellenza. Una parola troppo complessa come quella poetica non è gestibile dal potere, non è cioè<br />
omologabile alla totalità del sistema: perché non semplificabile, poco divulgabile, e dunque nella sostanza<br />
non commerciabile. E ciò che per definizione è fuori dal mercato, è anche non-esistente in un regime del<br />
senso in cui ogni bene, concreto od astratto, per esistere deve essere semplificabile, in funzione<br />
dell’acquisto.<br />
Eppure questo, che sembra essere il punto di debolezza della lingua poetica, è precisamente il suo punto<br />
di resistenza, anzi meglio: di forza liberamente propositiva.<br />
III<br />
1. Pound ha scritto, cogliendo in pieno la frattura di immaginario culturale e di priorità sociale coincidente<br />
con l’avvento dell’era industriale: «Quando vogliamo farci un’idea degli uomini vissuti prima del 1750,<br />
quando vogliamo accertarci che erano fatti di sangue e ossa come noi, cerchiamo la poesia del periodo».<br />
2. In effetti, dopo il 1750, tutt’altro che «sangue e ossa» possono essere cercate nella poesia. Essa è<br />
respinta fuori dall’organismo sociale. Il suo punto di vista cessa di essere interno, per quanto acuto e<br />
criticamente esercitato: la poesia al confino osserva giocoforza dal di fuori. Giocoforza, per così dire, il<br />
sentimento permanente della crisi, ovvero l’altra faccia dell’enfasi permanente del progresso,<br />
drammaticamente consustanziale all’era borghese (quella attuale più che mai inclusa), vibra nella parola<br />
poetica, ne è la fonte.<br />
3. Ha scritto (nel 1930) Gottfried Benn «che servire l’epoca o prepararle la via non può essere giammai il<br />
compito e la vocazione dell’uomo grande, del poeta; che la sua grandezza consiste piuttosto proprio nel<br />
fatto che egli non trova alcun presupposto sociale, che c’è un abisso, che egli esprime questo abisso di<br />
fronte a questa massicciata di progresso tecnico, a tipi sostanzialmente ormai del tutto incapaci di<br />
esprimersi, a psichi appiattite dall’analisi, a genitali edonizzati, fuga nella nevrosi: happy end».<br />
E la poesia, per il fatto stesso di nascere in un’epoca che la ripudia, interpreta la crisi.<br />
Bisogna uscire dall’ordine di idee che crisi sia una parola negativa. In epoca industriale crisi vuol dire<br />
asimmetria, infrazione dell’ipnosi di gruppo, percezione del dissesto che cova sotto la plastica accomodata<br />
e orizzontale della superficie. Il sentimento della crisi è il sopravvivenziale principio di vista, di<br />
discernimento, di giudizio autonomo (e krísis vuol dire proprio ‘scelta, giudizio’, da krínō ‘distinguo,<br />
giudico’).<br />
4. Oggi più che mai – più cioè che ai tempi di Leopardi, precocemente terrificato dall’ideologia delle<br />
«magnifiche sorti e progressive», e più che ai tempi di Baudelaire, non incurante del mercato e per<br />
questo lucido teorizzatore della perdita di sacramenti del poeta: oggi più che mai, in temi di dittatura<br />
ipnotica della parola debole, comunque mercantile, la poesia può garantire in sé alcune resistenze di<br />
sguardo e di pensiero.<br />
5. Il suo primo punto di forza coincide con l’esclusione dal mercato, di cui pure assai spesso i poeti si<br />
lamentano.<br />
La poesia è in perdita? La poesia è perdita? Nessun editore (calcolatrice alla mano) vorrà mai più<br />
pubblicare un libro di poesia?<br />
Ma questo è motivo oggettivo di vanto, non di frustrazione: l’inclusione continua, fisiologica nel mercato<br />
implicherebbe un continuo, fisiologico depauperamento delle risorse poetiche, ovvero un<br />
assoggettamento a crismi di produzione, ideologici di un’ideologia in tanto settaria ed efficiente, in quanto<br />
aprioristica, meccanica, mai esplicitamente formulata.<br />
(Occorrerebbe soffermarsi un giorno a tracciare la storia della stampa in questa luce. Dopo Guthemberg e<br />
prima della Controriforma il mondo tipografico dà ricetto ad ogni forma d’arte: l’Orlando furioso,<br />
capolavoro di poesia, è vero best-seller del primo Cinquecento; e non vi è grande autore, da Maurice<br />
Scève a Galeazzo di Tarsia, che non adisca alla stampa. Nessuno poteva averne paura, perché la poesia<br />
era ancora un vertice del sistema culturale. Un primo esautoramento si ha con la rivoluzione scientifica.<br />
Un secondo, decisivo, con la rivoluzione industriale. Un terzo, altrettanto decisivo, con l’organizzarsi<br />
postbellico dell’industria culturale).<br />
5. È inevitabile che l’esclusione dal mercato, cioè dall’unico luogo di visibilità pubblica e di ritualità<br />
sociale, incrementi decisamente il senso di solitudine del poeta. Ma questo sentimento di solitudine altro<br />
non è se non un suo ulteriore punto di forza.<br />
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Il margine è infatti la posizione privilegiata. Coincidere con un’identità data ha in sé il pericolo del<br />
conformismo, dell’ossequio omologante ed irriflesso. Tanto più questo è vero oggi, che il sistema sociale<br />
illude di una libertà di pensiero, in realtà soggetta alle leggi della tolleranza oppressiva, in cui gli opposti<br />
sono smussati e catalogati, resi omogenei al mercato dei beni e dell’informazione. Il poeta, la cui identità<br />
è distinta da questo flusso di merci, immagini e parole, osserva invece dal di fuori, consapevole dell’altro<br />
da sé, e legittimato dal proprio isolamento ad una scelta: se fare dell’esclusione un punto di partenza<br />
conoscitivo, metaforico, sul cui vuoto affilare il proprio verbum; o lottare per l’inclusione.<br />
6. Considerazione conseguente: la solitudine del poeta, il suo esilio coatto e consapevole dal mondo sono<br />
i suoi strumenti di sguardo e di pensiero.<br />
7. La cosa importante da capire è che questo non è un paradosso, ma un dato di realtà.<br />
Se il mercato decidesse di celebrare il poeta come un modello, decidesse cioè di venderne su vasta scala<br />
le parole, il suo potenziale di asimmetria critica sparirebbe all’istante. Per fortuna, la parola ipersemantica<br />
della poesia non è riducibile per nessuna via alla parola asemantica omogenea al sistema. In altri termini,<br />
non potrebbe mai vendere.<br />
8. Il sistema, di conseguenza, aggredisce. All’esclusione dal mercato corrisponde, quasi sempre,<br />
l’esclusione dalla società. Il poeta è spesso costretto a barcamenarsi per sopravvivere: lavori ingrati ed<br />
onerosi, lavori collaterali all’informazione o all’accademia, precariato, vera e propria disoccupazione.<br />
In questo modo, però, la parola del poeta si carica ancora di più di significato critico. Ancora di più, cioè,<br />
la poesia si pone a baluardo contro l’ottimismo ideologico dell’incluso.<br />
9. Ovviamente, non è strano che i poeti si lamentino dell’esclusione: una parola rapida a diffondersi non<br />
sarebbe forse concime ad altra parola poetica, e insomma antidoto alla parola asemantica e superficiale<br />
emessa dal potere?<br />
Ma è questo ragionamento, viceversa, il vero paradosso, non tenendo conto dei dati di realtà del<br />
mercato: che è il luogo della sovraesposizione, dell’ipervisibilità, dove tutto si consuma nel momento<br />
stesso in cui compare. D’altra parte, la poesia che adisca all’industria editoriale deve farvi i conti,<br />
riducendo spesso il proprio potenziale linguistico in una riconoscibile medietas.<br />
10. La strategia di esilio posta in atto dal sistema contro la poesia è poi la migliore conferma della sua<br />
giustezza.<br />
L’asimmetria della poesia rispetto all’industria culturale, la sua solitudine morale, la sua consustanzialità<br />
al sentimento della crisi ne innescano la carica politica di resistenza, non in rispetto ai contenuti del suo<br />
dire, ma in rispetto al suo dire in sé e per sé, cioè alla sua perseveranza semantica.<br />
IV<br />
1. Se «la letteratura di una determinata epoca è alienata quando non è giunta alla coscienza esplicita<br />
della sua autonomia e si sottomette a un potere temporale o a un’ideologia, cioè quando si considera da<br />
sé come un mezzo e non come un fine incondizionato» (Sartre), allora la fattispecie letteraria meno<br />
alienata, cioè meno manipolabile, è oggi la poesia. Il che avviene prima di tutto per virtù linguistica.<br />
2. Ancora in senso generico, la lingua poetica ha difese implicite:<br />
- L’innata tendenza alla parola semanticamente piena, anche grazie alla percezione del sostrato<br />
diacronico implicito in ogni azione verbale.<br />
- Il dialogo, difficile da circuire, poiché misurabile anche e contrario, con la tradizione. L’intimità con la<br />
storia è cioè connaturata al più semplice atto poetico.<br />
- La forza del senso, e il suo agire in termini di storia, sono per lo più ineliminabili dai meccanismi<br />
tecnici propri della poesia. La natura stessa del verso è tale per cui la singola parola ha il rilievo del<br />
senso. Basta lo spicco ottenuto col bianco della pagina. Basta lo stacco di fine verso, anche al di fuori<br />
di enjambement.<br />
- La struttura di una poesia, quale che ne sia lo stile, conduce quasi sempre a una vitalizzazione della<br />
retorica: i cui strumenti sono ormai tutti al servizio delle lingua informative e manipolative del potere<br />
(pubblicità commerciale, economica e giornalistica come vettori di modelli politici, sociali, familiari e<br />
individuali). Attraverso la poesia, i meccanismi retorici si ridispongono al servizio del pensiero<br />
individuale, fuori da ogni strategia manipolativa.<br />
- Per queste vie la lingua poetica è nell’insieme salva dalla semplificazione seriale delle lingue<br />
asignificanti o manipolative, e per ciò stesso ad esse antagonistica.<br />
3. Ma la lingua poetica ha difese rigorose anche in senso più puntuale. Nel corso della modernità, col<br />
dilatarsi della realtà materiale e della sua autorappresentazione immediata, sotto forma di informazione e<br />
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immagine, si è intensificata la sua complessità descrittiva, e dunque l’angoscia dell’osservatore, timoroso<br />
di non potersi mai neanche approssimare ad una sua rappresentazione veritiera.<br />
Per questo l’arte potenzialmente più lontana dalla rappresentazione mimetica della realtà, e tuttavia più<br />
in grado di esperirla, convogliarla, trarne il sangue, è la poesia.<br />
Essa, al suo meglio, è al tempo stesso rappresentazione; rappresentazione ipertrofica, cioè somma di<br />
rappresentazioni simultanee; pensiero; interpretazione emotiva.<br />
Il tutto veicola il senso, in quanto suscitamento di più sensi organizzati in uno. Due versi come «e quando<br />
nel nevoso aere inquiete / tenebre e lunghe all’universo meni» entrano nella memoria perché<br />
rappresentano al tempo stesso: una realtà corporea, una realtà incorporea, l’intuizione della terribilità<br />
inesorabile di tale compresenza, la fascinazione maestosa del dirlo in parole, viceversa eterne. Una<br />
simultaneità sconvolgente, tanto più se si consideri che stiamo parlando di una poesia disillusa, laica per<br />
eccellenza, e in questo modernissima, come quella di Foscolo.<br />
4. La rappresentazione cui conduce la poesia è dunque esente dal rischio illusionistico (cioè falsomimetico)<br />
insito nelle rappresentazioni narrativa o (massimamente) cinematografica. La<br />
rappresentazione poetica è di specie del tutto particolare. Filtrata dall’io dello scrivente, la realtà entra nel<br />
flusso organizzato della lingua e diventa altro, pur non perdendo connotazione autonoma. In questo<br />
modo, l’io tende a oggettivarsi, la realtà si derealizza, sommandosi a contenuti mentali che ne suggono la<br />
sostanza. La presenza del poeta e quella della realtà (delle realtà) che ausculta attraverso il farsi della<br />
lingua poetica, in quanto lingua formalizzata e per eredità storica (tradizione) e per impulso privato<br />
(innovazione), costituiscono l’universo di senso sedimentato in poesia, e dunque tramandabile.<br />
5. Perché la lingua poetica abbia questa resa multipla, essa deve pertanto oggettivarsi. È questo il passo<br />
obbligato della sua ambizione significante, ormai rispecchiato dalla più resistente tradizione moderna e<br />
novecentesca.<br />
La sovversione dell’io provato, che deve acuirsi e moltiplicarsi in somma di pubbliche esperienze, ha, tra<br />
le molte tradizioni moderne, almeno cinque appigli forti.<br />
a. La prima, poco praticabile oggi come esperienza formale, è tuttavia un essenziale sottofondo<br />
conoscitivo che può essere posto a precedere, simbolicamente, l’esperienza contemporanea. Si tratta<br />
della via interna all’io lirico, che per progressivi accerchiamenti lo pone in crisi: i frammenti del<br />
soggetto poetante si confrontano coi frantumi di realtà, in un gioco drammatico di inversioni di ruolo<br />
che suscita spiragli di conoscenza, tutta laica, umana. Il più alto esempio europeo di questa dialettica<br />
dell’io lirico è certamente Sereni, che incrociando nihilatio rerum montaliana e civismo residuo di Char<br />
ricostruisce un nucleo verbale di umanità.<br />
b. Assai istruttiva è la via dell’ispezione oggettuale. Maestri ne sono Perec e Ponge. Nell’uno la parola<br />
registra, appunta, si pone al servizio delle cose; nell’altro costeggia oggetti animati e inanimati,<br />
imprimendosi della loro traccia mutevole, non senza tentare, per loro impulso, una ricostruzione<br />
ambiguamente prometeica del soggetto e del suo mondo orgoglioso. La praticabilità odierna di questa<br />
via è sperimentata da Inglese, non solo nei suoi Inventari, ma anche nella recente plaquette Quello<br />
che si vede, dove la prima persona torna come occhio neutro, centro di gravità di un’esperienza<br />
verbalizzata, per quanto frammentaria, della materia.<br />
c. La via narrativa discioglie e semplifica le ambiguità e le scorie plurivoche della precedente modalità.<br />
Di tutte le narrazioni in versi, ottocentesche novecentesche e recenti, restano magistrali le due opere<br />
di Pagliarani: La ragazza Carla e soprattutto la Ballata di Rudi. Il cui insegnamento persistente è nella<br />
capacità di affabulare la storia tutta attraverso la storia singola, per via di una lingua polifonica,<br />
dinamica, stratificata e avvolgente al tempo stesso.<br />
d. Ben più denso di potenzialità rappresentative è il travestimento, l’adozione della maschera. Ne è<br />
iniziatore moderno Browning, non privo di residuo teatrale. Primo maestro novecentesco ne è l’Eliot<br />
del Love Song of J. Alfred Prufrock. Secondo maestro, più determinato su questa strada, è tutto il<br />
primo Pound, da Personae a Hugh Selwin Mauberley. La più interessante modalità della maschera è<br />
nella duttilità della sua voce: i frantumi dell’io poetante che vi si sedimentano si combinano col<br />
personaggio in una chimica nuova, proficuamente ambigua. Oggi si va dalle reinvenzioni<br />
classicheggianti di Michel Longley; alle fulminee incarnazioni di civiltà in Madoc di Paul Muldoon; a<br />
certe figure sociali di Giudici. Con Walcott, invece, siamo già dentro l’epos paradossale.<br />
e. L’epos paradossale. È il rischio più alto che ci abbia lasciato la letteratura novecentesca: più la<br />
parola è in perdita, più tenta di ricostruire un senso collettivo, sia pure sconfitto in partenza. Il suo<br />
sarà allora il discorso della sconfitta predestinata, non senza (implicito o esplicito) auspicio di<br />
convalescenza. Nell’epos paradossale tutti gli stimoli precedenti si trovano mischiati, e i pericoli sono<br />
proporzionali agli esiti. Waste Land, con rischio di onniveggenza sacerdotale; Cantos, con rischio di<br />
onniveggenza sacerdotale, disinnescato dall’atteggiamento antiaulico, e dall’esito impoetico, di molti<br />
passi; Paterson, sfida di radicamento terrestre contro l’incertezza del proprio tempo.<br />
Memore di queste tradizioni, più che mai oggi la poesia dovrebbe tentare di moltiplicare il proprio logos<br />
oggettivandosi. Ma perché la poesia sovverta l’io, e perché sia simultaneità di rappresentazioni ed<br />
interpretazione, occorre però che adotti un atteggiamento di sperimentalismo linguistico perpetuo.<br />
27
6. Nel Novecento le sperimentazioni, che in passato erano eccezioni, divengono tradizione. Tifi Odasi o<br />
Camillo Scroffa, nel rinascimento, si contrapponevano di fatto al dominante petrarchismo lirico di<br />
Serafino, poi a quello di Bembo. Chiamarli anticlassici, per quanto riduttivo e fuorviante, non è<br />
incomprensibile.<br />
Viceversa, poeti sperimentatori come Pound, Cummings, Beckett, Zanzotto, Pagliarani ecc. non potranno<br />
oggi essere considerati anticlassici (rispetto a quale classicismo?), ma classici in sé. (Volutamente non<br />
citiamo i Marinetti, i Breton, i Sanguineti: per non indurre in equivoco. Non va confusa avanguardia e<br />
sperimentalismo. L’avanguardia ideologizza per definizione. Apre piste, certo, persino è necessaria: ma si<br />
limita nello stretto di un percorso di politica letteraria, più o meno fertile a seconda degli ingegni.<br />
Sperimentalismo è tutt’altro: è necessità di attrezzare di pensiero e di potenziale rappresentativo la<br />
lingua poetica al proprio tempo. L’atteggiamento sperimentale ruolizza verso l’alto la poesia, mettendone<br />
alla prova lo statuto gnoseologico, ricercando senso e non sensazione, vista e non visibilità, possibilità e<br />
non potere).<br />
Molti sperimentalismi devono oggi essere considerati monumenti di classicità, cioè fonti perenni ed attuali<br />
di insegnamento letterario e formale. Da cui si può trarre spunto per definire lo sperimentalismo<br />
linguistico: incrocio dello statuto descrittivo e emotivo, soggettivo ed oggettivo della lingua in un raggio<br />
ampiamente rappresentativo. Ovvero: dismissione dello statuto monodico del discorso a vantaggio di uno<br />
statuto plurale, reversibile.<br />
Distinguiamo almeno due fattispecie di sperimentalismo linguistico.<br />
a. Uno sperimentalismo freddo, progredente per ellissi. In questo caso la lingua poetica nasce<br />
dall’ingestione pregressa di realtà, i cui materiali sono messi alla prova, per tramite dell’io del poeta, a<br />
un tempo interiore, per dir così, totale. Si tratta di una lingua che procede disseccandosi, riducendosi<br />
a meccanismo nudo di retorica. O a sequenza di nominazioni, il cui legamento è l’allusione, o meglio<br />
ancora l’abrasione dei sensi intermedi. Stretta d’assedio dalla realtà meccanica, brutale e multiforme,<br />
la lingua poetica reagisce fagocitandola prima in immaginario, ovvero negandone l’ambizione<br />
superficiale; e filtrandola sulla pagina in frantumi, emersioni di un significato almeno probabile,<br />
funzionante per forza di silenzio, e in effetti tendente al silenzio. L’oscurità è essenziale, così come la<br />
forma, che geometrizza per forza profonda i segni riemersi dal caos. Un culmine di questa tensione<br />
sperimentale è ad esempio Celan, che laicizza Mallarmé, caricandolo di realtà morale. Celan è tanto<br />
inflessibile in questa sua contrazione della lingua a puro peso specifico, da inventare a tratti un idioma<br />
lirico che ausculta la storia, la filtra per il soggetto, elide l’una e l’altro in un lampo, oggettivandosi per<br />
resti di discorso, imperfetto solo perché non del tutto taciuto.<br />
Diversamente drammatico è il procedimento ellittico in Beckett. Meglio che veicolare roccaforti (per<br />
quanto sbranate) di senso, qui la parola poetica in sé tenta la difesa del dire, contro l’assalto del<br />
vuoto: a costo di metterlo perpetuamente in scena. Più forte diventa qui il valore della forma, della<br />
retorica ottenuta a freddo, insistente: trina sospesa sul baratro. Così nel poema di Mesa I loro scritti, e<br />
in particolare nella sezione delle Nove macchine morte, tutti i discorsi, anche quelli civili, sono tritati e<br />
ricomposti in una musica ossessiva, saturante eppure agita per silenzio («per parole non<br />
pronunciate»), esatta eppure incompleta, capace di formalizzare il non-senso componendo le mille<br />
briciole del senso in una tela friabile ma almeno fissata sulla pagina.<br />
b. Uno sperimentalismo polifonico, espanso, accumulatorio. L’atteggiamento linguistico, qui<br />
drasticamente diverso, ambisce non a metabolizzare, ma a trascrivere effusivamente la realtà.<br />
Notomizzata prima, con sforzo conoscitivo di esploratore, nelle molteplici realtà che la compongono.<br />
La lingua poetica esige, accumula, sovrascrive in sé queste realtà, dando loro voce intrecciata,<br />
vorticosa, insieme molteplice ed una.<br />
L’esempio più alto di questa fattispecie sperimentale è senz’altro il Pound dei Cantos. Singolo oggetto,<br />
mondo esterno, storia, trovano accordo e organizzazione nel flusso lavico, fratturato del linguaggio.<br />
Altrettanto esemplare, ma su un pedale di più esplicita dialogicità, è il Pagliarani altissimo di Lezione di<br />
fisica, e soprattutto di Fecaloro. Qui l’ambizione è meno universalistica, e di conseguenza le fratture di<br />
senso meno profonde. Il difetto di dantismo aggiunge in pathos umano e in accessibilità, senza<br />
sottrazione di fiducia alla poesia: «…non è ai poeti che tocca dichiararsi / sulla nostra morte, ora, della<br />
morte illuminarci?». E in effetti attraverso la latitudine ampia del linguaggio sperimentale tace<br />
l’imbarazzo ironico del poeta novecentesco narcisista della menomazione, da Palazzeschi a Satura, e<br />
anche, nel cozzo di materiali sacri e profani, circuitati però da serietà di pensiero, la poesia può<br />
sfiorare, o persino (per intervalla insaniae) riaffermare la propria sostanza, per quanto poi nascosta al<br />
margine.<br />
7. Entrambe le modalità presentano una loro consonanza con i tempi di oggi.<br />
La lingua sperimentale ellittica offende la realtà, invasa da comunicazione, attraverso l’esercizio<br />
concentrato dell’oscurità, attraverso l’emersione concettuale del silenzio. La necessità di sforzo all’atto<br />
della lettura, l’obbligo di calarsi dentro le faglie del senso, riconduce al valore prezioso del senso<br />
medesimo, dilatando finalmente l’attimo della parola in profondità.<br />
8. La lingua sperimentale espansa è forse carica di un più complesso potenziale euristico. Nel mondo del<br />
fare, del predominio oggettuale, dell’invisibilità delle verità anche sociali, della sparizione del senso,<br />
28
diffratto in miriadi di significati superficiali, deboli, devianti, essa sembra una via duttile per rigenerare la<br />
sostanza di un senso possibile.<br />
La sua attualità ha molteplici ragioni.<br />
a. Attiva, moltiplica, dialettizza le voci della complessità, rendendo misurabile il superamento dell’io.<br />
«Tutta la vita della lingua, in qualsiasi settore del suo impiego (nella vita quotidiana, negli affari, nella<br />
scienza, nell’arte, ecc.), è penetrata di rapporti dialogici»: l’intuizione di Bachtin vale più che mai per<br />
questo tempo iperaffabulato dall’informazione. Nella lingua poetica possono sedimentare, sotto forma<br />
di vene lessicali specialistiche, di idioletti privati o lingue pubbliche ecc., i bandoli della dialogicità che<br />
ci attraversa. «I rapporti dialogici…debbono incarnarsi nella parola, diventare enunciazioni, diventare<br />
posizioni espresse nella parola di diversi soggetti, perché tra essi possano sorgere rapporti dialogici»: i<br />
diversi soggetti sociali sono portati entro uno stesso spazio testuale, da un medesimo, plurale impulso<br />
linguistico.<br />
b. Assai meglio del modello postmoderno di Jameson, la lingua poetica sperimentale interpreta la<br />
vocazione complessa e al tempo stesso decostruita, schizofrenica, della società contemporanea. Il<br />
dolore, la dolcezza terribile, la violenza snervante della personalità disunita e proliferante dello<br />
schizofrenico, della sua acuta e allucinata percezione della fine imminente, o della sua dilatata,<br />
frazionata, estenuante coscienza dello spazio-tempo, sono leggibili come rappresentazioni incarnate,<br />
drammatiche a tutto tondo, dei nostri mali polifonici. La stessa polifonia ammalata può raggiungere la<br />
lingua poetica sperimentale, con l’additamento implicito d’una via di guarigione: il senso dell’insieme,<br />
dell’unum dominabile del testo, ridotto a forma, o a compresenti pluralità di forme, funzionanti<br />
tuttavia all’unisono.<br />
c. La via polifonica apre quasi sempre, in gradi diversi, alla pulsazione della storia, sotto forma di<br />
maschere, di citazioni, di mescidazione linguistica, ecc. Anche in questo caso, quand’anche sotto falsa<br />
sembianza di ironia, la ricerca del senso deve essere tenace. Il rischio di retorica, sempre presente e<br />
spesso d’intralcio, può essere disinnescato per effetto della forma, che accumula, rivitalizza nel<br />
magma organizzato. L’esempio più ambizioso è nei Cantos, monumento vivo dei rischi e delle<br />
possibilità della poesia novecentesca. Alta anche la prova del Paterson di Williams, fusione di materiali<br />
differenti (compresi autocommento, voce off, scarti prosastici). Non meno significativo, anche perché<br />
animato da più circoscritte ricostruzioni di senso e di storia, il tentativo di Pagliarani all’altezza di<br />
Lezione di fisica e Fecaloro, dove brani veementi come questo: «- Primo: non hanno voglia di lavorare<br />
/ - Ma tu tua figlia a un cafone calabrese / (Dov’è Shylock, mercante di Venezia) / Una libbra sangue<br />
se valse un’arancia / - morte per acqua - / a Mussomeli?», ecc.<br />
d. La lingua poetica polifonica, quando costituisca realtà profonde e realtà lievi in unico discorso, quasi<br />
sempre riattiva enzimi civili, riducendo l’impatto retorico che una pronuncia monodica, più tipicamente<br />
civile, comporterebbe. Il massimo esempio contemporaneo ne è Tony Harrison. Il quale aprendo la<br />
propria pronuncia a tutti depositi linguistici bassi, gergali, settoriali, specialistici e iperculti, lascia<br />
esplodere i materiali della realtà più violenta o dissimulata sotto gli occhi del lettore, senza commento<br />
altro che la ricostruzione del senso, organizzato nella razionalità volontaria della musica scaturente<br />
dalla forma perfetta: «Pickled Gold Coast clitoridectomies? / Labia minora in formaldehyde? / A rose<br />
pink death mask of a screen cult kiss, / Marylin’s mouth or vulva mummified?».<br />
e. Per ottenere i suoi scopi, ovvero per addensare in sé una simultaneità di rappresentazioni, la lingua<br />
polifonica adotterà tecniche come la mescidazione lessicale – quella morfologica restando recinta negli<br />
estremi della lingua che mette in scena prima di tutto sé stessa, depistando dal senso, come in Baldus<br />
o in Finnegans Wake nei casi più alti ma anche più ambigui; il pastiche, e però dosato per la stessa<br />
ragione, cioè per evitare il predominio del significante; l’innesto (dissimulato o meglio dichiarato) di<br />
citazione colta, cioè dialogo con la storia, e citazione bassa, cioè dialogo col proprio tempo; l’inclusione<br />
di materiali impoetici, afferenti a realia. Celebre la lista di locale alla moda scandita da Williams su<br />
ritmo jazzato: «2 partridges / 2 mallard ducks / a Dungenese crab / 24 hours out / of the Pacific / and<br />
2 live-frozen / trouts / from Denmark». Lo stesso Williams chiosava, con parole anche più celebri:<br />
«Qualsiasi cosa è un buon materiale per la poesia».<br />
Il montaggio prevedrà anche tagli di senso, improvvise frane di silenzio: ma in questo caso senso e<br />
silenzio saranno voci di uno stesso lavorio verbale, escavante nelle secrete umane. Per una pagina così<br />
costituita è più vero che mai che «la poesia sta insieme con la pittura, la scultura, la musica» (Sartre): la<br />
lingua poetica è istantanea di un segmento di tempo e insieme dinamica rappresentazione delle sue<br />
simultaneità.<br />
9. Si tratta di una lingua lavica, che chiude in sé materiali esogeni, dando loro un nuovo senso. Vive qui<br />
un nuovo istinto babelico, governato (non placato) dal principio della forma, più difficile in questo caso da<br />
raggiungere, se non in armoniche interne, scovate a singhiozzo.<br />
L’imperfezione del risultato è parte integrante di una lingua così disposta, inclusiva e giocoforza<br />
slabbrata. Si tratta di un’imperfezione necessaria: nessun risultato conchiuso, ma un flusso aperto<br />
all’aggiunzione di dialogo, perfettibile ma non mai perfetto. (Atteggiamento morale, questo, e letterario<br />
insieme: fino ad oggi l’illusione di perfezione ha vanificato energie di pensiero, speso vite, sparso<br />
sangue). Il metodo dei Cantos, per programma imperfetti e slabbrati (cioè a tratti troppo rappresentativi<br />
del puro metodo, a scapito dell’intuizione), ne è alta testimonianza.<br />
29
10. Precisazione forse ovvia ma necessaria. La modalità ellittica e quella polifonica sanno coabitare. In<br />
alcune sue opere dell’ultimo periodo Mesa, nel rendere più esplicita una vena politica e civile, ha<br />
combinato una lingua fondata su microfratture di senso, su intime sconnessure, con un tessuto di<br />
filigrane letterarie, culturali, cronachistiche (Da recitare nei giorni di festa, o Tiresia). Tramature di<br />
silenzio, del resto, e sconnessioni ipersignificanti del significato sono le trascrizioni-scansioni di Pagliarani<br />
(Esercizi platonici e Epigrammi ferraresi), in cui la citazione è tradotta – etimologicamente – sul bianco<br />
della carta, così che il senso rinnovato nasce dal dialogo tra l’antica parola, la nuova parola del poeta, il<br />
nuovo vuoto del foglio, che moltiplica le risonanze nel silenzio.<br />
V<br />
1. La lingua poetica polifonica, orientata cioè verso l’espansione, l’accumulo, l’inclusione, che incameri la<br />
molteplicità, richiamando il punto di unità nella forma, è una lingua che al massimo grado può veicolare il<br />
mondo. Essa, per il fatto non solo di attraversare, ma anche di mettere in scena la polifonia, e persino il<br />
caos, ne è regolazione, discorso.<br />
2. La lingua poetica così concepita è un atto narrativo al livello più alto, in quanto somma simultanea di<br />
racconti, affabulazione delle realtà presenti e passate, poste in attrito, in dialogo per via linguistica. In<br />
questo senso è anche un atto di consapevolezza.<br />
3. La lingua poetica così concepita è un atto di storia. Il suo gemmare dal linguaggio le permette di<br />
essere storicità in atto, ed effrazione della storicità in pieno equilibrio. La poesia non ha bisogno di<br />
affrontare la storia, per parlare di storia: dà conto della storia attraverso la simultaneità delle pronunce e<br />
delle lingue che sa ospitare, o sottintendere.<br />
4. La lingua poetica così concepita è un atto politico, per più ragioni.<br />
5. Perchè segna una permanenza di senso, dunque di speranza civile (oggi peraltro urgente, come<br />
dimostra l’insistente nostalgia di un poeta anacronistico ma vivo come Pasolini).<br />
Perché l’evocazione del senso e la messa in scena della storicità umana è di per sé sovversiva, in un<br />
mondo che «si riduce al contenuto del nostro fare», in quanto «soggettività estrovertitasi completamente<br />
in prassi» (Sloterdijk).<br />
Perché raccorda le voci di un dialogo interrotto. Ha scritto Sloterdijk che «la ragione soggettiva [odierna],<br />
regredita a ragion privata…astutamente ignora contesti, nessi, correlazioni… È un modo per rendersi<br />
inaccessibili agli affronti dell’universalità, una sorta di indurimento strategico contro il canto delle sirene e<br />
cioè contro ogni scadenza comunicativa o conciliatoria». A questo appiattimento muto nell’orizzontalità<br />
dei nessi, la lingua poetica polifonica reagisce ristabilendo contesti presenti e passati, ritessendo legami,<br />
ponendosi di nuovo nella diacronia vulnerabile del tempo, ovvero nella sua universalità comunicativa<br />
minacciosa ma progressiva: in altri termini, riscoprendo la profondità.<br />
Luigi Severi<br />
30
FUOCHI TEORICI<br />
31
Linguaggi e traduzioni<br />
32
Teoria e pratica della traduzione<br />
33
TRADUTTOLOGIA COME SCIENZA E TRADUZIONE COME GENERE LETTERARIO<br />
"Io mi domando", si chiedeva Céline nella lettera a M. Hindus del 15 maggio 1947, "in che cosa mi<br />
paragonino a Henry Miller, che è tradotto?, mentre invece tutto sta nell'intimità della lingua! per non<br />
parlare della resa emotiva dello stile...".<br />
Lo stile, per Céline, era dunque "intraducibile", come – per Croce - era "intraducibile" la poesia. Sono<br />
posizioni che, facendo leva sul presupposto della unicità e irriproducibilità dell'opera d'arte, giungono a<br />
negare la traducibilità della poesia e della prosa "alta". Tali concezioni sono l'espressione di un idealismo<br />
oggi particolarmente inattuale, contro il quale l'estetica italiana di impianto neofenomenologico (da Banfi a<br />
Anceschi a Formaggio a Mattioli) si è battuta (direi, vittoriosamente) partendo dalla constatazione che le<br />
dicotomie (fedele/infedele; fedele alla lettera/fedele allo spirito; ut orator/ut interpres; verbum/sensus;<br />
"traductions des poètes"/"traductions des professeurs") - da Cicerone a Mounin - inevitabilmente portano<br />
a una situazione di impasse, configurando, da una parte, l'intraducibilità dello "stile" e dell'"ineffabile"<br />
poetico, e dall'altra la convinzione che sia trasmissibile soltanto un contenuto. Naturalmente il fatto che sia<br />
trasmissibile soltanto un contenuto è una pura astrazione, ma è dove si giunge partendo sia da presupposti<br />
"idealistici", sia da presupposti "formalistici".<br />
Non mi pare che la situazione dicotomica di impasse muti analizzando la più recente quérelle tra Meschonic<br />
e Ladmiral, alias tra sourciers e ciblistes, o tra una tendenza naturalizzante - "target-oriented" - che<br />
spingerebbe il testo verso il lettore straniero "naturalizzandoglielo"; e una tendenza estraniante - "sourceoriented"<br />
- che trascinerebbe il lettore straniero verso il testo. Secondo questa impostazione, lo scontro tra<br />
scuole traduttologiche somiglierebbe a quello in atto nel mondo del restauro: farlo vedere il più possibile, o<br />
nasconderlo il più possibile.<br />
Se si prescinde dalla simpatia che certe definizioni possono più di altre suscitare, credo sia chiaro che -<br />
proseguendo con una impostazione dicotomica - si aggiungono soltanto nuove coppie – come<br />
addomesticamento/straniamento, visibilità/invisibilità, violabilità/ inviolabilità a quelle da secoli esistenti:<br />
libertà/fedeltà, tradimento/aderenza, scorrevolezza/letteralità. Come avviene con Lawrence Venuti, autore<br />
di The Translator's Invisibility, malgrado sia senz'altro di alto livello il suo costante riferimento a<br />
Schleiermacher e alla scuola ermeneutica novecentesca che a lui si ispira.<br />
"Come riprodurre, allora, lo stile?" Il nocciolo del problema, a mio avviso, sta proprio nel verbo usato per<br />
porre la domanda: riprodurre. Perché la traduzione letteraria non può ridursi concettualmente a una<br />
operazione di riproduzione di un testo; essa dovrebbe piuttosto essere considerata come un processo, che<br />
vede muoversi nel tempo e - possibilmente - fiorire e rifiorire, non "originale" e "copia", ma due testi forniti<br />
entrambi di dignità artistica.<br />
Uno studio fondamentale a riguardo è Il movimento del linguaggio di Friedmar Apel. Il concetto di<br />
"movimento" del linguaggio nasce dalla necessità di guardare nelle profondità della lingua cosiddetta di<br />
partenza prima di accingersi a tradurre un testo letterario. L'idea è comunemente accettata per la<br />
cosiddetta lingua di arrivo. Nessuno infatti mette in dubbio la necessità di ritradurre costantemente i<br />
classici per adeguarli alle trasformazioni che la lingua continua a subire. Il testo cosiddetto di partenza,<br />
invece, viene solitamente considerato come un monumento immobile nel tempo, marmoreo, inossidabile.<br />
Eppure anch'esso è in movimento nel tempo, perché in movimento nel tempo sono - semanticamente - le<br />
parole di cui è composto; in costante mutamento sono le strutture sintattiche e grammaticali, e così via.<br />
In sostanza si propone di considerare il testo letterario classico o moderno da tradurre non come un rigido<br />
scoglio immobile nel mare, bensì come una piattaforma galleggiante, dove chi traduce opera sul corpo vivo<br />
dell'opera, ma l'opera stessa è in costante trasformazione o, per l'appunto, in movimento nel tempo. In<br />
questa ottica, la dignità estetica della traduzione appare come il frutto di un incontro tra pari destinato a<br />
far cadere le tradizionali coppie dicotomiche, in quanto mirato a togliere ogni rigidità all'atto traduttivo,<br />
fornendo al suo prodotto una intrinseca dignità autonoma di testo. Un principio già anticipato da Blanchot<br />
attraverso l’immagine della “solenne deriva delle opere letterarie".<br />
Si potrebbe persino affermare che il movimento nel tempo, in questo processo di traduzione letteraria,<br />
possa avere inizio prima ancora della redazione della stesura "definitiva" dell’"originale", allorché al<br />
traduttore è possibile accedere anche all'avantesto (cioè a tutti quei documenti da cui il testo "definitivo"<br />
prende forma), impadronendosi così del percorso di crescita, di germinazione del testo nelle sue varie fasi.<br />
34
A riguardo un linguista come Pareyson parla di "formatività" del testo; un poeta come Gianni D'Elia di<br />
"adesione simpatetica”, da parte del traduttore, “non tanto al testo finito e compiuto, quanto alla miriade<br />
di cellule emotive che lo hanno reso possibile".<br />
Il testo, dunque, si muove verso il futuro all'interno delle incrostazioni della lingua, ma anche verso il<br />
passato se si tiene conto degli avantesti. Si pensi agli ottantamila foglietti da cui provengono le<br />
quattrocento pagine del Voyage di Céline, alle Epifanie da cui discende il Portrait di Joyce, ai Cahiers su cui<br />
si forma la Recherche… E questo nella consapevolezza della stratificazione delle lingue storiche. Un<br />
concetto che Bianciardi esemplifica con chiarezza "architettonica" all'inizio della Vita agra, allorché descrive<br />
il palazzo della biblioteca di Grosseto. Che in precedenza era stata casa insegnante dei compagni di Gesù, e<br />
prima ancora prepositura degli Umiliati, e alle origini Braida del Guercio...<br />
Trasferendo al linguaggio questa descrizione si ottiene l'effetto-diodo, come osservando dall'alto una pila<br />
accatastata ma trasparente di strati fonetici e semantici.<br />
Franco Buffoni<br />
35
IL VILLAGGIO GLOBALE E L'UOMO-DONNA:<br />
BREVE PANORAMA DELLA POESIA ATTUALE NEL MONDO<br />
Se il tempo è una convenzione, è chiaro che non possiamo fare a meno di ragionare in base a questa<br />
convenzione e di usarla come strumento per capire meglio l'evoluzione e il cambiamento delle cose.<br />
L'avvento del terzo millennio ha scatenato vecchie e nuove paure, ma ci ha fornito anche una linea di<br />
frontiera che ci aiuta a mettere in evidenza il nuovo volto di questa complessa umanità del 2000 e – per<br />
parlare specificamente di poesia – i nuovi modi espressivi con ciò che essi veicolano.<br />
La prima domanda che si fa chiunque si avvicini alla poesia attuale è che cosa è cambiato rispetto al<br />
Novecento, e la risposta immediata è che ci sono alcuni cambiamenti notevoli che scoprono un volto nuovo,<br />
diverso del poeta attuale, forse imprevedibile qualche decennio fa. Vediamo in ordine ognuno di questi<br />
cambiamenti.<br />
Una delle caratteristiche della poesia del Novecento è stata senz'altro la certezza della perfettibilità dell'uomo<br />
e quindi la fiducia nei sistemi politici che avrebbero eliminato per sempre l'ingiustizia, la fame, la povertà. Ai<br />
movimenti rivoluzionari nel mondo e all'istituzione dei regimi socialisti si associavano movimenti letterari che<br />
volevano dare testimonianza di questi principi e di questa speranza: ne è prova la littérature engagée.<br />
Tuttavia le guerre hanno riportato, verso la metà del secolo, un senso di sconforto e di perdita di fede nei<br />
valori operativi o – tanto meno – educativi dell'arte. Sartre si domandava a cosa serve la letteratura?, e<br />
molti pensarono che, in effetti, in quei "tempi bui" – di brechtiana memoria –, fosse più giusto scegliere<br />
l'azione diretta al posto del bel canto o, nel caso di non poterlo evitare, che esso fosse almeno propositivo ed<br />
efficace nel rappresentare la realtà e nel denunciarne le contraddizioni. Per quello che riguarda l'America<br />
Latina, il Novecento fu il secolo delle dittature più feroci di tutta la sua storia: i più grandi poeti hanno<br />
lasciato testimonianza degli obbrobri subiti e del dolore dell'esilio, dall'uruguaiano Mario Benedetti al<br />
nicaraguense Ernesto Cardenal, all'argentino Juan Gelman, al cileno Pedro Lastra... Il nuovo millennio invece<br />
è iniziato con grandi speranze, stimolate dalla fine delle dittature e dall'avvento di governi democratici,<br />
addirittura con la presa del potere da parte delle antiche vittime dei passati regimi, come è recentemente<br />
avvenuto in Cile, in Uruguay, in Bolivia. Tuttavia l'illusione è durata poco: l'11 settembre, l'inasprirsi del<br />
fondamentalismo islamico, la guerra in Irak e la difficoltà a trovare un accordo tra il governo di Israele e i<br />
paesi confinanti, hanno riproposto un clima di angoscia da cui emerge perfino la minaccia di una terza guerra<br />
mondiale. La differenza con quello che avveniva prima sta nell'abolizione sempre più diffusa delle frontiere.<br />
Oggi terrorismo e lotta al terrorismo sono dappertutto e la letteratura che ne dà testimonianza ha acquistato<br />
anche in questo senso un volto "globale". Il dolore per la violenza subita nelle rispettive patrie è presente sia<br />
nella poesia del israeliano Rami Saari che in quella del libanese Samer Darwich: se il muro è la metafora<br />
fondante della poesia di quest'ultimo, la morte del giovane amico impregna di dolore quella del primo; ma<br />
tutti e due sollevano lo sguardo al di sopra dei propri limiti, e il loro mondo si nutre e si arricchisce di tanti<br />
mondi altrui.<br />
La globalizzazione ha però un lato affascinante e se vogliamo positivo: il poeta del terzo millennio, come una<br />
buona percentuale della popolazione attiva del pianeta, viaggia, legge in molte lingue, conosce e stabilisce<br />
rapporti molto più facilmente di una volta con persone di altre nazioni e dai costumi molto diversi. Così<br />
l'orizzonte personale si allarga, amore e amicizia diventano possibili al di là delle frontiere e delle<br />
consuetudini, i pregiudizi vengono messi in crisi dalla familiarità con il diverso. Nella breve rassegna<br />
antologica che accompagna queste riflessioni, ci sono otto poeti provenienti da otto nazioni diverse (ma<br />
potevano essere molti di più) che hanno come comune denominatore questa aura internazionale e<br />
multiculturale, questa dimestichezza con luoghi lontani dalla terra natia, questa appartenenza ormai al<br />
"villaggio globale", non affatto spersonalizzato ma addirittura fonte di una nuova prospettiva e linguaggio<br />
poetici.<br />
Un'altra angoscia tipica della fine del Novecento che si trascina fino ad oggi, in parte conseguenza dello<br />
sviluppo tecnologico, dell'informatica e della preponderanza del linguaggio visivo sul verbale, è quella della<br />
fine della letteratura e in particolare della poesia. Se Julio Cortázar temeva che il mondo sarebbe stato<br />
sommerso da montagne di carta stampata, oggi predomina la paura opposta, e cioè che non si stampi più,<br />
che il web possa comodamente, con grande risparmio di spazio e di danaro, fornire tutte le informazioni che<br />
una volta richiedevano l'uso di enciclopedie e pubblicazioni ad hoc. Eppure, anche accettando che il futuro<br />
possa nascondere un destino di comunicazione orale e virtuale più che scritta, esiste una convinzione forse<br />
addirittura crescente sulla necessità della poesia, vale a dire sulla certezza che essa sia non soltanto<br />
insostituibile, ma anche necessaria per l'equilibrio psichico dell'uomo. E quando si parla di grandi creazioni<br />
poetiche, allora bisogna ricordare che, come spiegava Jung, esse vanno oltre il personale, scaturiscono<br />
dall'anima dell'umanità, quindi veicolano l'inconscio collettivo sposatosi alla coscienza del tempo ed<br />
esprimono non una persona – l'autore – ma tutta la sua epoca, nel bene e nel male, per la sua salvezza o<br />
per la sua rovina (1). Questo rapporto tra la creazione poetica e la configurazione dell'immaginario di una<br />
determinata epoca, è forse quello che spiega affermazioni come quella di Álvaro Mutis, secondo cui la poesia<br />
è l'unica vera prova dell'esistenza dell'uomo.<br />
In ogni caso, per sfatare l'incubo della fine della letteratura e del libro stampato esistono oggi piccoli e medi<br />
editori che con grande passione si lanciano nel mercato proponendo nuove collane, realizzando idee nuove<br />
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con nuove prospettive e dimostrando che, se loro possono permettersi di ampliare la produzione libraria, è<br />
proprio perché esiste un pubblico lettore che non demorde e che accoglie appunto le novità.<br />
Il Novecento è stato anche il secolo dell'affermazione delle donne, nella vita sociale e politica così come nella<br />
letteratura. Ma già la stessa Virginia Woolf si augurava che nel futuro la voce poetante potesse configurarsi<br />
al di sopra del genere, per costituire una nuova agognata voce, semplicemente umana. Forse quello che lei si<br />
augurava si è già verificato; e se nei giovani spesso è difficile scoprire segni di identificazione del gender, è<br />
decisamente chiaro il cambiamento di impostazione della voce maschile, come si può verificare in questa<br />
rassegna, dove abbiamo scelto apposta soltanto voci di uomini. In esse il lettore avvertirà che la scissione tra<br />
i ruoli femminile e maschile è scomparsa, o quanto meno straordinariamente diluita. Un poeta fra i più<br />
giovani di quelli scelti, il giapponese Yasuhiro Yotsumoto, può vantarsi di essere nella vita soprattutto e<br />
sostanzialmente un househusband (2), mentre Philip Meersman in una toccante poesia, La fanciulla e la<br />
Croce, assume lo spirito e infine la voce della donna che l'ha colpito, al di là di una non determinante<br />
femminilità, per la sua assoluta dedizione alla causa mistica e artistica. Una voce assolutamente androgina,<br />
d’altronde, è quella di Yves Prié, che dalla sua Bretagna si sposta sempre più lontano, in Italia e poi verso<br />
Oriente, in Egitto, ad Assuan, sul filo di una costante riflessione in cui le forme dell’arte sono la<br />
configurazione tangibile delle figure del pensiero. Nelle poesie che parlano d'amore poi, si sente una diversa<br />
impostazione dei ruoli e l’estraneità da prospettive amorose ormai datate, come quelle più famose del secolo<br />
scorso, da Neruda a Prévert, irripetibili per quanto tuttora (forse) affascinanti.<br />
Infine, se nella poesia del Novecento si può osservare, fino a un certo punto, un crescente allontanamento<br />
dalla natura, perché il canto si eleva sopra il contingente nella configurazione di una poesia concettuale e<br />
metafisica, o perché la realtà immediata rappresentata vive ormai quasi esclusivamente nella "giungla di<br />
cemento" delle città, nella poesia del terzo millennio, con lo sviluppo dell'ecologia e della coscienza ecologica,<br />
la vita torna a fare i conti con la natura, e di conseguenza lo fanno anche la letteratura e la poesia.<br />
Ricompaiono gli animali, e può succedere che nella terra fantastica di Tavastelandia – inventata da Sergio<br />
Badilla, ossia spuntata dalla sua realtà transreale –, le parole vengano soffocate dalla fervente attività del<br />
regno animale, senza che il poeta perda la capacità di ricevere il messaggio vitale dei ranocchi a caccia di<br />
vermi, o della lucciola perduta nella notte, o del riccio che si rifugia nella casa. Può addirittura succedere che<br />
il dialogo naturale diventi amabilmente cosmico, come ad esempio quando «una nuvola chiacchiera con un<br />
cane» (così avviene in un verso del costaricano Jorge Arturo). Intanto la fratellanza riscoperta nel seno della<br />
madre-terra si espande e si congiunge con quella della globalizzazione intesa come abbattimento delle<br />
frontiere. La prima parte dell'ultimo libro dello stesso Jorge Arturo si intitola significativamente Viaggi; Rami<br />
Saari afferma addirittura che egli è il viaggio; e come in loro due, così in tutti gli altri è costante il motivo<br />
dello spostamento e dell'appuntamento altrove, lontano, laddove la cifra accattivante nasce proprio dalla<br />
diversità rispetto delle origini. Eloy Santos, nato in Spagna e vissuto la maggior parte della sua vita in Italia,<br />
trova nella cultura giapponese una cifra che lo rappresenta intimamente, nella quale si riconosce al di là del<br />
tempo e dello spazio (si veda Gagaku). Forse per lo stesso motivo, quando si fa riferimento a elementi locali,<br />
come possono essere i maestri riconosciuti da Philip Meersman, maestri della sua stessa patria, e cioè il<br />
Belgio, essi vengono citati in maniera trasfigurata, con parole diventate, almeno in parte, onomatopee<br />
universali, dentro le quali si celano i nomi, spiegati dall'autore e altrimenti irriconoscibili.<br />
La scelta degli autori che proponiamo è, per quanto ridotta, significativa ed emblematica e l'insieme può<br />
contribuire a formare un nuovo ed efficace ritratto del poeta contemporaneo. Si tratta, come già accennato<br />
precedentemente, di otto intellettuali di otto nazioni diverse, di età compresa tra la soglia non raggiunta dei<br />
60 e i 35 anni, che nella loro poesia fanno spesso riferimento a mondi molto lontani e diversi da quello in cui<br />
sono nati: Sergio Badilla (Cile, 1947), Yves Prié (Francia, 1949), Jorge Arturo (Costa Rica, 1961), Rami Saari<br />
(Israele, 1963), Eloy Santos (Spagna, 1963), Samer Darwich (Libano, 1965), Yasuhiro Yotsumoto<br />
(Giappone, 1965) e Philip Meersman (Belgio, 1971). Non è sicuramente casuale che tutti loro siano<br />
pluricreativi, poeti e narratori, pittori, fotografi, cantanti; né che alcuni di loro siano approdati a forme<br />
poetiche alternative, come la poesia sonora e la poesia visiva, di cui Meersman, erede della ricca scuola<br />
belga, è anche magnifico esponente.<br />
SERGIO BADILLA CASTILLO<br />
Martha Canfield<br />
Sergio Badilla Castillo è nato in Cile nel 1947. La sua produzione nasce dalla forte amicizia creativa con un<br />
gruppo di poeti della sua generazione, tra cui Juan Cameron e .Raúl Zurita, questo ultimo tradotto anche in<br />
italiano. Sotto la dittatura di Pinochet ha dovuto vivere il dramma dell'esilio e in Svezia si è laureato e ha<br />
lavorato come antropologo. Ha inoltre fatto parte di diverse associazioni culturali, quali «Laboratorio di<br />
Stoccolma» e «Pelican Group of Arts», insieme al poeta uruguayano Roberto Mascaró e all’artista cileno Juan<br />
Castillo. Vissuto in diversi paesi europei per circa trent'anni, attualmente risiede a Santiago del Cile. È<br />
giornalista della Radio Svezia Internazionale. È il creatore di una tendenza poetica chiamata «transrealismo»,<br />
che lui definisce così: «Transrealismo è lo sguardo del tempo verso di noi con i suoi occhi quantici».<br />
37
Ha pubblicato diversi libri di poesia, tra cui La Morada del Signo (1982), Cantonírico (1983), Reverberaciones<br />
de Piedras Acuáticas (1985), Terrenalis (1989), Saga Nórdica (1996) e alcuni volumi di prosa e saggistica. I<br />
testi tradotti sono tratti da Poemas transreales y algunos evangelios (2005).<br />
IN UNA VIUZZA DI SANTIAGO<br />
Qualcuno mi ha insegnato la morte questa mattina<br />
come fosse una farsa di buffoni in una viuzza di Santiago.<br />
Guardo intimorito il cielo attraverso la precisione di questa finestra<br />
ed è un novembre di fragili rose nel pomeriggio di Chicureo.<br />
Lo stupore ottunde la mente e non dimentica mai<br />
perché Dio è cresciuto come un frutto selvatico tra i rami<br />
di un giardino di Babilonia.<br />
Qualcuno mi ripropone la morte questa mattina<br />
travestita da monaco nel rumoroso cortile dell’averno.<br />
È stato in questa città dove io ho dormito con lei tante notti?<br />
È questa l’urbe in cui la mia famiglia abita ormai da millenni?<br />
Mi avvolgo nel silenzio ora, tra le mura della mia casa a La Reina<br />
sono ancora un semplice inquilino<br />
uno schiavo liberato che immagina aquile che fanno acrobazie<br />
nel cielo azzurro d’Egitto.<br />
Gli obici cadono in questo stesso istante sul suolo di Falluja<br />
e centinaia di colombe volano docili sulla cattedrale di Burgos.<br />
Uno scoppio. Un semplice scoppio omicida<br />
di gente che fugge impaurita tra le rovine di una città assediata.<br />
Qualcuno mi mostra la morte questa mattina<br />
quando sento che nella memoria fluisce la corrente impetuosa<br />
dello Zambesi<br />
a Bulawayo<br />
forse il mondo intero in un cumulo d’acqua<br />
un’emanazione interminabile di lacrime e di fango.<br />
Qualcuno mi insegna di nuovo la morte questa mattina<br />
in un angolo innocente dove si ammucchia la ragione<br />
dell’universo<br />
come se accadesse un cataclisma nell’angolo cittadino della mia anima.<br />
CANTO FINALE<br />
A Andrés Morales<br />
C’è qualcosa che intimorisce Vallejo a cielo aperto nelle stradine del Giardino di Lussemburgo / nella Parigi<br />
dei castagni / dove la città si albera e sembra profumare di giungla. In questa stanza al 207 di boulevard<br />
Raspail aspetta un amico che gli faccia coraggio, ma non arriva nessuno.<br />
Guardando la sua tomba a Montparnasse intuisco che la nostalgia gli trapanava l’anima e i silenzi gli<br />
facevano perdere l’approvazione della coscienza.<br />
Il 27 (recluso dalla nostalgia) agonizza in una sala bianchiccia con i suoi occhi neri spaventati fissi sul<br />
soffitto. Di 60 libbre peruviane ha bisogno per andare da Madrid al Callao, e non ce l’ha. Santiago de Chuco<br />
rinverdisce nel vago della sua memoria, e si lamenta.<br />
Nella terra dove la Spagna si rovina, lui restituirà le utopie che gli esaltano l’animo. Il delirio lo scuote di<br />
povertà. L’eremita è malato nella Parigi che lo maltratta. Dove se n’è andata Georgette? I suoi amici:<br />
Gerardo Diego, Juan Larrea e Juan Gris? Sarà una morte segreta / una calamità impossibile nella totalità di<br />
un atto conclusivo.<br />
OSCILLAZIONI DELLA BARCA CHE S’INCAGLIA<br />
I mondi riflessivi si zittiscono all’ombra di una benevola<br />
rovina<br />
cresce la devastazione del corpo<br />
come un bastimento che s’incaglia nella bassa marea.<br />
(Non esiste altro epilogo possibile).<br />
A Juan Gelman<br />
38
La natura in armonia con la sostanza<br />
è frangibile e pulita<br />
in nessun modo cede alla goffaggine (alla scoria)<br />
ed è l’oscillazione dell’organismo che accentua il cambiamento.<br />
Così la materia<br />
nonostante le sue variazioni<br />
continua ad essere totalità che sorprende.<br />
Il tempo non è fatto di scadenze ma di casualità.<br />
Ciò che è successo ieri l’altro è quello che permane<br />
accolto nello scolorirsi di una foto<br />
o in un fiore appassito<br />
nel ciottolo che rimane nella memoria anche senza arrivare al suolo<br />
o nella carezza sospesa che il tuo corpo non accolse.<br />
La barca si incaglia in qualsiasi scoglio della bassa marea<br />
l’argano si paralizza perché il canapo cede<br />
e non c’è più slancio per ricominciare il movimento.<br />
Il veliero ha gli alberi solenni tarlati<br />
è ormai inutile la bussola e il sestante<br />
e le stelle / per ingannare l’esattezza dell’astrolabio /<br />
rimangono ferme nel loro spazio.<br />
Gli universi ciechi si sviano nella nebbia<br />
e transitano verso la morte<br />
come una nave che affonda nel riflusso<br />
di un mare immaginario<br />
e naufraga nella devastazione della propria mente.<br />
PRIMO VANGELO<br />
Della mia bisnonna Cornelia Riquelme Sid so soltanto che è nata<br />
un 23 gennaio 1828 nella hacienda Santissima Trinità di Bulnes.<br />
Negli atti di battesimo rimase segnata parte della mia eredità<br />
di maschio rigoroso e gentiluomo.<br />
Il mio bisnonno Francisco Badilla era nato anche lui a Bulnes<br />
come mio nonno José.<br />
Gli archivi consumati dal tempo suggeriscono le sofferenze<br />
di Pedro Riquelme (mio trisnonno) per configurare<br />
la discendenza<br />
/ rivale del grancapo<br />
dei supremi / e i vili / oggi<br />
denigrano con i loro vizi le mie glorie e le mie vanità.<br />
La mia petulanza mi<br />
lasciò senza compagnia e sono stato un infingardo con certe donne<br />
che mi amarono<br />
senza paura di allontanarsi dal decoro o di infrangere i riti vaginali del pudore.<br />
Segnati in quel documento / si trovano pure / i miei figli dalle lingue<br />
disuguali e le mie varie consorti:<br />
(In realtà sono stato straniero tante volte in quelle residenze estranee<br />
ho disertato i cortei imbroglioni e le orde sociali<br />
e sono stato apprendista / per un po’ /<br />
di pratiche poco lusinghiere).<br />
Le usanze nel territorio di quegli anni<br />
/ i clan e le abitudini dei capi /<br />
(i più spudorati e consacrati)<br />
non cambiarono.<br />
Bianchissima come il latte, secondo i miti familiari<br />
/ la mia bisnonna Patricia / fu la donna più bella del secolo per mio nonno.<br />
Le albe allora erano più fresche<br />
perché la natura era piena di alberi e ricchezze.<br />
L'oceano stava dall’altra parte delle montagne incatenate e agresti: Nahuelbuta<br />
ma mio padre si fece marinaio<br />
e si arrampicò sugli alberi più alti di una nave informale<br />
nelle acque ritorte del Golfo di Penas<br />
Ai miei figli<br />
39
prima di arrivare al purgatorio sfidando l’aria gelida<br />
(traslucida)<br />
di Capo Horn.<br />
SECONDO VANGELO<br />
Sono nato fuori dalle mura dell’averno nell’anno in cui si diffondeva la peste<br />
e nei primi anni ho imparato a maledire in lingua arcaica<br />
per ignorare l’oscurità del Mandorleto.<br />
Il terzo giorno sono salito in Playa Ancha e mi hanno fatto sedere alla destra di mio padre<br />
nei giorni / in cui su questa darsena /aumentavano le calamità.<br />
Disprezzare l’abisso era aspirare a una perpetua penitenza<br />
accatastarsi in una catapecchia con le fascine più alte o rifugiarsi<br />
in una grotta di banditi della costa.<br />
Notti esatte narrano i miei anni da Anticristo<br />
disperato mentre scendevo al Quartiere Cinese con i suoi vuoti<br />
e le sue profondità come Faust con Mefistofele.<br />
Parlavo in un gergo indecente<br />
per agire con pazienza nei confronti degli spioni,<br />
degli uccelli del malaugurio<br />
e degli altri bardi calvi e prosternati che volevano<br />
entrare in Paradiso.<br />
Nelle mie avventure con tipi consumati e prostitute in Piazza Echaurren y Cajilla<br />
ruffiani impregnati di vizi e svergognati<br />
sapevo tutto per bocca di ciarlatani e di umiliati.<br />
Mi innamorai tante volte con la riprova che l'età non importa<br />
per accoppiarsi fugacemente come un animale lascivo<br />
baciando tutte loro con devozione dal pube<br />
fino ai piedi.<br />
Notti intere a palpeggiare i loro dirupi<br />
senza zavorre di malinconia.<br />
A volte mi perdo nei vecchi tempi della mia baia<br />
delle mie ombre che raccontano dei miei anni da Anticristo.<br />
Oggi resta solo una barba dal colore indefinito e le mie riflessioni<br />
sulla redenzione sterile da qualche parte nel porto di Valparaíso.<br />
YVES PRIÉ<br />
Nato nel Nord della Bretagna nel 1949, Yves Prié è poeta, operatore culturale ed editore. Nel 1981 ha<br />
fondato le Edizioni Folle Avoine. Parallelamente prosegue la sua opera poetica: sei raccolte per le edizioni<br />
Rougerie e l’ultima, Seul tissan sa nuit, per l’editore Thierry Bouchard. Le poesie tradotte sono tratte da La<br />
nuit des pierres (2002); le ultime due fanno parte della serie Figure assenti della stessa raccolta.<br />
I PRIGIONI DI MICHELANGELO A FIRENZE<br />
I corpi fuggono dal blocco<br />
senza lasciarlo<br />
Nascita prigioniera della propria origine<br />
Un braccio si contorce<br />
per il dolore dello strappo<br />
Il movimento lento<br />
ritorna nel silenzio<br />
e scava la culla di marmo<br />
VICINO AD ASSUAN...<br />
Vicino ad Assuan c’è un obelisco incompiuto. Inutile, riposa nella sua culla. Una cattiva crepa l’ha destinato<br />
ad essere una rovina per sempre. Si potrebbe pensare a un gesto goffo dell’artigiano, oppure a un calcolo<br />
sbagliato del maestro che avesse sottovalutato le tensioni che l’attraversavano. Da parte mia, preferisco<br />
vederci l’ultimo sussulto della pietra rifiutando il destino cui era destinata, una disperata resistenza alla<br />
40
volontà dell’uomo. Rimane, inalterabile, offerto alla curiosità di tutti. Illustra il fallimento eterno dei nostri<br />
fasti, delle nostre grandezze.<br />
Invidiamo a queste pietre la loro eterna bellezza dopo il lavoro dello scultore, ci meravigliamo<br />
dell’intelligenza della mano che ha guidato lo strumento. La pietra d’Assuan c’impone la verità della materia<br />
bruta, la vita del blocco prima del taglio, la segreta rete di forze, la sua lotta contro lo scalpello e il desiderio<br />
dello scultore.<br />
KERLOUAN<br />
I<br />
Niente tranne<br />
il rantolo della notte<br />
e il fuoco che si consuma nel camino<br />
Il granito veglia<br />
In un costante sussulto<br />
rifiutano l’onda<br />
che alla fine vincerà<br />
II<br />
Ascolta – l’ombra arriva<br />
Al silenzio delle pietre<br />
tu opponi il canto della spalla<br />
Ignora qualsiasi minaccia<br />
e del sogno della notte<br />
conserva i doni<br />
La porta addolcisce<br />
l’angolo del granito<br />
III<br />
Nella lenta scomparsa del giorno<br />
noi consumiamo l’ombra<br />
di certe rocce<br />
restie alla luce<br />
Non sappiamo quali strade<br />
ci conducono<br />
fin qui<br />
sulla soglia dell’orizzonte<br />
Quasi<br />
ci confondiamo<br />
per un muro<br />
pietra su pietra<br />
costruito<br />
Non siamo altro che<br />
una veste della notte<br />
che ignora la lampada<br />
e la luce diffusa dalle stelle<br />
FIGURE ASSENTI<br />
Acefali, fanciulli della notte, perché era necessario impedirvi di vedere? Chi l'ha deciso così?<br />
Divorati dalla collera di un dio, voi non vi lasciate dietro altro che la malinconia, il rimpianto di ciò che poteva<br />
essere un destino diverso, l'insonnia cronica che rode la notte.<br />
41
Il vostro ridicolo abbigliamento guerriero non può ingannarci; è dalla sofferenza che voi non siete in grado di<br />
proteggervi.<br />
***<br />
Esiliati da voi stessi<br />
posate alle soglie<br />
dei vostri desideri<br />
una mano muta<br />
Lassù una fioritura di stelle<br />
sorregge il cielo<br />
***<br />
Il suolo che vi accoglie è una barca incagliata. Inutile nei mulinelli dell'aria, il suo velo strappato schiaffeggia<br />
il vostro viso assente. Una volta voi appartenevate al bagliore... Votati a un impossibile ricerca, la vostra<br />
armatura non vi salverà di un avvenire di polvere.<br />
***<br />
Il cielo è immenso<br />
per coloro che hanno cancellato<br />
i limiti<br />
Senza uno sguardo senza un grido<br />
essi affrontano i giorni<br />
di un corpo di pietra<br />
Subito giacenti<br />
prima dell'alba delle leggende<br />
e a un tratto abbandonati<br />
al loro avvenire disertato<br />
***<br />
Afferrandovi<br />
la morte racchiude il suo vuoto<br />
JORGE ARTURO<br />
Nato in Costa Rica nel 1961, Jorge Arturo è co-fondatore e direttore del collettivo Kasandra e dell'omonima<br />
rivista, che uscì negli anni 1989-1990; attualmente dirige la casa editrice Alambique. Ha partecipato al XVI<br />
Festival di Poesia Internazionale di Medellín (Colombia) nel giugno del 2006. Ha pubblicato le seguenti<br />
raccolte poetiche: Se alquila esta ventana (1988), Un paraguas llamado Adrián (1989), El blues del aprendiz<br />
(1992), Perrumbre (1994), De un solo lado/La casa del tejedor (2001), El país de los ausentes (2002),<br />
Dorsal (grafica e poesia, 2002) e La horda del yo (2004). Le poesie tradotte sono tratta dal suo ultimo libro.<br />
SPECCHIO<br />
Un topo mi basta per creare un impero<br />
un sorriso per distruggerlo<br />
L'amore quando è possesso è vanità<br />
Tutto quello che ho – e che non ho –<br />
non basta per entrare nel cuore altrui<br />
Tutto quello che sono – e che non sono –<br />
mi basta appena per palpitare<br />
Un'ombra come un topo<br />
42
e una bocca luminosa dentro di me combattono<br />
la prima cerca di entrare<br />
la seconda di uscire<br />
Tutto sul filo del presente<br />
con il mio sangue<br />
come unica risposta<br />
IL SEMITA<br />
I<br />
Il mio amico bacia la mia mano<br />
e la luna offre il suo dattero di smeraldo<br />
Il mio amico bacia la mia mano<br />
e una nuvola chiacchiera con un cane<br />
Il mio amico bacia la mia mano<br />
e una parola cavalca<br />
nella la steppa del suo cuore<br />
Il suo Dio bacia la sua mano<br />
una palma si china verso la sabbia<br />
il sole è un avvoltoio di diamanti<br />
Il mio amico è una spada<br />
dove riposa il mio teschio<br />
e si prepara<br />
per riunirci nel chiasso della polvere<br />
Soltanto il suo Dio rimane Uno<br />
II<br />
Nodi di splendore tra le vene<br />
del bambino che nell'uomo è nodo<br />
nel<br />
suo<br />
mutismo<br />
di terra<br />
nel mormorio della luce<br />
che è nodo d'amore dentro il soldato morto<br />
dentro mia figlia nuda<br />
nello spirito implacabile dove il mio amico sogna<br />
e ci inventa<br />
nodi<br />
della pietra<br />
dove il sole si abbevera e si rivela<br />
Nodi<br />
di cosmo<br />
polline<br />
Nel lasciare andare<br />
nel poter tornare<br />
III<br />
nodo di parole: la spada<br />
nodo di cuore: il figlio<br />
nodo di sole: la pietra<br />
nodo di leone: il gatto<br />
nodo di principe: il silenzio aperto dall'amico<br />
nodo di uccelli: il sangue<br />
nodo di vita: l'istante in cui tutto muore<br />
43
IV<br />
e acque di germogli d'arancio<br />
per i nodi del cuore<br />
e per il mondo che gira<br />
BUSSOLA<br />
Un uccello di cristallo si slancia sulla pietra<br />
verde<br />
svolazza<br />
la feconda<br />
La pietra si apre:<br />
qualcosa come una mano si tende verso di me<br />
Un uccello di cristallo<br />
una parola<br />
vola nel cielo della mia mente che è la pietra<br />
PREGHIERA<br />
Chi mi parla con la bocca morta nella luce<br />
Chi si esibisce si offre si vende<br />
Chi non ha prezzo<br />
Chi mi parla con la sua pietà scarna<br />
e spinge il vortice<br />
Chi vive di ritorno<br />
Chi mi accompagna chi mi regge<br />
chi affonda la sua verità di fronte ai miei piedi<br />
come fosse mia<br />
Chi mi parla<br />
Chi mi ascolta<br />
Chi accumula le forze<br />
se non il taglio<br />
Chi quello della magia<br />
se non chi si raccoglie<br />
dopo lo spargimento di viscere per terra<br />
Chi ha bisogno di un dio<br />
se non quello che già ce l'ha<br />
Chi scrive<br />
se non il proprio cadavere<br />
RAMI SAARI<br />
Nato nel 1963 in Israele, Rami Saari è poeta, traduttore e linguista. Ha studiato Linguistica semitica e uralica<br />
presso l’Università di Helsinki, Budapest e Gerusalemme, e ha conseguito il dottorato di ricerca in Linguistica<br />
presso l’Università di Gerusalemme. Ha pubblicato cinque raccolte poetiche, tra cui si ricordano Behold, I've<br />
Found My Home (1988) e So Much, So Much War (2002); ha tradotto circa trentacinque libri dall’albanese,<br />
finlandese, greco, ungherese e spagnolo. Dal 2002 è curatore delle pagine di poesia israeliana sul sito<br />
. Nel 1996 e nel 2003 è stato insignito con il Premio di Letteratura del Primo<br />
Ministro. Tutte le poesie scelte sono tratte dalla raccolta Sotto i piedi della pioggia, del 2005.<br />
A VOLTE HELSINKI<br />
A volte Helsinki è una città che stanca.<br />
È stanco il corpo. È stanca ormai anche la vita.<br />
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Adesso è preparata per farsi togliere come un capello<br />
caduto per caso nell'impasto: disposta a essere ricacciata<br />
in un mondo delizioso, in un albergo a tantissime stelle.<br />
Perché la tristezza è un'ansia che prude<br />
quando vai verso un luogo inesistente,<br />
verso una regione che ha poche insegne e tanti uccelli,<br />
una città dal piumaggio blu che vola, sempre bella,<br />
e non si stanca, andando sempre più in là,<br />
sempre moltiplicandosi.<br />
AUTUNNO IN UN PAESE LONTANO<br />
Durante l'estate credevo non mi mancasse nulla.<br />
Ora lo so: mi trovo sempre lontano.<br />
Mia madre era solita dire:<br />
Impara a camminare nelle strade straniere.<br />
Non sarai mai diverso, non sarai mai tedesco.<br />
Attraverso le stazioni,<br />
attraverso i boschi<br />
dico soltanto<br />
"io".<br />
IO<br />
Non sono il cammino, sono il viaggio,<br />
dai balconi della morte<br />
verso la parete anonima.<br />
Non sono il vero messia<br />
né la maledizione dei falsi profeti.<br />
Sono le parole necessarie<br />
e la poesia incompiuta.<br />
Sono colui che urla,<br />
colui che attraversa il sentiero con un lamento<br />
con sapore di amido in bocca<br />
e di fronte la densa nebbia ungherese.<br />
IMPRIGIONATO<br />
Sono qui imprigionato. Qui, sopra questa terra vecchia<br />
e nuova, nelle notti sale il vapore. Il vapore va in esilio, arrivano<br />
i testimoni, e i laghi ribollono; ormai cediamo la nostra gioventù,<br />
bosco, cediamo l'amore. Qualcosa di più duro della roccia<br />
e molto peggio dell'uomo si alza dal letto del cuore<br />
e va avanti. La neve soffia sulle alte foglie:<br />
sono abbandonati i bambini nel bosco, quanto sono sole<br />
le foglie del mondo! Verso nord, verso nord.<br />
Senza finestre, senza porte, senza steccati.<br />
Ogni cosa è circondata dal dio verde e dal silenzio.<br />
Finché un urlo improvviso squarcia questa pace:<br />
sono un orso imprigionato nella gabbia del bosco,<br />
davanti a me ci sono gli alberi che mi accusano.<br />
E questa fu la sentenza del silenzio: La porta ormai è chiusa.<br />
POESIA PER JAÍM (3)<br />
Raccontami le circostanze della tua morte, Jaím,<br />
come ti hanno circondato in mezzo al blu, così lontano<br />
dalla nostra città natia,<br />
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tra grattacieli e pareti di nubi<br />
di fronte a larghe frange di mare.<br />
Lascia che per una volta possiamo camminare<br />
dietro le piante di agrumi<br />
dietro anni pieni di un anelito che uccide<br />
sapendo che non è finita la canzone<br />
perché nella città amata<br />
la gente continua a uscire<br />
dal buio delle sale cinematografiche<br />
nella luce celeste del giorno<br />
così un giorno<br />
la vedremo la nostra amica<br />
e insieme andremo a spasso<br />
come Donna Flor e i suoi due mariti:<br />
tu, lei, io<br />
andremo a perderci tra la gente<br />
in viali colmi di aranci<br />
e di luce palpitante senza fine.<br />
LE STRADE SI STANNO GHIACCIANDO<br />
Le strade si stanno ghiacciando.<br />
Le attraverso a piedi e penso alla mia prima professoressa di ungherese.<br />
Adesso vive a Nyíregyháza (4) in una casa circondata da roseti,<br />
dall'intonaco scrostato. Aveva una voce molto affettuosa<br />
mentre leggeva la poesia Segreti di Attila József (5).<br />
La sua testa mi sembrava un cipresso frondoso<br />
dove avrei voluto fare il nido.<br />
Muoio di freddo. Credo che oggi ci sia il pesce<br />
alla mensa universitaria. Penso<br />
alla mia prima professoressa di ungherese<br />
e vorrei che fosse qui<br />
a lenire con i suoi baci le mie cicatrici.<br />
NELLA PICCOLA CASA DI VIA JALAFTA<br />
I pomeriggi trascorrono serenamente<br />
nella piccola casa di via Jalafta.<br />
Gli amici vanno e vengono con piacere e profumo di mirra.<br />
La palma crea una corona di pioggia trasparente.<br />
Le rose quasi invadono la casa.<br />
E nelle sere di questo infinito autunno<br />
mi trovo sempre sul balcone<br />
a guardare di fronte a me le luci di Talpiot (6),<br />
a pensare in quale stagione ti troverai adesso,<br />
alla tua scomparsa, come la vita.<br />
ELOY SANTOS<br />
Nato a Salamanca nel 1963, Eloy Santos si è laureato in Filologia romanica presso l’Università della sua città.<br />
Ha vissuto a Roma la maggior parte della sua vita, per cui molte sue poesie sono apparse in traduzione<br />
italiana prima che in spagnolo. Con la raccolta donde nadie dice ha ottenuto il I premio Alonso de Ercilla nel<br />
2003. Attualmente vive a Salamanca. La poesie tradotte sono tratte dal suo Libro de olas (2006).<br />
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I BOSCHI DELLA TUA VOCE<br />
I boschi della tua voce, senz'altro.<br />
Uccelli, per esempio, attardati<br />
in vecchi pentagrammi che la tua bocca<br />
irrequieta libera dalla gabbia per nessuno,<br />
per te sola. Navi, per esempio,<br />
golette verso il sud della nostra rabbia,<br />
quasi dettando il mare dei Sargassi<br />
in questo porto solo e vorace della pagina.<br />
Le tue mani, per esempio, in un’altra notte,<br />
venendo dall’oscurità fino alla musica<br />
che solo per il dio più crudele si danza,<br />
quando la pelle è semina ed è seme<br />
di un essere che ci confonde, e siamo noi stessi<br />
nel mortale abbraccio di esser vivi.<br />
Le tue labbra questa sera, per esempio,<br />
le palme, la mia sete come gabbiani<br />
intorno alla tua finestra d’acqua scura,<br />
flusso dove si cela un pesce d’oro pirata<br />
e un arpione che ho perso quand’ero coraggioso,<br />
ed ero segreto e tuo.<br />
CHIARO DI LUNA<br />
Una donna si culla tra le mie ciglia,<br />
accende cordigliere nelle nubi<br />
col suo sapone di luna, mentre soffia<br />
la brezza di un crepuscolo futuro,<br />
e brama il mare, e si frange contro il sogno.<br />
Ovunque guardi sta pulendo<br />
le mie palpebre da sabbia e da timori.<br />
Sulla tela del mondo veglia e tesse<br />
accordi per amare l'ignorato.<br />
GLI UCCELLI<br />
Principi dell'aurora piccolissimi,<br />
araldi di follia alla mia finestra,<br />
acqua dolce che nel piovere sul sogno<br />
lo pulisce dal limo.<br />
Sono gli uccelli<br />
che ci chiamano alla genesi, al volo,<br />
alla disubbidienza.<br />
Chi mai potesse<br />
fare del cuore un nido come allora,<br />
mutarsi in aria, piuma, schiamazzo,<br />
su ogni pioppo inventare un aprile<br />
mettersi tutto nella stagione,<br />
e dopo,<br />
tornare alla neve, ammutolire senza tracce...<br />
Chi mai potesse<br />
abbandonarsi al giorno sui balconi,<br />
sui confini del verso.<br />
Così voialtri, che adesso azzardate<br />
selvatiche armonie presso l'alba<br />
appena nata e rosa, intarsio<br />
inaugurale del trillo sul tempo che rinasce,<br />
sollecitata e madre fenice.<br />
Chi mai potesse<br />
ardere a nuda voce nel mattino,<br />
partecipare senza nome nell'azzurro spartito,<br />
in mille lingue letto, che la luce<br />
47
spartisce tra le sue guardie.<br />
Il vostro clamore, che va alla ricerca dei dormienti,<br />
è l'antica verità degli insonni.<br />
GAGAKU (7)<br />
Questo incantesimo di vento e di betulle,<br />
questa allucinazione, acquazzone sonoro,<br />
questa dolcezza fu brezza a Cipango<br />
un millennio fa. E strappò al ciliegio<br />
il suo ultimo fiore, stella esausta e sola<br />
dinanzi ai piedi di un musico della corte.<br />
Con le dita tremanti verso il calamo<br />
e ritorno ai fogli delle note<br />
lasciò quel giorno un segno verticale<br />
con cui diceva la pioggia, la pozza, il cielo,<br />
l'alta calligrafia delle selve.<br />
Così che ora la fugacità<br />
descritta da un infelice uomo<br />
mi attraversi e possa disfare la distanza<br />
tra quel che non esiste e quel che fugge<br />
in questa assorta sala di concerti,<br />
e le stupite file<br />
ascoltino commosse la lingua morta,<br />
la leggerezza senza tempo di quella sera Heian<br />
che viene a scompigliarci dopo mille anni<br />
senza che sappiamo spiegare perché<br />
né come può restituirci<br />
dal nulla il profumo dei tigli.<br />
NEL NOME DI NESSUNO<br />
So che nel nome di nessuno nasce il verso,<br />
che neanche chi lo rassetta e dice<br />
viene da lui rappresentato, malgrado la prima,<br />
menzognera persona che lo abbellisce.<br />
Botanica verbale, dall'anima proviene.<br />
Con me, contro di me, attraverso di me.<br />
Arriva nella pagina, e da solo si salva,<br />
senza sapere in quali abissi ha le radici,<br />
né dei suoi pori aperti alla luce delle sillabe<br />
che gli dei distillano sopra le rose.<br />
Se qualcosa siamo, siamo solo terra,<br />
morbida o vulcanica, argilla o torba,<br />
dirupi o renai dove l'albero<br />
della voce sorge, si sostiene, cresce<br />
secondo la nostra misura, il nostro seme.<br />
Se non posso essere un olmo, che l'alito<br />
che vive in me fiorisca nell'acqua<br />
minima dei cardi o dell'agave,<br />
che non ceda alla brina, alla siccità,<br />
che non lasci esaurire la sua fragile linfa.<br />
Con la gola e con gli occhi dicono<br />
i bimbi le loro canzoni, sollevano le mani<br />
nell'aria che li chiama. Lo stesso gioco<br />
raccontiamo con parole che la brezza<br />
ci lascia tra le labbra, ragnatele<br />
dove la carne canta la bellezza<br />
d'essere il mondo e nulla, semenzaio<br />
48
dove germina solo<br />
la vita da noi ceduta al caso.<br />
SAMER DARWICH<br />
Samer Darwich, nato in Libano nel 1965, si laurea in Giurisprudenza nel 1990 all’Università Libanese di<br />
Beirut, e in lingua spagnola all’Università Cervantes di Madrid. Scrive sia per riviste letterarie che per<br />
periodici, collaborando in primis con il giornale di lingua araba Al Nahar.<br />
La sua prima raccolta di versi, Finestra in un muro, è stata pubblicata in arabo nel 2004 e poco dopo tradotta<br />
e pubblicata in Francia (Fenêtre dans un mur, 2005). I testi qui presentati sono tratti da quest'ultima<br />
versione francese.<br />
NELL'OMBRA DI UN UOMO SOLITARIO<br />
Gli alberi si aggrovigliano<br />
i destini stagnanti si rifugiano<br />
nell'ombra di un uomo solitario<br />
e piangono in silenzio<br />
Nell'ombra di un uomo solitario<br />
le giornate trapassano<br />
senza chiedere permesso<br />
e cadono nel mare della memoria<br />
Nell'ombra di un uomo solitario<br />
i pensieri si disperdono<br />
i sentimenti straripano come fiumi<br />
e le nubi sono piogge di lacrime<br />
Nell'ombra di un uomo solitario<br />
un uomo che cerca se stesso<br />
e con le dita tocca il muro<br />
della solitudine che divide<br />
il suo Io dalla Verità<br />
e si frappone tra lui e i suoi piaceri<br />
Nell'ombra di un uomo solitario<br />
un uomo incontra se stesso<br />
si libera dalle catene<br />
cerca una finestra<br />
per misurare la profondità del baratro<br />
e trapassare il muro<br />
Nell'ombra di un uomo solitario<br />
un uomo decide<br />
di sollevare la pietra<br />
per abbattere il muro<br />
NON SONO UN ALTRO<br />
Chi sono nella lunga notte dell’inverno?<br />
Chi sono nel letto di rose di seta e di gelsomino?<br />
Chi sono negli occhi di un’altra straniera che guarda<br />
nella mia direzione?<br />
Chi sono all’età di 20 o 30 anni?<br />
Chi sono io per essere io stesso oppure non esserlo?<br />
Chi sono nel gioco di me di te dell’altro?<br />
L’altro di cui non mi separa se non la parola “me”.<br />
Chi sono nella notte della straniera addormentata<br />
sul letto dei miei sogni?<br />
49
Chi sono nella monotonia dei giorni dei mesi degli anni?<br />
Chi sono in mezzo a questa perdita<br />
a questa nostalgia?<br />
Per me è sufficiente viaggiare<br />
nel segreto del mio essere<br />
Per me è sufficiente interrogare<br />
NELL’ARMADIO DI MIA MADRE...<br />
Nell’armadio di mia madre<br />
Una piccola foto mia<br />
Il profumo di certi souvenir<br />
E una pinzetta per le sopracciglia<br />
Nell’armadio di mia madre<br />
Lacrime prosciugate nei giorni<br />
E poi scoppi di risate complici<br />
Echi sgranati nella sfilza degli anni<br />
Nell’armadio di mia madre<br />
Un pizzico di nostalgia<br />
Di vestiti invernali<br />
Mio padre li ha lasciati<br />
Quando se n’è andato<br />
E il suo rosario e il suo orologio<br />
Che ancora funziona<br />
Nell’armadio di mia madre<br />
Una piccola farfalla<br />
Con la quale io mi divertivo<br />
Nei giorni primaverili<br />
E una scacchiera<br />
Sulla quale i miei fratelli vincevano<br />
Chimeriche battaglie<br />
Nell’armadio di mia madre<br />
Il mio quaderno della scuola<br />
Tuttora leggibile<br />
Malgrado le pagine ingiallite<br />
Nell’armadio di mia madre<br />
Un talismano e uno specchio<br />
E abiti da prete<br />
Un libro di invocazioni<br />
E la sua foto prima di divenire<br />
La moglie di mio padre<br />
IN QUESTI TEMPI MALVAGI<br />
Un cuore di donna<br />
Una mano di boscaiolo<br />
E una pietra<br />
In questa bassa marea costante<br />
Le onde chiamano in aiuto la luna<br />
Il mare canta la sua canzone abituale<br />
La diffonde sullo spazio del tuo petto<br />
Canzone promessa al vento<br />
Lei si prolunga io mi dilungo<br />
Fino a che ti sfioro<br />
E non è tutto<br />
Ciò che si può trovare<br />
Nell’armadio di mia madre<br />
50
Sull’orizzonte lontano<br />
Ché la penna mi conduce<br />
Ché le nuvole versano su di me<br />
Una pioggia di fiori<br />
Io mi smarrisco nelle tue ombre<br />
Prima che si faccia giorno<br />
Vengo sotto l’ombra dei tuoi occhi... vengo<br />
Le onde non mi respingono più<br />
Neanche i pensieri<br />
Né la falce nella mano del boscaiolo<br />
Né il vuoto detonante<br />
Nel silenzio delle pietre<br />
Io sono arrivato nei tempi malvagi<br />
Del turbamento delle tragedie<br />
E della sottomissione<br />
Ma io arrivo sotto l’ombra dei tuoi occhi<br />
Per lavare la mia polvere<br />
Per immergermi nella luce del tuo volto<br />
Per spogliarmi della verità nera del giorno<br />
Mi allontano dai rumori della città<br />
Mi libero di tutti gli sguardi del rancore<br />
Per rinascere fuori<br />
da questi tempi malvagi<br />
YASUHIRO YOTSUMOTO<br />
Poeta, traduttore, saggista, fotografo, pubblicista, giornalista, Yasuhiro Yotsumoto è nato a Osaka, in<br />
Giappone, nel 1965. Comincia a scrivere poesia ancora adolescente, ma la sua prima raccolta poetica viene<br />
pubblicata solo nel 1991. La sua attività culturale, molto ampia, comprende tra l'altro la pubblicazione di un<br />
saggio sulla vita e l’opera di Rin Ishigaki, collaborazioni poetiche internazionali, concerti e recital insieme al<br />
pianista jazz Kensaku Tanikawa, mostre personali di fotografia.<br />
Ha vinto alcuni prestigiosi premi, come il Nokahara Chuya Award, il Takami Jun Award, e il premio letterario<br />
Suruga Baika Bungaku.<br />
Tra le sue raccolte, si ricordano A laughing bug (1991), Afternoon of forbidden words (2003), Golden Hour<br />
(2004), Starboard of my wife (2006). È tradotto in dieci lingue, tra cui inglese, tedesco, francese, romeno.<br />
Dopo aver vissuto dieci anni negli Stati Uniti, si è trasferito in Germania, a Monaco di Baviera, dove<br />
attualmente risiede. Le poesie qui riportate sono state tradotte dalla versione inglese del suo ultimo libro,<br />
Samurai in Manhattan and other poems (2006).<br />
ASCOLTANDO MIA MOGLIE<br />
Sono stanca<br />
di mangiare pasti ogni giorno<br />
non mi sto lamentando del lavoro,<br />
semplicemente non ne posso più<br />
di questa cosa di avere fame.<br />
Mi chiedo come si sentono gli animali<br />
quando sono affamati o doloranti.<br />
Mia figlia ha dovuto aspettare l’autobus in ritardo per la neve<br />
per un’ora a una temperatura sotto zero.<br />
Diceva «Era freddo», semplicemente e come un dato di fatto<br />
come se in realtà il suo vero io fosse stato da un’altra parte.<br />
Sembra che mio marito pensi che è un peccato<br />
che io non abbia un buon amico uomo.<br />
Grazie per la comprensione, ma<br />
io ho mie private relazioni con<br />
il silenzio, che striscia fino in cucina il pomeriggio<br />
e con gli alberi, che attorcigliano i loro corpi come in agonia<br />
51
in qualche notte tempestosa.<br />
Non riesco mai a capire quelle donne<br />
che hanno terrore del sole e lo evitano perché dà<br />
loro bolle e lentiggini.<br />
Io adoro fingermi morta stando sdraiata su una spiaggia bollente.<br />
Si metterà in imbarazzo un’anima se il corpo si scioglie<br />
come burro e<br />
la pelle dell’anima, sottile e libera dalle rughe, rimane esposta?<br />
È ancora un mistero per me, il modo in cui funziona il mercato azionario,<br />
ma sento gli ululati della gente che gli si raccoglie intorno.<br />
Fanno festa come un coro alla necropoli in cima alla collina<br />
e apprezzano il varo di una nave nell’oceano.<br />
I miei intestini sanno cosa fare dopo<br />
senza nemmeno permettere alla mia testa di pensarci su.<br />
Ma poi com’è che mi sento così sottosopra<br />
quando provo ad alzarmi in piedi?<br />
Guarda, una farfalla.<br />
LA FARFALLA – PER UNA RAGAZZA DI GERUSALEMME<br />
Con un’improvvisa folata di vento, io<br />
vengo gettato in aria. Il mondo<br />
è attorcigliato e perde la sua forma. La donna<br />
di mezza età che stava chiacchierando sul suo telefonino,<br />
stava piangendo e urlando, macchiata di sporco e strisce di sangue. Un ragazzo riccioluto<br />
non si muoveva, sdraiato sulla pancia. Serie di sirene<br />
venivano nella nostra direzione, i soldati<br />
correndo ci oltrepassarono, urlando e strillando. I miei occhi<br />
stavano filmando tutto questo da sotto il pelo dell’acqua fredda.<br />
«Niente ferite esterne, solo<br />
rotture ai polmoni e ai reni», disse un giovane medico<br />
risentito, picchiettando il mio petto. Io<br />
seppi sul momento che mi si era appena svegliata, la farfalla con cui ero nato e che mi ero tenuto sempre<br />
dentro. Elicotteri<br />
facevano cerchi infiniti sopra la mia testa. La farfalla<br />
aprì le sue ali dentro il mio petto. Il silenzio<br />
riempì tutto, ed era così profondo che se tu l’avessi ascoltato,<br />
l’odio<br />
sarebbe appassito, insieme al coraggio<br />
di amare. Cocci di vetro<br />
luccicavano per la strada. Madre!<br />
Madre! Mentre un gigantesco limite blu<br />
avanzava verso di me, la farfalla<br />
vibrò.<br />
SEGRETI<br />
Mia moglie e mia suocera, cioè<br />
sua madre guardano i nostri bambini che giocano,<br />
stando l’una accanto all’altra.<br />
Si scambiano qualche parola,<br />
scoppiano a ridere,<br />
e poi cade il silenzio, e rimangono<br />
come canne al vento.<br />
Sovrapponendo i sorrisi che sfumano sui loro visi,<br />
vedo le antiche maschere<br />
un deserto con un seme di rabbia sepolto nel profondo<br />
un lago riempito di impenetrabile rassegnazione.<br />
52
Le due donne non si scambiano nemmeno una parola che sia pronunciata,<br />
i segreti del sangue il serpente i frutti<br />
come una punizione<br />
inflitta solo a chi ha portato vita sulla terra.<br />
Un piccolo cercò di montare su un agnello e quasi cadde,<br />
le due donne immediatamente lo ripresero.<br />
Quel momento da duemila anni<br />
si ripete come un ologramma<br />
nella grotta di questa mattina.<br />
L’AUTOBUS CHE PASSA DA CASA MIA<br />
Come un gran San Bernardo cammina sul marciapiede stretto,<br />
la gente in fila alla fermata dell’autobus<br />
uno dopo l’altro tutti piegano il busto e flettono i ginocchi<br />
come ballando in fila, ma non troppo all’unisono.<br />
È la neve che ha reso il marciapiede stretto.<br />
Li guardo dalla mia macchina, intrappolato nel traffico.<br />
Il cane segue il suo padrone senza chiedere permesso<br />
bassa la testa, fradicio il pelo lungo e folto.<br />
Ho appena mandato i bambini a scuola, mia moglie dev'essere a casa.<br />
Non ho mai visto mia moglie (ovviamente)<br />
sola in casa dopo che io e i bambini siamo andati via.<br />
Quando il cane è passato, la gente<br />
riprende, una persona dopo l’altra, la posizione originaria.<br />
Nessuno sorride.<br />
Si limitano ad aspettare l’autobus in questa gelida<br />
temperatura.<br />
Dovrei fare inversione ora<br />
e tornare a casa da mia moglie? Sorpresa,<br />
lei direbbe qualcosa del tipo “Dimenticato qualcosa?”<br />
“No”, direi io e...beh, la mia immaginazione non andrà oltre.<br />
Non c’è niente che voglia dirle, ho solo voglia di incontrare<br />
questa cosa che non è umana,<br />
che avvolge mia moglie quando è da sola.<br />
Il traffico finalmente ricomincia a scorrere.<br />
L’autobus appare oltre lo schermo della neve<br />
che cade<br />
e noi ci sorpassiamo l’un l’altro.<br />
PHILIP MEERSMAN<br />
Philip Meersman, poeta, studioso di letteratura contemporanea, conferenziere, consulente culturale e<br />
direttore artistico, è nato il 5 maggio 1971 a Sint-Niklaas, in Belgio, si è laureato in Giurisprudenza nel 1992<br />
e attualmente lavora nel Dipartimento Fiammingo degli Affari Esteri. Dal 1984 è attivo nei campi del teatro,<br />
la poesia e le arti plastiche. Ha fondato i gruppi di attività culturale JAS e EXTOS, mediante i quali ha<br />
lavorato alla ricerca e promozione di autori nuovi o sconosciuti. Come attore ha recitato in 17 opere. Come<br />
direttore e drammaturgo ha creato diverse opere per le suddette associazioni culturali ed è stato invitato in<br />
Bulgaria dallo scrittore Rumen Shomov.<br />
Ha pubblicato 3 raccolte poetiche: Postume Brief aan Mezelf (Posthumous Letter to Myself, 1989), Speelse<br />
Ogen Doven (Playful Eyes Faint, 1996), e The BG-Files – PART I, 2003-2005 (2005). Nel 2006 è uscita una<br />
raccolta in inglese, Selected poems, scelta e versioni d'autore, dalla quale sono state tratte le poesie qui<br />
presentate.<br />
53
GENEROSO<br />
Metrostridente colletti bianchi incollati cottialvapore<br />
scricchiolano le porte<br />
gorgheggiafischiano<br />
metroronzando via se ne va<br />
un’onda oscillante<br />
un tintinnio<br />
per la moneta che suona<br />
La scatola di cartone<br />
isolata<br />
da informazioni e illustrazioni<br />
s’immerge<br />
in mille calpestate alluvioni<br />
il senzatetto bestemmia sottovoce<br />
si sposta in silenzio<br />
desidera in segreto<br />
essere a Atjeh<br />
SE IO<br />
Se io fossi una pianta<br />
crescerei per te<br />
profumerei vistosamente per te<br />
ti darei il benvenuto<br />
ti nutrirei<br />
Però<br />
se io<br />
non lo fossi?<br />
Se io fossi un ruscello<br />
serpeggerei per te<br />
scorrerei silenziosamente per te<br />
ti disseterei<br />
ti rinfrescherei<br />
Però<br />
se io<br />
non lo fossi?<br />
Se io fossi un sasso<br />
giacerei per te<br />
sarei pietra per te<br />
costruirei per te<br />
ti appoggerei<br />
Però<br />
se io<br />
non lo fossi?<br />
Se fossi una nuvola<br />
pioverei su di te<br />
ti terrei all’ombra<br />
ti rinfrescherei<br />
ti seguirei<br />
Però<br />
se io<br />
non lo fossi?<br />
Se io fossi una fiamma<br />
brucerei per te<br />
54
sarei un faro per i tuoi sentimenti<br />
illuminerei i tuoi passi<br />
ti riscalderei<br />
Però<br />
se io<br />
non lo fossi?<br />
Se io fossi una stella<br />
brillerei per te<br />
creerei costellazioni per te<br />
canterei di te<br />
ti orienterei<br />
Però<br />
se io<br />
non lo fossi?<br />
Se io fossi una noce<br />
mi lascerei schiacciare da te<br />
mi ibernerei per te<br />
mi farei mucchio per te<br />
getterei radici per te<br />
Però<br />
se io<br />
non lo fossi?<br />
Se io fossi un sogno<br />
dormirei per te<br />
raccoglierei immagini per te<br />
ti cullerei<br />
ti consolerei<br />
Però<br />
se io<br />
non lo fossi?<br />
Se fossi un uomo<br />
ti sequestrerei<br />
e sarei il tuo liberatore<br />
ti porterei con me<br />
ti sposerei<br />
Però<br />
se io<br />
non lo fossi?<br />
LA FANCIULLA E LA CROCE<br />
lei parla, lei sente<br />
la sua casa il suo cuore<br />
Sposata a quello dell’affresco sul soffitto<br />
lei guida<br />
scrittori terreni<br />
nel paradiso dipinto<br />
dei secoli persi da tanto<br />
di un principe nella tomba<br />
di una vergine incinta<br />
di una pittoesultanza umana<br />
Questa chiesa a croce greca<br />
ha deformato il suo viso<br />
per metà divino<br />
ingenuo e senza parole<br />
55
per metà umano<br />
in Lingua Franca<br />
lei parla di anni passati<br />
33 anni di tempi velocemente andati.<br />
Lei sembra essere la<br />
voce della chiesa<br />
questo posto la sua casa<br />
queste mura i suoi guardiani<br />
Se mai lei se ne andasse<br />
il cancello aperto<br />
lei distruggerà<br />
diventando la polvere<br />
la sua vita perduta<br />
Ho visto questa visione<br />
ad ogni costo<br />
serenità testimoniata<br />
ho sentito umanità<br />
come Ebrei e Musulmani e<br />
Cristiani e Ortodossi<br />
sono diventati mistici<br />
vicino alle montagne<br />
in un cortile<br />
chiamato<br />
Curtea de Arges<br />
impresso<br />
stampato<br />
sigillato<br />
chiuso<br />
abbracciato<br />
il mio cuore sta<br />
con lei nella sua chiesa<br />
quando i cancelli si chiudono uudono<br />
uuuuuuuuuuu-ddonoooooooooooooooooooooooooooooooooooo<br />
NOTE.<br />
(1) Carl Gustav Jung, Psicologia e poesia, Torino, Biblioteca Boringhieri, 1988, p. 70 e ss.<br />
(2) La parola, inesistente in inglese, almeno finora, si può tradurre in italiano con un altro sostantivo calcato sul<br />
femminile e inesistente al maschile (finora), quale massaio, o casalingo. L'affermazione di Yasuhiro Yotsumoto si trova<br />
negli atti del Festival Internazionale di Poesia di Bucarest, a cura di Dumitru M. Ion e Carolina Ilica, Edizioni<br />
dell'Accademia Internazionale Orient-Occident, 2006.<br />
(3) Jaím: nome maschile in lingua ebraica che significa "vita" (N. dell'A.).<br />
(4) Città nel Nordest dell'Ungheria (N. del T.).<br />
(5) Attila József (1905-1937) è il massimo esponente di una tendenza poetica associata agli ideali della rivoluzione<br />
socialista, che racconta la realtà quotidiana dei contadini e degli operai, della gente che patisce, con lucida e disperata<br />
chiaroveggenza. (N. del T.)<br />
(6) Talpiot è un quartiere di Jerusalem (N. dell'A.).<br />
(7) Stile di musica cortigiana propria del Giappone nel periodo Heian (794-1185). Sia gli strumenti impiegati<br />
dall'orchestra che la base armonica e le scale mettono in evidenza una sensibilità molto lontana, se non<br />
completamente diversa dalla tradizione musicale occidentale, e molto legata ai suoni e alla contemplazione della<br />
natura (N. dell'A.).<br />
56
L'INCOMPRENSIBILE E LA TRADUZIONE<br />
Due fatti, tra tanti, s’inscrivono nell’idea di passaggio, di transito: il fatto che qualcosa è lasciato – per<br />
sempre oppure nella speranza di un prossimo ritorno là, dove si è partiti; il fatto che una novità è attesa,<br />
cercata, tentata. Il passaggio, il transito si danno in ogni partire. E partire e ri-partire è il gesto che<br />
scandisce giornate e quotidianità fatte di incontri ed inizi destinati a far riaccadere un usuale che in esse<br />
si destina a tornare nuovo. Persino nello scorrimento banale delle solite cose c’è un ripartire, e c’è il<br />
mordente desiderio d’indefinita attesa che la banalità torni ad essere ciò che deve essere. Banale, da cui<br />
banalità, è un francesismo coniato a partire da ban, a sua volta eredità del latino bannum. Banale nasce<br />
dal bando che promulga e rende pubblico ed accessibile a tutti ciò che, fino ad un certo momento, è stato<br />
appannaggio di pochi. Nasce in contesto medievale, ad indicare la possibilità elargita a tutti di usufruire di<br />
forni, fonti e quant’altro fosse esclusivo privilegio e possesso del feudatario. Il bando elargisce e, con<br />
esso, la banalità diventa capace di elargire, dare e concedere a tutti.<br />
Anche la traduzione è banale. Rende accessibile a tutti ciò che sembrerebbe essere destinato soltanto ai<br />
“pochi” che comprendono la lingua in cui una frase è pronunciata o, un testo, scritto. Traduciamo una<br />
richiesta perché questa diventi comprensibile e trovi risposta; traduciamo un testo affinché sia fruibile ed<br />
accessibile, finalmente a disposizione di tutti. La traduzione è, oggi come un tempo, quel bannum che<br />
rende banale e disponibile a tutti ciò che, invece, rischierebbe di essere disponibile a pochi (e per pochi).<br />
Bref, la traduzione rende la banalità ciò che deve essere. Non “il solito scorrere” ma “un mettere a<br />
disposizione” ciò che è “per tutti”.<br />
Che cosa, tuttavia, in questo caso, è banale e “per tutti”? Un testo, una lingua, un linguaggio? Certo, di<br />
diritto dovrebbero essere “per tutti” ma, di fatto, le cose non stanno sempre e “per tutti” così. Di più, non<br />
tutto si può tradurre e, per quanto laconica e superficiale, questa constatazione s’impone. O, forse, ad<br />
essere “per tutti” è altro; non l’immediata ed impossibile disponibilità di tutto a tutti ma,<br />
paradossalmente, proprio quel fondo di incomprensibile che nutre le differenze tra le lingue e i linguaggi,<br />
che rende impervia ogni traduzione, interrogando innanzitutto il traduttore, mettendolo in discussione;<br />
che, in fondo, spinge alla ricerca di “altro”, e dunque al passaggio, al transito. Incomprensibile che tocca<br />
la traduzione perché, in prima istanza, ne tocca o, con un eloquente latinismo, ne affecta (da affectus,<br />
che toccando modifica, cambia, incrementa o decrementa) l’esperienza.<br />
Nella parola esperienza è contenuto il transito, il passaggio verso altro. Esperienza contiene in sé la<br />
radice indo-europea per-, radice che essa condivide con il termine pericolo e che indica anche<br />
l’attraversamento, l’andare per viam, il passare. Così, i termini empereia in greco, experiri in latino,<br />
esperienza in italiano, experiencia in spagnolo… mostrano tutti che ogni volta abbiamo a che fare con la<br />
plurivocità di tale radice, la quale connota, appunto, sia il nemico e il pericolo (periculum) che la<br />
traversata e il passaggio. Ogni esperienza nutre in sé la duplice idea di una traversata pericolosa e<br />
rischiosa, un’apertura verso “altro” ignoto.<br />
L’esperienza perciò è un attraversamento che espone alla novità ma anche al rischio, al pericolo. Fare<br />
esperienza è mettersi in cammino correndo il rischio del fallimento o esponendosi allo scacco; cosa che è<br />
vera anche per l’esperienza della traduzione. Di fatto, la soddisfazione e il piacere che proviamo nel<br />
vedere tradotto un testo, nostro o della nostra tradizione, è alla fine ben poca cosa rispetto allo scacco<br />
che vi cogliamo: nel migliore dei casi talune sfumature linguistiche non sono colte, nel peggiore dei casi il<br />
fraintendimento è sempre in agguato. Inoltre il traduttore si trova a fare non poche scelte e ad affrontare<br />
altrettante difficoltà: impietosamente, infatti, deve scegliere non soltanto tra il senso e la lettera (eterna<br />
croce – senza delizia! – dei traduttori) ma i tra suoni, i ritmi e le parole con le quali deve dire ciò che non<br />
è quasi mai dicibile, in ogni lingua, allo stesso modo (1).<br />
E tuttavia, malgrado ciò si traduce, e non soltanto traduttori ma mercanti, ambasciatori, viaggiatori,<br />
viandanti, spie sono sempre esistiti e sono sempre stati “necessari” all’economia delle vicende storiche;<br />
“personaggi” che hanno, nei secoli, reso “banali” le loro merci e, soprattutto, la loro esperienza. Di nuovo,<br />
allora, la traduzione sembrerebbe essere sempre stata una forma di banalizzazione, quel bannum che<br />
rende qualcosa, in questo caso l’esperienza (anche quella poetica), disponibile a tutti. Sembrerebbe,<br />
tuttavia. Perché in realtà qualcosa cambia, se leggiamo la traduzione come esperienza. Entrambe, è vero,<br />
dicono e fanno accadere un transito, un passaggio. O meglio, l’una lo fa accadere perché l’altra, di fatto,<br />
lo è. In entrambe però accade più di un semplice andare verso e attraverso, come proprio l’origine del<br />
termine traduzione mostra e rivela.<br />
Il verbo tradurre e il sostantivo traduzione sono stati impiegati per la prima volta, nell’accezione che oggi<br />
possiedono, nel XV secolo da Leonardo Bruni. Il quale, nel De interpretatione recta, giustificando alcune<br />
scelte operate nella traduzione di un passo delle Noctes Atticae di Aulo Gellio, utilizza il termine<br />
tra(ns)ducere «nel senso che oggi possiede» (2) contro la tradizione classica secondo la quale<br />
«tra(ns)duco non ha mai avuto il significato di tradurre» (3) e per la quale «il solo rapporto della<br />
traductio con la letteratura […] passava per il tramite della metonimia» (4). Il vocabolario latino (5),<br />
sotto il termine traductio, dà infatti i significati di far passare, e dunque di trasferimento, tropo,<br />
metonimia, ripetizione..., significati che il sostantivo deriva dal verbo tra(ns)duco/tra(ns)ducere e che<br />
dovevano essere certamente familiari e noti ad un umanista del ‘400. Soltanto l’altro ceppo verbale che,<br />
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con ducere, indica l’atto del trasportare e far passare, ossia il verbo ferre, il suo composto transferre e il<br />
sostantivo derivato translatio, possedevano e possiedono il significato di tradurre (secondo l’esempio di<br />
Quintiliano transferre ex Graeco in Latinum). Primo fra tutti Bruni utilizzò il termine tra(ns)ducere nel<br />
significato posseduto da transferre, impiego che è stato definito dal linguista J.-Ch. Vegliante néologique,<br />
conscient nonché heureux, vista la fortuna che la storia gli ha tributato; inoltre, Vegliante lo addita quale<br />
«caso esemplare di traduzione creatrice» (6).<br />
Tradurre è, dunque, far accadere un trasferimento di senso; tradurre è anche attingere alla potenza della<br />
metafora, della metonimia… Non si tratta soltanto di passare – tramite vocaboli o lessici sempre più<br />
specifici ed aggiornati – ad una lingua che è altra, o un rendere disponibile a tutti, ma è un mettere sul<br />
tavolo la posta in gioco del testo da tradurre, la sua complessità, il suo senso e la sua storia. È desiderare<br />
che nella banalità espropriante si acceda al proprium del testo e del suo linguaggio. «Dimmi come<br />
consideri la traduzione e ti dirò chi sei», scrive Heidegger concludendo la Nota sul tradurre redatta allo<br />
scopo di motivare la sua traduzione del coro dell’Antigone di Sofocle (7) (vv. 332-375), in particolare il<br />
celebre neutro tÕ deinÒn, che propone di intendere come «l’inquietante, das Unheimliche» (8). Come<br />
intendere l’ossimoro di una banalità espropriante cui è affidato l’accesso al proprium (del testo e del<br />
linguaggio)? In fondo è questo che l’esperienza della traduzione insegna a chi traduce: quando si è<br />
costretti a dire altrimenti ciò che si è detto; quando si è “costretti” a ripetere ciò che si vuole o deve dire<br />
– insomma, quando si traduce testi e linguaggi o ci si traduce per farsi comprendere meglio, sempre si<br />
parla ad altri per parlare meglio di sé a sé, per accedere – tramite il proprium di altri – al proprio<br />
proprium. Per questo si scrive, si pubblica e si rende pubblico ciò che si ha da dire: perché nella banalità<br />
che estende qualcosa all’uso comune ci si appropri realmente di sé; di quel sé che è veramente sé<br />
quando si comunica, si scopre e riscopre in ciò che dice, scrive e traduce. Insomma, in altro. L’esperienza<br />
e la traduzione come esperienza sono questo banalizzarsi per tornare a sé. Per tornare ad un proprium<br />
altrimenti non conosciuto, non detto. Al proprio incomprensibile.<br />
È l’esperienza di traduttori divenuti essi stessi teorici della traduzione, come nel caso di A. Barman (9); è<br />
anche l’esperienza di poeti, scrittori e filosofi che si sono cimentati nella traduzione, dei quali evitiamo di<br />
proporre l’elenco e la serie di “esempi” che normalmente viene aggiunta, a conferma dell’ipotesi proposta<br />
e sostenuta, a questi nomi (10). Perché tradurre? Sicuramente perché «nessun problema è più<br />
consostanziale con le lettere e col loro mistero di quello che propone una traduzione»: tradurre significa<br />
portare alla luce l’infinita varietà di un testo, mai definitivo e definitivamente conchiuso (11). Di più, ha<br />
osservato Caproni, non c’è differenza “tra lo scrivere e l’atto che, comunemente, è chiamato tradurre”; e<br />
ancora «tradurre è disporsi all’avventura che suscita, in chi rilegge e trascrive la parola altrui, quanto in<br />
lui stava occulto al suo fondo» (12). Si traduce affinché il testo sia sempre e di nuovo. Non è questo,<br />
però, il solo motivo. Si diceva che l’esperienza e la traduzione come esperienza sono un banalizzarsi per<br />
tornare a sé, per tornare al proprium del testo e, tramite ciò, a quel proprio proprium che non è mai il<br />
risultato di una appropriazione definitiva ma che è il segno dell’incessante divenire, noi stessi, ciò che si<br />
è; incessante divenire che accade grazie ai transiti e passaggi quotidiani che compiamo, vivendo.<br />
Una novella tanto amata da chi scrive di traduzione è La ricerca di Averroè di Borges. Novella amata dai<br />
traduttori ma che, in realtà, racconta di uno scacco, di una mancata traduzione. Averroè non riesce a<br />
tradurre in arabo i termini aristotelici “tragedia” e “commedia” perché «chiuso nell’ambito dell’Islam»<br />
(13), non riesce neppure a comprendere a che cosa tali termini (peraltro «impossibili da evitare» (14))<br />
possano corrispondere. Alla fine, dopo una cena e dopo l’ascolto di vari e strani racconti dei commensali,<br />
giungerà alla conclusione che «Aristotele chiama tragedia i panegirici e commedia le satire e gli anatemi.<br />
Le pagine del Corano abbondano di meravigliose tragedie e commedie» (15). Ma la vera “posta in gioco”<br />
non è trovare la parola che dica quasi la stessa cosa; questa “posta in gioco”, Borges ce la rivela soltanto<br />
alla fine della novella: «Sentii, giunto all’ultima pagina, che la narrazione era un simbolo dell’uomo che io<br />
ero mentre la scrivevo e che, per scriverla, dovevo diventare quell’uomo e che, per diventare questo<br />
uomo avevo dovuto scrivere quella storia, e così via all’infinito» (16). In fondo, la posta in gioco è il<br />
mistero che il linguaggio del testo custodisce. È il mistero del sé, di chi scrive e traduce.<br />
Ed è ancora questo sé ad essere in questione nelle parole di un poeta-traduttore, Y. Bonnefoy, per il<br />
quale l’inevitabile scacco della traduzione è la fonte di sempre nuovi e felici incontri: traduttori e opere<br />
tradotte formano, infatti, una comunità nella quale i primi, lungi dal tentare di rimediare al disastro<br />
provocato da Babele, cercano proprio nelle differenze «ciò che possiamo chiamare Io», ossia, «quella<br />
capacità di essere al mondo tanto più originale quanto virtualmente più universale»; “capacità di essere<br />
al mondo” che Bonnefoy chiama Io nel senso in cui «Rimbaud dice “Io è un altro”» (17). Il problema del<br />
traduttore è, allora, questo Io capace di de-figurare l’io finito, che il francese indica con moi. Il termine<br />
de-figurare è coniato a partire da figure, volto e dal prefisso de-, che indica privazione ma anche<br />
intensificazione – come, ad esempio, de-nominare, ossia dare nomi sempre nuovi e diversi. Ecco quanto<br />
si dà e accade nella traduzione: il mistero di un linguaggio che si arricchisce, di un’opera che<br />
banalizzandosi diventa sempre e di nuovo se stessa, linguaggio e opera nei quali “chi è” tradotto e “chi<br />
traduce” passano l’uno attraverso l’altro facendo affiorare le novità ancora intentate ed inviste di quanto<br />
si dà da tradurre. La banalizzazione, il “diventare di tutti” non è un perdersi del linguaggio, del testo,<br />
dell’autore, né è un ripetere (da parte del traduttore). È un andare e tornare, è transito, passaggio,<br />
fors’anche rischioso e periglioso, nel quale l’altro entra nel proprio; nel quale il traduttore, appropriandosi<br />
58
di una lingua o di un testo che non è suo, scopre meglio e di più la propria lingua e il proprio modo di<br />
esprimerla (ed esprimersi) in testi e linguaggi, dandole altri volti e ricevendone, reciprocamente, altri.<br />
Perché, tuttavia? Ovvero, perché ciò è possibile?<br />
Transito, passaggio, esposizione, pericolo, ritorno a sé nell’attraversamento di altro. Riflettere<br />
sull’esperienza e sulla traduzione come esperienza rivela questi tratti. Ma, di fatto, una “lingua di<br />
partenza” (del testo da tradurre) passa ad e in una “lingua di arrivo” (del testo tradotto); niente di<br />
rischioso, in questo. Non possiamo però ignorare – oggi soprattutto – il pericolo che in tale passaggio<br />
rimane, comunque, in agguato. Le lingue nazionali, per un verso, sono arricchite da questi scambi ma,<br />
per altro verso, subiscono spesso trasformazioni che finiscono col renderle sconosciute ed ignote a se<br />
stesse. Inoltre, mentre lingue meno parlate sono destinate a trasformarsi profondamente, fino a perdere<br />
la loro specificità, lingue globalmente diffuse (basti il riferimento all’inglese e allo spagnolo) vivono<br />
mutazioni radicali del lessico e conoscono un uso spesso nuovo ed inusuale dei loro termini. È indubbio,<br />
dunque, che la traduzione dà nuovi volti, de-figura lingue e linguaggi rinnovandole/i e arricchendole/i o<br />
depauperandole/i. Le banalizza esponendole a cambiamenti, all’occasione e all’occorrenza, virtuosi o<br />
perigliosi.<br />
Ma, di nuovo, – di rischio in rischio, di scacco in scacco – si traduce, c’è un desiderio innato a tradurre, a<br />
farsi comprendere, a conoscere altro e a farsi conoscere da questo altro. Nessun rischio di<br />
fraintendimento è capace di arrestare il moto perpetuo di una lingua verso un’altra. Che cosa, allora,<br />
rende ciò possibile, se non addirittura inevitabile? Forse, il fatto che in tale passaggio e transito è in gioco<br />
altro, si media altro. Anche la mediazione, come la traduzione e l’esperienza, è passaggio, la filosofia ce<br />
lo ha insegnato. E dobbiamo soprattutto ad Hegel l’averlo chiarito in modo pressoché definitivo. Infatti,<br />
leggiamo nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, che «la mediazione è principio e<br />
passaggio ad un secondo termine, in modo che questo secondo solo in tanto è in quanto vi si è giunti da<br />
un qualcosa che è altro rispetto ad esso» (18). C’è però anche un altro senso di mediazione, che<br />
prendiamo a prestito dalla linguistica. Tra le varie definizioni della diatesi (da diàstesis, disposizione)<br />
(19), c’è quella di “diatesi media”. Si tratta di una forma che appartiene a verbi quali i media tantum, a<br />
verbi, cioè, che possedendo una forma media non hanno valore né esclusivamente passivo né<br />
completamente attivo. Ne forniscono esempi il greco gignomai, il latino nascor, nascere; o anche il greco<br />
hépomai, il latino sequor, seguire. Si tratta di verbi evenemenziali, che esprimono un evento. Sono verbi<br />
che descrivono una condizione del soggetto o un’azione di cui questi partecipa senza esercitarvi il<br />
controllo diretto. Grammaticalmente, si chiamano “forme medie” perché esprimono un’azione che sta tra<br />
passività e attività, compiuta da un soggetto che si trova già nel corso del suo svolgimento; un’azione che<br />
un soggetto compie perché è da essa compiuto. In fondo, nasciamo perché altri lo rendono possibile, pur<br />
essendo “nostra” la data di nascita in cui l’evento accade. Ciò detto, è lecito parlare di mediazione per le<br />
azioni non-agite espresse da questi verbi? Forse sì, perché della mediazione conservano comunque un<br />
tratto che li accomuna ad altre accezioni di mediazione, delle quali abbiamo citato quella più diffusa in<br />
filosofia, ossia il suo essere passaggio. E a rendere effettivamente possibile questo passaggio è un<br />
medesimo evento, o meglio, advento, accadimento; l’evento o advento dell’incomprensibile.<br />
Incomprensibile è ciò che non può essere delimitato dal pensiero (alla lettera com-prehendere, ossia<br />
prendere, stringere insieme), è ciò che eccede ogni spiegazione o rapporto di causa-effetto. È ciò che<br />
accade senza ragioni altre dalla propria: accade perché accade, senza ragione altra da questo accadere. È<br />
l’esprimersi di un evento capace di dare alle cose un volto nuovo, imprevisto ed imprevedibile.<br />
D’altronde, non è difficile scorgere l’incomprensibilità fondamentale delle azioni non-agite sopra dette:<br />
incomprensibile è la nascita, azione che, ignari, compiamo sotto gli occhi di chi la attende. Lo è la<br />
creazione poetica, evento di cui si è protagonisti pur senza poterlo prevedere, comprendere o<br />
circoscrivere definendone la somma dei fattori del suo accadere. Incomprensibile, dunque non<br />
“prendibile” e delimitabile. Incomprensibile che è fondo misterioso e mai definitivamente attingibile, il<br />
fondo inesauribile della creatività, dell’invenzione. Un fondo che, “senza perché”, spinge alla creazione<br />
per rivelarsi e svelarsi sempre e di nuovo nel linguaggio e nella sua traduzione. Azione non-agita,<br />
quest’ultima, che compiamo in grazia del medesimo fondo incomprensibile per cui tanti altri eventi<br />
accadono. Fondo incomprensibile che, senza mai esaurirlo, la creazione artistica rivela e la traduzione<br />
rinnova, così come ogni passaggio e transito accadono sotto la spinta di un andare verso il fondo della<br />
quotidianità, verso ciò che rende le cose vere, rendendole effettivamente banali, a disposizione di tutti.<br />
L’esperienza come viaggio, dunque, periglioso e avventuroso. Cammino e viaggio verso un<br />
incomprensibile che può essere compreso solo incomprehensibiliter, come incomprensibile e in quanto<br />
incomprensibile, cioè inesauribile e, al fondo, imprendibile. Fondo incomprensibile che è terra straniera,<br />
forse, ma non estranea, che è terra dalla quale veniamo senza averla mai conosciuta e alla quale<br />
incessantemente andiamo; incessantemente come incessante è il nostro esperire, ossia il nostro tentare,<br />
sempre e di nuovo, altri passaggi e transiti. E in primo luogo il transito che per eccellenza è capace di<br />
banalizzare, di rendere disponibili a tutti quell’incomprensibile di cui il poeta, lo scrittore, il filosofo fanno<br />
esperienza, ossia la traduzione. Gesto nel quale l’incomprensibile spinge alla ricerca della “parola più<br />
59
adeguata” che porti all’espressione il pensiero e la creazione di cui un testo vive. Gesto sommamente<br />
banale nel quale si tenta il viaggio verso ciò che è radicalmente proprio e che a qualcun altro, nella<br />
propria esperienza, è accaduto di portare alla parola, al linguaggio, alla scrittura. Gesto che, infine,<br />
spinge a tentare altre possibilità nel e del proprio linguaggio, affinché quell’anelito alla ricerca, al transito,<br />
al passaggio, si riproponga, ancora e di nuovo, come compito. Compito che inesauribilmente tenta la<br />
propria espressione: Sentii, giunto all’ultima pagina, che la narrazione era un simbolo dell’uomo che io<br />
ero mentre la scrivevo e che, per scriverla, dovevo diventare quell’uomo e che, per diventare questo<br />
uomo avevo dovuto scrivere quella storia, e così via all’infinito…<br />
V. Et puis, et puis encore ?<br />
V. E poi, e poi ancora?<br />
(Ch. Baudelaire, Le voyage, Il viaggio dal Quaderno di traduzioni di G. Caproni).<br />
Per Maria<br />
Carla Canullo<br />
Note.<br />
(1) Nota U. Eco: «Ho posto queste mie riflessioni sul tradurre all’insegna di quasi. Per bene che vada, traducendo si<br />
dice quasi la stessa cosa. Il problema del quasi diventa ovviamente centrale nella traduzione poetica, sino al limite<br />
della ricreazione così geniale che dal quasi si passa a cosa assolutamente altra, un’altra cosa, che con l’originale ha<br />
solo un debito, vorrei dire, morale» (U. Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Bompiani, Milano<br />
2003).<br />
(2) J.-Ch. Vegliante, Leonardo Bruni aretino, tra(ns)ducteur, in D’écrire la traduction, Presses de la Sorbonne Nouvelle,<br />
Paris 1996, p. 22.<br />
(3) Ivi, p. 23.<br />
(4) Ibid.<br />
(5) Come si legge in F. Calonghi, Dizionario latino-italiano (Rosenberg & Sellier).<br />
(6) Vegliante, Leonardo Bruni aretino, tra(ns)ducteur, cit., p. 23. Sul termine “tradurre” e la sua introduzione nell’uso<br />
oggi codificato si veda anche U. Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Bompiani, Milano 2003, pp.<br />
234-235.<br />
(7) M. Heidegger, Hölderlins Hymne « Der Ister », Klostermann, Frankfurt a.M. 1984 (Ga 53); tr. it. di C. Sandrin e U.<br />
Ugazio, L’inno Der Ister di Hölderlin, Mursia (Biblioteca di filosofia), Milano 2003, p. 59.<br />
(8) Tra le versioni italiane della tragedia sofoclea ne scegliamo due, dove il termine (che è pronunciato dal coro, v.<br />
332) è tradotto con prodigioso (tr. it. di F. Ferrari, Bur, Milano 1982) o tremendo (tr. it. di Giuseppina Lombardo-<br />
Radice, Einaudi, Torino 1966).<br />
(9) A. Berman, L’épreuve de l’étranger. Culture et traduction dans l’Allemagne romantique, coll. tel / Gallimard, Paris<br />
1984 ; tr. it. di G. Giometti, La prova dell’estraneo. Cultura e traduzione nella Germania romantica, Quodlibet,<br />
Macerata 1997; Id., La Traduction et la lettre ou l’Auberge du lointain, Seuil, Paris 1999; tr. it. di G. Giometti, La<br />
traduzione e la lettera o l’Albergo nella lontananza, Quodlibet, Macerata 2003.<br />
(10) Bastino per tutti Eco, op. cit., e G. Steiner, After Babel. Aspect of Langage and Translation, Oxford UP, London<br />
1975; tr. it. di R. Bianchi, integrata e rivista da C. Béguin, Dopo Babele. Aspetti del linguaggio e della traduzione,<br />
Garzanti, Milano 2004 (prima ed: Sansoni, Milano 1984). Di Steiner si veda anche il numero 454 di Le magazine<br />
littéraire (giugno 2006), a lui dedicato, dove è pubblicato l’inedito De la traduction comme “condition humaine” (ivi,<br />
pp. 41-43).<br />
(11) J. L. Borges, Le versioni omeriche, in Discussione, tr. it. di D. Porzio, Mondadori Meridiani, Milano 2000 14 , p. 72.<br />
(12) E. Testa, Introduzione a G. Caproni, Quaderno di traduzioni, con prefazione di P. V. Mengaldo, Einaudi, Torino<br />
1998, p. XIII.<br />
(13) J. L. Borges, La ricerca di Averroè, in Aleph, tr. it. di Francesco Tentori Montalto, Feltrinelli, Milano 1969, pp. 89-<br />
100.<br />
(14) Ivi, p. 91.<br />
(15) Ivi, p. 99.<br />
(16) Borges, La ricerca di Averroè, cit., p. 100.<br />
(17) Per queste cit. cfr. Y. Bonnefoy, La communauté des traducteurs, Presses Universitaires de Strasbourg,<br />
Strasbourg 2000; tr. it. a cura di F. Scotto, La comunità dei traduttori, Sellerio editore, Palermo 2005.<br />
(18) G.F.W. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, ed. it. a cura di C. Cesa, Laterza, Bari-Roma<br />
1984, §12, p. 19.<br />
(19) La “diatesi” è la categoria del verbo che esprime l’atteggiamento, la “disposizione”, dei partecipanti all’azione nei<br />
confronti dell’azione stessa.<br />
60
APPUNTI SULL’ERMENEUTICA E SULL’ETICA DELLA TRADUZIONE DA SCHLEIERMACHER A<br />
BERMAN<br />
Da molto tempo che gli studiosi si sono resi conto della reciproca influenza tra il lavoro che il traduttore<br />
svolge nel traslare un’opera d’arte poetica, e quella rete di leggi inconsce e culturali alle quali il traduttore<br />
stesso è vincolato nell’operazione di lettura e di riscrittura. Coloro i quali hanno pianificato un lavoro<br />
inteso a chiarire quelle leggi, si sono trovati di fronte ad ostacoli ardui da superare, visto che era – ed è<br />
tuttora – difficile generalizzare in schemi logici e coerenti una pratica che risente in maniera<br />
incommensurabile delle componenti soggettive dell’autore originario, del lettore finale e del traduttore<br />
che è una figura di confine, liminare, partecipante ad entrambe le attività. Nell’ambito puramente teorico<br />
la volontà di schematizzazione ha sortito degli effetti validi, ma che raramente si conciliano con la diversa<br />
e variegata produzione dei versi tradotti: perciò il giudizio che un critico dà di un’opera è spesso<br />
divergente, a volte contrario, rispetto ad altri. Per questo motivo la capacità maggiore degli studiosi è<br />
stata quella di iniziare delle discussioni generali sulla base delle individualità dei traduttori e, a volte, sulla<br />
scorta delle singole opere tradotte. Lo sviluppo della teoria riguardante la traduzione è così approdata ad<br />
una estetica coerente con la poetica del traduttore o con quella espressa dalla singola opera poetica con<br />
la quale si è cercato di giudicare e ridiscutere i risultati di un processo complesso e faticoso quale è quello<br />
della traduzione poetica. Qualsiasi traduzione, infatti, non è solo un risultato testuale di un lavoro, ma è il<br />
processo stesso di trasformazione di un testo in un altro praticato da un individuo che possiede una sua<br />
cultura particolare, e nel contempo è posseduto da – fa parte di - una cultura. Il testo tradotto, oltre ad<br />
essere il risultato del processo, è anche il banco di prova sul quale il traduttore si misura e sul quale lo<br />
studioso tenta di ricercare le tappe tramite le quali il percorso traduttivo si è dipanato. In un’ottica quale<br />
quella appena descritta, è difficile tralasciare il dato soggettivo e concentrare l’attenzione su una parte del<br />
processo, poiché si escluderebbe dal campo di studio l’influenza reciproca a scapito della completezza di<br />
giudizio sul testo tradotto. Lavorare “parzialmente” su di una traduzione, o spostare l’attenzione sul dato<br />
più evidente e generale invece del dato comprendente il soggetto, è una operazione che risulta altresì<br />
impossibile quando si voglia leggere la traduzione di un poeta. In questo caso la produzione “in lingua” è<br />
tanto collegata alle traduzioni svolte, che giudicare queste ultime sorvolando sui testi originali è<br />
un’operazione che lascia aperte delle zone d’ombra nella produzione completa dell’autore stesso, e quindi<br />
inficia la completezza del giudizio che se ne possa offrire. Il lavoro traduttivo che comprenda un’analisi<br />
soggettiva del testo “originale” presume di considerare in qual modo o maniera sia intervenuta<br />
l’interpretazione del lettore-traduttore e se quell’interpretazione abbia o meno, e in che modo,<br />
condizionato il prodotto testuale finale.<br />
L’“obiezione pregiudiziale”, secondo la quale è impossibile tradurre poesia, è teorica e proprio perché tale<br />
è sconfessata dalle traduzioni di opere poetiche che si sono fatte e vanno facendosi nel corso degli anni.<br />
Il problema, infatti, è solo d’ordine linguistico; di quella linguistica che, confidando sulle teorizzazioni di<br />
Mounin e Jakobson, ha sempre considerato la traduzione come un problema di sostituzione terminologica<br />
e di equivalenza. L’impasse generato dalle forti motivazioni dei linguisti è stato superato anche nella<br />
critica e nella teoria da George Steiner nel 1975 grazie al saggio Dopo Babele. Egli ha «[…] formalizzato<br />
la prima grande ribellione internazionale ai dogmatismi della linguistica teorica […]. Perché Steiner allora<br />
sosteneva che tradurre poesia o prosa poetica non significa trasferire le parole di una lingua in quelle<br />
equivalenti d’un’altra lingua, bensì rivivere l’atto creativo che ha ispirato l’originale» (1). L’importanza del<br />
saggio steineriano sta anche nell’aver aiutato un approccio riguardante lo studio delle traduzioni da un<br />
punto di vista ermeneutico, nella consapevolezza che i veloci cambiamenti delle lingue e delle culture che<br />
ne sono espressione condizionano la lettura delle traduzioni e l’atto di lettura stesso.<br />
Quando si produce l’interpretazione, anche la più perfetta, quando la sensibilità si impadronisce dell’oggetto<br />
salvaguardandolo ed intensificandone la vita autonoma, si è davanti ad una «ripetizione originale». Si riprende, nei<br />
limiti di una coscienza straniera ma educata e momentaneamente esaltata, le tappe della creazione toccate dall’artista.<br />
Si segue, tracciata sulla carta e lungo un sentiero malagevole, l’elaborazione del poema. Esperto in materia, una<br />
specie di mimesis limitata, grazie alla quale la tavola, il testo, si trovano rinnovati secondo l’accezione riflessiva,<br />
subordinata al modello che Platone attribuisce al concetto di «imitazione». (2)<br />
L’ermeneutica tuttavia non è uno strumento moderno nello studio delle traduzioni ma un metodo che<br />
accompagna la riflessione sul tradurre fin dalle origini. Cicerone è giustamente una delle fonti citate in<br />
questo tipo di riflessione: «Ho tradotto da oratore (ut orator), non già da interprete (ut interpres) di un<br />
testo, con le espressioni stesse del pensiero, con gli stessi modi di rendere questo, con un lessico<br />
appropriato all’indole della nostra lingua.» (3) assieme a San Girolamo (Santo patrono dei traduttori) e<br />
Martin Lutero, traduttori della Bibbia. L’ermeneutica moderna indipendente dalla teologia, filone<br />
sotterraneo nell’umanesimo rinascimentale, è stata delineata durante l’Illuminismo e teorizzata da<br />
Dannhauer che considerava l’Hermeneutica generalis quale dottrina di un’interpretazione corretta e delle<br />
competenze di un esegeta esemplare. L’idea di ermeneutica di Dannhauer, in particolar modo, era quella<br />
di comprendere e chiarire l’effettiva intenzione espressiva dell’autore originale, corrotta dalla tradizione<br />
antica e dalle interpretazioni medievali dei testi classici. La necessità degli studiosi di ermeneutica era<br />
61
quella di mediare, dopo la rivoluzione kantiana che affondava l’ottimismo razionalistico di Spinoza e<br />
Wolff, l’opposizione tra la “lettera” originale di un testo e il suo concetto di “spirito”, cioè quello che va<br />
compreso, il senso generale. È proprio grazie a questo passaggio che l’idea della funzione ermeneutica si<br />
sposta da un processo di interpretazione corretta a quello di comprensione. I maggiori rappresentanti del<br />
Romanticismo tedesco, tuttavia, hanno chiarito e dato forza all’ermeneutica moderna. Da Ast, colui che<br />
legittima il “circolo ermeneutico” grazie alla reciproca implicazione dei significati parziali e totali nell’atto<br />
di comprensione, a Schlegel, con la visione dell’ermeneutica spostata verso una ricostruzione filologica,<br />
fino a Schleiermacher, agli scritti del quale – nella maggior parte dei casi – si rivolgono gli studiosi di<br />
teoria traduttologica che si stanno per esaminare.<br />
L’ermeneutica schleiermacheriana è quella che più s’avvicina ad una riscoperta del concetto<br />
comunicativo, proprio perché il comprendere ha il suo luogo naturale nel dialogo, nelle situazioni<br />
comunicative derivate dalla lettura dei testi, seppure la comprensione dipenda essenzialmente dai<br />
personali interessi conoscitivi. Secondo Scheleiermacher esistono due principali modi di comprendere:<br />
l’interpretazione grammaticale e l’interpretazione psicologica:<br />
Come ogni discorso possiede una relazione con la totalità della lingua e con l’insieme del pensiero del suo autore, così<br />
anche ogni comprendere comporta due momenti: comprendere il discorso come elemento emergente della lingua e<br />
comprenderlo come un fatto in chi pensa. […] Di conseguenza ogni uomo è per un verso un luogo in cui una data<br />
lingua assume una forma peculiare e il suo discorso va compreso solo a partire dalla totalità della lingua. Ma, per un<br />
altro verso, ogni uomo è anche uno spirito in costante evoluzione e il suo discorso è solo uno dei fatti prodotto da<br />
questo spirito in connessione con tutti gli altri. (4)<br />
I due tipi d’interpretazione, ove messi in correlazione, determinano il procedimento ermeneutico in<br />
quanto procedimento riproduttivo; ricostruire, cioè, in maniera corretta l’intero processo interiore<br />
dell’attività compositiva dell’autore originario. La correlazione tra testo e contesto, inoltre, come in Ast<br />
aveva dato vita al circolo ermeneutico, in Schleiermacher crea quell’idea di circolo infinito della<br />
comprensione, semplificato in questa affermazione:<br />
Ora, se consideriamo da questo punto di vista l’intera operazione dell’interpretare, dovremo dire che, partendo<br />
dall’inizio di un’opera e progredendo a poco a poco, la comprensione graduale di ogni singolo elemento e delle parti<br />
della totalità che a partire da essa si organizzano, è sempre soltanto qualcosa di provvisorio. […] solo che quanto più<br />
avanziamo tanto più tutto ciò che precede viene anche illuminato da ciò che segue. (5)<br />
Il testo che ha più richiamato gli studiosi di traduzioni, nel quale si esprime sia l’ideale ermeneutico di<br />
Schleiermacher sia il suo parere riguardo alle traduzioni, è la Memoria, letta il 24 giugno del 1813, Über<br />
die verschiedenen Methoden des Übersetzens (6) (Sui diversi modi del tradurre). Le parole che vi si<br />
leggono sono state spesso richiamate per descrivere le due uniche maniere grazie alle quali, secondo<br />
molti, è possibile tradurre.<br />
Quali vie deve allora percorrere il vero traduttore che intende realmente accostare questi due personaggi così separati<br />
tra loro, quali sono lo scrittore e il suo lettore, e venire in aiuto di quest’ultimo, senza tuttavia costringerlo a uscire<br />
dalla cerchia della lingua materna per poter capire e gustare il primo nella maniera più precisa e completa possibile? A<br />
mio avviso, di tali vie ce ne sono soltanto due. O il traduttore lascia il più possibile in pace lo scrittore e gli muove<br />
incontro il lettore, o lascia il più possibile in pace il lettore e gli muove incontro lo scrittore. (7)<br />
Le sentenze sopra citate, sono state prese in considerazione dai più grandi ermeneuti e traduttologi<br />
odierni, non soltanto per seguirle, ma anche per ridiscuterle. Nel campo ermeneutico, e più precisamente<br />
in quello italiano, Emilio Betti è d’accordo con Schleiermacher per quel che riguarda l’idea di traduzione.<br />
Nella sua Teoria generale dell’interpretazione (8). Betti considera la traduzione come una delle principali<br />
forme della «interpretazione riproduttiva o rappresentativa». Al contrario della interpretazione artistica,<br />
secondo la quale l’interprete deve ricostruire il processo genetico dell’opera d’arte considerandola quale<br />
fusione di esperienze emotive (Erlebnis), meditazione e composizione dell’opera, l’interpretazione<br />
riproduttiva è un<br />
Riprodurre e ricreare esteriore, per così dire, transitivo e sociale, in quanto presuppone come destinatario un pubblico,<br />
visibile o invisibile, a cui rivolgersi: un ri-creare tale che rappresenta il senso ricavato in una dimensione spirituale<br />
diversa da quella del testo, in cui il pensiero venne in origine concepito o almeno oggettivato e fissato, in guisa da<br />
concretarlo e oggettivarlo in una nuova forma rappresentativa. (9)<br />
Più precisamente, per quel che riguarda il testo – semiotico, visti anche i richiami al rapresentamen<br />
peirceiano – Betti spiega qual è il senso che caratterizza questo tipo di interpretazione.<br />
«[….] la forma equivalente che viene foggiata con l’interpretazione riproduttiva, è qualcosa di<br />
insostituibile, che è destinato a valere di per sé. Rispetto a una forma siffatta il testo originale rimane<br />
solo come termine di raffronto e di controllo, alla cui stregua è da valutare la fedeltà della riproduzione»<br />
(10). L’affermazione, pur richiamandosi alla interpretazione di Schleiermacher che diede Dilthey (11),<br />
considera l’impostazione ri-espressiva della traduzione ardua e difficile poiché l’interprete traducente,<br />
62
dovendo rispettare un vincolo di fedeltà al pensiero correttamente compreso, deve integrarlo con uno<br />
stile ed un ritmo adeguato per attualizzarlo al nuovo processo espressivo. Nella teoria bettiana, però, i<br />
concetti di “equivalenza” o di “fedeltà” sono sempre ridiscussi all’interno di un processo argomentativo<br />
sempre crescente. Nel riprendere alcune affermazioni sul soggettivismo di Humboldt, Betti non prende<br />
posizione né per le traduzioni artistiche fedeli («il termine da sostituire, che pone al traduttore una<br />
esigenza di fedeltà, non è la inerte e astratta lettera dell’originale, ma il discorso nella molteplicità delle<br />
sue sfumature.» (12)), né per l’equivalenza di senso («né può riconoscersi fra le parole di una lingua e<br />
quelle di un’altra la supposta equivalenza, sol che si tenga presente la differente forma interiore che<br />
nell’una e nell’altra lingua governa la sintassi.» (13)) La posizione di Betti è fortemente legata a quella<br />
del doppio metodo traduttivo schleiermacheriano; il giurista, tuttavia, analizza le esigenze di entrambe le<br />
metodologie perché la traduzione ottiene la propria «finalità rappresentativa» con l’una metodologia o<br />
con l’altra.<br />
L’ermeneutica di Schleiermacher applicata alla traduzione viene ripresa da Berman e ridiscussa da<br />
Venuti; entrambi si basano sulle idee di Schleiermacher e sulla ridiscussione del concetto di «approccio<br />
ermeneutico» riguardo alla traduzione letteraria. Gli autori che si occupano di traduzione secondo il punto<br />
di vista ermeneutico, però, sono tutti coloro che considerano la comprensione come un atto traduttivo<br />
completo, la lettura o l’atto linguistico come un momento ermeneutico che traduce i concetti da un<br />
contesto all’altro. Sebbene l’ermeneutica abbia una parte importante anche nelle teorizzazioni di<br />
Meschonnic, per il quale la visuale interpretativa del testo non è la componente più importante della<br />
traduzione, la componente linguistica e quella ermeneutica sono bilanciate in un equilibrio che forma la<br />
poetica meschonnichiana di cui ci occuperemo più avanti. Mattioli riguardo a Meschonnic afferma che<br />
Nella traduzione non prevale né la comunicazione né la comprensione. Concepire la traduzione come comunicazione<br />
significa assegnare il primato all’informazione, al senso. Applicato alla lettura questo concetto comporta l’idea della<br />
traduzione come trasporto dei contenuti delle opere letterarie. Equivale a traghettare cadaveri. Ugualmente riduttiva è<br />
la coincidenza tra ermeneutica e traduzione. Applicata in modo indiscriminato la coincidenza fra ermeneutica e<br />
traduzione comporta la dissoluzione dell’atto specifico del tradurre, se tradurre significa comprendere, tutto diventa<br />
traduzione, anche l’espressione di un pensiero in parole. Questa idea di traduzione allargata contraddice alla<br />
concezione sviluppata da Meschonnic, e non solo da Meschonnic, della traduzione come passaggio da testo a testo e da<br />
discorso a discorso. (14)<br />
L’approccio ermeneutico è alla base della riflessione traduttologica verso la quale si orienta l’odierna<br />
Sprachbewegung il cui massimo esponente è Friedmar Apel. La critica della traduzione, secondo Apel,<br />
non può essere scissa dal movimento storico che la lingua ha compiuto nel suo incessante percorso di<br />
trasformazione. La traduzione di un’opera riflette un momento «sospeso» di quel percorso e offre<br />
un’immagine istantanea della posizione linguistica dell’originale. La traduzione, tuttavia, non viene<br />
considerata come un risultato parziale del processo ermeneutico; al contrario «Ogni traduzione compiuta<br />
è la cristallizzazione di un processo dell’esperienza, che nella ricezione di un lettore di qualunque tipo<br />
finisce sempre, per così dire, con il disciogliersi, e anche questo processo dell’esperienza di un’esperienza<br />
nel medium della traduzione rientra nella stessa problematica» (15). La problematica ermeneutica<br />
riferita alla traduzione viene sviluppata secondo una radicalizzazione contraria all’analisi della traduzione<br />
al solo livello linguistico, poiché «la comprensione di volta in volta determinata di un testo si realizza solo<br />
nella traduzione stessa» (16). Se la traduzione è, per Apel, una forma che comprende, e nello stesso<br />
momento dà corpo, l’esperienza di opere in un’altra lingua, « Oggetto di questa esperienza è l’unità di<br />
forma e contenuto, come rapporto di volta in volta instauratosi tra la singola opera e un dato orizzonte di<br />
ricezione» (17). La ricerca sulla traduzione non si serve della sola ermeneutica ma ha bisogno del<br />
fondamentale aiuto di altre discipline; solo attraverso una ricerca multidisciplinare la ricerca sulla<br />
traduzione può essere esaustiva. Resta fermo il fatto che secondo Apel «La ricerca sulla traduzione non<br />
può derivare la sua scientificità da criteri come quelli di “verificabilità”, “evidenza” o “coerenza”, ma<br />
esclusivamente dalla caratterizzazione del rapporto, di volta in volta determinato, fra condizioni date e<br />
identità del soggetto interpretante» (18).<br />
L’ermeneutica stessa si deve “confrontare” con le altre discipline letterarie ed umane per descrivere in<br />
modo soddisfacente il «movimento del linguaggio» originale, di quello del traduttore e della ricezione.<br />
L’ambito dell’etica delle traduzioni è approfondito da Berman. È stato accennato al fatto che, entrando<br />
nell’indagine anche l’interpretazione e la figura del traduttore, la disciplina ermeneutica svolge una<br />
funzione importante nel processo di scelta e riscrittura della lingua e del testo. Berman, pur essendo<br />
importante voce della teoria della traduzione, studia una disciplina in cui la teoria è inscindibilmente<br />
legata alla pratica, in cui l’elemento normativo è calato nella soggettività del traduttore, un campo che<br />
per essere indagato completamente ha bisogno d’attenzione verso tutte le componenti che entrano in<br />
gioco nella traduzione.<br />
La ricerca sulla traduzione non può dunque derivare la sua scientificità da criteri come quelli di «verificabilità»,<br />
«evidenza» o «coerenza», ma esclusivamente dalla caratterizzazione del rapporto, di volta in volta determinato, fra<br />
condizioni date e identità del soggetto interpretante […]. Con ciò si prospetta una via di mezzo, nel modo di procedere,<br />
fra quella normativo-dogmatica […] e quella descrittivo-nomologica. (19)<br />
63
Il punto focale della teoria bermaniana è quello che analizza e stabilisce il senso del «lavoro sulla<br />
lettera», che pone le basi di una traduzione culturale dell’analisi, e impegna lo studioso ad una trattazione<br />
in campo etico e politico. Pur tuttavia la deviazione non consiste in un’uscita totale dal campo scientifico;<br />
la teoria dell’etica e dell’analitica della traduzione offrono, anzi, le basi metodologiche tramite le quali la<br />
nascente disciplina riceve lo statuto scientifico.<br />
La prima definizione bermaniana del concetto di «etica della traduzione» si trova esplicitata in L’épreuve<br />
de l’étranger (20), il voluminoso saggio nel quale Berman affronta in maniera sistematica la cultura della<br />
Germania romantica e la storia della traduzione attraverso una serie di monografie specifiche riguardanti i<br />
più alti esponenti del Romanticismo tedesco quali Herder, Goethe, Schlegel, Novalis, Humboldt,<br />
Schleiermacher e Hölderlin. Difatti, prima dell’Introduzione, Berman appone un capitolo programmatico e<br />
dal titolo chiarificatore, La traduzione in manifesto (21), nel quale esplicita tutte le difficoltà dei traduttori<br />
e dei teorici della traduzione fino agli anni ottanta, soffermandosi in particolare sulle “resistenze” che le<br />
culture hanno trovato verso le letterature straniere durante i secoli passati. La visuale non è più solo<br />
linguistica ma culturale, di raffronto con l’Altro, e di ricerca in questo raffronto della «finalità etica» del<br />
tradurre:<br />
Il problema è che la traduzione occupa un posto ambiguo. Da una parte, si piega all’ingiunzione di appropriazione e<br />
conquista, si costituisce anzi come uno dei suoi agenti. Cosa che crea traduzioni etnocentriche, o quella che si può<br />
definire “cattiva” traduzione. Ma, dall’altra, la finalità etica del tradurre si oppone per natura a quest’ingiunzione:<br />
l’essenza della traduzione è di essere apertura, dialogo, meticciato, decentramento. È un mettere in relazione, o non è<br />
nulla. (22)<br />
Nel quadro di una riflessione filosofica nella quale le categorie linguistiche dovrebbero essere sorpassate,<br />
Berman riprende i concetti di «equivalenza» e di «fedeltà» attribuendo a questi un significato<br />
prevalentemente etico:<br />
L’etica della traduzione consiste, sul piano teorico, nel portare alla luce, affermare e difendere la pura finalità della<br />
traduzione in quanto tale. Cioè, nel definire la natura della “fedeltà”. La traduzione non può essere definita unicamente<br />
in termini di comunicazione, di trasmissione dei messaggi o di rewording allargato. Non è neanche un’attività<br />
puramente estetico/letteraria, anche se è intimamente legata alla pratica letteraria di uno spazio culturale dato.<br />
Tradurre significa indubbiamente scrivere e trasmettere. Ma questa scrittura e questa trasmissione prendono il loro<br />
vero senso solo a partire dalla finalità etica che le governa. In questo senso, la traduzione è più vicina alla scienza che<br />
all’arte – almeno se si presuppone l’irresponsabilità etica dell’arte.<br />
I termini presenti in questa citazione indicano il salto metodologico proposto dalle ricerche bermaniane,<br />
per le quali la «fedeltà» non è più, e solo, corrispettiva di un’equivalenza terminologica. Non è nelle<br />
relazioni linguistiche, ma nella traslazione della volontà traduttrice, che il traduttore s’impegna,<br />
caricandosi d’una responsabilità vicina alla morale sociale, e dunque non più e non solo individuale. A<br />
quanto appena detto si aggiunge un altro corollario importante, che riguarda lo “spazio” nel quale<br />
l’individuo-che-traduce è immesso, quello della cultura. La «finalità etica» della traduzione, sebbene<br />
oggetto dell’analisi del testo, affronta la spinta motivazionale al tradurre della cultura.<br />
[…] ogni cultura resiste alla traduzione, anche se ne ha essenzialmente bisogno. La finalità stessa della traduzione –<br />
aprire sul piano della scrittura un certo rapporto con l’Altro, fecondare il Proprio tramite la mediazione dell’Estraneo –<br />
si scontra frontalmente con la struttura etnocentrica di ogni cultura, o con quella specie di narcisismo in base al quale<br />
ogni società vorrebbe essere un Tutto puro e non mescolato. Nella traduzione c’è qualche cosa della violenza del<br />
meticciato. […] Ogni cultura vorrebbe essere sufficiente in se stessa e, a partire da questa sufficienza immaginaria,<br />
insieme irradiarsi sulle altre e appropriarsi del loro patrimonio. La cultura romana antica, la cultura francese classica e<br />
la cultura nordamericana moderna ne sono esempi impressionanti. (23)<br />
L’etica positiva, secondo le posizioni del Berman, presuppone logicamente un’etica negativa, che esprime<br />
una teoria dei valori ideologici e letterari, tendenti a distogliere la traduzione dalla sua pura finalità.<br />
Quest’ultima è una teoria della traduzione etnocentrica, «ovvero della cattiva traduzione»: «Chiamo<br />
cattiva traduzione quella che, generalmente sotto l’apparenza della trasmissibilità, opera una negazione<br />
sistematica dell’estraneità dell’opera straniera» (24). Tale giudizio presuppone un sistema valoriale, e<br />
quindi etico, al quale Berman ha lavorato attraverso il chiarimento di concezioni culturali formanti un<br />
reticolo di tendenze “a forzare” nel quale operano le culture che entrano in contatto, le lingue e il<br />
traduttore stesso. Nel discorso bermaniano, quindi, non vengono meno le funzioni e l’attenzione sugli<br />
agenti traduttivi, che posseggono un’importanza peculiare all’interno del processo traduttivo volontario:<br />
l’Opera, il Testo, l’Autore, il sistema ideologico di partenza. In questo ambito si fanno imprescindibili i<br />
rimandi alle discipline di contatto della traduttologia.<br />
La disciplina che Berman cercava di sistemare grazie agli undici “contenitori” nell’articolo del 1981 non si<br />
ferma all’etica della traduzione, sebbene abbia in essa la parte teorica più innovativa, ma si svolge in tre<br />
direzioni: l’analitica della traduzione, la storia, la teoria della letteratura o transtestualità (25). L’analitica<br />
della traduzione controlla i sistemi di deformazione nati dalle resistenze prodotte dal traduttore o dalla<br />
cultura espressa nel testo originario. Il metodo è vicino a quello della psicanalisi – poiché presuppone una<br />
64
iflessione oggettiva del traduttore su se stesso e della cultura su se stessa - «come Bachelard parlava di<br />
psicanalisi dello spirito scientifico» (26), e apertamente derivante dalla struttura contestuale di partenza.<br />
All’analitica dovrebbe aggiungersi un’analisi «effettuata nell’orizzonte della traduzione», che sia<br />
complementare alla critica dei testi (originari), prestando attenzione sia al processo di trasformazione del<br />
testo, sia alle trasformazioni del testo finalmente tradotto:<br />
[…] ogni testo da tradurre presenta una sistematicità propria che il movimento della traduzione incontra, affronta e<br />
rivela. In questo senso, Pound poteva dire che la traduzione è una forma sui generis di critica, nella misura in cui<br />
rende manifeste le strutture nascoste del testo. Tale sistema dell’opera è al contempo ciò che offre la maggiore<br />
resistenza alla traduzione e ciò che la rende possibile e le dà senso. (27)<br />
L’analitica della traduzione è il luogo nel quale le discipline, che i teorici volevano complementari alla<br />
letteratura comparata, si incontrano e collaborano ad una completa comprensione del testo tradotto; ma<br />
è anche il settore che indica la parlanza della traduzione e che, a sua volta, potenzia la lingua della<br />
cultura tradotta. La finalità etica del tradurre ha un risvolto psichico che tende a riconoscere la lingua<br />
straniera come strumento di denaturalizzazione della lingua materna. La finalità metafisica della<br />
traduzione, che esprime la pulsione a tradurre, invece, cerca di superare la finalità etica, stabilendo un<br />
rapporto dialogico tra lingua individuale straniera e lingua individuale propria:«Si potrebbe dire che la<br />
finalità metafisica della traduzione è la cattiva sublimazione della pulsione traducente, mentre la finalità<br />
etica ne costituisce il superamento» (28). Insieme al discorso riguardo all’apertura alle altre discipline,<br />
Berman fa emergere anche quello relativo alla «transtestualità», una pratica che ha il testo campione nel<br />
Quijote cervantesco. Presentato dall’autore come una traduzione dall’arabo - nel quale si parla di<br />
romanzi a loro volta tradotti - è un indice della coscienza culturale spagnola del tempo, ma anche<br />
l’esempio del rapporto tra letteratura e traduzioni. Non fermandosi solo a questo, e riallacciandosi alle<br />
ricerche sulle lingue e sulle culture, Berman propone la traduttologia come un campo pluridisciplinare nel<br />
quale i traduttori potranno fruttuosamente lavorare con gli scrittori, i teorici della letteratura, gli<br />
psicanalisti e i linguisti. Anche se di fondamentale importanza nel saggio che trattiamo ora, il concetto di<br />
Bildung all’interno della cultura romantica tedesca e la storia sulle traduzioni – che Berman chiama<br />
«archeologia della traduzione» - rappresentano parte di un contesto molto più ampio e complesso, cioè la<br />
riflessione della traduzione su se stessa, inseparabile dalla pratica traduttiva. Gli sviluppi successivi a<br />
questa “apertura al riflessivo” rappresentano i primi fondamenti pratici della teoria della traduzione. La<br />
coscienza che l’atto traduttivo debba essere accompagnato da una riflessione su se stesso, porta il teorico<br />
a confrontarsi con i pensatori che più avevano contribuito alla filosofia base della traduzione. Heidegger,<br />
Benjamin, Schadewalt e Rosenzweig vanno, quindi, ripensati alla luce novecentesca del rapporto tra<br />
filosofia e lingua. La questione della ri-traduzione indica un problema aperto che, sebbene appena<br />
accennato dal teorico francese, rappresenta una specificità culturale e storica della teoria traduttiva.<br />
Come dimostra il ciclico rifacimento della Bibbia, si fa fondamentale nel Novecento il ricorso<br />
all’ermeneutica moderna, perché anche il pensiero e l’interpretazione fanno parte di un moderno processo<br />
traduttivo del pensiero religioso, del pensiero filosofico, ma anche di quello che concerne le “scienze<br />
umane”.«È importante sottolineare come la traduzione, nel novecento, divenga cura del pensiero stesso<br />
nel suo sforzo di rilettura della tradizione religiosa e filosofica occidentale. Ed è in un’ottica simile che<br />
l’atto di tradurre si vede infine a poco a poco riconosciuto nella sua essenza storica» (29).<br />
L’inquadramento disciplinare della traduttologia è perfezionato nel saggio pubblicato nel 1999 da Seuil,<br />
risalente però al 1984, anno in cui Berman aveva iniziato un seminario al Collège International de<br />
Philosophie, del quale La Traduction et la lettre ou l’Auberge du lointain (30) è la rivisitazione. Durante<br />
tale seminario il problema centrale fu quello di chiarire la formula “traduzione letterale” contro la troppo<br />
utilizzata metodica della traduzione “parola per parola”. Queste metodiche si confondono quando<br />
interpretano il concetto di equivalenza. La “traduzione letterale”, infatti, non è la traduzione “parola per<br />
parola” e dunque l’equivalenza assume significati differenti a seconda del metodo utilizzato. Il saggio è<br />
incentrato su questa differenziazione: tentando di analizzare il metodo traduttivo letterale, Berman<br />
spiega cosa bisogna intendere per equivalenza, distanziando la sua dottrina dalla teoria dell’equivalenza<br />
dinamica di Nida. Il processo avviene nell’Introduzione in cui, richiamando le analisi di Valéry Larbaud e<br />
Meschonnic, l’autore esemplifica le differenze con le traduzioni dei proverbi. Una traduzione parola per<br />
parola, cioè servil, del proverbio è possibile a livello d’equivalenti funzionali –pratica che tutti i traduttori<br />
operano – a scapito della «lettera» originaria che considera il proverbio anche come forma (31).<br />
«Tuttavia, tradurre letteralmente un proverbio non è un semplice “parola per parola”. Occorre anche<br />
tradurre il ritmo, la lunghezza ( o la concisione), le eventuali allitterazioni ecc. Poiché un proverbio è una<br />
forma. […] Tale mi pare essere il lavoro sulla lettera: né calco, né (problematica) riproduzione, ma<br />
attenzione portata al gioco dei significanti» (32). L’analitica, secondo il Berman, è lo spazio pragmatico<br />
della traduzione; la riflessione, cioè, sull’esperienza storica del tradurre e sulla critica testuale dei testi<br />
tradotti, spazio nel quale è possibile discutere sulla vera tripartizione della traduzione letterale, che si<br />
contrappone all’immagine tradizionale ed etnocentrica della traduttologia, del tradurre e della traduzione.<br />
Se esiste una traduzione etnocentrica, a quella si oppone la traduzione etica, mentre la traduzione<br />
ipertestuale è contrastata da una traduzione poetica. Se esiste una lettera della traduzione, dunque,<br />
l’analitica, in quanto critica negativa, studia il sistema di deformazione dei testi e le tendenze che hanno<br />
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deviato la tradizionale opera sulla traduzione dalla lettera originaria. Il reperimento delle tendenze<br />
deformanti, a esclusivo vantaggio del “senso” e della “bella forma” delle opere, costituisce in negativo il<br />
primo canone operativo della traduttologia bermaniana (33).<br />
L’analisi delle tendenze deformanti non rappresenta un canone vincolante per il traduttore letterario, né<br />
la semplice lista degli errori da non commettere per scrivere una traduzione non etnocentrica. Berman<br />
stesso avverte che, nelle opere tradotte, le tendenze sono compresenti e rappresentano in negativo<br />
alcune devianze di base che allontanano la traduzione della lettera e danno vita a cattive traduzioni. Si<br />
può immaginare la “lettera” dell’originale come un incavo col quale viene modellato il testo tradotto; la<br />
potenziale rottura o deformazione dell’incavo rappresenta la tendenza a tradurre “a senso” – nel<br />
significato dell’uso dell’equivalenza - che allontana gli elementi estranianti della traduzione e riporta alla<br />
nazionalizzazione, all’etnocentrismo culturale etico e politico. Le tendenze deformanti sono lo strumento<br />
per indagare la traduzione attraverso una metodologia negativa. Non vuol dire che Berman proponga<br />
delle norme positive attraverso l’etica della traduzione. Sebbene sia possibile, infatti, definire dei principi<br />
normativi non metodologici, la proposizione di un’analitica positiva presuppone la definizione dello spazio<br />
della traduzione (opposto alle pratiche intertestuali) e una definizione obiettiva della purezza del prodotto<br />
traduttivo. Ciò significa che l’etica della traduzione, in fase normativa, dovrebbe dare per sottinteso il<br />
fattore comunicativo delle lingue – operazione che si attua nelle traduzioni tecniche – e,<br />
contemporaneamente, dovrebbe offrire delle aperture di senso dell’opera tradotta. In questo spazio<br />
filosofico entra in gioco la considerazione dell’obiettivo comunicativo, ma anche il fattore ricettivo. Il<br />
considerare l’opera che sta per essere pubblicata come potenzialmente leggibile dal pubblico che la<br />
riceve, determina una gabbia metodologica di stampo linguistico ed ermeneutico, nella quale il traduttore<br />
si trova in balìa della funzione traduttiva.«Emendare un’opera delle sue stranezze per facilitarne la lettura<br />
porta solo a sfigurarla e, dunque, a ingannare il lettore che si pretende servire. Occorre al contrario,<br />
come nel caso della scienza, un’educazione alla stranezza. (34)»Nell’affrontare la discussione della<br />
«comunicazione controproducente» Berman si rifà alle teorizzazioni sulla comunicazione di Giraud e a<br />
quelle, considerate metafisiche ed «iperplatoniche», del Compito del traduttore (35) benjaminiano. La<br />
comunicazione culturale sarà allora delegata alla dimensione etica del tradurre che si fonda sui termini<br />
essenziali di «fedeltà e esattezza», termini che a loro volta rimandano, sì, ad una esperienza di<br />
traduzione, ma anche ad un contegno dell’uomo di fronte al mondo, alla sua stessa esistenza e ai testi.<br />
L’atto etico, secondo la riflessione di Lévinas (36), «[…] consiste nel riconoscere e nel ricevere l’Altro in<br />
quanto Altro.» e dunque «aprire all’Estraneo il proprio spazio di lingua» animato dal presupposto<br />
desiderio di farlo (37). Nella dimensione etica la lettera assume le caratteristiche di «carnalità»<br />
linguistica, tra le quali è da segnalare l’iconicità; la fedeltà alla lettera non è più fedeltà allo “spirito” (o al<br />
senso), ma soprattutto fedeltà alle clausole che vincolano il testo alla cultura ivi espressa:<br />
Essere “fedele” a un contratto significa rispettarne le clausole, non lo “spirito” del contratto. Essere fedeli allo “spirito”<br />
di un testo è una contraddizione in termini. […] Fedeltà e esattezza si rapportano alla letteralità carnale del testo. In<br />
quanto obiettivo etico, il fine della traduzione è di accogliere nella lingua materna questa letteralità. Poiché è in essa<br />
che l’opera dispiega la sua parlanza, la sua Sprachlichkeit, e compie la sua manifestazione del mondo. (38)<br />
È nei tre saggi monografici (39), nei quali vengono analizzate le traduzioni di Hölderlin, di Chateaubriand<br />
e di Klossowski, che Berman individua i risultati di una traduzione etica e delle metodiche che più si<br />
avvicinano alle teorizzazioni appena concluse. Anzi, proprio mentre il discorso si fa pratico, emergono<br />
altre suggestioni che ricalcano le problematiche che già i linguisti avevano incontrato nelle loro<br />
supposizioni riguardo alla traduzione.<br />
All’interno di questi lavori si fanno più insistenti i richiami agli studiosi della traduzione antecedenti le<br />
speculazioni di Berman, cioè Walter Benjamin e George Steiner. La volontà di confronto con i due autori<br />
nasce da un’esigenza bivalente: da un lato sta il fatto che i saggi di Benjamin e di Steiner sono le prove<br />
più convincenti di un discorso sulla traduzione che, seppur inglobandolo, supera il metodo linguistico;<br />
dall’altro c’è la partecipazione comune di una visuale filosofica d’indagine. Tale indagine comprende e<br />
sviluppa le domande che i teorici sentivano affiorare quando, uscendo temporaneamente dal campo<br />
metodologico della linguistica e della letteratura, s’imbattevano nell’importanza della motivazione a<br />
tradurre, della funzione del traduttore, delle implicazioni etiche, sociali e politiche della traduzione stessa.<br />
Inoltre, considerati anche gli sviluppi successivi alle teorizzazioni bermaniane, grossa parte dell’attività<br />
speculativa è da ricercare nelle opere di Heidegger, Gadamer, Derrida, Quine, e Wittgenstein. La<br />
traduttologia, in quanto pensiero-della-traduzione, ricade nella sfera speculativa dell’interpretazione e<br />
dunque si sviluppa nel campo dell’ermeneutica, non partendo dalla filosofia, ma avendo in comune con<br />
quella l’esplicitazione dell’atto inerente al tradurre.<br />
Nell’ermeneutica esistono moltissimi concetti che stimolano i traduttologi; alcune volte le stesse categorie<br />
traduttologiche sono direttamente derivate da metodiche filosofiche. Lo si è visto nel recupero, da parte<br />
dei teorici, dei saggi filosofici imprescindibili alla organizzazione della materia traduttiva: l’ermeneutica di<br />
Schleiermacher ripensata nel discorso moderno, l’etica di Schleiermacher stesso e di Lévinas, le riflessioni<br />
di Gadamer e di Derrida sul problema della traduzione. Berman stesso, tuttavia, fa notare l’imperfetta<br />
coincidenza tra interpretazione e traduzione:<br />
66
Nel campo della traduzione, i limiti della teoria ermeneutica – da Schleiermacher a Steiner – sembrano essere i<br />
seguenti: dissolvere la specificità del tradurre facendone un caso particolare di processo interpretativo, essere<br />
incapace di affrontare, in quanto teoria della coscienza, la dimensione incosciente in cui si giocano i processi linguistici<br />
– e quindi la traduzione. (40)<br />
Nell’opera di Heidegger il problema riguardante la traduzione è strettamente legato al concetto di<br />
tradizione. Per l’autore di Essere e Tempo, infatti, nell’unificazione tra Storia e ontologia la tradizione è la<br />
tramandabilità del Ci continuamente esposta; la ripetizione è la manifestazione della tradizione. «In<br />
questo senso vogliamo intendere fin da adesso la ripetizione come un qualcosa di essenzialmente affine<br />
al fenomeno della traduzione, e proprio nel fatto che essa rende manifesta la sua propria storia» (41).<br />
L’intima coappartenenza di ontologia, storicità e traduzione, comporta l’unione di comprendere e<br />
comprender-Ci solo nel campo della traduzione:<br />
L’esserci, che noi siamo, è lo storicizzarsi della lingua, uno storicizzarsi che è istituito dal progetto poetico-pensante<br />
che è la poesia; la Dichtung è l’anticipante esser-deciso del linguaggio (la profezia in cui il linguaggio si storicizza), è<br />
l’av-venire alla parola più propria e, al contempo, il ri-torno al suo più proprio esser-stato. Dunque non solo è<br />
progetto, è anche ripetizione, è, cioè, la trasformazione originaria dell’eredità che noi stessi siamo, ovvero di ciò che è<br />
assegnato in dote, in ciò che è dato in compito. (42)<br />
L’ermeneutica, secondo Heidegger, dunque, è la comprensione dell’esserCi attuale e dell’esser-Ci altro,<br />
che si ripete nella traduzione. Per questo la traduzione è anche il divenire ed il compimento dell’essere:<br />
«La traduzione è il divenire stesso dell’occidente, ma un divenire determinato dal modo in cui l’essere si<br />
traduce. Il divenire dell’occidente è dunque la traduzione dell’essere, il che significa che nella traduzione,<br />
quando questa sa adempiere al suo compito destinale, essere e divenire si dànno unitariamente. (43)»<br />
L’appropriazione della storicità dell’esserCi porta il traduttore a comprendere ed interpretare l’estraneo e<br />
relazionarsi con esso mediante un movimento doppio che Berman così descrive: «Solo il traduttore (e<br />
non il semplice lettore, sia esso il critico) può percepire quello che in un testo è dell’ordine del ‘rinnegato’,<br />
poiché fa apparire la lotta che si è svolta nell’originale, che ha condotto all’equilibrio che essa è» (44). Il<br />
rapporto con l’estraneo è attuabile attraverso la traduzione, come afferma anche Paul Ricoeur nel saggio<br />
La traduzione. Una sfida etica (45). Partendo proprio dalle affermazioni di Berman riguardanti le<br />
“modalità di resistenza” delle traduzioni, Ricoeur mette in relazione il “lutto e la felicità” della traduzione.<br />
La sfida della traduzione porta a risultati luttuosi solo se non si presuppone che la traduzione sia<br />
impossibile. Nello stesso tempo la coscienza di questa impossibilità è all’origine della sua felicità.<br />
Qui sta la felicità. Riconoscendo e assumendo l’irriducibilità della coppia del ‘proprio’ e dello straniero, il traduttore<br />
trova la sua ricompensa nel riconoscimento dell’intrascendibile statuto di dialogicità dell’atto di tradurre come orizzonte<br />
ragionevole del desiderio di tradurre. Di contro all’antagonismo che drammatizza il compito del traduttore, questi può<br />
trovare la sua felicità in ciò che amerei chiamare l’ospitalità linguistica. (46)<br />
La suggestione secondo la quale bisognerebbe uscire dall’alternativa teorica fra traducibilità e<br />
intraducibilità delle lingue, apre un campo di rapporti etici tra le lingue che precedentemente era<br />
conflittuale. «È quindi legittimo parlare di un ethos della traduzione: suo compito sarebbe ripetere, sul<br />
piano culturale e spirituale, il gesto di ospitalità linguistica sopra richiamato» (47). La traduzione influisce<br />
anche attraverso un modello che regola lo “scambio delle memorie”: mediante tale modello si<br />
trasferiscono in un ambiente le categorie etiche e spirituali dell’altro. Si dà rilievo anche alla funzione<br />
“narrativa”, cioè all’identità narrativa dell’estraneo. La comunicazione etica si esplica nella traduzione e,<br />
dunque, «assume, in forma immaginativa o simpatetica, la storia dell’altro attraverso i racconti che lo<br />
riguardano.» L’ermeneutica fenomenologica di Ricoeur, dunque, riesce a superare le contrapposizioni<br />
teoriche della traduzione attraverso il concetto di “ospitalità”. Offre, inoltre, una definizione della funzione<br />
del traduttore, che è ripresa dalla sua idea dell’ermeneutica; se «non si dà comprensione che non sia<br />
mediata attraverso i segni, i simboli, i testi» (48), così non si dà scambio che non sia mediato dai testi e<br />
dalle opere tradotte.<br />
Giampaolo Vincenti<br />
Note.<br />
(1) Buffoni Franco, Dopo Babele vent’anni dopo, «Testo a Fronte», n. 14, marzo 1996, p. 91.<br />
(2) Steiner George, Après Babel. Une poétique du dire et de la traduction, traduit par Lucienne Lotringer et Pierre-<br />
Emmanuel Dauzat, Albin Michel, Paris, 1998, p.62. Traduzione mia.<br />
(3) Marco Tullio Cicerone, Qual è il miglior oratore, da M.T.Cicero, Libellus de optimo genere oratorum, in Siri Nergaard<br />
(a cura di), La teoria della traduzione nella storia, Bompiani, Milano, 2002, pp. 51-62.<br />
(4) Schleiermacher Friedrich, Ermeneutica, Rusconi, Milano, 1996, pp- 301-303.<br />
(5) Ivi, p. 455.<br />
(6) Schleiermacher Friedrich, Sui diversi modi del tradurre, a cura di Giovanni Moretto, in Idem, Etica ed ermeneutica,<br />
Bibliopolis, Napoli, 1985, pp. 85-120, poi ripubblicato in Nergaard Siri, op. cit., pp. 143-179. A causa dei frequenti<br />
67
ichiami, vista l’importanza dell’opera in questione, ci si richiamerà al testo pubblicato nella miscellanea bompianiana<br />
chiamandolo Orazione o Memoria.<br />
(7) Ivi, p. 153.<br />
(8) Betti Emilio, Teoria generale della interpretazione, 2 voll., Dott. A. Giuffré Editore, Milano, 1955.<br />
(9) Ivi, Vol. I, p. 637<br />
(10) Ivi, vol. II, p. 641. Più avanti, a dimostrare la linea schleiermacheriana dell’ermeneutica bettiana, ne I criteri<br />
metodici dei vari tipi d’interpretazione in funzione riproduttiva, Betti afferma: «Così nella traduzione si tratterà, in<br />
primo luogo, di ricostruire nel discorso originale il pensiero dell’autore col criterio grammaticale e con quello<br />
psicologico[…]. Che se questo pensiero, oltre ad essere retto dalla logica della lingua originale genericamente intesa, è<br />
governato anche da una legge e logica propria, […], dovrà il traduttore, per intenderlo appieno, mettere in opera, oltre<br />
quei due criteri, anche l’interpretazione tecnica adatta a sviscerare quei tipi di discorso e di pensiero.» p. 651.<br />
(11) «In questa sede ci si occupa in maniera così dettagliata dell’idea di coappartenenza di questi due aspetti<br />
[interpretazione psicologica e interpretazione grammaticale] proprio in quanto l’ermeneutica, nella scia<br />
dell’interpretazione di Schleiermacher offerta da Dilthey, è stata successivamente spesso intesa come un’attività che<br />
intende isolare l’aspetto psicologico. In questo modo si è prodotta la caricatura della cosiddetta ermeneutica<br />
dell’empatia che si basa sull’immedesimazione fra anima e anima, ovvero su una comprensione umana delle profondità<br />
che si rivela incontrollabile da un punto di vista metodologico.» Jung Matthias, L’ermeneutica, Il Mulino, Bologna,<br />
2002, p. 57.<br />
(12) Ivi, p.665.<br />
(13) Ivi, p. 666.<br />
(14) Emilio Mattioli, Ricoeur e Meschonnic sulla traduzione, «Testo a Fronte», n. 29, dicembre 2003, p. 30.<br />
(15) Apel Friedmar, Il movimento del linguaggio, a cura di Emilio Mattioli e Riccarda Novello, Guerini e Associati,<br />
Milano, 1997, p. 37.<br />
(16) Ibid.<br />
(17) Friedmar Apel, Il manuale del traduttore letterario, op. cit., p. 28.<br />
(18) Ivi, p. 44.<br />
(19) Apel Friedmar, Manuale del traduttore letterario, a cura di Emilio Mattioli e Gabriella Rovagnati, Guerini e<br />
associati, Milano, 1993, p. 44.<br />
(20) Berman Antoine, L’épreuve de l’étranger, Gallimard Paris, 1984. [Berman Antoine, La prova dell’estraneo. Cultura<br />
e traduzione nella Germania Romantica, Traduzione italiana a cura di Gino Giometti, Quodlibet, Macerata, 1997. Si farà<br />
riferimento sempre a questa edizione].<br />
(21) Berman Antoine, op. cit., pp.11-20. La stesura del capitolo risale al maggio del 1981.<br />
(22) Ivi, p.15<br />
(23) Ibidem.<br />
(24) Ivi, p.16.<br />
(25) «Nel superamento rappresentato dalla finalità etica si manifesta un altro desiderio: quello di stabilire un rapporto<br />
dialogico fra la lingua straniera e lingua propria. […] sono questi le tre assi che possono definire una riflessione<br />
moderna sulla traduzione e i traduttori.» Ivi, p.20.<br />
(26) «Perché la pura finalità della traduzione non sia solo un pio voto o un “imperativo categorico”, all’etica della<br />
traduzione dovrebbe dunque aggiungersi un’analitica. Il traduttore deve “mettersi in analisi”, reperire i sistemi di<br />
deformazione che minacciano la sua pratica e che operano in modo inconsapevole sul piano delle sue scelte<br />
linguistiche e letterarie. Tali sistemi dipendono simultaneamente dai registri della lingua, dell’ideologia, della<br />
letteratura e dello psichismo del traduttore.» Ivi, p.17.<br />
(27) Ibidem.<br />
(28) Ivi, p.19.<br />
(29) Ivi, p.227.<br />
(30) Berman Antoine, La Traduction et la lettre ou l’Auberge du lointain, Seuil, Paris, 1999. [Berman Antoine, La<br />
traduzione e la lettera o l’albergo nella lontananza, traduzione italiana e cura di Gino Giometti, Quodlibet, Macerata,<br />
2003]. Durante la trattazione di questo saggio si farà riferimento all’edizione italiana.<br />
(31) «Poiché cercare degli equivalenti non significa solo stabilire un senso invariante, una idealità che si esprimerebbe<br />
nei diversi proverbi da lingua a lingua: significa rifiutare di introdurre nella lingua traducente l’estraneità del proverbio<br />
originale, la bocca piena d’oro dell’ora mattutina tedesca, significa rifiutare di fare della lingua traducente “l’albergo<br />
nella lontananza”, significa, per noi, francesizzare: vecchia tradizione.» Ivi, p.14.<br />
(32) Ivi, pp.13-14.<br />
(33)<br />
1. Razionalizzazione. È un modo di tradurre che deforma l’originale secondo un’idea pregressa di linearità. In base a<br />
questa tendenza il traduttore tende a linearizzare logicamente e razionalmente un originale che trova nella<br />
“ramificazione” o nell’imperfezione sintattiche il proprio stato artistico. La razionalizzazione opera sulle strutture<br />
sintattiche e di punteggiatura, ma anche sull’ambizione alla concretezza del testo da tradurre poiché astrattezza e<br />
generalizza un discorso che era tesa alla ricerca della materialità.<br />
2. Chiarificazione. Chiarisce proposizioni e concetti che nel testo originario si muovevano nell’indefinito, tende a<br />
rendere chiaro ciò che non voleva esserlo. Corollario della razionalizzazione, la chiarificazione opera nel passaggio dal<br />
polisemico al monosemico e da un parafrastico ad un altro.<br />
3. Allungamento. Spiega, allugandolo, il testo di partenza e rilassa la ritmica dell’opera. Ciò comporta una variazione<br />
dell’uniformità relativa alla lunghezza o alla frammentarietà del sistema di partenza. Non ha una base linguistica ma è<br />
una tendenza inerente al tradurre.<br />
4. Nobilitazione. Retoricizzazione per la prosa, poetizzazione per la poesia, tende a riprodurre l’originale in maniera più<br />
bella, inserendo nell’atto traduttivo una valutazione estetica basata sulle categorie del traduttore. Inoltre ri-scrive<br />
l’originale producendo frasi eleganti per nobilitare l’opera tradotta e ricorre a falsi patois nel caso voglia volgarizzare<br />
un testo.<br />
5. Impoverimento qualitativo. Riguarda l’iconicità terminologica, espressiva e strutturale del testo di arrivo poiché<br />
sostituisce alla significatività originaria la denotazione.<br />
68
6. Impoverimento quantitativo. Dispersione lessicale, opera un impoverimento dei significanti nel testo d’arrivo e<br />
riguarda il numero lessicale; in molte traduzioni, ad esempio, i sinonimi vengono unificati.<br />
7. Omogeneizzazione. «Essa consiste nell’unificare su tutti i piani il tessuto dell’originale, allorché questo è<br />
originariamente eterogeneo». Berman ammette che questa tendenza raggruppa la maggior parte delle precedenti.<br />
8. Distruzione dei ritmi. Modifica i ritmi del testo prosastico e poetico.<br />
9. Distruzione dei reticoli significanti soggiacenti. Il sottotesto costituisce parte della significatività e della ritmica<br />
dell’opera; anch’esso però intrattiene delle relazioni con le sottoparti. Le relazioni soggiacenti di un’opera, in<br />
traduzione, vengono spesso sottaciute.<br />
10. Distruzione dei sistematismi. Vi è compreso il concetto di sistema in senso moderno visto il fatto che quello si<br />
estende non solo al livello dei significanti ma concerne l’impiego dei verbi o delle subordinate. La «scrittura-dellatraduzione»,<br />
operando una chiara tendenza omogeneizzante nello stesso tempo appare incoerente, mostrando la asistematicità<br />
della scrittura di arrivo. Ne consegue che una scrittura traducente desistematizza la scrittura tradotta.<br />
11. Distruzione o esotizzazione dei reticoli linguistici vernacolari. É una delle tendenze più importanti in quanto<br />
concerne un ambito che, nelle letterature europee è molto utilizzato; l’elemento vernacolare è uno degli indici di oralità<br />
e di concretezza, di testualità del testo tradotto. La soppressione dei reticoli vernacolari è attuata in vari modi ma in<br />
particolare attraverso soppressione di diminutivi, sostituzione di verbi attivi con verbi uniti a sostantivi, trasposizione di<br />
significanti vernacolari. La tentazione di conservare l’elemento vernacolare del testo dà luogo all’esotizzazione: o<br />
isolando ed esagerando l’elemento vernacolare oppure utilizzando un vernacolare locale per sostituire lo straniero:<br />
«Solo le koinè, le lingue “coltivate”, possono tradursi l’un l’altra. Una simile esotizzazione, che rende lo straniero di<br />
fuori con quello di dentro, finisce solo per ridicolizzare l’originale.»<br />
12. Distruzione delle locuzioni. Le locuzioni, come i proverbi, sono il banco di prova della traduzione letterale. La<br />
tendenza alla distruzione delle locuzioni per mezzo dell’equivalente in lingua finale, distrugge la lettera – la parlanza –<br />
dell’opera a vantaggio del senso, ma propone una traduzione etnocentrica.<br />
13. Cancellazione delle sovrapposizioni di lingue. Elimina l’eteroglossia e l’eterofonia scaturente da sovrapposte koinè,<br />
conscie o inconscie, dell’opera.<br />
(34) Ivi, p.60.<br />
(35) Benjamin Walter, Il compito del traduttore, op. cit.<br />
(36) Lévinas Emmanuel, Totalità e Infinito, Jaka Book, Milano, 1980.<br />
(37) «Aprire è più che comunicare: è rivelare, manifestare. Si è detto che la traduzione è la “comunicazione di una<br />
comunicazione”. Ma è ancor più. Essa è, nell’ambito delle opere (che qui ci riguarda), la manifestazione di una<br />
manifestazione. Perché? Perché la sola definizione possibile di un’opera non può avvenire che in termini di<br />
manifestazione. In un’opera è il “mondo” che, ogni volta in maniera diversa, è manifestato nella sua totalità. […] La<br />
manifestazione che l’opera è, verte sempre su una totalità. Essa è inoltre manifestazione di un originale, di un testo<br />
che è primo non solo in rapporto ai suoi derivati tranlinguistici, ma primo nel proprio spazio di lingua. […] L’obiettivo<br />
etico, poetico e filosofico della traduzione consiste nel manifestare nella sua lingua questa pura novità preservandone il<br />
volto di novità. E anche, come diceva Goethe, nel dargli una nuova novità allorché il suo effetto di novità si è esaurito<br />
nella originaria area linguistica.» Ivi, pp.62-63<br />
(38) Ivi, p. 64.<br />
(39) Hölderlin, o la traduzione come manifestazione, pp.65-80; Chateaubriand traduttore di Milton, pp.81-95; L’Eneide<br />
di Klossowski, pp.97-119.<br />
(40) Berman Antoine, La prova dell’estraneo, op. cit.<br />
(41) Giometti Gino, Martin Heidegger. Filosofia della traduzione, Quodlibet, Macerata, 1995, p.52.<br />
(42) Ivi, p.101.<br />
(43) Ivi, p.117.<br />
(44) Berman Antoine, La prova dell’estraneo, op. cit. p. 271.<br />
(45) Ricoeur Paul, La traduzione. Una sfida etica, a cura di Domenico Jervolino, Morcelliana, Brescia, 2001.<br />
(46) Ivi, p.49.<br />
(47) Ivi p. 79. In precedenza Ricoeur scrive: « Sul piano propriamente spirituale, [la traduzione] invita a estendere lo<br />
spirito della traduzione al rapporto tra le stesse culture, ovvero ai contenuti di senso trasmessi dalla traduzione. Di qui<br />
il bisogno di traduttori da cultura a cultura, di bilingui culturali, in grado di accompagnare quest’operazione di<br />
trasferimento nell’universo mentale dell’altra cultura, tenendo conto dei suoi costumi, delle credenze di base, delle<br />
convinzioni principali – dei suoi riferimenti di senso.»<br />
(48) Ricoeur Paul, Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, traduzione italiana di G. Grampa, Jaka Book, Milano,<br />
1989, p.28.<br />
69
Le traduzioni dei poeti<br />
70
DEL TRADURRE: QUATTRO TESTIMONIANZE SINGOLE + UNA DOPPIA<br />
Due aneddoti, per incominciare, con funzione eziologica e scaramantica. Primo:<br />
“Lo sai perché Pavese s’è ammazzato? Veramente?” Chiese Giampaolo Dossena durante uno dei nostri<br />
primi colloqui alla Rizzoli, nel 1964.<br />
“No”.<br />
“Perché faceva il traduttore”.<br />
Come traduttore, sia pure in erba, come allora si diceva, mi pare, senza temere di incorrere nell’accusa di<br />
leziosaggine, preferii non accertarmi se l’enunciato avesse qualche fondamento di verità, o se fosse<br />
soltanto uno dei cento modi che hanno i redattori smaliziati di tormentare quelli alle prime armi.<br />
So soltanto che un paio d’anni dopo lo stesso Dossena respingeva, implacabilmente e, bisogna però che<br />
aggiunga, giustamente, la mia prima traduzione di un libro intero: Metateatro di Lionel Abel, un saggio<br />
così così che io, vittima di profonde insicurezze, non ero neppur riuscito a far diventare così cosà. Avevo<br />
accolto in italiano stilemi assolutamente non frequentabili... perché c’erano nell’originale. Non avevo<br />
messo in pratica quel che io stesso avevo predicato rivedendo traduzioni altrui. Se in italiano non si dice,<br />
non bisogna dirlo.<br />
Secondo: A Roma qualche anno dopo, quando ormai un po’ di gavetta l’avevo fatta, ebbi la dabbenaggine<br />
di accettare un’offerta impudente fattami da un editore (si fa per dire) impudente: Gherado Casini,<br />
passato dalla mediocrità ai tascabili nelle edicole.<br />
“Fammi un Typhoon. Hai tre settimane”.<br />
Facendomi aiutare da una santa donna di madre lingua inglese giunsi a tappe forzate al termine della<br />
breve e per me, come si vedrà, vergognosissima avventura. Nella fretta rimase fuori dal manoscritto,<br />
cioè finì nel cestino della carta straccia, proprio la pagina in cui Conrad descrive lo sconquasso del tifone.<br />
Il redattore (maneat iniuria verbis)... ci pensò lui a inserire una frase di raccordo. Non fui avvertito. Attesi<br />
con fatica e dolore i pochi quattrini e mi lamentai per qualche tempo con gli amici che incontravo in<br />
trattoria e a cui poco importava, di Casini, di Conrad e di me. Roma era, in quel tempo, la capitale<br />
italiana della cialtroneria editoriale. Ha perso in tempi recenti questo primato, essendosi la cialtroneria<br />
diffusa senza quartiere in tutta penisola. Vivo ancora oggi quest’incidente come un’offesa, come<br />
un’umiliazione.<br />
Da molti anni, se dio vuole, non traduco più per bisogno; e dunque traduco quel che mi pare. Faccio delle<br />
proposte (quasi sempre di testi poetici) a editori che quasi sempre le rifiutano o che non hanno i soldi per<br />
pubblicarle. Due eccezioni: Cesare de Michelis della Marsilio e Antonio Riccardi della Mondadori.<br />
Il primo pubblicò le mie versioni di La sacra Emilia e altre poesie di Gertrude Stein e però poi si rivalse<br />
incatenandomi, e chissà ancora per quanto tempo, al dolcissimo tormento di tradurre, e anzi di<br />
ritradurre, The Piazza Tales. ovverosia i Racconti della veranda di Herman Melville. Melville è assai meno<br />
generoso di Gertrude Stein. È anzi uno schiavista dello stile. La Stein gioca e ti invita a giocare. Melville ti<br />
aggioga. Se ti fai sedurre dal gioco delle tappe di avvicinamento all’originale (ed è inevitabile che ciò<br />
avvenga), dopo non c’è più verso di accontentarsi (1).<br />
Per fortuna che c’è uno scrittore piemontese di successo immediato incline ai barbari e alle sete (tanto<br />
per non fare nomi) che lo sta prosciugando a dovere. Lunga vita alla democrazia! Ma non bisogna<br />
aspettare che tutti capiscano che questa paccottiglia non è Melville, per ridare vita all’obbligo e alla<br />
responsabilità del tradurre. La sfida comincia dal non pensare che Call me Ishmael e Mi chiamo Ismaele<br />
siano sintagmi equivalenti. Sono piuttosto il contrario l’uno dell’altro. Chiamatemi Ismaele... E’ cosi che<br />
voglio farmi chiamare... ma io mi chiamo in un modo che non voglio che si sappia. Un caso di<br />
nominazione, questo, che farebbe impensierire Walter Benjamin (2).<br />
Mi sembra un buon caso di ascolto delle implicazioni del linguaggio, cioè di quell’attività noetica per cui ci<br />
si accorge dello spaventoso abisso che separa l’enunciazione dall’enunciato. Un altro caso potrebbe<br />
essere quello proposto da Heidegger nel commento alla poesia La parola di Stefan George che sta al<br />
centro del suo L’essenza del linguaggio. A proposito del verso “nessuna cosa è (sia) dove la parola<br />
manca”, il filosofo tedesco rovescia il senso di una lettura motivata da un semplice rapporto di referenza<br />
(per cui la cosa incomincerebbe a rendersi percepibile e a circolare quando incontra la parola che la mette<br />
in essere) e risale invece a quella meraviglia per cui la parola è sì ma solo nel dire. “... La parola non si<br />
limita a essere in rapporto con la cosa [...] ma è ciò che porta e serba la cosa come cosa; [...] la parola,<br />
in quanto ciò che porta e serba, è il rapporto stesso.” E si può dunque concludere che nessuna cosa può<br />
essere laddove la parola cessa di essere rapporto per diventare cosa.<br />
Credo che siano fondamentalmente di questo genere le ragione per cui Melville è tanto più sfuggente e<br />
difficile da tradurre della Stein. Nella Stein la parola è piuttosto un oggetto. È come un pezzetto di lego:<br />
va montato e rimontato. Con Melville non è che non si incontrino occasioni di gioco, ma queste non sono<br />
71
mai il motore centrale dei procedimenti di significazione. Per meglio dire: il referente non è il risultato di<br />
un’attività plastica, di un montaggio (lo scrivere dipingendo della Stein). L’astrazione collabora in Melville<br />
con la cosa da cui si astrae. È, a parte le difficoltà terminologiche (il gergo marinaresco) una lotta<br />
immane tra lo scrivere che si scrive mentre si scrive e lo scrivere che scrive di qualcosa . Così, a un<br />
dipresso, si era espressa la Stein medesima a proposito di Henry James, ma mi pare che vada bene<br />
anche (soprattutto) per Melville (3). L’importante è ricordarsi che in questo genere di scrittura che<br />
racconta senza perdersi di vista, la verità va e viene: una volta sta nel raccontato e una volta nel<br />
raccontare e qualche volta in entrambe le opzioni.<br />
Melville e la Stein sono comunque, per me, riti perenni di iniziazione. Sono e restano (spesso mischiando<br />
le proprie istanze e i propri tranelli) i miei instancabili banchi di prova. Melville su di un piano meno<br />
immediato; più che come maestro di bottega come filosofo operante nel livello poetico del linguaggio. Nel<br />
tradurlo mi barcameno tra due pericoli: il seguirlo e l’inseguirlo. La differenza tra i due è di sostanza. Si<br />
segue quel che si pensa di riconoscere. Si insegue ciò che vuol farsi conoscere prim'ancora di<br />
manifestarsi. Ma poiché sono giunto sì e no a metà del guado, con Melville, preferisco non dire altro e<br />
invitare il lettore a condividere con me un febbrile stato di allerta.<br />
Il secondo anfitrione è stato, come più sopra accennato, Antonio Riccardi, il quale non ha battuto ciglio (e<br />
anzi ha sorriso) all’idea di gettare uno sguardo “leggero” sul mondo poetico americano degli ultimi<br />
trentacinque-quarant’anni per vedere ciò che di nuovo è emerso da quel panorama, senza ignorare ciò<br />
che deve la propria esistenza a energie e influenze esterne o anteriori ad esso (4). L’opera è in corso e la<br />
sto conducendo insieme a Paul Vangelisti della cui collaborazione con me parlerò più avanti. Per ora basti<br />
dire che, ispirati, ancora una volta da Getrude Stein, e cioè dalla sua istigazione a pensare la storia in<br />
termini di geografia, ci siamo convinti che i luoghi di appartenenza lascino tracce evidenti nella scrittura<br />
(anche in quella poetica).<br />
Ci è parso dunque plausibile, oltre che proficuo, adottare una tassonomia di ordine topografico:<br />
suddividere gli autori sulla base del territorio fisico da essi scelto o, comunque volontariamente occupato.<br />
Abbiamo preferito topografico a geografico, parendoci, il primo, più prossimo all’evocazioni di fattori<br />
contingenti e culturali. Certi tratti “pop” e certe sviolinate aritmiche ci sono parsi più “pop” e più aritmiche<br />
a Los Angeles che a San Francisco o a New York, etc. Ma, anche qui, il criterio adottato non diventa mai<br />
una camicia di forza e dunque non impedisce, quando sia necessaria, la messa in luce di comuni<br />
denominatori stilistici o tematici o retorici etc.<br />
L’egida sotto cui abbiamo inscritto le poesie di Los Angeles è quella che ormai tutti conoscono, e cioè<br />
quella del posto che non c’è (Il Big Nowhere di Ellroy). Una cupola buona per le poesie di San Francisco ci<br />
è sembrato invece di poterla trovare nel carattere utopico di questa città che potrebbe essere... quello<br />
che è. Di New York possiamo dire per il momento che l’ombrello buono potrebbe essere quello di un<br />
posto che pensa di esserci e di contare perché è convinta di essere stata. Questo spiega come mai<br />
mangiare un hot dog sulla Quinta Avenue sia diverso che mangiarlo a Topeka (Kansas). Ma è chiaro che<br />
si tratta di una topograficità problematica che mostra troppo spesso la corda (specialmente in prossimità<br />
della morte).<br />
Per Chicago non sappiamo ancora bene: ma c’entrerà di sicuro l’idea del Realismo che in America e’ quasi<br />
sempre assurdo, cervellotico, né plausibile come esperienza, né accettabile sul piano della logica.<br />
Abbiamo qualche problema per il Sud. Sarebbe inopportuno sfruttare la tragedia di Katrina e scegliere<br />
come emblema New Orleans? In realtà gli stati del Sud (dove conta ancora l’idea molto nostalgica della<br />
secessione), hanno fondamento culturale agricolo, di campagna. Andrebbe dunque bene una città<br />
giardino: Richmond, per esempio, o Charleston, che non sono vere città industriali e tanto meno postindustriali.<br />
Ci sarà poi un volume conclusivo intitolato a Washington (District of Columbia), capitale dell’impero, città<br />
dei pescecani e dei lobbisti, città inventata a tavolino, sede ufficiale del vanverare linguistico, luogo di<br />
respinta ufficiale della poesia (vi nominano infatti, ogni anno, un poeta laureato). Sotto il toponimo di<br />
Washington può starci di tutto: dal Nuovo Messico, alla Nuova Inghilterra. Per farsi iscrivere in questa<br />
rubrica bisogna comunque, e prima di tutto dimostrare di voler resistere alle bordate dell’omologazione,<br />
secondo uno stile diffusamente, (non universalmente) americano: insomma secondo quella “tipicità”<br />
americana che si coglie “da fuori”.<br />
Quest’impresa della poesia americana, (con la quale siamo già dentro il solco della prima testimonianza)<br />
è, devo dire, quella in cui mi sento più a mio agio, come traduttore, o revisore di traduzioni. Muovendomi<br />
dall’inglese all’italiano, oltretutto, vado più sul sicuro. Anche se sicuri non si può essere mai, ovviamente.<br />
E la non sicurezza funziona spesso come un bene. Primo perché ti toglie dalla faccia il sorriso di<br />
compiacimento che tende a installarvisi quando un’equivalenza interlinguistica (semantica o retorica) si<br />
affaccia all’orizzonte, e, secondo, perché ti ricorda che parlare bene le lingue non è necessariamente un<br />
segno di intelligenza e comunque non coincide affatto con il conoscerle sul serio.<br />
Quel che conta, in fatti, è capire il senso profondo che emerge dal dire in una lingua e che non può<br />
essere tralasciato, o inteso come ingombro. E per tale senso credo che si possa intendere la qualità<br />
dell’affetto (dove sta memoria, avrebbe aggiunto Ezra Pound, citando in parte Guido) che lega un<br />
significante al suo referente, qualità e, dunque, differenza, in cui abita il vero significato. E qui torniamo<br />
per un attimo alla Stein la cui eredità è visibile in Ron Silliman quando scrive “Be wood” e cioè a prima<br />
vista “Sii legno”. Ma il contesto sconsiglia una tale specularità per cui giustamente il suo traduttore,<br />
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Gialuca Rizzo, ha pensato a “Be would” (stesso suono), rovesciamento di “Would be”: la qual cosa<br />
verrebbe a dire “Sarebbe”; e però, non potendosi ignorare la metatesi testé scovata, quel che leggiamo<br />
alla fine è “Ebbe Sara”, una soluzione lontana mille miglia dalla materia della grammatica (e della<br />
morfologia) e perfettamente idonea alla leggerezza, all’andirivieni, al “rapporto” in cui la parola invera il<br />
proprio pensiero poetico (5). E non è detto neppure se Sara sia l’oggetto avuto da qualcuno (che rimane<br />
a sua volta innominato) o se si tratta di una prolessi. (Con Sara che diventa il soggetto posposto della<br />
minuscola proposizione).<br />
Un altro caso “steiniano” può dirsi anche il breve distico “voice ink / voice-nik” di Brenda Hillman,<br />
magistralmente reso da Francesca Leardinini con “Voce inchiostro / evoc-inchiostro” (6). Quel che<br />
succede, nella traduzione, è che l’attenzione viene a concentrarsi sull’anagramma di voice (voce – evoc)<br />
anziché su quello di ink. (nik) che è però desinenza “evocativa” (sputnik, beatnik). Il miracolo è dunque<br />
che l’inchiostro e la voce continuano a proporsi, anche in italiano, nella loro funzione evocante. La<br />
differenza è che in traduzione tale funzione è dichiarata, laddove nell’originale essa si manifestava in re.<br />
Quest’idea del trattenere la qualità del rapporto parola-cosa, cioè del mantenere in vita lo “stretto<br />
indispensabile” che collega le due realtà cominciò a diventarmi chiara dopo le prime escursioni che feci in<br />
questa “palude”della poesia americana che per me ha tutta l’aria di essere diventata definitiva. Risalgono,<br />
tali escursioni, alla metà degli anni ‘60 quando pubblicai, sulle pagine del Marcatrè, (7) alcuni testi non<br />
impervi di Charles Olson e di LeRoi Jones (oggi Amiri Baraka). Ma fu solo nel 1969, con la traduzione (per<br />
Guanda) di Kora all’inferno di William Carlos Williams che il furioso e doloroso apprendimento insito nel<br />
tradurre si manifestò sotto le spoglie non mentite del godimento. Kora fu la prima delle mie traduzioni<br />
che non mi recò nessun fastidio retroattivo. Mi piacerebbe, in effetti, aver cominciato da lì. Era infatti la<br />
prima volta in cui il lavoro di traghettamento lessicale, contestuale e, se si potesse dire, perfino<br />
metalinguistico, mi appariva come qualcosa di utile non solo per gli eventuali lettori, ma prima di tutto<br />
per me stesso. Tradurre era diventato la mia grammatica trasgressiva, rispetto, mettiamo, alle<br />
grammatiche normative (oramai) dell’avanguardia in seno a cui erano sbocciate le mie prime (e<br />
comunque tardive prove di scrittore e poeta). Cioè mi sentivo spinto in quella direzione... in realtà, prima<br />
che potessi trarre profitto da quelle esperienze dovettero passare molti anni, durante i quali riuscii solo a<br />
chiudermi in un caparbio e nevrotico silenzio. Ma non fu un silenzio totalmente arido. Una ventina d’anni<br />
dopo, quando la lunga criolizzazione cominciava a dare segni di scioglimento, ebbi addirittura la temerità<br />
di scrivere:<br />
“Contrariamente a quel che capita per gli autori facilmente traducibili, i quali andrebbero sempre<br />
frequentati (qualora proprio se ne avvertisse il bisogno) nei testi originali, un autore “intraducibile” è<br />
sempre meglio leggerlo in traduzione. E non intendo solo da parte di chi, non conoscendo un certo<br />
idioma, si credesse costretto a fare di necessità virtù, ma anche, e aggiungo, sia pure con qualche<br />
ritegno, soprattutto, da parte di coloro che, conoscendolo anche troppo bene, corrono il rischio di non<br />
sapere più godere delle capriole, delle complicazioni, degli “arrangiamenti” con cui un autore<br />
splendidamente capriccioso e delittuosamente irrinunciabile – mi riferivo partitamente a Gertude Stein –<br />
ha voluto dare a quell’idioma un andamento fuori del normale. (8)<br />
Rileggendo oggi queste parole, per immodeste che siano, mi pare di poter ancora sottoscrivere tutta la<br />
loro paradossale irruenza: l’unica avvertenza è, giova ripetere, che sono certamente autoriferite. In<br />
sostanza per me la traduzione non è più un perdersi, un farsi stiracchiare di qua e di là, ma un ri-trovarsi.<br />
Questo funziona quando si affrontano autori o affini o utili alla propria libertà. E così per restare nella scia<br />
dei poeti contemporanei che vado voltando in inglese in questi anni o sui testi dei quali agisco come<br />
episcopo, vorrei approfittare di queste pagine per rendere un “sentito omaggio” a un poeta come Philip<br />
Whalen (9) da cui ho imparato a contraddirmi, cioè a non farmi ricattare dalle premesse (ciò che è vero<br />
in un dato momento e clima, può, in altro clima e in diverse circostanze, elargire energia al proprio<br />
contrario, anche all’interno di un’unica elaborazione poetica) e a Bob Crosson (10) da cui ho imparato a<br />
dimenticare la materia dichiarata del proprio racconto, cioè a configurare la storia dei fatti all’interno di<br />
esigenze psichiche sopraggiunte e messe in risalto dall’abbandono, dal venir meno dell’interesse per<br />
l’impresa... intrapresa.<br />
Ma è ormai gran tempo che si affrontino le successive testimonianze. La seconda riguarda le traduzioni<br />
che ho fatto di me stesso dall’inglese (in cui mi ero peritato di scrivere) in italiano. Questo significa<br />
dipingere se stessi come poeti bilingui. Solo che il bilinguismo poetico è, per fortuna, un’illusione. Il fatto<br />
è che una delle due lingue è, per forza di cose, seconda. E ciò significa che chi se ne serve ha a<br />
disposizione un maggiore quantità di insicurezza (rispetto alla lingua prima). Vero è che, prima o seconda<br />
che sia, una lingua, in poesia, deve essere comunque lasciata libera di dire e di dirsi; ma è altrettanto<br />
vero che l’eccitamento che scaturisce dall’impiego di semantemi familiari e ignoti allo stesso tempo è più<br />
ampio e variegato nell’impiego della lingua seconda: quella che si è in grado di controllare di meno<br />
Nella lingua seconda capita più spesso che nella prima, non solo di pensare di sapere quale sia il senso di<br />
una determinata espressione (che poi si rivela erroneo), ma di usare con impunità espressioni che<br />
funzionano perfettamente senza che se ne possieda il senso. È così che per istigazione di Filippo Bettini, è<br />
venuto al mondo, nel 1996 presso l’editore Quasar di Roma, Shakespeherian Rags/Stracci<br />
Shakespeariani, un testo che già nel titolo denuncia la sua anfibia natura. Grazie al raddoppiamento<br />
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sillabico in shakespeherian (un cospicuo prestito dalla Terra desolata di T.S. Eliot) il termin rag aggiunge<br />
un valore musicale (rag-time) all’originale accezione sartoriale (rag = straccio, straccio d’un vestito etc.).<br />
Ma per l’appunto in Italiano è solo questo senso sartoriale che viene mantenuto.<br />
L’idea dell’autotraduzione in realtà non fui veramente capace di condurla fino in porto, non nel modo<br />
previsto, quanto meno. Gli stracci shakespeariani essendo tutti rigidamente strutturati come sonetti di<br />
pentametri giambici (breve lunga, breve lunga etc.) non ci fu verso di volgerli in endecasillabi. Può anche<br />
darsi che il pentametro giambico abbia avuto in inglese una frequenza pari a quella che ha avuto in<br />
italiano l’endecasillabo, ma i due versi non hanno assolutamente nulla in comune. Per assaporare la<br />
difficoltà in cui mi dibattevo potrebbe illuminante leggere in proposito quel che sul rapporto metricacanto-poesia<br />
ha scritto Giuseppe Ungaretti in un suo celeberrimo saggio:<br />
In quegli anni, non c'era chi non negasse che fosse ancora possibile, nel nostro mondo moderno, una<br />
poesia in versi. Non esisteva un periodico, nemmeno il meglio intenzionato, che non temesse ospitandola,<br />
di disonorarsi. Si voleva prosa: poesia in prosa. La memoria a me pareva, invece, una àncora di salvezza:<br />
io rileggevo umilmente i poeti, i poeti che cantano. Non cercavo il verso di Jacopone o quello di Dante, o<br />
quello del Petrarca, o quello di Guittone, o quello del Tasso, o quello del Cavalcanti, o quello del Leopardi:<br />
cercavo in loro il canto. Non era l'endecasillabo del tale, non il novenario, non il settenario del talaltro che<br />
cercavo: era l'endecasillabo, era il novenario, era il settenario, era il canto italiano, era il canto della<br />
lingua italiana che cercavo nella sua costanza attraverso i secoli, attraverso voci così numerose e così<br />
diverse di timbro e così gelose della propria novità e così singolari ciascuna nell'esprimere pensieri e<br />
sentimenti: era il battito del mio cuore che volevo sentire in armonia col battito del cuore dei miei<br />
maggiori di una terra disperatamente amata.<br />
E allora ricorsi anch’io alla prosa, alla prosa cosiddetta poetica che oggi, mi pare, è di gran moda, una<br />
prosa marcata da battiti e battute.<br />
Credo che abbia ragione Maurizio Cucchi quando dice che la prosa poetica dovrebbe essere scritta<br />
inseguendo il suono che ha una poesia in versi quando il poeta la legge, alleggerendo cioè la distinzione<br />
tra unità metriche e unità di senso. La prosa poetica sarebbe dunque una lettura scritta della poesia in cui<br />
la metrica non funge da controcanto rispetto al senso, non ne determina l’enfasi, ma ne è, per così dire,<br />
l’ipostasi. Io, per lo meno ho capito così. E negli Stracci shakesperiani è venuto fuori che<br />
diventasse:<br />
“Fondling, she sayth,” but in that tone of voice<br />
that Garbo was to flaunt in mide career<br />
when lamentation was not yet lament,<br />
and “ haved hemmed thee here” could shift from sweet<br />
rebates to flagellation.<br />
“Dolcezza, dice lei,” con quella voce che una Garbo ti sapeva tirare fuori a metà della sua carriera,<br />
quando il lamento non era ancora una lagna e “ti ho irretito qui” poteva trasformarsi da un dolcissimo<br />
risarcimento in flagellazione. (11)<br />
E ora, per procedere alla terza “aberrazione” che è anche la terza testimonianza singola, bisogna che tiri<br />
in ballo Guido Cavalcanti. Preso da un entusiasmo che tuttora non accenna a diminuire per la folle<br />
esiguità lessicale e sintattica del dialetto milanese, ma soprattutto per la sua rocciosa durezza, volli<br />
misurarmi con la profonda e astuta leggerezza del corpus cavalcantiano (e non del personaggio storico<br />
che porta il suo nome a cui, dopo le Lezioni americane di Calvino, viene corrivamente assegnata).<br />
Trasferire Cavalcanti in milanese vuol dire in primis mettersi in una posizione sado-masochista. E cioè<br />
trarre godimento dall’idea di piegare e riforgiare una materiala ostile che, comunque, alla fine non si<br />
lascia né piegare né riforgiare. Il cavalcantiano:<br />
Tu m’hai sì piena di dolor la mente<br />
diventa nel mio milanese:<br />
Ti de dolor te m’ee impienì talment.<br />
Mente è sostantivo di altissima frequenza nello stilnovista; è, notoriamente, una delle sue parole chiave.<br />
Ora ment non è che non esista in milanese, ma è termine logoro e svilito. È frequente solo in locuzioni<br />
come Fagh a ment, Avegh in ment che vengono a voler dire, bada, fai attenzione, e aver intenzione di:<br />
garanzie frastiche che o scivolano nella melma delle espressioni fatiche, delle zeppe riempitive, o sono<br />
vincolate a modalità espressive fisse e invalicabili. Se mente in Guido vuol dire sede dell’attività<br />
intellettiva (ma per lui bisognerebbe dire sensivita o razionale inceppata), si potrebbe supporre di poterla<br />
trasporre in cou, e cioè in testa, come si evince da Ste gh’et in del cou? (Ma cos’hai nella testa?) Ma<br />
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anche cou, a non dire del suono (più sordo che cupo) ha profilo basso, dozzinale. Ed è maschile (sarebbe<br />
un disastro ignorare questa differenza di gender) È sorprendente quanto sia generica la terminologia<br />
meneghina delle attività pensative! E allora, parendomi che il dolore derivante dallo scacco subito dal<br />
pensiero sotto l’influsso di amore, fosse, in milanese, di difficile collocazione ho preferito ribadirne la<br />
presenza con un rafforzativo modale. Talment si offriva spontaneamente allo scioglimento della difficoltà.<br />
Da un lato il suono del significante ment si fa sentire chiaro e tondo. Dall’altro, rintanato nella sua culla<br />
avverbiale, non rischia di arrogarsi funzioni incongrue. In sostanza, il fatto di evitare la presunta<br />
specularità in cui sarebbe facile cadere (mente = ment) mi sembra che consenta alla lingua ospitante di<br />
mantenere viva la peculiarità di quella ospitata.<br />
La smania del tradurre dal toscano in milanese (di Porta Ticinese), ma anche dallo scrivere direttamente,<br />
e con rigore filologico, in dialetto (vedi Che Oror l’Orient) (12) si è alla lunga tramutata in voglia di<br />
sapore regionale, e anche adesso con la Trilogia germanica (i primi vagiti sono apparsi nell’ultimo numero<br />
de l’Almanacco dello specchio) sto cercando di fabbricarmi uno strumento che non dissomigli da quello<br />
che aveva in testa il Baldassar Castiglione quando scriveva che era meglio scrivere da lombardo essendo<br />
lombardo piuttosto che come toscano non essendolo. Ma questo col tradurre c’entra poco per cui passerei<br />
senz’altro alla quarta insula del mio arcipelago di traghettatore.<br />
E qui si parlerà del mio ruolo di facilitatore e di consulente (ruolo in cui mi trovo calato sempre più<br />
spesso, e che non è slegato da quello di docente di testi poetici contemporanei). In questo settore<br />
dell’andirivieni tra italiano e inglese la superficialità è talmente diffusa che viene da piangere. Per un<br />
eccellente Michael Moore o per una straordinaria Murtha Baca ci sono decine di rimestatori e grassatori da<br />
strapazzo. Di commettere errori, anche grossolani, capita a tutti (me compreso). Ma come si dice, est<br />
modus in rebus. Il problema non nasce mai dal non sapere, ma dalla presunzione di sapere. Insomma c’è<br />
al mondo un sacco di gente che pensa di conoscere la lingua da cui traduce, la quale, contrariamente a<br />
quel che sostiene Diderot – in un suo fine paradosso, e cioè che non sia necessario intendere una lingua<br />
per tradurla, in quanto che la si traduce per dei lettori che ne sono digiuni anche loro – non rilascia i suoi<br />
segreti se non a patto di esercitare su di essa una curiosità anche maggiore di quella con cui ci si<br />
dovrebbe rapportare a quella in cui si traduce.<br />
Ma questa condizione di totale ignoranza è, ai tempi nostri, insostenibile. Le spie (non quelle che vengono<br />
dal freddo, ma quelle linguistiche) sono dappertutto e a portata di mano. I muri hanno non solo orecchi,<br />
ma anche occhi. E, allora, per fare un esempio tra mille, se Adriano Spatola usa, in un suo breve<br />
componimento, il verbo stagliare (nel senso che si può stagliare contro il cielo il profilo di qualche cosa) e<br />
il suo traduttore americano lo rende con il verbo to slice (tagliare, fare a fette, come se si trattasse di un<br />
salame di Varzi), ne nasce sicuramente ilarità, ma è dubbio che essa basti a compensare dell’offesa<br />
inflitta al testo originale (nonché alla memoria del poeta scomparso). Né il consuntivo diventa meno<br />
catastrofico quando si prendono in esame le traduzioni dei poeti americani contemporanei fatte “alla<br />
macchia” in Italia, cioè da editori tipografi volonterosi, ambiziosi e impreparati. Generosi ma impertinenti.<br />
Con loro non ci si allontana mai troppo dagli esilaranti equivoci degli anni cinquanta quando gli<br />
appuntamenti mancati (missing dates) potevano diventare datteri mancanti (missing dates) e i cepugli si<br />
poteva batterli attorno (to beat around the bush) ogni volta che si intendave menare il can per l’aia (to<br />
beat around the bush).<br />
Ma per restare con i poeti italiani in America vorrei segnalare un problema costante che si ripresenta<br />
puntualmente grazie alla “naturale” proletticità del discorso italico: non si tratta neanche tanto di<br />
rispettarlo. Basterebbe accorgersi della sua presenza e misurarne di volta in volta la pregnanza eristica. È<br />
chiaro che nei casi in cui due letture sono possibili, una prolettica e una no, prendere a destra piuttosto<br />
che a sinistra (nel tradurre) può essere questioni di vita o di morte testuale. Prendiamo il caso di un<br />
classico testo ungarettiano: l’amore non e’ più quella tempesta etc. Nella prima strofa il poeta denuncia il<br />
venir meno delle battaglie amorose e si chiude con la presenza di una virgola di sospensione seguita da<br />
un cospicuo spazio bianco. La seconda strofa attacca con un verbo: balugina da un faro verso cui va<br />
tranquillo (cito a memoria) il vecchio capitano. Il problema non potrebbe essere più chiaro: o balugina è il<br />
predicato verbale di amore (quello lontanissimo della prima strofa) oppure è il predicato del vicino (e<br />
prolettico) vecchio capitano. Nel primo caso il testo non dice nulla di sorprendente. Non è che la conferma<br />
di una deplorevole e verificabile condizione umana: più vecchiezza = meno tempeste amorose. Nel<br />
secondo caso abbiamo invece un capitano che balugina e che va verso un luogo (il faro) da cui viene.<br />
Questo ha tutta l’aria di un busillis più redditizio, più produttivo. Intanto è magnifico che un capitano<br />
balugini assorbendo in sé, sia pur debolmente, la luce di un faro. E poi che stupenda ed energetica<br />
contraddizione in questo flebile ma lancinante desiderio di rifare la strada a ritroso, desiderio che può<br />
sprigionarsi solo se i versi vengono letti e accolti, prima di tutto, per il modo in cui sono stati scritti e<br />
battuti e giostrati e forgiati.<br />
Alla luce di esperienze di questo genere ho accettato di fare da spalla a Patrick Rumble dell’Università del<br />
Wisconsin, che è alle prese con una nuova versione di Girl Named Carla di Elio Pagliarani. Farà parte di A<br />
Girl named Carla and Other Poems che uscirà presso Agincourt (New York), nell’autunno di quest’anno.<br />
E adesso, per concludere, la testimonianza doppia. È doppia perché coinvolge il poeta e traduttore<br />
americano Paul Vangelisti. Lavoro con lui ... o è lui che lavora con me? Chi di noi è Gianni e chi di noi<br />
Pinotto? Ce lo siamo chiesti spesso, dopo lunghi e perniciosi conflitti. Sono ormai anni che collaboriamo<br />
sui due versanti del crinale e siamo ormai convinti che le traduzioni a quattro mani si facciano non tanto<br />
75
con un collaboratore quanto contro di lui. Il problema nasce dal fatto che nell’esagitazione del tradurre<br />
(certo non nella serenità di una happy hour) ci convinciamo ogni volta di sapere la lingua dell’altro non<br />
solo meglio di quanto lui conosca la nostra, ma di quanto lui conosca la sua. Ma non tutte le fratture<br />
vengono per nuocere, e quando uno dei due si arrende alla competence dell’altro (ma sempre con<br />
qualche salutifero dubbio intorno alla performance) allora, nel comporsi della cura (e non della curiositas)<br />
vengono fuori chiaramente i vantaggi. In generale le rese avvengono sul piano del ritmo finale che il<br />
testo acquista nella lingua allofona. Intorno al senso gli accordi si riesce a raggiungerli un po’ più<br />
facilmente. E, anche qui, basti un esempio...<br />
Se Ray DiPalma apre il suo Paving the River con Substantiation only an afterthought e io riconosco nel<br />
primo termine solo una dejezione nominale del verbo to substantiate (e cioè dare sostanza alla propria<br />
tesi, in una parola: dimostrarla) e mi lascio sfuggire il senso che il termine ha in ambito cristologico<br />
(presenza del corpo di Cristo nel pane dell’eucarestia e, dunque, Ipostasi) il discorso va letteralmente a<br />
farsi benedire. Grazie all’intervento di Vangelisti invece il malcapitato “prendere corpo” proposto in prima<br />
battuta, potrà ora rifluire nel suo giusto alveo teologale. Purtroppo, e proprio nella veste di quella prima<br />
battuta, il testo ha già visto la luce in Italia, grazie ai tipi di un editore veramente raffinato che ha avuto<br />
la bella pensata di ringraziarmi nella pagina delle scritte d’obbligo “per l’inestimabile aiuto” da me dato<br />
alla traduzione. Ora tutti sanno (e sapevano) che io il testo non solo non l’avevo rivisto , ma che, per<br />
motivi diversi, mi ero categoricamente rifiutato di discuterlo con Vangelisti.<br />
“Ecco il giudizio uman come spesso erra”, scriveva l’Ariosto, con ottime ragioni. Non solo, connivente il<br />
mio sodale, un tirannello editoriale fa scempio del mio nome e si fa beffe dell’accaduto (non una riga di<br />
scusa)... impegnato come senz’altro sarà in qualche sua caccia alla volpe nello Yorkshire, ma ora che<br />
desidero includere quel testo nel volume dei poeti di New York, mi tocca comunque intervenire<br />
pesantamente con grave imbarazzo mio e del giovane traduttore (cui quell’aiuto era stato promesso e<br />
anzi garantito). Non è tipico ma può capitare... come può capitare che due irlandesi escano<br />
spontaneamente da un bar.<br />
Mi domando quanto di questo importi a Gianni. E a Pinotto? E mi scuso per la buona dose di superciliosa<br />
baldanza con cui mi sono, in pratica, confessato. Anche la confessione può essere vista come una sorta di<br />
traduzione? Non lo escluderei. Ma devo ricordare senza un vero pentimento inginocchiarsi e tradurre non<br />
ha nessun valore redentivo.Anche se questo, chiaramente, nulla toglie all’odore della santità che tale<br />
attività può comunque procurare. Vedi Ser Ciappelletto.<br />
Luigi Ballerini<br />
New York, 30 dicembre 2006<br />
Note.<br />
(1) Ai problemi inerenti alle “Traduzioni italiane di Herman Melville e Gertude Stein” è stato dedicato il secondo<br />
seminario sulla traduzione letteraria dall’inglese, tenutosi a Venezia, presso l’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti,<br />
nel 1997.<br />
(2) Vedi i suoi saggi sul linguaggio umano e sul compito del traduttore. E per quanto riguarda l’incipit melvilliano mi si<br />
permetta di ricordare come nella trappola non sia caduto Ruggero Bianchi che ha tradotto, con giusta enfasi:<br />
“Ishmael... chiamatemi così”. Vedi la sua edizione di Moby Dick, Milano, Mursia, 1993, p. 19.<br />
(3) “Four in America” (1947).<br />
(4) Gli proporrò presto di farmi ritoccare le traduzioni delle poesie di LeRoi Jones (oggi Amiri Baraka) fatte da Giovanni<br />
Raboni e Riccardo Mainardi e pubblicate nel 1968.<br />
(5) Vedi Nuova Poesia Americana: San Francisco, Milano, Mondadori 2006, pp. 362-63.<br />
(6) Ibid. pp. 152-53<br />
(7) Ma ricordo con estremo piacere le molte ore passate con Elio Pagliarani (negli anni 1965-66) sulle pagine di The<br />
Distances di Charles Olson.<br />
(8) “Avvertimenti utili (si spera) per una prima ricognizione nella foresta di Arden” in La sacra Emilia e altre poesie,<br />
Venezia, Marsilio, 1998, p. 9.<br />
(9) Vedi Nuova poesia americana: San Francisco, Milano, Oscar Mondadori, 2006, p. 449 et sgg.<br />
(10) Vedi Nuova poesia americana: Los Angeles, Id., 2005, p. 73 et sgg.<br />
(11) Le frasi tra virgolette appartengono al Venus & Adonis di Shakespeare. Con un leggerissimo ritocco riporto qui<br />
quanto ho scritto e tradotto alle pagine 52-53.<br />
(12) Bergamo, Lubrina, 1991.<br />
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LA FRASE BREVE E LA FRASE LUNGA<br />
Si può vedere la propria lingua dal di fuori, come se fosse una lingua straniera. Mai completamente,<br />
senza dubbio nemmeno in situazioni di bilinguismo. Perché il punto d’appoggio dell’altra lingua parlata<br />
produca il decentramento necessario, dovrebbe situarsi, al livello più profondo della nostra parola, e<br />
dunque essere esistito sin dai primissimi tempi dell’acquisizione del linguaggio, mentre in quei mesi una<br />
lingua, una sola, predomina quasi sempre. Ma talvolta è possibile farsi un’idea di quello che altri, rispetto<br />
a noi che la parliamo fin dalla nascita, percepiscono della nostra lingua (il francese) e del suo discorso.<br />
Accade per esempio, quando si osservano le reazioni di quanti traducono in una lingua che conosciamo<br />
abbastanza bene, un testo scritto nella nostra.<br />
Un testo: preferibilmente uno di quelli scritti da noi, in prima persona, poiché evidentemente esso ci è<br />
noto non solo per quanto dice ma anche per quanto cerca di dire o avrebbe voluto dire, anzi per quanto ci<br />
si stupisce di avere detto e ancor più spesso per quanto si rimpiange di non aver potuto dire, rimpianto<br />
che rende sensibile lo scarto che priva ogni lingua dello spessore infinito della presenza del mondo.<br />
Questa situazione in cui possiamo constatare che qualcuno si stupisce di quanto ci ha stupito, ma in<br />
maniera diversa da come avremmo fatto noi. E un’occasione buona per un esame della propria lingua<br />
“dal di fuori”. È un’occasione ancora migliore se, traduttori a nostra volta, abbiamo vissuto sul versante<br />
opposto, quello che distingue la sua lingua dalla nostra. E siccome questa è la mia situazione, avendo io<br />
tradotto dall’inglese Yeats e Shakespeare, ed essendo stato tradotto a mia volta — tanto per i versi che<br />
per la prosa — nella lingua di Yeats e di Shakespeare, ho la sensazione che mi sia possibile fare qualche<br />
riflessione; e insieme ho la sensazione di una responsabilità che bisogna senza dubbio che mi assuma<br />
nella misura dei miei mezzi. La sensazione, inoltre, di un dovere.<br />
Un dovere? Certo, perché quello che separa le nazioni non è privo di pericoli, in quanto non sono tanto le<br />
esperienze della sensibilità e del pensiero a venir rifiutate da una cultura all’altra. Senza dubbio la<br />
bellezza come la intendeva un Cinese dell’epoca Ming, lo humour inglese, o l’ironia francese, sono più<br />
facili da apprezzare per quanti li hanno conosciuti sin dall’infanzia ma quando vengono spiegati vi si<br />
accede ovunque, rispetto all’essenziale: questo riporta al problema fondamentale dei rapporti tra le<br />
lingue e alla ricerca dell’articolazione concettuale che permetterà all’altrimenti parlante di apparirci.<br />
E, sapendo che è questo il piano a cui occorre attenersi, si deve prestare attenzione al fatto che ciò che in<br />
esso più conta non è tanto la particolarità dei concetti, in effetti mai ripetibili da una lingua all’altra,<br />
quanto la maniera in cui li si impiega: impiego che in ogni è il risultato di abitudini, difficilmente<br />
identificabili, che la parola ha contratto nel corso dei secoli. Le società non entrano in conflitto riguardo<br />
alle opinioni, ai pensieri elaborati o ai valori — sempre contraddetti nel luogo stesso in cui si formano —<br />
ma riguardo alla maniera in cui questi vengono espressi. È il discorso e non il suo contenuto a irritare. È<br />
ciò che la parola ha di spontaneo, di inavvertito e di incontrollato a provocare il fraintendimento, non ciò<br />
che ha di meditato. Dunque conviene, ed è certamente un dovere, prestare attenzione a questo elemento<br />
spontaneo, quando per esempio un traduttore ci mostra, svelando se stesso ai nostri occhi, alcuni aspetti<br />
di quello che siamo.<br />
Per mancanza di tempo, una semplice osservazione su una delle cose per cui un Inglese, o anche un<br />
Americano, si irritano abbastanza spesso con noi, o ci sospettano di orribili peccati dello spirito, cercando<br />
di correggerli o attenuarli quando traducono.<br />
Questo il pomo della discordia: la frase come la scriviamo noi, parecchi di noi, nel saggio.<br />
Si tratta, per quanto la concerne, proprio di un’abitudine. Niente costringe il saggista francese a scrivere<br />
in quel modo, come del resto niente costringe gli anglofoni a rifiutarsi di farlo. E ci sono tra loro, cosa che<br />
non meraviglia affatto, molti esempi di frasi imparentate con quelle che sono, tra noi, le più frequenti.<br />
Ma, per il fatto di essere solo un’ abitudine, e non un’ evidente fatalità della struttura della nostra lingua,<br />
questo aspetto della nostra tradizione letteraria è accolto con un’impazienza anche maggiore, almeno da<br />
certi traduttori che si impegnano a cancellarne le tracce. “Ah, le vostre frasi francesi!”, mi diceva uno di<br />
loro. E aggiungeva, osservazione che va nello stesso senso, come si vedrà: “Ah, i vostri paragrafi!” Per<br />
arrivare a dire: “Ritengo la mia traduzione conclusa, e ben fatta, quando ho rintracciato in un paragrafo<br />
le idee che contiene e le ho rimesse a posto, all’interno del mio, nell’ordine opportuno”. Con questo<br />
intendeva una sequenza di proposizioni che a me sembravano di colpo completamente nude e<br />
sgradevolmente scoordinate. La frase francese? Non si tratta necessariamente di una frase molto lunga,<br />
benché la lunghezza in quanto tale abbia buone probabilità di essere malvista, essendo una conseguenza<br />
del carattere che cercherò di mostrare. Piuttosto è un’architettura in cui si vedono slanciarsi gli uni verso<br />
degli altri come travature i dal momento che o i tanto più che o i ne segue che, fornitici dalla sintassi. A<br />
essere sospetto, non è tanto il ricorso a queste articolazioni del discorso, quanto lo spirito che, nel loro<br />
impiego, accompagna le parole verso la fine della frase, del paragrafo o del libro. Ciò che caratterizza la<br />
frase francese, in effetti, è il fatto che colui che la scrive sembra vederla accadere in un luogo mentale in<br />
cui, dispiegandosi in una forma intelligibile, essa può pretendere di costituire la verità dall’interno:<br />
trionfando così sull’ oscurità dei fatti che ha il compito di analizzare ma anche, ancora di più, sull’idea<br />
stessa di oscurità, vincendo il timore che ciò che è sia impenetrabile a colui che pensa. Insomma, si<br />
direbbe che l’autore di questa frase tridimensionale non dubiti affatto del suo svilupparsi nello spazio<br />
stesso dello spirito, accedendo a una tale purezza attraverso l’esercizio congiunto della logica e di una<br />
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sintassi che aiuta a dissipare, di fronte alle parole e in esse, quanto intralcia l’adæquatio rei et<br />
intellectu... Da ciò seguirebbe che — ecco tre parole veramente francesi — il tipo di temporalità, che<br />
porta dall’inizio alla fine della frase, non sarebbe il calco di alcunché nell’ordine dei fenomeni — tempo del<br />
vissuto, tempo dell’acquisizione di un pensiero — ma una struttura inerente all’idea del mondo, con uno<br />
sguardo rivolto agli sviluppi collaterali di questa stessa idea, cosa che fa dell’intera frase, del paragrafo e<br />
del libro, veramente un’architettura, che appartiene, in effetti, già un poco allo Spirito, bellezza tanto<br />
quanto verità.<br />
Capisco che ciò irriti, perché nessuno accede all’ adæquatio della cosa e dell’intelletto; questo fa sì che la<br />
frase vissuta in tal modo non sia che un sogno, che può aver luogo solo a prezzo di semplificazioni se non<br />
addirittura di distorsioni, nel momento in cui, proprio al contrario, si lascia intendere di aver penetrato<br />
tutto, tutto compreso e riordinato. Sotto l’apparente rigore si nascondono, nella frase lunga di moltissimi<br />
saggisti, concetti senza autentica presa sul reale, e il sogno non potrà essere protratto se non da una<br />
soggettività sempre più dissimulata, cosa che si può considerare prossima sia all’ingenuità che<br />
all’arroganza. Di fronte a tale pratica della parola, la frase breve dello scholar — soggetto, verbo,<br />
complemento e il minimo indispensabile in più — può apparire più veritiera: e colui che l’ha forgiata può<br />
credere di aprirsi più efficacemente alla verità, nei limiti meno ambiziosi che avrà avuto ragione di<br />
assegnarsi. Viene detta una cosa, ma con pochissime parole, vale a dire con pochissime idee, affinché si<br />
abbia modo di percepire e soppesare tutto di esse nel momento in cui — subito dopo la frase breve,<br />
tenuta ben ferma dal punto — la realtà interrogata acquista il suo diritto di replica, per mezzo di qualche<br />
nuovo osservatore. Saremmo così in presenza di una dialettica del pensiero e della sperimentazione, che<br />
tenderebbe a svincolare lo spirito dal suo sogno di signoria illimitata, vale a dire di soggettività senza<br />
controllo; saremmo in presenza di un empirismo, che andrebbe solo con grande prudenza da un punto<br />
solidamente stabilito — o in ogni caso sottoposto con chiarezza alla vantazione collettiva — a un altro<br />
ugual mente verificato o verificabile.<br />
Ed è del tutto naturale che, in simili condizioni, da una frase all’altra, o da una parte della frase alla<br />
seguente, non si coordini, non si cerchi nemmeno di articolare, anzi si provi quasi avversione per i di<br />
conseguenza o i cosicché: infatti, non spetta all’autore del testo passare da una proposizione all’altra, ma<br />
al lettore che, essendo esterno al testo, ha il compito di testimoniare in vece della realtà indagata, di<br />
verificare se il suo diritto di replica è stato davvero rispettato, e in seguito di operare o meno la<br />
deduzione lasciata virtuale. Chi scrive non deve catturare il lettore nella rete delle sue congiunzioni,<br />
soffocarlo nelle maglie di una sintassi speculativa. Coordinare, iperarticolare non è altro, si potrebbe<br />
pensare, che una colpevole sopravvivenza della magia; e la conseguenza nel discorso non potrà essere<br />
altro che un genere, il saggio, proprio per questo totalmente sospetto e pochissimo praticato in lingua<br />
inglese (se non in modo più Indico, più consapevole del suo carattere di gioco).<br />
Se le cose stanno così, se ne intende la ragione? La tradizione della frase complessa, in cui un eccesso di<br />
sintassi permette di differire il chiarimento delle nozioni, abitudine che d’altronde non riguarda la totalità<br />
del discorso in lingua francese perché l’università, per esempio, vi si è a lungo opposta, non sarebbe<br />
allora altro che una pratica senza verità né sostanza propria, che sarebbe opportuno riformare?<br />
Di fatto, e nell’istante medesimo in cui qualcosa della cultura francese ci appare in uno sguardo straniero,<br />
credo si possa altrettanto bene considerare un giudizio del genere, ossia il ritenere semplice illusione la<br />
frase lunga, nient’ altro che un’illusione a sua volta, infatti la lingua che ha giudicato non si è accorta di<br />
assolutizzare un punto di vista limitato, e di cadere dunque in una trappola.<br />
Non si tratta, tuttavia, di dubitare del fatto che la frase lunga accresca la precarietà epistemologica del<br />
pensiero, assicurando alle nozioni che mette in gioco una tregua, una tregua veramente lunga prima che<br />
esse siano costrette a incontrare le cose. Ma sulla via di questo incontro, non bisogna forse chiedersi<br />
ugualmente cosa sia vero, o reale, e se c’è una sola maniera di pervenirvi? Per quanto mi riguarda<br />
ritengo che se anche una concettualizzazione fallisce nel penetrare l’essere del mondo, può esser riuscita<br />
ad approntare una pratica dell’esistenza, una modalità di rapporto della persona con il mondo. Penso, in<br />
altre parole, che un inquadramento apparentemente azzardato nei dati empirici possa aiutare la fioritura<br />
di categorie di pensiero (teniamo ferma quest’ultima parola) veramente necessarie da questo nuovo<br />
punto di vista. Credo inoltre che lo spazio inerente alla frase lunga, la sua capacità di tenere a distanza<br />
dalle fantasticherie del desiderio il momento e il luogo in cui esse dovranno rinnegare se stesse, sia la<br />
calda atmosfera di serra che permette di opporre all’universo neutro dei fatti — un universo nel suo<br />
intimo asociale — un mondo che non si dovrebbe tanto definire soggettivo e senza verità, ma<br />
consapevole dei bisogni della vita e adeguato ai rapporti tra le persone: quello che, con Mallarmé, si può<br />
chiamare un soggiorno. Il progetto del saggio è meno l’adæquatio rei et intellectu che quella del luogo<br />
terrestre e del parlante che deve viverci. Le parole, in esso, non sono astratte — nel senso di chi le<br />
accusa di gratuità — se non nella misura in cui questo permette loro di essere concrete in modo diverso,<br />
inanalizzabile forse, ma senza dubbio abitabile: sono, se così posso dire, parole umane, nel cui orizzonte<br />
riappaiono quei grandi fatti della vita tanto utili da meditare quanto inafferrabili per il pensiero scientifico:<br />
la finitezza, la circostanza tragica, la gioia, la speranza o la disperazione, tutto quello che si può chiamare<br />
non più il significato del fenomeno, ma il senso dello sguardo rivolto al proprio destino.<br />
Quanto all’errore, anzi alla compiacenza o all’impostura, va da sé che esistono veramente nella frase<br />
lunga, ma in un modo diverso che in quella breve, la quale dovrà dunque, prima di metterla sotto accusa,<br />
cosa che è un suo diritto, se non suo dovere, non immaginare di essere sola al mondo. Insomma, il<br />
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discorso incriminato può non aver voluto far altro, nello specifico, che abbozzare ciò che il lettore dovrà<br />
portare a compimento, non la formulazione dì una legge, ma la sintesi di un essere-al-mondo. Quello che<br />
non si dovrà mai più scordare è, però, che vi sono due funzioni nel discorso, ugualmente necessarie,<br />
semplicemente a volte eccessivamente intolleranti e inconsapevoli l’una dell’esistenza dell’altra. Così, ai<br />
confini di due tradizioni culturali, dove accade che questi rapporti si dispongano conviene non irritarsi.<br />
Conviene piuttosto porre nuove domande.<br />
Si può dire, per esempio, che se l’enunciazione inglese, oggi ama molto la frase breve è perché dispone<br />
di mezzi diversi da quella lunga per portare a compimento la sintesi che è l’obiettivo di entrambe, senza<br />
che tuttavia tale sintesi sia appannaggio di alcuna lingua sulla terra. Si pone allora una questione: la<br />
frase breve non è forse compensata, in inglese, dalla vasta e tanto ricca tradizione del romanzo, uno<br />
degli apporti del quale è precisamente suggerire un luogo di vita, un soggiorno, nell’orizzonte della<br />
finzione che dispiega? Osiamo avanzare questa ipotesi: la frase del saggio francese. autorizzata a far uso<br />
di tutti i mezzi della sintassi e dei tropi, rende inutile il romanzo: Montaigne e Diderot, o Mallarmé nelle<br />
Divagations, tolgono all’immaginazione romanzesca la responsabilità che potrebbe spingerla a<br />
un’invenzione forte e potente. Proust non sarebbe quell’ immenso sguardo sulle situazioni e sugli esseri,<br />
se una riflessività — da saggista — non continuasse a dirigerne la parola.<br />
E bisognerebbe anche porsi la questione della poesia, che ha ovunque lo stesso scopo: lacerare la rete<br />
della rappresentazione per giungere a una maggiore unità, a una maggiore presenza al mondo nelle cose<br />
che viviamo; ma dovrà allora far convergere il proprio sforzo di contestazione affascinata in inglese sul<br />
romanzo, ossia sulla finzione, sempre troppo chiusa su se stessa, e in francese sulla parola del saggista,<br />
che infittisce la trama della coscienza delle cose e la coordina con troppa forza.<br />
Yves Bonnefoy<br />
a cura di Donata Feroldi<br />
[da La traduzione del testo poetico, a cura di Franco Buffoni, Marcos y Marcos, 2004; per gentile concessione<br />
dell’autore.]<br />
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DA UN’OFFICINA DI TRADUZIONE<br />
Provo a inseguire a ritroso negli anni le mie prime prove di traduttore di poesie e trovo, alle più remote<br />
sorgenti del ricordo, ma non sulle carte che saranno finite in qualche misericordioso cestino, due poesie di<br />
Baudelaire: Élévation e L’albatros (mi sembra che fossero). Dovevo avere diciotto o diciannove anni, non<br />
ero poi così precoce, nemmeno come traduttore: il mio primo contatto con dei versi di Baudelaire era<br />
avvenuto grazie a una antologia della letteratura francese curata da Diego Valeri e forse anche attraverso<br />
quella non spregevole Letteratura universale del Prampolini, che consultavo qualche volta a casa di un<br />
amico. Ma perché tradurre Baudelaire? Potrei rispondere molto genericamente perché “mi piaceva” (come<br />
poi, qualche anno più tardi, ebbi un po’ ingenuamente a dire a Pietro Paolo Trompeo nel chiedergli una<br />
tesi sul poeta delle Fleurs du mal, peraltro giudiziosamente dirottata dal mio bravo Professore su altro<br />
argomento); ma la risposta più probabile e più sincera perché il francese era la sola lingua straniera che<br />
avevo imparato a scuola e nella quale mi fosse consentito di leggere e di comprendere una poesia.<br />
Dunque uno dei presupposti dai quali partivo era, evidentemente, che per tradurre (naturalmente in<br />
versi) versi da una lingua straniera si ponesse come condizione la conoscenza di quella lingua; e che da<br />
tale conoscenza si dovesse fondamentalmente procedere per arrivare al risultato della traduzione. Non<br />
avrei, allora, mai sospettato che potesse valere in certo qual modo anche una via esatta inversa: dal<br />
lavoro di traduzione e attraverso di esso arrivare a una conoscenza dell’altra lingua sia pure nella<br />
fattispecie e nei limiti dell’originale tradotto.<br />
Se accogliamo quest’ultima ipotesi, vedremo subito che essa non avrebbe potuto applicarsi a quei miei<br />
tentativi su Baudelaire, e considerando la cosa col senno di poi, non fu senza una profonda ragione che<br />
essi abortirono in un risultato di fiacchi versi martelliani nei quali avevo risibilmente provato a trasferire la<br />
sontuosa eleganza dell’alexandrin francese.<br />
Quale “interesse” avevo io (e dico “interesse” nel più nobili senso stendhaliano per cui non esiste<br />
addirittura “amore” che non sia fondato su un “interesse”); quale “interesse” avevo io a tradurre in versi<br />
italiani dei versi scritti in una lingua che già conoscevo e dunque per me leggibili, godibili e usabili nel loro<br />
testo originale? Personalmente, direi, nessuno, se non quello della labile gratificazione che poteva<br />
derivarmi dal mettermi a tu per tu con un grande poeta del passato; né, tanto meno, potevo esser mosso<br />
da un interesse economico, perché nessuno si era sognato mai di commissionarmi quelle traduzioni,<br />
giustamente poi cestinate e dimenticate come un ordinario esercizio di scuola.<br />
Già da questa premessa si può capire come mai manchino nell’ormai troppo lunga lista dei poeti da me<br />
portati in versi italiani autori dell’unica lingua studiata a scuola e abbastanza lungamente praticata,<br />
quando si faccia eccezione di un breve scherzo su tema erotico di un Anonimo cinquecentesco, incluso in<br />
un repertorio antologico di Lodi del corpo femminile. Altrettanto varrà per i poeti di un’altra lingua ancora<br />
più vicina alla nostra, lo spagnolo, da cui peraltro ho tradotto un libro di prosa, gli Esercizi spirituali di<br />
Sant’Ignazio, perché affascinato dal mistero di quella un po’ sghemba e claudicante sintassi e curioso di<br />
quel che sarebbe venuto fuori a trasporla sic et simpliciter nel lessico italiano. Allora la spiegazione<br />
soggettiva del perché io non abbia tradotto poesie da queste lingue sorelle potrebbe consistere in una<br />
sostanziale mancanza di stimoli a penetrare della poesia di quelle lingue un “mistero” che non era per me<br />
(o che io presumevo non essere) un tale, non frapponendosi alla loro lettura e comprensione nessuna<br />
apprezzabile barriera d’ordine puramente lessicale, anche se ciò non significa che non possano sussistere<br />
nella fattispecie del singolo testo poetico “barriere” d’altro genere corrispondenti a questa o a quella fase<br />
extra-lessicale della cosiddetta “lingua poetica”. Ma possiamo addurre anche una spiegazione più<br />
oggettiva, assumendo almeno come ipotesi che tra le condizioni favorevoli alla traduzione di poesia si<br />
debba comprendere anche quella di una forte “escursione” (o differenza) tra la lingua da cui si traduce e<br />
quella in cui si traduce; ho detto una forte differenza, non una differenza così radicale come quella<br />
(poniamo) che si presenta fra le lingue fondate sulla scrittura alfabetica e quelle fondate invece su<br />
scritture ideografiche o comunque su segni grafici per noi violentemente inconsueti (per empio arabo o<br />
ebraico o hindi; ma non altrettanto dovrebbe dirsi per alfabeti come il cirillico o il greco), tenuto conto del<br />
fatto che allo spessore semantico di una parola può concorrere anche la facies del segno. E per forte<br />
escursione o differenza intenderei dunque quel divario o “salto” o gap che sia sufficientemente<br />
apprezzabile da invogliare allo sforzo di colmano e nel quale si colloca appunto lo spazio ideologicomotivazionale-operativo<br />
della traduzione.<br />
Tradurre una poesia in queste condizioni è una sorta di avventura, un inoltrarsi in un paese sconosciuto,<br />
mossi da un amor de lonh, affascinati come Jaufré Rudel da una bellezza non veduta, da un un “sentito<br />
dire”; è un conquistare a noi stessi quella poesia e con sa qualche più o meno vivo lacerto della “strana”<br />
ed “estranea” lingua in cui è scritta e magari del più o meno remoto tempo e/o luogo in cui venne scritta<br />
in origine. Azzarderei, a questo punto, un primo non so se corollario o postulato: che l’ideale traduttore di<br />
poesia al quale penso sia uno che traduce prima che per gli altri per se stesso, sulla spinta di un suo<br />
proprio affetto o diletto, di una sua ambizione o curiosità, fosse pure per frugare, attraverso la lingua di<br />
una persona amata, l’anima e il mistero della stessa. Naturalmente la gamma delle motivazioni private<br />
non si esaurisce in questa sfera, diciamo così, sentimentale; si può voler tradurre poesia per ammirazione<br />
verso il poeta o per verificare l’ammirazione che ne professino altri, esperti della lingua in cui egli scrive;<br />
si può voler tradurre per nutrire e tentare di irrobustire una propria troppo gracile musa; si può voler<br />
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tradurre anche su commissione, quasi a vendere la merce-lavoro di una propria (vera o presunta) perizia<br />
artigianale; si può voler tradurre per sperimentare nuovi modi di una personale lingua poetica e, infine,<br />
anche per qualche temeraria e allegra sfida dell’inosabile. Queste due ultime motivazioni potrebbero, per<br />
esempio, spiegare la mia traduzione in versi italiani dell’Evgenij Onegin di Puškin.<br />
Ma torniamo alla diacronia. Ed ecco che, rovistando tra le vecchie carte non ancora cestinate, trovo una<br />
mia, assai poco brillante, traduzione delle prime due sezioni di Ash Wednesday di T. S. Eliot, della cui<br />
datazione non sono completamente certo; doveva essere intorno al 1947, epoca in cui la conoscenza<br />
dell’inglese in Italia non era ancora abbastanza diffusa e la mia in ispecie si trovava a uno stadio più che<br />
primordiale… Ma come allontanare da me la tentazione di affrontare, con l’ausilio di un dizionarietto da<br />
conversazione, un testo di Eliot, a quel tempo il più celebre e celebrato poeta vivente di lingua inglese? A<br />
ben pensarci, il voler tradurre un gran de poeta è per l’aspirante-poeta anche un sotterraneo e non<br />
confessabile peccato da Paradiso Terrestre, un voler essere (insomma) “come Dio”, come lui; un<br />
proporsi, cioè, il poeta che si prova a tradurre come modello più o meno inconscio. Le mie nozioni di<br />
lingua inglese erano, lo ripeto, di una desolante povertà; non ero ancora passato attraverso i sei e più<br />
anni in cui avrei lavorato come traduttore (di prosa, ahimè, di propagandistica prosa!) in un ufficio<br />
americano dove l’inglese lo appresi, sì, abbastanza bene, ma un inglese, comunque, soltanto scritto e<br />
letto in silenzio… E invece sappiamo di quali sfumature foniche sia ricca quella lingua specialmente,<br />
trattandosi di poesia, in funzione della rima. Le mie traduzioni da Ash Wednesday le conservo ancora in<br />
una vecchia cartella, ma appaiono piene zeppe di tardive correzioni, quasi che io avessi voluto, in anni<br />
recenti, rendere più presentabili, se non addirittura recuperabili, quei miei giovanili esercizi. Migliore esito<br />
avrebbero avuto, di lì a poco, alcune traduzioni da John Donne, che infatti avrei poi inserito, senza<br />
bisogno di eccessive correzioni, in Addio, proibito piangere, un’antologia del mio lavoro di traduttore,<br />
messa insieme per invito di Giulio Einaudi. Ma fin qui la scelta degli autori da tradurre era avvenuta, da<br />
parte mia, in modo quasi del tutto casuale per suggestioni esterne, senza un’intima spinta. Trovo in una<br />
vecchia cartella testi di poeti illustri o meno illustri, famosi o meno famosi: un’unica poesia di Hopkins,<br />
uno o due frammenti di Robert Lowell, l’intera sequenza dei Voyages di Hart Crane (qualcuno doveva<br />
avermene segnalato l’importanza), alcune poesie di Emily Dickinson tradotte quasi per passatempo nello<br />
sfogliare verso il 1957 la splendida edizione critica del Johnson, versi di allora giovani poeti americani,<br />
come Viereck o Wilbur o Karl Shapiro, incontrati a Roma quando ancora ci abitavo e tradotti per atto<br />
amichevole o per accompagnare con quei loro versi un articolo, un’intervista.<br />
Tutto ciò, ripeto, è per sottolineare la causalità delle scelte che un traduttore di poesie si trova a<br />
compiere nella sua incerta carriera, tonto più incerta quando si trovi contigua o sovrapposta (come è<br />
stato nel mio caso) a un’ambizione di scrittore di poesie in proprio.<br />
Come fu, del resto, che m’imbattei in Ezra Pound del quale non avevo ancora letto, né in originale né in<br />
traduzione, nemmeno una riga? Forse perché commosso dalla sua (magari non del tutto immeritata)<br />
sorte di recluso, del quale il giovanissimo Vanni Scheiwiller stampava qui in Italia gli ultimi Cantos? Certo<br />
è che mi trovai a dover tradurre nel 1955 per un numero poundiano di una rivistina romana chiamata<br />
Stagione una delle poesie di Hugh Selwyn Mauberley, quella che nella seguente E. P. ode sur l‘élection de<br />
son sepulcre, inizia con un “Combatterono, in ogni caso” e che trae argomento dalla delusione dei reduci<br />
della Prima guerra mondiale, mandati al massacro per difendere quella che, nella traduzione fatta da<br />
Eugenio Montale della poesia che ad essa immediatamente segue, era una “scanfarda spremuta”, una<br />
“civiltà scassata”, per cui gli si poteva non dare, al vecchio “Uncle Ez”, pur con tutte le sue sciagurate<br />
bizzarrie, un minimo di ragione. Ma lasciamo andare. Il fatto è che, dopo quel mio primo misurarmi col<br />
Mauberley, durante una pausa di quasi disoccupazione a Torino decisi, chissà, forse per ingannare l’ansia<br />
o la noia, di tradurre tutto il Mauberley, benché non potessi dire di avere colto compiutamente il senso e<br />
il significato di non poche parti. Mi aiutai con un saggio-commento, quello dell’Espey, e riuscii a condurre<br />
a termine la piccola impresa. Luciano Anceschi, sempre nobilmente sensibile a tutto ciò che sapesse in<br />
qualche modo di avanguardia, pubblicò quella mia versione in uno dei primi numeri della rivista Il Verri, e<br />
Scheiwiller la riprese subito dopo in un volumetto, che presentammo a Pound appena rientrato in Italia<br />
dalla sua detenzione americana. La traduzione era piena zeppa di errori — errori, appunto, di significato,<br />
di senso — e Pound conosceva l’italiano abbastanza bene da accorgersene a prima vista; ma<br />
probabilmente doveva esserci, in quella versione, qualcosa di fondamentalmente fedele al “tono”<br />
dell’originale, non sbagliato, se il vecchio Maestro, notoriamente di carattere tutt’altro che facile, arrivò a<br />
ringraziarmi e ad apporre sul volumetto una dedica: “A G., il responsabile”, della quale però proprio<br />
adesso avverto la sottile ambiguità. Non avrà, infatti, voluto dire che ero io, e non lui autore<br />
dell’originale, il “responsabile” di tutte le sciocchezze e di tutti gli errori di quella traduzione? Ciò non<br />
toglie che, già con qualche emendamento, egli la volesse nell’edizione italiana delle sue Opere scelte,<br />
pubblicata da Mondadori nel 1970. Ma su quella traduzione sono ritornato parecchie volte nel corso di<br />
quasi un ventennio: oso sperare che l’ultima stesura del 1982, per emendare la quale mi giovai del<br />
consiglio di uno specialista poundiano come Massimo Bacigalupo, sia finalmente in regola. Ma, proprio a<br />
proposito del Mauberley, voglio ricordare un’indicazione che mi fu data dallo stesso Pound a proposito del<br />
passo in cui, nella poesia intitolata “Mr. Nixon”, viene riportata una citazione dagli Atti degli Apostoli<br />
secondo la classica versione inglese detta di King James: “Don’t kick against the pricks” dice il testo; e<br />
corrisponde in italiano a un “Non recalcitrate al pungolo”, che nella mia versione definitiva è “Al pungolo<br />
non recalcitrare”. Però sappiamo che in inglese la parola “prick” è anche, in un “parlato” volgare, il<br />
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membro virile; e questa sfumatura conserva naturalmente il suo peso nell’originale inglese della poesia.<br />
Nel 1963, incontrando per caso Pound a Padova, volli domandargli un chiarimento: “Signor Pound, quel<br />
‘Don’t kick etc.’ è una citazione dagli Atti degli Apostoli, ma nello stesso tempo ha anche un significato<br />
così e così… Come risolverlo?”. Pound, che in quegli anni si era chiuso in un mutismo quasi totale, mi fece<br />
la grazia di alcune parole in risposta: “Ma c’è” mi disse “una versione italiana degli ‘Atti”. Non ha molta<br />
importanza ricordare qui come quelle parole abbiano dato poi origine a un verso apparentemente senza<br />
senso di una mia poesia; ma quel che mi preme sottolineare è che l’indicazione di Pound era, come<br />
criterio di traduzione, assolutamente giusta. Egli non aveva manipolato il testo sacro in inglese. Che cosa<br />
era, infatti, più importante salvare di quella frase? La sfumatura oscena? O non piuttosto il riferimento,<br />
pur nel contesto di una materia profana, a un testo della Sacra Scrittura? Chiaramente Pound propendeva<br />
per questa seconda alternativa. Questo episodio mi porta a riflettere che, in fondo, il lavoro del traduttore<br />
di poesia si configura come una serie o successione di scelte, una serie o successione di costrizioni a<br />
rinunciare a qualcosa che è nell’originale e che non potrà essere nella traduzione se non al prezzo di<br />
sacrificare qualche altro valore di senso ancora più importante e magari decisivo, perché una certa<br />
“essenzialità” o “tipicità” dell’originale sia in qualche modo veicolata nella traduzione. Ma è proprio<br />
nell’affrontare certe scelte e nel passare attraverso le forche caudine di certe costrizioni che si definisce<br />
l’opera del traduttore di poesia; ed appunto perché consapevole di quello che per certe scelte e a causa di<br />
certe costrizioni egli ha dovuto tralasciare o alterare o “interpretare”, il traduttore saprà anche che il<br />
risultato del suo lavoro sarà comunque, rispetto all’originale, qualcosa di meno o di diverso.<br />
Fu con l’inizio degli anni Sessanta, e quindi anche in coincidenza con una meno incerta definizione della<br />
mia ricerca poetica, che mi si presentò la prima e più importante occasione di tradurre le poesie di un<br />
grande poeta, su commissione di un editore. Il poeta era Robert Frost, del quale conoscevo appena il<br />
nome, la fama e l’etichetta (pigra e pompier come tutte le etichette) di “poeta nazionale” americano.<br />
L’editore era Einaudi, e il tramite, Franco Fortini. Ma non credo che fosse stato proprio lui a fare il mio<br />
nome in una delle famose riunioni einaudiane del mercoledì; credo piuttosto (e forse fu, a dirmelo, lo<br />
stesso Fortini) che fosse stato Daniele Ponchiroli, al quale erano piaciute (sembra) quelle mie<br />
esercitazioni sulla Dickinson, sottopostegli da non so chi. Presi i Collected Poems di Frost e, senza<br />
nemmeno tentarne una lettura in originale che avrei potuto gustare poco o niente perché troppo<br />
assorbito dallo sforzo di capire il puro e semplice significato delle parole, cominciai a tradurre poesia dopo<br />
poesia. A guidare la mia scelta fu quasi esclusivamente il criterio della più facile traducibilità, oltre<br />
all’esigenza di tradurre un numero di poesie sufficiente a mettere insieme un libro che fosse, fra<br />
traduzione e testi a fronte, di decente spessore. Sicché tradussi in tutto sessantaquattro poesie, che<br />
vennero pubblicate nel 1965 con una mia breve premessa e col titolo Conoscenza della notte e altre<br />
poesie, mantenuto anche in una nuova edizione pubblicata ora presso Mondadori, con l’aggiunta di altre<br />
sei brevi poesie: anche in questa occasione, Massimo Bacigalupo mi ha molto aiutato a correggere non<br />
pochi errori della edizione precedente. Come si può vedere, forse per il fatto di non essere uno specialista<br />
di letteratura inglese o anglo-americana e di non dover dunque difendere una rispettabilità professionale<br />
e professorale, non ho nessuna remora a rendere di pubblica ragione un certo dilettantismo del mio<br />
approccio a Frost. Peraltro mi è stato assicurato che la scelta da me condotta secondo un criterio in<br />
apparenza piuttosto superficiale non era affatto criticabile, anzi rappresentava e rappresenta in modo<br />
adeguato i caratteri essenziali della poesia frostiana (il che mi induce a sospettare, sia pure con tutte le<br />
cautele e le eccezioni del caso, che anche il grado di traducibilità possa costituire un dato da tenere<br />
presente nel giudizio di valore su una poesia).<br />
Il mio tradurre poesia dopo poesia senza una lettura preventiva dell’insieme era certamente un po’ troppo<br />
avventuroso: davvero un inoltrarmi in un paese sconosciuto. Testo originale a sinistra, macchina per<br />
scrivere davanti a me e dizionario Webster sulla destra, traducevo in prima stesura quasi come se<br />
traducessi prosa, badando anzitutto ai significati letterali, di grado zero. Però, non so come, forse per un<br />
istintivo timor reverentiae di fronte al testo di un poeta famoso, non mi permisi, nemmeno nella grezza<br />
stesura, di alterare quella che (l’avrei imparato più tardi traducendo Il problema del linguaggio poetico di<br />
Jurij Tynjanov) è l’unità di base della lingua della poesia, cioè il verso: tanto che rimasi un poco<br />
meravigliato quando, a lavoro finito, Giulio Einaudi ebbe a lodarmi perché le traduzioni contavano lo<br />
stesso numero di versi che gli originali. E come altrimenti avrebbe dovuto essere? È vero che non poche<br />
traduzioni poetiche del passato (dette talvolta anche “imitazioni”) trasgredivano tranquillamente a quella<br />
che per me sembrava e sembra una norma irrinunciabile. Del resto, avrei in seguito riflettuto che della<br />
“lingua poetica” di un certo testo è parte e fattore anche il suo aspetto esterno, grafico.<br />
Ma la lingua inglese è, rispetto all’italiana, più sintetica, ricca di vocaboli mono- e bisillabici; cosicché i<br />
“miei” versi risultavano, rispetto a quelli di Frost, assai più lunghi, anche per la mia preoccupazione di<br />
sinotticità; ed ecco allora che dovevo dilatare in senso orizzontale quel che non dilatavo in senso verticale<br />
e risolvere le dieci o undici sillabe del blank verse inglese (che in Frost è prevalente) in misure sillabiche<br />
quasi sempre maggiori: di dodici, tredici, quattordici, quindici e magari diciassette sillabe. Ciò mi<br />
costringeva a cercare soluzioni ritmiche alternative rispetto a quelle consuete del nostro vecchio<br />
endecasillabo, ma sempre (un po’ “a orecchio”, per così dire) di una più o meno eguale “durata”<br />
prosodica. Questa esperienza (che avrei qualche anno dopo ripercorso nel tradurre, sempre su<br />
commissione, una scelta di quel classico e incantevole poeta fugitive che è John C. Ransom) fu per me<br />
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assai importe perché mi incoraggiò a trasferire tali soluzioni o soluzioni analogiche, orientate cioè su<br />
valori di “durata” prosodica oltre che meramente sillabica, nelle mie poesie.<br />
Qualcuno potrebbe ora sollevare l’annoso problema del come e del quanto un poeta possa essere<br />
influenzato dai poeti che traduce viceversa, possa trasferire sugli stessi una certa patina del proprio stile.<br />
Io dirò, per quanto mi riguarda, che spero di essere andato abbastanza esente dall’una e dall’altra cosa;<br />
ma subito aggiungendo che senza dubbio, sulla mia scrittura ha influito il mio “modo di tradurre” poesie<br />
di altri, e che le mie traduzioni riflettono probabilmente quel “modo di tradurre” assunto come la via<br />
meno improbabile a convogliare il senso poetico degli originali a me stesso e ad altri lettori della mia<br />
lingua. Comunque non bisogna essere troppo presuntuosi: una traduzione di poesia è pur sempre<br />
un’operazione che altera e diminuisce l’originale su cui si lavora e, anche nella migliore delle ipotesi, va<br />
accolta come una specie di “male minore”, in vario grado preferibile all’alternativa di una totale non<br />
comprensibilità. Con ciò non si esclude, anzi si raccomanda, l’utilità certe traduzioni cosiddette “di<br />
servizio” che si propongono a lettori capaci di “leggere” la lingua dell’originale, senza però comprenderla<br />
sufficientemente. Forse ci si aspetterebbe che io indicassi almeno un abbozzo di normativa sul “come-sifa-a-tradurre-una-poesia”;<br />
ma qui devo confessare, a parte la mia naturale diffidenza nei confronti delle<br />
normative in genere, l’estrema povertà del bagaglio teoretico, che poi si esaurisce quasi completamente<br />
in una memoria del già citato libro di Tynjanov e del suo concetto di “principio costruttivo”. Tynjanov dice<br />
che la lingua poetica risulta l’interazione di vari “principi costruttivi” come quello sintattico-semantico,<br />
quello ritmico, quello fonico, quello della rima, quello dei possibili riferimenti contestuali ecc. E in ogni<br />
poesia c’è (o dovrebbe esserci) uno fra questi principi costruttivi da ritenersi fondamentale, cioè<br />
irrinunciabile se non a costo di compromettere l’identità, l’esistenza della poesia stessa. Sappiamo bene<br />
che in questa materia non si può essere troppo categorici; ma in linea di massima credo che l’indicazione<br />
di Tynjanov costituisca ancora un piccolo, ma utile, vademecum per il traduttore di poesia, il cui primo<br />
compito sarà dunque di stabilire quale sia, nel testo poetico tradurre, il “principio costruttivo<br />
fondamentale”. Mi viene in mente quel sonetto del Belli che inizia col verso Ecco qua er bene come<br />
incomincio e va avanti per gli altri tredici versi terminanti in parola tronca, con un grande effetto<br />
dinamizzante per il lettore italiano di testi in lingua, che non è abituato alle frequenti ossitonìe del dialetto<br />
romanesco; ma, in qualunque lingua si dovesse tradurre tale sonetto, credo proprio che non si potrebbe<br />
non ravvisarne il “principio costruttivo fondamentale” in quella sprizzante e scintillante successione di<br />
versi ossitonici e si dovrebbe quindi fare assolutamente in modo da mantenerla, anche perché essa<br />
appare coerente col tema della piccola e sorridente vicenda erotica che del sonetto è occasione. Ma in<br />
tanti altri casi il “principio costruttivo”, più o meno “fondamentale”, sarà da ritrovarsi in altri ordini o<br />
“serie” della lingua poetica; ovvero potrà trattarsi di stabilire, anche nell’ambito di un singolo verso, ciò<br />
che appare essenziale a trasferire nell’altra lingua il massimo, tenendo fermo che l’impegno del traduttore<br />
di poesia comporta non una semplice traduzione di significati lessicali da lingua a lingua, ma una<br />
proiezione di senso da “lingua poetica” a “lingua poetica”, dove ispirazione, passione e invenzione<br />
potranno essergli preziose e forse indispensabili alleate.<br />
La passione fu quella che mi portò alle più arrischiate e temerarie prove di traduttore: dal cèco e dal<br />
russo. Il mio primo contatto con la lingua russa era stato nel 1966, quando per ragioni di lavoro avevo<br />
passato a Mosca più di un mese e, rientrato a Milano, mi ero messo volonterosamente a studiarla su una<br />
grammatichetta in francese intitolata Le russe sans peine. Gli amici di Mosca mi avevano parlato di Puškin<br />
col calore e con l’entusiasmo che soltanto i Russi possono avere quando la conversazione tocca il loro<br />
grandissimo poeta. Si era così fatto strada nella mia mente il fumoso, e soprattutto utopistico, progetto di<br />
conoscere un mio Puškin, un Puškin di prima mano traducendo io stesso e soltanto per me il suo<br />
capolavoro, Evgenij Onegin. Mi ero già procurato i dischi sui quali Vsevold Aksënov, un celebre attore già<br />
da anni scomparso, aveva inciso una splendida dizione di quell’irripetibile “romanzo in versi”; ma il mio<br />
progetto si era ben presto arenato sia per la difficoltà dell’impresa, sia perché (dopo un primo viaggio a<br />
Praga nel 1967) il mio interesse si era repentinamente rivolto alla lingua cèca. Mi aveva affascinato la sua<br />
impenetrabilità: come una pietra nera, durissima, levigata al punto da non consentire il minimo appiglio…<br />
E mi ero messo a studiare il cèco, su un’altra grammatichetta, questa volta in inglese. Quanto a divario,<br />
quanto a gap, tra il cèco e l’italiano, ce n’era assai più che rispetto al russo: in fondo la cultura russa,<br />
attraverso i grandi romanzieri del secolo scorso, non era affatto estranea anche agli italiani della mia<br />
generazione; né la scrittura cirillica rappresenta un problema per chi abbia a suo tempo studiato un po’ di<br />
greco. Ma a tradurre versi dal cèco non fui indotto da una mia personale scelta anche letteraria, bensì<br />
dall’esigenza creare un pretesto affinché le autorità cèche autorizzassero un mio amico, Vladimir Mikeš, a<br />
soggiornare in Italia per qualche tempo; e così avevamo deciso di tradurre a quattro mani una scelta di<br />
poesie di Jífií Orten, un poeta morto giovanissimo nel 1941 e mai tradotto nella nostra lingua. A facilitare<br />
l’attuazione del progetto presso l’editore Einaudi contribuirono in modo determinante due persone oggi<br />
non più vive: Italo Calvino e Angelo M. Ripellino. Il lavoro, piuttosto intenso, richiese circa un mese e<br />
mezzo: Mikeš leggeva il cèco, mi diceva il significato letterale in italiano e (dove necessario) mi<br />
specificava le varie ulteriori implicazioni di lingua poetica: rime, figure retoriche, ambiguità semantiche<br />
ecc. Io lo seguivo e andavo avanti passo passo, come procedendo in una fitta foresta, con gli occhi<br />
bendati e tenuto per mano. Ancora oggi, non credo che La cosa chiamata poesia (questo è il titolo della<br />
scelta pubblicata nel 1969) sia un libro da trascurare… Ma la mia passione per la lingua cèca non si esaurì<br />
a quel punto: insieme ad altri amici praghesi si era progettato di mettere insieme un’ antologia di giovani<br />
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poeti, che io mi ripromettevo di tradurre col solito sistema dell’andare con gli occhi bendati e tenuto per<br />
mano. Ma gli avvenimenti del 21 agosto 1968 avevano poi reso meno agevoli i viaggi a Praga e il<br />
progetto era diventato pressoché inattuabile: Vanni Scheiwiller avrebbe invece pubblicato alcune mie<br />
poesie e prose di soggetto praghese, completate da una breve scelta di poesie d’autori cèchi del<br />
Novecento. Nelle traduzioni mi fu d’aiuto decisivo Jítka Kfiesalková, a quel tempo Lettrice e oggi Docente<br />
universitaria nostro Paese. Il Piccolo libro, sulla cui copertina disegnata da Jífií Kolar non volli che<br />
figurasse il mio nome, si chiama Omaggio a Praga: anno di pubblicazione, lo stesso 1968.<br />
E veniamo infine all’Onegin. Mi misi al lavoro nel 1970, avendo per soli strumenti i già menzionati dischi<br />
di Aksënov, le traduzioni in prosa e i versi di Ettore Lo Gatto, la traduzione in prosa e le note di Eridano<br />
Bazzarelli, il dizionario russo-italiano e le modestissime nozioni linguistiche. Ma il mio interesse non era<br />
più soltanto “sentimentale”: volevo proprio fare un Onegin “italiano”, nel senso di conquistare alla forse<br />
troppo smaliziata e disincantata poesia moderna quello che nell’Onegin mi pareva essere un rapporto più<br />
libero, più spontaneo, più nobilmente ingenuo fra autore e testo, e alla nostra prosodia italiana un verso<br />
poco consuete e il meno lontano possibile dall’incantevole tetrapodia giambica puškiniana. Volevo<br />
cimentarmi con l’ordine di quelle strofe e della perfetta gabbia delle loro rime, con sette diverse<br />
terminazioni per strofa, essendo per di più ridotta al minimo, per i caratteri strutturali del nostro lessico,<br />
la possibilità di alternare com’è nell’originale rime piane e rime tronche o, se si preferisca, femminili e<br />
maschili! Non starò qui a rievocare narcisisticamente le mie fatiche di quasi cinque anni, i miei numerosi<br />
errori di tòno e di significato che nel passaggio dalla prima edizione del 1975 alla seconda del 1983, ho<br />
potuto emendare grazie all’aiuto disinteressato e impareggiabile di Giovanna Spendel, insieme alla quale<br />
ho poi tradotto anche una scelta di liriche puškiane che speriamo di ampliare; ricorderò comunque la<br />
pazienza degli amici russi che in diversi casi rispondevano a mie improvvise richieste di spiegazioni e,<br />
finalmente, la generosità di Gianfranco Folena che, con la sua prefazione a un’ultima edizione che<br />
chiamerò “di autore”, ha voluto sancire l’annessione del “mio” Onegin alla storia della poesia italiana.<br />
Per l’Onegin non oserò riproporre l’ipotesi che un mio modo di tradurre abbia conferito al “romanzo in<br />
versi” un tòno troppo diverso da quello che il testo russo suggerisce: sono incorso, sì, in questo rischio,<br />
soprattutto nelle prime stesure dei capitoli iniziali; ma col procedere del lavoro, e grazie ai competenti<br />
consigli ricevuti, credo di avere poi ubbidito a una più composta disciplina che mi sentivo imposta<br />
dall’originale stesso. “Puškin” mi si diceva, ad esempio, “non avrebbe mai adoperato questa parola!” e<br />
devo riconoscere che il rilievo era quanto mai appropriato nella quasi totalità dei casi: è soprattutto<br />
traducendo l’Onegin che ho imparato come non ci si debbano prendere troppe confidenze con la “lingua<br />
poetica” del poeta che si traduce. Se questa traduzione abbia poi avuto un’influenza particolare sul mio<br />
modo di fare poesia non starà a me giudicarlo: da La vita in versi in poi ho sempre fatto un largo ricorso<br />
alla rima (che è, oltre tutto, una generatrice di significato di senso), così come la tendenza<br />
all’organizzazione strofica è presente in tutta la mia opera.<br />
Mi accorgo, nel concludere questa specie di inventario della mia “officina di traduzioni”, di non avere fatto<br />
cenno di un lavoro che è l’ultimo della serie e che probabilmente resterà l’ultimo anche della mia carriera<br />
di traduttore: mi riferisco a La rima del vecchio marinaio di Coleridge, a tradurre la quale passione e<br />
commissione mi hanno indotto in eguale misura. La “commissione” sotto forma dell’invito, da parte di una<br />
società di doppiaggio, a tradurre gli ampi brani della Rime inclusi nel “parlato” di un breve film di Ken<br />
Russell su Coleridge; la “passione” come stimolo a tradurre poi l’intero testo, dal momento che ancora<br />
una volta capitavo a dovermi cimentare con una prosodia in fondo prediletta, prossima a quella<br />
dell’Onegin: una prosodia, che, nel caso dovesse restare di me una poesia sola, mi augurerei, in fondo,<br />
che fosse di tale poesia norma e misura.<br />
Giovanni Giudici<br />
[da La traduzione del testo poetico, a cura di Franco Buffoni, Marcos y Marcos, 2004; per gentile concessione<br />
dell’autore.]<br />
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UNO SHAKESPEARE PRATICABILE<br />
Nella Notizia posta a corredo del proprio travestimento faustiano(1) nell’agosto 1985, Sanguineti<br />
confessava che tradurre il Faust di Goethe aveva significato per lui realizzare un “vecchio fantasma<br />
mentale”: quello di misurarsi, propriamente, col “mito per eccellenza della modernità”.<br />
I miti lasciano il segno. E se si comincia, è difficile sottrarsi ai confronti. Così, di mito in mito, dentro e<br />
fuori modernità, può capitare – è capitato al traduttore/ricreatore del Faust(2) - di imbattersi in un’altra<br />
sfida, quella con Dante, riadattandone la cantica dell’Inferno per una resa drammaturgica (la splendida<br />
Commedia dell’Inferno dell’89)(3). E poiché non è mai bene lasciare le cose a metà (impossibile, poi, con<br />
le potenziali triadi, tanto più se canoniche, da canone occidentale indiscusso nei secoli), l’approdo a<br />
Shakespeare era in qualche modo fatale. Mostro sacro non inferiore di certo ai precedenti: e in più<br />
sufficientemente concettoso e ambiguo, nei suoi 154 Sonetti (Sonnets, 1609), un canzoniere erotico<br />
restato a sfidare il tempo, tra inferno e cielo, luce e buio, dark lady e fair friend intricati, ibridati e un po’<br />
interscambiabili, uni e bini (“thou mine / I thine […]” – “tu sei mio / io sono tuo […]”, CVIII).<br />
A nove sonetti si limita la scelta di Sanguineti, datati a mano sul dattiloscritto “aprile 1996”. Un<br />
canzoniere mutilo e selezionato, destinato anch’esso a rappresentazione scenica, come precisa l’autore<br />
nella sua nota, e mai uscito prima d’ora integralmente a stampa. Gli si è affiancato qui il testo originale<br />
per consentire un confronto diretto che non manca di riservare sorprese, a cominciare, intanto, dal<br />
metro.<br />
Come renderlo, il sonetto inglese? Si era già cimentato Ungaretti, in una sua traduzione di 40 sonetti di<br />
Shakespeare iniziata nel ’31 e protratta sino al ’46(4), che mirava nelle intenzioni a rispettare in primo<br />
luogo la “flessibilità fonetica” della lingua inglese. Rinunciando alla rima e al verso regolare, Ungaretti<br />
puntava piuttosto al rispetto del “suono”, optando per un verso di “circa sedici sillabe italiane”<br />
indispensabili, a suo dire, per rendere il “senso” dell’originale e conservare la fedeltà all’andamento del<br />
sonetto “nel suo complesso”. Impegnato, negli anni del Sentimento del tempo, a riscoprire l’ordine<br />
nell’avventura, o a ricondurre l’avventura all’ordine, Ungaretti ammetteva di agire “per approssimazione”,<br />
ma con la volontà di rendere evidente, anche nel percorso ritmico, il rapporto tra “concretezza” dell’idea<br />
– scriveva – e “tangibilità corporea, materiale” presente in Shakespeare. Ne faceva, insomma, un classico<br />
moderno, alla maniera sua e delle ricerche francesi a lui vicine, evitando al possibile ogni “sorta<br />
d’abbagli: di parole; o di tutto un indirizzo: quello enfatico dei Romantici, quello pettegolo dei<br />
Novecentisti, quello imbacuccato di tanti altri” (5). Nel contatto “segreto”, “diretto” con Shakespeare,<br />
Ungaretti cercava semmai conferma alla “misura nella dismisura”, all’accordo tra “tendenze romantiche e<br />
classiche in un’espressione esemplare”, guardando a lui sulla scia di una reinterpretazione petrarchesca<br />
che passava per Góngora e il barocco.<br />
Che c’entra tutto ciò con Sanguineti? A parte l’interesse per un confronto – che potrebbe rapsodicamente<br />
chiamare in causa anche Montale, lui pure traduttore dei Sonnets, in misura più parca(6) – almeno un<br />
punto delle sue considerazioni potrebbero coinvolgerlo e intrigarlo: ed è là dove Ungaretti pone l’accento<br />
sul carattere di “lingua legata” proprio del sonetto shakespeariano, una “lingua legata” che diviene, per<br />
lui, “forza ossessiva d’immagine dominante”.<br />
Un obbligo formale, dunque. Una contrainte, per dirla nei modi attualizzati dell’Oulipo. E proprio qui sta il<br />
punto, o meglio ciò che definisce la singolarità della resa di Sanguineti, che opta per un verso lungo, non<br />
regolare e non rimato, anche se qua e là, a volerli individuare, certi settenari o novenari, o endecasillabi e<br />
quinari, compaiono pure, ma come straniati nel contesto, sottratti alla loro funzione (basterà leggere<br />
l’avvio di II., segnando mentalmente uno iato tra i due emistichi di cui il verso si compone: “quando<br />
quaranta inverni assedieranno la tua fronte […]”).<br />
Non in questo, e cioè nella opzione per il sistema chiuso, per il verso regolare, risiede per lui la<br />
contrainte, il bisogno insomma di crearsi delle regole, che ritiene per parte sua uno stimolo necessario, e<br />
tanto più necessario quanto più forte, non solo per tradurre, ma per lavorare sulla parola. Perché per lui<br />
la contrainte, intesa in particolare come l’attenzione a mantenere, in traduzione, il ritornare di un<br />
termine, del suo suono, quasi a stimolare – parola d’autore – “associazioni libere”, aiuta a definire una<br />
sorta di codice, cui Sanguineti resta fedelissimo.<br />
Non ne mancano esempi, in questi nove sonetti. Alcuni davvero creativi, estrosi, efficacissimi: come nel<br />
sonetto XX., ove rispettando la sonorità di “thing” e “nothing”, in un verso di allusione oscena (“By<br />
adding one thing to my purpose nothing”), si gioca, nella resa italiana, sul mantenimento della sonorità<br />
iterata, e insieme si ottiene, come in inglese, il ribaltamento di senso per pura soppressione di lettere<br />
(“thing” – “nothing”: “ente”, “niente”. Ma si ascoltino integralmente i versi 10-12: “finché la natura,<br />
mentre ti formava, ha fatto una follia: / con una sua addizione, a me ti ha sottratto, / addizionandoti un<br />
ente che è un niente, per il mio desiderio”; dall’inglese: “Till Nature as she wrought thee fell a-doting, /<br />
And by addition me of thee defeated, / By adding one thing to my purpose nothing”). Il “Master”<br />
“Mistress” “of my passion” (signore, signora della passione) è così servito, cioè preservato nella sua<br />
ambiguità semantica per semplice eco fonica.<br />
Una resa fedelissima: e ci si può sbizzarrire davvero a rintracciarla, la fedeltà assoluta all’originale, ogni<br />
volta che si impongano nel testo shakespeariano forme di iterazione, stilemi anaforici, parallelismi. Come<br />
subito in apertura di II.: “quando quaranta inverni assedieranno […] e scaveranno”, a rendere l’inglese<br />
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shall besiege […] and dig” (laddove Ungaretti traduce: Quando quaranta inverni faranno assedio alla tua<br />
fronte / Scavando trincee fonde […]”)(7). Si va dalla rifrazione semplice di un termine (ancora in II.:<br />
“sconveniente encomio” – “maggiore encomio” dei vv. 8-9, a rendere “thriftless praise” e “more praise”;<br />
o in CXXIX.: “delirantemente ricercata” – “delirantemente detestata”, vv.6-7, per “Past reason hunted” –<br />
“Past reason hated”), ai chiasmi (LXIV., v.8: “accrescendo guadagno con perdita e perdita con<br />
guadagno”, per “Increasing store with loss, and loss with store”); sino a giungere a un più complesso<br />
articolarsi del periodare sintattico (in LXIV, vv.1-3-5-9: “quando io ho veduto”, “quando talvolta le vedo”,<br />
“quando io ho veduto”, “quando io ho veduto”, per “When I have seen”, “When […] I see”, “When I have<br />
seen”, “When I have seen”).<br />
Si potrebbe continuare: ma è meglio leggerseli, questi sonetti, di prima mano, per coglierne, intendo,<br />
proprio dal vivo, sulla carne viva della resa letterale, la concretezza delle soluzioni proposte. Una poesia<br />
“praticabile” diviene quella di Shakespeare: come quando “to be new made” di II. si rende proprio con<br />
“essere fatto nuovo”, al riparo dell’ungarettiano, assolutizzato, “rinnovamento”, e “old” e “cold”, in<br />
chiusura dello stesso sonetto, significano null’altro che “vecchio” e “freddo” (in posizione finale,<br />
quest’ultimo aggettivo, contrapposto ossimoricamente a un “caldo” – “e vederlo caldo, il tuo sangue,<br />
quando già lo sentirai freddo” - che l’anticipazione proclitica della particella rende di immediata, realistica<br />
fruibilità visiva). O in CXXIX. basta l’aggiunta di un dimostrativo (“questo cielo”, nel primo emistichio del<br />
verso 14) per creare, oltre che un perfetto parallelismo con l’”inferno” che segue, una più diretta e per<br />
nulla enfatica raffigurazione dell’umana sorte e dei suo sogni fallaci:<br />
“tutto questo lo sa bene, il mondo, eppure nessuno sa bene<br />
sfuggire a questo cielo, che porta gli uomini a questo inferno”<br />
“All this the world well knows yet none knows well,<br />
To shun the heaven that leads men to this hell”.<br />
Sarà anche vero che il traduttore non è che un “puro mediatore linguistico”, anzi “un mezzo, un medium,<br />
un mediatore, un mezzano”, un interprete impossibilitato “ad annichilirsi a fondo”. Un<br />
“traduttore/traditore”, insomma, come piace a Sanguineti definirsi, che “volente o nolente”, lo brucia, il<br />
testo d’origine, e “senza residuo”(8). E però si gode a seguirlo, nelle sue acrobatiche invenzioni verbali<br />
che penetrano a fondo nello spirito e nella carne dello “scespirismo” e lo restituiscono nei modi di un<br />
divertito abbassamento tonale (“due amori io tengo”, in CXLIV, ove si apprende anche che “il mio angelo”<br />
– la “passion”, insomma, del poeta - “sta mutato in demonio”) o di calibrate, concettose, virtuosistiche<br />
proposte che delineano sulla pagina, con fedeltà piena, la “condizione manierista della contemporaneità”<br />
(di Cortellessa la definizione (9)). Una contemporaneità intrisa di tradizioni, stratificate nel derma, nel<br />
corpo della parola, nel suo tessuto linguistico, sintattico, metaforico, pure se la traduzione pare destinata,<br />
come suggerisce l’autore, a sottolineare una “invalicabile distanza” dal testo di partenza.<br />
Basterà scorrere, ancora, il sonetto XLIII., tra tutti il più concettosamente petrarcheggiante, non fosse<br />
altro che per l’estensione sinonimica dei lemmi della visività e della sua negazione (si va dagli “occhi”,<br />
dalla loro “luminosità”, al “sogno”, all’“oscurità”, all’”ombra”; dal “mostrare” e dall’”apparire” alla<br />
condizione di cecità, dal “giorno” alla “notte”). Uno Shakespeare mascherato da Petrarca e un Petrarca<br />
rifratto sanguinetianamente è il risultato: ed è qui che il travestimento raggiunge punte di autentica<br />
maestria. Come quando il traduttore gioca sul plurisenso di un vocabolo (“happy show”, al v.6: un vero<br />
“spettacolo felice”, per lui), o dà forza a un’epifania onirica isolando a fine verso il lemma che la veicola,<br />
potenziato di senso da uno “stare” (“stay”) a un “apparire” petrarchescamente, ma poi anche<br />
leopardianamente, connotato (“quando, nella morta notte, la tua bella ombra imperfetta, / attraverso il<br />
sonno profondo, ai miei ciechi occhi appare!”; in inglese: “When in dead night thy fair imperfect shade /<br />
Trough heavy sleep on sightless eyes doth stay?”).<br />
E sarà il caso poi di rileggersi i due versi finali, che la contrainte obbliga al più rigoroso rispetto fonico,<br />
timbrico, lessicale, ma che nella loro piana, normalizzata, discorsiva cadenza, riconducono senza<br />
apparente scarto al poeta delle “petites proses en poème”:<br />
“tutti i giorni sono notti, a vedersi, finché non ti vedo,<br />
e le notti giorni luminosi, quando i sogni ti mostrano a me”<br />
“All days are nights to see till I see thee,<br />
And nights bright days when dreams do show thee me”.<br />
Non occorre commento. Forse ha ragione, ancora una volta, Sanguineti: “Che alle spalle si dia un testo,<br />
alla fine, è un accidente”. Non solo. Ma che “quel testo possa mai trasparire, in qualche modo, è finzione<br />
culturale acquisita e socializzata”. D’accordo. Ma è, quell’accidente, fortunato e fertile, se costringe a<br />
mettere a prova la parola nelle sue potenzialità infinite, rendendo gestuali sino le interpunzioni – come<br />
quella aggiunta al testo inglese, quasi senza parere, nel verso finale di XCI., che conferisce una carica<br />
gestuale alla drammatizzazione dell’assenza, spazializzandola, la perdita (“infelice in questo, soltanto, che<br />
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tu mi puoi togliere / tutto questo, via, e farmi, così, il più infelice: “Wretched in this alone, that thou<br />
mayst take / All this away, and me most wretched make”).<br />
Resta il piacere della lettura. Quello che un locutore (traduttore-interprete) più o meno camuffato ci<br />
trasmette. Ma che ci prende, as a fever, coinvolgendoci nel travestimento.<br />
Niva Lorenzini<br />
NOTE.<br />
(1) Cfr.E.Sanguineti, Faust. Un travestimento, Genova, Costa & Nolan, 1985, ora Roma, Carocci, 2003, pp.123-125.<br />
(2) Di “ricreazione” a proposito del travestimento faustiano (con riferimento al “significato dilettoso” del termine) parla<br />
Sanguineti in un intervento dedicato a La canzone di Greta, pubblicato in E.Sanguineti, Per musica, a cura di<br />
L.Pestalozza, Ricordi Mucchi, Modena, 1993, pp.232-33<br />
(3) E.Sanguineti, Commedia dell’Inferno, Genova, Costa & Nolan, 1989, con Introduzione (teatrale) a commedia<br />
(cinematografica) di Federico Tiezzi, regista della compagnia dei Magazzini che debuttò con quel testo a Prato il 27<br />
giugno 1989.<br />
(4) G.Ungaretti, Vita d’un uomo, IV, 40 sonetti di Shakespeare tradotti, Milano, Mondadori, 1946, con Nota<br />
introduttiva dell’autore.<br />
(5) Ivi, p.12.<br />
(6) Tre soli sonetti di Shakespeare compaiono in E.Montale, Quaderno di traduzioni, Milano, Edizioni della Meridiana,<br />
1948. Si tratta dei sonetti XXII, XXXIII, XLVIII, tradotti da Montale in endecasillabi a rima alternata, spesso retta su<br />
assonanze o consonanze. Ne deriva una musicalità da ode pariniana o da tonalità chiabreriana travestita in vesti<br />
arcadiche, che rende curiosamente ‘cantabile’ il testo inglese, alleggerendolo e sfumandone il pathos (come nell’incipit<br />
del sonetto XXII – “Allo specchio, ancor giovane mi credo / ché Giovinezza e te siete una cosa. / Ma se una ruga sul<br />
tuo volto io veda / saprò che anche per te morte non posa”, o del XXXIII -. “Spesso, a lusingar vette, vidi splendere /<br />
sovranamente l’occhio del mattino, / e baciar d’oro verdi prati, accendere / pallidi rivi d’alchimìe divine”). Nella Nota<br />
introduttiva il poeta informa che i suoi “rifacimenti” shakespeariani sono anteriori al ’38.<br />
(7) I corsivi sono miei.<br />
(8) Lo si legge in E.Sanguineti, Il traduttore nostro contemporaneo, in La missione del critico, Genova, Marietti, 1987,<br />
p.185.<br />
(9) Cfr. A.Cortellessa, Sanguineti-Shakespeare: “Dove finisce il mio io non lo so io”, in “Poesia”, n.117, maggio 1998,<br />
p.44.<br />
87
Sui dialetti<br />
88
Spostare la scena<br />
Sul tentativo di aprire il sipario minore sul maggiore: traduzione teatrale e lingue sconfitte (1)<br />
1. Alcune questioni ancora aperte<br />
“Nella scrittura scegli la parola,<br />
a teatro una parola non è mai definitiva”<br />
Ascanio Celestini [Di Giammarco 2006]<br />
Il noto scrittore keniano Ngugi Wa Thiong’o, imprigionato dalle autorità del suo Paese e successivamente<br />
costretto per oltre vent’anni all’esilio per aver contribuito alla stesura collettiva di una pièce scritta nella<br />
lingua nativa Gikuyu, abbandonando definitivamente nella scrittura creativa la lingua “colta” del<br />
dominatore inglese, e attuale professore di inglese e di letterature comparate nonché direttore<br />
dell’International Centre for Writing and Translation all’Università della California a Irvine, sostiene che<br />
Intellectuals, from what we at the International Centre for Writing and Translation at the University of California at<br />
Irvine call marginalised languages – we call them marginalised not marginal – have to realize that their primary<br />
audience is that of the language and cultural community that gave them. It’s only they who can produce knowledge in<br />
their own languages for that audience defined by their access to that language, and then later, through translation,<br />
autotranslation, or by another person, open the works to audiences outside their original language community (2)<br />
[Pozo 2004: online].<br />
È, ovviamente, sempre arbitrario voler adattare posizioni sorte in determinate situazioni socio-culturali e<br />
linguistiche, come quelle post-coloniali a cui si riferisce lo scrittore keniano, ad altre affatto differenti.<br />
Tuttavia, il dato di fatto inconfutabile del dominare o dell’essere dominati, se non solo, primariamente<br />
attraverso le lingue, e la posizione che ogni scrittore (traduttore) assume, più o meno direttamente, nei<br />
confronti dei codici con cui si trova a operare, possono essere considerate delle costanti spazio-temporali<br />
universali che, quindi, ci permettono di confrontarci con alcune problematiche sollevate nella citazione<br />
sopra riportata, tanto più che Wa Thiong’o è perfettamente a conoscenza dei rapporti di forza linguistici<br />
vigenti anche nelle le società occidentali e tra di esse, e non solo tra l’Occidente e le ex colonie [cfr. Wa<br />
Thiong’o 2000: 73-85].<br />
In sostanza, l’affermazione citata mette in campo, mutatis mutandis, alcune questioni che ci interessano<br />
da vicino, sia che si tratti dello scrivere in lingua emarginata/dialetto tout court, sia che ci si presti a<br />
tradurre in una data lingua emarginata priva di koiné non formalizzata, un’opera teatrale di un autore<br />
“classico” che ha scritto in una lingua imperiale del passato, classica e codificata immutabilmente, come<br />
potrebbe essere Plauto, o un autore “classico” della contemporaneità scrivente nella lingua pervasiva e<br />
mobilissima dell’Impero (3), poniamo il Premio Nobel Harold Pinter, nella language of the capital [la<br />
lingua del capitale/della capitale/del centro/dei grandi immaginari] come la definisce egli stesso [Pinter<br />
1988: 21].<br />
Che cosa significa, innanzitutto, tradurre per il teatro? Perché si fa? Quali sono le motivazioni che<br />
spingono qualcuno a tradurre per la scena? Perché, in una situazione di diglossia scemante in cui una<br />
lingua nazionale (seppure nelle sue varianti regionali) si sostituisce nelle funzioni comunicative principali<br />
a un’altra preesistente ma ormai sconfitta, si traducono opere teatrali proprio in quest’ultima, costretta<br />
tra l’altro a una consistente dose di prestiti (4) per adempiere a tale compito? D’altro canto<br />
quest’operazione di lingue in contatto non può forse, in certi casi, restituire caratteristiche dell’opera<br />
originale meglio di una piatta versione in una qualche sorta di pseudo-standard? “E dove mettiamo il<br />
prestigio?”, dirà qualcuno. Non è un’operazione altamente svalutante trasporre l’opera di un “classico”,<br />
antico o moderno che sia, in una lingua per troppo tempo ormai sanzionata socialmente proprio per la<br />
sua mancanza di prestigio? E poi, ancora, come far fronte con un “povero” codice orale, destinato quasi<br />
esclusivamente alla servile comunicazione quotidiana tra le pareti domestiche, a una lingua che può<br />
vantare secoli di grandissima scrittura in tutti i generi testuali stoccata tra gli scaffali di altissime<br />
biblioteche? Esiste una tale tradizione di linguaggio, in questo caso, teatrale nelle sue varianti (da quello<br />
in versi a quello eminentemente colloquiale) da consentire un’assunzione nella lingua emarginata<br />
(indolore per l’opera originale) di una tanto forte e alta alterità (5)? D’altro canto, la lingua teatrale per<br />
sua natura non è forse “written to be spoken” [scritta per essere recitata/detta] [Snell-Hornby 1996:<br />
33]? E come la mettiamo col cronòtopo bachtiniano, con le coordinate spaziotemporali (ma anche<br />
culturali e psicologiche) in esso racchiuse, “poiché le difficoltà traduttive aumentano in proporzione alla<br />
distanza cronotopica tra il testo che viene tradotto e la cultura verso la quale viene proiettato attraverso<br />
la traduzione” [Osimo 2000: 13-14]? E a proposito di graffiare il prestigio di una lingua di cultura “alta” e<br />
dei relativi argomenti “alti”, non è proprio questo ciò che succede anche con il latino della liturgia<br />
cattolica, addirittura con la parola di Dio in greco o della Vulgata tradotta nelle tante parlate africane<br />
senza alcuna tradizione scritta (6)?<br />
Ma sì, – si potrebbe ribadire ribaltando la prospettiva – è assolutamente questo il compito<br />
dell’intellettuale, dello scrittore/traduttore nato dialettofono: “produrre la conoscenza proprio nella lingua<br />
89
di quel dato pubblico definito dal suo accesso a quella data lingua” (cfr. traduzione della citazione di Wa<br />
Thiong’o) e, in tal modo, contribuire ad arricchire la sua lingua, allargandone l’orizzonte culturale e,<br />
soprattutto, sviscerandone le potenzialità espressive con la propria bravura, affermare la propria<br />
“necessaria” peculiarità e creare la tradizione. Perché è proprio quest’operazione di ripresa e di<br />
valorizzazione di un elemento (la lingua), se vogliamo, del passato di un luogo e di una comunità, a farne<br />
semenza per un possibile futuro, o perlomeno a procrastinare ancora un poco la definitiva scomparsa:<br />
Aesthetics does not develop in a social vacuum. The aesthetic conception of life is a product of life itself which it then<br />
reflects. A flower, so beautiful, is the product of the entire tree. But a flower is also an important marker of the identity<br />
of a particular individual plant. The flower, so delicate, also contains the seeds for the continuation of that plant. A<br />
product of the past of that plant, it also becomes the future of the same plant (7) [Wa Thiong’o in Pozo 2004: online.<br />
Enfasi mia].<br />
Ma, si potrebbe obiettare, siamo propri sicuri che esista ancora una comunità di parlanti pronti a recepire<br />
quell’opera in traduzione? Non si tratta forse di un’estrema illusione in cui cade<br />
l’intellettuale/scrittore/traduttore in lingua sconfitta? Non è soltanto un’operazione intellettualoide fine a<br />
sé stessa dal momento che ormai il dado sembra definitivamente tratto per determinate lingue (8),<br />
impossibilitate a succhiare la linfa vitale di ogni lingua che si rispetti e perpetui, cioè quella che oggi le<br />
proviene in gran parte, sebbene non solo, dai mezzi di comunicazione di massa?<br />
E se invece non fosse proprio così? Le fortune degli uomini e delle loro lingue possono essere caduche,<br />
come pure le sfortune: se, dati certi presupposti socio-culturali, una data lingua sconfitta viene<br />
paradossalmente “ripescata”, anche solo temporaneamente, nell’alta società della cultura prestigiosa (9)<br />
proprio ad opera di quegli intellettuali/scrittori/traduttori di cui parla il nostro autore keniano,<br />
quest’operare – d’accordo, probabilmente per un lasso di tempo limitato – potrà forse avere ancora una<br />
sua porzione di senso.<br />
Le questioni che si sono appena poste, il cui elenco potrebbe essere allungato a piacere, sono variegate,<br />
complesse, stratificate e colme di molteplici implicazioni. Di seguito non si cercherà tanto di sviscerarle e<br />
di risolverle, bensì semplicemente di proporre qualche prospettiva per una loro parziale lettura.<br />
La “dominante” nella traduzione teatrale – Necessità o committenza? Scrittura o performance?<br />
Nel caso della traduzione per il teatro, tra “le occasioni pratiche del processo traduttivo, cioè i motivi<br />
concreti a causa dei quali una traduzione viene realizzata” [Zuccato 2004: 469], generalmente si<br />
riscontra in un numero infinitamente minore di casi rispetto ad altri generi letterari come la poesia, la<br />
prosa poetica, il frammento, la narrazione-lampo epifanica, la short story ecc., la libera scelta, cioè<br />
quell’assoluta spinta interiore, quella Sehnsucht, quella nostalgia/desiderio struggenti del testo, anzi<br />
dell’anima di un autore (10). Quello che, insomma, potremmo definire il gesto gratuito e necessario di<br />
un’acquisizione testuale in una data lingua autoriale, quel<br />
quantum di forza tensionale e differenziale, sentito come reagente (e agente) all’interno della lingua nella quale si<br />
vuole dare ‘traduzione’[…]. Da un’altra lingua, dalla sua poesia, può partire l’impulso a riconoscere un’esigenza viva di<br />
intonare il respiro e lo sguardo della nostra lingua. […] la vocazione a configurare un nuovo legame del sentire e del<br />
conoscere, che già ci chiama, e vuole che gli sia data riconoscibilità, vuole e offre riconoscenza” [Villalta 2005: 41-42].<br />
Quasi sempre, anche nel caso di opere teatrali in versi o a forte componente di scrittura poetica,<br />
l’occasione della traduzione è un incarico attribuito da un committente a un traduttore (specialista di una<br />
certa lingua, autore teatrale in proprio conoscitore di quella lingua o quant’altro). Indipendentemente dal<br />
tipo di occasione traduttiva, questa determinerà comunque la scelta di una specifica “dominante” nella<br />
realizzazione pratica della traduzione, secondo quanto proposto da Torop [2000] sviluppando un concetto<br />
di Jakobson [1987], cioè di un “elemento, all’interno di un testo, che viene considerato irrinunciabile per<br />
caratterizzare il testo stesso. In funzione della dominante viene attuata la strategia traduttiva, che<br />
consiste nel trovare tutti i mezzi necessari sacrificando elementi secondari di cui si può dare conto nella<br />
traduzione metatestuale, ossia sotto forma di note, indicazioni in postfazione o prefazione o in altra forma<br />
al di fuori del testo vero e proprio” [Osimo 2000: 14]. In sostanza, nel caso di un’occasione di desiderio<br />
del testo senza fini scenici, la dominante si indirizzerà verso una soluzione eminentemente scritturale<br />
ovvero di leggibilità autoriale, cioè letteraria, che comunque farà i conti, se non con una visione<br />
“sacralizzante” del testo originale, almeno con un approccio rispettoso della sua letterarietà; mentre nel<br />
caso di una commissione a fini drammaturgici, la dominante propenderà quasi sicuramente per una resa<br />
scenica con tutte le conseguenze del caso, affidandosi a una visione traduttologica, se non proprio<br />
“etnocentrica” [cfr. Berman 1985: 48-49], in buona parte “addomesticante” [cfr. Venuti 1998b: 67-87],<br />
ripiegata se non altro sulle esigenze della produzione e della regia con in mente il loro pubblico, dunque<br />
funzionalistica [cfr. Reiß-Vermeer 1991] (11). Quanto affermato da Pirandello a proposito del<br />
drammaturgo si potrà, allora, estendere al traduttore, che si ritrova in una posizione molto simile alla<br />
figura del “Dramaturg” nella tradizione teatrale tedesca, cioè di ganglio vitale (per la messa in scena) tra<br />
l’autore, il testo, gli attori, il regista e il palcoscenico, quindi di “manipolatore”, “adattatore” dell’opera<br />
secondo quanto richiesto dalle esigenze della produzione:<br />
90
Ma perché dalle pagine scritte i personaggi balzino vivi e semoventi bisogna che il drammaturgo trovi la parola che sia<br />
l’azione stessa parlata, la parola viva che muova, l’espressione immediata, connaturata con l’atto, l’espressione unica<br />
che non può essere che quella, propria cioè a quel dato personaggio in quella data situazione; parole espressioni che<br />
non s’inventano, ma che nascono, quando l’autore si sia veramente immedesimato con la sua creatura fino a sentirla<br />
com’essa si sente, a volerla com’essa si vuole [Pirandello 1908: 235].<br />
Con questa affermazione il Premio Nobel siciliano tocca le questioni fondamentali del tradurre un’opera<br />
per la sua drammatizzazione, questioni – come si legge tra le righe – che intrecciano indissolubilmente<br />
l’operare linguistico con le giuste pretese di altri codici espressivi, ricordandoci la recitabilità in uno spazio<br />
e in un tempo precisi, o meglio l’usabilità performativa del testo scritto, la sua attuabilità da parte di<br />
attori/agenti, suggerendoci ciò che più tardi verrà definito come un insieme in cui interagiscono codici<br />
multipli [Bassnett-McGuire 1985], un tutto costituito da elementi interrelati che – come in un’esecuzione<br />
musicale – cambiano a seconda delle singole costellazioni delle componenti coinvolte. In ciò, il testo<br />
verbale può essere paragonato allo spartito, il quale può adempiere le sue potenzialità soltanto all’interno<br />
dell’ensemble costituito da strumenti e musicisti [Snell-Hornby 1993].<br />
Nella stragrande maggioranza dei casi, l’occasione della traduzione in una lingua sconfitta, al pari di tante<br />
pièces scritte direttamente in quella lingua, è data dalla committenza (teatro, produttore, regista ecc.),<br />
intenta a soddisfare una certa aspettativa da parte di un pubblico “popolare” ancora parlante abbastanza<br />
attivo, magari solo tra le mura domestiche o in situazioni amichevoli (bar, circolo ecc.) della lingua in cui<br />
si traduce, oppure volta a sperimentare nuove formule espressive per un pubblico “colto” che, pur non<br />
parlando più (nel caso delle generazioni più mature) quella lingua essendosene “emancipato”, ancora o in<br />
qualche modo la comprende perché a suo tempo imparata, oppure non parlandola affatto perché solo<br />
orecchiata (nel caso delle giovani generazioni) è disposto a impegnarsi nella comprensione<br />
dell’espressività creativa (12). Vale la pena, pertanto, soffermarsi brevemente su cosa comporta la scelta<br />
quasi obbligata di una “dominante” d’uso, cioè di una specifica strategia traduttiva tesa a produrre un<br />
testo destinato a un’effettiva messa in scena.<br />
2.1. Cambio di scena: da lingua teatrale a lingua teatrale<br />
Al pari di ogni altra espressione linguistica creativa (letteraria), anche quella teatrale nel suo aspetto<br />
dialogico (monologico) è una forma particolare di discorso, scritto per essere recitato, a volte ricalcato<br />
sulla più bassa oralità, ma assolutamente distinto dal discorso naturale in quanto creato arti-ficialmente,<br />
cioè arti-sticamente a tavolino, caratterizzato da particolari forme di coesione testuale, di densità<br />
semantica, di forme ellittiche complesse, da una deissi particolarmente adatta all’interpretazione attoriale<br />
ecc., insomma da tutto quanto in ambiente teatrale da Stanislavskiy in poi è noto come sottotesto. Esso<br />
è, inoltre, contraddistinto da un’interazione di prospettive multiple derivanti dal gioco simultaneo di<br />
diversi fattori e da ciò che essi risvegliano nel pubblico; particolarmente produttivo da questo punto di<br />
vista si rivela l’impiego di elementi paradossali, ironici, allusivi, metaforici, di climax o di anticlimax<br />
improvvisi ecc. Si può intenderlo anche come un’azione potenziale in progressione ritmica. Per ogni<br />
singolo personaggio/attore il discorso teatrale assume le caratteristiche di un idioletto, di una maschera<br />
linguistica che assieme al colore della voce, alla mimica, al movimento e quant’altro va a costituire<br />
nell’interpretazione in palcoscenico un tutto che si tiene. Infine, si può dire che per il singolo spettatore<br />
tra il pubblico il discorso e l’azione in scena vengano percepiti come un tutto sinuoso e, in ogni caso,<br />
come un’esperienza personale diretta, coinvolgente (anche al negativo nel caso della noiosità dello<br />
spettacolo). Queste componenti basilari del discorso teatrale devono essere tutte riconosciute e tenute in<br />
considerazione nella drammatizzazione ovvero in egual misura nella traduzione da drammatizzarsi [cfr.<br />
Snell-Hornby 1996: 33-34]. In sostanza, i testi teatrali possono essere descritti “as texts conceived for<br />
possible theatrical performance, as dominant verbal sign-systems which rule and integrate all other<br />
theatrical sign-structures” (13) [Totzeva 1999: 81]. A questo proposito Totzeva parla di “potenziale<br />
teatrale”, Theatrical Potential [TP], cioè della relazione semiotica tra segni verbali e segni non verbali<br />
ovvero strutture della performance, i codici (14) e le norme della quale devono essere compresi e<br />
studiati come un particolare sistema per la creazione di senso, basato storicamente su determinate<br />
tradizioni e convenzioni, che in un’ipotesi traduttiva devono essere ben presenti all’operatore.<br />
TP can be seen as the capacity of a dramatic text to generate and involve different theatrical signs in a meaningful<br />
way when it is staged. The concept of TP aims to clarify how the various structural characteristics of a dramatic text<br />
stimulate and regulate the integration of theatrical signs to create intersemiotic meaning structures; for, after all, it is<br />
only the written dramatic text that provides the literary communication and allows the creation of all the different<br />
meanings which can be rendered through theatrical signs. […] The problem for translation as an interlingual<br />
transformation of the dramatic text is therefore how to create structures in the target language which can provide and<br />
evoke an integration of nonverbal theatrical signs in a performance (15) [Totzeva 1999: 82. Enfasi mia]<br />
Dal punto di vista del traduttore – che almeno da ora in poi dovremmo definitivamente e idealmente<br />
vedere come una sorta di figura plurale o perlomeno come figura-ombra del regista-adattatore, esperto<br />
91
non solo dei codici linguistici ma in qualche misura anche del loro interrelarsi con codici d’altra natura,<br />
nonché delle tradizioni/convenzioni teatrali in gioco –, l’approccio di Totzeva, integrante altri importanti<br />
studi precedenti sempre di impianto semiotico che avevano sottolineato gli elementi necessari alla<br />
“eseguibilità” di un testo e, conseguentemente, da tenere presenti per la sua traduzione (16), ha il<br />
pregio di ricordare da un lato che, nel teatro di parola, il testo rimane pur sempre l’elemento che<br />
concretizza la comunicazione letteraria, che permette ancora l’identificazione dello spettacolo come<br />
appartenente, seppure in modo particolare, a una ben specifica tradizione di scrittura (a meno che non si<br />
vogliano cancellare secoli di storia letteraria) (17). Dall’altro, esso evidenzia che questa stessa<br />
comunicazione letteraria è qualcosa di assolutamente dinamico, mobile, che si dà nel dialogo permanente<br />
del testo col sistema comunicativo non verbale. Tale dialogo apre nel momento traduttivo – in base a<br />
elementi definiti aesthetics dominants [dominanti d’estetica] che tengono conto delle rispettive tradizioni<br />
teatrali coinvolte – la possibilità di ricreare a livello linguistico strutture in grado di evocare o di procurare<br />
nella rappresentazione un’integrazione di segni teatrali non verbali. In sostanza, il traduttore nella<br />
stesura del testo d’arrivo fa già “leggere” a chi di dovere (regista, scenografo, costumista, tecnico delle<br />
luci, ingegnere del suono ecc.) le possibilità drammaturgiche implicite in esso, “dentro” la sua lingua, cioè<br />
quanto è stato definito come TP [Theatrical Potential]. Questo, a sua volta, potrebbe essere visto come<br />
una sorta di TP 1 Translational Potential [potenziale traduttivo] (18) che contempla la possibilità –<br />
attraverso la trasformazione dei segni verbali e, di conseguenza, di quelli non verbali e la nuova<br />
interazione tra tutti – di enfatizzare o indebolire determinati elementi-significati a scapito di altri (19),<br />
riconfigurando, tra l’altro, creativamente il concetto di “residuo intraducibile” [cfr. Osimo 1998: 23]. Da<br />
questo punto di vista si può ben dire che il testo teatrale d’origine, oltre che a essere ricollocato nel<br />
tempo e nello spazio a ogni sua nuova messa in scena in quella sua data lingua d’origine, nel passaggio<br />
da una lingua teatrale a un’altra lingua teatrale, cambia letteralmente di scena, venendosi a trovare in un<br />
ambiente segnico affatto diverso.<br />
Dati questi presupposti, e pur coscienti che ogni generalizzazione si scontra con la “realtà” (linguistica,<br />
letteraria, socio-culturale, drammaturgica ecc.) di ogni singola opera e relativa messa in scena, in linea<br />
teorica si dovrebbe poter sostenere che qualsiasi codice linguistico, indipendentemente dal grado di<br />
scritturalità/letterarietà da esso sviluppato, in mano a un traduttore capace di stimolarne al massimo le<br />
potenzialità – per brevità e comodità si rimane nel vago di questo termine, non intendendo<br />
assolutamente impiegare una categoria preromantica abusata quale “genio della lingua”, tra l’altro troppo<br />
spesso associata all’altra famigerata categoria di “genio del popolo” – ovvero di spremerne capacità<br />
impensate (20) disponga di sufficiente TP 1 [Translational Potential] per realizzare un adeguato TP<br />
[Theatrical Potential], a prescindere dalle specificità di ogni singolo testo teatrale (periodo, argomenti,<br />
ambientazione, personaggi e relativi registri ecc.) in qualsiasi lingua.<br />
3. Spostare la scena: tradurre il maggiore col minore (21)<br />
Negli ultimi anni in campo traduttologico si è cominciato a prestare una significativa attenzione a<br />
problematiche complesse come quelle di “minoranza” e di “minorità”, soprattutto in una prospettiva postcoloniale,<br />
inter- e multiculturale e di genere, con un’attenzione particolare al non-canonico angloamericano<br />
e francofono (in cui però è del tutto assente il discorso minore-dialetto interno, ancora una<br />
volta fuori moda [cfr. Zuccato 2004b: 185]), nonché – entrando nello specifico linguistico – alle difficoltà<br />
di riproduzione nella lingua d’arrivo di elementi linguistico-culturali minoritari. Molto produttivo si è<br />
dimostrato in questo campo il settore degli studi sulla traduzione multimediale, di cui la traduzione<br />
teatrale fa parte appieno, anche se non si può disconoscere la tendenza generale a restringere l’attributo<br />
alle forme di traduzione legate ad altri media, in particolare il cinema e la televisione, cioè il doppiaggio e<br />
il sottotitolaggio, per i quali negli ultimi tempi è stata coniata la più precisa etichetta screen translation<br />
[traduzione per lo schermo]. Proprio al settore del doppiaggio cinematografico-televisivo dobbiamo una<br />
messe di scritti concernenti la resa di elementi dialettali (soprattutto nell’accezione anglosassone del<br />
termine, cioè di varietà diatonica, diastratica e diafasica di una lingua, di substandard, e meno in qualità<br />
di codice orale autonomo e distinto, come invece viene inteso in ambito italiano e tedesco) verso una<br />
grande lingua veicolare, ovvero la “pulizia linguistica” (perché in soldoni si tratta di questo) a scapito di<br />
tutto quanto non ha le sembianze di uno pseudo-standard [cfr. in particolare Herbst 1994; Heiss-Leporati<br />
2000; Heiss 2001; Heiss 2004; Nadiani 2004a]. Sempre nella direzione dialetto (nell’accezione data per il<br />
doppiaggio) verso lingua ufficiale, sul versante letterario interessanti questioni traduttologiche ha<br />
sollevato Schreiber [2006], e teoricamente molto produttivi risultano essere gli studi di Englund<br />
Dimitrova, dimostrandosi molto convincente, in particolare, il modello da lei sviluppato, alternativo al<br />
concetto di continuum, per inquadrare le tendenze osservabili nella traduzione di opere letterarie con<br />
parti in substandard [2004: 134]. Nella direzione dal minore riconosciuto ad altro minore formalizzato<br />
importanti considerazioni si devono a Venuti [1998] e Cronin [2003], che parzialmente potrebbero essere<br />
estese alla traduzione, avvenuta in particolare in passato in Italia, di testi da certi dialetti teatralmente<br />
più blasonati (si pensi ad esempio alla grande tradizione del teatro veneziano, napoletano e siciliano) a<br />
dialetti di altre aree. Meno studiate sono, non a caso vista la materia abbastanza scivolosa e sfuggente, le<br />
implicazioni connesse con la direzione opposta del movimento traduttivo, cioè dalla lingua verso il codice<br />
92
minoritario formalizzato [Cronin 2003], mentre assolutamente non studiate risultano essere le<br />
implicazioni concernenti il tradurre in un minore sconfitto.<br />
Eppure ancora oggi ci troviamo di fronte – per restare al nostro Paese – nonostante la pericolosamente<br />
“scemante diglossia” citata all’inizio, a fenomeni curiosi, che qualcuno vorrebbe catalogare come<br />
assolutamente “superflui”, “ridondanti”, perché “anacronistici”, mero gioco intellettuale, linguisticamente<br />
e culturalmente a-funzionale: opere di Plauto trasposte in siciliano [cfr La Paglia 2002: online],<br />
romanesco trasteverino [cfr. La Paglia 2001: online] e ora in romagnolo [cfr. Savini 2006] (22); poeti<br />
classici e contemporanei di lingue diverse antologizzati e tradotti nel friulano della koiné da Giorgio<br />
Faggin [1999], come pure grande narrativa neerlandese mai tradotta prima nemmeno in italiano [1993];<br />
famose ballate di Villon godibilissime nel milanese di oggi di Claudio Recalcati e Edoardo Zuccato [2005];<br />
il grande William Shakespeare selezionato e “ridotto” in Romagna da Franco Mescolini, come era<br />
avvenuto in passato (e ancora avviene) in tante altre regioni anche per Molière, fino ai teatri e alle<br />
trasmissioni della radio pubblica in dialetto della Svizzera italiana; un classico del teatro irlandese di<br />
lingua inglese come John Millington Synge trasposto in romagnolo [cfr. Leech; Suprani 2006], senza<br />
dimenticare la grande messe di testi teatrali scritti nella lingua nazionale (il “maggiore locale”) riversati<br />
nei vari dialetti, anche questa un’interessante operazione di traduzione tra Kultursysteme (23) all’interno<br />
di una “sovra-cultura” comune, e molto altro ancora. Fenomeni simili, in alcuni casi di ancora più vasta<br />
portata, si riscontrano in altre regioni europee: sia citata esemplificativamente la costante opera di<br />
traduzione in svariati dialetti tedeschi di testi drammaturgici contemporanei e, nel caso della produzione<br />
di Hörspiele [radio-drammi], un genere letterario da sempre molto frequentato in Germania, la<br />
trasposizione e l’adattamento in una sorta di koiné radiofonica basso-tedesca [plattdeutsch, l’insieme dei<br />
dialetti del Nord della Germania] di copioni inglesi, e scandinavi, un procedimento all’ordine del giorno<br />
anche in altri macrodialetti come il “bavarese”. E come dimenticare la creazione dei tanti siti web dedicati<br />
al “minore”, la cui terminologia di superficie, di navigazione insomma, viene localizzata, cioè tradotta e<br />
adattata direttamente dal principale gergo di cui si serve oggi the language of the capital?<br />
Questo vasto e diversificato operare traduttivo non cade, del resto, in un vuoto, bensì si inserisce in un<br />
“naturale” e stratificato sommovimento minoritario (24), che, non datando certo da oggi, come una sorta<br />
di sciame sismico culturale, a ondate successive più o meno intense, ha attraversato e attraversa un po’<br />
ovunque in Europa con sfaccettature diverse gli ultimi decenni [cfr. Nadiani 2006b], la cosiddetta seconda<br />
modernità secondo la definizione coniata da Ulrich Beck per la sua collana di studi sociali edita dall’editore<br />
tedesco Suhrkamp [1997].<br />
Nel nostro Paese, ad esempio, si è assistito negli ultimi anni, oltre alla continua fioritura della poesia<br />
“neodialettale” [si vedano, in particolare, Santi 2001; Bagnoli 2001; Zuccato 2003; Zinelli 2005],<br />
significativa per le intere lettere nazionali nonostante alcune giustificate posizioni critiche [cfr. Villalta<br />
1997], e a quella del teatro dialettale amatoriale diffuso in gradi diversi praticamente in ogni regione,<br />
spesso di basso profilo letterario ma con un suo vasto e fedele pubblico, a una decisa affermazione di<br />
notevoli esperienze teatrali a base dialettale (anche in parlate senza una forte tradizione in questo<br />
campo) di compagnie e gruppi di ricerca tra i più importanti, risultate spesso “esportabili” con successo<br />
nelle lingue maggiori e in festival e teatri prestigiosi (25). A cui si aggiungono altre forme teatraliperformative,<br />
che assieme alla parola e alla scena coinvolgono diversi linguaggi musicali (26), per tacere<br />
del successo ottenuto da gruppi musicali, in particolare del Sud, frequentanti generi nuovi, spesso<br />
innestati su quelli tradizionali rimodellati. Fenomeni simili sono riscontrabili in diverse aeree linguistiche<br />
europee, dalla lontana Finlandia [cfr. Helin-Piispa 2004] al variegato universo tedesco passando per le<br />
isole britanniche, per arrivare alla Slovenia [cfr. Zorko 2004] o all’Ungheria [Koloman 2004]. È in questo<br />
sommovimento, in questo sciame sismico che si trova carsicamente a “fluire” il lavoro, anzi il compito del<br />
traduttore minore nel senso di operatore dal minore (27) e verso il minore nell’accezione di Venuti.<br />
3.1. Il compito del traduttore minore<br />
Già in passato si è avuta l’occasione di creare la definizione di traduttore minore riferendosi<br />
all’importanza che può avere per il minore la sua opera di traduzione nel/col maggiore. Nel giusto<br />
tentativo di estendere tale concetto anche all’operazione inversa, quella dibattuta in queste pagine, che,<br />
ovviamente, ha implicazioni diverse seppure rientranti nella stessa problematica (principalmente, anche<br />
se non solo, l’acquisizione di prestigio del minore e il temporaneo rallentamento del suo processo di<br />
patoisement), sia concessa una lunga autocitazione per favorire la ripresa dell’argomentazione.<br />
Non si tratta di riterritorializzare il minore in un altro minore, ma di instaurare dall’interno un esercizio minore d’una<br />
lingua maggiore, di affrontare il problema di come strappare a questa lingua una “letteratura minore”, nel senso<br />
positivo e alternativo di Deleuze-Guattari, capace di scavare il linguaggio e di farlo filare lungo una sobria linea<br />
rivoluzionaria, di come diventare il nomade, l’immigrato e lo zingaro della propria lingua [1996: 35]. […] Il “compito”<br />
del traduttore dal minore consisterà non tanto nel tentativo di “redimere” imperialisticamente questo nel maggiore con<br />
l’obiettivo di assegnargli chissà quale dignità, bensì nello sforzo di far risuonare nel maggiore la memoria (le<br />
stimmate) di un diverso minore, il suo “dialetto” nell’originaria accezione etimologica del termine, di dialégein, di<br />
“parlare attraverso”. Attraverso la ferita stratificata, fascicolata, comune a tutte le lingue, anche se in gradazioni<br />
significativamente diverse (28). Ciò comporta, come afferma lo scrittore creolo, Édouard Glissant, che si abbandoni il<br />
93
monolinguismo, l’altro grande feticcio del maggiore, che si parli e scriva in presenza di tutte le lingue del mondo.<br />
Scrivere in presenza di tutte le lingue del mondo non vuol dire, ovviamente, conoscere tutte le lingue. Vuol dire che,<br />
nel contesto attuale delle letterature e del rapporto fra la poetica e il caos-mondo, non si può più scrivere in maniera<br />
monolingue. Significa dirottare e sovvertire la lingua maggiore non operando attraverso sintesi, ma attraverso<br />
aperture linguistiche, che permettano di pensare i rapporti delle lingue fra loro, oggi, sulla terra: rapporti di<br />
dominazione, di connivenza, d’assorbimento, d’erosione, di tangenza, eccetera – come il prodotto di un immenso<br />
dramma, di un’immensa tragedia a cui la lingua dello scrittore non può sottrarsi [Glissant 1998: 33]. Si tratta di<br />
pensare all’interno del proprio habitat di significato [cfr. Hannerz 2001], del proprio immaginario la totalità delle lingue<br />
e di realizzarla attraverso la pratica della lingua d’espressione maggiore, aprendo il luogo, senza annullarlo o diluirlo,<br />
“traducendo” la ferita, il dramma (che in un’operazione di traduzione include la trasformazione della lingua, la sua<br />
irriconoscibilità) mediante una poetica della Relazione [Glissant 1998: 25] nell’imprevedibile, in cui arrivare a<br />
sperimentare la debolezza, la mitezza, la fortezza e la violenza dell’alterità, di altri mondi, lingue e identità, e in essi<br />
finalmente scoprire che il nostro stare è sostentato da incontri, dialoghi e conflitti con altre storie, altri posti, altre<br />
persone [Chambers 1996: 9]. Il traduttore “minore”, colui che ricrea il minore nel maggiore, cerca di fare di<br />
quest’ultimo un uso minore o intensivo, opporre il carattere oppresso di questa lingua al suo carattere oppressivo,<br />
trovare i punti di non-cultura e di sottosviluppo, le zone linguistiche di terzo mondo attraverso le quali una lingua<br />
sfugge, un animale si inserisce, un concatenamento si innesta, facendo il sogno contrario, rivoluzionario, alternativo ai<br />
veri rapporti di forza: creare un divenir-minore [cfr. Deleuze-Guattari 1996: 49]. [Nadiani 2004c: 391]<br />
Chiaramente, per il traduttore minore ora si tratterà di trovare una strategia con lo stesso fine di creare<br />
un divenir-minore e un divenire per il minore andando nella direzione inversa: aprire il sipario minore sul<br />
maggiore affinché questo venga inglobato dal minore.<br />
Lo studioso irlandese Michael Cronin è uno dei pochi ad aver puntualizzato l’importanza dell’opera di<br />
traduzione per le lingue di minoranza. Riferendosi in particolare a situazioni simili a quelle sperimentate<br />
dalla sua madrelingua gaelica che, pur dovendo far fronte all’attuale lingua imperiale per antonomasia e<br />
ridotta al lumicino nel numero degli ancora-parlanti effettivi (poche decine di migliaia), per certi versi<br />
gode di invidiabili condizioni di favore, essendo la prima lingua ufficiale dello stato, che le permettono di<br />
continuare a stringere coi denti il boccaglio della bombola dell’ossigeno (mantenere in vita una lingua<br />
presuppone sempre un consistente sforzo economico), egli scrive:<br />
[…] for minority languages themselves it is crucial to understand the operation of translation process itself as the<br />
continued existence of the language, and the self-perception and self-confidence of its speakers are intimately bound<br />
up with translation effects (29). [Cronin 2003: 146].<br />
Pur consapevole delle difficoltà e dei pericoli insiti nell’operare traduttivo in una lingua minore in<br />
situazione di diglossia per questa stessa lingua (diventare sempre meno riconoscibile come entità<br />
linguistica autonoma capace di sviluppo futuro limitandosi a essere in “traduttorese” una pallida<br />
imitazione della lingua di partenza), giustamente egli si fa paladino di una politica traduttiva “offensiva”,<br />
che non disdegni nessun campo del sapere, in particolare quello scientifico e tecnologico, cioè di un<br />
tradurre con funzioni pragmatiche che non si limiti a funzioni estetiche, pur correndo il rischio<br />
dell’interferenza e del “forestierismo” per non soccombere alla stasi dovuta al totale “addomesticamento”<br />
(in questo caso, infatti, la traduzione non funzionerebbe più come agente rinnovatore della lingua<br />
d’arrivo) [cfr. Cronin 2003: 147]. Ovviamente, una posizione simile, contemplante una traduzione a tutto<br />
campo del maggiore, in particolare della sua modernità, è comprensibile soltanto tenendo presenti le<br />
condizioni di lingue in qualche modo “garantite” (30) e non “abbandonate a se stesse” come quelle<br />
sconfitte, pur dandosi encomiabili tentativi in questo senso in diverse parti d’Europa (31).<br />
Realisticamente, il traduttore minore potrà al massimo concentrarsi sulle funzioni estetiche della<br />
traduzione, in quanto egli è perfettamente cosciente della sconfitta, del fatto che le sorti non potranno più<br />
essere ribaltate. Il suo compito, non dandosi le condizioni politiche, sociali e economiche in cui si trova a<br />
operare il collega del minore “garantito” occidentale, non dandosi più (se mai si è data) una comunità di<br />
riferimento compatta nel senso di Wa Thiong’o, rinvenibile forse ad altre latitudini, polverizzata<br />
nell’atmosfera accelerata dell’epoca in insiemi di singoli con orbite individuali, sarà molto più limitato, ma<br />
non per questo meno importante.<br />
Al pari e più di ogni altro intellettuale e operatore culturale (scrittore, poeta, commediografo, musicista,<br />
regista teatrale o cinematografico (32) ecc.) minore, egli pur limitandosi, come già detto, alle funzioni<br />
estetiche della traduzione di prodotti della modernità o dell’antichità, può contribuire a dilatare le<br />
potenzialità espressive del suo codice immettendovi il maggiore considerato elevato e di prestigio,<br />
secondo strategie e modalità dipendenti da ogni singola testualità nonché dalle sue capacità. Così facendo<br />
e in presenza di traduzioni di valore di determinate opere, cioè commisurabili – in base al genere, alle sue<br />
caratteristiche intrinseche, alle storie letterarie, maggiore e minore, di quel dato paese ecc. – ad altre<br />
opere simili, in grado altresì di costituire un’apertura verso l’alterità, un dialogo con esso spingendo la<br />
lingua d’accoglienza a registrare l’estraneità del testo straniero [cfr. Berman 1992: 4], egli favorirà il<br />
superamento dello snobistico scetticismo da parte di chi ha abbandonato quel codice perché considerato<br />
“zotico” e, d’altra parte, potrà incuriosire i membri delle generazioni successive ai quali esso, per<br />
mancanza di prestigio e di “utilità”, non è stato trasmesso, a confrontarsi minimamente con quel<br />
“fantasma” che continua ad aggirarsi nella contemporaneità a nome Minore.<br />
94
Restando in ambito estetico, quanto più vasto sarà il suo operare traduttivo, tanto maggiormente egli<br />
contribuirà allo stratificarsi del polisistema letterario nella sua lingua, nonché al modellamento del centro<br />
di tale polisistema (33) – dato il livello quasi sempre molto elevato delle imprese traduttive, connotate<br />
dunque da forze innovative o primarie – [cfr. Even-Zohar 1998-110-111], con influenze dirette su altri<br />
sistemi culturali, che a nostro avviso, stante la restrizione geografica della lingua-cultura in questione,<br />
possono rivelarsi di fondamentale importanza per la produzione-promozione estetica in quella lingua<br />
sconfitta.<br />
Con la sua piccola opera, egli non bloccherà di certo il processo di patoisement: di fronte si trova il rullo<br />
compressore economico-mediatico del maggiore schiacciadiversità, o meglio, risemiotizzante a sua<br />
immagine le peculiarità: quella language of the capital, neanche più da identificarsi con una lingua<br />
specifica stanti le forti pressioni provenienti da molte aree geopolitiche, bensì proprio col sistema<br />
economico vincente senza più vincoli morali e frontiere:<br />
Nel corso degli anni Ottanta e Novanta […] le tecnologie di comunicazione istantanea hanno prodotto una circolazione<br />
estremamente rapida e pervasiva dei flussi immaginari che modellano la psiche sociale. L’integrazione economica si è<br />
accompagnata a un processo di omologazione dei modelli di consumo […]. Ma questo non significa che nel mediascape<br />
globale l’omologazione prevalga (34). Il capitalismo non funziona essenzialmente come omologazione, ma funziona<br />
come potenza di sovradeterminazione semiotica […]. Il capitalismo realizza il suo dominio non solo omologando i<br />
bisogni e le attese di consumo, ma soprattutto attraverso la risemiotizzazione delle forme culturali identitarie” [Berardi<br />
2000: 151-152].<br />
Questa risemiotizzazione, seguendo il pensiero di Arjun Appadurai, fa sì che le nascenti culture glocali<br />
(vedi nota 33) non siano più legate a filo doppio né ai luoghi né al tempo, sono prive di contesto, una<br />
miscela delle più disparate componenti create dal sistema della comunicazione globale. È dunque, di<br />
nuovo e sempre, l’immaginario veicolato dal maggiore linguistico-economico-mediatico ad assumere un<br />
potere fortissimo nella nostra quotidianità. La prassi del nuovo potere delle industrie mondiali<br />
dell’immaginario prevede che forme di vita locale vengano scompaginate e reimpaginate secondo<br />
immagini-modello provenienti da chissà dove [cfr. Appadurai 1997]. Il traduttore minore, pur non<br />
potendo assolutamente fermare il processo di patoisement, può momentaneamente (forse per lo spazio<br />
di una generazione o due) rallentarlo, inserendosi strategicamente in tale risemiotizzazione movimentata<br />
dalla Globalkultur, da una Referenzkultur, cioè da un sistema mondiale a cui sempre più persone<br />
oggigiorno fanno riferimento attingendo a un crescente numero di categorie universali, concetti e<br />
standard, nonché a merci e a storie disponibili un po’ ovunque [Breidenbach-Zukrigl 2000: 207] su cui è<br />
impressa la ferrea impronta del maggiore, trafugando quest’ultimo nel minore. Il tradurre contribuirebbe<br />
a quell’“invenzione del discorso letterario locale”, in realtà dotato di una ben grande tradizione, all’“autoriconoscimento,<br />
cioè al riconoscimento delle norme e delle risorse culturali locali che costituiscono il sé,<br />
che lo definiscono come soggetto locale” [Venuti 1998b: 76-77], a inventare, a partire dalla propria carne<br />
attraversata dal maggiore, assieme agli altri operatori culturali, il presente minore, a inventare il<br />
linguaggio per dire questo presente minore, poiché ancora si è questo linguaggio, rifiutando di<br />
rinchiudersi nella stasi linguistica privatistica, nel silenzio. In definitiva:<br />
Can the garment ever be made of a piece again, and if so will it be merely a costume on some museum mannequin, a<br />
hollow reminder of what we once were, of what we might have become. […] The writer has to resist this process of<br />
stultification, because by definition the living subtlety of language is his lifeblood. One of the dangers facing the writer<br />
whose language no longer retains a currency is that the literary language may become a private language (35) [O’<br />
Muirthile 1991: 82-83]<br />
Il traduttore minore sarà uno dei protagonisti non tanto nel resistere, ma nel desistere, nell’accettare di<br />
mettere in gioco la propria minorità [Cfr. Casagrande 2003: 82] in un’apertura e non in una chiusura, per<br />
poter così perseverare a pronunciare la continua ferita della risemiotizzazione in una prospettiva down-totop<br />
con la flebile voce del vecchio idioma della montagna [cfr. Pinter 1988] trasformato, trasfigurato, del<br />
minore-dialetto, spremendo creativamente da esso tutto l’insospettabile TP 1 [Translational Potential] di<br />
cui è dotato, allargandone i limiti linguistico-culturali.<br />
Insomma, si è propensi a pensare che un arresto temporaneo, o perlomeno una decelerazione del<br />
patoisement, una sopravvivenza del minore sconfitto, una limitata rinascenza non tradizionalistica, non<br />
pseudofolklorica del minore locale, possa avvenire solo ricollocando globalmente le particolarità locali<br />
rinnovandole conflittualmente [Beck 1996: 97], e per l’appunto l’operazione del tradurre il maggiore<br />
nel/col minore è naturalmente un conflitto sotto tutti i punti di vista (36), ma questo è – nei rapporti di<br />
forza sproporzionati – il prezzo da pagarsi per potersi ricol-locare un poco oltre, ancora per un poco.<br />
Corollario di quest’ultima strategia alternativa alla stasi, al retrocedere della chiusura a riccio dei falsi<br />
movimenti revanchisti delle identità, delle lingue e delle tradizioni inventate di sana pianta, figlie della<br />
nostalgia per una Heimat idealizzata e della paura di una Verfremdung alla porta di casa (quale casa?),<br />
dovuti proprio a un rinnegamento di una parte di sé, a una mancanza di riconoscimento di un sé (37)<br />
preso in un continuo mutamento, il lavorio del traduttore minore assolutamente non etnocentrico (vedere<br />
se stessi come misura di tutte le cose e adeguarle al proprio centro) in quanto perfettamente consapevole<br />
dell’inesistenza di un centro-Heimat-comunità, frammentato, polverizzato dalla modernità maggiore,<br />
95
inglobato in essa, procura ai suoi potenziali ancora-interlocutori il labile legame con gli unici, sfilacciati,<br />
contaminati, “veri” valori-puzzle identitari e comunitari possibili, certo, anche questi “costruiti”, perché<br />
sempre in divenire, valori comunque necessari per una minima “autoidentificazione” [cfr. Bauman 2005 3 :<br />
98], di cui l’uomo per sentirsi tale non può fare a meno, costituiti dal minore-dialetto (38).<br />
Last but not least l’atto di tradurre da parte del “minore sconfitto” potrà testimoniare/insegnare, finché a<br />
esso sarà dato esistere, al “maggiore locale” con cui coabita, seppure ai piani sotterranei, la capacità di<br />
accogliere l’alterità-stranierità (39), per quanto forte essa sia, e altresì che i rapporti tra le differenti<br />
lingue e culture saranno sempre rapporti di forza asimmetrici, che un giorno potranno interessare da<br />
vicino anche lo stesso maggiore locale. E chissà che quest’ultimo, in un’ormai impossibile opzione<br />
plurilinguistica, non impari a essere più rispettoso del minore che si trova in casa [cfr. Zuccato 2004b:<br />
188], vittima e testimone della sopraffazione e dell’ingiustizia, del fatto che sul palcoscenico del mondo le<br />
parole, scritte e orali, sono sempre definitive, perché condannate alla morte. A meno che non le si<br />
rimetta in scena con la traduzione.<br />
Giovanni Nadiani<br />
Note.<br />
(1) Queste note sono scaturite a margine della lettura della commedia di T. Maccio Plauto Mostellaria nella versione in<br />
romagnolo di Marcello Savini dal titolo U s’i sênt (2006, in corso di stampa). In alcuni punti esse riprendono e<br />
rielaborano concetti in precedenza già espressi altrove [cfr. Nadiani 2002 e 2004c].<br />
Per “lingue sconfitte” s’intendono qui tutte quelle lingue, a forte valenza orale pur con significativi monumenti scritti,<br />
prive di uno status culturale e funzionale riconosciuto e riconoscibile da parte dei potenziali parlanti o presunti tali,<br />
anche in presenza di uno status “politico” ufficiale, in preda dal punto di vista socio-linguistico a un definitivo processo<br />
di patoisement (in una situazione di lingue in contatto i parlanti una data lingua assumono e accettano mentalmente e<br />
praticamente la svalutazione ufficiale del loro codice, visto come meno prestigioso e incapace di rinnovamento con il<br />
conseguente abbandono dello stesso [cfr. Lafont 1976]).<br />
(2) “Gli intellettuali delle lingue, che noi al Centro Internazionale di Scrittura e Traduzione dell’Università della<br />
California a Irvine, chiamiamo emarginate – si badi bene emarginate ma non marginali – devono rendersi conto che il<br />
loro primo pubblico è quello delle lingue e delle comunità che gliele hanno date. Soltanto essi sono in grado di produrre<br />
la conoscenza nelle loro lingue per quel dato pubblico definito dal suo accesso a quella data lingua, e poi, attraverso la<br />
traduzione, l’autotraduzione, oppure per mezzo di un’altra persona, aprire le opere a tanti tipi di pubblico al di fuori<br />
della loro comunità linguistica originale”. [Traduzione mia. Lo stesso dicasi per le citazioni successive quando non<br />
diversamente indicato].<br />
(3) Per questo concetto si vedano, sia pure da angolature diverse, Ashcroft, Griffiths, Tiffin 1989; Hardt, Negri 2000.<br />
(4) Si vedano, ad esempio, i nomi(gnoli) in lingua italiana di alcuni personaggi della citata versione in romagnolo di<br />
Marcello Savini dell’opera plautina, che comunque potrebbero costituire parte di una strategia traduttiva per far fronte<br />
allo stratificatissimo stile del grande classico latino [cfr. Blänsdorf 2004: 200]; oppure le indicazioni di regia, sempre<br />
rigorosamente in lingua italiana. Accorgimento, quest’ultimo, che troviamo anche nel più scalcagnato copione della più<br />
infima compagnia amatoriale, probabilmente per “calco”, per abitudine alla lettura/scrittura di copioni in italiano. Si<br />
tratta, comunque, di un fenomeno curioso, quasi che chi scrive, da un lato, dubitasse della capacità descrittivoinformativa<br />
del dialetto, buono solo sul piano dialogico-espressivo, e dall’altro volesse ammiccare al regista, agli attori<br />
ecc. facendo loro capire che sì, il copione è dialettale, ma l’autore è persona di cultura, che padroneggia la lingua di<br />
cultura: tutte operazioni che sembrano sottolineare un’inferiorità del codice locale.<br />
(5) Questo problema è stato affrontato in modo dettagliato dal traduttore scozzese Bill Findlay [2000] a proposito della<br />
resa in Scots dell’opera Enfantillages dello scrittore contemporaneo Raymond Cousse scritta in francese standard.<br />
Questa traduzione apparentemente “asimmetrica” solleva questioni concernenti l’integrità sia del testo di partenza sia<br />
di quello d’arrivo, particolarmente a livello diastratico e del rapporto tra dialetto e performance.<br />
(6) Per questa complessa problematica si veda Tanner 2004.<br />
(7) “L’estetica non si sviluppa in un vacuum sociale. La concezione estetica della vita è un prodotto della vita stessa<br />
che questa poi riflette. Un fiore, tanto bello, è il prodotto di tutto l’albero. Ma un fiore è anche un importante<br />
contrassegno dell’identità di un particolare gruppo di piante come pure di una particolare singola pianta. Il fiore, tanto<br />
delicato, contiene in sé pure la semenza per la continuità di quella pianta. Un prodotto del passato di quella pianta<br />
diventa dunque il futuro della pianta stessa”.<br />
(8) Secondo quanto riportato dall’Atlante delle lingue minacciate pubblicato dall’Unesco, alla fine di questo secolo<br />
potrebbero essere scomparse 3.000 lingue locali minori, cioè quesi la metà di tutte le lingue esistenti [cfr. Stagliano<br />
2005: 22].<br />
(9) Si pensi, esemplarmente, a quanto accaduto a partire dalla metà degli anni Cinquanta in Italia alla poesia in molti<br />
dialetti italiani, in particolare in quello romagnolo, e alle continue fortune di un teatro, anche internazionale, che ha<br />
fatto del dialetto la sua bandiera espressiva.<br />
(10) “Poiché – come sostiene il poeta-traduttore Gianni D’Elia parafrasando in qualche modo Foucault – più che poter<br />
godere di cosa esistente, si cerca e si insegue qualcosa che ci seduce attraverso la lingua; da un’altra lingua. Non si è<br />
neppure convinti che in questo modo si sia lì a tradurre un testo o soltanto il testo; proprio perché il libro che si<br />
cercava era un autore, quell’autore, più che la cosa scritta di un autore; insomma un’anima, più che un manufatto di<br />
essa” [D’Elia, 1990: 59-60].<br />
(11) Queste diverse impostazioni possono, in realtà, costituire le diverse fasi a cui è sottoposto lo stesso testo in vista<br />
dell’obiettivo finale [targeting] della messa in scena. L’ultima fase prevede la totale riscrittura del testo originale da<br />
parte di un drammaturgo della lingua d’arrivo, allontanandosi totalmente dal lavoro dei traduttori ovvero dal testo di<br />
partenza. Riferendosi a questa drastica pratica in vigore nel teatro britannico, in particolare nel caso di testi moderni e<br />
contemporanei, Aaltonen sostiene che “targeting a particolar audience as a part of a specific theatre praxis decides the<br />
96
way this dramatic or theatrical is conveyed in translation” [l’operazione di mirare a un pubblico particolare, come<br />
elemento di una specifica prassi teatrale, determina il modo in cui l’elemento drammatico o teatrale è trasmesso”<br />
[Aaltonen 2005: online].<br />
(12) Queste sono due macrotipologie di un fenomeno riscontrato negli ultimi decenni in Romagna e in altre regioni<br />
italiane e nordeuropee, in cui a tutti gli effetti si inserisce la traduzione dell’opera di Plauto di Savini.<br />
(13) “Come testi concepiti per una potenziale messa in scena teatrale, come sistemi di segni a dominanza verbale che<br />
regolano e integrano tutte le altre strutture segniche teatrali”.<br />
(14) A questo proposito Pfister [1994] ha proposto un repertorio dettagliato di codici e canali; mentre Fischer-Lichte<br />
[1994] ha esplorato l’interazione di multipli segni sistemici teatrali nella “performance come testo”.<br />
(15) “Il TP può essere considerato come la capacità di un testo teatrale di generare e coinvolgere segni teatrali<br />
differenti in modo da veicolare un senso al momento della messa in scena. Il concetto di TP intende chiarire come le<br />
diverse caratteristiche strutturali di un testo teatrale sollecitino e regolamentino l’integrazione di segni teatrali al fine di<br />
creare strutture intersemiotiche significanti; dal momento che, dopo tutto, è soltanto il testo teatrale scritto a fornire<br />
la comunicazione letteraria e a permettere la creazione di tutti i significati diversi che possono essere prodotti<br />
attraverso i segni teatrali. […] Per la traduzione intesa come trasformazione interlinguistica del testo teatrale, il<br />
problema è di come creare strutture tali nella lingua d’arrivo in grado di fornire e evocare nella messa in scena<br />
un’integrazione di segni teatrali non verbali”.<br />
(16) Ci si riferisce, in particolare, a quanto elaborato dal gruppo di ricerca viennese di Snell-Hornby su concetti<br />
fondamentali quali: Spielbarkeit [rappresentabilità/performabilità]; Sprechbarkeit [recitabilità]; Atembarkeit<br />
[respirabilità] e, per il teatro musicale, Singbarkeit [cantabilità] [cfr. Snell-Hornby 1996: 33].<br />
(17) Pur concedendo che nella realtà dei fatti a teatro avviene di tutto (potenza dei registi!), questo aspetto sembra<br />
passare troppo spesso in secondo piano nel lavoro di molti traduttori/adattatori che, pur nel tentativo di adeguarsi alla<br />
consegna pirandelliana citata sulla lingua dei personaggi, ripiegati completamente in modo funzionalistico sul loro<br />
pubblico fanno scomparire del tutto la lingua – e quindi ciò che essa veicola non solo a livello del contenuto – dietro i<br />
personaggi e l’azione, come ben riassume la posizione di un noto traduttore anglosassone: “The language has to get<br />
out of the way. In a perfect translation […] the audience would not be listening to the language as such; the audience<br />
would be experiencing the response of the character, and the language would be merely a fully transparent means to<br />
that end”. [La lingua deve togliersi di mezzo. In una traduzione perfetta (sic!) […] il pubblico non ascolterà la lingua in<br />
quanto tale; esso farà esperienza della reazione del personaggio, e la lingua sarà soltanto il mezzo del tutto<br />
trasparente per questo scopo] [ Bethune 2004: online]. Vi sono, tuttavia, anche altre posizioni di valenti traduttori che<br />
hanno adottato strategie traduttive funzionali al loro pubblico e, ad un tempo, rispettose della letterarietà d’arrivo,<br />
come il famoso statunitense Paul Schmidt e colleghi canadesi [cfr. Veltman 1998; Lavoie 2000].<br />
(18) Ci sia concessa la messa in campo per analogia di questa definizione.<br />
(19) Secondo Totzeva “a concept of translation in which the translator tries to render and create within the structures<br />
of the target language all meanings realized in the dramatic text leads to a reduction of TP. […] A further reason for<br />
the reduction or loss of TP in translation is frequently a narrow concept of textuality, where text is understood not as a<br />
complex of communicative signals, but only as a complex of verbal signs” [1999: 89]. [Una concezione della<br />
traduzione in cui il traduttore tenti di riprodurre e creare dentro le strutture della lingua d’arrivo tutti i significati<br />
realizzati nel testo teatrale porta a una riduzione del TP. Un’ulteriore causa di riduzione o di perdita di TP nella<br />
traduzione spesso è da imputarsi a una concezione ristretta di testualità, intendendo il testo non come un complesso di<br />
segni comunicativi, bensì soltanto come un complesso di segni verbali].<br />
(20) Lo scrivente, ovviamente, non sostiene alcuna posizione “puristica” della lingua, tantomeno di quella locale<br />
eminentemente orale, vedendo le lingue piuttosto come qualcosa di dinamico, in perenne contatto tra loro e frutto di<br />
meticciamento continuo, e nemmeno una posizione passatista o rinunciataria. Egli “sente” la lingua come qualcosa di<br />
dinamico, che contempla la possibilità da parte del codice sub-alterno di assumere prestiti lessicali, di creare calchi e<br />
adattamenti morfologici e fonologici dal codice maggiore o da quelli “imperiali”. Pur essendo cosciente che ciò può<br />
contribuire a una forte diluizione della sua lingua, rendendola un’imitazione della maggiore, egli ritiene che questa<br />
estrema ratio possa avere una funzione, da un lato, nel rallentare un poco il citato processo di patoisement e,<br />
dall’altro, nel “cogliere metaforicamente” la continua trasformazione in cui il suo mondo ed egli stesso sono coinvolti.<br />
Da ciò deriva il suo atteggiamento critico nei confronti di studiosi (in particolare di letterature dialettali) che per<br />
decenni hanno tacciato ogni tentativo di spostamento/sfondamento dei limiti linguistico-letterari, per esempio, dei<br />
dialetti italiani, di mero sperimentalismo fine a se stesso [cfr. ad es. Brevini 1996: 238; Civitareale 2005: 105-121],<br />
concependo in fondo grettamente l’uso degli stessi in modo esclusivamente regressivo e rivolto a un mondo finito. La<br />
realtà è ben più complessa, variegata e, appunto, dinamica.<br />
(21) Il termine “minore” qui si ricollega al concetto di “lingua sconfitta” e lo si intende nell’accezione data da Venuti di<br />
“minority”, che, ovviamente, ingloba anche i concetti di “dialetto” e “dialettale”: “I understand ‘minority’ to mean a<br />
cultural or political position that is subordinate, whether the social context that so defines it is local, national or global.<br />
This position is occupied by languages and literatures that lack prestige or authority, the non-standard and the noncanonical,<br />
what is not spoken or read much by a hegemonic culture. Yet minorities also include the nations and social<br />
groups that are affiliated with these languages and literatures, the politically weak or underrepresented, the colonized<br />
and the disenfranchised, the exploited and the stigmatized” (1998a: 135). [Intendo “minorità” per significare una<br />
posizione culturale o politica subordinata, a prescindere dal fatto che il contesto sociale che la determina sia locale,<br />
nazionale o globale. Tale posizione è assunta da lingue e letterature prive di prestigio o di autorità, dal non-standard e<br />
dal non-canonico, che non è molto parlato o scritto da una cultura egemonica. Inoltre rientrano nelle minorità le<br />
nazioni e i gruppi sociali correlati con tali lingue e letterature, il politicamente debole o sottorappresentato, il<br />
colonizzato e il non affrancato, lo sfruttato e lo stigmatizzato].<br />
(22) Di altre precedenti e illustri trasposizioni in romagnolo di commedie plautine (in parte pubblicate) ad opera di Aldo<br />
Spallici, Rina Macrelli e Walter Galli si ha notizia, ma al momento mancano a chi scrive i relativi riferimenti bibliografici.<br />
(23) Uso impropriamente questo concetto derivato da Mudersbach [2002]. Per un approccio applicativo al suo modello<br />
di Kultur si veda Nadiani 2006.<br />
(24) Tale sommovimento minoritario, solo in alcuni casi storicamente motivati (ad es. in Scozia o Irlanda) fa<br />
effettivamente il pari con quello identitario. Nella maggioranza dei casi si tratta di un insieme di fenomeni che, per il<br />
97
loro spessore qualitativo e la coscienza interculturale degli attori, non rientrano nel localismo becero e mitizzante, da<br />
tradizione inventata, constatabile in alcune regioni europee e, in particolare, dell’Italia del Nord [cfr. Nadiani 2004b].<br />
(25) Si pensi solo alle esperienze di artisti come Spiro Scimone e Enzo Moscato e, per restare alla Romagna, al Teatro<br />
delle Albe di Ravenna di Franco Martinelli e Luigi Dadina con testi propri o con quelli di Nevio Spadoni, il quale ha<br />
scritto pure copioni commissionati da Ravenna Festival; al cesenate Teatro Valdoca di Mariangela Gualtieri e Cesare<br />
Ronconi; al fulèsta [narratore] Sergio Diotti della compagnia Arrivano dal mare! di Cervia; al pressoché “inspiegabile”<br />
fenomeno del teatro e della poesia a vocazione teatrale di Raffaello Baldini [1998; 2000; 2003], il cui maggiore<br />
interprete, il ben noto attore del cinema e della televisione Ivano Marescotti, da ormai tre lustri continua a esibirsi<br />
davanti a un pubblico “da stadio”, seguito a ruota dall’altro grande interprete Giuseppe Bellosi.<br />
(26) In Romagna si contano, tra le altre, le produzioni di spettacoli poetico-musicali dell’attrice e cantante Daniela<br />
Piccari su testi di Raffaello Baldini e Nino Pedretti; di musical e cabaret musicale del musicista-attore-autore Paolo<br />
Parmiani; di reading di jazz-poetry e di monologhi e dialoghi in musica di chi scrive col gruppo Faxtet.<br />
(27) Non si dimentichino, ad esempio, i tantissimi e continui esempi di trasposizione anche nelle grandi lingue di<br />
“cultura” (il maggiore) dei nostri autori dialettali del passato e del presente: l’elenco sarebbe lunghissimo.<br />
(28) Su questo argomento vedi anche Nadiani 2002.<br />
(29) “[…] per le lingue di minoranza è cruciale intendere il processo traduttivo in sé come prolungamento dell’esistenza<br />
della lingua, e l’auto-percezione e l’autostima dei parlanti sono strettamente collegate con gli effetti della traduzione”.<br />
(30) Oltre allo specifico caso della lingua irlandese, si pensa in particolare a tutte quelle lingue, che dotate di una lobby<br />
politica (cioè di parlanti-elettori autocoscienti in grado di far pressione sui loro rappresentanti) sono riuscite a farsi<br />
accogliere nella Charta delle lingue minoritarie e regionali, con tutti i vantaggi del caso, consultabile al sito:<br />
http://www.coe.int/T/E/Legal_Affairs/Local_and_regional_Democracy/Regional_or_Minority_languages/.<br />
(31) Si pensi, ad esempio, al lavoro dei teologi luterani basso-tedeschi che da decenni portano avanti la loro<br />
riflessione, fatta anche di numerose traduzioni da diverse lingue, in plattdeutsch, oppure, restando sempre in<br />
quest’area linguistica, alla redazione quotidiana dei notiziari radiofonici delle emittenti pubbliche del Nord della<br />
Germania che, di necessità, deve trovare il modo di “tradurre” di continuo la modernità, l’attualità del maggiore nella<br />
citata pseudo-koiné radiofonica del minore.<br />
(32) Anche in questo settore, particolarmente esoso dal punto di vista della produzione, si sono avute importanti<br />
esperienze negli ultimi anni anche nel nostro Paese, seppure di valore estetico diverso, segnatamente in Friuli, nelle<br />
Puglie, in Romagna e altrove.<br />
(33) “To say that translated literature maintains a central position in the literary polysystem means that it partecipates<br />
actively in shaping the centre of the polysystem” [Even-Zohar 1998: 111]. [Dire che la letteratura tradotta mantiene<br />
una posizione centrale nel polisistema letterario, significa che essa partecipa in modo attivo all’operazione di<br />
modellamento del centro del polisistema].<br />
(34) Robertson a questo proposito ha coniato il termine glocalizzazione (globale nel locale e viceversa).<br />
Globalizzazione significa anche la compressione, l’incontro/scontro di culture locali che, di conseguenza, devono<br />
ridefinirsi [Robertson 1995: 45]. La cultura glocale non deve essere vista in modo statico (come ad esempio quando si<br />
usa il concetto di Mcdonaldizzazione, cioè tutti uguali), bensì come processo contingente e dialettico, e niente affatto<br />
solo economicistico. Secondo il modello della glocalizzazione si tratta di cogliere e decifrare nella loro unitarietà<br />
elementi fortemente contraddittori.<br />
(35) “Si potrà mai rifare un vestito da un frammento, e se sì, sarà forse semplicemente un costume da museo, un<br />
vano ricordo di quel che fummo un tempo, o di quello che avremmo potuto diventare? […] Lo scrittore deve resistere a<br />
questo processo di ridicolizzazione, perché per definizione la finezza di una lingua gli è vitale. Uno dei pericoli che corre<br />
lo scrittore la cui lingua non ha più diffusione è quello di fare della lingua letteraria una lingua privata” [Traduzione di<br />
Mario Giosa].<br />
(36) “Die Globalkultur ist kein machtfreier Raum, in dem jeder höflich um seine Meinung gebeten wird. Jede Differenz<br />
muss ausgehandelt, die eigene Position verteidigt werden, und wer nicht laut genug schreit, geht unter. Globalkultur<br />
ist nicht unter gleicher Partizipation aller Kulturen entstanden und fördert auch nicht automatisch die Entwicklung hin<br />
zu einer fairen Welt.” La Globalkultur non è uno spazio privo di rapporti di forza in cui ognuno viene invitato<br />
gentilmente a esprimere la propria opinione. Ogni differenza dovrà essere contrattata e la propria posizione difesa, e<br />
chi non urla abbastanza forte, soccombe. La cultura globale non è sorta con la partecipazione equanime di tutte le<br />
culture e perciò non promuove automaticamente lo sviluppo di un mondo più leale” [Breidenbach-Zukrigl 2000: 207].<br />
(37) “Care for others, understanding of them, are only possible if one can adequately distinguish oneself from others.<br />
If I see myself as ‘undistinct’ from you, or you as not having your own being that is not merged with mine, then I<br />
cannot preserve a real sense of your own well-being as opposed to mine. Care and understanding require the sort of<br />
distance that is needed in order not to see the other as projection of self, or self as a continuation of other” [Grimshaw<br />
1986: 182-3]. (Interessarsi agli altri, comprenderli, sono azioni possibili soltanto a partire da un’adeguata distinzione<br />
di sé dagli altri. Se io vedo me stesso come ‘indistinto’ da te, oppure ti vedo privo del tuo proprio essere che non è<br />
unito al mio, allora non sono in grado di mantenere un senso reale per il tuo ben-essere opposto al mio.<br />
L’interessamento e la comprensione necessitano quel tipo di distanza in grado di far percepire gli altri non come<br />
proiezioni di sé, oppure se stessi come una continuazione dell’altro).<br />
(38) Anche nel dibattito “progressista” sulle identità culturali sembra predominare ancora una concezione di identità<br />
granitica, dai confini circoscrivibili [cfr. Snell-Hornby 1999: 105-106], e non mobile e stratificata, fascicolata,<br />
“narrativa” [cfr. Giesen 1999; Assman, Friese 1998].<br />
(39) “Dal momento che la diversità culturale è sempre di più il destino del mondo moderno, e l’assolutismo etnico una<br />
caratteristica regressiva della tarda modernità, il pericolo maggiore nasce da forme di identità nazionale e culturale –<br />
nuove e vecchie – che tentano di assicurare la loro identità adottando versioni chiuse di cultura o comunità o rifiutando<br />
di impegnarsi […] con i difficili problemi che sorgono dal cercare di convivere con la differenza” [Hall 1993: 360].<br />
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101
L'ALCHEMIA DELLA LINGUA<br />
Nel costruirci un percorso di crescita e di verità è inevitabile partire dalle origini, ripercorrere a ritroso<br />
l’evoluzione della nostra esistenza fino alla genesi, al contesto storico e politico e alla tradizione che<br />
l’hanno condizionata.<br />
Si portano segni e codici acquisiti, ereditati da consegne antiche, talora infelici, talora fondanti di un<br />
nuovo modo di esistere.<br />
Sono nato e cresciuto in Veneto, a Caorle, in provincia di Venezia, sul mare, fino ai diciannove anni. Le<br />
conversazioni quotidiane avvenivano in dialetto, le cose della vita le ho imparate in dialetto, i sogni stessi<br />
li ho nutriti in dialetto, la mia lingua madre e nutrice.<br />
Lingua madre è la lingua nella quale apprendi l’essenza vitale delle parole, il respiro che è loro concesso è<br />
lo spazio che hanno nell’esistenza quotidiana: si apprendono i concetti con le loro altezze e le loro<br />
profondità.<br />
Il suono nasce per modulazione del respiro e compressione del pneuma vitale, e la reiterazione del suono<br />
si fa rito attorno alle cose, si fa rito di evocazione, di vocazione e osservazione.<br />
Il quid osservabile si pone in mutamento, ciclico, anch’esso reiterato, e mutevole, inafferrabile se non per<br />
pochi lembi.<br />
I concetti sono suoni legati alle cose e il dialetto è stato, per me, la sola via per arrivarvi. Per questo mi è<br />
stato lingua madre, in un tempo non molto lontano in un luogo alquanto appartato dove l’italiano non era<br />
ancora forte da porsi come alternativa di lingua viva.<br />
L’italiano era la lingua dell’amministrazione anagrafica, scolastica, la lingua della televisione e della<br />
burocrazia.<br />
In questo incide molto la dimensione del microcosmo familiare, popolare, poco attraversato<br />
dall’informazione dei media, più legato alla parola di strada, alla parola tramandata e alla diceria.<br />
Il lessico familiare crea ulteriori declinazioni alle parole, le adatta ad esigenze domestiche, crea piccole<br />
storture, mutazioni consonantiche, assorbe l’umore delle persone.<br />
Il dialetto muta da famiglia a famiglia, da persona a persona; quello di mio padre è arcaico, stretto e<br />
duro, legato alla terra; quello di mia madre è dolce, suadente e musicale, si apre al mare e si apre al<br />
mondo.<br />
E il dire della vita e della sua assenza rimane un dire per approssimazione, un dire che solo di rado cade<br />
nella grazia dell’estasi e, oltre, della rivelazione.<br />
Non ha senso dire se non nel segno della verità o del sogno, il resto è glorificazione dell’assenza, idolatria<br />
della perdita.<br />
Le verità, non più assolute, si intrecciano e portano a fiorire l’essenza della vita, la sua spendita: la vita<br />
non sempre è vissuta, talora è subita, talora è patita, ma ogni verità a priori cade di fronte all’esperienza,<br />
che sola può vestirci di sapere, nelle sue profondità e nelle sue altezze.<br />
I sogni sono la forza motrice, sono la spinta al rinnovamento. I sogni sono il desiderio che alimenta la<br />
vita, che la porta ad esperire, ad entrare nella metamorfosi dell’esistente.<br />
Mi rendo conto solo ora che in casa mia, una famiglia patriarcale di dieci persone, prevaleva il dialetto di<br />
mia madre, in continuo contrasto con l’altro medesimo dialetto di sesso diverso, arcaico – come dicevo –<br />
asciutto, che riporta alla durezza del solco, alle asperità dell’esistenza, una lingua spigolosa e spezzata,<br />
serrata nel respiro.<br />
Per dirla con parole di Anna Maria Farabbi: “La lingua dialettale come materia linguistica, per me, è figlia<br />
del padre. Proviene da un’origine contadina o urbana in cui il modo di disporre il dire, il comportamento, il<br />
ruolo delle persone e delle parole, e quindi dei concetti – esistenziali e relazionali – avevano un timbro<br />
maschile”.<br />
Una lingua aggressiva e troppo spesso volgare da poter esprimere solo rabbia e amaro dolore.<br />
La lingua del padre è lingua chiusa legata alla fissità e alla tradizione, è quel dialetto che non si apre, che<br />
non riesce a dire cose nuove, eppure rivendica il controllo: sul tramandabile, sul pensabile.<br />
Dico che in casa mia prevaleva il dialetto di mia madre, ma quello di mio padre dominava, in aperto<br />
contrasto imponeva, non accolta, l’oligarchia dei patriarchi.<br />
Ma a questo punto non è più questione di lingua o di dialetto, è questione, come sostiene Anna Maria<br />
Farabbi, di linguaggio, maschile e femminile.<br />
Il dialetto è carico di forte valenza sessuale, è lingua corporale, legata all’istintualità del pensiero fisico,<br />
risente molto dell’umoralità della materia e degli elementi.<br />
Ci sono un dialetto di mare e un dialetto di terra, un linguaggio femminile del moto fluente della nebbia<br />
evanescente e un linguaggio maschile della concretezza, della materia dura.<br />
Il mio dialetto assomiglia alle parlate della costa dell’alto Adriatico, è aperto, ha in sé la vibrazione del<br />
vento e il movimento del mare e questo determina un particolare sguardo sul mondo, proprio della gente<br />
di mare. Vi è una vastità immensa e, a guardarla, un piccolo sguardo.<br />
Ecco il dire che descrive, attento alla luce e al movimento, ecco il dire che non può fermarsi su se stesso,<br />
ma deve bilanciarsi con un altrove che non ha misura. Il suono porta in sé il limitare del porto, la soglia e<br />
il confine, la tensione verso l’ignoto, le partenze e i ritorni. Tutte cose insostenibili al raziocinio umano,<br />
più facili da accogliere se affidate all’incertezza delle nebbie, alla vaghezza delle ombre. E il dialetto è<br />
102
magico in questo: flessuoso e mobile, continuamente mutevole, si concede innumerevoli licenze<br />
espressive, crea sodalizi fra le parole e germinazioni alchemiche, dove la metamorfosi è legata non tanto<br />
a un’istintualità cruda, ma ad una percezione della mutevolezza dei concetti dei quali le parole sono<br />
contenitori.<br />
E la dimensione popolare concede un dire disinibito, capace di parlare di vita e morte insieme,<br />
intrecciando in un unico tessuto i grandi amori e le grandi disgrazie e le piccole cose del fare quotidiano.<br />
Il dialetto popolare ha una visione naturale del ciclo vitale e per questo riesce ad avere quella forza<br />
universale, quella capacità di parlare a tutti, di nominare sentimenti ed emozioni per consegnarli alla<br />
collettività.<br />
Gli archetipi vengono continuamente richiamati al sentire comune tramite metafore, simbologie e<br />
costruzioni analogiche.<br />
L’invenzione è trovare qualcosa che già c’è (dal latino invenire, trovare), il gioco sta nello sguardo libero<br />
da quel raziocinio della mente che spesso porta a non vedere, a non sentire, a bloccare le emozioni.<br />
In una lingua metamorfica ci sono meno argini al pensiero, al fluire di pensieri, all’espressione delle<br />
dinamiche emotive, dei moti del cuore. In questo sta la forte fisicità del dialetto, nell’uso di una<br />
intelligenza del corpo.<br />
Il dire è antico, nella struttura biologica del corpo e nelle profondità vaste di un inconscio collettivo che ci<br />
accomuna.<br />
Il dire ha strutture archetipiche, geometrie interiori che ritornano a costruire immagini e concetti a<br />
testimonianza di una continuità nel ciclo vitale. E la costanza esige che la coscienza, per rinnovarsi, ritorni<br />
su se stessa, ritorni in sé, restituendosi all’in-conscio.<br />
E così è per la lingua. Per rigenerarsi, la parola deve ritornare al non detto, all’indicibile, mai detto o non<br />
più detto, deve riversarsi nella propria ombra e attraversarla. È la rigredo alchemica, la macerazione di<br />
quanto ha esperito ed è volto al compimento, per predisporlo a nuova vita, a nuova forma, a nuovo<br />
desiderio.<br />
E la melancolia è ricaduta del desiderio su se stesso. Etimologicamente significa bile nera e nel linguaggio<br />
alchemico è sinonimo di “materia al nero”, il piombo da trasformare in oro, la “prima materia” che si deve<br />
trasformare in luce, la parola detta in nuovo verbo.<br />
Per avere nuova forma, la lingua deve tornare su se stessa, sulle proprie ombre, e il dialetto è pieno di<br />
zone oscure, offuscate dalle nebbie dell’indicibile, legato alle venature della storia e del corpo.<br />
Soprattutto, il dialetto è lingua esperita che volge al termine, carica di tradizione, da intendersi come<br />
insieme di verità vissute e subite, di concetti e precetti tramandati.<br />
Il declino è dato da una discrasia tra concetto e idea, tra la vita e il desiderio.<br />
Il pericolo del dialetto è la caduta in una visione nostalgica di un mondo perduto, fatto di altri valori e altri<br />
concetti, ma in una inarrestabile deriva del sentimento dalla contemporaneità.<br />
L’opus alchemico richiede che si vada oltre, che si agisca sulla materia e quindi sulla parola. L’azione è<br />
alla base della trasformazione, è desiderio che torna in circolo.<br />
Nel fare è l’essenza della poesia, dal greco poiein, fare, creare. Il poeta è creatore, demiurgo di nuova<br />
forme e per questo deve mettere le mani in pasta, entrare nel denso della materia e ricomporla. Il poeta<br />
risveglia.<br />
Il poeta rifiuta i valori indotti, per condurre le coscienze ad un sentire profondo, radicato negli archetipi. Il<br />
poeta pesca nel torbido, ne trova il suono e ne fa canto così da raccontare la materia in divenire e<br />
accompagnare i sensi alla perceptio e, oltre, alla visione e al sogno, per nutrire la coscienza, per aiutare<br />
l’uomo a mantenersi in armonica relazione col cosmo.<br />
Il canto è lo sforzo/istinto dell’essere umano che cerca di sintonizzarsi al rumore di fondo, al suono<br />
primario, alla metrica universale.<br />
L’alchimista si fa cantore e segue i ritmi vitali, le geometrie frattali che narrano i profili della materia e<br />
dell’ignoto, travalica le soglie e ne torna mutato.<br />
La ricchezza del dialetto sta nell’abbondanza di soglie, nello sguardo analogico che unisce immagini e idee<br />
tramite accostamenti del simile. È questa la natura della lingua arcaica, legata ad un’osservazione<br />
costante che unisce cose lontane in forza di analogie. Il micro e il macrocosmo sono richiamati l’uno<br />
all’altro, seguendo gli ordini frattali di una geometria che non taglia il mondo con linee rette, ma ne segue<br />
la tortuosità delle curve.<br />
Non è il dialetto in sé ad avere tale prerogativa, ma il suo dire magmatico che riesce a sciogliersi per<br />
ricomporsi: solve et coagula è principio alchemico della trasformazione.<br />
Solve è sciogliere, nelle strutture interne e da legami esterni, coagula designa la composizione, la<br />
reductio ad unum. Per lo sviluppo della coscienza la lingua deve aprirsi ad un continuo mutamento,<br />
svincolarsi da forme rigide per creare schemi fluidi, non cristallizzati.<br />
Elio Talon<br />
103
POLITICHE DELLA LINGUA: I DIALETTI, L’ITALIANO E LA POESIA<br />
La sistematizzazione della poesia italiana del Novecento attualmente in corso tramite numerose antologie<br />
e convegni non sembra deviare granché dalle linee impostate dalla storiografia risorgimentale, i cui<br />
contributi alla formazione di un canone nazionale unitario (e quindi di un’identità nazionale) sono stati<br />
tanto decisivi quanto falsificanti. In campo linguistico, come è ben noto, si fronteggiarono un secolo e<br />
mezzo fa un’opzione plurilinguistica e una monolinguistica. La prima fu rappresentata al meglio da<br />
Graziadio Isaia Ascoli, per il quale la diffusione di una lingua e di un’identità nazionale non doveva andare<br />
a scapito della lingua e dell’identità locale, cioè dei dialetti; la seconda opzione, quella monolinguistica,<br />
rappresentata all’epoca da Manzoni e altri, fu quella che poi prevalse, assorbendo in sé e aggiornando gli<br />
scopi di quel filone puristico così influente nella nostra tradizione almeno da Bembo in poi (1). La politica<br />
linguistica ebbe un contraltare preciso nella storia letteraria nazionale, che tramite l’istruzione<br />
obbligatoria ha capillarmente diffuso l’idea di una tradizione teleologicamente unitaria di cui il<br />
Risorgimento sarebbe il naturale sbocco. Malgrado qualche recente segnale di revisione di tale<br />
impostazione, non è difficile prevedere che nelle scuole si continuerà a presentare una storia letteraria<br />
tendenziosa e intellettualistica in cui c’è posto d’onore per Marino ma non per Basile e Maggi, per Monti,<br />
Manzoni e Carducci ma non per Porta e Belli, per Marinetti e Quasimodo ma non per Giotti e Tessa, e<br />
domani per Sanguineti e Zanzotto ma non per Pierro, Baldini e Loi (se non come note a piè di pagina per<br />
sembrare pluralisti) (2).<br />
L’ostilità all’Italia delle regioni e delle città, quella cioè dei dialetti, ammessa tutt’al più come fenomeno<br />
comico e folcloristico, è l’altra faccia della mentalità diffusa da cui emerse un nazionalismo che si risolse<br />
in breve in un penoso provincialismo (dall’italietta postunitaria al delirante strapaese del fascismo).<br />
Questa miopia di fondo del Risorgimento si avverte in innumerevoli atteggiamenti, fra i quali si può<br />
citarne uno significativo. Nella Milano della Restaurazione, il gruppo di letterati del Conciliatore (Pellico,<br />
Berchet, Di Breme ecc.) si adoperò lodevolmente per istituire un canale di comunicazione con la cultura<br />
europea coeva. Questi intellettuali mostrarono grande interesse per la poesia popolare straniera, il cui<br />
recupero, come ben sappiamo, ebbe un ruolo essenziale nella letteratura dell’epoca. Il dato singolare è<br />
che quei romantici italiani mostrarono un interesse solo letterario e superficiale per la cultura popolare del<br />
proprio paese, tanto che nessuno di loro sottoscrisse la pubblicazione della Collezione delle migliori opere<br />
scritte in dialetto milanese, l’antologia in 12 volumi curata da Francesco Cherubini per l’editore Pirotta nel<br />
1816-17. Come rileva Luca Danzi, se l’assenza dei classicisti montiani era scontata, colpisce che fra i<br />
romantici solo Ermes Visconti sottoscrivesse il progetto di pubblicazione dell’opera, “segno evidente che<br />
la poesia nella lingua del proprio municipio non rientrava nell’orbita di un’avanguardia che era invece<br />
attratta dalla tradizione popolare europea.” Ovviamente la poesia milanese da Fabio Varese a Maggi a<br />
Porta non è poesia popolare; è un modo di utilizzare la lingua del popolo in “presa diretta”, radicalmente<br />
diverso dall’uso turistico dei romantici italiani. Non sorprende allora scoprire che il pubblico dei<br />
sottoscrittori della Collezione di Cherubini “era composto di impiegati governativi […] di qualche avvocato,<br />
architetti, negozianti e molte persone ‘comuni’”, il che porta a concludere che la voce di quei poeti<br />
dialettali “trovò ascolto quasi soltanto nel vario e stratificato popolo di Milano e in pochi altri letterati,<br />
curiosi o illuminati”, fra cui spiccano Volta e Manzoni. Non meno sospettosa degli intellettuali fu l’editoria,<br />
tanto che perfino Giovanni Gherardini, amico e mentore di Cherubini oltre che direttore del Giornale<br />
italiano, gli suggerì di dedicarsi a una versione italiana delle migliori produzioni tedesche invece che<br />
all’antologia meneghina (3).<br />
Atteggiamenti del genere, tipici del più gretto provincialismo, si sono ripetuti infinite volte da allora. In<br />
tempi recenti, è sufficiente notare l’attenzione delle case editrici e della pubblicistica per le minoranze,<br />
linguistiche e d’altro genere, importate dall’estero seguendo le mode e le tendenze per lo più della cultura<br />
anglo-americana – un’attenzione a cui fa riscontro un’indifferenza, travestita in alcuni casi da<br />
condiscendenza, verso il patrimonio letterario delle lingue dell’Italia (4). Meglio quindi ricordare, per<br />
chiudere l’excursus, la Milano di Parini, Verri, Beccaria, Balestrieri e Porta, cioè la Milano dialettale,<br />
nazionale e internazionale che precedette quella dei romantici. Non è certo ignorando o addirittura<br />
combattendo la tradizione locale che ci si apre ad orizzonti più ampi, tanto meno in un’epoca come la<br />
nostra in cui l’internazionalizzazione di molti problemi cruciali (dall’economia alla difesa, all’ambiente, alla<br />
politica, alla ricerca scientifica ecc.) sta rendendo le strutture nazionali sempre più inadatte a risolverli.<br />
Illuminanti a riguardo le parole del poeta genovese Roberto Giannoni:<br />
Ogni volta che il nostro progetto, individuale o collettivo, sembra cozzare contro un’esistenza, anzi contro<br />
un universo, che ci si parano dinanzi al modo di dati ineluttabili; o quando la storia umana si configura<br />
davanti a noi come una res aliena perché inter alios acta, e il succedersi degli avvenimenti assomiglia a<br />
uno sforzo ciclico che torna inevitabilmente su se stesso; o quando persino i mercati, di beni e di segni, ci<br />
appaiono simili ad entità imperscrutabili: in tutti quei casi noi siamo profondamente, irrimediabilmente<br />
dialettali. (5)<br />
104
Troppo piccole per affrontare molti problemi materiali, le nazioni paiono invece a volte troppo grandi per<br />
soddisfare quelle esigenze emotive di appartenenza che, per quanto pericolose e criticabili, sembrano<br />
comunque necessarie ai più.<br />
In alcune parti d’Italia (soprattutto quelle che si pregiano di essere più “avanzate”) le ultime generazioni<br />
hanno dimenticato o stanno dimenticando il dialetto, senza aver per questo davvero imparato l’italiano,<br />
come può notare chiunque, dalla scuola dell’obbligo all’università, si trovi a correggere le composizioni<br />
italiane degli studenti. Né le ultime leve hanno imparato l’inglese, spesso citato come il motivo per cui<br />
non vale la pena di perder tempo con i dialetti. In realtà non è che molti studenti scrivano male in italiano<br />
perché hanno una competenza fenomenale in inglese; anzi, in Italia la percentuale di popolazione con<br />
una competenza effettiva nelle lingue straniere è fra le più basse dei paesi occidentali (6). All’ignoranza<br />
si pensa quindi di rimediare con un uso superficiale e quasi sempre a sproposito di anglicismi. Volendo<br />
essere un po’ cattivi, ma purtroppo non lontani dal vero, si potrebbe dire che dall’unità d’Italia a oggi si è<br />
verificato un passaggio dall’analfabetismo di massa all’analfabetizzazione di massa – il cosiddetto italiano<br />
dei “semicolti”. Un paio di secoli fa, un artigiano analfabeta sarebbe stato in pieno possesso della sua<br />
lingua (un dialetto); il suo omologo odierno alfabetizzato in genere possiede in modo parzialissimo e<br />
imperfetto l’italiano (ma, per fortuna, spesso anche un dialetto), tanto che si potrebbe discutere a lungo<br />
sul “progresso” implicito in un mutamento che provoca più di un imbarazzo anche ai suoi paladini. Paolo<br />
D’Achille, ad esempio, scrive che “se gli analfabeti e i semianalfabeti di ieri sono oggi diventati semicolti,<br />
si tratta pur sempre di un passo in avanti, da considerare anche nei suoi aspetti positivi”. L’espressione<br />
“un passo in avanti”, tuttavia, indica in italiano un progresso reale, un miglioramento effettivo, che non<br />
può avere “anche” dei lati positivi; solo ciò che è negativo o di dubbio valore può avere “anche” degli<br />
aspetti positivi. A parte i lapsus (comunque indicativi), D’Achille auspica che questa situazione venga<br />
superata portando fasce di popolazione sempre più vaste ad un pieno possesso della lingua nazionale –<br />
un obbiettivo di realizzazione alquanto incerta vista la direzione che tecnologia e sapere stanno<br />
prendendo in questi anni (7). Per il momento, il risultato concreto dell’italianizzazione “compiuta” del<br />
paese ha condotto alla confusione fra parlato e scritto e a una scrittura media modellata sempre più sul<br />
parlato, ma un parlato di una povertà sintattica e lessicale allarmante (8). Inoltre, non è affatto certo che<br />
un arricchimento in tal senso si verifichi nel prossimo futuro: è noto che la tecnologia spinge verso<br />
un’iconizzazione della cultura, producendo immagini più che parole – a prescindere dal fatto che nelle reti<br />
informatiche le parole non sono in genere neanche italiane. Legato a ciò è un fenomeno di notevole<br />
gravità di cui poco si parla: la scomparsa dell’italiano come lingua scientifica, sostituito dall’inglese per<br />
intero nei settori tecnico-scientifici e parzialmente anche in quelli umanistici, ad esempio nella linguistica<br />
(9). Poiché l’uso speculativo scritto di un idioma è ciò che maggiormente distingue una lingua da un<br />
dialetto, ciò significa che l’italiano, in un’ottica planetaria, sta oggi regredendo verso una condizione di<br />
dialetto.<br />
Nell’insieme non mi sembra un quadro culturale incoraggiante per contribuire a un progetto politico,<br />
qualunque esso sia, di Europa, anche perché non mi è chiaro con quale coscienza l’Italia si ponga nei<br />
confronti delle diversità a lei esterne, quando la storia della sua politica culturale è stata in buona parte<br />
quella di una lotta per ignorare o sopprimere le diversità a lei interne. Istruttivo a riguardo è il percorso<br />
che ha condotto il Parlamento ad approvare il 15 dicembre 1999 la legge n. 482 per la tutela delle<br />
minoranze linguistiche storiche. Si tratta di norme che garantiscono alle popolazioni albanesi, catalane,<br />
germaniche, greche, slovene, croate, francesi, franco-provenzali, friulane, occitane e sarde insediate sul<br />
territorio italiano la possibilità di mantenere viva la propria tradizione culturale tramite l’insegnamento<br />
scolastico e altre forme di bilinguismo, dalla toponomastica all’uso dell’idioma locale accanto all’italiano<br />
negli atti pubblici. Ma come si è giunti a questo necessario provvedimento? Dopo decenni di discussioni,<br />
nel 1991 la Camera dei Deputati aveva già approvato una legge sulla tutela delle minoranze linguistiche,<br />
salvo che a quell’epoca un gruppo di intellettuali torinesi (Valerio Castronovo, Gian Enrico Rusconi, Nicola<br />
Tranfaglia e Saverio Vertone) scrisse un accorato appello ai partiti di sinistra perché venisse bloccata,<br />
affermando che la sua attuazione avrebbe messo in pericolo l’unità del paese. I grandi giornali italiani si<br />
mobilitarono a sostegno di questa iniziativa, che ottenne un consenso e una risonanza di gran lunga<br />
superiori alle aspettative dei suoi promotori. Come puntualizza Tullio De Mauro, con poche eccezioni<br />
“‘l’intera cultura giornalistico-intellettuale italiana dichiara di schierarsi e si schiera contro la legge’”, la<br />
quale infatti non fu approvata. A che cosa sarà mai stato dovuto, allora, il rapido ravvedimento dei<br />
parlamentari e degli intellettuali italiani verificatosi tra il 1991 e il 1999? A una maggiore maturità<br />
democratica o a un’impennata del buon senso? No. Semplicemente al fatto che l’Unione Europea approvò<br />
nel 1995 una serie di norme sulla tutela delle minoranze linguistiche che l’Italia dovette sottoscrivere.<br />
Ancora una volta c’è voluta l’Europa per imporre dei comportamenti civili a una classe intellettuale e<br />
dirigente che nel 1991 non aveva, nelle parole di De Mauro, “‘un Hitler da scimmiottare’ … o un regime<br />
che potesse ‘avere bisogno di polarizzare le attenzioni contro i diversi. Il rigurgito contro le lingue meno<br />
diffuse ha una sua completa autonomia, viene dal profondo della cultura antropologica indigena di<br />
universitari, giornalisti e dirigenti politici italiani.’” (10)<br />
Tutto questo senza entrare nel merito della legge 482 in sé, che è un primo passo necessario ma non<br />
esaurisce affatto la questione coinvolta. Mi pare infatti che l’impostazione di fondo del problema sia molto<br />
discutibile. A mio modo di vedere, non si tratta solo di difendere le minoranze linguistiche, cosa di per sé<br />
giustissima, ma di permettere che rimanga attivo e in vita tutto il patrimonio linguistico dell’Italia, che,<br />
105
come sappiamo, non ha eguali per varietà e ricchezza in nessun altro paese europeo (11). Non si capisce<br />
per quale ragione solo al friulano e al sardo sia concesso uno statuto particolare, come se, ad esempio,<br />
napoletano, dialetti siciliani, veneziano, milanese e romagnolo non potessero vantare una tradizione<br />
altrettanto notevole. La sfida per il futuro, a mio parere, è quella di trovare un atteggiamento ragionevole<br />
ugualmente distante sia dall’ostilità verso i dialetti che troppo spesso è prevalsa in passato fra le autorità,<br />
sia dallo spirito da riserva indiana che le norme sulle minoranze si portano sovente appresso.<br />
Edoardo Zuccato<br />
Note.<br />
(1) Com’è noto, Tullio De Mauro ha calcolato che nel 1870 solo il 2,5% della popolazione conoscesse l’italiano. Questo<br />
dato è stato messo in discussione da altri studiosi, i quali, facendo leva sui concetti di semi-competenza, lo hanno<br />
portato al 10%. Confermando così loro malgrado, vista la miseria dei numeri anche in questa ipotesi di massima,<br />
l’irragionevolezza della politica linguistica post-unitaria. Oltre agli studi di De Mauro, si veda P. D’ACHILLE, “L’italiano<br />
dei semicolti”, in Storia della lingua italiana, a c. di L. SERIANNI e P. TRIFONE, 3 voll., Einaudi, Torino, vol. 2 (“Scritto<br />
e parlato”), 1994, pp. 47-8.<br />
(2) Si vedano – ma sono davvero due fra i tanti esempi recenti – le antologie Poeti italiani del secondo Novecento<br />
1945-1995 curata da M. CUCCHI e S. GIOVANARDI per Mondadori (Milano, 1996), che contiene 55 poeti in italiano<br />
contro 5 poeti in dialetto, o Poesia italiana del Novecento, a cura di E. KRUMM e T. ROSSI, Banca Popolare di Milano,<br />
Skira edizioni, Milano, 1995, con 81 poeti in italiano contro 7 in dialetto (più alcune poesie in vernacolo di Pasolini e<br />
Zanzotto). Sarebbe opportuno o intitolare i libri di questo genere Poeti in italiano del Secondo Novecento e Poesia in<br />
italiano del Novecento, escludendo tutti i dialettali, o ripensare radicalmente gli equilibri della poesia nelle varie lingue<br />
dell’Italia.<br />
(3) Le citazioni e i riferimenti provengono da L. DANZI, “Francesco Cherubini”, in Varon, Magg, Balester, Tanz e Parin:<br />
La letteratura in lingua milanese dal Maggi al Porta, Bibliografia delle opere a stampa della letteratura in lingua<br />
milanese, a c. di D. ISELLA, Biblioteca Nazionale Braidense, Milano, 1999, pp. 182-4. Come si nota, niente è cambiato<br />
da quei tempi. Nelle avanguardie novecentesche, ma con poche eccezioni anche fra i letterati in genere, esterofilia e<br />
populismo sono stati di nuovo i surrogati di interesse e affetto per la vita e la lingua reale del popolo, un<br />
atteggiamento ampiamente condiviso e sostenuto dall’editoria.<br />
(4) Fra i mille esempi possibili, si veda Introduzione alla letteratura comparata, a c. di A. GNISCI, Bruno Mondadori,<br />
Milano, 1999, un aggiornato panorama della materia con contributi di numerosi studiosi su miti e temi letterari,<br />
letteratura e arti, i viaggi, la traduzione letteraria, imagologia, multiculturalismo e studi post-coloniali, femminili e di<br />
genere. In tanta abbondanza di trame interculturali non c’è però una sola riga sulle letterature dialettali, mentre sono<br />
abbondantemente ammesse le minoranze e le prospettive extra-canoniche oggi al centro del dibattito nordamericano.<br />
(5) R. GIANNONI, ’E trombe, Menconi Peyrano Editori, Milano, 1997, p. 10.<br />
(6) In base ai rilevamenti statistici consultabili al paragrafo “The languages spoken in each Member State” della<br />
sezione “Languages” nel sito ufficiale dell’Unione Europea<br />
(http://europa.eu.int/comm/education/languages/lang/europeanlanguages.html), alla data dell’1 giugno 2000 solo<br />
Regno Unito, Irlanda, Spagna e Portogallo mostrano percentuali di diffusione di seconde lingue più basse dell’Italia, il<br />
che, per altro, nel caso dei primi due stati menzionati è giustificabile col fatto che l’inglese è la loro lingua madre. Altre<br />
informazioni sullo scarso numero di ore, rispetto ad altri paesi dell’Unione, dedicate all’insegnamento della seconda<br />
lingua in Italia sono consultabili al paragrafo “The place of languages in the educational systems”.<br />
(7) P. D’ACHILLE, cit., pp. 78-9. Anche quando si realizzasse una vera diffusione della lingua italiana, non si vede<br />
comunque a che pro aver distrutto le precedenti competenze linguistiche della stragrande maggioranza della<br />
popolazione per sostituirle con altre, invece di aggiungere le seconde alle prime.<br />
(8) Su questi fenomeni si veda M. DARDANO, “Profilo dell’italiano contemporaneo”, in Storia della lingua italiana, cit.,<br />
vol. 2, p. 373, e C. MARAZZINI, Da Dante alla lingua selvaggia. Sette secoli di dibattito sull’italiano, Carocci, Roma,<br />
1999, pp. 216-7.<br />
(9) È noto che anche in ambito umanistico si pubblica in Italia più di una rivista specialistica in lingua inglese, pena<br />
l’esclusione dai circuiti sempre più internazionali della ricerca. Sul tema si vedano, oltre al già citato C. MARAZZINI,<br />
pp. 226-7, M. A. CORTELAZZO, Lingue speciali. La dimensione verticale, Unipress, Padova, 1990, Tradurre i linguaggi<br />
settoriali, a c. di G. CORTESE, Cortina, Torino, 1996, e Studi sul trattamento linguistico dell’informazione scientifica, a<br />
c. di T. DE MAURO, Bulzoni, Roma, 1994.<br />
(10) Le vicende del 1991 e i commenti di De Mauro si trovano in C. MARAZZINI, cit., pp. 199-200.<br />
(11) La normativa europea stessa presenta delle stranezze, fra le quali spicca il fatto che uno degli idiomi tutelati sia il<br />
catalano, parlato da circa 7 milioni di persone, quindi in realtà molto meno “minoranza linguistica” di alcune delle<br />
lingue riconosciute come ufficiali dall’Unione (ad esempio, lettone e finlandese). Lo stesso discorso si potrebbe ripetere<br />
per diversi dialetti italiani, comunemente parlati e compresi da un numero di persone superiore a quello delle lingue<br />
dei paesi più piccoli dell’Unione Europea.<br />
106
In dialogo<br />
107
IL FONDO DEI DISCORSI<br />
Un’intervista con Umberto Fiori (1)<br />
Come si rappresenta la relazione tra poesia e filosofia? Pensa che si tratti di una relazione<br />
complementare o piuttosto paradossale? L’espressione poetica, nella sua esperienza, ha<br />
qualcosa in comune con l’articolazione filosofica della vita? La sua scrittura è in qualche modo<br />
stata influenzata da una prospettiva filosofica?<br />
Fin dal suo sorgere, più o meno duemilacinquecento anni fa, quello che chiamiamo ‘filosofia’ (e che nel<br />
nostro mondo assume forme diverse, dall’ideologia alla scienza) vede proprio nella poesia l’antagonista<br />
principale. Eraclito si scaglia contro Esiodo e Omero, Platone bandisce i poeti dalla sua Repubblica. La<br />
poesia, in quei secoli, si presentava come portatrice di verità fondanti per un’intera comunità; la ragione<br />
voleva soppiantarla, voleva sostituire al sapere tradizionale la propria epistéme. Già Aristotele, come<br />
sappiamo, era meno ‘intollerante’ nei confronti dei poeti, e nei secoli successivi i filosofi hanno<br />
riconosciuto e anzi celebrato i valori poetici: va comunque osservato che – salvo eccezioni – ogni<br />
riconoscimento non fa che ribadire la posizione della poesia nel nostro tempo: una posizione di relativo<br />
prestigio, ma sostanzialmente subalterna rispetto ai saperi ‘davvero’ fondati. Oggi la poesia ha a che fare<br />
– agli occhi dei più – con la sfera dell’estetico, che è come dire del superfluo, del vago, dell’inessenziale.<br />
Può dare piacere e conforto; ma le risposte decisive vanno cercate altrove.<br />
Nella mia esperienza, la scrittura poetica muove da questioni etiche; è una forma di riflessione, di ricerca<br />
vitale che – come la filosofia – mette in gioco il linguaggio e il mondo, si interroga sull’esistenza, sulla<br />
verità, sulla salvezza. Come la filosofia, la poesia cerca di andare al fondo delle cose, al fondo della<br />
lingua. Entrambe sono alla ricerca della parola giusta.<br />
Vorrei soffermarmi sul senso in cui linguaggio e mondo sono messi in gioco nella sua scrittura<br />
poetica. La scelta di un registro linguistico piano, di una lingua dell’ordinario, non sembra una<br />
semplice opzione stilistica nella sua poesia. Proprio a questo livello è avvertibile il<br />
radicamento etico della sua scrittura: come se proprio qui fosse in gioco un modo di abitare il<br />
mondo, di farne esperienza, che non è scelto ma accolto. Crede che il poeta possa muoversi<br />
liberamente tra i vari livelli e registri linguistici, intesi come modalità che danno accesso a<br />
differenti forme di esperienza – un assunto che a ben vedere sta alla base di diverse forme di<br />
scrittura d’avanguardia - oppure è dell’idea che vi sia una sorta di costrizione cui il poeta cede<br />
già nel punto d’attacco della sua lingua?<br />
Negli anni ’70, in una serie di tentativi di scrittura poetica che poi ho scartato in blocco, partivo dall’idea<br />
che la lingua fosse un “materiale” a disposizione dell’autore, e che la poesia nascesse da un’accorta<br />
manipolazione di quel materiale in vista di un risultato artistico. A interessarmi era soprattutto la lingua<br />
parlata: ascoltavo i discorsi della gente, isolavo certi reperti lessicali, sintattici, ritmici, li utilizzavo come<br />
“mattoni” per costruire il mio testo. Il risultato, però, non mi convinceva: c’era sempre qualcosa di troppo<br />
freddo, di troppo ideologico. Sentivo che senza una spinta forte, senza un’emozione, un rischio vero,<br />
avrei continuato a produrre degli oggetti a volte interessanti, magari, ma senza vita. A un certo punto ho<br />
capito che ad attrarmi, nella lingua parlata, era la forza di una parola “in atto”, che si rivolge all’altro, si<br />
espone, si mette in gioco. Da un rapporto con il parlato che potrei chiamare estetico sono passato a un<br />
rapporto etico. La lingua ordinaria –ora mi era più chiaro- mi interessava perché cercavo ciò che è<br />
comune; nei discorsi di tutti i giorni inseguivo la traccia di una verità condivisa, di un fondo, di un<br />
terreno, di un ethos appunto. Cominciavo a pensare alla lingua non come a uno strumento da utilizzare<br />
opportunamente per generare “plusvalore” poetico, ma come a un destino, alla parola “normale”, che ci<br />
norma, che ci mette al mondo, che ci fa essere quello che siamo. Per rispondere alla seconda parte della<br />
sua domanda: certo, un autore può muoversi liberamente tra i vari livelli e registri linguistici, controllarli,<br />
manipolare la lingua e con questo produrre pagine bellissime, ma questa io la chiamerei letteratura in<br />
versi; la poesia, per me, nasce quando si fanno i conti con quella che lei chiama “costrizione”, insomma<br />
col limite, con la necessità; nasce quando ci si fa investire dalle parole più familiari, e si pensa la loro<br />
familiarità, e la si lascia agire.<br />
C’è un paradosso costitutivo che colpisce profondamente nelle sue raccolte poetiche. Il<br />
linguaggio di cui i suoi libri sono intessuti è discorsivo e molte delle situazioni che questa<br />
lingua dice sono contesti argomentativi: si tratta di una poesia che cerca di andare al fondo<br />
delle cose, spesso, esponendosi al fondo dei discorsi. Eppure vi sono pochi esempi a mio<br />
avviso di una poesia che restituisce una esperienza non discorsiva del mondo, del fondo non<br />
discorsivo dei discorsi. È come se qui il linguaggio articolato si annullasse, lasciando<br />
riaffiorare il grido, se il suono si risolvesse in un rumore sordo. Possiamo forse dire che il<br />
fondo della lingua sta radicalmente oltre il linguaggio?<br />
108
Delle parole, anche delle più ordinarie, mi ha sempre colpito la forza. Le parole operano, hanno una<br />
potenza magica che noi occidentali abbiamo dimenticato ma nella quale non smettiamo di credere: in due<br />
di noi che banalmente discutono, la fede in questa potenza è pari a quella che poteva avere un antico<br />
sciamano, a quella che avevano Tiresia o Socrate. Nella dialettica, nella parola che argomenta, che<br />
dibatte, che vuole stringere insieme l’altro e la verità, questa potenza emerge più che altrove; io l’ho<br />
sentita molto, direi quasi fisicamente, ma ho anche sentito che un chiarimento (Chiarimenti si chiama un<br />
mio libro del ‘95), un suo dispiegamento definitivo, non è possibile. La forza del linguaggio non trionfa,<br />
ma neppure si estingue: anche nei discorsi più familiari, nelle frasi più comuni, preme sempre come un<br />
non detto, un non dichiarato, qualcosa di alto e di tremendo che fa voler dire e fa dire e intendere e<br />
rispondere.<br />
La poesia sembra avere un accesso privilegiato alla soggettività e la poesia lirica è forse la<br />
forma letteraria più soggettiva. Come intende questa relazione tra poesia e soggettività?<br />
Concorda con l’idea che l’espressione poetica sia il medium di una conoscenza personale cui<br />
altrimenti non saremmo in grado di dar forma? Pensa che la poesia, dando una forma artistica<br />
e oggettiva alla voce privata e singolare del soggetto, giochi un ruolo pubblico che non può<br />
essere sostituito da altre forme di espressione?<br />
Quando diciamo ‘soggettivo’ pensiamo a qualcosa di vago, di indimostrabile, in opposizione a ciò che si fa<br />
valere, a una realtà salda, evidente, incontrovertibile. La soggettività che la lirica mette in opera rischia<br />
sempre di cadere nell’arbitrio, in un furioso ripiegamento su ciò che solo io posso esperire. Non scriverei<br />
se non pensassi che la mia esperienza di singolo possa in qualche modo incontrarsi con l’esperienza<br />
dell’altro, con l’esperienza di tutti. La poesia – anche la più oscura e impenetrabile – si muove in questa<br />
tensione – mai risolta – tra ciò che è ‘privato e singolare’ e ciò che è ‘pubblico’. La parola poetica è la mia<br />
parola, ma non cessa mai di essere anche la parola di tutti. In un certo senso, il poeta è – in senso<br />
etimologico – un idiota, ma al fondo della sua idiozia, della sua singolarità, trova ciò che a tutti è<br />
comune: la lingua. A differenza di altre forme di espressione, la poesia è esperienza della lingua non<br />
come “strumento”, ma come orizzonte invalicabile, come destino comune.<br />
Come intende la relazione tra tradizione poetica e individualità dello scrittore? Tra strutture<br />
formali, sviluppate attraverso il tempo nel corpo della tradizione poetica, e la voce singolare,<br />
incarnata, del poeta che tenta di esprimere e universalizzare esperienze altamente<br />
individualizzate? Tra la costrizione delle norme, mediate dalla trasmissione della tradizione<br />
letteraria, e la libertà creativa del singolo?<br />
Solo un dilettante potrebbe presumere di creare la ‘sua’ poesia senza aver fatto i conti con la tradizione.<br />
Ponendo l’accento soprattutto sulla rottura col passato, sulla ‘sperimentazione’, sul nuovo, sulla “libertà<br />
creativa del singolo”, la modernità non ha fatto che rafforzarne il peso. Il rischio è quello di scrivere<br />
pensando solo a ciò che è stato scritto, per imitarlo o per negarlo, per ‘superarlo’. Si pensa che la cosa<br />
più importante sia imporsi come ‘autore’, fabbricandosi una propria originalità letteraria. I grandi ci<br />
insegnano che la vera originalità nasce non dalla mia volontà di stile, ma dalla fedeltà più umile e<br />
appassionata alle cose e alla lingua. Non ci sono forme – né vecchie né nuove – se non ci sono cose da<br />
dire, cose che davvero premono. È da loro che proviene l’impulso. La ‘libertà creativa’ non è nulla senza<br />
l’amore per le cose, per il loro ritmo, per la loro voce. È questa – credo – la vera forma, la ‘norma’ più<br />
profonda della poesia.<br />
[a cura di Italo Testa]<br />
Note.<br />
(1) Questa intervista riproduce il testo, ora ampliato con nuove questioni, di un’intervista con Umberto Fiori apparsa in<br />
“La Società degli Individui”, Numero 22, 2005/1.<br />
109
GLI AUTORI<br />
110
lei dice la tua lingua<br />
mi riguarda, dice ti vedo e vedo<br />
che un oceano si mescola come il volto radioso di un<br />
morto<br />
all'assedio segreto della terra – così lei<br />
lo tiene in movimento nel cuore<br />
fino a che ogni cosa sarà caduta<br />
oh<br />
morti che camminate senza dolore<br />
cose altissime<br />
godute fino all'estasi<br />
che volano appena con disumana dolcezza<br />
cori di specole sottili sangue bianco<br />
di fantasmi felici<br />
spinti coi palmi aperti dall'amore<br />
seduti qui sui nostri letti dall'inizio del mondo<br />
tra le stesse canzoni come pozzi altissimi che ripetono<br />
ancora io ti amo<br />
voglio il tuo cuore io voglio dal tuo cuore<br />
la levità dei morti<br />
*<br />
nell'acqua orfide<br />
bianco lattiginoso delle falangi ultraviolette<br />
delle pupe – ferme<br />
macchine da guerra nei lillà<br />
il movimento prima della strage<br />
sfaldamento dei metalli del corpo<br />
segmentato che richiude le antenne<br />
in un letto di polline e crateri<br />
la vedetta distesa<br />
nella sua lunga morte – divaricata<br />
tra i polpastrelli del fiore<br />
*<br />
l'isola, lo scisma terrestre<br />
l'estate porta a lungo le tracce<br />
di un comando senza volto, un salgemma di vegetali morti<br />
come torri eoliche, profili<br />
di rame nel suono verde dello strapiombo – e i diademi e la<br />
plaga<br />
della fronte sotto<br />
la calca nera dei capelli – lei appare oltre la pietà come una<br />
cosa<br />
dipinta<br />
il rumore bianco del fiore<br />
nella palpebra chiusa del reattore<br />
ma sembra sia la terra a sollevarsi<br />
sul femore delle cagne<br />
che splendono nel nero come ferite – vento<br />
dal cuore lustro che risorge da terra, dal suo pianto<br />
al centro della terra con le cere<br />
proiettate dal vulcano<br />
infiltrazioni di fuoco<br />
111
con cemento ed acciaio e con sabbia – invece<br />
è un crollo di petali di rose sul volto<br />
che assume la passione<br />
io assisto alla preistoria di un corpo<br />
io coltivo sambuco<br />
*<br />
su parole d'amore, scisti bituminosi<br />
la pura luce del dolore<br />
l'oro del sangue nella terra<br />
segni del diavolo tra le ginestre<br />
ruota il silenzio della fenice<br />
nella gemma, la torrida notte<br />
parla rotondamente con i fiori<br />
cambia in luce la macchia del corpo<br />
teca nuda<br />
installata<br />
sulla sabbia gioiosa ingoiata<br />
al momento di dire<br />
fai del corpo la porta del giardino<br />
nell'alba i riflessi d'argento delle parabole<br />
in quiete per la tendenza di ogni cosa<br />
eretta a essere albero – sappiamo<br />
insieme agli iris<br />
viola la fermezza precaria delle carcasse<br />
foresta bianca<br />
tra pluralità e cosa<br />
viva nella zolla<br />
che perdona e ripopola senza comprendere<br />
*<br />
panorama del vetro senza luce<br />
il platino solare disfa<br />
creature silenziose, rose<br />
dormienti come di domenica nell'oro<br />
dell'alba, corpo fatto di fiori<br />
diventati nessuno<br />
almanacchi di stelle invertebrate<br />
l'angelo nero delle mante<br />
o i nastri delle alghe<br />
in profondità il bianco<br />
filare dei tentacoli<br />
la città di puntali e di vette<br />
lunario nella schiuma: questo<br />
è il corpo senza volontà<br />
l'estremo della barca<br />
uno stridìo di rondine sul calore del suolo<br />
112
*<br />
niente di questo sangue<br />
dorme al sole fa erba e madonne<br />
di fuoco, croci, fili di rose<br />
bianche e l'insieme dei raggi sulla spalla struttura<br />
la montagna, le reni<br />
del villaggio che sotto<br />
rompe la bolla della sua grandezza<br />
spinge<br />
senza giudizio come un'orda di nuvole<br />
la cavalla impazzita delle vesti a un soffitto di chiome<br />
pieghevoli, sguscia<br />
nell'impervio perchè il muscolo teso dei rami solleva da terra<br />
i suoi figli<br />
lo zolfo santo delle ginestre nei roveti montani e nella<br />
cesta artificiale<br />
delle cime del mondo è la dogana<br />
della festa: niente<br />
di questo fuoco tocca terra – sgocciolerà<br />
solo al ritorno un sangue verde nel mortaio del cuore<br />
un girare perfetto di rondini<br />
su lei<br />
che si perde dal basso – su lui<br />
sparso come una sera d'estate e li sorvola<br />
*<br />
una quieta fiducia<br />
la calma degli oggetti<br />
svaniti a caso dai balconi<br />
con il viso sporcato di polveri<br />
nella voragine dei suoi vestiti<br />
il sistema nervoso, i filamenti<br />
impermeabili nella lesione della sella<br />
la larga panca della campagna al sole<br />
occidentale: macine d'acqua<br />
nel silenzio dell'ora di cena<br />
l'ocra muta<br />
una schiuma di piante rasoterra e una mandorla lieve come<br />
il sesso progredisce e si enuclea<br />
la vedrai in una stasi, vedrai<br />
la metamorfosi lavica del volto<br />
senza più guarnizione<br />
tra i cespugli di sorbo all'ingresso<br />
dell'autostrada – i capelli<br />
diffusi come uccelli<br />
la corolla indifesa<br />
guarda la terra mentre si alza in volo e la sua bocca<br />
spugna bianca tra i dischi del silenzio<br />
cosa nobile e calda<br />
col sasso dentro<br />
[da: Nel luogo perfetto (inedito)]<br />
113
Notizia.<br />
Maria Grazia Calandrone è nata a Milano nel 1964 e vive a Roma. Ha pubblicato il libro-premio Pietra di<br />
paragone (Tracce, 1998), La scimmia randagia (Crocetti, 2003 – premio Pasolini opera prima, cinquina<br />
premio Dessì)uartesoloQ e Come per mezzo di una briglia ardente (Atelier, 2005) varie scelte di testi in<br />
antologie di premi quali Montale (1993) Bellezza (1999), LericiPea (2000) e su riviste quali Le Fram,<br />
Poesia, Nuovi Argomenti, Pagine, La Mosca, Gradiva International Journal of Italian Poetry. Ha collaborato<br />
al quadrimestrale di filosofia Homo Sapiens e scrive per il magazine on-line Fuoricasapoesia. Compare<br />
inoltre in raccolte antologiche in Venezuela e in Argentina.<br />
114
COS’È la terra? Erba<br />
aria folate erbe<br />
fruscio contesa<br />
fra radicati e sradicati.<br />
E tu fra i due chi sei?<br />
SE COM’È vero sono tre gli accenti<br />
che i nostri orecchi intendono,<br />
suona acuto il presente, grave la storia,<br />
circonflesso l'eterno,<br />
guardalo questo – è un tetto,<br />
aperto ai quattro venti,<br />
e sotto è freddo<br />
e tutt’una contesa.<br />
FRA TRECENT’ANNI gli uomini, diceva un russo,<br />
avranno vinto i mali<br />
e saranno felici buoni e uguali.<br />
Ma nessuno vorrebbe.<br />
Siamo ognuno uno scoglio,<br />
un incidente<br />
fra gli altri, fra le cose<br />
e un grido solo “e io?”–<br />
O follia del dire io son diverso,<br />
e non sapere come andrà a finire.<br />
O mio destino singolo e perdente:<br />
certo, è perverso,<br />
ma solo in questo è gioia.<br />
*<br />
QUATTROCENT’ANNI che dalla bottega,<br />
da quel buco di Gőrlitz, dal deschetto,<br />
sognava il mastro calzolaio Bőhme<br />
che anche Dio lotta,<br />
perché Dio è doppio,<br />
saggio e malvagio, è ragione e istinto.<br />
La guerra infuria, Guerra dei trent’anni,<br />
la Germania è nel sangue, e lui da solo,<br />
il calzolaio al lume di candela,<br />
scrive “L’Aurora o il rosseggiar dell’alba”:<br />
alba, speranza, ora dell’inizio,<br />
ma, dice lui, la lotta è la sostanza<br />
di tutti gli esseri.<br />
Nostro è un corto armistizio per pensare.<br />
E certe notti è lì da lui in bottega<br />
il dio oscuro,<br />
nel retro o a volte nella stanza accanto,<br />
o nella fiamma del camino acceso,<br />
o sotto la sua mano, fra le carte.<br />
Perché l’ambiguo ama<br />
ciò che di lui si scrive.<br />
RESTA, come dice un poeta,<br />
residente di gulag, Mandelštam,<br />
che “davanti al potere io sono un bimbo”.<br />
Mi ha colpito.<br />
Vuol dire:<br />
non lo capisco e mi fa solo orrore?<br />
O vuol dire: è mio padre e mi protegga?<br />
115
*<br />
LA VERITA’?<br />
O Dio c’è o non c’è<br />
e le filosofie, le laiche e le pie,<br />
non tengono di fronte al desiderio:<br />
e non mentite, tutti ce l’abbiamo.<br />
Sarà illusione? Sì, come l’amore,<br />
ma chi direbbe non dovete amare?<br />
Io lo so bene a che mi serve Dio.<br />
Che sappia dove sono,<br />
oh non ogni momento, non pretendo,<br />
nemmeno lui potrebbe,<br />
basta quando lo cerco,<br />
e mi assicuri:<br />
in qualche forma ci sarai per sempre.<br />
Io non domando quale.<br />
Poi mi serve a sperare nell’inferno –<br />
e che sia eterno<br />
per chi tortura i corpi.<br />
Non basta il nulla? dice l’illuminato,<br />
nel nulla andiamo tutti!<br />
No, niente nulla, io ho la testa dura.<br />
ho sete di salvezza e dannazione.<br />
E poi, che altro resta<br />
se non Dio, per sognare?<br />
Che cosa io non lo so,<br />
nikogdà ničéj ja ne byl sovreménnik,<br />
di chi di quando fui contemporaneo?<br />
Dio è libertà.<br />
Notizia.<br />
Anna Maria Carpi, autrice di romanzi (Racconto di gioia e di nebbia, 1995; E sarai per sempre giovane,<br />
1996; Il principe scarlatto, 2002; Un inquieto batter d'ali. Vita di H.v.Kleist, 2004) e di poesia (A morte<br />
Talleyrand, 1993; Compagni corpi, 2004; E tu fra i due chi sei, in uscita da Scheiwiller, 2007). è<br />
traduttrice della lirica tedesca del '900: di H.M.Enzensberger,di H.Mueller, di D.Gruenbein, K.Drawert,<br />
H.Hartung.<br />
116
A giudizio puntuale<br />
Dove la ragione ha ceduto di schianto<br />
gettando tutte le parole in una<br />
nebbia di pensieri senza l’imprimatur<br />
e la bilancia ha sprofondato un piatto<br />
schizzando l’altro verso l’alto<br />
non puoi portare lo specchio<br />
a rivelare puntuale un dolore.<br />
Accade nelle case migliori<br />
che la lucertola si faccia drago di San Giorgio.<br />
Dove il giorno le consegna macchie intatte<br />
la notte muove blatte lungo i muri.<br />
*<br />
Interno giorno con blatte<br />
Di colpo mi manca uno scheletro esterno<br />
sei zampe per sottrarmi non visto.<br />
Guadagnano l’alba corazze rampanti,<br />
gusci vuoti ma svelti lungo i muri<br />
ascesi nottetempo a soprastanti.<br />
A giorno complimenti in cerca di riguardo.<br />
Dote da lattanti lo stupore.<br />
*<br />
In treno<br />
Stazioni illuminate in corsa fuori<br />
si susseguono binari e treni<br />
come oasi di luce passano pensieri<br />
brillanti nel cuore e sul viso.<br />
Le luci pungono buio indistinto<br />
ferite della notte che sono piccoli porti.<br />
Il treno ha un cuore con battito.<br />
*<br />
Ionica<br />
Mi regali una conchiglia muta<br />
lasciapassare ed invito<br />
al palco delle recite corsare.<br />
Dici che il mal di mare si vince in mare<br />
anche dove il mare è finto falsi i marinai.<br />
Tento di non essere un pirata<br />
all’imbarco su navi in bottiglia.<br />
Amo l’ombrello dei pini<br />
che trasfondono infinito nei polmoni<br />
profumato lungomare Policoro.<br />
117
*<br />
Incompiuta<br />
Trascorro ingressi androni interni<br />
innumerevoli legni di portoni<br />
la tua via Pincetti dolce in fondo al giro<br />
ora che sono il tuo postino<br />
scusa se non prima non in tempo<br />
mi accoglie tua moglie in tuo nome.<br />
Mi sillabavi sulle dita mi contavi i suoni<br />
lo scarto da levare per estrarre una parola<br />
per mancarti di parola infine.<br />
Torno<br />
la gru smaniosa di futuro fra le case<br />
il sole fra i muri come il fiume fra i pioppi<br />
e scrivo dalla tua persona in poi<br />
un incompiuto<br />
che sembra basti liberarlo dalla terra<br />
perché accada.<br />
*<br />
Instabile<br />
Vorrei governare meglio il momento<br />
pensano in termini di testa o croce<br />
questo cielo raffermo<br />
addebitarlo a un giro di stagione.<br />
*<br />
Il fuoco sui muro<br />
Il fuoco sul muro l’abbiamo dipinto<br />
insieme di giallo di arancio<br />
di rosso sontuoso.<br />
Appena accennata la fiamma<br />
già si sgranchisce il tannino,<br />
cuce con la lingua i morsi<br />
dei pettini di pioggia a denti fitti.<br />
Ancora fresco il colore divampa<br />
un galletto tutto cresta e coda.<br />
*<br />
La figlia del boscaiolo<br />
La figlia del boscaiolo studia<br />
due volte cento: la prima per sé<br />
la seconda per non perder tempo<br />
- chi le vuol bene la stimi per questo.<br />
Lei taglia alla voce “distrazione”<br />
sfronda capitoli di svago<br />
e se il villaggio si affretta al sabato sera<br />
a Nazario<br />
118
affila nella testa un voto di rigore.<br />
*<br />
Un pesciolino nelle vene<br />
Affiora a tratti pesciolino che nuota<br />
trasparente eppure rosso di corallo<br />
a qualunque rete sfuggente,<br />
sola traccia l’onda mossa dalla coda.<br />
Non so concepire un sogno così vero<br />
la notte non saprebbe contenerlo<br />
devo essere sveglio, devi essere tu<br />
questa presenza guizzante nel sangue.<br />
[da Carta annonaria (<strong>LietoColle</strong> 2005)]<br />
Notizia.<br />
Lorenzo Caschetta, nato a Modena il 4 gennaio 1975, postino. Nel 2001 risulta fra i vincitori del premio<br />
“Dario Bellezza”, sezione inediti. Carta annonaria (<strong>LietoColle</strong> 2005) è la sua opera prima.<br />
119
Questo tempo qualcosa<br />
ti ha dato: quest'estate<br />
si è mossa, ha buttato<br />
in tre giorni tutto<br />
un calore seduto,<br />
sulle foglie e sui vivi.<br />
Oggi sarebbe domenica.<br />
Ti ho messo la voglia<br />
di capire cos'è una stagione,<br />
un tronco. Una scia<br />
di tenerezza lo sa. Qualche volta<br />
visitiamo la morte<br />
con la testa per terra.<br />
E l'acqua appare alle volte<br />
come vento basso che ci apre,<br />
dopo mesi.<br />
*<br />
TO<br />
L'attore alza la bocca fin troppo,<br />
mentre penso che si può mangiare<br />
sano per una vita, star male<br />
e mangiare porcherie quando oggi<br />
manca la fame per il dolore.<br />
È cosa di questi giorni<br />
l'alternanza delle posizioni,<br />
quando la luce è accesa in cucina.<br />
*<br />
Per te accetto venire<br />
all'ultimo momento,<br />
scoperto, vivo<br />
dei soli spazi che hai<br />
inventato.<br />
(Aperta la porta di colpo<br />
della camera di due<br />
zie morte<br />
c'era - solo - il rumore dei secondi.)<br />
*<br />
Ci si vuole bene.<br />
Non lo si dice<br />
praticamente mai.<br />
Poi si muore, si corre,<br />
si prende la misura<br />
di un’altra vita,<br />
ci piace l’esempio solito<br />
delle stelle perché abita<br />
tanti mondi e i lampi.<br />
*<br />
Parlo della vita come<br />
fosse una lente che guarda.<br />
Ho preso casa qui, nella pianura.<br />
Vorrei non dire più io, tu.<br />
120
Adesso i nomi sono<br />
tutti nelle nuvole, impressi<br />
al di qua dei capannoni.<br />
Viverci, con le foglie di novembre rastrellate<br />
in testa, fa venire voglia<br />
di morire.<br />
*<br />
Provi a venirmi<br />
in testa, da morto<br />
da pochi anni. Accade<br />
di sera e mi vergogno un po’<br />
che sia così.<br />
Forse il buio, forse la vera<br />
paura di non riconoscermi<br />
nella pelle che può<br />
tenere uguale un viso vivo e uno morto<br />
e che pelle è, pelle rimane.<br />
La tua pelle con poca barba.<br />
La pelle come un confine,<br />
né tua né, ora, mia.<br />
*<br />
Non è certo lavoro<br />
trovarsi con le sere<br />
a sostare vicino agli autocarri,<br />
tenere acqua nelle orecchie.<br />
Sento, al posto tuo,<br />
quando gli specchi<br />
doppiano gli inverni chiamati<br />
per mancanza.<br />
*<br />
AL LAVORO<br />
Fuori i visi sono rossi,<br />
pieni di sangue. Il passo<br />
di un torno è sempre meglio<br />
di avere la schiena<br />
spaccata da una sedia.<br />
Preferirei uscire, credere a tutto,<br />
svuotare lo stomaco.<br />
Essere qui, al lavoro<br />
e non capire più niente del tempo.<br />
*<br />
Alla fine sono sempre<br />
piccolezze, bassezze<br />
a occuparti la giornata.<br />
Vorresti essere altrove,<br />
dove passano i treni<br />
e non si fermano.<br />
Ma sei qui a girare carte;<br />
facesse caldo, e tu, così, aria.<br />
121
*<br />
Ho ripreso oggi la linea 4,<br />
Carità-Casier. L'usavo<br />
vent'anni fa per andare<br />
a Fontane. Corriera più<br />
un chilometro di bus.<br />
Neanche 7 chilometri in tutto.<br />
Dentro l'autobus Giada<br />
e Emanuele, una sorella<br />
di Gloria, compagna di giochi, dai nonni.<br />
L'altro caro amico delle elementari<br />
perso di vista ai primi anni,<br />
figlio di carabiniere.<br />
Ma non sono sicuro che fossero<br />
veramente loro.<br />
*<br />
IL PROSSIMO<br />
In questo giro di vita,<br />
di calme strade, di alberi<br />
con fronde in fumo,<br />
in questa bocca che tiene<br />
due lingue morte<br />
che si cercano nella notte<br />
dal canale alla notte,<br />
nei sassi. La mattina è questo<br />
grande senso, qualche piega<br />
che vuole l’inizio di un mattino.<br />
Ci sono troppi negozi intorno.<br />
Ogni viso è legato a quello<br />
dopo e a quello vicino.<br />
Ricordo spesso dei visi e si<br />
muovono come un’onda.<br />
*<br />
SCENA INVERNALE<br />
Tutti si sono parlati,<br />
avevano il cuore alto,<br />
fra i capelli<br />
e la neve che spingeva<br />
sotto i piedi.<br />
Non hanno più chiesto niente,<br />
gli alberi hanno perso<br />
la forza, vengono alti<br />
e sempre più soli;<br />
un cielo come la<br />
mano rovescia<br />
mentre tocca terra.<br />
Notizia.<br />
Alberto Cellotto è nato a Treviso nel 1978. Ha pubblicato il libro di poesia "Vicine scadenze" per Editrice<br />
Zona (2003). Suoi testi critici e poetici (in lingua e dialetto), sono apparsi sulle riviste Atelier, Tratti e<br />
Semicerchio. Dal 2000 è redattore della rivista trimestrale "daemon - libri e culture artistiche"<br />
(www.daemonmagazine.it).<br />
122
CICATRICI<br />
Delle ferite, di tagli e abrasioni<br />
declinati all’infinito<br />
che vale parlare: se è qui,<br />
in mano il ferro ancora rosso<br />
che ha marchiato troppi dei suoi giorni,<br />
avrà guadato i suoi torrenti<br />
verso corpi illuminati dal sole,<br />
scalato muri verso fughe o paradisi<br />
e attraversato campi di sterpaglie<br />
(se lo contiene un qui,<br />
se ancora sa aggrapparsi ai propri giorni)<br />
ma in questa sera immobile di mezza estate<br />
sente il fremere delle più nuove -<br />
la persistenza delle lacerazioni<br />
sotto il velo pietoso delle cicatrici.<br />
**<br />
NIPOTI<br />
Svaniranno<br />
lentamente come foto infradicite:<br />
incontri sempre più radi,<br />
un nome che sfugge, tre mesi<br />
e una notizia scarna, la visita<br />
di una nipote; sei mesi, un paio d’anni<br />
a incespicare imbarazzati<br />
in un volto, un nome<br />
o un indirizzo che ha perso significato,<br />
ridotti a voce di chi ancora vive<br />
un poco, poco, e poco a lungo.<br />
Il ricordo di un gesto peculiare,<br />
un ninnolo comparso sul termosifone,<br />
fuori moda e sempre più ingombrante<br />
che svanirà nel nulla o nell’ammasso<br />
che ogni giorno ci sparisce dalle mani<br />
per rintanarsi chissà dove -<br />
un mondo trasparente<br />
parallelo al nostro, intoccabile<br />
e inaccessibile a chi progetta e ancora<br />
spera, con lumi fiochi e fiori marci.<br />
(Nel fango, le mani ingombre di cose,<br />
la vecchia radio rossa, un ninnolo, tre foto,<br />
fango e polvere, un camioncino verde,<br />
giocano i nipoti a reinventare il mondo,<br />
a dare un seguito alle strade<br />
un giorno ad ogni giorno.)<br />
[Da: Il poco cielo che ci guarda (Fiori di torchio, Seregno 2006)]<br />
**<br />
PRIMA LINEA<br />
Le bombe hanno quasi cessato<br />
ma il conto non torna.<br />
Il mio compagno ha la fiasca in mano,<br />
morto, e gli stambecchi sono fuggiti<br />
fra i ghiacci più alti -<br />
123
ombre contro l’alone biancastro della luna.<br />
Anche il vento ha cessato.<br />
Notte, e pace oscura nella trincea dei vivi<br />
come se l’ultimo grido della carne macellata<br />
fosse stato risucchiato in cielo.<br />
Silenzio e attesa, qui.<br />
A casa<br />
da pochi istanti hanno iniziato a bombardare.<br />
**<br />
IL CORPO POI<br />
Soltanto un grumo che vorrebbe essere vita,<br />
scava nicchie e gallerie, s’innalza statue<br />
e invece agogna solo un fuoco<br />
inestinguibile ma rapido,<br />
che non ecceda il fremere<br />
del sangue puro e semplice. Fermento<br />
e mordere della passione - un osso lasciato<br />
a nudo sulla spiaggia.<br />
E noi nel buio della sala, stagnanti nella brama<br />
o trascinati dall’appagamento,<br />
vorremmo come cavalli all’ambio della vita<br />
goderci un mondo dal teleologismo elementare:<br />
copula di corpi inanimati<br />
nell’imbuto del piacere,<br />
lombi che si svuotano<br />
e più nulla chiedono<br />
(questa è la vita, solo questa, trama<br />
di nodi semplici ma instricabili<br />
che ottunde ogni lama che da lontano<br />
arrivi presuntuosa,<br />
e il filo che non guida fuori<br />
- e non importa - ci conduce in tondo.)<br />
Prima di rendere alla terra il prestito del corpo,<br />
lieve ti sia questa parentesi<br />
d’immagini brucianti, a ritardare<br />
il vero eccesso, l’unico,<br />
del fotogramma impresentabile<br />
per cui non pagherai il biglietto:<br />
il corpo immobile nel sempre, reduce<br />
da mille orgasmi, adesso addormentato.<br />
**<br />
DOPO UNA FINE<br />
*<br />
Dev’esserci un centro<br />
da qualche parte<br />
(di stanza in stanza<br />
di noia in noia)<br />
doveva esserci -<br />
A Rocco Siffredi<br />
124
e fuori è un temporale<br />
*<br />
Una pianta quasi<br />
morta ha rigettato.<br />
(Fuori nevica.)<br />
*<br />
Un tempo fa. (Un gesto<br />
accomoda capelli e veste,<br />
gli anni.) E poi le foto antiche<br />
con prospettive esatte,<br />
il fuoco dell’ellisse<br />
ancora e sempre.<br />
Un tempo qua.<br />
*<br />
Da una finestra all’altra<br />
(ritraendomi): tutto<br />
diviene troppo in fretta.<br />
(Non so come essere.)<br />
(dentro.)<br />
*<br />
(Se immaginassi paradisi,<br />
avrebbero le luci fosche del Mantegna;<br />
se inferni, le ombre che ci fanno infermi.)<br />
*<br />
Con che autunno ci flagella l’anno,<br />
con quali lunghe ombre, fradice:<br />
i boschi ci compensano con doni poveri.<br />
*<br />
Cosa ha lasciato l’uragano?<br />
Indicazioni sommarie:<br />
i corpi sulla spiaggia,<br />
da rimuovere, case da rialzare<br />
con cartongesso ad arte:<br />
nessuno ha conoscenza d’uragani<br />
quanto i registi. (I gatti<br />
imparano l’ardua stagione.)<br />
*<br />
(Così vicino dunque il territorio,<br />
tanto sottile il discrimine della follia?)<br />
Un muro alto fino alla vita<br />
e quasi palpabile ciò che di là sobbolle,<br />
come infilare la mano nella bocca della verità.<br />
*<br />
Nei libri delle elementari<br />
c’era sempre un passero<br />
affamato di briciole<br />
(ha nevicato<br />
ancora, spruzzi<br />
candidi assassini).<br />
(Forse ritornerà<br />
bussando alla finestra.)<br />
*<br />
Ancora a confondere<br />
tra battiti e respirazione?<br />
125
Cammino tra i crolli degli alberi<br />
e l’erba che preme sotto la neve:<br />
vedere la vita, sentirla crescere<br />
è morire (in me<br />
la vita freme come un’ala<br />
in una fabbrica abbandonata).<br />
Notizia.<br />
Mauro Ferrari (Novi Ligure 1959) è direttore editoriale delle Edizioni Joker, da lui fondate nel 1994, e<br />
direttore del semestrale di cultura letteraria La clessidra.<br />
Ha pubblicato le raccolte poetiche: Forme (Torino 1989); Al fondo delle cose (Joker, Novi 1996); Nel<br />
crescere del tempo (con l’artista valdostano Marco Jaccond, I quaderni del circolo degli artisti, Faenza<br />
2003); Il bene della vista (Joker, 2006, che raccoglie anche la precedente plaquette). Ha partecipato con<br />
quattro racconti alla silloge Storie da Novi (ivi 1994); ha inoltre pubblicato saggi di poetica, Poesia come<br />
gesto. Appunti di poetica. Joker, Novi 1999. È presente nell'antologia fiamminga della poesia italiana Het<br />
stuifmeel van de sterren (Il polline delle stelle, a cura di Gemain Droogenbroodt, Point, Ninove 2000) e<br />
nella monografia sulla poesia italiana contemporanea (110) della rivista francese Po&sie.<br />
Come critico ha collaborato all’Annuario di poesia Castelvecchi. Con Alberto Cappi ha curato L’occhio e il<br />
cuore. Poeti degli anni 90, sulla poesia delle ultime generazioni (Sometti, Mantova 2000); ha collaborato<br />
alla silloge critica Sotto la superficie. Letture di poeti italiani contemporanei (Bocca, Milano 2004); ha<br />
curato la sezione inglese dell’antologia della poesia europea La voce che ci parla (Bottazzi, Suzzara<br />
2005), in cui figura come poeta nella sezione italiana.<br />
Nel settore dell'anglistica si è interessato di Conrad, Tomlinson, Hughes, Bunting, Hulse, Paulin e diversi<br />
altri poeti contemporanei. Suoi testi e interventi sono apparsi su Altri termini, Atelier, clanDestino,<br />
Coscienza storica, Erba d’Arno, Esperienze letterarie, Galleria, Graphie, Hebenon, Hortus, Il Cobold, Il<br />
lettore di provincia, La Rocca Poesia, Poeti e poesia, Quaderno, Steve, Testuale, Versodove, Zeta e,<br />
all’estero, Y.I.P. - Yale Italian Poetry, Gradiva, Meja Ponte (Brasile), Po&sie (Francia), Cuadernos del<br />
Matematico e Empireuma (trad. di Emilio Coco, Spagna).<br />
126
C'ERA QUELLA BARRIERA QUESTO LIMITE<br />
c’era quella barriera questo limite invalicabile ed era improvviso. ed era che da sempre all’improvviso<br />
nell’aria si stendeva una cortina. un po’ di particelle convergenti nel centro esatto della messa a fuoco.<br />
dove moltiplicando l’attenzione confluire la polvere del mondo. non doveva guardare non poteva restare<br />
mai fermo a fissare un luogo. non vi trovava il vuoto o un solo punto cieco nel dare un po’ di tregua agli<br />
occhi. dove ruotarli ancora si chiedeva per rifugiarli nelle inconsistenze. non c’era che arrestarli per quel<br />
poco che si deve alla palpebra e appariva. come una tela di sipario gonfia di corpi che rimangono in<br />
attesa. ne era gravida l’aria che aspettava solo uno sguardo che li rapprendesse. solo che un occhio<br />
ripopolatore animasse di solidi il sublime. prima un po’ di pulviscolo in un raggio come l’aveva scorto<br />
quella volta. era mamma a socchiudere le imposte e il sole trapelò fra quei fermenti. li vedeva convolgere<br />
sul letto convergendo finché lei si voltò. perché piangi diceva è solo l’aria quella che viene e va da me e<br />
da te. ora chissà dove era defluita e se aspettava dietro quella tela. l’aria o la mamma o tutto il teatrino<br />
che s’era susseguito lungo gli anni. perché dopo i corpuscoli la nebbia col tempo s’era sempre più diffusa.<br />
bastava che restasse a sogguardare un punto nello spazio e tracimava. bianca nei lembi ancora<br />
svolazzanti ingrigiva nel centro il suo spessore. finché tutto non era che il confine di un mondo divenuto<br />
inaccessibile. una grata che sempre separava il suo restare a vivere lì dietro. o magari lì dentro fra i<br />
congegni che mettevano in moto il proiettore. tutto si dava con il primo sguardo con cui si riposava la<br />
pupilla. virare l’iride durava poco e anche la testa a voltarla si stanca. prima o poi cade il ciglio su una<br />
scena che sembra messa lì a pacificare. e proprio in quella piccola porzione saliva su dalla periferia. prima<br />
i puntini e poi la nebulosa e infine il velo presto di velluto. e non appena solido il sipario sùbito si gonfiava<br />
di presenze. non come se vi fossero nascoste bensì consustanziando nei risvolti. da principio era un<br />
lembo più convesso fra la casualità di tante pieghe. una forma d’un tanto familiare che poi si trasmetteva<br />
nelle altre. ogni risbuffo lì nel centro grigio s’adeguava alla prima e rinveniva. poi persino nel bianco si<br />
effondeva come la malta che diviene crespa. per quanto si sforzasse ad inseguirli colli non s’allungavano<br />
né corpi. non dai rilievi appena sporti volti in volti sempre noti e sempre quelli. ogni volta gli stessi ad<br />
ogni nuovo solito giro di ricognizione. cambiava forse l’ordine il diritto di prima esposizione la sequenza.<br />
ma restavano quelli con qualcuno ogni tanto in aggiunta ma già noto. come se fosse sempre stato lì ad<br />
aspettare il turno nella maglia. lì con quegli altri a stringere la trama che non si passa a non pagare il<br />
dazio. per tutti c’è un tempo da scontare da scompitare in numeri di nomi. ripeteva tessendo quelle teste<br />
l’una con l’altra e ognuna al proprio addio. cari conforti disse sconfortatemi è l’aria che separa a ritenerci.<br />
quella che viene e ancora se ne va da me per richiamare tutti voi. e allora si metteva a pronunciarli quei<br />
nomi come per sfiatarli via. ogni volta di nuovo per forare la loro consistenza di silenzio. quegli occhi fissi<br />
che non conoscevano umidi gli occhi che li riguardavano. assenti tutti e a malapena gonfi e indifferenti al<br />
tremito del velo. senza nemmeno attendere il respiro che anche il sipario avrebbe dissipato.<br />
Notizia.<br />
Gabriele Frasca, nato a Napoli nel 1957, è poeta, narratore, saggista, autore teatrale e traduttore. Ha<br />
collaborato con RadioRai e attualmente insegna Letteratura Comparata all’Università per Stranieri di<br />
Siena. Si è occupato di Medioevo, Barocco, Modernismo e di teoria delle comunicazioni. Fra i suoi saggi:<br />
Cascando. Tre studi su Samuel Beckett (1988), La furia della sintassi. La sestina in Italia (1992) e La<br />
scimmia di Dio. L’emozione della guerra mediale (1996), La lettera che muore (2005). Per la poesia ha<br />
pubblicato: Rame (1984), Lime (1995) e Rive (2001). Per la narrativa: Santa Mira (2001) e Il fermo<br />
volere (con Luca Dalisi, 2004). Ha curato e tradotto opere di Samuel Beckett (Watt, Le poesie, Murphy) e<br />
Philip K. Dick (Un oscuro scrutare).<br />
127
Da OGNI CINQUE BRACCIATE (2002-2006)<br />
[Questo poema racconta la vicenda delle nuotatrici tedesche della ex DDR. Le campionesse olimpiche diedero il corpo<br />
per il loro Paese e diventarono paradigma di una nuova epoca. Dopo le vittorie subirono i danni fisici dovuti all’uso<br />
pesante di sostanze dopanti che furono costrette ad ingerire. Qui si presentano le Sequenze I e II (inedite) tratte dal<br />
IV Canto, che accolgono la voce monologante del dottor Starkino, Sportführer (guida sportiva, filosofo ed imbonitore)<br />
della squadra olimpica tedesca fino alla caduta del muro; si presenta, inoltre, la Sequenza I, Canto V (inedita), che<br />
tratta della malattia delle giovani campionesse, Ute, Karla, Renate e Lampe. Al disfacimento del loro corpo seguì la fine<br />
dei paesi del socialismo reale].<br />
“Dunque, l’uomo moderno è colui che batte i record. Ed ecco improvvisamente che i record stessi ci<br />
inquietano. Hanno cessato di essere inebrianti: ormai siamo troppo veloci, e lo sportivo da simbolo<br />
dell’umanità in movimento rischia di diventare la cavia della post-umanità. Così entreremo, senza averlo<br />
voluto, in un nuovo paradigma.”<br />
Poema in 5 Canti,<br />
Ogni Canto è di 5 Sequenze,<br />
Ogni Sequenza di 5 Ottave,<br />
Ogni Ottava una pausa,<br />
Ogni pausa il rischio della perdita,<br />
Oppure la possibilità che la Storia respiri.<br />
*<br />
Sequenza I (Canto IV)<br />
UN ORGANISMO MONDIALE<br />
“Ho lasciato la pretesa d’immortalità<br />
ad una Germania faustiana e decadente,<br />
ho legato la mia aspirazione alla flessibilità<br />
d’un muscolo, al centimetro più giusto, stringente;<br />
come in una frazione algebrica, la priorità<br />
dei liquidi assorbiti dai tessuti è stata la mente<br />
che ha guidato la mia mano sul loro busto,<br />
così ho operato la distinzione di ciò che è giusto.<br />
Il secolo l’ho costretto in una provetta di vetro.<br />
Chi può biasimarmi, se il mio gesto<br />
è stato lo slancio di chi resta al centro,<br />
immobile a fissare il corpo trasformato dall’epo.<br />
So del tempo e del suo disfacimento,<br />
e, in fondo, mi vanto di questo;<br />
di un’effimera vittoria sulla Storia,<br />
della soluzione chimica della memoria.<br />
Perché il bacino tirato fino all’osso<br />
è l’unico calco che resta della tradizione:<br />
questo è l’unica certezza che posso<br />
offrire come nuovo mito di fondazione:<br />
Oral Turinabol (1), nandrolone, così ingrosso<br />
il progresso con la loro azione;<br />
seleziono la razza con il testosterone,<br />
sostituisco la purezza del sangue con la sua pressione.<br />
Non ho ragione e non voglio averne,<br />
voglio sentire solo il futuro che preme,<br />
insiste più del passato e non voglio vedere<br />
dove finisce il mio seme;<br />
Alain Finkielkraut<br />
128
anestetizzo il modello della specie:<br />
lo rende unico, più che unico, a-gene,<br />
proiezione d’un idea materiale,<br />
pura potenza senz’atto, perché agisce ciò che vale.<br />
Basta con la voglia di restare,<br />
basta con la nostra tradizione,<br />
basta con la letteratura nazionale,<br />
basta con Goethe e l’immaginazione!<br />
Costruisco in laboratorio il nuovo corpo morale.<br />
Che al resto ci pensino i politici, diano la loro adesione,<br />
si confrontino con l’Occidente che langue<br />
tanto, prima o poi, avremo tutti lo stesso sangue.”<br />
(1) Oral Turinabol, è stato il tipo di steroide più usato nella ex DDR. Le dosi somministrate alle ragazze superava<br />
anche di 1000 milligrammi le dosi dopanti usate negli anni ottanta da alcuni atleti occidentali.<br />
*<br />
Sequenza II (Canto IV)<br />
IL CORPO DELLA NAZIONE<br />
Un solo organismo mondiale, senza distinzione,<br />
dove l’esterno sarà lo specchio di ciò che è dentro:<br />
questa sarà la sua rivoluzione.<br />
Un sistema organizzato intorno ad un centro<br />
e il centro sarà in ogni corpo, in ogni cuore<br />
che avrà registrato un semplice metro<br />
di valutazione, una sola legge mondiale:<br />
“la tua dieta è ciò che vale!”<br />
L’Occidente sarà come l’Oriente<br />
e tutti avranno bisogno delle pillole azzurre,<br />
e allora l’Oriente non sarà più lontano dall’Occidente,<br />
tutti avranno una meta comune, senza più guerre:<br />
il corpo sarà l’unica meta, l’unico vero ente.<br />
I filosofi cederanno il posto allo Sportführer<br />
nazionale e smetteranno di parlare,<br />
perché tutti rifletteranno dio nei muscoli e nella carne.<br />
“Gott ist tot e dio è rinato<br />
per farsi uomo-chimico e animale<br />
Gott ist tot e dio s’è incarnato<br />
nella specie delle specie, nella specie universale!<br />
Annunciate a tutti che è tornato<br />
per farsi uomo, per la pace mondiale,<br />
per farsi corpo che trattiene l’energia del creato,<br />
corpo che porta in grembo il codice di Stato.<br />
L’individuo selezionato sarà la forza d’ognuno<br />
e tutti allo stesso modo saranno potenti,<br />
il Comunismo vuole che l’uomo sia Uno<br />
paragonabile solo a se stesso, senza altri riferimenti.<br />
Cristianesimo, Romanticismo, Idealismo saranno tuttuno,<br />
chimiche dissolvenze nelle menti,<br />
fino all’immediata acquisizione<br />
in uno spettacolo comune, nella partecipazione.<br />
Nessun superuomo, non ci sarà un mito<br />
per decidere dove, quando e come<br />
si è superato il limite consentito.<br />
Niente più proletariato, saremo la classe superiore,<br />
129
la rivoluzione chimica sarà la fine del Partito!<br />
Saremo tutti figli del testosterone.<br />
La nazione sarà “ciò che io penso”,<br />
senza saperlo, sciolta nel corpo d’ognuno; muto consenso.”<br />
*<br />
Sequenza I (Canto V)<br />
I SEGNI DEL TEMPO<br />
La tac totale ha scoperto il segno del tempo,<br />
i tumori hanno invaso l’aria neutra della pedana di tuffo;<br />
hanno ingerito il veleno del loro fallimento,<br />
è finito l’assedio, s’è concluso,<br />
ora tutto è osceno:<br />
le ghiandole ingrossate oltre il muro,<br />
la trasparenza della pelle sulle dita,<br />
il ricordo dell’ingenuità patita.<br />
La piscina ora è deserta.<br />
Sono lasciati a se stessi i gocciolii del soffitto.<br />
Nessuna resistenza li conserva,<br />
nessuna forza ne trae profitto,<br />
riverberano in eterno …riverberano…<br />
nessuno più ne è afflitto,<br />
catturato nell’ecosistema d’un respiro<br />
d’un mondo isolato e condiviso.<br />
La morte non è più un fatto personale, questo è stabilito,<br />
nelle sedute di chemioterapia,<br />
quando tutto è nausea senza vomito,<br />
quando il centraggio della cellula spia,<br />
il tatuaggio sull’organismo colpito,<br />
indica la parte sana unita a quella in agonia.<br />
La legge immobile della Stasi,<br />
ora si propaga in meta-stasi.<br />
“Noi portiamo il nuovo,<br />
portiamo in grembo qualcosa che non è nostro<br />
e non appartiene a nessun uomo,<br />
dobbiamo partorire un cristo o un mostro”<br />
la Storia, il contrasto vissuto,<br />
lotta senza più corpo,<br />
non ha più ricordo;<br />
non ha luogo, il ritorno.<br />
Sono pronte al prossimo futuro,<br />
mostro santo in corpo ridotto,<br />
all’innesto di un frutto maturo,<br />
mostro santo in corpo ridotto,<br />
cisti ovariche formano un grumo,<br />
ciò che resta del feto -ha stimmati in ogni posto-<br />
Le loro gesta, le loro azioni,<br />
ora si propagano in radiazioni.<br />
---<br />
Da MECCANICA PESANTE (2003-2006)<br />
Scrive O. Mandel’štam, nel suo Viaggio in Armenia: “Lamarck sente le frane tra le classi. Sono gli intervalli dell’ordine<br />
evolutivo. I vuoti si spalancano ai nostri occhi. Sente le sincopi e le pause della serie evolutiva. Intuisce la verità e si<br />
smarrisce sgomento per l’assenza di fatti e materiali che la confermino.” Queste parole sembrano quanto mai indicate<br />
per descrivere il passaggio dalla realtà di un mondo materiale, fondato sul racconto di un corpo individuale e collettivo,<br />
ad una realtà immateriale. La Meccanica pesante è, per chi scrive, l’espressione del calco doloroso impresso dalla<br />
130
elazione filiale: la meccanica delle successioni, delle generazioni, ha mostrato una falla, uno sterminato spazio vuoto.<br />
La necessità di riempire questo spazio, di dargli spessore storico, resta in fondo un’esigenza d’amore.<br />
Sezione “Sonetti da terre straniere”<br />
RISORGIMENTO (2)<br />
“Sono Solo Sonno” si legge sulla centralina elettrica<br />
della stazione di Magenta e in quella scritta<br />
di vernice nera, è come se l’energia cinetica<br />
interrompesse la sua regola, ritrovasse la sua etica.<br />
Allora tutto si ferma. E la battaglia,<br />
ricordata con una targa commemorativa<br />
ritorna nella nebbia. Così anche le grida.<br />
L’Italia risorge questa mattina dalla poesia<br />
di un adolescente che riprende l’impresa<br />
iniziata più d’un secolo prima;<br />
resistere alla voce straniera, all’incondizionata resa<br />
del cupio dissolvi della nuova politica,<br />
descrivere la provincia che fagocita<br />
e il fagocitare che fa di tutta l’Italia provincia.<br />
(2) Questo sonetto è stato presentato per la prima volta sul catalogo antologico, “60 anni della Repubblica Italiana.<br />
ArteStoria”, Il laboratorio le edizioni, Nola, 2006. Il progetto è stato ideato dalla “Casa del popolo” di Ponticelli e<br />
patrocinato dalla Regione Campania.<br />
*<br />
LA MIA STORICA PARTE DI PENA<br />
this ready flesh<br />
no honest equal, but my accomplice now,<br />
my assassin to be, and my name<br />
stands for my historical share of care<br />
for a lying self-made city,<br />
afraid of our living task, the dying<br />
which the coming day will ask *<br />
s’arriva ad invocare la propria parte di pena<br />
quando in casa, l’ennesima,<br />
si confonde la manopola dell’acqua calda<br />
con la manopola dell’acqua fredda,<br />
quando la città volteggia libera nell’aria<br />
come il polline di questi pioppi in primavera;<br />
si cerca la parola stretta nella Storia<br />
quando la società caracolla<br />
nell’abbaglio “del tutto si deve, perché si può fare”,<br />
si resta da soli a fermare la morte<br />
mentre la si guarda arrivare,<br />
costante come una funzione del nostro atto vitale,<br />
ci si ripete: tutta qui la scienza appresa ad arte,<br />
la propedeutica della vecchia classe materiale;<br />
quella di un padre che s’inabissa<br />
mentre il mondo straripa…<br />
ed ora vorresti una colpa tutta tua,<br />
131
vorresti vederla fare ombra,<br />
vorresti stanare i nomi dalla loro piega,<br />
vorresti chiamarli fino a svanire<br />
nel nucleo scintillante e mortale<br />
del loro essere parziale<br />
(3) W. H. Auden, Horae Canonicae, “Prima”: “[…] questa carne pronta/ non è un onesto compagno, ma il mio<br />
complice oggi,/ il mio assassino domani,/ e il mio nome/ implica la mia storica parte di pena/ per un’autoctona città<br />
mentitrice/ paurosa del nostro impegno alla vita, per il morente/ che il nuovo giorno reclama.” tr. It. Aurora Ciliberti.<br />
*<br />
CONVIVIALE<br />
... aber des Vaters Grab seh ich und weine dir schon?<br />
Wein und halt und habe den Freund und höre das Wort, das<br />
Einst mir in himmlischer Kunst Leiden der Liebe geheilt.<br />
Andres erwacht! (4)<br />
…il carnascialesco tributo che non ho cantato,<br />
le baccanidi in velluto,<br />
le vallette di nero vestito<br />
non ho sentito, non ho sentito…<br />
…più volte mi sono seduto sul mio talento.<br />
Mi sono detto: “sei giovane, sarà per questo!”<br />
ma non è per un motivo, o per un partito,<br />
che ci si accolla tutto il silenzio<br />
…lo scarto del conviviale banchetto…<br />
e se ho pianto, ho pianto nel sonno<br />
misurando la distanza di ghiaccio tra le colonne familiari:<br />
mio padre, mia madre, spezzati nel mezzo<br />
da un freddo primordiale.<br />
Non avrei mai voluto che il loro sguardo,<br />
si posasse su tutto questo:<br />
una versione così lurida del sacro.<br />
Ho cercato di sostituirmi a loro nel patimento.<br />
Solo in questo ho fallito. Del resto non mi pento.<br />
Di un Paese che mi si chiude addosso,<br />
come la bara del consenso,<br />
non ho alcun perdono.<br />
La mia vita, amore, fugge da sola<br />
verso qualcosa d’altro<br />
ed io non posso fermarla,<br />
perché sei tu che la tieni dall’altro capo.<br />
Ed oggi so,<br />
con assoluta precisione,<br />
che il mondo senza di te<br />
è solo una stupida astrazione.<br />
(4) F. Hölderlin, Stuttgart: “E io vedo la tomba di mio padre, già piango?/Piango, sosto, mi tengo all’amico, ne ascolto<br />
la voce/ sacra arte che sanava le mie pene d’amore./ Altro si desta.” tr. It. Enzo Mandruzzato.<br />
132
Notizia.<br />
Vincenzo M. Frungillo è nato a Napoli nel 1973. Si è addottorato in filosofia teoretica con E. Mazzarella<br />
con la tesi su Il rischio di una reificazione del linguaggio. Sé e perdita di Sé in M. Heidegger (1998-2001).<br />
Ha pubblicato diversi saggi scientifico-filosofici. E’ presente tra l’altro nel libro collettaneo dal titolo<br />
Biopolitiche, Elio Sellino editore, Avellino, 2006. Il suo primo libro di versi è Fanciulli sulla via maestra<br />
(Palomar, Bari, 2002, nota di Milo De Angelis) contiene testi scritti tra il 1994 ed il 2001. Tra il 2002 ed il<br />
2006 ha scritto il poema in cinque Canti, Ogni cinque bracciate (con prefazione di Elio Pagliarani) ancora<br />
inedito nella sua versione integrale. Lavora ad una nuova raccolta di versi, Meccanica pesante (2003-<br />
2006), e al tentativo di una definizione di un linguaggio spaziale o neo-epico. I suoi versi e i suoi articoli<br />
(su Fenoglio, Luzi, Celan etc.) sono stati pubblicati su antologie e riviste cartacee ed elettroniche tra le<br />
quali Galleria, Gradiva, Specchio della Stampa, NAE, La Clessidra, La Mosca di Milano, Sinestesie.<br />
133
1. (28/10/06; 22.19)<br />
Non sta succedendo più niente, non succede niente, non è mai successo niente, da miliardi di anni non<br />
succede, nella mia testa non succede assolutamente niente, non potrà mai succedere, che sia dentro o<br />
fuori la mia testa, che sia sulla mia testa, intorno, sotto la mia testa, tra i piedi, neppure sotto i piedi<br />
succede niente, ancora niente, per un sacco di tempo non succederà niente, niente di cui si possa dire è<br />
successo, è successa una cosa, una stupidissima cosa, un b, un b piccolo, anche la metà, anche niente,<br />
per errore, fosse pure per errore, non succederà mai.<br />
2. (28/10/06; 22.41)<br />
È passato molto tempo, da allora è passato un sacco di tempo, troppo, molto, tanto tempo, alla finestra,<br />
acqua sotto i ponti, di continuo, ricordando che passa, e pioggia, e acqua, dietro alla finestra, e vento, da<br />
allora, da quel medesimo, cosa?, giorno, gesto, attimo, mai all’opposto, che fosse all’indietro, risalendo, o<br />
fermando tutto, seduto su una sedia, e basta, nessuno che si allontani o si avvicini, e silenzio, ma già c’è<br />
stato, c’è stato anche quello, passando via, da allora, come un altro, come un’altra volta, come un fesso,<br />
a passare, da allora, è sempre così che passa, da fessi.<br />
3. (28/10/06; 22.53)<br />
Tutto succederà ieri come se fosse successo oggi.<br />
4. (28/10/06; 22.54)<br />
Animali, dunque scappano.<br />
5. (28/10/06; 22.55)<br />
Uomini, dunque scappare.<br />
6. (28/10/06; 23. 26)<br />
La piccola zona nostra, la zona cattiva, la zona morta, l’uomo nella zona, che attraversa, che si lascia alle<br />
spalle la zona, ma poi è zona, nuovamente nostra, cattiva, morta, nuovamente una piccola zona,<br />
d’ostacolo o di rifugio, dove tutto avviene, sempre in zona, sempre in piccolo, sempre morendo, morendo<br />
cattivi, a capofitto nella zona, nell’unica.<br />
8. (29/10/06; 11.19)<br />
Bisogna assumersi le proprie responsabilità di fuga, bisogna responsabilmente saper fuggire, bisognosi<br />
sempre di nuove vie di fuga, responsabilizzando i fuggitivi alla maggior fuga, bisogna fugare i sospetti<br />
sulle proprie responsabilità fuggendo, sapendo assumere tutto il non pensato mai detto, che mai quanto<br />
si è detto è stato pensato, che mai pensando abbiamo detto, pronti a fuggire nel non detto,<br />
nell’impensato, responsabilmente, tutti, di tutto.<br />
9. (31/10/06; 10.50)<br />
Ancora solo, ancora un piccolo sforzo e più solo, meglio, in solitario, più concentrato e attento, lasciando<br />
alle spalle, con sforzi quasi leggeri, insensibili, è facile, insensato, avviene velocemente, di nuovo più<br />
solo, meglio, in solitario, completando, ancora perfezionabile, lasciando alle spalle, con facile ancora<br />
piccolo sforzo, più fermo, più lento, isolato, ma anche insopportabilmente abbandonato, a piccoli strappi<br />
costanti, di giorno e di notte, vigilando, questo abbandono, per essere poi lì, da qualche parte, a<br />
riceverlo, come un grave, liberatorio malanno, magari fermo allo specchio, su di un libro, ai vetri, per<br />
vedere quello che passa, per cercare di vedere quello che passa come passa, per non ascoltare, per<br />
parlare meno, sempre meno, per abbandonare, per abbandonare anche l’abbandonato, e non basta, non<br />
ti ammali mai fino in fondo, puoi ancora parlare, e ascoltare, tutto che ti traversa ancora, tutto di nuovo,<br />
perché non c’è altro, in piedi, non c’è che questo, al bancone del bar, qualcuno ti chiede l’ora, rispondi,<br />
ricomincia.<br />
12. (13/11/06; 16.39)<br />
È organizzato questo ritiro, abbastanza ben organizzato, a concessioni graduali o violente, le vie<br />
ritrovate, riattraversate fino all’ultima risalita, passando vagamente lo sguardo, e ritraendolo, da quanto<br />
si lascia fuori, remoto, tutto quanto poi cresce, dalle finestre, o dietro le pareti, le porte, fin dalle<br />
134
fondamenta, rigoglioso, mugghiando, ai lati, con bagliori, colpi d’ala, o sotto, in scivolamenti, frane<br />
soffocate, e davanti, con sfida, è così, il piano di ripiegamento, dolcemente, e nient’altro da dire,<br />
pochissimo forse, un dire ultimo, prima del ritiro completo, già molto ritraendosi, andando all’indietro,<br />
verso la sedia o il divano, o nelle braccia di lei, se si andasse, retrocedendo, soprattutto nelle braccia, a<br />
cercare le labbra, e poi bloccati, tra braccia e labbra, con la lingua che ancora si muove dentro l’altra<br />
bocca, ma non c’è uscita, non c’è affatto possibilità di uscire, ora che, dentro, fermi, nelle nostre carni,<br />
rimaste, dopo il ritiro.<br />
13. (15/11/06; 18.19)<br />
Non ci penso per ora alla fine del mondo, non ne parlerò adesso, non subito, che comunque avverrà, anzi<br />
avviene, ma remotissima, con schianti violenti su certi fondali, o il millimetro, quel millimetro di più o di<br />
meno, d’acqua, o ghiaccio, o anidride, o qualsiasi cosa, che cambia tutto, azzera infallibilmente superfici<br />
boscose, polverizza centinaia di sistemi nervosi, annienta occhi, ali, larve, o come il godimento della luce,<br />
se venisse meno il godimento della luce, di quando entra di traverso, a ondate ininterrotte, la mattina,<br />
anche dalla finestra quadrata e piccola del bagno, posta in alto, impossibile ad aprirsi, sempre azzurra,<br />
senza tetti o antenne, la fine del mondo, se mancasse quella distensione dei muscoli, quel perdere di<br />
massa delle parole, tutto pacatamente nello sguardo, come animali forse, quando la luce, o il cielo di<br />
mattina, se poi la fine, la fine che non risparmia, quella equanime, incessante, di tutti i crolli e gli<br />
sprofondi, ma non ci penso, forzatamente, facilmente non ci penso, anche se è già qui, lambisce la punta<br />
delle scarpe, la si vede persino girando l’angolo, là, oltre i binari morti, nel capannone fatiscente, la fine,<br />
tra i rimorchi, qualcosa, che non indietreggia, anzi viene, soprattutto di sera, sotto il raggio dei neon,<br />
qualcosa si avverte, presagi pittorici, ma non ora, devo pensare a te, a come sei, che a forza di vederti<br />
ieri e oggi mi confondo, non ricordo le cose che dici, non tutte, quelle più di fretta, di lato, quasi a bassa<br />
voce, quando entri in cucina, devo ricordarle, ripeterle, con chiarezza, prima della fine del mondo,<br />
adesso.<br />
15. (19/11/06; 2.07)<br />
Dobbiamo pensarci, non dobbiamo sottovalutare, anche redigere, portare di lato e avanti argomenti, non<br />
troppi, non troppo sottili, è anche urgente farlo, in tanti, col dovuto consenso, ma unanimi, utilizzando<br />
brutti ricordi, sensazioni sgradevoli, e in conclusione, così appare, nell’evidenza, nell’abbagliante<br />
evidenza, non differibile, anche questa guerra, questa nuova guerra, assolutamente da fare, ma<br />
pensiamola, stavolta con la massima riflessione, da più parti, anche trovandoci sui pianerottoli, come<br />
muovere guerra, ma precisi, a filo, senza sbavature, chiazze, residui inquinanti, una guerra che tagli, che<br />
tolga fiato al nemico, lo isoli, che sappia trovare un nemico assiduo, e premerlo, e punire, anche questo, i<br />
nemici, poi, hanno oscuro destino, ma molto sotto, al di sotto del visibile, nel non documentato, è per<br />
necessità, mai improvvisata, o approssimativa, i dettagli, ne bastano pochi, il nemico, ne basta uno, poi<br />
si chiarirà meglio, ma conta l’anticipo, la velocità dell’impatto, anche stavolta, sempre anticipare, con<br />
guerre, migliorare, allargare.<br />
16. (26/11/06; 12.30)<br />
Limitatamente alle concezioni dominanti, alla mia concezione se fosse dominante, al dominio che ho sulle<br />
mie concezioni, alla cognizione che ho del mio dominio, limitato, e limitatamente a questo, o alle<br />
questioni oscure, come il potere e i suoi pori, o le operazioni del potere, o il transito, di tutti, in un punto<br />
del potere, il punto senza dimensione del potere, e il dominio che il potere esercita sulla concezione, e il<br />
concepimento per gradi, scale, velocità scostanti, che il potere ha dei concepiti, limitatamente a questo,<br />
allo sfuggire di questo, all’ipotesi o al sogno di questo, all’indizio magro o macabro, limitatamente all’odio<br />
concesso e distribuito, al motivo annesso all’odio, all’esercizio dell’odiare nei limiti dell’odiabile, mi chiedo<br />
per quale spazio, idea, faglia, si limiterà a passare, in senso inverso, o del tutto altrove, o diffuso,<br />
l’amore, quell’amore non concepito, inordinato, che non domina, non tiene, non ha netta concezione, e<br />
scorre, nei limiti, e li annulla.<br />
(da “Le circostanze della frase”, inedito)<br />
Notizia.<br />
Andrea Inglese è nato a Torino nel 1967. Vive e lavora a Parigi. Insegna attualmente letteratura e lingua<br />
italiana presso l’Università di Paris III. Ha pubblicato un saggio di teoria del romanzo dal titolo L’eroe<br />
segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo per le edizioni del Dipartimento di<br />
Linguistica e Letterature comparate di Cassino (2003). Assieme a Chiara Montini ha curato il numero<br />
monografico della rivista “Testo a fronte” dedicato a Samuel Beckett (n° 35).<br />
135
Ha pubblicato la raccolta poetica Prove d’inconsistenza, con prefazione di G. Majorino nel VI Quaderno<br />
italiano (Marcos y Marcos, 1998), Inventari (Zona 2001) con postfazione di B. Cepollaro, Bilico (d’if,<br />
2004). Nel 2005 è apparso l’E-book, L’indomestico, Biagio Cepollaro E-dizioni (www.cepollaro.it). Presso<br />
l’editore Arcipelago è appena uscita la plaquette Quello che si vede (Milano, 2006).<br />
Traduzioni in francese dei suoi testi appaiono nelle riviste francesi Action poétique (n°177, settembre<br />
2004) e If (n° 27, 2005), nella rivista canadese Exit (n° 40, 2005), nella rivista belga Le Fram (n° 14,<br />
inverno-primavera 2006). Traduzioni di suoi testi in rumeno sono apparsi nella rivista Semn (n°3-4, 2005<br />
e n°1, 2006). Traduzioni in inglese sono disponibili sul sito Poetry International Web, nella sezione<br />
dedicata alla poesia italiana.<br />
È presente nelle antologie di poesia italiana contemporanea Parola Plurale (Sossella, 2005) e Il presente<br />
della poesia italiana (<strong>LietoColle</strong>, 2006).<br />
È il curatore di Per una poesia futura. Quaderni di critica letteraria, rivista di critica letteraria on sul sito di<br />
Biagio Cepollaro (www.cepollaro.it/poesiaitaliana/CRITICA/critica.htm).<br />
Ha partecipato a diverse manifestazioni di poesia in Italia e all’estero, tra cui Ricercare ’97 (Reggio<br />
Emilia), Romapoesia (1999 e 2005), Festival Internazionale di Poesia del Mondo Latino Ars Amandi<br />
tenutosi in Romania (2005), 34 ème Rencontre québécoise internationale des écrivains a Montreal (2006) e<br />
Milano Festival Internazionale di Poesia (2006).<br />
136
IN IPSO NUDO AMORE CARNALI<br />
*<br />
Le due giovani, stelle,<br />
si mostrano stupite, nel riflesso<br />
quasi uguali, gemelle,<br />
il loro corpo cinto in un amplesso,<br />
sfiorandosi la pelle<br />
- sciarpe in silk cru, collant di lycra, il sesso -<br />
e al telefono digitano i tasti.<br />
La lingua sulla lingua, in tutti i posti.<br />
*<br />
Paffuta, piccolina, dolce e mora,<br />
tra i baci sparsi da bocche voraci,<br />
sorridendo spompina,<br />
e la cappella, con la lingua, sfiora,<br />
tra le labbra carnose ben capaci,<br />
sopra e sotto, carina,<br />
in un sessantanove,<br />
toccandosi le tette nel pullover.<br />
*<br />
Strette ai lati, le mani bianche e il petto,<br />
tra neri paramenti, le due donne<br />
con calze autoreggenti e un fazzoletto,<br />
la bara al centro e i ceri, la croce,<br />
inginocchiate s’alzano le gonne<br />
- il pizzo nero, i glutei - a fil di voce<br />
stringono le unghie sulle carni nude<br />
e i seni sodi. Devote madonne<br />
provano a turno il grosso anal intruder.<br />
*<br />
Già dal divano s’erge<br />
giovinetta lasciva<br />
di pura grana e viva<br />
il suo volto orna e asperge<br />
con struccante deterge<br />
passa una ciocca dietro al suo orecchio<br />
e giudice è lo specchio.<br />
*<br />
Tra i panni stropicciati,<br />
la mano che alza l’orlo della veste,<br />
muove arti affusolati.<br />
Simulando lap-dance,<br />
tagliente occhio celeste,<br />
si muove quasi in trance.<br />
Poi inquieta fa i capricci,<br />
stira con l’indice i capelli ricci.<br />
*<br />
Mordicchia con morbosa morbidezza<br />
la carne intorno al collo, un poco scura<br />
la pelle del prepuzio. S’accarezza<br />
le spalle, fuori di sé dalla gioia.<br />
La testa turgida del glande, dura,<br />
ingoia. Gode. Sembra poi che muoia.<br />
137
Restano immobili, quasi dipinti.<br />
Vesti gualcite di due corpi avvinti.<br />
*<br />
Il volto in mille stille<br />
- rugiadosa, umidetta -<br />
s’incipria e inrossetta<br />
fa toeletta con perle e il maquillage,<br />
lei, negli spogliatoi della palestra<br />
tra i phon e la finestra.<br />
*<br />
A sera, in un condominio, lasciva<br />
un’universitaria, sul divano<br />
a fiori, bionda, si stende passiva.<br />
Lo prende un poco ovunque,<br />
verginella di un romanzo sadiano -<br />
fino a venire al dunque.<br />
Fuma sigarette. La saloppette<br />
si sfila e succhia il succo che poi cola<br />
su mani e labbra strette,<br />
giù, scorrendogli caldo nella gola.<br />
*<br />
Col musino carino, i lineamenti<br />
marcati, ma cortesi,<br />
mostra rosati i labbri, le sue lenti<br />
da sole, a due intenti<br />
tatuati uomini che in sforzi tesi<br />
gli vengono sui denti<br />
e sulla montatura<br />
da segretaria - cerbiatta sparuta -<br />
negli occhi. Trattenuta<br />
s’accarezza, creatura che ha paura.<br />
*<br />
Brillano braccialetti<br />
e gioielli d’oro e d’argento,<br />
legati alla caviglia<br />
e al polso un poco stretti.<br />
Scivola a terra l’ultimo indumento:<br />
l’accappatoio bianco di ciniglia.<br />
Ninfa moderna, fina<br />
modella, figurina alabastrina.<br />
Notizia.<br />
Tommaso Lisa (Firenze, 1977). Esordisce nell’antologia Ottavo quaderno di poesia italiana<br />
contemporanea (a cura di Franco Buffoni, Milano, Marcos y Marcos, 2004), pubblicando poi, in volume,<br />
Pornopoemi (Arezzo, Zona, 2004 con allegato CD del gruppo fonografico Rapsodi) e rebis.periferiche<br />
(Pordenone, Old Europa Cafe, 2005, con allegato CD Reset) realizzato in collaborazione con l’ingegnere<br />
del suono Bad Sector. Dopo aver coordinato la rivista letteraria “L’Apostrofo” (Firenze, Chegai, 2001-<br />
2004) dirige adesso, assieme ad Alessandro Raveggi, il progetto multimediale “Re;” (www.revista.org).<br />
Dottore di ricerca in lettere con una tesi dal titolo La poetica dell’oggetto da Anceschi ai Novissimi. Tra le<br />
sue pubblicazioni critiche Scritture del riconoscimento. Su Ora serrata retinae di Valerio Magrelli (Roma,<br />
Bulzoni, 2004); Poetiche contemporanee. Colloqui con dieci poeti (Arezzo, Zona, 2006); Pretesti<br />
ecfrastici. Edoardo Sanguineti e alcuni artisti italiani. Con un’intervista inedita (a cura di Tommaso Lisa,<br />
Firenze, SEF, 2004). Altri suoi saggi e poesie sono uscite su riviste (“Semicerchio”, “Nuovi Argomenti”, “il<br />
verri”).<br />
138
Da NUN: 1,6,7 (I),<br />
gennaio-febbraio 2003<br />
1<br />
die leere Mitte, Paul, dov’è?<br />
dove ti sto cercando,<br />
per l’ora della tua morte,<br />
dans l’eau, dir folgend,<br />
Phlebas<br />
6<br />
1.<br />
ritorna ciò che rimane,<br />
ritorna<br />
inaridito d’ossido,<br />
non come,<br />
non concavo,<br />
solo parole andate,<br />
che rimangono,<br />
a fare piaghe,<br />
una dopo l’altra,<br />
lamina frangia intaglio,<br />
a fare un corpo nuovo,<br />
fatto di piaghe, fitte,<br />
una accanto all’altra,<br />
parole piaghe,<br />
parole vere non più vere,<br />
parola tace,<br />
taci<br />
taci<br />
2.<br />
ti vorrei nome, nome<br />
ti vorrei cosa, cosa<br />
vorrei sapere<br />
e non sapere<br />
senza parole<br />
senza più parole<br />
3.<br />
ogni non dire,<br />
che non tace,<br />
vortice, voragine<br />
non c’è<br />
non cessa<br />
silenzio che sia silenzio,<br />
che sia silenzio<br />
139
4.<br />
[ ardere, dando ]<br />
mai soltanto il bene<br />
per ogni gesto,<br />
un gesto non compiuto<br />
[ ogni ricordo il non ricordo,<br />
ogni rammendo scuce ]<br />
5.<br />
parole preme,<br />
non sa,<br />
parole preme, e taglia,<br />
e poi fa la premura,<br />
s’accoda, si strascica,<br />
per fare nenia, ninnolo<br />
parole fine, mai<br />
6.<br />
taglia la mano monca<br />
ancora<br />
parola preme<br />
memoria che fa premura,<br />
taglia<br />
l’ultimo nervo che ha memoria,<br />
e preme<br />
[ tàgliati via da qui, da solo ]<br />
7<br />
1.<br />
molto, per molto che sia,<br />
si fa silenzio,<br />
fa silenzio<br />
[ il sempre, che rimarrà,<br />
che sarà sempre troppo,<br />
parole, troppe,<br />
tutte le non taciute,<br />
parola tace, taci,<br />
taci ]<br />
2.<br />
è tutto un distogliere lo sguardo<br />
per non guardare, ognuno,<br />
i nostri occhi ciechi<br />
140
3.<br />
non più parole scure?<br />
non più<br />
né mai<br />
solo chi guarda vede<br />
[ tienigli stretta la sua mano,<br />
portalo, piccolo figlio tuo,<br />
il tuo accecato ]<br />
4.<br />
portami cieco, cieca<br />
[ chiuditi gli occhi,<br />
tutti i tuoi occhi ciechi ]<br />
[ come, sempre,<br />
come se fosse<br />
[ come una luce grande,<br />
quando arriva, nell’ora,<br />
luce di luce<br />
luce di luce<br />
5.<br />
stare nell’ombra<br />
come una luce spenta<br />
non come<br />
non più lasciare che divenga,<br />
che ti divenga scura,<br />
la tua luce<br />
6.<br />
è tutto un fuoco di fuliggine?<br />
[ tre sillabe fredde, Arnaut,<br />
sopra tre suoni uguali –<br />
mai –<br />
non si ripete mai ]<br />
7.<br />
vita che ti è segreta,<br />
che sarà sempre,<br />
finché<br />
[ uno schiocco di lingua,<br />
uno scroscio, un crepitare –<br />
crepita adesso, ancora,<br />
ricopriti di crepe, di voragini,<br />
di luci<br />
non è vuoto ]<br />
141
*<br />
da NUN: 1,6,7 (II),<br />
gennaio-luglio 2003<br />
1<br />
[ légami a un legno di naufragio ]<br />
[ arenante ]<br />
[ arenami nella tua rena ]<br />
[ tremante ]<br />
6<br />
1.<br />
[ apri, sperduto ]<br />
darti non più che un non andare,<br />
stare che non rimane<br />
[ stessa radice sterrata,<br />
stessa come la tua,<br />
senza pietà<br />
del non restare mai ]<br />
2.<br />
così, attraversando<br />
[ così,<br />
guardandoti lontano, da lontano,<br />
come ti guarderebbe chi allontana –<br />
la vita che ti finisce,<br />
accanto, dentro ]<br />
3.<br />
[ chiudere, racchiudere ]<br />
fosse solerte,<br />
caterva del racchiudere<br />
[ chiuso nel chiuso,<br />
ripieno, ricolmo ]<br />
frange, fessure, no –<br />
crepe, crepitanti<br />
[ refoli, raffiche –<br />
tutto quel vuoto vento,<br />
intorno ]<br />
142
4.<br />
acredine,<br />
crespa, s’increspa<br />
[ come, non come ]<br />
[ ogni parola non taciuta ]<br />
5.<br />
[ avviene, s’avventa ]<br />
sì,<br />
così<br />
[ tronco ritorto,<br />
raschio di ruggine ]<br />
6.<br />
se ci sarà un silenzio nero<br />
[ portami cieco, cieca ]<br />
albe del non attendere,<br />
più<br />
mai più parole vere<br />
[ ti porterò del cibo, dei liquori,<br />
per riscaldare il corpo ]<br />
7<br />
1.<br />
[ non tornerà,<br />
né col silenzio<br />
né con le parole ]<br />
[ non hai vissuto,<br />
non l’hai vissuto tu ]<br />
2.<br />
che cosa rimarrà<br />
senza parole condivise?<br />
[ tatá, tatá,<br />
jusqu’à semer,<br />
tatá ]<br />
3.<br />
[ tracce ]<br />
tacciando il tempo<br />
di farsi livido<br />
come se tutto il tempo, dopo,<br />
a vendicare,<br />
a ribattere i colpi,<br />
143
uno a uno<br />
[ tá – tá,<br />
tátá ]<br />
4.<br />
[ nega la negazione,<br />
e basta –<br />
no,<br />
e no ]<br />
5.<br />
[ batti e ribatti,<br />
mentre non batte più,<br />
la sfilza di parole ]<br />
[ fa solo finta,<br />
fa solo effetto d’ombra,<br />
in ombra ]<br />
[ en esta hora, ahora,<br />
en esta sombra fría,<br />
sin sembrar ]<br />
6.<br />
ta croûte crevée, enfin,<br />
sans la blesser, encore –<br />
blessure brûlée de bruit,<br />
qui sera le froid<br />
de la foi perdue<br />
[ herida helada, ahora,<br />
y nada, nada ]<br />
7.<br />
[ siamo soltanto<br />
grumi di non pensiero,<br />
strenuamente incapaci di pietà ]<br />
[NdA. Questi motivi derivano dal testo d’incipit di nun (nyn), intitolato fuga tripla, e leggibile, adesso, sul sito curato<br />
da Gherardo Bortolotti, Alessandro Broggi, Marco Giovenale, Massimo Sannelli e Michele Zaffarano,<br />
gammm.blogsome.com.<br />
Fuga e motivi sono stati pubblicati insieme sul fascicolo 8-9/2005 della rivista “Trame”.]<br />
Notizia.<br />
Giuliano Mesa è nato nel 1957 a Salvaterra (Reggio Emilia). Ha pubblicato “Schedario” (1973-1977),<br />
Geiger, Torino, 1978 (nuova ed. e-book, Biagio Cepollaro Edizioni, 2005); “I loro scritti”, Quasar, Roma,<br />
1992; “Improvviso e dopo”, “Anterem”, Verona, 1997; “Quattro quaderni”, Zona, Lavagna, 2000. E’ tra i<br />
curatori del volume “àkusma. Forme della poesia contemporanea”, Metauro, Pesaro, 2000.<br />
144
La cellula abitacolare tocca le derive periferiche e va in oltranze.<br />
La sera avanza avanzi fino all’anello radiale in sottopasso dello svincolo<br />
dove lo sterzo gira miele concentrico in reimbocco<br />
lasciando ai retrovisori lingua pronuciata dai soli distributori.<br />
(Da “Multidispenser”, inedito, 2004)<br />
*<br />
# 1 # 2<br />
Racchiuso Locato Levigo dalla strada<br />
Perielio del perimetro per lato cancellato<br />
Luce zenithale Striscia mobile<br />
Fuggita Motile<br />
dentro angolatura Definitoria<br />
# 3<br />
Appartato entro<br />
la linea<br />
Trattenendo compressure<br />
nei fiati grigi<br />
(Da “Comparti”, inedito, 2004)<br />
*<br />
e l’oggetto<br />
Pressurizzando<br />
spiega ravvolto<br />
il cilindro cartonato<br />
(Da “perplexiglass” , inedito, 2005)<br />
impugnato srotolo<br />
verso città surgelo<br />
DOMOPAK<br />
145
*<br />
Start Noleggio 17 : 54<br />
Gli stessi gesti richiudono DVD.<br />
Lo stesso distacco rilascia resto.<br />
La stessa ricevuta dispiegata in banda lunga di carta.<br />
Transitanti transanti ad ogni ora intorno.<br />
Blockbuster prometti ritorno continuato<br />
fra tanti titoli disciolti dalla catena distributiva.<br />
Ricevuta Fiscale XAA 03279317 legge 30/12/91 n.413/D:M. 30/3/92 art.12 comma 1<br />
(Da “Blockbuster Tales”, audiotesto inedito per il video “Blockbuster Tapes”)<br />
*<br />
>MNT<<br />
La mantella impermeabile<br />
al centro della paninoteca<br />
si apre ad onduli<br />
e ripiega<br />
grazie all’esposizione temporanea<br />
dei soli astanti /agenti<br />
e svanisce<br />
nell’icona protetta della loro assenza<br />
(Da “Non Luoghi a Procedere”, Scrittura Creativa Edizioni, 2003)<br />
*<br />
Fari<br />
Accesi per la gran serata.<br />
Nessun altro abbaglio.<br />
146
Comunichiamo la nostra apparenza.<br />
Abbagliante.<br />
Intanto le luci di posizione<br />
possono essere utili<br />
per entrare<br />
nel management dirigenziale della<br />
Bosch.<br />
Le convochiamo.<br />
(Da “autobiografie” testo per performance eseguito nel Museo Bonfanti Vimar di Ezzelino Romano (Vi),<br />
Dicembre 2005)<br />
*<br />
Interi faldoni di riviste di moda nella spazzatura.<br />
L’immagine della bellezza della modella Armani trova ironico rifiuto.<br />
Fotografo questa dissoluzione contemporanea della merce effimera.<br />
All’interno delle pensiline la vernice ha composto segni rossi<br />
con la struttura a cerchio dei sostegni.<br />
Una deturpazione alla Mirò.<br />
Al sollevarsi gracchiante dei corvi la terra rimane libera e fresca.<br />
L’intelaiatura vuota del cartellone pubblicitario autoinquadra il distributore<br />
ed è una offerta visiva già impostata all’obbiettivo.<br />
L’aria intaglia bene la pubblicità attigua che si rivela in questo autospazio<br />
dell’immagine.<br />
Un punto perno fra corpo ed orizzonte il muretto sbrecciato.<br />
Un diramatore naturale della prospettica.<br />
Al centro fra la ghiaia ed il verde.<br />
Le transenne sono dei filtri metallici stabili e provvisori<br />
riescono a tagliare la strada e depositano uno spessore millimetrico.<br />
Una pausa che aggiro intorno alla loro argentatura fredda.<br />
(Da “Photoazioni”, testi ricostruiti dopo lo scatto fotografico, 2004 -2006)<br />
Notizia.<br />
Alberto Mori è nato a Crema (Cr) nel 1962, dove vive e risiede. Dal 1986 pubblica libri di poesia. Scrive<br />
saggi di poesia e d’arte, racconti, prose. Effettua readings, installazioni,letture pubbliche, video e<br />
performance. Collabora a progetti d’interazione della poesia con tutte le espressioni artistiche. È tra i<br />
membri fondatori del Circolo Poetico Correnti che dal 1995 opera nella riflessione, incontro, divulgazione<br />
della poesia (www.correnti.org). Tra le pubblicazioni più recenti: “Iperpoesie”(1997) “Percezione”<br />
(2000), per Multimedia Edizioni; “Cellule”(2001), “Raccordanze” (2004) per Cierre Grafica; “Urbanità”<br />
(2001), “Non Luoghi a Procedere” (2003); “Utópos” (2005), per Scrittura Creativa Edizioni; “Suonetti”,<br />
Alla Pasticceria del Pesce (2006). Nel novembre del 2001 “Iperpoesie” per Save As Edicion e nel mese<br />
di agosto 2006 “Utópos “ per Emboscall (Collana Peccata Minuta) sono stati tradotti in Spagna. È<br />
presente nelle antologie di poesia: “Poesia in Azione” (49esima Biennale di Venezia - Milanocosa 2002),<br />
“Ditelo con i fiori” (Zanetto Editore 2003), “Gates “ (Antologia on line - Fondazione d’Ars - Biennale di<br />
Parigi 2003), “Diversi” (Dialogo Libri 2004), “L’Isola dei poeti” (Antologia on line – Repubblica.it –<br />
51esima biennale di Venezia 2005), “Il segreto delle fragole” – poetico diario 2006 - ( <strong>LietoColle</strong> 2005),<br />
“Il mare “ (Ferrari Editore 2006) E mail albmor3@tin.it; sito web www.albertomoripoeta.com.<br />
147
Sotto il platano di Saban<br />
*<br />
entrando più nel vivo<br />
di un’ombra che fa da scalo<br />
alle orecchie dei più pazienti<br />
e avendo in custodia<br />
un silenzio ospitato<br />
di cinquecento anni<br />
Saban è il personaggio<br />
più omesso di Mandraki;<br />
lui, un ometto quasi cieco<br />
mentre spazza e riordina<br />
il giardino dei suoi affetti<br />
parlando di persona<br />
a ogni direzione umana<br />
*<br />
Saban attende<br />
il resoconto illuminato<br />
dalla storia<br />
almeno dal ‘45<br />
del secolo scorso<br />
e fuma di continuo<br />
alla moschea<br />
di Murad Reis<br />
e al mausoleo<br />
di cui è custode –<br />
lui vive nella casa<br />
di fronte al cimitero<br />
degli ufficiali turchi<br />
(tra i calcinacci sparsi<br />
o ammassati per tutta l’area)<br />
alla cui vista è compreso<br />
un grande platano<br />
di centinaia d’anni<br />
al centro del giardino<br />
di cui Saban si dice fiero<br />
*<br />
il ragazzo volante<br />
non potevo che aspirare<br />
a una copertura di silenti<br />
messaggi da casa,<br />
tutto era previsto affinché<br />
l’enunciatore salvasse<br />
le sue colpe… –<br />
se dei cinque sono<br />
il meno leggero<br />
è per via della stanza<br />
cela bouge encore dans la chair<br />
[…]<br />
chair d’ombre tel un fruit ouvert<br />
(Lorand Gaspar)<br />
148
che mi ha tenuto a contatto<br />
ai miei fratelli più grandi,<br />
senza il minimo tratto<br />
di sbocco solare,<br />
senza una finestrella<br />
sull’acqua dei morti<br />
a scaricargli il respiro<br />
e una parola di troppo<br />
o una parola di meno<br />
a ogni confronto<br />
*<br />
con un po’ di ristoro<br />
nel cicaleccio assordante<br />
e una valle colma di uliveti<br />
e con un po’ di pace<br />
al nostro meritato riposo<br />
ora la vista marcia<br />
alla larga dall’acqua nera,<br />
dalla palude, dall’acquitrino,<br />
per una legge di somiglianza;<br />
cerca l’oasi limpida<br />
di acqua da risveglio,<br />
al posto dell’idea<br />
di acqua illimpidita<br />
cerca l’alternanza<br />
in un frutto caduto<br />
sul versante dell’ombra,<br />
è ombra senza conquista<br />
la sua lingua<br />
*<br />
come l’angelo malinconico<br />
dell’incisore ripongo in custodia<br />
la censura sul bene più grande –<br />
lascio un attimo morire<br />
quella sfilza di parole fluenti<br />
dopo una settimana di mutismo<br />
quando la bocca è piena d’acqua –<br />
e avanzo a suturare nello spazio<br />
della mia ombra le bende<br />
del cieco di Urfa<br />
traghettando voci dall’interno<br />
fino al massimo di luce sopportabile<br />
*<br />
favola al caravanserraglio<br />
dalla terra data alle mie spalle<br />
lascio andare il cuore a perdersi<br />
oltre quel confine disabitato,<br />
come la nave dopo l’incendio;<br />
di tanto in tanto arriva un cavaliere<br />
armato al serraglio di uno stormo<br />
di gente chiusa tra le mura<br />
(corrono i più giovani ad aprirgli<br />
lo spiraglio, quelli più desiderosi<br />
di sapere dietro l’ombra del deserto<br />
come va quell’altro mondo) –<br />
e bivacca con la sua storia<br />
e gli occhi brillano alla luna<br />
e i presenti ascoltano impietriti<br />
149
il racconto dell’uomo affamato.<br />
Ma il cuore dei più svegli<br />
cade a fare centro nel braciere<br />
passata l’ora della mezzanotte<br />
e non tiene il passo di chi recupera<br />
il riposo. Qui la voce si disperde<br />
nel lampo assoggettato<br />
di chi perde la parola,<br />
nel cigolìo dello sbarramento<br />
notturno delle guardie<br />
*<br />
dalle teorie di un gesuita<br />
ha ragione il gesuita<br />
a criticare il gusto<br />
di una vittoria seducente,<br />
la scrittura di una lente<br />
personale e sotto il nome<br />
temporale di senso<br />
della storia.<br />
La storia non ha senso<br />
di apertura così vero<br />
e collaudato<br />
per un’anima morente<br />
nel visibile (non presta fede<br />
a questa compassione);<br />
un’anima semplice pensa<br />
a raccogliere i frutti<br />
di una vita germinata<br />
all’insaputa di tutto<br />
e resta dentro imprigionata<br />
all’amore più grande<br />
(pensa alla casa,<br />
a un tetto per la pioggia,<br />
ai soli istinti che conosce,<br />
non a fuggire il male!<br />
timidamente si affaccia<br />
sull’abisso di una lingua<br />
fatta di roveti, serpi,<br />
scempio e distruzione:<br />
sa che il mondo<br />
così immatura<br />
non la vuole<br />
né viva né morta)<br />
*<br />
Patmos<br />
dicono che sia qui<br />
la Pasqua un panegirico<br />
in cui ogni santo si smuove<br />
dal calendario ortodosso –<br />
e ogni uomo pieno<br />
di buon esempio<br />
e persino il più cocciuto<br />
dei miscredenti<br />
(e che i posti letto<br />
vadano a ruba<br />
e che sia inutile<br />
ogni prenotazione) –<br />
e che durante l’evento<br />
150
le spiagge siano deserte<br />
e le coste inascoltate<br />
come se il mare bagnasse<br />
le labbra di un muto<br />
*<br />
Maestro di contorsioni.<br />
Tal è Giorgio Caproni?<br />
(Giorgio Caproni)<br />
come in una natura<br />
eternamente incorruttibile<br />
(e peccando di infinita modestia)<br />
il maestro pensò di essere<br />
nell’oltre, in cui la grazia si misura<br />
all’ombra di un faggio,<br />
a tu per tu con Dio.<br />
E lasciò, giustamente, da parte<br />
il muro contro muro del sapiente<br />
per continuare dentro<br />
nella voce dell’umano<br />
anche dopo morto.<br />
E ai suoi fruitori, morendo,<br />
ricordò<br />
come la rosa perfetta<br />
e impronunciabile<br />
fosse soltanto quella<br />
dei suoi cari.<br />
*<br />
Epitaffio dell’uno (in forma di testamento)<br />
a osare tanto,<br />
a esserne davvero capaci,<br />
lascio il vocativo vuoto<br />
ai miei compagni di viaggio<br />
incontrati ad Atene<br />
(all’architetto greco,<br />
all’inglese di nome Dixie,<br />
al canadese dell’Ontario<br />
e all’italo-americano),<br />
il tono azzerato dalla bocca<br />
e la lingua piallata in mezzo<br />
alla segatura di un taglialegna –<br />
lascio il bosco della riserva<br />
ai suoi animali (alla faina,<br />
al lupo, alle lucciole, al cinghiale),<br />
lascio il torrente fluire al suo corso<br />
e mi fisso nel regno dei confini<br />
come qualcuno a cui sia detto<br />
«rimani a fissare chi splende»<br />
Notizia.<br />
Luciano Neri è nato nel 1970 a Genova, dove vive e lavora. Si è laureato in Lettere Moderne con una tesi<br />
sulla drammaturgia di Luigi Squarzina.<br />
Ha pubblicato Dal cuore di Daguerre (Firenze, 2001), opera d’esordio, con prefazione di Mariella Bettarini.<br />
Suoi testi poetici sono apparsi su riviste quali «La Clessidra», «La Mosca di Milano», «Re:», «Nuovi<br />
Argomenti» e «Ciminiera», di cui è uno dei redattori. Collabora con «La Mosca di Milano».<br />
Si occupa, inoltre, di organizzazione e promozione culturale e nel 2004 ha curato la rassegna Succursale<br />
Mare, sul tema dell’immagine nelle arti, con l’intervento di filosofi, critici e poeti italiani.<br />
151
3.<br />
Nel corso delle azioni del cipresso<br />
(il parapiglia delle sospensioni…)<br />
sovrapposti cielo e terra<br />
i parametri di nessun sacro<br />
sono da indossare:<br />
eremitaggio ennesimo il senza volto<br />
quando di guardia il calice notturno<br />
(raucedine di sale)<br />
neppure lindissimo l’infante<br />
spauracchio della preghiera<br />
arenata in un manipolo di chiodi.<br />
°°°°°<br />
°°°°°<br />
°°°°°<br />
18.<br />
La luce dell’ottobre sulla porta<br />
dell’appartamento breve del breve<br />
e breve con molte mandate l’antico<br />
chiavistello la provvidenza senza<br />
decoro il coro delle polveri<br />
di essere stati tristi di verissimi<br />
comandi di bulbo il buontempone<br />
nascere. E scenda la dacia del<br />
poeta in corda lungo le mosse<br />
di ballerini di gioia, le dì gioiose<br />
stanze.<br />
°°°°°<br />
°°°°°<br />
°°°°°<br />
37.<br />
Le luci avariate dell’ancora rito<br />
babele a zampe all’aria<br />
rupe del rantolo<br />
scalea del liso leso principe.<br />
Il cordiglio del sale<br />
fratello del cartoccio<br />
gemello del cencio<br />
così stremata perdita<br />
ciocca a ciocca d’amen<br />
arpa del plettro d’unghie<br />
gli addii di nodi di dita.<br />
°°°°°<br />
°°°°°<br />
°°°°°<br />
48.<br />
E’ passata la cialda del cristallo<br />
quando dal corpo prometteva amore<br />
la fola del credo dato allo sguardo.<br />
La novità del chiosco non scommette<br />
di darti un sorriso dalla vitalità<br />
del tetro alla maniglia metropolitana,<br />
una libellula di notizia<br />
lustro all’asola che sfilaccia<br />
tutto il cappotto preso per cilecca<br />
di pane. Sola rendita una cosa<br />
fioca fioca senza accessori<br />
152
nei pesi di guerre in fondo all’apice<br />
di tasche, schemi di lapidi.<br />
°°°°°<br />
°°°°°<br />
°°°°°<br />
51.<br />
Sorprese del pane nero<br />
sorprese del fuoco fatuo<br />
indici interni calici al gerundio<br />
di un solo turno<br />
le divisioni del muschio.<br />
Romba la fune ancora la bellezza<br />
del tira e molla le radici strenue<br />
nulle del basto nello stordimento<br />
in tale bruma di sovrana teca.<br />
°°°°°<br />
°°°°°<br />
°°°°°<br />
52.<br />
Il presidio dell’anno è farsi coccio<br />
cenerentola del seme mai giammai<br />
pacifico fiume coro di oche<br />
chete di felicità.<br />
Gl’intrecci delle palafitte<br />
le latitanze miserande quando si crede<br />
di tagliare i dispacci del boia<br />
per le caviglie marine delle viti<br />
rosse aureole di trasparenti<br />
abbracci.<br />
°°°°°<br />
°°°°°<br />
°°°°°<br />
82.<br />
Esploso su una mina per gioco<br />
nemmeno il convettore del gelo<br />
nessuna nessuna risposta.<br />
Il basto dell’ecumene spense la tua<br />
cenere nell’aria satura. Rise ancora<br />
ride oltre il più che blasfemo motto<br />
del mondo. Tua madre è di nuovo<br />
incinta perché è solo una donna<br />
nata per farsi cingere<br />
gerla di lavagna senza petulanza<br />
da maestra né statura d’impronta.<br />
°°°°°<br />
°°°°°<br />
°°°°°<br />
90.<br />
Apparenze di nomi<br />
da casati di abbandoni<br />
fosti solo, solo resina d’artifizi<br />
sulle punte secche di rami<br />
di abeti natalizi lenti alla<br />
condanna, silvano al vano<br />
beffa di brezza. Se i bambini vivono<br />
ti fanno girotondo e tu in panne<br />
sembri arrossire… Sire di lucore<br />
153
al bosco che ti sconfisse.<br />
°°°°°<br />
°°°°°<br />
°°°°°<br />
91.<br />
Tarlo di vento il tuo ventaglio<br />
(in pompa magna le esistenze d’altri).<br />
Le preghiere, le preghiere<br />
faccenduole che non riguardano<br />
né il duolo né la foce.<br />
Comunque gendarme lo sguardo,<br />
l’origine sobbalza nel mallo<br />
da mangiare nel natale della fine.<br />
°°°°°<br />
°°°°°<br />
°°°°°<br />
94.<br />
Arsione dello stento<br />
la cornucopia del crepacuore.<br />
In pace con le conserve = serve delle muffe<br />
così il parrucchiere<br />
robusto alla parola senza storia.<br />
Il mulino d’ieri perno alla barzelletta<br />
d’oggi per il pane vieto.<br />
A tutto stato l’orrido disappunto<br />
degli appunti che gemmano risacche<br />
scheletri d’alunni sfatti filosofi.<br />
L’andirivieni delle stimmate<br />
nessun proletariato d’angelo né santo.<br />
°°°°°<br />
°°°°°<br />
°°°°°<br />
[Marina Pizzi, da Sorprese del pane nero, inedito]<br />
Notizia.<br />
Marina Pizzi è nata a Roma, dove vive, il 5-5-55. Ha pubblicato i libri di poesia: Il giornale dell'esule<br />
(Crocetti 1986), Gli angioli patrioti (ivi 1988), Acquerugiole (ivi 1990), Darsene il respiro (Fondazione<br />
Corrente 1993), La devozione di stare (Anterem 1994), Le arsure (<strong>LietoColle</strong> 2004). Raccolte inedite in<br />
carta rintracciabili sul Web: La passione della fine, Intimità delle lontananze, Dissesti per il tramonto, Una<br />
camera di conforto, Sconforti di consorte, Brindisi e cipressi, Sorprese del pane nero, Il poemetto L'alba<br />
del penitenziario. Il penitenziario dell'alba; le plaquette L'impresario reo (Tam Tam 1985) e Un cartone<br />
per la notte (edizione fuori commercio a cura di Fabrizio Mugnaini, 1998); Le giostre del delta (foglio fuori<br />
commercio a cura di Elio Grasso nella collezione “Sagittario” 2004). Suoi versi sono presenti in riviste,<br />
antologie e in alcuni siti web di poesia e letteratura. Si sono interessati al suo lavoro, tra gli altri, Pier<br />
Vincenzo Mengaldo, Luca Canali, Giuliano Gramigna. Nel 2004 la rivista di poesia on line “Vico Acitillo 124<br />
– Poetry Wave” l’ha nominata poeta dell’anno. Marina Pizzi fa parte del comitato di redazione della rivista<br />
"Poesia".<br />
154
SETTE POESIE<br />
È una nuvola la tartaruga volante<br />
che gratta la pancia sulle cime di pietra<br />
e dietro di esse affonda andando alla deriva<br />
poi si disfa nel vuoto del cielo<br />
come un nastro attirato dal sole<br />
che tramontando lascia sopra di sé<br />
un’aura metallica<br />
affondata nell’atmosfera<br />
che benda senza suono tutta l’umanità,<br />
i miei occhi ricordano quella cecità<br />
della sofferenza più nera<br />
davanti a tutto ciò che non è umano,<br />
i miei occhi non possono più vedere,<br />
ora, però, ascoltano. I miei occhi<br />
come richiami di uccelli muti<br />
lasciano questa terra,<br />
e senza respiro<br />
chiedono all’universo<br />
quella luce di fotoni<br />
che non potranno mai restituire.<br />
*<br />
Com’è possibile, ch’io pensi ora<br />
al torrido e lento amore di primavera,<br />
spettro più forte dello spettro stesso.<br />
E le fioriture contro la roccia nera<br />
si schiacciano prive di quel pensiero.<br />
Sento paralizzarsi ogni fiore,<br />
è la primavera della mente,<br />
una scossa muta in un sonno eterno.<br />
*<br />
I<br />
Qui<br />
mentre la stelle colpiscono l’occhio come spari di santità<br />
l’occhio è assente:<br />
Quanti anni sono nascosti in quanti anni?<br />
In questo libro la sabbia di quel deserto.<br />
Ho letto quel libro quante volte?<br />
E adesso sta lì,<br />
la mia prima anima è lì,<br />
e la mia anima sopravvive.<br />
II<br />
Anche le stelle sospinge<br />
l’onda dell’universo<br />
portata sul mio volto<br />
e brucia il deserto della ferita.<br />
Quel giorno è ormai puro<br />
e indecifrabile.<br />
Sotto la mia mano distesa<br />
puoi dire il nome di quel pianeta<br />
dove l’acqua metallica<br />
155
è bianca e invulnerabile?<br />
III<br />
Come se fossi morto<br />
il sangue riposa al buio<br />
sulla mia lingua.<br />
Intorno a me<br />
la vastità si sposa come una grande macina.<br />
Sarà spogliato come una luce divina<br />
questo amore<br />
sulla pietra.<br />
Del mio volto porterò via con me il riflesso<br />
dal vuoto dell’universo<br />
inventando tutto di me.<br />
*<br />
Del mio mondo io salvo soltanto<br />
i colori diafani di una pianta dimenticata<br />
e la precisione là dove ogni volto è preciso.<br />
Questo è il mondo, è il tempo<br />
che vede per primo la natura fredda del cosmo,<br />
e le stelle tagliano la mia mente<br />
là dove esso appare. Perso è per sempre<br />
quel mondo, ascolto però in silenzio<br />
il divenire che genera così l’universo.<br />
*<br />
Non altro<br />
che vicino a lui fino a oggi,<br />
ma quando, mentre muore,<br />
per forza d’infinito<br />
con la morte ha fine l’eternità,<br />
ho sentito il sangue cercare<br />
come fuoco<br />
la parola.<br />
Vedo senza tristezza bruciare<br />
l’identità portata<br />
da me senza fatica<br />
con l’anima dura d’universo, qui,<br />
in un fuoco ignoto che la separa.<br />
La morte distrutta nel mondo,<br />
si ferma,<br />
e tutto di me si ferma<br />
per il tempo della vita,<br />
prima di questo universo<br />
e di questo testo<br />
che lo compone<br />
senza mondo,<br />
e io migro in questa scrittura.<br />
Calmo, nel vuoto dell’universo,<br />
nel vuoto del sole,<br />
il poeta lascia<br />
la poesia<br />
nello spazio di quella luce.<br />
156
*<br />
Ora, tu sei la<br />
pietra nella tua<br />
gola, amore,<br />
nell’universo,<br />
se così ha inizio.<br />
Puoi essere tu<br />
lacrima infine<br />
che parli per me<br />
che leggi per me<br />
versi di canto.<br />
L’universo è<br />
duro sulla tua<br />
lingua mentre<br />
chiude i suoi occhi<br />
per sempre, qui.<br />
Fermo, io sono<br />
il suono che esplora<br />
nella tua bocca<br />
il sangue muto<br />
che lì rimane.<br />
*<br />
Ancora è senza peso su di me la neve se<br />
si avvicinano al mio orecchio le stelle<br />
e lo strazio dell’oro davanti a me<br />
se così bevi il sole con ciò che è scritto<br />
ai confini del sospiro più violento<br />
e segui ciò che fugge dalle mie mani<br />
se io ti seguo davanti all’universo.<br />
Il tuo corpo si annoda come un animale<br />
e i tuoi occhi sono onde che si afferrano a tutto<br />
foglie verdi esplose nel vuoto<br />
vibrazione del sole,<br />
mi abbatto come un albero dentro la tua bocca,<br />
la luce è ferma, riposa, allora<br />
guarda, da ora guardo ogni mio cambiamento se<br />
tutto questo accade.<br />
Notizia.<br />
Jacopo Ricciardi è nato a Roma nel 1976. È ideatore e curatore del progetto culturale PlayOn per gli<br />
Aeroporti di Roma (ADR). Dirige la collana PlayOn presso la Libri Scheiwiller. Ha pubblicato un romanzo:<br />
Will (Capanotto, 1997), e sei libri di poesia: Intermezzo IV (Campanotto, 1998), Ataraxia (Manni, 2000),<br />
Scultura (Exit Edizioni, 2002), Poesie della non morte (Libri Scheiwiller, 2003), Colosseo (Anterem<br />
Edizioni, 2004), Plastico (Il Melangolo, 2006).<br />
Ha vinto il premio Under 25 San Vito al Tagliamento nel 2000, il premio Lorenzo Montano per l’inedito nel<br />
2004 e ha ricevuto il premio speciale della giuria al Lerici Pea nel 2005.<br />
157
Erano mattoni quelli che tramutati in pane davano<br />
Vita alle allucinazioni operaie e dalle pattumiere metalliche<br />
Del cielo avanzavano armate rosse<br />
E si vedevano bene le cose passate<br />
- strane forme di mattoni in serie -<br />
Differenti stock di mattoni in luce<br />
*<br />
Allineati al secolo nostro non si sfregano piu’ né fanno muro<br />
vedo il campo nel quale franarono e vedo la storta<br />
Figura che feci al divieto di caricarli sulle spalle<br />
Come insegnavano i santi di casa mia<br />
- vedo il finale - e non so decifrare nessun segno di dissidenza<br />
Sui muri<br />
*<br />
Anno ottanta<br />
Bile, birra et oro barilla<br />
flusso economico dei padri<br />
che non si arresta nemmeno sotto<br />
bombaday", neanche in " yesterday"<br />
che non si traduce non è parola<br />
*<br />
Avviene che il futuro passi per errore<br />
(che) le vittime se ne vadano innocenti<br />
Verso altri agguati e le stragi si somiglino<br />
Tutte e le riconosci dai rumori fatti una volta andate<br />
E certo che in quegli anni di peste e smeraldo<br />
Se ne andavano davvero le generazioni dai fonemi<br />
lucenti<br />
*<br />
In altre città, non in questa, gli auricolari producono<br />
Dolce insonnia, in altre città si ascoltano anche le prediche<br />
- non danno alla testa -<br />
la parola non resta fedele alla "parola data"<br />
l’inconscio, in altre città, non in questa,<br />
è olio e si passa ancora bene "un’ora d’amore"<br />
in altre città, non in questa, le armi, deposte,<br />
programmate per il disuso, sulle storte facce dei potenti<br />
"non ci avranno mai"<br />
In altre città non ci hanno mai avuti<br />
*<br />
Le donne nell’età del neon preparavano le prime fiale celesti<br />
con apprensione e senso del dovere<br />
splendenti, assolte dalle colpe delle madri<br />
assorte nel corpo dei giovani padri<br />
assortite nelle vendite dei rigeneratori e dei produttori di ruoli<br />
belle, volpi nei giardini reali, quasi intatte all’alba.<br />
La madre in anni neon scelse di non generare più<br />
se non tra bestie addomesticate e schive e che<br />
generò il multiplo dell’enigma<br />
(fece il bambino direttamente con il suo destino)<br />
(frammenti da "Anno ottanta, la terra del neon", inedito, 2006)<br />
158
*<br />
La terra di neon è tenera e insidiosa<br />
Disastrosa per le menti colte da amore nuovo e disordinato<br />
Al margine di ogni strada si trova una banca diroccata<br />
Al centro della terra una casa con tante consuetudini e shopping<br />
All’aperto, nessun bacio, scomparse le regole dell’incontro<br />
Solo i vecchi amanti trasgrediscono e resistono<br />
Al sole con i panni dello stereotipo stesi ad asciugare<br />
Eppure d’un’inventiva senza precedenti si ragionava<br />
(frammento da "La terra del neon o del perduto amor", inedito, 2006)<br />
*<br />
Resta fino a dissuaderci da morte l'anima nostra<br />
Resta da sola senz' altro paesaggio al<br />
Cioccolato/ resta/<br />
Da sola infinitesimale progresso verso la luna resta<br />
L'una o l'altra delle anime morte e se ne torna in<br />
Vita e resta<br />
Fino a dissuaderci da morte l'anima nostra resta<br />
contraria al corpo<br />
Per infinitesimale scarto per un voto lasciato nullo<br />
resta<br />
Al testo aderente.<br />
*<br />
Una società perfetta coppie a digiuno di massa<br />
coppie perfette fedeli all'acero azzurro delle<br />
cliniche new age moscerini perversi tanto platino per<br />
gioielli su misura materia e antimateria e così si<br />
procede.<br />
*<br />
Fatti fummo per essere al neon assuefatti occhio per occhio<br />
Digitale celeste anno del dragone fatti fummo per<br />
essere consumati<br />
Eravamo i cigni del decennio Ottanta e fatti fummo di fumo<br />
Per vivere di pillole e gas<br />
quando demi moore nasceva<br />
Il Neon arricchiva i potenti della terra e come le<br />
mele stavamo e come i fumetti sottosopra e le bestie splendevano<br />
placide<br />
E nessuno superava il limite di velocità né su<br />
autostrada<br />
Né in guerra.<br />
Cronenberg ci salvò dalla potatura dell'inconscio.<br />
(frammenti da "Neon 80", inedito, 2006)<br />
*<br />
Per non rimanere indietro,<br />
per fare presto, la donna concepiva<br />
al Mac Donalds, alzando<br />
tutti i suoi averi<br />
al grado 0.<br />
Dicevano i consumatori che assistevano al parto<br />
è tutto consentito, lecito, permesso, e<br />
parlavano mentre si dissolveva l’esperienza del fatto<br />
in sé<br />
che non li riguardava e aggiungevano<br />
159
il fatto è di donnamoderna, la femmina è in piena,<br />
morbida, contemporanea e regolare privacy,<br />
e nella privacy si consumava tutto il fatto<br />
Solo - raccomandavano alcuni<br />
abitanti del quartiere accanto al M.D.<br />
"qui si prega… non eccedete col neon".<br />
*<br />
Controllavo che non ci fossero<br />
controindicazioni<br />
quando mi hai baciata<br />
per non dover interrompere la questione del rosa<br />
straordinario.<br />
Me lo ripetevi anche<br />
Il rosa straordinario si ricava dalla polvere di un<br />
tipo di muro<br />
che nel Rinascimento veniva chiamato il mai scavalcato<br />
e io aggiungevo che nel Medioevo con il rosa puro<br />
s’indicava<br />
il perdono.<br />
Nel postmoderno abbiamo superato in senso antiorario<br />
la questione del rosa strordinario.<br />
In poche parole non mi hai baciata più<br />
per "paura d’essere mangiato" o<br />
perché queste cose si fanno al buio<br />
oppure perché il rosa stinto sulle labbra<br />
sfumando nelle parole eccessive<br />
cancellò il bianco indispensabile<br />
e tutte le memorie labiali.<br />
(da "Rhum e acqua frizzante", Giulio Perrone Editore, 2005)<br />
Notizia.<br />
Lidia Riviello, nasce a Roma dove vive e lavora. Comincia nel 1995 ad occuparsi di scrittura giornalistica<br />
collaborando con testate letterarie e di cultura come "Italian Poetry", rivista on line di poesia bilingue<br />
italiano/inglese e il settimanale "Avvenimenti". Parallelamente alle collaborazioni con riviste e giornali,<br />
inizia dal 1998 a collaborare come autrice testi per Radiorai; per Radiorai Tre per cui cura rubriche di<br />
poesia nel palinsesto serale di "Radiotresuite", per Radiodue scrivendo editoriali all’interno di programmi<br />
in fascia pomeridiana. La sua prima pubblicazione in volume risale al 1998 con "Aule di passaggio" poesie<br />
in prosa ediz. Noubs, nel 2001 esce "La metropolitana" poesie, ediz. Signum, Bergamo 2001; nel 2002<br />
"L’infinito del verbo andare" racconti, per Arlem editore, (nota introduttiva di Edith Bruck,) e nel 2005<br />
pubblica "Rhum e acqua frizzante" ( poesie, G.Perrone editore, con nota di Carla Vasio. Sue poesie e<br />
racconti sono tradotte in inglese, arabo, sloveno e giapponese. Interviste e recensioni sul suo lavoro sono<br />
apparse, tra le altre, sulle testate: "l’Unità","Pagine", "Marie Claire", "Stilos", "Avvenimenti", "Il<br />
Segnalibro", sulle riviste di letteratura multilingue "El Ghibli" e "Sagarana". Dall’ottobre del 2004 è<br />
curatrice del Festival internazionale di poesia, arti visive e musica Romapoesia Festival che si svolge da<br />
due anni all’Auditorium –Parco della Musica di Roma (www.romapoesia.it). Attualmente, cura e organizza<br />
eventi e festival internazionali di poesia e letteratura per il Comune e la Provincia di Roma e continua la<br />
collaborazione con Radiorai.<br />
160
Acqua e sapone negli occhi<br />
*<br />
Toccami<br />
con una canna aguzza,<br />
toccami con i guanti<br />
di gomma per i piatti.<br />
Toccami, che ti tocca,<br />
non sono cacca, tocca.<br />
Se prima non mi tocchi<br />
non so più andare via,<br />
tocca che non s’attacca<br />
la mia, di malattia.<br />
*<br />
In attesa dell’onda anomala delle 15.30<br />
Lei si legge l’oroscopo si scambia<br />
messaggini carini, fa il sudoku<br />
(a lei niente pertiene<br />
di questa apocalisse<br />
in un bicchiere d’acqua e nelle vene<br />
a lei niente ne viene)<br />
si controlla e si tocca<br />
per vedere se c’è<br />
ancora il suo sedere.<br />
Abbi pietà di noi<br />
nave superveloce per la Grecia<br />
di noi che ti preghiamo<br />
di passare d’urgenza in barba ai limiti<br />
di chiuderci nel gorgo<br />
(noi che non siamo a bordo) di strapparci<br />
gli asciugamani a nodi marinari<br />
via dalle mani.<br />
Prima della liquefazione,<br />
dello sgocciolamento del calippo,<br />
prima che le mie membra<br />
finiscano di spargersi di crema,<br />
prima del compimento<br />
dello smutandamento,<br />
al largo, l’acqua in bocca,<br />
portaci a un punto che non si tocca.<br />
Venga l’acqua<br />
alla gola<br />
che si sloga e si sgola<br />
Uno si trova messo così, qui<br />
a mezz’aria<br />
appeso a un peso<br />
nell’atto di levarsi<br />
con una pinza uno sfizio,<br />
vi scrivo dal fronte<br />
spizio<br />
161
che per ogni parola<br />
che dice si allaga.<br />
Annegherai i parei,<br />
gli infradito di prada<br />
e piangerà anche lei<br />
ma l’acqua farà sì che non si veda.<br />
Scrivo, con la pistola ad acqua,<br />
a spari sul bagnato,<br />
di profonde immersioni<br />
nelle proprie ferite<br />
fatte da uno che ha appena mangiato.<br />
Nuova forma di nuoto<br />
invoco<br />
verso il fondo,<br />
imploro la marea<br />
che mi nasconda<br />
e mi alzo mi abbasso faccio l’onda.<br />
*<br />
Silvan<br />
Segato in due.<br />
Ghigliottinato da lame affilatissime.<br />
Sparito.<br />
In un cerchio di fuoco, senza scarpe,<br />
svelando al primo colpo le mie carte<br />
storcevo un cucchiaino,<br />
l’orologio schiacciato in un pestello,<br />
con un buco vistoso nel calzino.<br />
Ti ho amato da una sedia<br />
in bilico, precario su uno zampo,<br />
risvegliandomi al tre<br />
io non in me.<br />
Ti ho amato in trance:<br />
un automa di coccio,<br />
ciaccio,<br />
che fa un’avance.<br />
*<br />
Cuore secco, di cretto,<br />
aride creste esplose in spaccature<br />
ramificate come in una storia<br />
o in una geografia di snervature.<br />
Lo spingi a fondo<br />
come ferma terra<br />
sperando che tenga,<br />
ti sbagli si sfonda.<br />
Io vo come colui ch’è fuor di vita,<br />
che pare, a chi lo sguarda, ch’omo sia<br />
fatto di rame o di pietra o di legno,<br />
che si conduca solo per maestria<br />
Cavalcanti<br />
162
*<br />
Di proprio pugno<br />
Mi scrivo una tua lettera<br />
finché dura la mano<br />
finché mi regge il pugno, finché stringe,<br />
finché so l’italiano.<br />
Come consolazione o per rivalsa<br />
mi scrivo una tua lettera<br />
falsa.<br />
Mi scrivo di mio pugno<br />
(la grafia non è mia)<br />
senza fare la brutta<br />
copia, senza bisogno<br />
di sprecare saliva<br />
per chiudere o affrancare.<br />
Mi scrivo una tua lettera.<br />
Poi te la faccio firmare.<br />
*<br />
Verace<br />
La verità va preparata bene<br />
che può sempre servire<br />
un pezzo un altro pezzo avanza un pezzo<br />
sembra che tutto funzioni per ora.<br />
Senti? Odoro di libri<br />
nuovi, di figurine,<br />
di tropical di puffo<br />
di trota salmonata<br />
di pancetta coppata.<br />
Odori non amari<br />
molto rari<br />
odori quasi veri<br />
quasi quasi.<br />
Sono un piccione tossico<br />
dall’intestino fragile<br />
sporco, da centro storico,<br />
acido grigio e gracile.<br />
Vivi tu la mia vita<br />
limane i bordi e i mali<br />
a me, la rara bestia,<br />
cui cresce il becco prima delle ali.<br />
Prendi il mio ruolo e questo<br />
posto da morto nato<br />
rendilo vivo e vero<br />
attore è l’anagramma di teatro.<br />
Avrei voluto avere<br />
lingua sottile per il dispiacere<br />
un tantino ricurva<br />
che mi serve per bere<br />
lingua che la sa lunga<br />
utile per tacere<br />
e non che sappia solo<br />
dare l’ombra ad un corpo<br />
trarre niente da cose.<br />
163
Margherita, poi Viola,<br />
reciti ancora una parte da fiore.<br />
Da petali secchi sai fare rose.<br />
[Per Lucia: Margherita del Maestro e Margherita, Rosalinda in Pene d’amor perduto e quasi Viola della XII<br />
notte.]<br />
*<br />
E’ arrivato l’inverno<br />
dall’interno<br />
con il suo vento sento<br />
che soffia da dentro.<br />
La tua mano che tocca da lontano<br />
me che divento un lento vento strano<br />
dal fiato corto<br />
che soffia invano.<br />
*<br />
La lana in casa<br />
sotto ai divani<br />
segno che senza<br />
calori umani<br />
la polvere si annoda su se stessa.<br />
Pieno che colma il vuoto<br />
tappo che attappa un buco<br />
lana nell’ombelico<br />
foglia come di fico<br />
e i grappoli di lana dei maglioni<br />
frutto<br />
d’attrito.<br />
Srotolando gomitoli<br />
si sperde ogni mio filo in doppi sensi<br />
(dentro cuscini insonni<br />
di lana a grumi densi).<br />
*<br />
Questa poesia non è<br />
per te né per nessuno<br />
non lascia alone<br />
ha l’aut. min. ric.<br />
non odora di chiuso<br />
e poi<br />
non si fa i fatti miei<br />
ha tutte le carte in regola<br />
è ochei.<br />
Questa poesia è bielastica<br />
può essere una esse<br />
o volendo un’ixelle,<br />
questa poesia si stende<br />
come una parte del corpo,<br />
una pelle.<br />
Questa poesia non quadra<br />
164
il cerchio casomai<br />
si acumina in un rombo,<br />
questa poesia non è<br />
per te che sparirai<br />
prima che tocchi il fondo.<br />
*<br />
Dallo spioncino<br />
Mi lascio questi occhi che ho<br />
per vedere le ombre all’orizzonte,<br />
dietro una lente rimpiccolente,<br />
di molta gente.<br />
Da questo buco<br />
ho visto i testimoni per esempio<br />
di geova le donne delle scale<br />
il messo iettatorio<br />
dell’amministratore condominiale.<br />
L’ex-tossico in realtà tutt’ora tossico<br />
cui devo un set magnifico<br />
di spugne per la casa<br />
all’aroma di pesce<br />
ho spiato pensando<br />
- esce o non esce? -.<br />
Da questo varco<br />
nella porta ci passa una scintilla<br />
nero pupilla.<br />
Ma provate a pensare<br />
a una schiena che trema familiare,<br />
ombra tra gli zerbini<br />
pericolante all’inizio delle scale,<br />
che va via in una bolla di vetro<br />
di quelle con dentro venezia o san pietro<br />
densa di un’aria unta, senza attrito.<br />
Appesa al corrimano<br />
convessa, senza fretta,<br />
noncurante della targhetta<br />
con scritto il mio cognome che si stacca.<br />
Souvenir deprivato<br />
di neve e di memoria<br />
a un palmo in linea d’aria<br />
di distanza illusoria.<br />
Dispersa nel viavai<br />
per sempre come al solito<br />
restando e un po’ viandando<br />
senza lasciapassare senza i visti<br />
al trotto a dirotto allo sbando<br />
in ritardo sui tempi imprevisti.<br />
Al riparo del chiuso<br />
la guardo come non si deve<br />
internato al sicuro<br />
dalla parte dove si vede.<br />
Ma provate a pensare<br />
come si contrae la vista<br />
di fronte a qualcosa che è troppo vicino<br />
provate a pensare<br />
alla condensa sullo spioncino.<br />
165
*<br />
Grasso<br />
Allegria. Allegria.<br />
Allè allè allè grrrrrrrrrrrrrrrrrrr-<br />
-ia.<br />
Riepilogando:<br />
serve il fluido glaciale<br />
(pazienza per i crampi) e le fialette<br />
puzzolenti:<br />
il massimo per spargere<br />
le rogne senza grane<br />
e il torciglion di merda<br />
col sonaglio, le caramelle<br />
mooolto ma molto buone<br />
all’aglio:<br />
succhiarle piano<br />
senza masticare<br />
per farsele durare<br />
e la scheggia di lana<br />
di vetro che si chiama<br />
la starnutina<br />
oppure il gratta-gratta,<br />
il meglio sul mercato per prodursi<br />
pruriti vari ai corpi.<br />
Le finte cincingomme<br />
le marlboro fasulle<br />
munite di tagliola<br />
che stacca una falange.<br />
Chiodo di gomma che strapassa un dito.<br />
Nel vario armamentario<br />
del circo dello strazio il requisito<br />
necessario è che spruzzi<br />
o dia la scossa<br />
ogni cosa.<br />
Carne professionale<br />
uno che si rialza<br />
che gli hanno dato un sacco<br />
di botte con la clava<br />
che ride e dice non<br />
mi sono fatto niente<br />
uno che si rialza<br />
uno che dice non<br />
uno che si riaggiusta<br />
si pettina si dà<br />
una spolveratina<br />
si pizzica le guance<br />
ritorna come prima<br />
uno che dice non<br />
mi sono fatto niente<br />
uno che dice non<br />
uno che dice niente<br />
166
siamo del carnevale<br />
del finto farsi male la ferita<br />
che maschera la piaga.<br />
*<br />
Chiaro che stiamo<br />
parlando non di noi.<br />
Forse nemmeno c’eri<br />
visto che non esisti,<br />
forse nemmeno c’ero<br />
-io?<br />
figurarsi.<br />
Notizia<br />
Luigi Socci, vive e lavora ad Ancona dove è nato nel 1966. Si è laureato in Lettere Moderne, ha<br />
pubblicato versi su riviste quali "Verso Dove", "Ciminiera" e, con una presentazione di A. Cortellessa, su<br />
"La scrittura". Una silloge di poesie di Socci, introdotta da Aldo Nove, è stata accolta in "Poesia<br />
contemporanea, Ottavo quaderno italiano", a cura di Franco Buffoni (Milano, 2004).<br />
167
I tradotti<br />
168
1<br />
felce contrista bacio<br />
che perde su lei il nome<br />
di fiore e la sua bara<br />
è in acqua sulla barca<br />
che porta molti morti<br />
lenta per uno vivo<br />
2<br />
perché cercavo il cuore in pieno nero<br />
gli occhi cristallo delle cose amate<br />
si cingono di me senza vedermi<br />
la loro oscurità è il vero amore<br />
dove ogni onda che sposa la notte<br />
nella mia vita si foggia un sorriso<br />
e così per i segni che ora inseguo<br />
la trasparenza abbia per impero<br />
la mia persona introdotta in se stessa<br />
3<br />
così ogni stella vede e vede piena<br />
la notte delle cime e a notte ali<br />
crea e il rumore che verrà qualcuno<br />
la Pietà stessa è il suo grande male<br />
e la persona svanisce a sua volta<br />
[da “La connaissance du soir”, 1945, traduzione di Massimo Sannelli]<br />
Notizia.<br />
Joë Bousquet nasce a Narbonne nel 1897. Dopo un'adolescenza difficile, segnata dalla droga, parte<br />
volontario per la guerra. Sul fronte dell'Aisne, il 27 maggio 1918, un proiettile gli spezza la spina dorsale.<br />
Paralizzato, vivrà coricato fino alla morte (1950). Nella camera di Carcassonne, dove si trasferisce nel<br />
1924, apprende il paziente esercizio della scrittura. Attraverso la poesia, l'amore e l'amicizia trasforma la<br />
propria ferita in un simbolo universale.<br />
Tra i suoi scritti in prosa e versi sono: Tradotto dal silenzio (Traduit du silence, 1936), La conoscenza<br />
della sera (La connaisance du soir, 1945), Il nocchiero di luna (Le meneur de lune, 1946), Le capitali (Les<br />
capitales, 1955), e numerosi inediti.<br />
169
Da “COLLEZIONE DI PRIMAVERA”<br />
Suhrkamp, 2002<br />
UCCELLI<br />
Gli uccelli, nel folto degli alberi,<br />
ammattiti. Pressione troppo alta<br />
nel corpicino animale,<br />
troppo alti i toni. Al nostro orecchio piacciono<br />
nel dormiveglia, senza destarci,<br />
i loro vocaboli,<br />
intraducibili eppure<br />
argomento da sermone.<br />
Ma amici, come me trovatelli,<br />
non c’illudiamo:<br />
intorno sparano.<br />
Sulla porta di casa non ancora,<br />
non ancora nei giardini di primavera,<br />
la testa sotto il casco<br />
dello stilista. D’altronde,<br />
a considerare con un po’ di distacco,<br />
ci attendono tempi duri,<br />
ventosi. Le porte che non tengono<br />
nelle baracche sociali,<br />
nero di stampante<br />
sul dito rotto.<br />
Anche gli uccelli domani non gracchiano<br />
più l’ultima nota<br />
e volano via dal ramo<br />
in relativo panico. Ma basta<br />
col fare ipotesi. Chi vede nero<br />
paga una multa. La ricetta,<br />
afferriamola, la scrissero i ciechi.<br />
*<br />
NON C'E' TEMPO<br />
Appena desto<br />
già non ho più tempo.<br />
La prima uscita dei cani<br />
ha lasciato il segno per le scale,<br />
e la casella postale è piena<br />
fino all’orlo. Tutto<br />
con avviso d’urgenza,<br />
ricevuta di ritorno e data di scadenza.<br />
La voce alla radio:<br />
smorzata. Il paese<br />
è in ribasso, a quanto pare.<br />
Né calcio né tennis<br />
che tiri, prospettive<br />
nessuna.<br />
Qualcuna raspa alla porta<br />
e vuole che gli apra.<br />
Non può essere che la morte<br />
nelle vesti di un piazzista<br />
con offerte scontate. Ruba<br />
momenti e li vende<br />
come orologi. Io mi fingo<br />
demente e valuto<br />
quanti anni rimangono<br />
fino all’ultimo grande volo.<br />
Il lampeggio<br />
170
della segreteria<br />
del mio apparecchio telefonico<br />
conferma il ticket. Salvezza,<br />
se per caso c’è,<br />
viene dai falsi annunci.<br />
*<br />
DOMENICA TRANQUILLA<br />
Tranne la lancetta dell’orologio<br />
niente che si sposti.<br />
Gli uccelli affaticati<br />
sono rientrati già ieri<br />
dal loro viaggio,<br />
e anche la pagina del libro<br />
da cui una volta volevano<br />
volarsene via,<br />
è rimasta prudentemente<br />
aperta dov’era. Il cielo<br />
non si può percorrere, dice qualcuno<br />
e abbassa la testa<br />
su una relazione tecnica.<br />
Di domenica in domenica,<br />
di partenza in partenza,<br />
è sempre la stessa cosa.<br />
Cambiamenti ci sono ancora solo<br />
nelle foto a colori del giornale –<br />
il rosso acceso dei rapanelli<br />
rivolto al futuro,<br />
il giallo vivo<br />
d’una crema d’asparagi.<br />
E lì accanto le pentole,<br />
ancora sporche. Non una frase scritta<br />
che sia andata avanti, non un amore<br />
che continui a tessere<br />
il filo<br />
dei misteri.<br />
Le auto sono parcheggiate<br />
a V come vittoria,<br />
s’inizia il censimento.<br />
Il tuo abito blu alla finestra<br />
dovrebbe bastare.<br />
*<br />
"IL BOSCO" TESTO DEL CATALOGO<br />
E PRESENTAZIONE DELLA MOSTRA<br />
Il bosco, nel verde basso<br />
del suo arredo interno e zitto<br />
come un cacciatore prima di sparare,<br />
per me è decisamente troppo premilitare.<br />
Ovunque filo spinato nella veste rossa<br />
di rose canine avvelenate. Il suolo,<br />
minato dai funghi. Poi gli ordini<br />
dei merli, duri, fischiati<br />
da un agguato nella riserva: devi amarti<br />
adesso! Ma questo lasciamolo perdere<br />
e restiamo lucidamente abbottonati,<br />
dalle scarpe da marcia al fazzoletto sulla faccia.<br />
171
La natura è pur sempre una condizione molto<br />
seria, non clean. Non paragonabile<br />
col vezzoso topino<br />
fra mousepad e mano in gioco<br />
quando schizza al drive del CD<br />
e avvia la vita degli animali di Brehm (1).<br />
Qua fuori regna tempo reale,<br />
mia diletta, fino alla zecca nel pelo,<br />
tutto è in assetto da combattimento. D’altronde<br />
in mezzo a questo territorio settico,<br />
avvertiti per tempo e con istruzione superiore<br />
andiamo a spasso senza sospetti.<br />
Bisogna solo affrontarlo con un po’ più<br />
di gentilezza, come Wilhelm Mueller (2).<br />
Qui si parla esclusivamente<br />
l’inglese economico. Anche le formiche-<br />
soldato, ai ferri corti per una pozza<br />
d’albume, ancora impigliate<br />
nella loro confezione di gomma: niente<br />
parole straniere, dal punto di vista politico<br />
super in forma. Il legno sporco,<br />
ancora tronco con la corteccia incisa,<br />
da cui goccia sangue giallo nel vaso per la resina,<br />
là già una serie di seggiolini per bimbi,<br />
due letti a castello o scrivania.<br />
Molto convincente questa vista<br />
di futuri oggetti d’uso.<br />
Alla fine tutto approda, che pizzichi<br />
o punga, in un nuovo catalogo Ikea,<br />
niente da fare, voi mostri piscianti,<br />
vi facciamo evaporare. Per capir questo<br />
una gita così è perciò ancora tempo libero.<br />
La colonna in costume con coro popolare<br />
a bere al banco si può mandarla<br />
avanti dopo. Decisiva<br />
è solo questa forte impressione iniziale<br />
di come l’uomo incespica nel fango,<br />
tira fuori la camera e agisce.<br />
Il resto è il quotidiano. Progetto costruttivo,<br />
misura e di tanto in tanto rampa di carico.<br />
[traduzione di Anna Maria Carpi]<br />
NOTE.<br />
(1) Autore della famosa Vita degli animali (1864)<br />
(2) Poeta romantico (1794-1827)<br />
Notizia.<br />
Kurt Drawert è nato nel 1956 e vive a Darmstadt. Premio Leonce-und-Lena, Premio Merano per la lirica,<br />
Premio Bachmann, pemio Uwe Johnson, premio Lenau. Ha pubblicato fra prosa e poesia sette volumi. Di<br />
prossima pubblicazione presso Scheiwiller la raccolta "Collezione di primavera", a cura di Anna Maria<br />
Carpi.<br />
172
L’Io e l’Io mio. Perché tradurre Girondo.<br />
Non si finisce mai, soprattutto di tradurre. Continuiamo a farlo per vari motivi, da quelli strettamente<br />
editoriali a quelli etici, per i quali serve una continua e costante curiosità delle letterature altre, delle<br />
lingue altre, di altri autori. La capacità etica di un atto traduttivo sta nella volontà di voler conoscere<br />
l’Altro ed inevitabilmente scoprire il Sé che lo desidera affrontare; volontà che, a dirla tutta, sarebbe<br />
meglio lasciar dormire sotto il suolo delle nostre sicurezze, considerati i sacrifici e le scoperte negative<br />
che ne conseguono. I vantaggi sono plurimi, il più importante dei quali è che se traduco mi riconosco.<br />
Non in un autore di un altro tempo o di un’altra cultura, ma in conseguenza del fatto che a quell’autore<br />
devo contrapporre obbligatoriamente un soggetto che conosco bene e a fondo. L’etica della traduzione,<br />
teoria che va associata ad una pratica costante, insegna a considerare la traduzione come un processo<br />
intellettuale che ha per scopo il disvelamento di uno spazio in cui due soggetti dialogano pariteticamente;<br />
per questo motivo c’è bisogno di studiare pariteticamente la lingua, lo stile, la biografia e la cultura<br />
dell’autore che si traduce e di quello che traduce. Il traduttore telelologico è fiscale e puntiglioso rispetto<br />
al testo in lingua, ma lo è meno rispetto a sé, coscientemente sicuro di possedere una lingua, una<br />
cultura, uno stile. Ad altri succede di aver voglia di tradurre quando si abbiano troppe certezze, quando ci<br />
si senta sicuri, appalesati a se stessi, padroni della lingua italiana e del testo che si sta traducendo: con<br />
una sicurezza del genere è facile creare capolavori. Dopo giorni di lavoro, evidentemente gratuiti, ci si<br />
rende conto di quanto quella sicurezza sia fallace perché il risultato è denigrante, troppi ripensamenti e<br />
dubbi, troppi falsi amici, la certezza che ci sia sempre un pezzo di testo (proprio o altrui) che va<br />
sacrificato; un po’ di sé o dell’altro che muore, come diceva Bernard Simeone. Se tradurre è riscoprirsi,<br />
però, significa che un lutto è accompagnato da una nuova nascita, quella dell’Io mio, cioè di quell’Io che<br />
posseggo in quel momento: nuovo, pericoloso, immaturo e poco noto, ma è l’io che so di avere. Nel<br />
leggere e tradurre Girondo, nato a Buenos Aires nel 1891 e scomparso nel 1967, colpisce l’insistenza<br />
della prima persona alla ricerca del fondo più abissale del sé, dell’intradermico, del sotterraneo, del<br />
suburbano. Lo dimostra il titolo dell’opera dalla quale estrapolo questa minima antologia, stupefacente<br />
per il modo in cui il luogo perquisito attraverso la lingua, non sia il già intimo midollo, ma ciò che è<br />
ancora più interno agli organi del corpo. Lo sforzo etimologico e creativo riguardo al dizionario girondiano<br />
risulta tangibile tanto da approdare all’elemento materico della poesia per eccellenza, cioè il grumo<br />
fonico. Non esiste, tuttavia, assenza di significato poiché l’io lirico dell’argentino (quello che cerca di<br />
arrivare oltre l’interno dell’osso) non è volontariamente coeso, in modo tale da indicare al lettore la<br />
direzione che porta ad una compiutezza di senso e ad una collaborazione fattiva tra interiezione e<br />
scoperta. La ricerca, infatti, è dolorosa ma proficua tanto da portare alla luce l’elemento strutturante la<br />
cultura personale: la mescola è un materiale vario e fluido che cementa i buchi vacui dell’esistenza e<br />
lascia aderire le entità lontane. Fatta di dialogo, la mezcla tesse reti e rapporti tra culture, crea esistenze<br />
che, come quella di Girondo, ne risulta attivata. Tanti sono infatti i rapporti che Girondo intrattiene con<br />
intellettuali sudamericani ed europei (Alberti, Valéry, Darío, Vallejo, Borges) accogliendone le idee<br />
sperimentali e moderniste immediatamente riadattate, ma utilizzando una lingua che risente fortemente<br />
della radici autoctone dell’Argentina quechua e della pampa. Il vortice del traduttore che cerca il suo sé<br />
leggendo un autore che cerca il suo sé, avrà certamente dato risultati dubbi, ma spero serva a rendere<br />
omaggio a quei pezzi di testo e di poesia defunti e, nel contempo, a conoscere meglio un autore del quale<br />
è uscita in Italia una sola opera tradotta nel 2001, Venti poesie da leggere in tranvai (Viennepierre).<br />
RADA ANÍMICA<br />
Giampaolo Vincenzi<br />
Abra casa<br />
de gris lava cefálica<br />
y confluencias de cúmulos recuerdos y luzlatido cósmico<br />
casa de alas de noche de rompiente de enlunados espasmos<br />
e hipertensos tantanes de impresencia<br />
casa cábala<br />
cala<br />
abracadabra<br />
médium lívida en trance bajo el yeso de sus cuartos de huéspedes difuntos trasvestidos de soplo<br />
metapsíquica casa multigrávida de neovoces y ubicuos ecosecos de circuitos ahogados<br />
clave demonodea que conoce la muerte y sus compases<br />
173
sus tambores afásicos de gasa<br />
sus finales compuertas<br />
y su asfalto<br />
RADA SPIRITUALE<br />
Cala casa<br />
di grigia lava cefalica<br />
e confluenze di cumuli ricordi e lucebattito cosmico<br />
casa di ali di notte di rompente di illunati spasmi<br />
e ipertesi gonghi d’impresenza<br />
casa cabala<br />
rada<br />
abracadabra<br />
medium pallida in trance sotto al gesso dei conti con gli osti defunti travestiti da soffio<br />
metapsichica casa multigravida di neovoci e ubiqui equivacui di circuiti affocati<br />
chiave demonedea che conosce la morte e i suoi compassi<br />
i suoi tamburi afasici di garza<br />
le sue finali saracinesche<br />
e il suo bitume<br />
LAS PUERTAS<br />
Absorto tedio abierto<br />
ante la fosanoche inululada<br />
que en seca grieta abierta subsonríe su más agrís recato<br />
abierto insisto insomne a tantas muertesones de inciensosón revuelo<br />
hacia un destiempo inmóvil de tan ya amargas manos<br />
abierto al eco cruento por costumbre de pulso no mal digo<br />
pero mero nimio glóbulo abierto ante lo extraño<br />
que en voraz queda herrumbre circunroe las parietales costas<br />
abiertas al murmurio del masombra<br />
mientras se abren las puertas<br />
LE PORTE<br />
Assorto tedio aperto<br />
di fronte alla fossanotte inululata<br />
che in secca crepa aperta sossorride la sua più grigia cautela<br />
aperto insisto insonne a tante mortisuone di adulasuono subbuglio<br />
verso un destempo immobile di già tante amare mani<br />
aperto all’eco cruento da un’abitudine di polso non dico male<br />
però mero insignificante globulo aperto davanti all’estraneo<br />
che in vorace lascia ruggine circumrode le parietali coste<br />
aperte al murmorì della plusombra<br />
mentre s’aprono le porte<br />
LA MEZCLA<br />
No sólo<br />
el fofo fondo<br />
los ebrios lechos légamos telúricos entre fanales<br />
senos<br />
y sus líquenes<br />
no sólo el solicroo<br />
las prefugas<br />
lo impar ido<br />
174
el ahonde<br />
el tacto incauto solo<br />
los acrodes abismos de los órganos sacros del orgasmo<br />
el gusto al riesgo en brote<br />
al rito negro al alba con esperezo lleno de gorriones<br />
ni tampoco el regosto<br />
los supiritos sólo<br />
ni el fortuito dial sino<br />
o los autosondeos en pleno plexo trópico ni las exellas menos ni el endédalo<br />
sino la viva mezcla<br />
la total mezcla plena<br />
la pura impura mezcla que me merma los machimbres<br />
el almamasa tensa las tercas hembras tuercas<br />
la mezcla<br />
sí<br />
la mezcla con que adherí mis puentes.<br />
LA MESCOLA<br />
Non solo<br />
il floffo fondo<br />
gli ebbri letti melmi tellurici fra fanali<br />
grembi<br />
e suoi licheni<br />
non solo il solicroo<br />
le prefughe<br />
l’impari ito<br />
l’affondo<br />
il tatto incauto solo<br />
gli acrodi abissi degli organi sacri dell’orgasmo<br />
il gusto al rischio in scoppio<br />
al rito nero all’alba con espigrizio pieno di passeri<br />
neanche il rigusto<br />
i sospiretti solo<br />
né il fortuito diale destino<br />
o gli autocarotaggi in pieno plesso tropico<br />
nemmeno le exquelle né l’endedalo<br />
ma la viva mescola<br />
la totale mescola piena<br />
la pura impura mescola che mi menoma i maschimbri<br />
la massanima tesa i duri dadi femmina<br />
la mescola<br />
sì<br />
la mescola con la quale attaccai i miei ponti.<br />
EL PURO NO<br />
El no<br />
El no inóvulo<br />
El no nonato<br />
El noo<br />
El no poslodocosmos de impuros ceros noes que<br />
noan noan noan<br />
y nooan<br />
y plurimono noan al morbo amorfo noo<br />
no démono<br />
no deo<br />
sin son sin sexo ni órbita<br />
el yerto inóseo noo en unisolo amódulo<br />
sin poros ya sin nódulo<br />
ni yo ni fosa ni hoyo<br />
175
el macro no ni polvo<br />
el no más nada todo<br />
el puro no<br />
sin no.<br />
IL PURO NO<br />
Il no<br />
Il no inovulo<br />
Il no nonnato<br />
Il noo<br />
Il no dopodeicosmi d’impuri zeri nonè che<br />
noano noano noano<br />
e noonhanno<br />
e plurimono nonhanno al morbo amorfo noo<br />
né dèmono<br />
né deo<br />
senza suon senza sesso né orbita<br />
il rigido inoseo noo in unisolo amodulo<br />
senza pori già senza nodulo<br />
né io né fossa né buca<br />
il macro no né polvere<br />
il no più nulla tutto<br />
il puro no<br />
sinnò.<br />
YOLLEO<br />
Eh vos<br />
tatacombo<br />
soy yo<br />
dí<br />
no me oyes<br />
tataconco<br />
soy yo sin vos<br />
sin voz<br />
aquí yollando<br />
con mi yo sólo solo que yolla y yolla y yolla<br />
entre mis subyollitos tan nimios micropsíquicos<br />
lo sé<br />
lo sé y tanto<br />
desde el yo mero mínimo al verme yo harto en todo fino<br />
junto a mis ya muertos y revivos yoes siempre<br />
siempre yollando y yoyollando siempre<br />
por qué<br />
si sos<br />
por qué<br />
eh vos<br />
no me oyes tatatodo<br />
por qué tanto yollar<br />
responde<br />
y hasta cuando.<br />
IOLLO<br />
Ehi voi<br />
tatacombo<br />
son io<br />
dìca<br />
176
non mi sente<br />
tataconco<br />
son io senza voi<br />
senza voce<br />
qui iollando<br />
con me io solo solito che iolla e iolla e iolla<br />
tra i miei subiolletti tanto minimi micropsichici<br />
lo so<br />
lo so e tanto<br />
all’io mero minimo al verme io fatto in tutto<br />
accanto ai miei ormai morti e rivivi ii sempre<br />
sempre iollando e ioiollando sempre<br />
perchè<br />
s’esservi<br />
dí perchè dìca<br />
ehi lei<br />
non mi sente<br />
tatatutto<br />
perchè tanto iollare<br />
risponda<br />
e fino a quando.<br />
TOPATUMBA<br />
Ay mi más mi mío<br />
mi bisvidita te ando<br />
sí toda<br />
así<br />
te tato y topo tumbo y te arpo<br />
y libo y libo tu halo<br />
ah la piel cal de luna de tu trascielo mío que me levitabisma<br />
mi tan todita lumbre<br />
cátame tú eva pulpo<br />
sé sed sé sed<br />
sé liana<br />
anuda más<br />
más nudo de musgo de entremuslos de seda que me ceden<br />
tu muy corola mía<br />
oh su rocío<br />
qué limbo<br />
ízala tú mi tumba<br />
así<br />
ya en ti mi tea<br />
toda mi llama tuya<br />
destiérrame letea<br />
lava ya emana el alma<br />
te hisopo<br />
toda mía<br />
ay<br />
entremuero<br />
vida<br />
me cremas<br />
te edenizo.<br />
TOPATOMBA<br />
Eh me più me mio<br />
mia bisvitina ti mando<br />
sì tutta<br />
così<br />
ti tato e topo tombo e ti arpo<br />
177
e libo e libo il tuo falo<br />
ah la pelle cal di luna di tu tracielo mio che mi levidabisso<br />
mia tanto tuttina lumìa<br />
catami tu eva polpo<br />
sia sete sia sete<br />
sia liana<br />
anuda più<br />
più nudo di muschio di tramuscoli di seta che mi cedono<br />
tu molto mia corolla<br />
oh suo roscio<br />
che limbo<br />
rizzala tu la mia tomba<br />
così<br />
già in te mi tea<br />
tutta mi chiama tua<br />
dissepolcrami letea<br />
lava già emana l’anima<br />
ti isopo<br />
tutta mia<br />
beh<br />
mentremuoio<br />
vita<br />
cremami<br />
ti edenizzo.<br />
TRAZUMOS<br />
Las vertientes las órbitas han perdido la tierra los espejos los brazos los muertos las amarras<br />
el olvido su máscara de tapir no vidente<br />
el gusto el gusto el cauce sus engendros el humo cada dedo<br />
las fluctuantes paredes donde amanece el vino las raíces la frente todo canto rodado<br />
su corola los muslos los tejidos los vasos el deseo los zumos que fermenta la espera<br />
las campanas las costas los trasueños los huéspedes<br />
sus panales lo núbil las praderas las crines la lluvia las pupilas<br />
su fanal el destino<br />
pero la luna intacta es un lago de senos que se bañan tomados de la mano<br />
TRASUCCHI<br />
Le fonti le orbite hanno perduto la terra gli specchi le braccia i morti gli ormeggi<br />
il ricordo la sua maschera di tapiro non vedente<br />
il gusto il gusto l’alveo i suoi embrioni il fumo cada dito<br />
le fluttuanti pareti dove albeggia il vino le radici la fronte tutto canto fluente<br />
la sua corolla le cosce i tessuti i vasi il desiderio i succhi che fermenta l’attesa<br />
le campane le coste i trasogni gli ospiti<br />
i loro vespai il nubile le praterie i crini la pioggia le pupille<br />
suo fanale il destino<br />
ma la luna intatta è un lago di seni che si bagnano presi dalla mano<br />
EL PENTATOTAL A QUÉ<br />
Lo no moroso al toque<br />
el consonar a qué la sexta nota<br />
los hubieron posesos<br />
los sofocos del bis a bis acoplo de sorbentes subósculos<br />
los erosismos dérmicos<br />
los espiribuceos<br />
el ir a qué con meta<br />
los refrotes fortuitos del gravitar a qué con cuanta larva en tedio languilate en los cubos del miasma<br />
178
los tantos otros otros<br />
la sed a qué<br />
las equis<br />
las instancias del vértigo<br />
el gusto a qué denudo<br />
los tententedio tercos del infierneo en famiglia<br />
las idóneas exnúbiles<br />
el darse a dar a qué<br />
el re la mi sin fin<br />
los complejos velados<br />
el decomiso aseto<br />
los tejidos tejidos en el diario presidio de la sangre.<br />
los necrococopiensos con ancestros de polvo<br />
el “to be” a qué<br />
o el “not to be” a qué<br />
la suma lenta merma<br />
la recontra<br />
los avernitos íntimos<br />
el ascopez paqué<br />
cualquier a qué cualquiera<br />
el pluriaqué<br />
a qué<br />
el pentatotal a qué<br />
a qué<br />
a qué<br />
a qué<br />
y sin embargo<br />
IL PENTOTOTALE PERCHÉ<br />
Il non moroso al tocco<br />
il consonare perché la sesta nota<br />
li ebbero invasati<br />
i soffochi del vis à bis accoppio di sorbenti subosculi<br />
gli erosismi dermici<br />
gli spiritimmersione<br />
l’andare perché con meta<br />
i ristrofinamenti fortuiti del gravitar a che con quanta lava in tedio languilatte nei cubi del miasma<br />
i tanti altri altri<br />
la sete perchè<br />
la ìcs<br />
le istanze della vertigine<br />
il gusto perché nudo<br />
i tientientedio<br />
le idonee exnubili<br />
il darsi a dare perchè<br />
il re la mia senza fine<br />
i complessi velati<br />
il sequestro assiepe<br />
i tessuti tessuti nel giornale presidio del sangue<br />
i necrococcomangimi con avi di polvere<br />
il “to be” perché<br />
e il “not to be” perchè<br />
la somma lenta ridotta<br />
ricontra<br />
gli avernetti intimi<br />
lo schifopece paquè<br />
qualsiasi qualcuno perché<br />
il pluriperché<br />
perchè<br />
il pentototale perché<br />
perché<br />
perché<br />
179
perché<br />
e comunque.<br />
HASTA MORIRLA<br />
Lo palpable lo mórbido<br />
el conco fondo ardido los tanturbios<br />
las tensas sondas hondas los reflujos las ondas de la carne<br />
y sus pistilos núbiles contráctiles<br />
y sus anexos nidos<br />
los languiformes férvidos subsobornos innúmeros del tacto<br />
su mosto azul denudo<br />
cada veta<br />
cada vena del sueño del eco de la sangre<br />
las somnilocuas noches del alto croar celeste que nos animabisman el soliloquio vértigo<br />
cuanto adhiere sin costas al fluir el pulso al rojo cosmogozo<br />
y sus vaciados rostros<br />
y sus cauces<br />
hasta morder la tierra<br />
lo ignoto noto combo el ver del ser lo ososo los impactos del pasmo de más cuerda<br />
cualquier estar en llaga<br />
los dones dados donde se internieblan las órbitas los sorbos de la euforia<br />
cualquier velar velado con atento esqueleto que se piensa<br />
la estéril lela estela<br />
el microazar del germen del móvil del encuentro<br />
los entonces ya prófugos<br />
la busca en sí gratuita<br />
los mititos<br />
hasta ingerir la tierra<br />
todo modo poroso<br />
el pozo lato solo del foso inmerso adentro<br />
la sed de sed sectaria los finitos abrazos<br />
toda boca<br />
lo tanto<br />
el amor terco a todo<br />
el amormor pleamante en colmo brote totem de amor de amor<br />
la lacra<br />
amor gorgóneo médium olavecabracobra deliquio erecto entero<br />
que ulululululula y arpeialibaraña el ego soplo centro<br />
hasta exhalar la tierra<br />
con sus astroides trinos sus especies y multillamas lenguas y excrecreencias<br />
sus buzos lazo lares de complejos incestos entre huesos corrientes sin desagües<br />
sus convecinos muertos de memoria<br />
su luz de mies desnuda<br />
sus axilas de siesta<br />
y su giro hondo lodo no menos menos que otros afines cogirantes<br />
hasta el destete enteco<br />
hasta el destente neutro<br />
hasta morirle.<br />
FINO A FINIRLA<br />
Il palpabile il morbido<br />
il conco fondo ardito i tantorbidi<br />
le tense sonde fionde i reflussi le onde della carne<br />
e suoi pistilli nubili contrattili<br />
e suoi annessi nidi<br />
le languiformi fervide sottocorruzioni<br />
suo mosto azzurro nudo<br />
ogni venatura<br />
180
ogni vena del sogno dell’eco del sangue<br />
le sonniloquaci notti dell’alto gracchiare celeste che ci animabissano il soliloquio vertigine<br />
quanto aderisce al fluire il polso al rosso cosmogodimento<br />
e le sue svuotate facce<br />
e le sue procedure<br />
fino a mordere la terra<br />
l’ignoto noto curvo il vedere dell’essere l’ossoso gl’impatti dello spasmo<br />
qualunque stare in piaga<br />
i doni dati dove si internebbiano le orbite i sorsi dell’euforia<br />
qualunque velare velato con gentile scheletro che si pensa<br />
la sterile scialba stella<br />
il microcaso del germe dell’instabile dell’incontro<br />
gli allora ormai profughi<br />
la ricerca in sé gratuita<br />
i mitucci<br />
fino a ingerir la terra<br />
in modo molto poroso<br />
il pozzo lato solo del fosso immerso dentro<br />
la sete di sete settaria i finiti abbracci<br />
tutta bocca<br />
il tanto<br />
l’amore duro a tutto<br />
l’amormore altomaroso in colmo scoppio totem di amore di amore<br />
la piaga<br />
amore gorgoneo medium ondavecapracobra deliquio eretto intero<br />
che ulululululula e arpigiasucchiaragna l’ego soffio centro<br />
fino a exalare la terra<br />
coi suoi asteroidi trini le sue specie e multifiamme lingue ed escrecredenze<br />
i suoi palombari laccio lari di complessi incesti tra ossi correnti senza scoli<br />
i suoi convicini morti di memoria<br />
la sua luce di messe nuda<br />
le sue ascelle di riposo<br />
e il suo giro fondo fango non meno meno que altri affini cogiranti<br />
fino alla distetta debole<br />
fino al distente neutro<br />
fino a finirla.<br />
A MÍ<br />
Los más oscuros estremecimientos a mí<br />
entre las extremidades de la noche<br />
los abandonos que crepitan<br />
cuanto vino a mí acompañado<br />
por los espejismos del deseo<br />
lo enteramente terso en la penumbra<br />
las crecidas menores ya con luna<br />
aunque el ensueño ulule entre mandíbulas transitorias<br />
las teclas que nos tocan hasta el hueso del grito<br />
los caminos perdidos que se encuentran<br />
bajo el follaje del llanto de la tierra<br />
la esperanza que espera los trámites del trance<br />
por mucho que se apoye en las coyunturas de lo fortuito<br />
a mí a mí la plena íntegra bella a mí hórrida vida<br />
A ME<br />
Le più oscure commozioni a me<br />
tra le estremità della notte<br />
gli abbandoni che crepitano<br />
quanto vino a me accompagnato<br />
per i miraggi del desiderio<br />
181
quello interamente terso nella penombra<br />
le piene minori anche con la luna<br />
quantunque il sogno ululi tra mandibole transitorie<br />
i tasti che ci toccano fino all’osso del grido<br />
i cammini perduti che si trovano<br />
sotto al fogliame del pianto della terra<br />
la speranza che spera i tramiti del trance<br />
per quanto si fondi nelle congiunture del fortuito<br />
a me a me la piena integra bellamì orrida vita.<br />
MASPLEONASMO<br />
Más zafio tranco diario<br />
llagánima<br />
masturbio<br />
sino orate<br />
más seca sed de móviles carnívoros<br />
y mago rapto enlabio de alba albatros<br />
más sacra carne carmen de hipermelosas púberes vibrátiles de sexotumba góndola<br />
en las fauces del cauce fuera de fértil madre del diosemen<br />
aunque el postedio tienda sus cangrejales lechos ante el eunuco olvido<br />
más lacios salmos mudos<br />
manos radas lunares<br />
copas de alas<br />
más ciega busca perra tras la verdad volátil plusramera ineterna<br />
más jaguares deseos<br />
nimios saldos terráqueos en colapso y panentrega extrema desde las ramas óseas hasta la córnea<br />
pánica<br />
a todo huésped sueño del prenoser menguante<br />
a toda pétrea espera<br />
lato amor gayo nato<br />
deliquio tenso encuentro sobre tibias con espasmos adláteres<br />
ya que hasta el unto enllaga las mamas secas másculas<br />
y el mismo pis vertido es un preverso feto si se cogita en fuga<br />
más santo hartazgo grávido de papa rica rima de tanto lorosimio implume vaterripios<br />
sino hiperhoras truncas dubiengendros acéfalos no piensos e impactos del tan asco<br />
aunque el cotedio azuce sus jaurías sorbentes ventosas de bostezos<br />
OLTREPLEONASMO<br />
Più rozza falcata quotidiana<br />
ulceranima<br />
mastorbido<br />
ma fato demente<br />
più secca sete di mobili carnivori<br />
e mago raptus in labbro di alba albatros<br />
più sacra carne carme di ipermelose pubere vibratili di sessotomba gondola<br />
nelle fauci del corso fuori da fertile madre del dioseme<br />
sebbene il postedio tenda i suoi granchiali letti davanti l’eunuco oblio<br />
i più flosci salmi muti<br />
mani rade lunari<br />
coppe d’ali<br />
la più cieca ricerca cagna dietro la verità volatile plustroia ineterna<br />
i più giaguari desideri<br />
insignificanti saldi terracquei in collasso e pandevozione estrema dai rami ossei fino alla cornea<br />
panica<br />
a tutto l’ospite sogno del prenonessere mancante<br />
a tutta la sassosa attesa<br />
lato amore gaio nato<br />
deliquio teso incontro sopra tibie con spasmi subalterni<br />
giacchè fino all’unto impiaga le mamme secche maschule<br />
182
e lo stesso piscio tradotto è un perverso feto se si pensa in fuga<br />
la più santa scorpacciata gravida di patata ricca rima di tanto pappagalloscimmio implume vaterriempitivi<br />
ma iperore tronche dubbiaborti acefali non mangimi e impatti del tanto schifo<br />
sebbene il cotedio inzuccheri le sue mute sorbenti ventose di sbadigli.<br />
MENOS<br />
Menos rodante dado<br />
deliquio sumo psíquico que mana del gozondo<br />
sed viva<br />
encelo ebrio<br />
chupón<br />
chupalma ogro de mil fauces que dragan<br />
pero ese sí más llaga<br />
por no decir llagón<br />
de rojo vivo cráter y lava en ascua viva<br />
pocón<br />
sopoco íntegro<br />
menos en merma<br />
a pique<br />
sin hábitos de corcho<br />
hacia el estar no estando<br />
MENO<br />
Meno rotante dado<br />
deliquio sommo psichico che sgorga dal godondo<br />
sete viva<br />
gelosia ebra<br />
succhiotto<br />
succhianima orco dalle mille fauci che dragano<br />
ma questo si più piaga<br />
per non dire piagone<br />
di rosso vivo cratere e lava in brace viva<br />
pocone<br />
sopoco integro<br />
meno in ammanco<br />
a picco<br />
senz’abiti di sughero<br />
fino allo stare non stando.<br />
MITO<br />
Mito<br />
mito mío<br />
acorde de luna sin piyamas<br />
aunque me hundas tus psíquicas espinas<br />
mujer pescada poco antes de la muerte<br />
aspirosorbo hasta el delirio tus magnolias calefaccionadas<br />
cuanto decoro tu lujosísimo esqueleto<br />
todos los accidentes de tu topografía<br />
mientras declino en cualquier tempo<br />
tus titilaciones más secretas<br />
al precipitarte<br />
entre relámpagos<br />
en los tubos de ensayo de mis venas.<br />
183
MITO<br />
Mito<br />
mito mio<br />
accordo di luna senza pigiami<br />
sebbene m’affondi le tue psichiche spine<br />
donna pescata poco prima della morte<br />
aspirassorbo fino al delirio le tue magnolie riscaldate<br />
quanto decoro il tuo lussuosissimo scheletro<br />
tutti gli accidenti della tua topografia<br />
mentre declino in ogni tempo<br />
le tue titillazioni più segrete<br />
al precipitarti<br />
tra i fulmini<br />
Nei tubi di prova delle mie vene.<br />
NOCHE TÓTEM<br />
Son los trasfondos otros de la in extremis médium<br />
que es la noche al entreabrir los huesos<br />
las mitoformas otras<br />
aliardidas presencias semimorfas<br />
sotopausas sosoplos<br />
de la enllagada líbido posesa<br />
que es la noche sin vendas<br />
son las grislumbres otras tras esmeriles párpados videntes<br />
los atónitos yesos de lo inmóvil ante el refluido herido interrogante<br />
que es la noche ya lívida<br />
son las cribadas voces<br />
las suburbanas sangres de la ausencia de remansos omóplatos<br />
las agrinsomnes dragas hambrientas del ahora con su limo de nada<br />
los idos pasos otros de la incorpórea ubicua también otra escarbando lo incierto<br />
que puede ser la muerte con su demente célibe muleta<br />
y es la noche<br />
y deserta<br />
NOTTE TOTEM<br />
Sono gli oltrefondi altri della medium in extremis<br />
che è la notte all’entraprire le ossa<br />
le mitoforme altre<br />
alleardite presenze semimorfe<br />
boscopause sossoffi<br />
della impiagata libido posseduta<br />
che è la notte senza bende<br />
sono grigiochiarori altri dietro smerigli palpebre vedenti<br />
gli attoniti gessi dell’immobile prima del rifluito ferito interrogante<br />
che è la notte ormai livida<br />
sono le crivellate voci<br />
i sangui suburbani dell’assenza di ristagnate omoplate<br />
le agrinsonni draghe affamate dell’allora con il loro limo di nulla<br />
i passati passi altri dell’incorporea ubicua altra che raspa anche l’incerto<br />
che può essere la morte con la sua demente celibe stampella<br />
ed è la notte<br />
e deserta.<br />
[Da “En la masmédula”, Nell’inoltremidollo; traduzioni di Giampaolo Vincenzi]<br />
184
Notizia.<br />
Oliverio Girondo è nato a Buenos Aires nel 1891da una agiata famiglia di origine basca che gli ha<br />
procurato una scrupolosa ed attenta educazione in alcuni importanti istituti europei. Studiò legge e molto<br />
presto, essendo in contatto con molti dei più importanti esponenti delle avanguardie europee, si dedicò<br />
alla poesia e al giornalismo partecipando a riviste come Proa, Prisma e Martin Fierro (nelle quali scrisse<br />
anche Borges). Pubblica nel 1956 “Nell’inoltremidolla” opera che costituisce la sua ricerca più audace nel<br />
campo della poesia. All’inizio degli anni cinquanta, guidato dal suo interesse per le arti plastiche, si avviò<br />
alla pittura con una marcata tendenza surrealista grazie anche alla sua profonda conoscenza della pittura<br />
francese. Nel 1961 ebbe un grave incidente che lo privò delle sue forze fisiche. Nel 1965 viaggiò per<br />
l’ultima volta in Europa e, al suo ritorno a Buenos Aires, morì nel 1967.<br />
Alcune opere:<br />
Veinte poemas para ser leídos en el tranvía, Argenteuil, Impr. Colouma H. Barthéley, 1922.<br />
Calcomanías, Madrid, Calpe, 1925.<br />
Espantapájaros (al alcance de todos), Buenos Aires, Proa, 1932.<br />
Interlunio, Buenos Aires, Sur, 1937.<br />
Persuasión de los días, Buenos Aires, Losada, 1942.<br />
Campo nuestro, Buenos Aires, Editorial Sudamericana, 1946.<br />
En la masmédula, Buenos Aires, Losada, 1956.<br />
Topatumba, Buenos Aires, prensas de Miguel Binolo, 1958.<br />
Obras completas, Buenos Aires, Losada, 1968.<br />
Obra completa (ed. crítica), Madrid, Galaxia Gutenberg, 1999.<br />
Alcuni saggi e articoli critici:<br />
Alberti, Rafael, «Poemas escénicos...», in Boletín de la Sociedad Argentina de Escritores, Buenos Aires, 1961-1963, p.<br />
26<br />
Asturias, Miguel Ángel, «En la masmédula», El Nacional, Buenos Aires, gennaio 1955, p. 4.<br />
Borges, Jorge Luis, «Oliverio Girondo: Calcomanías», Martín Fierro, 2ª época, Buenos Aires, núm. 18, 26 giugno 1925.<br />
De Nóbile, Beatriz, El acto esperimental. Oliverio Girondo y las tensiones del lenguaje, Buenos Aires, Losada, 1972.<br />
Gómez de la Serna, Ramón, «Veinte poemas para ser leídos en el tranvía, por Oliverio Girondo», El Sol, Madrid, 4<br />
maggio 1923<br />
Marechal, Leopoldo, «Interlunio, por O. Girondo», Sur, Buenos Aires, núm. 48, settembre 1938, pp. 51-53.<br />
Mariátegui, José Carlos, «Oliverio Girondo», Variedades, Lima, 15 agosto 1925.<br />
Martínez Cuitiño, Luis, «Girondo y sus estrategias de vanguardia», Filología, núm. 23.1, 1988, pp. 151-176.<br />
Masiello, Francine, «Oliverio Girondo: el carnaval del lenguaje», Hispamérica, anno VI, núm. 16, 1977, pp. 3-17.<br />
Méndez, Evar, «Oliverio Girondo», Martín Fierro, 2ª época, núm. 2, Buenos Aires, 20 marzo 1923.<br />
Mendiola, Pedro, «Oliverio Girondo. La ciudad Animada», en José Carlos Rovira (ed.), Escrituras de la ciudad, Madrid,<br />
Palas-Atenea, 1999.<br />
Miomandre, Francis de, «Oliverio Girondo», La Nación, Buenos Aires, 20 gennaio 1924.<br />
Molina, Enrique, «Hacia el fuego central o la poesía de Oliverio Girondo», en Oliverio Girondo, Obras completas,<br />
Buenos Aires, Losada, 1968.<br />
Molina, Enrique, «Oliverio Girondo en la noche de los presagios», Amaru, Lima, núm. 2, aprile 1967, pág. 76.<br />
---------, «Oliverio Girondo en la médula del lenguaje», Xul, Buenos Aires, núm. 6, maggio 1984, pp. 18-20.<br />
---------, «La permanente aventura poética de Oliverio Girondo», El Mundo, Buenos Aires, 10 giugno 1956.<br />
---------, «La casa y el espantapájaros», Clarín, Buenos Aires, 27 novembre 1975.<br />
---------, «La trayectoria masmedular de Oliverio Girondo», Cuadernos Hispanoamericanos, núm. 553-554, luglioagosto<br />
1996, pp. 217-230.<br />
Orozco, Olga, «En la masmédula», Macedonio, Buenos Aires, núm. 3, inverno 1969, pp. 69-73.<br />
---------, «Oliverio Girondo frente a la nada y lo absoluto», Cuadernos Hispanoamericanos, Madrid, núm. 335, maggio<br />
1978, pp. 226-250.<br />
Pellegrini, Aldo, «Mi visión personal de Girondo», «Breve biografía» y «La poesía de Girondo», en Oliverio Girondo,<br />
Buenos Aires, Ed. Culturales Argentinas, 1964.<br />
Pellegrini, Aldo, «Nuevos poemas de Oliverio Girondo», Letra y línea, Buenos Aires, núm. 2, novembre 1953.<br />
Piñero, Sergio, «Calcomanías, por Oliverio Girondo», La Razón, Buenos Aires, 21 giugno 1925.<br />
Pinto, Juan, «La generación literaria del 22; Oliverio Girondo, poeta surrealista», Clarín, Buenos Aires, 27 luglio 1947.<br />
Prieto, Adolfo, «El martinfierrismo», Revista de Literatura Argentina e Iberoamericana, Mendoza, Universidad Nacional<br />
de Cuyo, núm. 1, 1959, pp. 9-31.<br />
Rojas Paz, Pablo, «Oliverio Girondo: Campo nuestro», Sur, Buenos Aires, núm. 151, maggio 1947, pp. 103-108.<br />
Ruffinelli, Jorge, «Girondo: final de juego», Marcha, Montevideo, núm. 1245, 15 novembre 1968.<br />
Sarlo, Beatriz, «Vanguardia y criollismo. La aventura de Martín Fierro», Revista de Crítica Literaria Latinoamericana,<br />
Lima, núm. 15, 1982.<br />
Schwartz, Jorge, «Vanguardias enfrentadas: Oliverio Girondo y la poesía concreta», Maldoror, Montevideo, núm. 16,<br />
novembre 1981, pp. 22-35.<br />
---------, «¿A quién espanta el espantapájaros?», Xul, Buenos Aires, núm. 6, maggio 1984, pp. 30-36.<br />
---------, «La trayectoria masmedular de Oliverio Girondo», Cuadernos Hispanoamericanos, núm. 553-554, luglioagosto<br />
1996, pp. 217-230.<br />
Schwartz, Jorge, Vanguarda e Cosmopolitismo na Década de 20. Oliverio Girondo e Oswald de Andrade, São Paulo,<br />
185
Editora Perspectiva, 1983.<br />
---------, Homenaje a Girondo, Buenos Aires, Corregidor, 1987.<br />
Scrimaglio, Marta, Oliverio Girondo, Cuadernos del Instituto de Letras, Universidad Nacional del Litoral, 1964.<br />
Solá, Graciela de, «Oliverio Girondo», en Proyecciones del surrealismo en la literatura argentina, Buenos Aires,<br />
Ediciones Culturales Argentinas, 1967.<br />
Sucre, Guillermo, «Adiciones adhesiones», La máscara, la transparencia, Caracas, Monte Ávila, 1975, pp. 273-285.<br />
Supervielle, Jules, «Oliverio Girondo», La Revue de l'Amérique Latine, París, marzo 1924.<br />
Torre, Guillermo de, «Oliverio Girondo», Alfa, Montevideo, aprile 1925.<br />
Urondo, Francisco, «Girondo», Leoplán, Buenos Aires, núm. 675, 19 settembre 1962.<br />
Videla de Rivero, Gloria, «El simultaneismo cubista-creacionista entre cosmopolitismo, autorreferencialidad y<br />
trascendencia», La Torre: Revista de la Universidad de Puerto Rico, 3.12, ottobre-dicembre de 1989, pp. 565-586.<br />
Villaurrutia, Xavier, «Oliverio Girondo», El Universal, México, 5 ottobre 1924.<br />
Yurkievich, Saúl, «La pupila del cero», Fundadores de la nueva poesía latinoamericana, Barcelona, 1984, pp. 149-170.<br />
186
“PRENDETE QUESTA SITUAZIONE D’ATTESA”<br />
(in: “Nioques” n° 1.9/2.0, 2003)<br />
“Questa totalità nera di segni è la realtà?”<br />
Questo non è un libro comincia il libro come un mazzetto di fiori di garofano viene buttato nel buco.<br />
Sentite tutti il rumore della ghiaia, delle pale. Sentite il rumore dei fiori cadere nel nero.<br />
***<br />
Lo strumento del solitario è una tavola.<br />
La tavola a otto lati è provvista di trentasette buchi.<br />
Tre sulla prima fila<br />
cinque sulla seconda<br />
sette sulla terza, quarta e quinta<br />
cinque sulla sesta<br />
tre sulla sette e ultima.<br />
Nei buchi vengono piazzate trentasette pedine mobili.<br />
Vi sono diverse procedure note,<br />
il corsaro, per cui si toglie la pedina n°3, il giocatore si muove allora da tredici a tre e segue fino alla fine<br />
la stessa procedura un po’ come quando si dice che i marinai vanno di bolina<br />
il lettore in mezzo al proprio uditorio, per cui si toglie la pedina centrale n°19 ed è alla posizione di questo<br />
numero che la pedina in movimento finisce per arrivare alla fine della partita, dopo aver tolto tutte le<br />
pedine, tranne quelle che segnano il contorno dell’apparecchio.<br />
Il solitario abita soprattutto alle isole Rodrigo.<br />
Ha l’occhio nero e vivace, le ali corte, le piume mescolate di grigio e di bruno,<br />
La femmina porta sopra il becco un mantello da vedova, le sue piume si rigonfiano ai lati del petto in due<br />
ciuffi bianchi, e quelle sulle cosce si arrotondano sulla punta in forma di conchiglia.<br />
***<br />
Il libro comincia con l’evocazione dello zucchero nero. Sale e scende all’interno dell’albero del corpo,<br />
annerisce ciascuno dei rami, quelli grandi e sui rami sugli altri rami fino al più piccolo, e così per le foglie<br />
e per i polmoni di ciascuna foglia.<br />
***<br />
Perché è in quanto unica, incomprensibile, come una specie di follia, che questa esigenza deve entrare<br />
nel libro per manifestare in esso la propria legge. Il libro comincia nell’istante di luce di latte. Si confonde<br />
con quest’altro istante, quello delle labbra fredde, della mani fredde, del corpo irrigidito, l’istante in cui i<br />
mazzetti di fiori di garofano vengono buttati nel buco.<br />
***<br />
Voi guardate quello che vedete, ma lo guardate assolutamente.<br />
Io ci sono, « in modo durevole nel senso di infestare », per entrare nel suo proprio corpo, per aspettare il<br />
cibo, e camminare contro vento.<br />
Io ci sono, lo guardo assolutamente. Mi fanno male gli occhi. Le guance incavate e il freddo. Questa è la<br />
posizione dell’attesa. Qualche cosa costringe qualcuno. Qui,<br />
In modo durevole nel senso di infestare, per vedere. Qualcuno, qui, o che cosa. Con in testa l’immagine<br />
di un corpo di legno o di pietra. La polvere incollata nera alla purea della terra.<br />
187
Nella posizione dell’attesa c’è lo sgualcirsi della pelle, sotto il mento, verso i polsi, le cosce, le caviglie. La<br />
polvere grigia e nera, il corpo divenuto legno, carbone. Sotto la siepe, sotto il terrazzo, sotto. Il buco<br />
nero, sotto. Oppure è, era, come la luce bianca identica all’oscurità delle cantine, accecante. Il buco è lo<br />
stesso, sempre lo stesso.<br />
Questa materia di latte, gas, neon, bombardamento, spruzzo in pieno e di traverso, due grandi fari nel<br />
buco degli occhi, nel buco delle cose.<br />
– Sì, guardare ancora:<br />
Per prima cosa non c’è oggetto. L’attesa è senza oggetto, senza oggetti. Nient’altro che i muri. La polvere<br />
in sospensione in queste camere doppie. Una luce di latte a tratti, punture.<br />
***<br />
Ecco ora i dati nel quadro ( situazioni d’attesa da 1 a 6 ):<br />
1. una ruota di camion, ruota ciclope dall’occhio rotondo e lo schermo tagliato una parte in ombra in alto,<br />
un’altra nella luce verso il suolo in basso secondo una leggera obliqua, la ruota l’occhio che manca al<br />
profilo da cavallo di fronte al cavallo della scacchiera l’alfiere la torre la ruota il cavallo, la fronte nuda e<br />
rotonda del ciclope, la ruota nera e bianca, questo no non vedo niente troppa luce gira tutto velocemente<br />
troppo velocemente<br />
– muri tavolo dietro vetro porta vetrata porta profondità piani là c’è là c’è una porta, la porta, la porta<br />
chiusa<br />
– fili scoperti, montaggio serrato, esterno, con grande tubo verticale fragile provvisorio, o un anello come<br />
un nodo che scorre di fronte ad apertura vegetale, foglie dispiegate in caduta, il cuore di tutto questo<br />
vegetale al centro, come al centro il metallo dispositivo piastra su cui si incrociano e si distribuiscono i<br />
quattro fili<br />
– luce o terra cotta e la foglia il verde folto bucati listellati, dunque dietro il cielo, vale a dire la nuvola<br />
bianca del cielo e il suolo, un tetto a terrazza, suolo abbandonato, piastra sottile di tolla, griglie di cui una<br />
in forma di bandierina picca asta uno due tre disposti così a caso, vale a dire in modo che le due forme<br />
semplici, rettangolo e quadrato, chiudano il trapezio striato sul cuore.<br />
2. ora c’è un cerchio e il fiore si è ingrossato, il vaso un vaso un lungo vetro cilindrico e il fiore ora<br />
spettrale con le sue foglie di buccia di banana svasate preso posato o rivelato all’interno del proprio<br />
cerchio aureola che sfugge in spirale movimento, fiore inscritto nel cerchio o nel movimento circolare, allo<br />
stesso modo al suolo la proiezione di un cerchio di luce, che delimita così il canto la preghiera<br />
– sedia insetto con lo schienale trasparente, le gambe steli d’erba davanti al muro non portando nulla di<br />
frontale tutto di sbieco in obliquo in diagonale verso l’alto a destra questo muro che giunge a termine o<br />
pezzo di mobile con cavità rettangolo cavo bianco vuoto acquario o scaffale davanti a cui galleggiano i<br />
due pesci nudi trasparenti di sorgente<br />
– o che il baule è un altare buca delle lettere con qui la sua fenditura bocca sdentata in cui far cadere le<br />
parole per celebrazione assenza davanti a testa con le orbite o testa buco<br />
– qui la sedia migrante vuota innevata, la stessa vista di fronte lavata di schiuma, la stessa nel nero di<br />
felce in cui pende la testa orbitata, sedia tenuta senza appoggi senza niente e davanti alla porta appena<br />
una porta un buco sul punto del nodo e questo buco al centro, vale a dire un punto, oppure ben<br />
disegnata sul muro rettangolo verticale tracciato con la matita sulla tavola bianca della paratia, dal bianco<br />
neon a destra al nero eretto duro a sinistra a seconda di come sempre presa di sbieco obliqua che risale<br />
questa volta a sinistra.<br />
3. della croce, segue lettera con AR Rimbaud ricevuta ritorno e il tappeto di zucchero nero sempre il suolo<br />
il suolo il rotolo chiaro lino papiro diagonale ruota tra due bordi due notti<br />
– finestra bianca tele schermi sul tetto la brocca gigante quella della Natura morta e il ventre rotondo e il<br />
collo da vespa e la curva pronta a salire a versare il latte il milk come la pioggia di una doccia su tetti<br />
strade letti di catrame in piedi davanti allo stesso immobile-frigo aperto in attesa della gru oppure non da<br />
più vicino la porta aperta su fondo d’armadio scaffali in mezzo ai calcinacci luce luce<br />
– infine la barca giornale dal fondo di un naufragio o davanti alle onde o l’essere ondivago Hugo faccio<br />
piegamenti davanti a cui ancora la porta ostruita ora la stessa vela di cartone riempita di vento porta<br />
soffiata porta velo e la pattumiera per buscarsi.<br />
188
4. lei a destra i tre bicchieri, le tazze, o come uno zoom qui davanti a destra c’è un paesaggio, la pianura<br />
o l’oceano la distesa piatta piatta e l’edificio la sua massa e davanti alle sue rovine i pezzi di muro in<br />
briciole di zucchero crollati e ora gli ossicini dei tre bicchieri i quattro o cinque ossicini di inchiostro a<br />
destra dei tre bicchieri come repliche delle punte spezzate di zucchero e di mattone e di cemento battuto<br />
– frontale la bottiglia o corpo di monaco o di vergine semplice sfondo di cappella oremus davanti gradi del<br />
portico dove uno sull’altro asciugano tre tappeti da preghiera zerbini sporchi da preghiera oh tre volte<br />
santa polvere<br />
– nell’harem di cartoni spinto appoggiato contro la colonna lo specchio hudson in cui si incastrano si<br />
ammassano come replica delle punte spezzate e di zucchero tutti gli equilibri cedimenti di fronte a volto<br />
ancora su orbite denti listellati più grandi testa e cranio in cima alla picca ça ira<br />
– e che ritorna cranio rotondo gli occhi le narici bucati neri ossa da latte vibrazioni musica di metallo che<br />
scivola a destra e a sinistra sospesa nello spazio incombente e quel frammento di puzzle appeso gioconda<br />
sotto il neon in angolo di stanza vuota.<br />
5. no niente come carta stracciata scollata informe tetto come rovina e lepre morta appesa penzolante la<br />
testa sgocciola ancora e la zampa anteriore sinistra al di sopra di un compasso grande scarto gambe<br />
aperte sì sì ora le due conchiglie e l’angolo destro pettini di mare e l’apparizione nuda preghiera alla<br />
vergine nuda la danzatrice preghiera e il suo filo di ferro tutta sopra al vuoto tra tutte le donne e frutto<br />
del suo ventre e nel limbo compasso grande scarto gambe aperte per che cosa niente lo schermo ricurvo<br />
convesso rimesso in piedi appoggiato piatto ormai piatto ridotto in piedi tavola e filo e linea debole letto<br />
di niente piatto in piedi<br />
– ancora nel forno o pietra da cuocere caduta come un frutto ai piedi dello schermo ma il forno o<br />
quadrato nero senza fondo allo stesso tempo profondo e piatto, superficie quadrato nero inquadrato di<br />
bianco linea bianca quasi invisibile inquadrata di grigio largo inquadrato di grigio più scuro nel nero del<br />
nero al centro del centro niente nel grigio conficcato nel suolo del forno un triangolo ostruito di grigio<br />
chiaro su cui riposa pesante e maturo il pezzo di pietra e là fine cristallo solitario e fragile il bicchiere a<br />
calice posato su schermo tavolo confuso nero esattamente il quadrato del forno rovesciato depositato in<br />
sospeso: shoes.<br />
6. allora la capanna di legno addossata al muro un muro immenso infinito fin verso il cielo e senza fine a<br />
destra e a sinistra il muro infinito diritto tenuto e tenendo senza uscita allora la capanna che si sta<br />
disfacendo tenuta tutt’intorno da una stretta di corda tenuta tetto bianco per non crollare tenuta come e<br />
il tavolo ancora pane e vino rosicchiato sistemati e spostati a loro volta o per il segno uguale uguale a<br />
volume interno di vuoto tra le quattro gambe e di vuoto interno tra le quattro mura di tavole strette<br />
disposte in cordate verificate<br />
– Ora opaco dopo aver calpestato la terra dopo aver calpestato lo stelo e le foglie sfuggito verso il fondo<br />
scalfitto davanti posato calpestato verso il fondo come in equilibrio sul bordo e davanti la tempesta stesso<br />
rumore di tempesta stessa compostiera di vento-nuvola e di rumore di passaggio scalfitture rumorose di<br />
cielo o come un infisso di cantina in gioco di cubi per fare macchine o città niente può evitarlo, il filo<br />
metallico serve da rampa a cui la regola si oppone.<br />
[traduzione di Michele Zaffarano]<br />
Notizia.<br />
Jean-Marie Gleize è nato a Parigi nel 1946, e vive attualmente nell’Haute-Provence. È professore di<br />
letteratura francese contemporanea all’École Normale Supérieure di Fontenay-aux-Roses, dove dirige<br />
anche il Centre d’Études Poétiques. Per la casa editrice Al Dante dirige la collana «Niok» e ha fondato<br />
Nioques, rivista di riferimento imprescindibile per la comprensione e per la diffusione dell’area della<br />
poesia contemporanea di sperimentazione. Ha pubblicato numerose opere di poesia: États de la main<br />
mémoire (1979), Donnant lieu (Lettres de casse, 1982), Instances (Collodion, 1985), Game over (La<br />
Main courante, 1986), Léman, (Seuil, 1990), Ils sortent (La main courante, 1994), Non (Al Dante, 1999),<br />
Néon (Al Dante, 2004). È inoltre autore di importanti saggi e scritti vari, fra cui Poésie et Figuration<br />
(Seuil, 1983), l’introduzione alla lettura di Francis Ponge (Seuil, 1988), A noir. Poésie et littéralité (Seuil,<br />
1992), Le principe de nudité intégrale (Seuil, coll. «Fiction et Cie», 1995), Altitude zéro (Java, 1997), Les<br />
chiens noirs de la prose (Seuil, coll. «Fiction et Cie», 1999)<br />
189
SEI POESIE DA "LA VIA PROMISE<br />
cura e traduzioni di Danni Antonello<br />
Una carovana alla mercé del vento<br />
In un’epoca in cui la poesia conta poco o nulla, la figura di Guy Goffette riporta a passati splendori, e<br />
aiuta a immaginare una realtà (non letteraria) nella quale la parola del poeta non sia un semplice suono,<br />
o peggio, un gioco per amanti dei cruciverba, siano questi nutrimento a una fame popolaresca di,<br />
appunto, “belle parole”, o altrimenti motivo di seriosissime analisi formalistiche strutturali e strutturanti.<br />
Il poeta è anzitutto una figura morale, nella sua magari totale immoralità, responsabile di ciò che dice al<br />
mondo, al quale partecipa e come suo custode e come il peggiore tra i suoi “enfants terribles”, sempre<br />
pronto a metterne in discussione le fondamenta.<br />
“Sono qui”, chi abita altrove per propria inderogabile vocazione lo deve ammettere ogni qualvolta si trovi<br />
nella situazione di essere “presente al presente”, in faccia al mondo, a guardare “gli uomini dritto negli<br />
occhi”. Questo vuol dire che il momento della “prova”, e quindi l’essere gettati in balia del rischio, è<br />
sempre attuale e improrogabile. Il poeta è nudo di fronte a tutto, ed ha come sola protezione la sua<br />
stessa condanna: quei versi che a lui sono paradiso ed inferno, stigmate ed espiazione. In cambio darà<br />
“gli occhi e il nome”, il prezioso avere che il proprio demone gli impone di bruciare per provare la sua<br />
fedeltà. Quasi che quella vocazione vada scontata come una colpa, un’illusione di maggiore pienezza che<br />
comporta il castigo, per averla anche soltanto sperata, l’illusione che una promessa d’altro sia stata<br />
realmente fatta, ma soprattutto che potesse in un giorno per sempre futuro venire esaudita. Il poeta<br />
elegiaco avrà allora un’intera esistenza per rincorrere la propria carovana impazzita, quella che dovrebbe<br />
portarlo allo svelamento d’ogni distanza, in nome di superiori comunicazione e comunione con ciò che si<br />
rifiuta non solo all’essere raggiunto, ma persino all’essere detto. Riuscire a intravederlo, tanto mistero, è<br />
il merito, e la croce, del poeta orfico, sin dalla prima discesa agli inferi.<br />
EX-LIBRIS<br />
Tace talmente forte da farci fermare:<br />
qualche granello di tabacco, il fiore<br />
annerito d’un papavero, e tra i fondi di caffè,<br />
delle lacrime. Dietro al vetro delle parole<br />
un uomo s’è seduto, bruciati gl’occhi<br />
e il nome, perduti tutti gli affetti<br />
non ne può più. Poco gl’importa<br />
che un fiume continui dentro ai margini<br />
del libro, lui è più solo d’un fuscello<br />
buttato sul ciglio alla mercé del vento<br />
e vivere è ancora e ancora<br />
morire, a tutto quello che rifiuta<br />
l’esilio, la nudità, la notte.<br />
EX-LIBRIS<br />
Cela se tait si fort qu’on s’arrête :<br />
quelques grains de tabac, la fleur noircie<br />
d’un pavot et, parmi les cernes de café,<br />
des larmes. Derrière la vitre des mots,<br />
190
un homme s’est assis qui n’en peut plus,<br />
ayant brûlé ses yeux, son nom, perdu<br />
tous ses biens. Peu lui importe<br />
qu’un fleuve continue entre les marges<br />
du livre, s’il est plus seul qu’un fétu<br />
rejeté sur le bord, à la merci du vent,<br />
quand vivre, c’est encore et encore<br />
mourir à tout ce qui refuse<br />
l’exil, la nudité, la nuit.<br />
*<br />
I VECCHI TROIANI<br />
Alle cinque, quando il mondo esplode<br />
come un formicaio, restano<br />
sulla panchina del parco, affezionati<br />
al disegno della loro ombra. Il più taciturno<br />
vede bene le sbarre della gabbia<br />
e che qualsiasi parola è vana<br />
se non apre il compasso del presente.<br />
Così, rientrando nella sua camera deserta<br />
può ancora montarlo sbrigliato<br />
l’invincibile cavallo dell’orizzonte<br />
e nella criniera in fiamme<br />
a lungo lavarsi il cuore<br />
dalla polvere e dal vento freddo.<br />
LES VIEUX TROYENS<br />
À cinq heures, quand le monde explose<br />
comme une fourmilière, eux demeurent<br />
sur le banc du parc, attachés<br />
au crayon de leur ombre. Le plus taiseux<br />
voit bien les barreaux de la cage<br />
et que toute parole est vaine<br />
qui n'entrouvre le compas du présent.<br />
Aussi, rentrant dans sa chambre déserte,<br />
peut-il encore monter à cru<br />
l'invincible cheval de l'horizon<br />
et longuement laver son coeur<br />
de la poussière et du vent froid<br />
dans la crinière qui flambe.<br />
*<br />
LETTERA AL POSTINO<br />
LETTRE À MON FACTEUR<br />
1<br />
Estate o inverno, il cancello è aperto,<br />
tranquillo in fondo il cane che abbaia<br />
contro il vuoto orizzonte molto prima<br />
ch’io ti veda, non ci sono più di venti<br />
passi dalla strada alla soglia di casa,<br />
né rovi nel viale né donna dura e<br />
ingrigita, nessuno<br />
191
che prepari i calici o veda<br />
il calore dispiegare come una lettera<br />
il tuo volto, e così come<br />
si attraversa il deserto, bruciare<br />
la distanza che una cassetta rossa<br />
e vuota t’impedisce di varcare.<br />
1<br />
Éte comme hiver, la barrière est ouverte,<br />
paisible au fond le chien qui aboie<br />
contre l'horizon vide, bien avant<br />
que je t'aperçoive, et il n'y a guère<br />
plus de vingt pas de la route au seuil<br />
de ma maison, ni ronces dans l'allée<br />
ni femme dure et sombre, personne<br />
pour sortir les verres à pied, voir<br />
la chaleur déplier ton visage<br />
comme une lettre et, comme le désert<br />
se traverse, brûler cette distance<br />
qu'une boîte rouge et vide<br />
t'empêche de franchir.<br />
2<br />
Te lo chiedo al risveglio, di fronte allo specchio<br />
quando tutto può ancora accadere: una puntura<br />
di vespa, la caduta del tiranno,<br />
la grandiosa esplosione del muro<br />
alzato dal vicino sotto le mie finestre.<br />
Te lo richiedo quando il sole<br />
ritira la scala e la mia ombra si confonde<br />
con l’ombra di quel metro tra noi due<br />
il nero braccio del tiranno ancora in piedi<br />
con il dardo preciso della vespa che verrà,<br />
un giorno, mascherata e sicura<br />
d’abbattermi; te lo chiedo:<br />
che novità, qui, per noi due?<br />
2<br />
Je te le demande au lever, devant le miroir<br />
quand tout peut encore advenir : une piqûre<br />
de guêpe, le renversement du tyran,<br />
l'explosion grandiose du mur<br />
que le voisin a élevé sous mes fenêtres.<br />
Je te le demande encore quand le soleil<br />
retire son échelle et que mon ombre se confond<br />
avec l'ombre de la toise mitoyenne,<br />
le bras noir du tyran resté debout<br />
avec le dard précis de la guêpe qui viendra<br />
un jour, déguisée, mais si sûre<br />
192
de m'abattre; je te le demande :<br />
quoi de neuf, ici, pour nous deux ?<br />
*<br />
MARZO NELLA STALLA<br />
Basta col buio e la tristezza, puzza<br />
di rancido nel letto ed oblio, basta<br />
col vento che soffia sotto la porta<br />
come un serpente:<br />
vogliamo vivere nel verde e mettere<br />
il cielo sulle corna come un nastro<br />
di festa. È amaro il latte della prigione<br />
e risale in gola.<br />
Come un fiume per troppo tempo<br />
tenuto al guinzaglio, spingeremo davanti a noi<br />
le colline testarde, e con l’ebbrezza alle tempie<br />
avendo bevuto e gridato a tutti i venti<br />
guarderemo gli uomini, dritto negli occhi.<br />
MARS À L’ÉTABLE<br />
Assez du sombre et du triste, de la litière<br />
qui pue le rance et de l'oubli, assez<br />
du vent qui siffle par-dessous la porte<br />
comme un serpent :<br />
nous voulons vivre dans le vert et mettre<br />
le ciel à nos cornes comme un ruban<br />
de fêtes. Le lait du cachot est amer<br />
et nous remonte à la gorge.<br />
Comme un fleuve trop longtemps tenu<br />
en laisse, nous pousserons devant nous<br />
les collines têtues et, l'ivresse aux tempes,<br />
ayant bu, crié à tous vents,<br />
nous regarderons les hommes, droit dans les yeux.<br />
*<br />
PARTITA NULLA<br />
Manca sempre una sedia alla felicità<br />
e la camera è troppo grande (oppure è la mano<br />
improvvisamente avida a brancolare nella luce)<br />
e non cambiano niente i nostri sotterfugi,<br />
è come aggiungere una pianta nell’angolo morto,<br />
un tovagliolo sotto il vaso – i fiori freschi<br />
hanno tra le pieghe qualcosa di troppo vivo:<br />
un’aria di rimprovero, di dolorosa sfida<br />
a rendere finti i nostri minimi sforzi.<br />
Anche fuori dobbiamo trottare più a lungo<br />
l’uno all’altro saldati, perché s’attenui,<br />
con le nostre ombre sull’asfalto,<br />
il rumore dei pezzi persi per sempre.<br />
193
PARTIE NULLE<br />
Toujours une chaise manque au bonheur<br />
et la chambre est trop vaste (ou c'est la main<br />
soudainement avide qui tâtonne dans la lumière)<br />
et tous nos subterfuges n'y changent rien,<br />
comme d'ajouter une plante dans le coin mort,<br />
un napperon sous le vase — les fleurs fraîches<br />
ont dans leurs plis quelque chose de trop vif :<br />
un air de reproche, de douloureux défi<br />
qui fausse nos moindres élans. Dehors même,<br />
il nous faut marcher l'amble plus longtemps,<br />
soudés l'un à l'autre, pour que s'estompe,<br />
avec nos ombres sur l'asphalte,<br />
le bruit des pièces à jamais perdues.<br />
(da La vie promise, Gallimard, Paris, 1990)<br />
Notizia.<br />
Guy Goffette è nato nel 1947 a Jamoigne, nella Lorena belga. L’infanzia di vagabondaggi tra le colline<br />
ardennesi è seguita da lunghi anni di internamento in una istituzione religiosa, che stimolano il suo<br />
bisogno di libertà. Nel 1969, si sposa, costruisce casa e famiglia, e comincia ad insegnare (Éloge pour une<br />
cuisine de province). Nel 1980, fonda con alcuni amici, come lui trafficanti in nuvole, la rivista di poesia<br />
Triangle, e tre anni dopo, i quaderni de L’apprentypographe, da lui realizzati e stampati a mano. Forse<br />
troppo impegnativa, questa avventura lascia nel 1987 spazio a nuovi viaggi – Yugoslavia, Québec e<br />
Romania tra gli altri – che nutriranno l’opera in corso. Con l’interrompersi dei primi legami, cresce la<br />
malinconia di cui La vie promise rappresenta l’eco poetica. Già libraio d’occasione ha finito per smettere.<br />
Lo si vede a volte a Saint-Omer, Limoges, Charleville. Sembra dalle ultime nuove che viva a Parigi,<br />
traghettatore di libri in partenza.<br />
Membro del comitato di lettura delle edizioni Gallimard, dirige la collezione “Enfance en poésie”.<br />
Nel 2001 ha ottenuto il “Grand Prix de Poésie de l’Académie française” per l’insieme della sua opera.<br />
OPERE PRINCIPALI:<br />
SOLO D’OMBRES, poesie, Ipomée, 1983;<br />
ÉLOGE POUR UNE CUISINE DE PROVINCE, poesie, Champ Vallon, 1988. Premio Mallarmé (ristampato da Gallimard,<br />
seguito da La vie promise);<br />
LA VIE PROMISE, poesie, Gallimard, 1991;<br />
LE PÊCHEUR D’EAU, poesie, Gallimard, 1995;<br />
VERLAINE D’ARDOISE ET DE PLUIE, récit, Gallimard, 1996;<br />
ELLE, PAR BONHEUR, ET TOUJOURS NUE, récit, Gallimard, 1996 (sul pittore Bonnard);<br />
PARTANCE ET AUTRES LIEUX , récits, Gallimard, 2000. Premio Valery Larbaud;<br />
TACATAM BLUES, poèmes en prose, Cadex Éd., 2000;<br />
UN MANTEAU DE FORTUNE, poesie, Gallimard, 2001;<br />
UN ÉTÉ AUTOUR DU COU, romanzo, Gallimard, 2001;<br />
UNE ENFANCE LINGÈRE, romanzo, Gallimard, 2006.<br />
(in italiano)<br />
LA VITA PROMESSA, a cura di C. De Luca, Gedit, Bologna, 2005;<br />
I CANTI DEL PESCATORE D’ACQUA, a cura di D. Antonello, con una nota di A. Ponso, Carte di Fumo, Macerata, 2006;<br />
UN SOUFFLE OBSCUR À L’AUBE, con le incisioni di A. Bartolomeoli, a cura di D. Antonello, Edizioni de l’Officina,<br />
Vicenza, 2006 (ed. fuori commercio);<br />
TACATAM BLUES, con i disegni di M. Casagrande, a cura di D. Antonello, La spina editrice, Galliera Veneta (PD), 2006.<br />
194
A PAUSE, A ROSE, SOMETHING ON PAPER<br />
A moment yellow, just as four years later, when my father returned home from the war, the moment of<br />
greeting him, as he stood at the bottom of the stairs, younger, thinner than when he had left, was purple<br />
– though moments are no longer so colored. Somewhere, in the background, rooms share a pattern of<br />
small roses. Pretty is as pretty does. In certain families, the meaning of necessity is at one with the<br />
sentiment of pre-necessity. The better things were gathered in a pen. The windows were narrowed by<br />
white gauze curtains which were never loosened. Here I refer to irrelevance, that rigidity which never<br />
intrudes. Hence, repetitions, free from all ambition. The shadow of the redwood trees, she said, was<br />
oppressive. The plush must be worn away. On her walks she stepped into people’s gardens to pinch off<br />
cuttings from their geraniums and succulents. An occasional sunset is reflected on the windows. A little<br />
puddle is overcast. If only you could touch, or, even, catch those gray great creatures. I was afraid of my<br />
uncle with the wart on his nose, or of his jokes at our expense which were beyond me, and I was shy of<br />
my aunt’s deafness who was his sister-in-law and who had years earlier fallen into the habit of nodding,<br />
agreeably. Wool station. See lightning, wait for thunder. Quite mistakenly, as it happened. Long time<br />
lines trail behind every idea, object, person, pet, vehicle, and event. The afternoon happens, crowded<br />
and therefore endless. Thicker, she agreed. It was a tic, she had the habit, and now she bobbed like my<br />
toy plastic bird on the edge of its glass, dipping into and recoiling from the water. But a word is a<br />
bottomless pit. It became magically pregnant and one day split open, giving birth to a stone egg, about<br />
as big as a football. In May when the lizards emerge from the stones, the stones turn gray, from green.<br />
When daylight moves, we delight in distance. The waves rolled over our stomachs, like spring rain over<br />
an orchard slope. Rubber bumpers on rubber cars. The resistance on sleeping to being asleep. In every<br />
country is a word which attempts the sound of cats, to match an inisolable portrait in the clouds to a din<br />
in the air. But the constant noise is not an omen of music to come. “Everything is a question of sleep,”<br />
says Cocteau, but he forgets the shark, which does not. Anxiety is vigilant. Perhaps initially, even before<br />
one can talk, restlessness is already conventional, establishing the incoherent border which will later<br />
separate events from experience. Find a drawer that’s not filled up. That we sleep plunges our work into<br />
the dark. The ball was lost in a bank of myrtle. I was in a room with the particulars of which a later<br />
nostalgia might be formed, an indulged childhood. They are sitting in wicker chairs, the legs of which<br />
have sunk unevenly into the ground, so that each is sitting slightly tilted and their postures make<br />
adjustment for that. The cows warm their own barn. I look at them fast and it gives the illusion that<br />
they’re moving. An “oral history” on paper. That morning this morning. I say it about psyche because it is<br />
not optional. The overtones are a denser shadow in the room characterized by its habitual readiness, a<br />
form of charged waiting, a perpetual attendance, of which I was thinking when I began the paragraph,<br />
“So much of childhood is spent in manner of waiting.”<br />
*<br />
UNA PAUSA, UNA ROSA, QUALCOSA SU CARTA<br />
Un momento giallo, proprio come quattro anni più tardi, quando mio padre ritornò a casa dalla guerra, il<br />
momento di fargli le feste, mentre stava in fondo alle scale, più giovane, più asciutto di quando era<br />
partito, era porpora – anche se i momenti non sono più così colorati. Da qualche parte, sullo sfondo, le<br />
stanze condividono una fantasia a roselline. È carino quanto fa carino. In certe famiglie, il significato della<br />
necessità è la stessa cosa con il sentimento di pre-necessità. Le cose migliori erano riunite in una penna.<br />
Le finestre erano socchiuse da tendine di garza bianca che non venivano mai allentate. Qui mi riferisco<br />
all’irrilevanza, quella rigidità che mai si intromette. Per cui, ripetizioni, libere da ogni ambizione. L’ombra<br />
delle sequoie, lei diceva, era opprimente. Il peluche si deve essere consumato. Nelle sue passeggiate,<br />
entrava nei giardini altrui per rubare un fiore dai gerani o dalle piante grasse. Un tramonto d’occasione è<br />
riflesso sulle finestre. Una piccola pozzanghera è nuvolosa. Se solo si potessero toccarle, o, anche,<br />
afferrarle quelle grandi creature grigie. Ero spaventata da mio zio con la verruca sul naso, o dei suoi<br />
scherzi a nostre spese che erano al di là della mia portata, e mi vergognavo della sordità di mia zia che<br />
era sua cognata e che anni prima aveva preso l’abitudine di accennare con il capo, simpaticamente.<br />
Stazione di Wool. Vedo il lampo, aspetto il tuono. Del tutto erroneamente, come è già capitato. Lunghe<br />
linee temporali si trascinano dietro ad ogni idea, oggetto, persona, cucciolo, veicolo, ed evento. Il<br />
pomeriggio avviene, affollato e quindi senza fine. Più fitto, concesse lei, era un tic, aveva l’abitudine, e<br />
ora andava su e giù come il mio gioco con l’uccellino di plastica sul bordo del suo bicchiere, che attinge<br />
all’acqua e si fa indietro. Ma una parola è un pozzo senza fondo. Si ingravidò magicamente ed un giorno<br />
si aprì in due, dando alla luce un uovo di pietra, grande quasi come un pallone da football. A maggio<br />
quando le lucertole emergono dalle pietre, le pietre diventano grigie, da verdi. Quando la luce del giorno<br />
si sposta, ci deliziamo nella distanza. Le onde si infrangevano sui nostri stomaci, come pioggia di<br />
primavera sul pendio di un frutteto. Paraurti di gomma su macchine di gomma. La resistenza a dormire<br />
195
per essere addormentato. In ogni paese c’è una parola che cerca il suono dei gatti, di fissare un ritratto<br />
non isolabile nelle nuvole ad un fracasso nell’aria. Ma il rumore costante non è un segno della musica che<br />
sta arrivando. “Tutto è una questione di sonno,” dice Cocteau, ma dimentica lo squalo, che non lo fa.<br />
L’ansia è vigile. Forse all’inizio, anche prima che si possa parlare, l’inquietudine è già convenzionale,<br />
stabilendo il confine incoerente che più avanti separerà gli eventi dall’esperienza. Trova un cassetto che<br />
non sia strapieno. Che noi dormiamo sprofonda la nostra opera nell’oscurità. La palla si era persa in un<br />
cespuglio di mirto. Ero in una stanza con i particolari della quale una nostalgia più tarda si sarebbe potuta<br />
formare, un’infanzia viziata. Stanno seduti su sedie di vimini, le gambe delle quali sono affondate in<br />
modo diseguale nel terreno, cosicché ognuno è seduto leggermente inclinato e le loro posture fanno da<br />
aggiustamento a questo. Le mucche riscaldano le loro stesse stalle. Guardo veloce verso di loro e mi dà<br />
l’illusione che si muovano. Una “storia orale” su carta. Quel mattino questo mattino. Lo dico della psiche<br />
perché non è opzionale. Le sfumature sono un’ombra più densa nella stanza caratterizzata dalla sua<br />
prontezza abituale, una forma di carica attesa, di assistenza perpetua, a cui stavo pensando quando ho<br />
iniziato il paragrafo, “Così tanto dell’infanzia è speso in una maniera di attendere.”<br />
[da “My Life”, Green Integer Books, Los Angeles, 1987; traduzione di Gherardo Bortolotti]<br />
Notizia.<br />
Lyn Hejinian, nata nel 1941 in California, è una delle autrici più importanti della Language Poetry. Ha<br />
pubblicato libri di poesia e saggistica. Si possono ricordare: “Writing is an Aid to Memory”, del 1978; “My<br />
Life”, nelle due edizioni del 1980 e del 1987; “The Language of Inquiry”, 2000; “Slowly”, 2002. Ha<br />
tradotto il poeta russo Arkadii Dragomoshchenko. Insegna alla University of California. Notizie<br />
biobibliografiche più complete, oltre a recensioni e a una selezione dei suoi brani, possono essere<br />
recuperate agli indirizzi: http://epc.buffalo.edu/authors/hejinian/ e<br />
http://en.wikipedia.org/wiki/Lyn_Hejinian. Altri testi della Hejinian tradotti in italiano figurano<br />
nell’antologia “Nuova poesia americana. San Francisco”, a cura di Luigi Ballerini e Paul Vangelisti<br />
(Mondadori, 2006).<br />
196
CANTO DEL VINO 1<br />
Mare d’acqua,<br />
nuvole d’acqua,<br />
amore d’acqua.<br />
Una voce, bagnata, va.<br />
Una voce, bagnata, viene.<br />
Sempre matti per l’invisibile,<br />
seguivamo la bottiglia.<br />
Toccando le carni della notte,<br />
zuppi d’acqua, zuppi<br />
seguivamo l’acqua.<br />
O liquida fragranza,<br />
che appicchi il fuoco allo sguardo e fai tremare,<br />
o liquida fragranza, tu, nemica,<br />
scorri appiccando il fuoco.<br />
*<br />
POETA<br />
Tuttora ami e distruggi<br />
cose come diari,<br />
diari di studio o di speranze.<br />
Non hai cuore, solo vento,<br />
diffidenza verso la ricchezza, e un pizzico di follia.<br />
Raccogli i tuoi innati pensieri,<br />
raccogli la tua sensitività, tu, commerciante di<br />
sogni.<br />
Più di ogni altra cosa odi medici e medicine,<br />
odi i tuoi lettori,<br />
ti sorprendono a usare la croce come una<br />
squadra,<br />
t’imbarazza abboccare all’esca della morte,<br />
urli se cadi in una disgustosa felicità,<br />
sei prosciugato dall’oscura fine delle mille<br />
creature.<br />
Muori una, tante volte,<br />
felice fino in fondo,<br />
triste fino in fondo,<br />
sei anche imprudente.<br />
Vivi tutte le felicità,<br />
vivi tutte le tristezze…<br />
Per tutta la notte prosegui, morso dalla voce del tuo tempo.<br />
*<br />
SARÀ FORSE UNA STELLA?<br />
-DEDICATO A UN POETA<br />
Stelle numerose, come quelle del firmamento,<br />
sabbia innumerevole, come quella in riva al<br />
mare.<br />
Luccicano le cose splendenti,<br />
soffrono da sole quelle solitarie.<br />
Lo splendore della sua stella penetra nella<br />
carne.<br />
Attendo<br />
il momento in cui possa dire “Splendo”.<br />
Acqua immensa, galleggia sul deserto, mentre<br />
la sabbia diventa il suo corpo,<br />
fino a quando non si trasforma in vento<br />
197
che soffia tra i granelli di sabbia.<br />
Si affanna ad amare le proprie bugie,<br />
fino a quando non le vede più.<br />
*<br />
IL SOGNO DELLE COSE INANIMATE<br />
IL SOGNO DELL’ALBERO<br />
Bacia la luce del sole che scivola sulle sue<br />
foglie,<br />
e sogna la sua forza, l’albero.<br />
Strofina la sua guancia contro la pioggia,<br />
che scende sopra di lui, l’albero.<br />
Con la vigorosa forza del vento che soffia tra i<br />
rami,<br />
ascolta la voce della sua vibrante esistenza,<br />
l’albero.<br />
*<br />
IL SOGNO DELLE COSE INANIMATE<br />
- IL SOGNO DELL’AMORE<br />
L’amore arriva sempre tardi. L’amore arriva sempre dopo la vita.<br />
Hai mai amato? Il tuo amore non è altro che nostalgia dell’amore. Se la felicità di un estraneo viene dopo<br />
la tua, e la tristezza di un estraneo dopo la tua, allora l’amore viene sempre dopo la vita.<br />
…E allora?<br />
Allora la vita arriva sempre dopo l’amore.<br />
*<br />
IO, SIGNORE DELLE STELLE<br />
Io, signore delle stelle.<br />
Stelle, chiamatemi signore.<br />
Stelle, sono il vostro signore.<br />
Io, signore delle stelle.<br />
Io, sposo del vento.<br />
Vento, chiamami “mio signore”.<br />
La tua anima e la mia s’incontrano.<br />
Io, sposo del vento.<br />
Io, figlio del silenzio.<br />
Silenzio, madre.<br />
Silenzio, dio della parola.<br />
Nel duomo<br />
mi inchino a te.<br />
La mia vita è silenzio.<br />
La mia morte, inizio della parola.<br />
Guarda questo povero amore terreno.<br />
Io, signore delle stelle,<br />
io sposo del vento.<br />
*<br />
POESIA, INUTILE POESIA<br />
Poesia, cosa mai potrai amare?<br />
Poesia, per cosa mai potrai soffrire?<br />
Cosa mai potrai ottenere, poesia?<br />
198
Cosa potrai gettare,<br />
cosa potrai costruire,<br />
cosa potrai mai demolire?<br />
Morendo non riesci ad amare la morte,<br />
vivendo non ami la vita,<br />
soffrendo non soffri del dolore.<br />
Con la poesia non ami la poesia.<br />
Con la poesia, cosa mai potrai amare?<br />
Guarda, la neve cade a notte fonda.<br />
Occhi umani non guardano.<br />
Non v’è traccia di orme.<br />
Solo io, tranquillo e sereno.<br />
Solo io, nella mia bellezza.<br />
(da “Festival del dolore”, 1974, traduzione di Vincenza D’Urso)<br />
***<br />
ESPLOSIONE SOLARE<br />
Il corpo del sole è la sua luce.<br />
Il sangue del sole il suo calore.<br />
Quel corpo è l’origine del nostro corpo,<br />
quel sangue la sorgente del nostro sangue.<br />
Ultimamente<br />
parte di quel corpo è esplosa<br />
e parte di quel sangue fuoriuscito.<br />
Che dire dell’incertezza del mio corpo<br />
e dell’incertezza del mio sangue?<br />
Persino i miei passi hanno stranamente vacillato.<br />
Riduzione di luce e calore<br />
le ho considerate causa del mio raffreddore,<br />
mentre starnutivo.<br />
Ma la luce della calda benedizione<br />
del sole che splende come prima,<br />
abbaglia mentre la guardi,<br />
e anch’io sorrido, abbagliato.<br />
*<br />
L’ULTIMO CIELO NOTTURNO<br />
In origine<br />
eravamo una stella ed io,<br />
due stelle e due io.<br />
Ora<br />
siamo un pane e un io,<br />
due pani e due io.<br />
Uccidiamo spirito e corpo,<br />
e il nostro sangue diventa acqua sporca,<br />
per un futuro glorioso.<br />
Guarda l’ultimo cielo notturno.<br />
Le stelle, con la loro luce,<br />
avvolgono in fondo al cuore<br />
le lacrime e la morte di coloro<br />
che nessuno ricorda e di cui nessuno parla.<br />
Verso coloro che non proferiscono parola,<br />
la loro luce, come vuote parole, gettano le stelle.<br />
199
*<br />
COSE SOSPESE A MEZZ’ARIA - 1<br />
- PIETRE<br />
Le pietre volanti si sono arrestate a mezz’aria.<br />
Fluttuano nel vuoto.<br />
Un’altra versione le vorrebbe politicizzate.<br />
Una tale storia crea confusione nell’era fossile.<br />
Solo il non sorridente destino è certo.<br />
Non facciamo che ingoiare, poco a poco,<br />
propaganda di ferro, velenosa pozione.<br />
*<br />
COSE SOSPESE A MEZZ’ARIA - 2<br />
- IO<br />
E’ per paura,<br />
che il mio corpo, mano a mano, si appesantisce.<br />
Fuggo dalla mia ombra.<br />
La lascio andare con mano tremante.<br />
Per colpa di un’altra ombra.<br />
Persa l’ombra, parla l’essenza fluttuante nello spazio.<br />
Io non sono io.<br />
Io non sono io.<br />
*<br />
SETTE OCCHI PER GUARDARE UNA SIGARETTA<br />
L’ultimo segnale di mani assenti.<br />
Promessa che si dilegua come fumo.<br />
Disordine di enorme magnitudo.<br />
Segnale segreto di richiesta d’aiuto.<br />
Luce indiscreta durante un oscuramento.<br />
Consuetudinaria sirena da nebbia.<br />
Forse, fuoriuscita del mio respiro.<br />
*<br />
LA STRADA CHE PIANGE PER UN SOGNO<br />
Gli uomini parlano.<br />
Dalle loro bocche fuoriescono ragnatele.<br />
Mondi<br />
oscuri come occhi chiusi, ombre di molti<br />
morti impigliati in quella ragnatela.<br />
…Eppure<br />
Riconosco il pianto degli uccelli.<br />
Sogno la strada che piange per un sogno.<br />
200
*<br />
ISOLA<br />
Tra gli uomini esiste un’isola.<br />
Su quell’isola voglio andare.<br />
(da “Io, signore delle stelle”, 1978, traduzione di Vincenza D’Urso)<br />
Notizia.<br />
Chǒng Hyǒnjong nasce a Seoul il 17 settembre 1939, terzo di quattro figli di Chǒng Chaedo e Pang Ullyǒn.<br />
Fin dalla più tenera età impara la bellezza del contatto con la natura, e già in quegli anni riesce a stabilire<br />
con essa un rapporto di estrema vicinanza e interdipendenza, quasi fosse una continuazione del contatto<br />
con le proprie Origini, con la Madre primordiale, parte della ricerca che ogni essere umano prima o poi<br />
finisce per intraprendere.<br />
Nel 1965 consegue la laurea in Filosofia presso una delle più prestigiose università di Seoul, la Yonsei<br />
University: questo studio rappresenterà le basi della sua poesia e spesso si ritroveranno nei suoi versi<br />
riferimenti filosofici derivanti dai suoi studi giovanili.<br />
Appena dopo la laurea Chǒng Hyǒnjong inizia subito a lavorare come giornalista, scrivendo nelle pagine<br />
culturali di alcuni tra i principali quotidiani del paese. Nel 1974 giunge poi un’esperienza di vita e studio<br />
all’estero, quando per circa un anno si trasferisce negli Stati Uniti, e precisamente nello Iowa, per un<br />
corso internazionale di scrittura creativa. Ritornato in patria assume la docenza di Composizione letteraria<br />
presso il Seoul College of Arts, dove resta fino a quando non arriva un incarico più prestigioso presso la<br />
sua alma mater, dove insegna tuttora nel Dipartimento di Lingua e Letteratura coreana.<br />
Il suo debutto sulla scena letteraria avviene nel 1965, quando pubblica due sue poesie sulla prestigiosa<br />
rivista Hyǒndae Munhak (Letteratura contemporanea), cui segue immediatamente l’incarico presso il<br />
periodico letterario Sagye (Quattro stagioni).<br />
La sua stagione poetica viene generalmente divisa dai critici in due periodi ben distinti: il primo,<br />
testimoniato dalle raccolte Sogni di oggetti inanimati (1972), Festival del dolore (Kot’ongǔi 1974) e Io,<br />
signore delle stelle (1978), in cui il poeta affronta un discorso molto astratto e più dichiaratamente<br />
filosofico sui grandi temi della vita e sull’essenza della vita stessa, in tutte le sue manifestazioni; il<br />
secondo, che si avvia con la pubblicazione della raccolta poetica Come una palla che rimbalza quando<br />
cade (1984), a poco più di dieci anni dalla pubblicazione del suo primo libro, e continua con Non c’è molto<br />
tempo per amare (1989) e con Un singolo fiore (1992).<br />
Nel suo secondo periodo Chǒng Hyǒnjong adotta un linguaggio più sciolto, di più facile comprensione, pur<br />
sperimentando al tempo stesso nuove potenzialità della lingua e toccando nuove profondità di<br />
espressione. Il lungo percorso di ricerca esistenziale delle sue prime raccolte poetiche sembra aver aperto<br />
agli occhi del poeta nuove possibilità di soluzione nelle complesse dinamiche di rapporto tra l’essere<br />
umano e il mondo delle cose, animate e inanimate, che lo circonda. Nei nuovi componimenti l’analisi delle<br />
relazioni tra il Sé e il Mondo assume toni meno complessi e sofferti e il poeta si apre a nuove esplorazioni,<br />
affrontate con toni meno pessimistici e decisamente più maturi.<br />
Il percorso di maturazione filosofica proseguito nell’arco di venti anni porta Chǒng Hyǒnjong a credere in<br />
una versione più organica dell’universo e di tutte le cose che lo compongono, all’interno del quale ogni<br />
singola parte vive di vita propria e assume un proprio compito, individuale nel Tutto. Il poeta continua a<br />
guardare con occhi sempre pieni di meraviglia al grande mistero della vita al quale assiste<br />
quotidianamente, ma con lo spirito più serenamente curioso di chi avverte, nell’impeto vitale delle miriadi<br />
di Cose intorno a noi, la spinta primordiale verso la Vita cui anelano tutti gli esseri viventi.<br />
Il successo di critica e pubblico riscontrato dal poeta viene testimoniato anche dalla pubblicazione di<br />
numerose raccolte di poesie scelte, tra cui possiamo annoverare Luna, luna, splendida luna, per la Chisik<br />
Sanǒpsa nel 1984, Un dolore leggero in mezzo alla gente, per la Munhakkwa Chisǒngsa nel 1990, Isole<br />
tra la gente per la Miraesa, nel 1991 e Tutte le poesie di Chǒng Hyǒngjong vol. 1 e 2 ancora per la<br />
Munhakkwa Chisǒngsa, nel 1999.<br />
La ricerca dell’essenzialità della vita e la sua riflessione sulla condizione umana proseguono nelle ultime<br />
pubblicazioni del poeta, con le raccolte Sete e acqua di fonte (1999) e Non posso sopportarlo (2003), in<br />
cui il poeta, come afferma eloquentemente nel titolo stesso, continua a dar voce alla sua stanchezza per<br />
le contraddizioni del mondo contemporaneo, questa volta pervaso da una crescente vena di pessimismo e<br />
amara ironia. Il poeta sembra aver perso ogni fiducia nelle capacità di recupero da parte degli esseri<br />
umani, di condizioni di vita rispettose della dignità insita nell’essenza di tutte le creature, cui ha spesso<br />
fatto riferimento nelle raccolte precedenti. Ora è come se l’Uomo fosse diventato nemico di se stesso e la<br />
sua unica speranza è quella di “liberarsi da se stesso”, come afferma nei versi “Non esiste momento più<br />
bello per l’essere umano/di quando ci si libera di se stessi” (Non posso sopportarlo, Siwa sihaksa, Seoul:<br />
2003, p. 13).<br />
201
Voce tra le più rappresentative di una generazione di poeti “ecologici” e “partecipativi” alla vita sociale e<br />
politica del paese, Chǒng Hyǒnjong è stato insignito di numerosi premi, tra cui il Literature Prize for<br />
Korean Writers nel 1978, lo Yonam Literary Award nel 1990 e lo Isan Literature Prize nel 1992.<br />
BIBLIOGRAFIA DELL’AUTORE<br />
Sogni di oggetti inanimati, Minǔmsa, Seoul: 1972.<br />
Festival del dolore, Minǔmsa, Seoul: 1974.<br />
Io, signore delle stelle, Munhakkwa Chisǒngsa, Seoul: 1978.<br />
Come una palla che rimbalza quando cade, Munhakkwa Chisǒngsa, Seoul: 1984.<br />
Luna, luna, splendida luna, Poesie scelte, Chisik Sanǒpsa, Seoul: 1984.<br />
Non c’è molto tempo per amare, Segyesa, Seoul: 1989.<br />
Un dolore leggero in mezzo alla gente, Poesie scelte, Munhakkwa Chisǒngsa, Seoul: 1990.<br />
Isole tra la gente, Poesie scelte, Miraesa, Seoul: 1991.<br />
Un singolo fiore, Munhakkwa Chisǒngsa, Seoul: 1992.<br />
Gli alberi del mondo, Munhakkwa Chisǒngsa, Seoul: 1995.<br />
Sete e acqua di fonte, Munhakkwa Chisǒngsa, Seoul: 1999.<br />
Tutte le poesie di Chǒng Hyǒngjong vol. 1 e 2, Munhakkwa Chisǒngsa, Seoul: 1999.<br />
Non posso sopportarlo, Siwa sihaksa, Seoul: 2003.<br />
202
LE TAVOLETTE DI BOSSO DI APRONENIA AVITIA<br />
I. Vita di Apronenia Avitia<br />
Apronenia Avitia nacque nel 343. Costante governava l’impero. Visse settantun anni. Era potente,<br />
patrizia, e la maggior parte dell’anno soggiornava nei suoi palazzi di Roma o nella ricca villa del monte<br />
Gianicolo. Nelle lettere e nel diario che teneva - come Paolino e Rutilio Namaziano - non si trova una sola<br />
osservazione che accenni alla fine dell’impero. Forse non si degnava di vedere. Oppure non vide. O chi sa<br />
ebbe il pudore di non riferire nulla, o ancora il fermo proposito di farne uso come se di nulla si trattasse.<br />
Tale disprezzo, tale indifferenza le valsero il disprezzo, l’indifferenza degli storici. La morte di Magnenzio,<br />
l’esecuzione di Gallo, l’ascesa di Giuliano al potere imperiale, Gioviano, Valentiniano, Valente, non uno di<br />
questi nomi sfiorò le sue labbra. Vide Alarico in Roma: non si preoccupa di annotare altro se non la<br />
densità granulosa e luccicante di una foschia che si leva, o qualche pescatore che in lontananza passa sul<br />
Tevere. La battaglia di Mursa, la battaglia di Argentoratum, la battaglia di Marcianopoli e quella di<br />
Adrianopoli, le penetrazioni consecutive dei Franchi, degli Alamanni e dei Sassoni in Gallia, le penetrazioni<br />
consecutive dei Goti e degli Alani in Pannonia, dei Bastarni e degli Unni lungo il Danubio, dei Sassoni in<br />
Bretagna, dei Vandali e degli Svevi in Spagna, fu come se quei gladi scontrandosi non emettessero alcun<br />
suono, e come se il sangue delle loro vittime, versato sul selciato delle strade, sulle stoppie incendiate dei<br />
campi, sul marmo dei palazzi espugnati o devastati, rimanesse invisibile. Era più giovane di Simmaco e<br />
Ambrogio. Era più vecchia di Agostino e Girolamo. Tramite Decimus Avitius era legata a Vettius Agorius<br />
Prætextatus e Aconia Fabia Paulina, a Virius Nicomachus Flavianus, a Rusticiana, a Lycoris, a Lampadius,<br />
a Melania la Vecchia e agli Anicii. A dire il vero, l’intreccio di amicizie e parentele cui fu assoggettata<br />
Apronenia Avitia è reso ancor più complicato in quanto il suo secondo matrimonio ha ingarbugliato<br />
talvolta fino alla confusione i fili di una tela che già in origine era per molti versi inestricabile.<br />
Nel 350 i Franchi salii si stabilivano in Toxandria. Apronenia Avitia aveva avuto per nutrice una<br />
giovane originaria dei dintorni di Sezze; il suo nome era Latronia ed era nata al tempo dei Vicennalia di<br />
Costantino; morì crudelmente tre anni dopo - l’anno della morte di Magnenzio - violentata e straziata<br />
all’età di ventidue anni al termine di un banchetto da amici di D. Avitius, e senza dubbio dallo stesso D.<br />
Avitius. Nel 357, quando Memmius Vitrasius Orfitus per la seconda volta era prefetto di Roma e Sextus<br />
Claudius Petronius Probus proconsole d’Africa, Decimus Avitius diede in sposa Apronenia Avitia, la sua<br />
figlia maggiore, ad Appius Lanarius. Lo stesso anno, in Numidia, a Tagaste, un piccolo africano gracile,<br />
dalle membra debolucce, che sapeva a malapena camminare, e che rispondeva al nome di Augustinus,<br />
giocava nell’ombra dei vicoli straordinariamente bianchi, inondati da una luce densa, lanciando<br />
goffamente noci contro delle quaglie e un usignolo domestico. E’ il figlio di un decurione, Patricius. Sua<br />
madre ha press’a poco l’età di Apronenia Avitia; è cristiana; ha una leggera inclinazione al bere; si<br />
chiama Monica.<br />
*<br />
Nel 360 - quando Sextus Aurelius Victor terminava i Cæsares - Apronenia Avitia aveva già<br />
partorito Flaviana e Vetustina. La giovane patrizia era legata da parte di padre alle più potenti famiglie<br />
del partito pagano. A Roma, nei due palazzi di proprietà di Appius Lanarius, riceveva Rusticiana col<br />
ragazzino di otto anni, Aconia Fabia Paulina, Melania la Vecchia e Anicia Proba. Insieme ad A. Lanarius<br />
era ricevuta in casa di Sex. Claudius Petronius Probus e in quei circoli pagani che godevano del favore<br />
imperiale. Nel 364 L. Aurelius Symmachus - il padre di Simmaco - era prefetto dell’Urbe. In un piccolo<br />
appartamento affacciato sul ponte Sublicio Apronenia Avitia s’incontra con un certo Q. Alcimius, che<br />
amerà per cinque anni (gli anni 365-370). Nel 369, a Treviri, Quintus Aurelius Symmachus consegnò al<br />
Principe l’oro delle oblazioni. Fu proprio allora che Apronenia Avitia ruppe con Q. Alcimius. Ha riportato<br />
quella scena, l’appuntamento fissato ai Rostri, in pieno giorno, i pochi insulti secchi, il dolore, Silig che<br />
non arrivava, la visione per due o tre ore della bestia Gorgone, infine i singhiozzi. La gloria delle sue<br />
amiche più strette cresceva, mentre lei restava nell’ombra, si seppelliva nell’ombra, aggiungendo<br />
pezzettini di paglia, di crine, di muschio, di foglie e di fiori ai nidi ricchi e oscuri - o agli immensi termitai -<br />
che edificava in cima ai colli dell’Urbe; nel 370 Memmius Vitrasius Orfitus dava in sposa sua figlia<br />
Rusticiana a Q. Aurelius Symmachus; nel 371 Sextus Claudius Petronius Probus era collega<br />
dell’imperatore. L’anno della proclamazione di Valentiniano II Apronenia Avitia aveva già dato alla luce<br />
sette figli che superarono il secondo anno e che le sopravvissero tutti.<br />
La prima lettera che sia stata conservata di Apronenia Avitia risale all’anno 379 - Flavius Afranius<br />
Syagrius era allora proconsole d’Africa e Decimus Magnus Ausonius console. E’ l’anno che precede l’editto<br />
di Teodosio. Due opere sono rimaste sotto il nome di Apronenia Avitia: le epistolæ e i buxi. Si definiscono<br />
buxi quelle particolari tavolette, in legno di bosso, sulle quali gli Antichi annotavano debiti e crediti,<br />
nascite, disastri e morti. Apronenia iniziò a tenere questa specie di agenda, di effemeride, di promemoria,<br />
di appunti giornalieri l’anno della morte di Teodosio (395 d.C.). Era anche l’anno in cui morì suo padre, D.<br />
Avitius, in seguito al suicidio di Virius Nicomachus Flavianus, e l’anno in cui si risposò con Sp. Possidius<br />
Barca. A quel tempo ha cinquantuno o cinquantadue anni. Le note si interrompono l’anno del matrimonio<br />
203
di Ataulfo con Galla Placidia (414 d.C.). Apronenia Avitia ha allora settantun anni. Si può pensare che la<br />
fine del diario coincida con la sua morte.<br />
La corrispondenza giuntaci sotto il nome di Apronenia Avitia ha inizio a partire dall’anno 379 ma<br />
non consente una maggiore precisione. Non rimane alcuna lettera posteriore all’assassinio di Stilicone (22<br />
agosto 408), nessuna lettera, comunque, scritta dopo l’ordine di martellamento delle iscrizioni del Foro<br />
romano che lodavano la dedizione di Stilicone all’impero e che ne celebravano le vittorie (Quamvis litteras<br />
meas…, folio 481 r°).<br />
Esiste una sola edizione delle lettere e delle tavolette di bosso. Si trova nella riedizione parigina<br />
del 1604 della raccolta di Fr. Juret: Quinti Aurelii Symmachi v. c. / Cons. ordinarii, et præfecti Urbi /<br />
Epistolarum Lib. X. castigatissimi. / Cum auctuario. L. II. / Cum Miscellaneorum L. X. / Et Notis nunc<br />
primum editis / a Fr. Jur. D. / Parisiis, Ex Typographia Orriana. Anno Christiano 1604. Cum privilegio<br />
Regis. Quella riedizione venne ampliata con i manoscritti della collezione di Fr. Pithou ed è perciò molto<br />
più ricca di testi della bassa latinità che non la precedente, che risale al 1580 e che ebbe larghissima<br />
diffusione. J. Lect riprodusse soltanto il testo della prima edizione. Le Epistolæ di Apronenia Avitia sono ai<br />
ff. 342-481 della riedizione parigina del 1604. Nelle tre lettere datate 380 che ci sono pervenute non vi è<br />
un solo accenno allo stato dell’impero né al progredire del partito cristiano, all’editto di Teodosio, alla<br />
distruzione dell’altare della Vittoria. Apronenia Avitia assistette alla penetrazione estremamente rapida di<br />
quel partito religioso senza che la sua opera ne abbia nemmeno conservato la traccia del nome. Epoca<br />
prodigiosa, tuttavia, ove la sola risonanza dei nomi propri trascritti a poco a poco nelle leggende<br />
canoniche appare già terribile, fitta, coagulata, sorda, medievale, e come indissociabile dal tessuto stesso<br />
di una lingua che non è ancora: Didimo, Bonoso, Damaso, Siricio, Ottato, Sidonio, Martino, Ilario,<br />
Paolino, Macrobio - e ove anche uno sconosciuto si chiamava Ambrosiaster.<br />
*<br />
II. Le tavolette di bosso di Apronenia Avitia<br />
I. Cose da fare a. d. VI kalendas<br />
Vado al tempio di Numa.<br />
Cortine da lettiga.<br />
II. Cose che sono rare<br />
Fra le cose che sono rare aggiungerò un libro che è ben emendato.<br />
Un uomo che dimentica lo sguardo degli altri uomini.<br />
Una pinzetta per depilare che depili.<br />
Delle ante alle finestre che non lascino passare la luce del giorno.<br />
III. Passeggiata sull’isola<br />
Vidi passare sul Tevere delle barche piatte cariche d’avena, anfore, grano, frutta. La luce<br />
rasentava l’acqua. I colori erano bellissimi, in particolare i verdi e gli azzurri. Dei bambini nudi<br />
s’inzaccheravano sulle rive, nel silenzio. Eravamo troppo lontani per udirli e il vento veniva da sud. Poco<br />
distante, sulla sponda di una pozza d’acqua, fra i giunchi, con i glutei rosa posati sui talloni, un bambino<br />
di cinque anni, nero d’abbronzatura, pescava ranocchi. Con uno sguardo imperioso e portandosi la mano<br />
sul sesso ci fece segno di allontanarci.<br />
IV. Cose da fare<br />
Al tempio della Pace, alle spoglie di Tito.<br />
La phiala attribuita a Mys.<br />
Via Tiburtina.<br />
Vino originario del colle di Sezze.<br />
V. Parto di Lycoris<br />
Lycoris ha partorito un bambino che è morto di lì a poche ore. Assistetti Lycoris nel parto,<br />
accompagnata da Spatale e da Nigrina. Non mi piacciono le stanze da parto dove il bimbo è morto.<br />
Lycoris fece servire del vino di Siria. Il vino non ebbe effetto. Ho provato una tristezza che è durata sino<br />
al pranzo, in cui mangiai ostriche e porcini.<br />
VI. Cosa di cui bisogna ricordarsi<br />
Il tavolo rotondo di cedro da Glaucos.<br />
204
VII. Differenti tipi di donne<br />
Le donne che trovano tutto ammirevole, favoloso, inaudito sono insopportabili.<br />
Le donne che trovano tutto da poco, mediocre, stupido, di nessun valore, privo di gusto sono<br />
insopportabili.<br />
VIII. Cose da fare<br />
IX. Q. Alcimius<br />
Al colosso di Domiziano a cavallo.<br />
L’ampio mantello agganciato sotto il collo.<br />
Il lotto di lecci.<br />
Peschi innestati su albicocchi.<br />
Un mulo al prezzo di un giovane schiavo.<br />
Un tempo Quintus mi amava. Eravamo giovani. D. Avitius respirava ancora. Veniva furtivamente,<br />
passando dalla porta di servizio; avevamo la notte intera. Ai primi albori fingeva di alzarsi a malincuore,<br />
cercava la tunica, diceva che soffriva a lasciarmi. Non si affrettava ad allacciare i sandali. Veniva a<br />
baciarmi sul viso e giù, sul pube. Mi destavo. Gli dicevo, preoccupata: «Sta per far giorno. Sbrigati.»<br />
Sospirava. Quel sospiro mi sembrava fosse un’eco del fiume che attraversa l’Erebo. Allora si raddrizzava<br />
e rimaneva seduto sul letto. Annodava un laccio. Si chinava di nuovo e mi sussurrava all’orecchio il<br />
proposito di un desiderio, o forse inseguiva qualcosa che mi aveva raccontato durante la notte. Compiva<br />
una breve libagione all’aurora e con l’acqua si puliva la bocca, il sesso, si stropicciava gli occhi. Scivolavo<br />
dietro di lui. Restavamo un istante a guardarci davanti alla porta a due battenti. Mi diceva che non gli<br />
piaceva avere dinanzi tutta una giornata da trascorrere lontano da me. Mormorava che soffriva per<br />
questa separazione. Ripetevamo quattro o cinque volte l’appuntamento che avevamo combinato. Avevo<br />
la mano sul suo braccio. Toccavo le sue labbra con le mie. Varcava la porta e se la svignava di colpo.<br />
Nell’ombra ritornavo a letto. Mi sedevo. Ero riconoscente di aver vissuto la notte che avevo passato.<br />
Invidiavo me stessa, avevo i gomiti sulle cosce, mi sentivo umida, olezzante, arruffata. Ero felice, ma fra<br />
i rumori dei galli e dei secchi versai qualche lacrima. Amavo quella specie di fatica, quella spossatezza,<br />
quegli odori mescolati e quella sorta di sconforto repleto che non sempre si distingue dalla nausea e che è<br />
dovuto all’estremo appagamento.<br />
(Da: “Les tablettes de buis d’Apronenia Avitia”, Paris, Gallimard, 1984. Presentiamo qui la traduzione delle pp. 11-16 e<br />
39-43, che aprono rispettivamente la prima e la seconda parte dll’opera. Il presente testo è stato pubblicato per la<br />
prima volta sulla rivista “Testo a Fronte” di Marcos y Marcos, n. 17/1997, pp. 41-51. La traduzione è di Giuseppe<br />
Macor.)<br />
Notizia.<br />
Nato nel 1948 a Verneuil-sur-Avre, Pascal Quignard è musicologo, studioso di storia antica, soggettista<br />
(per “Una pura formalità” di Giuseppe Tornatore, 1994), nonché uno dei più importanti romanzieri<br />
francesi. Nel 2002 ha vinto il premio Goncourt. In Italia, Frassinelli ha pubblicato i seguenti titoli: “Il<br />
salotto del Wurttemberg” (1988), “Le scale di Chambord” (1990), “Tutte le mattine del mondo” (1992),<br />
“Il nome sulla punta della lingua” (1995), “Sogno di un nuovo mondo” (1996), “La vita segreta” (2001),<br />
“L'incisore di Bruges” (2003).<br />
205
Poesia dialettale<br />
206
Il calabrone<br />
C'è un'ansietà d'attesa nella stanza:<br />
il calabrone è un acino di rabbia.<br />
Ha descritto da parete a parete<br />
spigoli d'aria. Ha cabrato e picchiato.<br />
Sfiorato sul tavolo frontespizi<br />
e costole, cime di suppellettili<br />
le rime di me trascritte sui fogli.<br />
Ho spalancato tutte le finestre,<br />
abbandonati i fogli. Fuori il sole<br />
è fiorito sui rami, sorridente<br />
fra me che scrivo e la parola niente.<br />
*<br />
Elementare<br />
E c'è che vorrei il cielo elementare<br />
azzurro come i mari degli atlanti<br />
la tersità di un indice che dica<br />
questa è la terra, il blu che vedi è mare.<br />
(Da “La misura dell’erba”, 1993-1998)<br />
*<br />
O ài daviert i miei vôi<br />
tai vôi colôr trist timp<br />
dal cîl; lassù Donzel<br />
nus menarà tampieste<br />
tampieste e po tampieste<br />
sul trimulâ dai flôrs:<br />
inte prime sgoriade<br />
di vint sore dai verts<br />
o ài nasât cu l'odôr<br />
da lis jerbis di ploie<br />
l'odôr penç da l'amôr<br />
come che amôr mi fos<br />
il pês intîr di un cîl<br />
sore il tenar di un flôr.<br />
(Ho aperto i miei occhi negli occhi color tempocattivo del cielo; lassù, Donzel, ci porterà tempesta,<br />
tempesta e poi tempesta sul tremolio dei fiori: nella prima frustata di vento sopra i verdi, ho annusato<br />
con l'odore delle erbe di pioggia l'odore denso d'amore, come se amore mi fosse il peso intero di un cielo<br />
sulla tenerezza di un fiore.)<br />
207
*<br />
Tô la me bocje amôr sul to savôr<br />
la mê vergogne di vivi cumò<br />
ch'o ti tocji ch'o ti sflori e o ti cor<br />
come inte gnot un gjat adôr dai mûrs;<br />
jo o ti cor come un gjat adôr dai mûrs<br />
siben ch'o sai che intai conts di amôr<br />
doi mancul un mancul di zeri al fâs<br />
e un plui un un al varès di fâ,<br />
siben che e reste cumò che tu vâs<br />
la mê cerce di te su la tô piel<br />
su la mê il risinâ dai tiei cjavei<br />
e je dentri te tô la mê pôre<br />
di smenteâmi di me.<br />
(Tua la mia bocca, amore, sul tuo sapore, la mia vergogna di vivere adesso che ti tocco che ti sfioro e ti<br />
corro, come un gatto nella notte rade i muri; io ti corro come un gatto rade i muri, sebbene sappia che<br />
nei calcoli d'amore due meno uno dia meno di zero e uno più uno dovrebbe dare uno, benché resti,<br />
adesso che vai, il mio cercarti sulla tua pelle, sulla mia lo stillare dei tuoi capelli, è dentro la tua la mia<br />
paura di smemorarmi di me.)<br />
*<br />
Mondimi me, che par volê florî<br />
di flôr in flôr florint soi deventât<br />
ramaç no in flôr nì niçulât da l’aiar:<br />
libare tu, Domine mê, la mê<br />
libertât, metimi dentri tai vôi<br />
la lûs tenare e garbe de to piel di vencjâr:<br />
l'amôr al è cuant che i miei deits<br />
a tocjâti a deventin<br />
la ponte dai tiei.<br />
(Mondami, che per voler fiorire di fiore in fiore, fiorendo sono diventato un ramo senza fiore, né mosso<br />
dal vento: libera tu, Domine, la mia libertà, mettimi dentro gli occhi la luce tenera e aspra della tua pelle<br />
di vinco: 1’amore è quando le mie dita a toccarti diventano la punta delle tue.)<br />
(Da Amôrs, 1992-1999)<br />
*<br />
Rondeau<br />
Cun cheste lenghe nude e in nissun puest<br />
nì mai viodût in lûs di nissun voli<br />
se no dai miei cjalant i tiei celescj<br />
jo mâr o clamarès chel to celest<br />
tiscjel il lum dal to tasê forest<br />
e primevere il solc lunc dal to pet;<br />
cjalanti, inte buere di me ch'e cres<br />
208
falchet sarès se no tasès cjalanti<br />
in cheste lenghe nude e in nissun puest.<br />
In nissun puest amôr ma nome in chest<br />
l'amôr ti disarès ch'al è taront<br />
l'insom e il sot ladrîs e zime in rime<br />
e intal clarôr sul fîl da la tô schene<br />
crît il clâr de lune dare compagne<br />
bielece son li' mans strentis in trece<br />
li' mês li' tôs e intor il braç de gnot<br />
ch'a si davierç in lûs, nulinti, e in blanc<br />
in nissun puest amôr ma nome in chest.<br />
In nissun puest ma achì ti volarès<br />
niçant adôr sul niçul des peraulis<br />
peraulis come fraulis ti darès<br />
che vite ator ator e je tampieste<br />
jo e te mâr fer tal mieç da la tampieste<br />
e messedant i tiei cui miei cjavei<br />
amôr plui tô la muse tô e sarès<br />
e non il to plui non, cun dut il rest forest<br />
in cheste lenghe nude e in nissun puest.<br />
(RONDEAU. Con questa lingua nuda e in nessun luogo, né visto mai in piena luce da nessun occhio, se<br />
non dai miei guardando i tuoi celesti, io mare chiamerei quel tuo celeste, castello il lume del tuo tacere<br />
straniero e primavera il solco lungo del tuo petto: guardandoti, nella bufera di me che cresce, sarei<br />
falchetto se non tacessi guardandoti, in questa lingua nuda e in nessun luogo.<br />
In nessun luogo, amore, ma soltanto in questo, l’amore ti direi che è come un cerchio, il sotto e il sopra,<br />
gemma e radice in rima e nel chiarore sul filo della tua schiena, grido il chiaro della luna del medesimo<br />
chiarore, bellezza sono le mani strette in una treccia, le mie, le tue, e attorno il braccio della notte che si<br />
apre in luce, fiutandoti, e in bianco, in nessun luogo, amore, ma soltanto in questo.<br />
In nessun luogo ma qui io ti vorrei, cullandoti nel su e giù delle parole, parole fresche come fragole ti<br />
darei, che la vita attorno è una tempesta, io e te mare fermo in mezzo alla tempesta e mescolando i tuoi<br />
con i miei capelli, più tuo, amore, il volto tuo sarebbe, più nome il nome tuo, con tutto il resto straniero,<br />
in questa lingua nuda e in nessun luogo.)<br />
*<br />
In ospedale<br />
Dire con voce alta il bianco delle pareti,<br />
i cappotti, i giacconi che trattengono l'aria d'inverno<br />
di chi ti viene a trovare,<br />
la paura sono i corridoi lunghi<br />
con la gente che va sbandata in vestaglia<br />
come staccata da sé, lungo i muri<br />
mentre un vento fuori lucida le nuvole, le case<br />
i rami di alberi che non conosco<br />
e il vedere dei vecchi li vede da un occhio<br />
da cui tutto il bello del mondo è andato via.<br />
Grande meridiana del tempo, quando il tempo si è rotto<br />
dentro qualcosa di grande, dentro.<br />
A Mario e Donata<br />
209
Amo gli acrobati e li invidio<br />
il pilota decorato e impietoso<br />
dalla benda nera e il teschio sulla fusoliera<br />
quando sperare è essere un corpo<br />
con la carne tagliata per guarire<br />
per un riconquistato assetto che ti faccia dire<br />
voi venitemi a trovare quando esco<br />
sembra di vivere quando saremo fuori.<br />
Aprile 2002<br />
*<br />
Ritornare<br />
I piedi hanno portato l’allegria delle impronte<br />
i vostri piedini nella neve, bambini<br />
nell’odore degli stivali di gomma<br />
neri rossi celesti dove comincia la salita<br />
dove finisce la discesa delle slitte<br />
piegarsi nel ricordo, mi piego nel ricordo<br />
a piedi uniti saltiamo nella neve<br />
di quando guardare il cielo era una fantasia più grande<br />
vera la verità delle cose toccate<br />
sarò stato a quest’ora, sarò stato tante volte<br />
lontano come a quest’ora, voce nella mia voce<br />
occhio nel mio occhio rinnovato<br />
mano mia nuova nel bianco della mia.<br />
Maggio 2002<br />
*<br />
Assetto di volo<br />
Con lui venivano una determinazione feroce<br />
dalla camera alla palestra<br />
i cento metri percorsi in cinque minuti,<br />
con una tensione di motore imballato<br />
tutta la forza del suo corpo spastico<br />
ribellata alla forza di gravità.<br />
Sant'Agostino diceva che perfezione<br />
è la carne che si fa spirito, lo spirito che si fa carne<br />
ma non è vero: ogni mattina i puntali delle stampelle<br />
scivolano metro a metro per guadagnarne cento<br />
ogni mattina lo spirito è tagliato via da quel corpo,<br />
A Gino Lorio, in memoria<br />
210
dalle suole strascicanti e dalle nocche strette,<br />
bianche sulle impugnature,<br />
ogni mattina dal dorso di lottatore<br />
si stacca un collo di tendini tesi e redini allentate<br />
un urlo chiuso nella sua profondità,<br />
perfetto nella sua separazione.<br />
E io vi vedo una bellezza di cimieri abbattuti<br />
e dentro la parola andare la parola compimento<br />
e sono sicuro che lui sogna baci pieni di vento<br />
mentre la volontà conquista le giornate a morsi,<br />
schiaffo dopo schiaffo perché venga la sera<br />
schiaffo dopo schiaffo, chiglia in piena bufera.<br />
Ci vuole un'estate piena e un padre calmo,<br />
un dio non assiso in mezzo agli sconfitti<br />
ma così in tutta bellezza lo posso immaginare<br />
come un bambino alle prime pedalate,<br />
reggilo, eccolo, tienilo così – adesso tiene<br />
uniti la terra e il cielo dell'estate<br />
non sbanda più, vince, è in equilibrio,<br />
vola via.<br />
Luglio 2003<br />
(Da “Dittico, 1999-2003)<br />
*<br />
La luce toccata<br />
A Chiusaforte Silvio intrecciava canestri<br />
con mezzo cuore e il cuore dei bambini intorno<br />
io dico ti ho visto nella mia veglia<br />
nel respiro acceso dell'alba<br />
tra il fischio e il silenzio<br />
e le dita andavano di vinco in vinco<br />
come un'acqua nervosa, una spiegazione raccolta<br />
nel tempo dietro questo tempo a mezza veglia<br />
siamo venuti, io con le pupille di bimbo<br />
e allora trattieniti adesso che torno<br />
dentro il tuo odore di povero<br />
nei boschi dove andiamo si dice con lo sguardo<br />
le labbra un profilo chiuso, il passo un passo radicato<br />
qui, dove sono ora, nel battito del giorno alla finestra<br />
nel sonno lasciato, nel millesimo di me<br />
dove ogni debolezza è stata offerta<br />
la pietra aperta, la luce toccata.<br />
211
*<br />
I vostri nomi<br />
Ieri sono passato a trovarti, papà,<br />
la luce in questi giorni non è tagliata dall'ombra<br />
negli alberi senza vento c'è l'odore secco dell'aria<br />
per come posso, ti ho portato il racconto dei temporali,<br />
l'odore di inverno sulle tempie<br />
a Chiusaforte è nevicato, nevica sempre<br />
e le fontane sono ghiacciate<br />
penso, per qualche momento, che tu sia ancora lassù<br />
ad accatastare legna con cura<br />
e non in luoghi come questi<br />
la casa di riposo con la pista per le bocce<br />
dove state raccolti come le foglie nel parco<br />
uniti nell'attesa, lontani dalle città assediate.<br />
Dicevate domani, dicevate questo è il figlio<br />
e con il silenzio del fischio nella bufera<br />
i vostri nomi sono andati via<br />
voi che siete stati popolo e ombra<br />
remissione e forza<br />
il tuo nome, papà, e quello di Bruno, che non era un'antilope<br />
e tirava sassate al pettirosso sul ramo più alto<br />
o quello di Giordano, o quello di Cesare, o quello<br />
di Alfredo, l'artigliere<br />
o quello di quelli che, come te, sono stati bambini<br />
che hanno detto domani.<br />
(da “Poesie inedite”)<br />
[Tutte le poesie sono tratte dalla raccolta: Assetto di volo.Poesie 1992-2005, Crocetti, Milano, 2006]<br />
Notizia.<br />
Pierluigi Cappello è nato a Gemona del Friuli (UD) nel 1967; vive a Tricesimo (UD). Ha diretto la collana<br />
di poesia La barca di Babele, edita a Meduno e fondata da un gruppo di poeti friulani nel 1999. Ha<br />
pubblicato i seguenti libri: Le nebbie (1994), La misura dell’erba (1998), Amôrs (1999), Dentro Gerico<br />
(2002). Con Dittico (Liboà, Dogliani 2004) ha vinto il premio Montale Europa di poesia. Il suo ultimo libro,<br />
Assetto di volo (Crocetti, Milano 2006), raccoglie la sua produzione poetica degli ultimi 10 anni.<br />
212
Al s dà na petnèda a la mèj<br />
as guèrda int al spèc’ cu i ò’c slargà<br />
cómm un ch’an s védd mía.<br />
Ai è tótt da sbrighèr<br />
tótt chi quî da fèr<br />
na fûria na più fâta ròba<br />
via, ndémm, a so pronta alôra.<br />
Prémm ai è la cîsa<br />
i panchétt dûr i fiûr<br />
al prêt ch’al bacâja<br />
l’Alda inplicià cómm al sòlit<br />
e dópp<br />
dópp la tèra, al bûs<br />
in dovv al métten dênter<br />
na mâsa d’ân al bûr<br />
nciûn ch’al dscorra cu teg<br />
nciûn ch’al séppa in dovv t ê<br />
al tênp ch’al s asluntèna<br />
e chi èter ch’i rujjen fôrt<br />
e po’<br />
brîsa più gnînt<br />
sulamênt un gran silênzi.<br />
E i la ciâmen pès.<br />
(Si dà una pettinata alla meglio/ si guarda nello specchio con gli occhi slargati/ come uno che non si vede<br />
mica./ C’è tutto da sbrigare/ tutte quelle cose da fare/ una furia una più fatta roba/ via, andiamo, sono<br />
pronta allora./ / Prima c’è la chiesa/ i panchetti duri i fiori/ il prete che parla/ l’Alda impellicciata come al<br />
solito/ e dopo/ dopo la terra, il buco/ dove lo mettono dentro/ un mucchio d’anni al buio/ nessuno che<br />
parli con te/ nessuno che sappia dove sei/ il tempo che si allontana/ e gli altri che piangono forte/ e<br />
dopo/ più niente/ solamente un gran silenzio./ E la chiamano pace.)<br />
*<br />
Là nevghè n’ètra vólta.<br />
al fradd am s atâca adòs<br />
cómm un fiolên int al fiómm<br />
ch’al vol zughèr.<br />
Pâsa un òm<br />
tótt cûrv rintanà<br />
int la gabèna nêgra<br />
e mé a l guèrd e mé e lù<br />
a parêm int al mênter ch’al guèrd<br />
pròpri al stéss quèl.<br />
(Ha nevicato ancora./ il freddo mi si attacca addosso/ come un bambino nel fiume/ che vuole giocare./<br />
Passa un uomo/ tutto curvo rintanato/ nel giaccone nero/ e io lo guardo e io e lui/ sembriamo mentre lo<br />
guardo/ proprio la stessa cosa.)<br />
*<br />
Żug<br />
Nuéter a żughên cómm i żûghen<br />
quê ch’ i żûghen a sold:<br />
zacâja zacâja i én sênper povrétt.<br />
(Gioco// noialtri giochiamo come giocano/ quelli che giocano a soldi: // litiga litiga son sempre poveretti)<br />
213
*<br />
Gnîva pièn pièn su par al stradèl<br />
cómm’un cl’âbia tótt al tênp ch’ai vôl<br />
par stèr al mónnd, par respirèr l’âria fêna<br />
dla matènna, quènd tâca a fèer lòmm<br />
o la sîra, apêna bûr, l’ôltma chèrta<br />
dal mâz, un fènt ed brésscla, un âs.<br />
(Veniva piano piano du per lo stradino/ come uno che ha tutto il tempo che ci vuole/ per stare al mondo,<br />
per respirare l’aria sottile/ della mattina, quando inizia a far luce/ o la sera, appena buio, l’ultima carta/<br />
dal mazzo, un fante di briscola, un asso.)<br />
*<br />
Secondo pomeriggio<br />
Sotto il pieno delle nuvole, a bordo campo,<br />
ci sono quelli che guardano i ragazzini calciare,<br />
oppure un altro, un’altra cosa piccola,<br />
il silenzio prima di prendere una carta<br />
dal mazzo scuro e unto del bar, una volta,<br />
quando per i vecchi c’era ancora il fumo<br />
l’odore di MS, di Nazionali<br />
dentiere scoperte e dita arancioni e<br />
bòja d na vâca am vlîva un âss<br />
e la Carla che passa lo straccio sul banco<br />
toglie i fondi, i cerchi rossi,<br />
con le dita grosse di chi lava troppo<br />
e con su lo smalto gli anelli d’oro<br />
Carla sêgna - Nino l’a vint un’ètra zoclêda<br />
e anche io me le ricordo le mie<br />
i cimeli raccolti nel mobilino in alto a destra<br />
e la nonna che si stimava del nonno<br />
e’ più brèv a brîscla ed tùtt e dopolavôr<br />
anche se lo sgridava perché usciva sempre<br />
ma poi prima di uscire lo pettinava<br />
e me li ricordo così, sulla porta,<br />
lui già in giacca e cappello<br />
lei dietro col pettinino alzato<br />
nella cornice del cielo prima di sera,<br />
con la luce che cambia.<br />
*<br />
Giardino delle rose<br />
Tun m é mâi portà un fiôr<br />
ma tótt un żardên<br />
brîsa na canzôn dl’orchèstra<br />
ma la musica intîra.<br />
Mé, ai ò sôl sti dó parôl<br />
Ad Andrea<br />
214
ótt e scalcagnà.<br />
La vida l’è bèla, al sèt?<br />
(non mi hai mai portato un fiore/ ma tutto un giardino/ non una canzone da orchestra/ ma la musica<br />
intera./ Io, ho solo queste due parole/ rotte e malmesse./ / La vita è bella, lo sai?)<br />
*<br />
Al gréll<br />
L è trî dé ch’ai è<br />
un gréll serà in cà<br />
apêna al tâca a fèr bûr<br />
lú al tâca a ciamèr<br />
e cêma chi eter grill<br />
e cêma al stell<br />
i chénp<br />
i gât<br />
i bòsc<br />
e meé am créd ch’ad fòra<br />
al sìa tótt un mónnd<br />
parfèt<br />
cómm un mistêr<br />
(Sono tre giorni che c’è/ un grillo chiuso in casa/ appena comincia a fare buio/ lui comincia a chiamare/ e<br />
chiama gli altri grilli/ e chiama le stelle/ i campi/ i gatti/ i boschi/ e a me sembra che di fuori/ ci sia tutto<br />
un mondo/ perfetto/ come un mistero.)<br />
Notizia.<br />
Azzurra D’Agostino è nata nel 1977 a Porretta T. (Bo). Nel 2001 si è laureata in filosofia. Ha pubblicato le<br />
prime poesie su varie riviste e antologie, tra cui “Voci di poesia” (Pendragon, 1998). Nel 2003 è uscita la<br />
prima raccolta per i tipi de “I Quaderni del battello ebbro”, una silloge di poesie italiane e dialettali dal<br />
titolo “D’in nci’un là” (finalista Premio Diego Valeri). Scrive per il teatro (attualmente è in scena un<br />
monologo interpretato da Gabriella Rusticali dal titolo “Mattinastra” e uno dal gruppo modenese del<br />
Teatro dei Venti, regia di Stefano Tè, oltre che uno spettacolo per bambini in allestimento dal gruppo<br />
Teatro dell’Argine di Bologna) ed è redattrice della rivista “daemon-libri e culture artistiche”; collabora<br />
inoltre con alcuni giornali e riviste come articolista. Nella primavera del 2005 è uscita la seconda raccolta,<br />
“Con ordine”, pubblicata dalla casa editrice “<strong>LietoColle</strong>” (finalista premio Cetona Verde Poesia). Una lunga<br />
intervista sulla sua poetica è stata pubblicata nel volume a cura di M. Casagrande “In un gorgo di fedeltà-<br />
interviste a venti poeti italiani”, edizioni Il Ponte del Sale.<br />
215
Me vole vedé morte a ggende<br />
vole ca nun respire cchiù<br />
pecché u respire mije<br />
daje fastidje o sole<br />
a quiru sole ca tutte chiamene attane<br />
e nessciune ha maje viste<br />
Morte, sette parme sotte a terre<br />
accussì nun rombe re šcatele<br />
a quande aggia credute amice<br />
e a mane sott’o core hanna mise<br />
p'acchiappà re llàcreme<br />
ca sembe vaje strecchianne<br />
Ma ije nun more<br />
pecché só mmale fierre<br />
tenghe tutte arrezzute<br />
a panze, u suanghe, u core<br />
quiru core muorte accise<br />
scazzate sott’o muaglje di juorne<br />
e arredutte cume pedde de ciucce<br />
Si è ciucce<br />
u destine ha vvelute accussì,<br />
nda corse cu a vite è rumuaste ndrete<br />
e u sole nun ha vviste u chiuande suje<br />
ca l’è arrevate acquasande<br />
nda quiru ciele ca nun crede e fesse.<br />
Chiange e ccume chiange u ciucce!<br />
pure ca nge só re mmaregarite<br />
e crésscene u mese d’a Signore<br />
u mese de re rrose,<br />
só sembe fiure de ciucce...<br />
Perciò nessciune sape u delore suje<br />
quanne se sonne a morte<br />
e a vede bbelle cume a na stelle,<br />
cume a na cumete<br />
ma a paure u fotte<br />
e ffacesse aviette juorne dice<br />
pe rresperà angore<br />
e ddà fastidje o sole<br />
(Vuole vedermi morta la gente / vuole che non respiri più / perché il mio respiro / dà fastidio al sole / a<br />
quel sole che tutti chiamano padre / e nessuno ha visto mai // Morta, sette palmi sottoterra / così non<br />
rompo le scatole / a quanti ho creduto amici / e la mano hanno messo sotto il cuore / per raccogliere le<br />
lacrime / che sempre va spargendo // Ma io non muoio / perché sono ribelle / ho tutto arrugginito / la<br />
pancia, il sangue, il cuore / quel cuore morto ucciso / schiacciato sotto il maglio dei giorni / e ridotto<br />
come pelle di ciuccio // Se è ciuccio / il destino ha voluto così / nella corsa con la vita è rimasto indietro /<br />
e il sole non ha visto il suo pianto / che gli è arrivato acquasanta / in quel cielo che non crede ai fessi. //<br />
Piange e come piange il ciuccio! / anche se ci son le margherite / e sbocciano il mese della Signora / il<br />
mese delle rose / sono sempre fiori di ciuccio… // Perciò nessuno conosce il suo dolore / quando sogna la<br />
morte / e la vede bella come una stella / come una cometa / ma la paura lo fiacca / e facesse presto<br />
giorno dice / per respirare ancora / e dar fastidio al sole)<br />
Puozze Arrabbià La Vallisa 1999<br />
È l’arje ca spezzanne re jurnuate<br />
dice o core respire e vvatte chiane<br />
senze c’aspiette o mbuoste quacchedune<br />
ca t’ha rarate u féchete perbene<br />
È l’arje ca se ngenócchje a tutte quande<br />
pegliànnese u respire vocche a vocche<br />
nessciune a paghe e chi ne téne assaje<br />
216
cambe cundende senza penzà cchiù a gguaje<br />
È sembe édde ca mbrijache r’auciedde<br />
cume cambane a ffeste nda uandiere<br />
e de sole allegre e lune zumbaredde<br />
te énghje a vite, nun te respire sere<br />
(È l’aria che spezzando le giornate / dice al cuore respira e batti piano / senza che aspetti al varco<br />
qualcuno / che t’ha raschiato il fegato perbene // È l’aria che s’inginocchia a tutti quanti / prendendosi il<br />
respiro bocca a bocca / nessuno la paga e chi ne tiene assai / vive contento senza pensare ai guai // È<br />
sempre lei che ubriaca gli uccelli / come campane a festa nella guantiera / di soli allegri e lune saltellanti<br />
/ ti colma la vita, non ti respira sera)<br />
Rescidde, Zone Editrice 2001<br />
Sònene re ccambane stamatine<br />
pe na mésse ca nessciune vaje a ssende<br />
povere a quire muorte mò allabbiende<br />
manghe na tuwaglje s’ha guadagnate<br />
povere a quire muorte senza speranze<br />
de se truwà ucine a Trenetate<br />
manghe na letanije ha rrecetate<br />
e de gastéme ha ffatte chiene a panze<br />
Sònene re ccambane stamatine<br />
cume strevédde de funduane abbàgnene<br />
pure u cuardille nghiuse ind’a caggiole<br />
ca s’è appecate cu r’asscédde soje<br />
(Suonano le campane stamattina / per una messa che nessuno ascolta / povero quel morto che ora è in<br />
pace / neanche una tovaglia ha guadagnato // povero quel morto senza speranza / di trovarsi al cospetto<br />
della Trinità / neanche una litania ha recitato / e di bestemmie ha riempito la pancia. // Suonano le<br />
campane stamattina / bagnano come spruzzi di fontana / anche il cardillo chiuso nella gabbia / che si è<br />
impiccato con le sue ali)<br />
Rescidde, Zone Editrice 2001<br />
Nde porte cchiù sta cape ije nun suacce<br />
e scrive mbiette e mure ca te voglje<br />
ma tu palomma janghe te ne squaglje<br />
cume a neve de marze mbacialute<br />
de Gengis Can tu sì cchiù crudele<br />
nun m’ammuzze a cape ind’a Mongolje<br />
appiénne cazze cazze a re magnolje<br />
accussì dd’ape fanne terannije<br />
e n’uocchje o surche e une o quannìte<br />
abbàstene a ttené mane a situazione<br />
ma l’àneme ca vóle spiegazione<br />
gastéme ammende strenge pezze mmócche<br />
(Dove porto la testa più non so / e scrivo sopra i muri che ti voglio / ma tu palomba bianca te la squagli /<br />
come la neve di un marzo impazzito // di Gengis Kan tu sei più crudele / non mi recidi la testa in<br />
Mongolia / l’appendi difilato alle magnolie / così le api vi fanno da tiranne // e un’occhiata al solco una al<br />
217
canneto / bastano a controllare la situazione / ma l’anima che vuole spiegazioni / bestemmia mentre<br />
stringe pezze in bocca)<br />
Solije, Zone editrice 2003<br />
fenesta vassce e patrone crudele<br />
pecché me daje tutte stu turmiende<br />
quanne putisse cume foglje o viende<br />
fàreme vuluà ind’e vosche u ciele<br />
Nu furne tenghe mbiette e ssenza pane<br />
ng’è cénere e rramelle angóre nfiamme<br />
e ttu me sfusce cume a quera mamme<br />
ca u figlje abbandone pe l’avvendure<br />
ogni matine spezze u vóle o tiembe<br />
ind’a specchiere guarde l’atu ije<br />
e ogni notte sacce ca sta malatije<br />
pe ssembe adda duruà, pe criste ngroce!<br />
(fenesta vassce e patrone crudele / perché mi dai questo gran tormento / quando potresti come foglia al<br />
vento / farmi volare nei boschi del cielo // Un forno ho nel petto e senza pane / con cenere e rametti<br />
ancora in fiamme / e tu mi sfuggi come quella mamma / che il figlio abbandona per l’avventura // ogni<br />
mattina spezzo il volo al tempo / nella specchiera guardo l’altro io / e so ogni notte che la malattia / per<br />
sempre durerà, per cristo in croce!)<br />
Solije, Zone Editrice 2003<br />
A ssere ca s’appìccene i lambiune<br />
a bbiondine face u puasse e llasse<br />
cu a bbursette de raffia spertusuate<br />
e re scarpe cu tuacche ciendevinde<br />
U spuaccunciedde frene u fuoristrade<br />
e ccérche quande coste na chiandedde<br />
édde u guarde, tire nu quàvece o luambione<br />
quande a fesse de màmmete vale ije!<br />
Chiude a vócche ca mamma mije è sande<br />
a paste de case face p’a famiglje<br />
cande sturnelle ammende fatihe a mmaglje<br />
e scioche a scala quarande cu re ccumbuagne<br />
Se màmmete è na sande…ije só a madonne<br />
venghe da l’Est nde ng’è meseria scure<br />
e i panne spase trèmene p’a paure<br />
sapenne ca u ggele r’attaradde a notte<br />
e re pòddele quanne mene u viende<br />
se ngòllene a rèsene d’i pine<br />
chi re cchiange? Só figlje de nessciune<br />
e aspettene a fine pennuluanne<br />
218
(A sera che si accendono i lampioni / passeggia la biondina avanti e indietro / con la borsetta in rafia<br />
traforata / e le scarpe con il tacco centoventi // Lo spacconcello frena il fuoristrada / e chiede quanto<br />
costa una scopata / lei lo guarda, tira un calcio al lampione / quanto la fessa di tua madre valgo io! //<br />
Chiudi la bocca che mia madre è santa / la pasta in casa fa per la famiglia / canta stornelli mentre lavora<br />
a maglia / e gioca a scala quaranta con le amiche // Se tua madre è santa…io la madonna sono / vengo<br />
dall’Est dove la miseria è scura / e i panni stesi tremano per la paura / sapendo che il gelo li stecchirà la<br />
notte // e le farfalle quando tira il vento / s’incollano alla resina dei pini / chi le piange? Sono figlie di<br />
nessuno / e aspettano la fine penzolando)<br />
Scurije, <strong>LietoColle</strong> 2005<br />
M’è vuluate da mende quiru puaìse<br />
cu rrose névere nde giardine a ssicche<br />
e ffunduane cu cuaneliedde afflitte<br />
e cchiande de castagne a mmanghe a ssole<br />
addavére ddà teraje sembe viende<br />
e a cambane ndennaje a mmuorte<br />
e nda re ccandine chiene de vapure<br />
se gastumuaje Criste cu a Madonne<br />
Fatalmende a lune šcattegliose<br />
se facije nvelettà da re nnéglie<br />
quanne i cane usumuanne terramote<br />
s’accuwanne inde o cuambesande<br />
… e ng’erene re mmózzecapaternoste,<br />
u buannetóre ca strellaje a vvija nfóre<br />
cume a piche ca trove ind’o puagliare<br />
n’ache cu a cudédde arrezzenute<br />
e de viérne quanne menaje puluwine<br />
se nfelaje pure ind’o cuataratte<br />
nde ng’ere a zénghera Giuditte<br />
ca m’aiutuaje a piglià re llevene<br />
cu ttutte ca ng’ere sta mala meserje<br />
u beccheruzze nun muangaje maje<br />
e quanne i despiacere erene assaje<br />
ndó ciele se speraje ca scennésse<br />
(M’è volato dalla mente quel paese / con rose nere nei giardini a secco / e fontane col gocciolio afflitto / e<br />
piante di castagni esposte a nord / là davvero tirava sempre vento / e la campana a morto rintoccava / e<br />
nelle cantine piene di vapori / si bestemmiava Cristo e la Madonna / Fatalmente la luna dispettosa / si<br />
faceva velare dalle nubi / quando i cani fiutando terremoti / si rifugiavano nel camposanto // …e c’erano<br />
le mozzica pater nostro, / il banditore che strillava per strada / come la gazza che trova nel pagliaio / un<br />
ago con la cruna arrugginita // e d’inverno le tormente di neve / s’infiltravano anche nella botola / dove<br />
c’era la zingara Giuditta / che mi aiutava a prendere la legna // nonostante ci fosse malmiseria / la<br />
bicchierata non mancava mai / e quando i dispiaceri erano assai / si sperava che scendesse il cielo)<br />
Scurije <strong>LietoColle</strong> 2005<br />
Notizia<br />
Assunta Finiguerra di San Fele (PZ) ha pubblicato Se avrò il coraggio del sole (Basiliskos 1995); Puozze<br />
Arrabbià (La Vallisa 1999); Rescidde (Zone Editrice 2001); Solije (Zone Editrice 2003); Scurije (<strong>LietoColle</strong><br />
219
2005). Ha vinto numerosi premi tra cui il “Giuseppe Jovine” il “Premio Pascoli” e finalista al “DeltaPoesia”.<br />
Suoi testi poetici sono apparsi su Pagine, Periferie, Poesia, Lo Specchio, L’Area di Broca, Capoverso,<br />
Ciemme, Gazzetta Ufficiale Dialetti e in diverse antologie fra le quali: Nuovi Poeti Italiani a cura di Franco<br />
Loi, Einaudi Editore; Trent’anni di Novecento a cura di Alberto Bertoni, Book Editore. È stata recensita in<br />
Il sole 24 ore, Nuova Antologia, La Vallisa, Nuova Tribuna Letteraria, Incroci, Vernice, Il Segnale, Il<br />
Cristallo, Capoverso, Atelier, Poiesis, Lunarionuovo, Gradiva, Polimnia, l’Altrareggio, Bari Sera, Sìlarus,<br />
L’Immaginazione, Forum Italicum... Il 6 dicembre 2006, all’Università la “Sapienza” di Roma, Alessia<br />
Santamaria ha discusso una tesi sulla sua poesia, relatore Ugo Vignuzzi.<br />
220
Le cose famigliari succedono<br />
e gli uomini non se ne preoccupano.<br />
Richiede una mente davvero insolita<br />
intraprendere l’analisi dell’ovvio.<br />
(A.N.Whitehead)<br />
La mia prima poesia in dialetto è nata per caso – o, meglio, spontaneamente – un giorno di gennaio<br />
che mi sono ritrovato a descrivere un cielo invernale e un cuore infreddolito. Eppure avrei dovuto capirlo<br />
prima che, nel mio caso, solo il dialetto avrebbe potuto essere lo strumento più adatto per tentare quanto<br />
suggerito da Whitehead: una spiegazione dell’ovvio, una visione del quotidiano.<br />
Una vita come la mia infatti, che scorre abitualmente all’interno dell’alveo scavato dal dialetto e da cui<br />
nasce una poesia dove natura, oggetti, e uomini còlti nelle azioni più comuni, sono sempre in primo<br />
piano, non può che trarre vantaggio da una tale scelta linguistica.<br />
Soprattutto nelle poesie che mi riguardano più da vicino e in quelle più legate alla dimensione del ricordo,<br />
avverto una profondità descrittiva maggiore e sfumature più intense rispetto ai versi scritti in italiano. Il<br />
dialetto infatti è spesso considerato portavoce privilegiato di un mondo estinto, del mondo dell’infanzia,<br />
che appare migliore, più puro rispetto al presente. Ciò è vero anche per me, ma ad un certo punto ho<br />
capito che questa sua “predisposizione naturale” avrebbe potuto, a lungo andare, spegnere, piuttosto che<br />
alimentare, la sua potenzialità espressiva. Da un po’ di tempo quindi sto cercando di essere meno<br />
nostalgico, anche perché a poco a poco mi convinco che il passato non è da preferire e che nell’infanzia<br />
gioca un ruolo importante l’inconsapevolezza.<br />
Dal punto di vista lessicale sono alla ricerca di una parola elementare, una parola denotativa e<br />
nient’altro. Il dialetto, in questo caso, consente di introdurre variazioni e duttilità in un dettato che<br />
potrebbe risultare troppo asciutto. Il veneziano delle mie poesie lascia ampio spazio all’italiano, al punto<br />
da sembrare volutamente edulcorato, ma in realtà è solo il dialetto parlato dalla mia generazione. Per i<br />
ragazzi più giovani la contaminazione è ancora più grande. I ventenni, quando addirittura non parlino<br />
solo italiano, non conoscono il significato di parole usate da un quarantenne, come d’altronde un<br />
quarantenne ignora certe espressioni di un ottantenne.<br />
Ora però la scrittura ha la possibilità di essere non solo testimone di una situazione di fatto, ma di<br />
permettere anche la riscoperta di parole disusate, a volte arcaiche, delle quali non si è più abituati a<br />
sentire il suono, e magari di accostarle deliberatamente a termini italiani o – perché no? – inglesi, in<br />
modo da conferire a ciascun termine uno spicco particolare, una luce diversa.<br />
Anche per quanto riguarda la grafìa, una certa semplificazione, che dipende in primo luogo da una scelta<br />
dall’autore, ha lo scopo di agevolare la lettura anche a chi veneziano non è e di rendere la pagina più<br />
“pulita”.<br />
Oggi, dal giorno non tanto lontano di quella prima poesia in dialetto, pochissimi versi reclamano l’uso<br />
dell’italiano, come se i pensieri avessero trovato finalmente la loro dimensione naturale: «Adesso i lo dise<br />
tuti / che la mia meio vose xe questa / la vose de la vecia che va par botéghe / col tacuìn in man, la vose<br />
de l’omo / che spenze el caro cantando, de la man / che sul ponte caressa el muso nero del gato, / la<br />
vose de mi putélo / su quela foto in Cadore / co i zenòci segnai.»<br />
Lore me dise:<br />
«To marìo xe poeta<br />
ma i schei a casa<br />
chi xe che li porta?<br />
Ti! Netando scale».<br />
Sì, xe vero<br />
ma savessi che belo<br />
co le parole ghe vien<br />
e lu le buta zo –<br />
lezerle dopo<br />
de sera<br />
sentada su la carega picola<br />
de la cusina!<br />
221
(Le altre mi dicono: / «Tuo marito è poeta / ma i soldi a casa / chi li porta? / Tu! Pulendo scale». // Sì, è<br />
vero / ma sapeste che bello / quando gli vengono le parole / e lui subito le scrive – / leggerle dopo / di<br />
sera / seduta sulla sedia piccola / della cucina!)<br />
*<br />
Sighéto<br />
Ancùo<br />
no go dito na parola<br />
co nissun<br />
go tegnuo la boca serada<br />
e adesso che so in leto<br />
drio a destuar la luce<br />
go quasi paura<br />
che me sia<br />
sparìa la vose –<br />
cussì me vien da provar<br />
a dir qualcossa<br />
anca solo un sighéto<br />
na cantadina<br />
par sentir<br />
se ancora ghe so.<br />
(Strillo. Oggi / non ho detto una parola / con nessuno / ho tenuto la bocca chiusa / e adesso che sono a<br />
letto / e sto per spegnere la luce / ho quasi paura / che mi sia / sparita la voce – / così mi vien voglia di<br />
provare / a dire qualcosa / anche solo a fare uno strillo / a cantare un motivetto / per sentire / se ancora<br />
ci sono.)<br />
*<br />
I ricordi.<br />
So drio viver de ricordi.<br />
Par i ricordi resto tacàda<br />
a sta vita co le ongie.<br />
Se me mostré le foto<br />
de quando gero giovane,<br />
‘pena sposa, riconosso tuti e tuto<br />
anca se desso me desmentego<br />
quelo che go magnà diese minuti fa.<br />
Riconosso i fradei, che no ghe xe più,<br />
i vestiti, i capèi,<br />
le calze che gavevo comprà<br />
co la piova a Milàn,<br />
le stanze de case dove al sabo se balàva,<br />
e che desso i ga fato botéghe,<br />
i to oci, le to man, le camise bianche e stréte<br />
che ti portavi de doménega,<br />
quele braghe curte cussì ridicole<br />
– vardite qua! – che ti te metevi de istà<br />
par andar al Lido, o a pescàr.<br />
When blood sees blood of its own<br />
it sings to see itself again it sings<br />
to hear the voice it’s known<br />
it sings to recognize the face.<br />
(Suzanne Vega; Blood sings)<br />
(I ricordi. / Sto vivendo di ricordi. / Per i ricordi rimango aggrappata / a questa vita con le unghie. / Se<br />
mi mostrate le foto / di quando ero giovane, / appena sposata, riconosco tutti e tutto / anche se adesso<br />
dimentico / cosa ho mangiato dieci minuti fa. / Riconosco i fratelli, che non ci sono più, / i vestiti, i<br />
cappelli, / le calze che avevo comprato / con la pioggia a Milano, / le stanze di case dove al sabato si<br />
222
allava, / e che adesso sono negozi, / i tuoi occhi, le tue mani, le camicie bianche e strette / che portavi<br />
di domenica, / quei pantaloni corti così ridicoli / – guàrdati qua! – che mettevi d’estate / per andare al<br />
Lido, o a pescare.)<br />
*<br />
Co ti saludi in ritardo<br />
un amigo par strada<br />
te risponde co slancio<br />
un omo mai visto e che sta<br />
do metri più in là.<br />
(Quando saluti in ritardo / un amico per strada / ti risponde con slancio / un uomo mai visto e che sta /<br />
due metri più in là.)<br />
*<br />
Proprio come i vèci<br />
co i magioni nòvi a Nadal<br />
proprio come i vèci d’inverno<br />
le baréte precise a quele de i putèli<br />
proprio come i vèci co le man su i zenòci<br />
co i se ferma a parlar co i cani<br />
proprio come i vèci sì<br />
proprio cussì.<br />
(Proprio come i vecchi / con i maglioni nuovi a Natale / proprio come i vecchi d’inverno / i berretti uguali<br />
a quelli dei bambini / proprio come i vecchi con le mani alle ginocchia / quando si fermano a parlare con i<br />
cani / proprio come i vecchi sì / proprio così.)<br />
*<br />
Ti li ga mai visti ti<br />
sigàr cussì, deventar mati come desso<br />
par un granziéto pescà<br />
un granziéto da meterse a córer<br />
– mòvite che ‘l mor! –<br />
ti li ga mai visti ti<br />
sigàr cussì, rossi su le ganasse<br />
suài sul colo,<br />
ti li ga mai visti ti<br />
vivi cussì?<br />
ai putèli e ale putèle<br />
par na volta distanti<br />
da playstation e danza jazz.<br />
(Li hai mai visti tu / gridare così, ammattire come adesso / per un granchietto pescato / un granchietto<br />
da mettersi a correre / – svelto che muore! – / li hai mai visti tu / gridare così, rossi sulle guance / sudati<br />
sul collo, / li hai mai visti tu / vivi così?)<br />
*<br />
De sabo matina su la strada<br />
a traverso del parco<br />
ghe xe un cagnéto vècio<br />
che se ghe vede tuto el bianco<br />
223
de i oci e putèli che scrive i nomi<br />
par tèra co i gessi<br />
e mi che passo là<br />
par l’eternità.<br />
(Di sabato mattina sulla strada / attraverso il parco / c’è un cagnolino vecchio / che gli si vede tutto il<br />
bianco / degli occhi e bambini che scrivono i nomi / per terra con i gessi / e io che passo là / per<br />
l’eternità.)<br />
*<br />
E mi che no lo savevo<br />
e che lo go lèto in una<br />
poesia de Giuseppe Conte<br />
che basarse fa<br />
«spuntare foruncoli» ed eco alora<br />
che no xe sta el magnar<br />
ma tuti sti giorni<br />
l’averte basà<br />
a farme far da novo i conti<br />
– come a sedese ani e oltre –<br />
co i brufoli su la fronte.<br />
(E io che non lo sapevo / e che l’ho letto in una / poesia di Giuseppe Conte / che baciarsi fa / «spuntare<br />
foruncoli» ed ecco allora / che non è stato il mangiare / ma tutti questi giorni / l’averti baciato / a farmi<br />
fare di nuovo i conti / – come a sedici anni ed oltre – / con i foruncoli sulla fronte.)<br />
*<br />
Cossa i farà de quela casa vècia<br />
al piano tèra? I la metarà a novo<br />
i la tirarà a lustro. Mi la ricordarò<br />
come la gera prima<br />
quando tra i scuri mèzi vèrti<br />
i ghe incastrava pachéti vòdi<br />
de sigarete.<br />
(Cosa faranno di quella casa vecchia / al piano terra? La restaureranno / la tireranno a lucido. Io la<br />
ricorderò / com’era prima / quando tra gli scuri mezzi aperti / incastravano pacchetti vuoti / di sigarette.)<br />
Notizia.<br />
Andrea Longega nasce a Venezia il 14 agosto 1967 e vive a Murano. Ha pubblicato le seguenti raccolte di<br />
poesie: "Ponte de mezo" (Campanotto, 2002) e "Fiori nòvi" (Lietocolle, 2004). Sue poesie sono apparse<br />
nell'antologia "Clandestini" (Lietocolle) e nel diario poetico "Il segreto delle fragole" (Lietocolle, 2004).<br />
Suoi versi accompagneranno il libro fotografico, di imminente pubblicazione, di Claudio Corrivetti e<br />
Leonard Freed dedicato a Venezia.<br />
224
Scrivere in dialetto significa, per me, adoperare una lingua rifiutata, un rifiuto proprio inteso come<br />
"avanzo", "residuo", "oggetto abbandonato".<br />
Non c'è, nei miei dialetti, alcun sublime o rimpianto passatista (e neppure precisione filologica) ma il<br />
sentimento di una perdita inevitabile.<br />
Le poesie che presento qui sono scritte in voltrese e molarese. Voltri è l'estremo avamposto ponentino di<br />
quella "grande" Genova che volle il Duce. I Priano sono voltresi da sempre, da secoli e secoli, ma il<br />
dialetto voltrese di queste poesie è solo in piccolissima parte quello dei miei nonni. Un voltrese debole,<br />
dunque, di frontiera anche nel tempo, non più di Città (Voltri prima del 1928 era Città) ma di periferia.<br />
Sporco e inquinato proprio come il mare qua davanti.<br />
Le poesie molaresi fanno parte di un'area, quella piemontese dell'Alto Monferrato, che va da Ovada ad<br />
Acqui. Molare si trova lì, a 18 Km da Acqui e a dieci minuti di bicicletta da Ovada. E Ovada dista a 38 km<br />
da Genova. Nella piana ovadese si coltivano capannoni che, finché non diventeranno "archeologici", sono<br />
brutti e basta.<br />
Da Molare alla casa che fu dei nonni, a Borgo Peruzzi, si spalanca "la campagna". .Noccioleti, campi<br />
incolti, campi di girasoli, il camposanto dove dormono il trisnonno Chinèn e i suoi fratelli, qualche vigna<br />
raminga. Non è detto che duri, anzi. Queste son terre buone per ipermercati e superstrade. Ed è strano<br />
che nessuno se ne sia ancora accorto.<br />
Il dialetto molarese presenta asperità che non esistono nel cantilenante voltrese. Se a Voltri uno scemo<br />
rimane "nesciu" a Molare diventa, impietosamente,"urùc".<br />
Chi non sente a Voltri è "surdu", a Molare "uèc". Mio nonno paterno falciava con la "messuìa", quello<br />
materno con l' "anzuriòn".<br />
Sul vino c'è l'accordo: vèn per gli uni e vin per gli altri.<br />
Se avvicino la mia bocca a quella dei due dialetti non è per operare una respirazione utile a rianimarli. Il<br />
bacio è molte volte segno del tradimento. Molte volte, non sempre. Questo mio sì.<br />
Ma u biavu ninte<br />
du to numme, a pua<br />
du mè finiàn, sun zà<br />
in ta luntanansa nua<br />
de là di Crovi e a Cova<br />
e u rosmanìn, na rosa<br />
innestà in sc'u celestìn<br />
c'a s'arve in tu amurtase<br />
meraviggiou<br />
di sti umbrelluìn.<br />
(Ma l'azzurro niente/ del tuo nome, la polvere/del mio finiranno/ sono già/nella lontananza nuda/ oltre i<br />
Crovi a la Cova/ e il rosmarino, una rosa/ innestata sul celestino/che si apre nello spegnersi/meravigliato/<br />
di questi ombrelloni.)<br />
*<br />
Tutti muivan<br />
ti arestavi tì<br />
ingogeitu in tu gambu<br />
de na rosa bordò<br />
(Tutti morivano/rimanevi tu/ impigliato nel gambo/ di una rosa bordò.)<br />
*<br />
Oua e figge<br />
te se fan in giu<br />
a ciù duse a te mette<br />
in man<br />
na pria du Carsu<br />
cun scritu insimma<br />
"d'ardere giuriamo<br />
per la vita". Urtima<br />
lesiùn, sonna a campanna<br />
225
a figgia, lenta, a se ne va<br />
de schen-na<br />
(Ora le ragazze/ ti si fanno attorno/ la più dolce ti mette/ in mano/ una pietra del Carso/ con scritto in<br />
cima/ "d'ardere giuriamo/ per la vita". Ultima/ lezione, suona la campana/ la ragazza, lenta, se ne va/ di<br />
schiena.)<br />
*<br />
Tremma a me cà de notte<br />
i luvi sciroccali<br />
l'addentan, i mè freli<br />
orieivan daghe fogu.<br />
Ai me picculi freli<br />
mi ghe sputieiva addossu<br />
i me picculi freli<br />
mi me i piggieiva in brassu.<br />
(Trema la mia casa di notte/ i lupi sciroccali/ l'addentano, i miei fratelli/ vorrebbero darle fuoco./Ai miei<br />
piccoli fratelli/ io sputerei addosso/ i miei piccoli fratelli/ io me li prenderei in braccio.)<br />
*<br />
A foz nu cuerte<br />
cauzatte. Cun i fer<br />
a fobbric angiurèn.<br />
In fer, in angiurèn.<br />
R'è d'accordi anca<br />
ir frò. Andè maresciòl<br />
bel a zerchè quai c'tiran<br />
fora fioi, c'gniràn sì<br />
grommi mè l'oi. Mè<br />
mì, mè vui. Diaulèri,<br />
nutoi.<br />
(Non faccio coperte/ calzette. Con i ferri/ fabbrico angioletti./Un ferro, un angioletto./E' d'accordo anche/<br />
il frate. Andate maresciallo/ bello a cercare quelli che tirano/ fuori bambini, che cresceranno/ cattivi come<br />
l'aglio. Come/ me, come voi. Diavoli,/notai.)<br />
*<br />
Scauza ma nainta<br />
a benedì prere, fiure<br />
puvr tanta quanta a in'è<br />
ant r'Urba, sì da ra Rera<br />
ant ra tesc-ta di pueti fol.<br />
I me pè, culuroi lacca-lacca<br />
ai pueti fan tasgiai ra bucca<br />
allegr me ir toscig ant'er sciacchè<br />
in dedè.<br />
(Scalza ma non/ per benedire pietre, fiori/polvere tanta quanta ce n'è/ nell'Orba, su dalla Rera/ nella<br />
testa dei poeti matti/. I miei piedi, colorati lecca lecca/ ai poeti fanno tacere la bocca/ allegri come il<br />
veleno mentre schiacciano/ una coccinella.)<br />
[NdA. Le poesie in voltrese nascono a Grado, nel luglio 2006. Intorno alla casa di Biagio Marin. Non so perchè siano<br />
venute fuori in voltrese. Così come ignoro quanto l'io-violento e femminile- dei versi molaresi abbia davvero a che fare<br />
con la persona realmente vissuta, tra il secolo scorso e l'altro ancora prima, a cui si riferisce o rappresenti qualcosa di<br />
pre-esistemte perfino nell'urgenza di porlo -quest'io- accanto o di fronte a me.]<br />
Notizia.<br />
Gianni Priano vive a Genova dove, nel 1962, è nato. Ha pubblicato su riviste di filosofia (“Discorsi”,<br />
“Bibliographie de la Philosophie”) e letterarie (“Il Babau”, “Atelier”, “Resine”, “Versodove”, “Maltese”,<br />
226
“Tratti”). Ha pubblicato saggi sulla canzone d'autore, sulla poesia dialettale, racconti e quattro libri di<br />
poesia: L'ombra di un imbarco, Genesi, Torino 1991; Città delle carle infelici, Primalpe, Cuneo 1995; Nel<br />
raggio della catena, Atelier, Borgomanero, 2001; La turbie, Il ponte del sale, Rovigo 2004. Suoi testi si<br />
trovano sulla rivista on-line www.ilportoritrovato.net, di cui è redattore.<br />
227
Non fingo di essere ignorante<br />
sono davvero ignorante<br />
e par cavarme sta ignoransa de dosso<br />
go bisogno de parlar<br />
co’ a pansa e col cuor<br />
in diaèto ciaro - più che in inglese<br />
e se la gente mi dà tregua<br />
è perché una lingua ce l’abbiamo tutti<br />
che aspra e provocante ci apre<br />
gli occhi - come balconi sull’aia<br />
quella che io spazzo ad Ottava Presa<br />
tra il cascinale e l’argine<br />
l’arxene forte che abbracciando<br />
me desgròpa - tuti i campi<br />
streti in góa<br />
(3-6. e per levarmi questa ignoranza di dosso, ho bisogno di parlare con la pancia e con il cuore, in<br />
dialetto chiaro; 13. l’argine; 14-15. mi scioglie tutti i campi stretti in gola)<br />
*<br />
Sempre qua a vardar el mar<br />
come a sercar qualcossa che non vién<br />
se non da l’aqua che se move<br />
dae sborassàe - che te spetina i cavéi<br />
dai marassi - che i se tol<br />
tuto el coór del ciel<br />
par butàrtio dosso e farte novo<br />
(Sempre qui a guardare il mare, come a cercare qualcosa che non viene se non dall’acqua che si muove,<br />
dai colpi di bora che ti spettinano i capelli, dalle mareggiate che si prendono tutto il colore del cielo, per<br />
gettartelo addosso e farti nuovo)<br />
*<br />
E se non semo bóni<br />
de darse paxe<br />
tra fradèi pieni de pianto<br />
dove el rider<br />
vien ogni tanto e quel che ciapa<br />
i cuori come fiori<br />
i cavéi come erba<br />
no xe el vento o l’aqua<br />
ciuciài de fadiga e amor<br />
se finisse a morir compagni<br />
soto el ciel che ne schinsa<br />
soto na luce puaréta<br />
che no’ a varda in facia nesuno<br />
(E se non siamo capaci di darci pace tra fratelli pieni di pianto<br />
dove il riso viene ogni tanto e ciò che prende i cuori come fiori<br />
i capelli come erba non è il vento o l’acqua succhiati di fatica<br />
e amore... si finisce a morire compagni sotto il cielo che ci schiaccia<br />
sotto una luce povera che non guarda in faccia nessuno)<br />
A Judith Malina<br />
228
*<br />
Có se anèga a luna<br />
nel suo alone di fumo<br />
savemo tuti che vien a piòver<br />
su i campi de Otava Presa<br />
sulle fatiche nostre e dell’inverno<br />
E per le sorti della terra e del fieno<br />
si può anche non dormire - la notte<br />
par portar dentro i rimorchi<br />
par sperar - che se sughi l’aguasso<br />
che vegna su altro vento dal mar<br />
o spetar - l’alba coa forca<br />
(Quando la luna annega nel suo alone di fumo, sappiamo tutti che pioverà sopra i campi di Ottava presa,<br />
sulle fatiche nostre e dell’inverno. E per le sorti della terra e del fieno si può anche non dormire la notte,<br />
per portare dentro i rimorchi, per sperare che si asciughi l’umidità, che salga altro vento dal mare, o<br />
aspettare l’alba con la forca)<br />
*<br />
Drio el punèr ghe xe ancora<br />
el seghèr vecio<br />
el ga el tronco ormai consumà<br />
e i dixe de tajarlo<br />
tagliatelo - dicono<br />
perché non sanno<br />
quanto miele c’era dentro<br />
có jero un putèl<br />
e no’ gavevo corajo<br />
de ’ndar vissìn<br />
dove le api lasciavano<br />
il cuore dolce dei fiori<br />
i fiori de l’àrxene<br />
E vederlo cussì - ch’el trema<br />
al minimo sofio de vento<br />
ch’el se ostina a far foje sensa paura<br />
me vergogno<br />
de a so voja de crésser<br />
fin ch’el ciel lo pol baxar<br />
e con grazia amorosa lo bacia<br />
grassia che ghe piaxe tanto<br />
(Dietro al pollaio c’è ancora il vecchio salice, ha il tronco ormai consumato e dicono di tagliarlo, tagliatelo,<br />
dicono, perché non sanno quanto miele c’era dentro, quando ero un bambino e non avevo il coraggio di<br />
andare vicino, dove le api lasciavano il cuore dolce dei fiori, i fiori dell’argine. E a vederlo così, che trema<br />
al minimo soffio di vento, che si ostina a fare foglie senza paura, mi vergogno della sua voglia di crescere<br />
finché il cielo lo può baciare, e con grazia amorosa lo bacia, grazia che gli piace tanto)<br />
[da Mamagnese me mama]<br />
229
*<br />
L’omo cokàl<br />
Xe un pescador<br />
quel che rema ne l’aqua<br />
o un omo perso<br />
che non trova a so riva<br />
Ga bisogno l’omo<br />
de un toco de tera<br />
de un angolo duro<br />
dove riussìr a dormir<br />
Co’ i pensieri forti<br />
ch’el ga da spacàr<br />
l’aqua invesse lo lava<br />
e lo torna a cular<br />
Pescar un pesse - do pessi<br />
par rubargli la vita<br />
Meglio remare<br />
e non far cativerie<br />
Ghe ne xe tante<br />
fin trope<br />
in giro pal mondo<br />
de vite che se strossa<br />
par non riussìr de restar<br />
in pie - in piedi<br />
su uno zoccolo duro<br />
Lascia l’acqua<br />
l’incontinenza che sborda<br />
e impara a seguire<br />
la terra che sale<br />
È vertigine<br />
che osigena el sangue<br />
xe fadiga<br />
che juta a capìr<br />
E se capisse el ben<br />
in un abbraccio de carne<br />
e pelle calda<br />
che odora di nido<br />
Coperte<br />
prendi coperte<br />
e rametti<br />
che tengono insieme<br />
e lenzuola<br />
come fossero paglia<br />
e piume<br />
staccate<br />
sottratte in silenzio<br />
ai voli - ai giochi nell’acqua<br />
E resti - accarezzi<br />
sei tu che accarezzi<br />
e senti che cresce<br />
un caldo<br />
di sotto le ali<br />
E rompe - ti spacca<br />
la testa in frantumi<br />
di gusci - di becchi<br />
che sbucano fuori<br />
E nutri - ora puoi<br />
le tue pagine chiare<br />
con tuffi in picchiata<br />
nel profondo del mare<br />
230
*<br />
Ogni bestia ga el teritorio<br />
el suo - che ghe speta<br />
ogni bestia conosse<br />
i sapori che incontra<br />
e vorìa anca mi<br />
far più diferense<br />
sentirle restar - e crésser<br />
in maniera diversa<br />
Ma siamo poveri<br />
di naso e di cuore<br />
chiusi in un canto<br />
di poche vocali<br />
E non è libero<br />
l’omo che parla<br />
o solo all’acqua<br />
o solo al cielo<br />
o solo all’erba del prato<br />
*<br />
Hai preso la pelle con i baci<br />
e l’hai stesa al sole<br />
con le lenzuola<br />
larga e c’era caldo<br />
da sollevarla in alto<br />
Il vento più bello<br />
viene da dentro<br />
dalle ossa leggere<br />
E cantano come può cantare<br />
un cokàl che ciama<br />
el pesse in riva al mar<br />
Torna anca domàn<br />
a farme sentir<br />
a carne in subujo<br />
Ho lacrime in fiore<br />
che accolgono bene<br />
e rendono piena<br />
la mano che passa<br />
e piovono - e sgionfano<br />
de miel a to boca<br />
come l’unica corsa<br />
che ghe resta da far<br />
*<br />
Vedi fìo mio<br />
no' xe co' i sassi<br />
che se fa e bataje<br />
Le battaglie si fanno<br />
camminando<br />
dritti per strada<br />
formando un canto<br />
o un siensio insieme<br />
Impara a forsa<br />
de chi a paura<br />
non la mette da parte<br />
E to paure xe tante<br />
che par assarle da drìo<br />
te devi traversarle<br />
tute<br />
caminando drito<br />
drito intea strada<br />
E to paure xe tante<br />
231
che a tegnerle insieme<br />
se fa un muro de sassi<br />
gli stessi che vorresti<br />
tirare per strada<br />
chiamandoti eroe<br />
Attraversa quel muro<br />
di sassi in cemento<br />
come edera attenta<br />
a trovare le crepe<br />
Insisti co' a radixa<br />
che spacca el blocco<br />
ed entra 'ntei sassi<br />
invesse che tirarli<br />
'ntel mucio dea guera<br />
entra 'ntei sassi<br />
e conóssete e man<br />
conosciti le mani<br />
nei sassi spaccati<br />
conosci te stesso<br />
di dentro la roccia<br />
Parché no' se porta amor<br />
faxendo finta de esser<br />
ciari de dentro<br />
e no' se trova paxe<br />
tirando lontan<br />
el nostro tormento<br />
[da L’omo cokàl (l’uomo gabbiano)]<br />
*<br />
In Tèra<br />
Ora che sei secco e ti fai terra nella terra<br />
ora che ti perdi le pellicine dalle ossa<br />
anch’io mi perdo fio mio anca mi vorìa<br />
pèrderme con ti e mescolarmi alla terra<br />
al mondo che si è preso il mio bene<br />
E si prenda anche me - se ciapi anca mi fio mio el mondo<br />
che non sei più intero<br />
e non posso esserlo io - intera<br />
Non voglio interezza in ’sto doór<br />
E sono una perché sola<br />
Non chiedo alla solitudine di abbracciarmi<br />
e chiamo gli amici a farsi compagni<br />
della mia vita che si va rompendo<br />
Ma non si rompe - ancora non si rompe<br />
E devo stare e avere coraggio<br />
ma così no - non vojo aver el corano de star intera<br />
Vorìa spaccarme e star con ti<br />
in tera - nea tera<br />
Lo smembramento è parola lunga<br />
ma è così veloce nella vita<br />
quando non è più vita<br />
E io con la mia lentezza mi adeguo<br />
ci provo - no per fortuna non riesco<br />
per fortuna non mi adeguo<br />
E il dolore si porta dentro<br />
è come un amore fatto di pezzetti<br />
è come un parto all’incontrario<br />
e più passa il tempo<br />
più si stringe e si fa piccolo<br />
e si fa osso attorno all’osso<br />
a Iris<br />
232
ma non fortifica - toglie leggerezza<br />
È così che va il mondo<br />
ti spacca gli amori e ti lascia intera<br />
Sensa sbreghi sensa segni - con tanta dignità<br />
E mi ritrovo bella e dignitosa<br />
in ’sto pèrderte fio mio<br />
me trovo bella e dignitosa<br />
ma non son mi - non sono io<br />
Non ho bellezza per il lutto<br />
voglio esserne indegna e non meritarlo<br />
Nessun merito nessun conforto<br />
Se il silenzio è preghiera io urlerò<br />
Di fronte alla tua morte urlerò indegnamente<br />
Per avere almeno la decenza della rabbia<br />
Piccolo bene fio mio mio figlio mio bene<br />
piccolo in tenera fragile spoglia piccolezza<br />
Nudo ’ntea tera non posso vestirti<br />
’ntea tera non posso più vestirti<br />
Ora le tue pellicine tutte<br />
stanno decomposte nella terra<br />
Ora le tue ossa anche<br />
stanno tutte nella terra<br />
Ricomposte - e lo dico io<br />
io che le ho composte<br />
[da Pelle]<br />
*<br />
Siderea<br />
Mi con l’arte incapace<br />
de esprimere le altesse<br />
piango de l’aqua che intride<br />
la compatezza squadrata dié (1) case<br />
piango de l’umidor che ciama (2)<br />
el corpo al movimento<br />
a la rotondità terrestre<br />
e a la vision de i astri<br />
come imperturbabile assioma<br />
e certessa verticale<br />
a la rotassion<br />
e rivolussion che smove<br />
i cardini del pensiero<br />
in mia analogica sensassion<br />
de le cose e de la vita<br />
pongo la metamorfosi de l’ascolto<br />
verso l’alto emisfero del creato<br />
che sul me capo ruota<br />
e lo porta a compimento<br />
(1) delle<br />
(2) chiama<br />
*<br />
Mia anema che respiri<br />
tredici volte il ciclo delle lune<br />
mia anema che versi<br />
il mestruo a lo stridore<br />
fecondo e a la tera<br />
233
fammi lenta di lento respiro<br />
che sia uguale al tempo<br />
da non sentirlo<br />
e stare ad arte<br />
sopra l’indicativo<br />
in ogni sua forma<br />
e declinare la coscienza<br />
seguendo de le stelle<br />
la colta luminessensa<br />
*<br />
Che sento di non meritarlo<br />
così presente così<br />
incontrantemi<br />
che sbasso i oci<br />
e dopo li riverso<br />
ampi e sventrabili<br />
di corpo<br />
consumabile<br />
de corporatura ’ttenta<br />
a la pietà<br />
e al compatimento<br />
E ntel compatir sento<br />
che xe tanto l’amor<br />
e costante s’irradia<br />
dal vostro presente passato<br />
che siete ora qui<br />
parché ne prenda nutrimento<br />
e non lo merito<br />
mi che ora vardo e poi non più<br />
che posso non mirar par lungo tempo<br />
la perseverante vostra esplosion<br />
al me giovamento<br />
*<br />
Ma non se merita l’amor<br />
de le stelle<br />
e de l’humana xente (3)<br />
non se merita l’amor<br />
de la madre adorante<br />
e non se merita l’amor<br />
del canto assordante<br />
del padre<br />
non se merita l’amor<br />
né del figlio che ti porta a dormire<br />
né dell’amato che rimane a sentire<br />
(3) gente<br />
*<br />
Che non lo merito<br />
l’amore e la cura<br />
mi è cosa necessaria<br />
mi è accaduto<br />
che viene a ricadere<br />
come a legarmi addosso<br />
un filo<br />
un desiderio<br />
234
*<br />
Mio stringimento del cuore<br />
mia anema nuda<br />
e stropicciata<br />
e ciancicata<br />
e tristemente avvolta<br />
a un fardello<br />
di poche cose<br />
sempre le stesse<br />
che non posso nominare<br />
E torno a fare le mosse<br />
de l’omo comune<br />
ch’el vive comunque<br />
lu el dixe de sì<br />
e mi fatigo a creder cussì<br />
ch’el cuor<br />
sia manco largo de mi (4)<br />
(4) E torno a fare le mosse / dell’uomo comune /<br />
che vive comunque / dice di sì / e fatico a credere così /<br />
che il cuore / sia meno largo di me.<br />
[Da Sideralia (Le voci della luna, 2006)]<br />
Notizia<br />
Elio Talon è nato a Caorle (VE) nel 1970, vive a Bologna dove si è diplomato in Scultura all'Accademia di<br />
Belle Arti. Segnalato ad “Iceberg ’96”, vincitore di “Iceberg ’98” per la sezione poesia, partecipa alla<br />
Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo – Roma ’99. Sue poesie sono apparse su riviste<br />
quali “Fernandel” (n. 22), “Il Vascello di Carta” (n. 2), “Le Voci della Luna” (n. 22 e n. 26/27), “Private”<br />
(n. 8 e n. 22), “Versodove” (n. 3 e n. 6/7). Nel ’98 pubblica, insieme ad Andrea Trombini, la raccolta Atto<br />
d’amore, curata da Marco Ribani per le edizioni La Volpe e l’Uva; seguono alcuni contributi a pubblicazioni<br />
collettive; numerose le letture in pubblico. Del 2002 è la pubblicazione in Nodo sottile 3, antologia under<br />
35 edita da Crocetti. Nel 2004 è presente in Opere d’Inchiostro, antologia edita da Rubbettino, per il<br />
Comune di Torino, nonché in Il Cielo in uno Schermo, antologia edita da Fernandel per il concorso “Coop<br />
for Words-2004”. Sempre nel 2004 è tra i fondatori di “Exzema – Associazione di Cinema e Cultura” con<br />
cui ha realizzato il documentario Lame. La porta della Memoria (Bologna, 2004) in occasione del 60°<br />
Anniversario della Battaglia di Porta Lame, per la regia di Danilo Caracciolo. Si occupa di didattica<br />
dell’arte per bambini e collabora come cultore della materia con la Cattedra di Teoria della Percezione e<br />
Psicologia della Forma all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Alla ricerca poetica accompagna un’intensa<br />
attività nelle arti plastiche, col nome d’arte Modegàl. Nel 2006 vince il Premio “R. Giorgi 2006” con la<br />
raccolta Sideralia che sarà pubblicata dalle edizioni de Le voci della luna.<br />
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