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1

Università degli Studi di Salerno
Facoltà di Lettere e Filosofia
Corso di laurea in Filosofia
Tesi di laurea
in
Storia della filosofia moderna
Natura, civiltà e civilizzazione
ne Il Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler
Relatore
Candidata
Ch.mo Prof. Antonella Miglino
Nicola Auciello matr. 032/02261
2

ANNO ACCADEMICO 2000/2001
INDICE
PRIMA SEZIONE
CAPITOLO PRIMO – Storia e natura: Spengler e i
suoi predecessori.
1. Storia e natura, divenire e divenuto. Goethe e la natura
vivente.
2. Dalla metodologia all’interpretazione della realtà: slittamento
dell’antitesi scienze dello spirito-scienze della natura. Lo
storicismo e i suoi rapporti con Spengler.
3. La civiltà e i suoi problemi.
CAPITOLO SECONDO – Conseguenze
gnoseologiche dell’antitesi storia-natura.
1. La morfologia fisiognomica.
2. La morfologia comparata.
CAPITOLO TERZO – Anima e simbolo: lingua
delle forme.
1. L’anima e le sue manifestazioni: i simboli.
1
p. 4
p. 21
p. 39
p. 54
p. 69
p. 80
2. Simbolo originario e creazione del macrocosmo p. 92
3. Lingua delle forme simboliche: linguaggi specialistici e loro
rispecchiarsi reciproco nell’anima di una civiltà.
p. 103

CAPITOLO QUARTO – Le due nature.
1. Natura come simbolo di una civiltà.
2. Natura come fondo originario da cui le civiltà emergono. Esiti
metafisici della filosofia della storia spengleriana.
SECONDA SEZIONE
CAPITOLO PRIMO – La civilizzazione.
1. Civilizzazione come destino necessario. Spengler e la
consapevolezza del tramonto.
2. I simboli della civilizzazione occidentale: il denaro, la
macchina, il cesarismo.
CAPITOLO SECONDO – Conseguenze esistenziali
del Tramonto dell’Occidente.
2
p. 125
p. 141
p. 159
p. 209
1. Destino, libertà e necessità. p. 246
2. Come vivere alla fine dei tempi: Spengler e Zarathustra. p. 263
BIBLIOGRAFIA p. 278

SEZIONE PRIMA
3

Capitolo primo
Storia e Natura: Spengler e i suoi predecessori
1. Storia e Natura, divenire e divenuto.
Goethe e la natura vivente.
Il pensiero di Spengler, nella sua intensa capacità visionaria, ama esprimersi e
procedere mediante delle coppie di antitesi, le quali non costituiscono un motivo
di banale esemplificazione, bensì sono le immagini vive e profonde di un
pensiero svincolato da ogni intellettualismo ma capace di uno sguardo
totalizzante.
Natura e storia formano la prima e fondamentale coppia antitetica de Il tramonto
dell’Occidente: il loro rapporto attraversa tutta l’opera spengleriana e subisce
continue modificazioni ma anche costanti approfondimenti. Lo scopo del nostro
lavoro sarà quello di definire gli estremi di questa antitesi e di seguirla nei suoi
quanto mai problematici sviluppi, al fine di comprenderne il senso all’interno
del grandioso progetto spengleriano di una morfologia della storia mondiale. In
questo percorso ci sarà utile un confronto con la concezione della natura di
Goethe, in particolar modo, nella sua condizione di studioso delle scienze
naturali, specie della botanica.
Dal suolo ormai isterilito dell’Occidente, Spengler intende trarre un’ultima
filosofia, l’unica ancora possibile ad un’epoca tarda, una filosofia dell’avvenire,
la sua filosofia: alle sue basi vi è il mondo inteso come storia. In tal modo egli
delimita l’ambito, o meglio, la prospettiva a partire dalla quale costruirà la sua
immane opera di analisi comparativa delle forme simboliche delle civiltà
superiori, ma soprattutto di prognosi del destino dell’Occidente. Spengler sente
tutto questo come un compito mai osato e mai sentito prima di lui:
4

“Il mondo come storia compreso, intuito e formulato nella sua antitesi rispetto al
mondo come natura – questo è un aspetto nuovo dell’esistenza umana sulla terra la cui
considerazione nel suo immenso significato pratico e teoretico finora non era stata
riconosciuta come compito: forse oscuramente sentito e spesso intravisto da lontano, esso non
era stato mai studiato in tutte le sue implicazioni”. 1
Storia e natura sono due modi di rapportarsi all’ambiente, due modalità di
visione e di costruzione del mondo. Spengler rimprovera alla filosofia del
passato di aver accantonato il modo storico di vedere il mondo, considerandolo
privo di qualunque legalità e prevedibilità e, perciò, di qualunque interesse
scientifico. In particolare la sua critica si appunta sulla filosofia kantiana, la
quale ha fatto coincidere l’apparato categoriale del nostro intelletto unicamente
con le leggi della realtà fisica, senza prendere in alcuna considerazione quella
che Spengler definisce “una diversa relazione tra l’intelletto desto dell’uomo e il
mondo che lo circonda” 2 . La storia, perciò, ha potuto solo avvalersi
dell’apparato conoscitivo dell’unica scienza che avesse una validità scientifica,
ovvero della fisica, privandosi della specificità che le è propria. Alla logica
puramente spaziale e matematica della filosofia kantiana, Spengler oppone una
logica del tempo, alla nuda necessità causale il determinismo del destino.
Vi è, però, da decidere quali siano gli aspetti e i piani entro cui tale opposizione
può essere fatta valere. Pietro Rossi, nel suo saggio Oswald Spengler e la crisi
relativistica dello storicismo, parte da una distinzione puramente oggettiva per
poi arrivare a ipotizzare, su un piano metafisico, “due realtà tra loro
radicalmente differenti, anche se in un qualche rapporto” 3 . E ribadisce tale
interpretazione, sostenendo che la differenza oggettiva, ovvero dei campi del
1 TO, p.17.
2 TO, p.19.
3 Pietro Rossi, Oswald Spengler e la crisi relativistica dello stoicismo in Storia e storicismo nella filosofia
contemporanea, Milano, 1991, p.71.
5

sapere, così come la differenza di metodo e di atteggiamento, finisce con
l’assumere un “rilievo metafisico” 4 . Afferma infatti che:
“La distinzione tra due gruppi di discipline è ricondotta alla distinzione tra natura e
storia, considerate come realtà ontologicamente eterogenee: la natura si identifica con il
divenuto e la storia viene a coincidere con il divenire. Di conseguenza la distinzione di
metodo diventa un’antitesi tra due differenti tipi di logica che hanno il proprio fondamento
nella struttura metafisica della natura e della storia; e la distinzione di atteggiamento diventa
infine un’antitesi tra due differenti forme di considerazione della realtà, che si riferiscono a
due modi di esistere della realtà stessa”. 5
Lo scopo primario di Rossi, in queste pagine, è quello di evidenziare le affinità e
le differenze della strumentazione teorica di Spengler con lo storicismo tedesco;
ma quello che ci interessa in questo momento è comprendere, attraverso la sua
ricostruzione, che cosa effettivamente Spengler intenda per storia e per natura.
Rossi cita, a sostegno della sua tesi, una frase de Il tramonto dell’Occidente in
cui si accenna a un secondo cosmo di cui l’uomo sarebbe membro al di là del
cosmo naturale. Ma la sua deduzione non trova riscontro con quanto Spengler ci
suggerisce sin dall’Introduzione:
“Qui si presentano due possibilità di raffigurazione del mondo a opera dell’uomo:
possibilità e non necessariamente realtà” 6 .
Non siamo di fronte a due realtà distinte, ma a due modi di rapportarsi ad uno
stesso materiale ontologico secondo una varietà di gradi. Ciò che interessa a
Spengler è di arrivare a definire un orizzonte oggettivo e metodologico proprio
alla ricerca storica, tale che investa l’atteggiamento fondamentale dell’uomo
rispetto alla realtà. La coppia storia–natura si dischiude nel rapporto vita–morte,
4 Pietro Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, Torino, 1956, p.396.
5 Ibid.
6 TO, p.21.
6

divenire–divenuto, tempo–spazio, ovvero in coppie di opposti che
presuppongono un nuovo atteggiamento dinanzi alle forme storiche, non più
attento a rinvenire unicamente i nessi causali tra gli eventi, a rintracciare delle
leggi di progresso o di decadenza entro un percorso storico lineare, ma a
rinvenire i rapporti del divenire con la nostra vita, a “comprendere – dice
Spengler - le relazioni esistenti fra ciò che vi è di vivente nel mondo e la (nostra)
vita, onde conferire a questa una più profonda realtà” 7 .
Per Rossi la componente metafisica della concezione di Spengler della storia e
della natura confermerebbe la tesi di una ripresa del romanticismo nel suo
pensiero nonostante gli sforzi compiuti dallo storicismo per allontanarsene .
Il primo volume de Il tramonto dell’Occidente inizia precisando le coppie di
termini che saranno usati come impalcatura concettuale di una filosofia che vuol
presentarsi come inaudita. Spengler, perciò, tende ad utilizzare una serie di
concetti per niente nuovi, ma che sussume entro un ordine conoscitivo del tutto
rivoluzionario. Ecco perché egli non si affida a dei concetti astratti per cogliere i
fondamenti ultimi del reale, ma a un “sentimento chiaro e preciso” da cui
procedono queste antitesi fondamentali concernenti “i limiti estremi dell’essere
desto”, sentimento che “è ciò che di più originario può essere mai raggiunto” 8 .
E’ qui che si innesta la possibilità di guardare a Spengler ancora come a un
romantico, sebbene egli si dica figlio della sua epoca. Ma sarà proprio il
costituirsi di una certa strumentazione romantica, anzi goethiana, che gli
consentirà di seguire il suo cammino filosofico, sebbene sussunto in un’ottica
quanto mai moderna.
Prima di procedere nell’analisi di questi due mondi (il mondo come natura e il
mondo come storia) allo scopo di cogliere le loro logiche interne, sarà opportuno
soffermarsi sull’effettivo modo secondo cui Spengler ne concepisce il rapporto,
postulando una possibile gerarchia.
7 TO, p.21.
8 TO, p.90.
7

“Essi designeranno due modi possibili di abbracciare la totalità del cosciente, del
divenire e del divenuto, della vita vivente e della vita vissuta in una immagine del mondo
unitaria, spiritualizzata e ben ordinata del mondo – due modi che si diversificano a seconda
che nella sensazione indivisibile complessiva sia il divenire o il divenuto, la direzione o
l’estensione (tempo o spazio) a predominare formativamente. Ma qui non si tratta di
un’alternativa, bensì di una serie indefinita di possibilità diversissime di formarsi un ‘mondo
esterno’ come riflesso e testimonianza del proprio essere, serie i termini estremi della quale
sono una visione del mondo puramente organica e una visione del mondo puramente
meccanica” 9 .
Direzione ed estensione, divenire e divenuto hanno una capacità formativa: ma
che cosa significa? Significa che, a seconda che noi procediamo secondo una
logica organica (fondata sul destino) o secondo una logica meccanica (fondata
sul principio di causalità), arriveremo a costituire mondi fra loro diversi, grazie
alla capacità creativa, mitopoietica del nostro guardare il mondo. Tuttavia non
possiamo parlare di una netta alternativa: il mondo come storia e il mondo come
natura sono solo gli estremi di una serie infinita di possibilità formative in nostro
possesso e non delle realtà ontologicamente definite. Ed è proprio in questa
affermazione, di cui pure Rossi tiene conto 10 , che la tesi di quest’ultimo circa la
portata ontologica dell’antitesi storia–natura, rischia di trovare degli ostacoli e di
confondersi.
In questo brano, però, compare anche un fondamentale accenno ad un rapporto
gerarchico tra questi istinti formativi: per Spengler “a base di ogni divenuto vi è
sempre un divenire, e non viceversa” 11 ; il divenuto, cioè, è solo la forma
cristallizzata, fissata, priva di vita, dello stesso divenire da cui pure deriva.
Storia e natura sono due possibilità estreme date all’uomo per crearsi una
propria immagine del mondo: “Una realtà è natura se in essa il divenire è
9 TO, p.93.
10 Pietro Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, op. cit., p.399.
11 TO, p.90.
8

subordinato al divenuto, è storia se il divenuto è subordinato al divenire” 12 . Ma
come si estrinseca ulteriormente questa contrapposizione? Relativamente al
tempo, Spengler sostiene che ogni fatto storico ha il carattere della unicità e
della irripetibilità, mentre ogni fatto naturale ha il carattere della costanza, della
ripetibilità espressa mediante una legge. Perciò se la storia ha una direzione ed è
nel tempo, la natura è del tutto atemporale, è qualcosa di esteso, di inanimato, di
calcolabile, di numericamente conoscibile. Da questo punto di vista la natura, in
quanto divenuto, è espressione della morte, della fissità, della legge e della
misura, di un conoscere che divide e che sistema, senza tener conto del flusso
incessante e vivo del divenire. La forma, d’altro canto, sarà il veicolo di
conoscenza e di comunicazione della storia: le forme storiche si
contrappongono, così, alle leggi naturali, istituendo una legalità nuova, diversa
da quella deterministico-causale, meccanica della natura, una logica organica,
ma anch’essa caratterizzata da una sua necessità interna, dalla necessità della
vita. La domanda fondamentale con cui si apre Il Tramonto dell’Occidente
concerne proprio la ricerca di una logica tipica della storia:
“Esiste, di là da tutto ciò che vi è di accidentale e di incalcolabile nei singoli
avvenimenti, una struttura, diciamo così, metafisica dell’umanità storica, essenzialmente
distinta dalle forme politiche e spirituali ben visibili, popolari della superficie? Struttura che
sarebbe essa a determinare ogni realtà d’ordine inferiore? […] nella vita, diciamo, è possibile
individuare gli stadi che debbono essere attraversati e, invero, secondo un ordine che non
ammette eccezioni?” 13 .
Spengler qui ci sta prospettando una logica della storia che segua le stesse
epoche della vita organica, che cioè prospetti la nascita, la crescita, la maturità,
la decadenza e la morte di ogni componente storica e che, perciò, alluda ad un
12 TO, p.154.
13 TO, p.13.
9

loro destino, ad un destino di morte che è implicito nel loro essere delle forme
viventi.
Portando fino in fondo l’antitesi storia–natura, Spengler la apre al rapporto tra
destino e principio di causalità, la cui interpretazione è da lui considerata uno dei
più gravi problemi dell’umanità. L’idea di un destino è legata alla concezione
della vita come sede della realizzazione del possibile, come ciò che ha una
direzione e che soggiace a un fato. La conoscenza circa il destino di un essere,
sia esso umano o una qualunque altra forma di individualità vivente, ha il
carattere di una certezza, non comunicabile mediante concetti, ma solo col
linguaggio dell’arte o della religione:
“L’idea di destino richiede un’esperienza vissuta e non quella dello scienziato;
richiede una forza di visione e non un calcolare; profondità e non intellettualismo.” 14 .
Questo ci riconduce al nostro tentativo di definire il mondo come storia, in cui,
come abbiamo visto, Spengler si allontana da ogni logica incapace di cogliere il
vivente in quanto tale, nel suo divenire. Nella sua ossessiva utilizzazione di
coppie antitetiche, egli cerca di guidarci all’interno di una concezione della
storia che abbracci l’intero senza disanimarlo, senza fissarlo ma, al tempo stesso,
ci dispone, nell’analisi di questo ventaglio di possibilità di guardare il mondo, a
favore della prospettiva storica: ogni distinzione presuppone una valutazione e
tale criterio ci accompagnerà in tutta l’analisi del pensiero spengleriano.
La capacità di comprendere l’idea di destino e di comunicarla richiede una
creazione: solo un’artista può farlo, solo le forme viventi possono esserne il
veicolo. Anche riguardo a tale contrapposizione, Spengler riprende la sua
polemica nei confronti del kantismo: la filosofia, fino a lui, non si era mai
occupata di ciò che fosse il destino o il caso o la speranza, ma solo di ciò che
potesse essere conosciuto mediante concetti:
14 TO, p.185.
10

“Ma mentre, come lo ha constatato Kant, la causalità è una necessità dell’essere desto
pensante, mentre essa è la forma fondamentale della sua relazione col mondo delle cose, le
parole destino, predeterminazione, vocazione designano invece una ineluttabile necessità della
vita. La storia vera è satura di destino, ma è libera da leggi. Il futuro lo si può presentire (ed
esiste uno sguardo capace di penetrarne i segreti), ma non lo si può calcolare.” 15 .
Per colui che sente il destino, che lo percepisce secondo una certezza interna,
cogliendo nella storia una direzione e una logica altra da quella meccanica,
causale, il tempo stesso non sarà più un enigma, ma coinciderà, nella sua
irreversibilità, col destino. “Destino e causalità stanno fra loro come tempo e
spazio”. 16 Sarà proprio su questi presupposti che Spengler costruirà il suo
immane sforzo di uno studio nuovo, diverso, della storia mondiale.
In queste pagine de Il Tramonto dell’Occidente 17 egli sta sì disponendo i suoi
strumenti teorici, ma sta anche prestando attenzione ad una collocazione storica
della sua stessa filosofia: il suo scopo è quello di legittimare la prospettiva da cui
ci sta parlando, di stabilire la sua posizione nell’ambito del suo stesso orizzonte
storiografico. A questo punto deve infatti chiedersi se storia e natura, in quanto
possibilità estreme del nostro modo di guardare il mondo, siano presenti e
possibili in qualunque epoca storica.
“La storia è la forma originaria del mondo e la natura, quale meccanismo cosmico
elaborato, è una forma tarda di esso realizzata a pieno solo dall’uomo delle civiltà mature.” 18 .
Come il divenuto deriva dal divenire, essendone la dimensione cristallizzata e
morta, così la logica meccanica costituisce solo un modo derivato, tardo di
guardare il mondo e di ordinarlo secondo uno schema causale. L’umanità
15 TO, p.186.
16 TO, p.187.
17 Il riferimento è ai primi due capitoli del Tramonto dell’Occidente, in particolare a Fisiognomica e sistematica.
18 TO, p.160.
11

primitiva era assorbita all’interno di un tutto vivente, inafferrabile,
assolutamente non identificabile con la nostra natura, frutto di una conoscenza
rigida e schematizzante. Tale percezione del mondo, in un’età tarda e cittadina
quale la nostra, talvolta compare indistinta solo nel bambino o nell’animo
dell’artista, ma si colloca in una forte tensione con la visione del mondo
scientifica.
“La natura in senso stretto è il modo più raro, proprio all’uomo maturo e forse già
senile delle grandi città di civiltà tarde, di afferrare la realtà; la storia è quello ingenuo e
giovanile, ma anche più inconsapevole, proprio a tutta l’umanità.” 19 .
Da questo punto di vista lo stesso mondo umano è il mondo come storia, la
storia ne è il suo carattere costitutivo. Tuttavia l’elemento natura non ne
costituisce un tratto estraneo, ma solo una fase necessaria e costante, propria a
ciascuna epoca tarda. Nei primi secoli di ogni civiltà sono già presenti gli spunti
di una visione meccanicistica del mondo basata sulle leggi, i numeri e la
causalità, ma sono ancora deboli, sporadici se confrontati col forte sentimento
religioso. Più tardi, però, essi assumono tutto il loro rigore e, come tutto ciò che
lotta per emergere, tendono ad essere esclusivi e predominanti. Si finisce, così,
col conoscere il mondo solo tramite dei nessi causali e l’uomo delle grandi città
assume il pregiudizio secondo cui l’immagine meccanica della natura sarebbe
identificabile col mondo stesso.
Ma a quale epoca appartiene lo stesso Spengler? Non è forse la sua un’età in cui
prevale la visione scientifica del mondo? E, allora, che ne è della rivalutazione
della storia propria della sua filosofia dell’avvenire?
Innanzitutto, Spengler esclude la possibilità che possa darsi una scienza storica:
19 TO, p.160-161.
12

“Ma si deve tener fermo che voler trattare scientificamente la storia sarà, in fondo,
sempre qualcosa di contraddittorio. […] Lo sguardo propriamente storico verte su un regno di
significati ove è deciso non il vero o il falso, bensì il piatto e il profondo.” 20 .
Solo la natura può essere trattata scientificamente, mentre la storia ha a che fare
con delle forme viventi: ciò che si può comprendere di esse è solo la profondità
e autenticità del loro essere manifestazioni di un’epoca. Ogni ricerca storica che
voglia darsi come scienza finisce con l’essere “una mera fisica della vita” 21 ,
come lo è stato il materialismo storico. Il compito della filosofia di Spengler va
oltre la pretesa di assolutezza delle scienze della natura, in quanto egli le
relativizza e le sussume all’interno della sua indagine storica, considerandole
delle manifestazioni relative ad una data civiltà. In particolare, in Occidente,
l’età delle scienze esatte è ormai finita, avendo raggiunto il suo vertice nel
diciannovesimo secolo: ecco, perciò, che è giunta l’ora della sua filosofia, di
quella morfologia della storia mondiale che di qui a poco ci appresteremo a
definire.
Ma quali sono i presupposti per una conoscenza storica, quali doti deve
possedere uno storico? Spengler, in molti punti, assimila la conoscenza storica al
fare artistico in quanto entrambi hanno a che fare col mondo delle forme viventi,
entrambi si propongono di vedere e di cogliere le cose nel loro divenire, nel
mentre esse divengono. Da ciò, anche il problema di un linguaggio che non
sistemi, che non uccida la vita che è nelle forme e, perciò, poesia e religione
sono viste come gli ambiti più vicini al lavoro e al linguaggio dello storico.
“ La conoscenza della natura la si può imparare, quella storica è innata. Lo storico
coglie e comprende gli uomini e i fatti d’un sol colpo, con un senso che non si impara, che è
libero da ogni tendenziosità e che ben raramente si manifesta in tutta la sua potenza.
Analizzare, definire, ordinare, circoscrivere secondo cause ed effetti: tutto ciò può farlo
20 TO, p.157.
21 TO, p.160.
13

chiunque lo vuole. Forma e legge, imagine e concetto, simbolo e formula hanno ciascuno un
organo assai diverso. In questa antitesi si riflette lo stesso rapporto che corre fra vita e morte,
fra generare e distruggere. L’intelletto, il sistema, il concetto uccidono nell’atto stesso del far
conoscere. Essi trasformano il conosciuto in una realtà rigida che si può misurare e dividere.
Invece la visione vivifica. Essa ordina il particolare in una unità viva intimamente sentita.
Poesia e storia sono affini, come, dall’altra parte, lo sono calcolare e conoscere.” 22 .
Domenico Conte, nel suo saggio Evoluzione (in tedesco ‘progresso’) – Spengler
tra vitalismo e irrazionalismo politico 23 , si pone lo stesso problema di
individuare quali siano le qualità di uno storico di rango: tutte, ci dice,
“rimandano ad una dimensione intuizionistica, fondata sulla capacità di cogliere
immediatamente senza bisogno di appesantimenti razionalistici, il nucleo
profondo degli avvenimenti” 24 . Ed è quanto Spengler continuamente ci
comunica insistendo sulla sua capacità di visione, sull’acutezza del suo sguardo,
sul suo sapersi porre da una ‘prospettiva da aquila’. Ma uno degli aspetti o,
meglio, dei percorsi interpretativi su cui Conte insiste, riguarda la possibilità di
“gettare un audace ponte fra un piano biologico–metafisico e un piano di
morfologia delle civiltà” 25 . E, allora, quali sono i presupposti teorici di questo
‘ponte’? Come fa Spengler a combinare queste antitesi, attuando quasi un
paradossale sovvertimento della concezione comune della natura e della storia?
Chi lo ha ispirato in questo lavoro preliminare di concezione di una struttura
organica, destinale della storia?
“Ci si ricordi di Goethe. Ciò che egli ha chiamato natura vivente è proprio ciò che qui
viene designato come storia mondiale.[…] Rivivere col sentimento, intuire, confrontare, una
immediata certezza interna, una immaginazione sensibile esatta: ecco quali furono i mezzi di
22 TO, p.166-167.
23 Domenico Conte, Evoluzione (in tedesco progresso). Spengler tra vitalismo e irrazionalismo politico in
Catene di civiltà, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1994.
24 Ivi, p.315.
25 Ivi, p.216.
14

cui si servì per avvicinarsi al mistero dei fenomeni in moto. Non diversi sono i mezzi
necessari per la ricerca storica in genere.” 26 .
Ecco il capovolgimento: ciò che era natura (anzi natura vivente) diviene storia,
la quale ne assume le leggi interne, ovvero la logica organica.
Goethe costituisce, insieme a Nietzsche, l’unico precursore che Spengler cita e
ringrazia esplicitamente: al di là di essi, egli tende a spacciare tutte le sue idee
come del tutto originali, come assolutamente innovative. Secondo Rossi è
proprio Goethe a fornire a Spengler gli strumenti per tradurre in chiave
romantica il pensiero storicistico: da lui avrebbe tratto sia la nozione di Erlebnis,
di esperienza vissuta, come strumento di un accesso immediato al divenire della
vita, sia la concezione di una natura vivente che, come abbiamo visto, diventa il
mondo come storia.
“L’identificazione tra la ‘natura vivente’ e il ‘mondo come storia’ conduce Spengler a
caratterizzare lo sviluppo storico come un divenire biologico retto da una logica organica, che
è l’espressione di una necessità infallibile a cui le forme della vita non possono mai sottrarsi.
Il rapporto tra la vita umana e le sue manifestazioni risulta perciò definito in riferimento al
rapporto che Goethe aveva istituito tra la vita e le sue forme: le manifestazioni del mondo
umano sono, nel loro carattere storico, espressione di una forza infinita – la vita – che si
realizza in una molteplicità di forme tra loro diverse, ed ognuna con una propria fisionomia
particolare.” 27 .
Cerchiamo di analizzare entrambi questi punti di contatto e di comprendere in
che modo la concezione della natura di Goethe abbia inciso sull’idea
spengleriana di una morfologia della storia mondiale. Innanzitutto sarà
opportuno considerare la nozione di forma che, come abbiamo visto, diventa in
Spengler il veicolo di comprensione e di comunicazione del divenire storico, in
contrapposizione alle leggi della natura. In questo percorso prenderemo in
26 TO, p.47.
27 Pietro Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, op. cit., p.393-394.
15

esame alcuni degli Scritti sulla natura 28 in cui compare un Goethe scienziato,
studioso della botanica ma che, mai come in questa veste, è stato capace di
venire a capo di alcune delle questioni estetiche che più gli stavano a cuore: la
natura, cioè, diventa il terreno di risoluzione di questioni poetologiche.
Forma, ci avverte Goethe, in tedesco, è Gestalt, “termine nel quale si astrae da
ciò che è mobile, e si ritiene stabilito, concluso e fissato nei suoi caratteri, un
tutto unico” 29 ; ma non è certo questa l’accezione di forma che egli intende porre
a base della sua nuova disciplina, la morfologia. Forma piuttosto è Bildung,
ovvero formazione, per indicare non ciò che è, ma ciò che sta producendosi:
“Ora, se esaminiamo le forma esistenti, ma in particolar modo le organiche, ci
accorgiamo che in esse non v’è mai nulla d’immobile, di fisso, di concluso, ma ogni cosa
ondeggia in un continuo moto.” 30
La natura, cioè, specie quella organica, non ha nulla a che fare con le leggi fisse
della fisica: essa è un tutto vivente non coglibile con un sapere che divide, che
particolarizza, che non considera le parti come parti di un tutto. I metodi
analitici, sebbene utili per rendere più agevole al nostro intelletto lo studio
dell’insieme, rischiano di scomporre ciò che era vivo in una molteplicità di
elementi da cui non si può sperare di ricomporlo o di ridargli vita. Dice Goethe:
“Se noi vogliamo acquisire una percezione vivente della natura, dobbiamo mantenerci
mobili e plastici seguendo l’esempio ch’essa stessa ci dà.” 31 .
Tutto ciò che la scienza si sforzava di tenere distinto, tendeva a riunirsi
nell’animo di questo scienziato sui generis. Il suo scopo sarebbe stato quello di
abbracciare in una sola visione l’attività vitale, libera e infinita della natura.
28 Johann Wolfgang Goethe, La metamorfosi delle piante, Parma, Guanda, 1999. Questo libro contiene solo una
parte degli Scritti della natura goethiani, ma l’unica tradotta in italiano.
29 Ivi, p.43.
30 Ibid.
31 Ibid.
16

In un saggio di Giuliano Baioni dedicato ai concetti di forma e simbolo in
Goethe 32 , la forma è presa in considerazione come punto di contatto tra arte e
scienze della natura. Essa è concepita come una totalità chiusa, autonoma, come
una cellula estetica o linguistica (poiché anche la natura ha un suo linguaggio)
che si struttura per opposizioni 33 . La natura, per Goethe, ha un suo simbolismo,
si esprime mediante delle forme viventi; rispetto alla storia, caratterizzata dal
progresso lineare, dalla voracità del presente che divora ogni momento
precedente, essa esprime la sua temporalità nella vita della pianta, nella sua
ciclicità:
“La natura è il luogo dello sviluppo ciclico, dell’ordine, della necessità, dell’armonia e
soprattutto il luogo di una creatività inesauribile nella quale il principio dell’unità e il
principio della molteplicità sono in perfetto equilibrio.” 34 .
Lo studio delle forme della natura sarà, perciò, lo strumento più adatto per
rapportarsi ad essa; a tale scopo Goethe fonda un’altra scienza: la morfologia.
Possiamo ben immaginare come questi momenti della riflessione goethiana sulla
natura possano aver inciso su Spengler, interessato com’era ad una visione
nuova, diversa della storia. Nella morfologia della natura egli pose le basi per la
sua morfologia della storia mondiale, incontrando le medesime difficoltà. Il
problema più grande era “come rappresentare nella fissità di un segno
immodificabile (quello del linguaggio) il divenire delle forme” 35 . Le opere della
natura non sono attingibili dalla ragione teoretica: occorrono metafore,
similitudini, simboli, non concetti. Per questo Goethe deve ricorrere alla poesia,
stendendo così un ponte tra botanica e forme dell’arte.
Nella Metamorfosi delle piante Goethe ci dà varie definizioni della morfologia,
distinguendola dalle altre scienze. Se la fisica è “la conoscenza delle nature
32 Giuliano Baioni, Forma e simbolo in Goethe appendice di Classicismo e rivoluzione, Napoli, Guida, 1982.
33 Ivi, p.317.
34 Ivi, p.321.
35 Ivi, p.326.
17

organiche nelle loro parti interne ed esterne, a prescindere dal loro insieme
organico” 36 , la morfologia è in grado di studiare “l’insieme organico
ricostruendolo armonicamente con le facoltà dello spirito” 37 . Essa non vuole a
tutti i costi spiegare, bensì solo rappresentare: Goethe la propone come una
nuova scienza non certo quanto al suo oggetto, bensì quanto al suo metodo e al
suo punto di vista, in quanto è capace di riunire in sé ciò che è già presente,
anche se disperso, nelle varie scienze naturali. Il suo scopo sarà quello di
studiare le forme dei corpi organici nelle loro trasformazioni, di comprendere
“come la forma si cambi in forma” 38 .
Per questo motivo la morfologia tiene insieme arte e natura: nella sua capacità di
cogliere le forme del divenire si configura come l’unica scienza adatta per un
poeta e per un umanista. Si tratta di una nuova cultura estetica, che impone la
ricerca di un nuovo linguaggio sia artistico sia naturale capace di utilizzare il
criterio dell’analogia delle forme simboliche. D’altro canto, come vedremo, la
concezione della forma organica come una cellula estetica, come un
microcosmo fine a se stesso, sarà per Spengler fondamentale nella definizione
della civiltà come orizzonte chiuso, autoreferenziale.
Ciò che colpisce della concezione che Goethe ha della natura è, per contro, la
sua idea della storia come una “successione di eventi del tutto arbitrari” 39 , come
“una massa di follie e nefandezze” 40 . Il suo ideale di perfezione delle forme
veniva, come dire, sconfessato e contraddetto, dalla violenza dei fatti storici
(pensiamo soprattutto al suo giudizio negativo sulla rivoluzione francese). Per
questo motivo potremmo dire che Spengler attua un capovolgimento del modo
comune di considerare il rapporto storia–natura, ponendo il suo accento positivo
sul primo dei due termini che, tuttavia, viene completamente cambiato di
significato e di struttura. Ma come attua, in concreto, questo capovolgimento?
36
Johann Wolfgang Goethe, La morfologia delle piante, op. cit., p.102.
37
Ivi, p.103.
38
Ivi, p.116.
39
Giuliano Baioni, Forma e simbolo in Goethe, op. cit., p.318.
40 Ibid.
18

“D’altra parte, là dove dovrebbe regnare il regno dei numeri e del sapere esatto,
Goethe ha chiamato ‘natura vivente’ proprio ciò che corrisponde a una visione diretta del
puro divenire e formarsi; visione, quindi, della storia nel senso qui definito. Il suo mondo fu
anzitutto un organismo, un ente, e si può comprendere che le sue ricerche, perfino quando
avevano l’aspetto di una fisica, non miravano né a numeri né a leggi né a una causalità fissata
in formule e, in genere, a un’analisi; che esse furono piuttosto una morfologia in senso
superiore, per cui evitarono il metodo specificamente occidentale di ogni studio secondo
cause, cioè l’esperimento a base di misure ; né di esso sentiamo in qualche punto la
mancanza.” 41 .
Spengler si è riferito proprio alla struttura e alle finalità della morfologia
goethiana, non più riferendola alle scienze della natura o all’arte, ma alla storia
che, come vedremo, si esprimerà anche attraverso le forme della scienza e
dell’arte. Egli avverte il suo lettore di stare semplicemente applicando le idee
della morfologia goethiana della natura e sposta continuamente lo sguardo da
questa alla morfologia storica, quasi a voler cercare una legittimazione per le
basi del suo grandioso edificio.
“La profonda e poco considerata idea che Goethe scoprì nella sua ‘natura vivente’, e di
cui egli fece costantemente il fondamento delle sue ricerche morfologiche, va qui applicata
nel suo senso più rigoroso a tutte le forme della storia umana pienamente maturate, morte in
piena fioritura, semisviluppate o soffocate in germe. E’ un metodo che si basa sul sentimento
non sull’analisi.” 42 .
Questo meccanismo ci sarà indispensabile nella comprensione del fenomeno
delle civiltà, la cui concezione sarà tutta intrisa del biologismo goethiano,
nonché nell’opera comparativa che egli si appresterà a costruire tra le forme
storiche. Il concetto di pianta, poi, nella sua considerazione morfologica, sarà
41 TO, p.157-158.
42 TO, p.171.
19

costantemente sottoposta alla sua attenzione come fonte inesauribile di
conoscenza degli elementi ultimi del reale e della coscienza (essere ed essere
desto).
L’interesse per la natura vivente sopravvivrà, in Spengler, a Il tramonto
dell’Occidente e costituirà la base per quell’opera di metafisica a cui dedicherà
gli ultimi anni della sua vita. Essa, pubblicata solo postuma, rivela non solo la
profondità dell’eco goethiana ma, soprattutto, l’originalità della sua elaborazione
nel pensiero di Spengler. Urfragen costituisce un domandare senza risposte, un
porre problemi che hanno in loro stessi il loro valore in quanto interrogativi sulla
vita. In tale opera, composta di frammenti, troviamo ancora i problemi della
forma, della natura vivente e dell’intuizione:
“La forma e la formazione della vita: non si tratta di un ‘essere-che-vive’ così come i
sistematici tacitamente affermano sempre, quale fondamento della vita stessa; questa invece si
sostanzia in un nascere, un fiorire, un maturarsi, un perire; non quindi un esserci ma un agire
(come la fiamma): della vita della specie, della famiglia, delle stirpi, del singolo esemplare, un
aver-formazione organicamente, cioè: la vita nasce, acquista forma, diviene nuovamente
senza forma.” 43 .
La natura vivente è vista ancora come “vita totale” 44 , attraversata e abitata da
schiere di esseri in movimento.
Ma Rossi aveva accennato anche all’influenza del concetto di intuizione su
Spengler. Esso si colloca in diretto rapporto con la concezione della natura
vivente in quanto proprio la capacità di astrarre dalla visione matematizzante del
mondo, il saper ridurre a un minimo la componente deterministica della scienza
della natura, consente la trasformazione del “vedere in esperienza vissuta,
ammettente soltanto le varie formulazioni artistiche” 45 . Spengler parla più volte
della fantasia sensibile esatta di Goethe, considerandola la facoltà più idonea a
43 UR, p.79.
44 UR, p.342.
45 TO, p.156.
20

cogliere il divenire: in essa vi è sia la componente empirica, legata ai sensi, sia il
momento creativo, estetico, il solo in grado di rapportarsi alle forme viventi.
Molte volte, nel corso de Il tramonto dell’Occidente, sentiremo Spengler parlare
di intuizione, di certezza interna, di istinto: lo abbiamo visto a proposito del
destino, ma molti altri passaggi cruciali saranno inseriti in quest’ottica
intuizionistica.
L’aver fissato il nostro sguardo sul rapporto Goethe–Spengler non significa
voler appiattire la filosofia di quest’ultimo ai presupposti teorici dell’autore del
Faust. Qui non si tratta solo di rintracciare la provenienza dei concetti della
morfologia della storia mondiale, ma di capire come essi lavorino nell’ambito di
un contesto del tutto nuovo e si intreccino con influenze e suggestioni di diversa
provenienza. L’immenso impianto storico costruito da Spengler ne Il tramonto
dell’Occidente può essere considerato la sintesi originale di più tendenze le quali
lavorano in lui allo scopo di portare a chiarimento il proprio presente e il destino
della sua civiltà. Le categorie finora messe in campo dovranno, perciò, essere
comprese entro quest’ottica, prescindendo dal ravvisare delle semplici
somiglianze. Soprattutto, dovremo cercare di rinvenire le fonti e le suggestioni
da Spengler non espressamente dichiarate ma fortemente presenti in un libro
dalle molteplici possibili prospettive di lettura.
2. Dalla metodologia all’interpretazione della realtà: slittamento
dell’antitesi scienze dello spirito–scienze della natura. Lo
storicismo e i suoi rapporti con Spengler.
L’antitesi storia-natura costituisce il presupposto fondamentale della costruzione
morfologica de Il tramonto dell’Occidente. Spengler ama presentare ogni
concetto e principio del suo pensiero come vox non prius audita: al di là dei
21

iconoscimenti palesi attribuiti a Goethe e a Nietzsche, egli cioè cerca di
spacciare ogni idea come assolutamente originale e rivoluzionaria, occultando,
in tal modo, debiti altrettanto importanti. In realtà, lo stesso problema del
rapporto tra storia e natura è figlio della tradizione storicistica tedesca di cui
egli, per alcuni versi, può considerarsi il continuatore. La necessità di
distinguere gli ambiti della conoscenza e della realtà gli deriva dalla
differenziazione tra scienze dello spirito e scienze della natura, ideata da
Dilthey 46 a partire dall’Introduzione alle scienze dello spirito. Come per
Spengler, anzi in maniera molto più sentita, il presupposto di quest’antitesi giace
nella contrapposizione al positivismo, nell’esigenza di dare forza e spessore alle
scienze storiche.
“Alla fine del Medio Evo iniziò l’emancipazione delle varie scienze particolari. Tra
esse quelle della società e della storia rimasero tuttavia ancora a lungo nell’antica dipendenza
dalla metafisica, fin molto addentro nel secolo scorso. Che anzi, il crescente dominio delle
scienze naturali apportò loro un nuovo stato di soggezione non meno opprimente dell’antico.
Fu la Scuola Storica – prendendo questa designazione in un senso ampio – a compiere
l’emancipazione della coscienza e della scienza storica.” 47 .
Dilthey, dunque, intende fondare l’autonomia delle scienze dello spirito sul loro
differenziarsi tanto dalla metafisica quanto dal positivismo.
La prospettiva metafisica ha trovato modo di esprimersi e di affermarsi
nell’ambito della filosofia della storia, la quale pretende di trovare l’unità e il
senso dei fatti socio-storici in una connessione necessaria di carattere logico, che
prescinde dalla loro concretezza particolare. Di conseguenza, il significato della
storia viene ravvisato in uno scopo o in una ragione trascendente di cui gli eventi
costituiscono la manifestazione, mentre le scienze particolari si riducono ad
46 Da Dilthey, Spengler ha tratto le categorie fondamentali e gli strumenti necessari ad affrontare il problema
della civiltà occidentale e del suo avvenire; per alcuni versi, egli costituisce l’implicito ma costante punto di
riferimento del suo pensiero.
47 Wilhelm Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito, La Nuova Italia, Firenze, 1974, p. 5-6.
22

essere i corollari di uno schema prefissato perdendo ogni indipendenza di
ricerca. Dilthey, viceversa, ricava l’autonomia di cui godono le scienze dello
spirito dal loro impianto gnoseologico e metodologico, fondato sulla concretezza
della vita umana.
Il rapporto col positivismo è, invece, molto più complesso: da un canto, il rigore
metodologico nelle scienze della natura è il termine di paragone costante per la
determinazione delle peculiarità delle scienze umane; dall’altro, il positivismo
raccoglie, nella sua struttura, la stessa eredità metafisica, nonostante l’apparente
polemica contro di essa. Il suo scopo, infatti, è quello di costruire una scienza
onnicomprensiva che non lasci alcun margine di autonomia e specificità alle
scienze dello spirito. In particolare, Dilthey appunta le sue critiche su Comte e
su Stuart Mill:
“Nella sua opposizione al positivismo, Dilthey rimprovera da un lato a Comte di
subordinare arbitrariamente le scienze dello spirito alle scienze della natura, in ossequio a una
posizione metafisica mirante a ridurre tutti i fenomeni spirituali a prodotto della natura, e
dall’altro a Stuart Mill di definire estrinsecamente il metodo delle scienze dello spirito in base
allo schema di spiegazione proprio delle scienze della natura.” 48 .
Vi è una incommensurabilità tra fatti spirituali e fatti materiali e ciò esclude
qualunque subordinazione degli uni agli altri: si tratta, allora, di stabilire i
confini presso i quali “termina la conoscenza della natura e inizia una scienza
dello spirito autonoma, configurantesi a partire da un proprio centro” 49 . E’,
perciò, impossibile interpretare i fatti spirituali come proprietà o aspetti della
materia: la differenza che intercorre tra questi due mondi di discipline non è
semplicemente quella tra scienze speciali dello stesso genere.
L’antitesi tra storia e natura si esplica, così, nella necessità di definire
l’autonomia delle scienze dello spirito e di fondarla gnoseologicamente. Se in
48 Pietro Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, op. cit., p.33.
49 Wilhelm Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito, op. cit., p. 25.
23

Spengler l’antitesi si riduceva al solo mondo storico, Dilthey parla di tutte quelle
scienze che hanno per oggetto la realtà storico-sociale. Esse costituiscono, di
volta in volta, il riflesso parziale della realtà storica effettuale, inattingibile nella
sua totalità, e preludono alla necessità di un nesso che le articoli in un sistema
autonomo di conoscenza.
Ma quali sono le caratteristiche peculiari delle scienze dello spirito? Che cosa
consente di stabilire la loro incommensurabilità rispetto alle scienze della
natura? E’ qui in gioco la possibilità di definire i piani di questa antitesi e,
quindi, di comprendere la reale influenza che lo storicismo diltheyano ha avuto
sul pensiero di Spengler. Per entrambi, la conoscenza delle forze che dominano
il mondo storico-sociale diventa una questione vitale; ai loro occhi le scienze
sociali acquistano una posizione di rilievo rispetto alle scienze naturali. Anche
se collocati in situazioni storiche differenti, essi sentono l’urgenza di una
comprensione storica della realtà che, tuttavia, assumerà forme e finalità assai
personali.
Innanzitutto, possiamo parlare di una distinzione di oggetto: le scienze dello
spirito e le scienze della natura hanno di fronte a loro due distinte realtà, frutto di
una diversa percezione delle loro leggi interne:
“Così dal regno della natura l’uomo scinde un regno della storia in cui, nel bel mezzo
della concatenazione d’una necessità oggettiva che è natura, in innumerevoli punti di questo
tutto balena la libertà; e qui gli atti del volere, in netto contrasto col decorso meccanico dei
mutamenti naturali, […] creano veramente qualcosa, introducono uno svolgimento, nella
singola persona e nell’umanità.” 50 .
La libertà è il segno di una scissione col mondo naturale, dell’intervento di una
volontà che modifica la realtà esterna. Ma non bisogna pensare che la differenza
di oggetti sia riconducibile a una differenza sostanziale: coerentemente col suo
50 Ivi, p.18-19.
24

atteggiamento antimetafisico, Dilthey nega di trovarsi dinanzi a due strutture
opposte del reale, all’antitesi tra spirito e materia tipica del Medioevo o a quella,
più moderna, tra res cogitans e res extensa.
“Al posto dell’antitesi tra sostanze materiali e sostanze spirituali subentrò quella tra
mondo esterno, inteso come ciò che è dato dai sensi, nella percezione esterna (sensazione), e
mondo interno, offerto primariamente dalla penetrazione interiore degli eventi e degli atti
psichici.” 51 .
Su questa base, è possibile pensare alla nascita di un regno caratteristico di
esperienza che attinge il suo materiale dal mondo interiore e che, perciò, può
essere sottoposto ad un diverso ordinamento e studiato sulla base di una
peculiare metodologia. Libertà e necessità caratterizzano i due distinti dominî di
conoscenza: nel mondo storico l’uomo si scopre in grado di mutare ciò che lo
circonda; nel mondo naturale egli ne è determinato.
Nell’ambito dell’Introduzione alle scienze dello spirito, Rossi sostiene che
l’antitesi scienze dello spirito-scienze della natura non è leggibile solo sul piano
oggettivo: vi è anche un’antitesi tra due modalità di esperienza e di
atteggiamento.
Infatti, mentre il mondo umano è oggetto di un’esperienza interna, le scienze
della natura traggono il loro materiale da un’esperienza esterna: solo nelle
scienze umane l’uomo è, al tempo stesso, sia colui che osserva e che conosce sia
colui che viene osservato nelle sue dinamiche storiche e sociali, l’oggetto di
un’esperienza vissuta (Erlebnis). Da ciò deriva che l’uomo istituisce un rapporto
radicalmente diverso con la realtà da lui studiata: il mondo dei fatti spirituali gli
appartiene, può intuirlo dall’interno della sua esperienza; viceversa, la natura gli
è estranea, distante.
51 Ivi, p.21.
25

“Gli stati di fatto della società ci sono comprensibili da dentro, possiamo ricalcarli in
noi, fino a un certo punto, in base alla percezione dei nostri stati, e nel prenderne visione la
nostra rappresentazione del mondo storico è accompagnata da amore e odio, da gioia
appassionata, da tutto il giuoco dei nostri affetti. Ma la natura è muta per noi. Solo la forza
della nostra immaginazione vi effonde un barlume di vita e di interiorità. […] La natura ci è
estranea. Per noi infatti essa è solo un esterno, non un interno. Il nostro mondo è la società. In
questa noi viviamo il giuoco delle interazioni con ogni forza di tutto il nostro essere, perché
notiamo in noi stessi, in vivissima inquietudine, gli stati e le forze di cui si compone il suo
sistema.” 52 .
L’esperienza vissuta si dà con immediatezza e in una molteplicità di toni
affettivi: anche il sentimento rientra nelle modalità proprie delle scienze dello
spirito. Dilthey, infatti, mira a recuperare l’interezza dell’uomo: il conoscere non
si limita al solo rappresentare, ma anche al volere e al sentire. L’ideale
dell’uomo intero è il frutto del recupero della concreta esistenza storica e
sociale.
Ma come procedono i due differenti gruppi di scienze? I diversi piani
dell’antitesi sono funzionali a mettere in rilievo una differente metodologia.
Uniformità e individualità diventano i termini fondamentali del discorso
storicistico e vengono sottoposti a ripensamenti e polemiche.
“Dilthey è dominato dal bisogno di ritrovare nella storia le stesse leggi di sviluppo,
conformità e regolarità che reggono i singoli avvenimenti. L’organizzazione delle scienze
morali e politiche è in cima alle sue ricerche; dotare queste scienze d’una metodica altrettanto
universalmente valida, fondarle scientificamente senza disseccarle assoggettandole al sistema
delle scienze fisiche, scoprire nel mondo morale dei tipi, delle classi, delle specie fisse e
determinabili fu la sua dominante preoccupazione.” 53 .
La ricerca di una metodica specificamente storica e sociale era fondamentale per
dotare le scienze dello spirito di una validità universale che potesse contrastare il
52 Ivi, p.55-56.
53 Lorenzo Giusso, Spengler e la dottrina degli universi formali, Ricciardi, Napoli, 1935, p.12.
26

primato scientifico dello studio della natura. Giusso, infatti, riduce ogni
differenza tra scienze dello spirito e scienze della natura a una questione di
metodo e non a un problema di oggetti. Tuttavia, in Dilthey sono presenti
molteplici prospettive: uniformità e individualizzazione si intersecano nel
definire il carattere specifico del metodo socio-storico.
“Fatti, teoremi, giudizi di valore e norme: le scienze dello spirito constano di queste tre
classi di proposizioni. […] In esse (che sono la confutazione permanente del principio
spinoziano omnis determinatio est nagatio) la penetrazione del singolare, dell’individuale,
costituisce un fine ultimo né più né meno dell’esposizione di uniformità astratte.” 54 .
Le scienze dello spirito si avvalgono sia dell’astrazione che generalizza, sia
dell’intuizione che particolarizza. Nel primo caso, esse mirano a scoprire le
uniformità del mondo umano, avvalendosi essenzialmente di un metodo
comparativo, in grado di astrarre dalla singolarità dei fenomeni spirituali:
l’antropologia, la psicologia, le scienze dei sistemi di cultura e
dell’organizzazione esterna rispondono a questa logica. Viceversa, la
storiografia tende a comprendere i fenomeni spirituali nell’individualità che li
contraddistingue: essa prescinde da quanto vi è di comune e di uniforme nel
mondo umano, per cercare di rintracciare gli elementi che definiscono la
fisionomia di un’epoca e di una civiltà.
“La storiografia fa astrazione da quei tratti della vita degli individui e della società che
nell’epoca da interpretare sono uguali a quelli di tutte le altre epoche; il suo sguardo va a
quanto differenzia, a ciò che instaura una differenza, e al singolare.” 55 .
Ma questo è anche il nucleo fondamentale della differenza metodologica tra
scienze dello spirito e scienze della natura, a partire dal quale si definisce la
54 Wilhelm Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito, op. cit., p.44.
55 Ivi, p.45.
27

difficoltà da parte di Dilthey di separare in maniera assoluta i due procedimenti:
l’aspetto generalizzante è tipico dello studio delle leggi e della causalità naturali,
ma esso è indispensabile per dare universalità e astrazione alle stesse scienze del
mondo umano. Ecco perché egli insiste dapprima sulla compresenza di queste
due anime nel metodo delle scienze socio-storiche, per poi lasciare ampio spazio
all’intuizione dell’individualità vivente. Proprio la fondamentale unità
dell’individuo, il suo appartenere sia al mondo esteso che al mondo spirituale,
conduce Dilthey a chiedersi se sia lecito parlare di pura contrapposizione tra
natura e mondo umano.
“La vita spirituale di un essere umano è una parte isolabile solo per astrazione, dell’unità
vivente psico-fisica in cui si configura un’esistenza e una vita umana. La realtà di fatto che
costituisce l’oggetto delle scienze storico-sociali, è il sistema di queste unità di vita.” 56 .
Le due prospettive non si possono elidere a vicenda: il regno della natura e
quello spirituale non sono due realtà poste l’una accanto all’altra, ma i risultati
di una specifica intenzionalità della coscienza. L’antagonismo tra lo scienziato
della natura e lo studioso del mondo umano riguarda unicamente la differenza
dei punti di partenza.
“A questo punto si può scorgere quanto sia relativa la delimitazione di queste due
classi di scienze.” 57 .
La natura (la stessa fisicità dell’uomo) agisce sullo sviluppo della componente
spirituale ma, a sua volta, essa subisce l’azione dello spirito. Come per Spengler,
anche qui il rapporto storia-natura oscilla tra la netta antitesi e la gamma di
possibilità di un’interazione. Ma, se in Spengler esso veniva ricondotto a un
problema di interpretazione, in Dilthey esso si radica nella concretezza
56 Ivi, p.29.
57 Ivi, p.33.
28

dell’osservazione dell’uomo nei suoi rapporti con un mondo variamente
dispiegato.
“Al posto dell’idea di una dipendenza uniforme dell’uomo dalle condizioni naturali
subentra l’idea più prudente che presso i popoli storici, diversamente da quanto accade ai
popoli privi di storia, la lotta delle forze etico-spirituali con le condizioni poste dalla morta
spazialità abbia ridotto continuamente il rapporto di dipendenza.” 58 .
Sebbene Dilthey riconosca il reciproco interagire di questi due mondi, la sua
intenzione è di isolare la sfera della vita interiore grazie all’immediatezza con
cui ci è data. Il tentativo di fondare l’autonomia delle scienze dello spirito non
esula dalla consapevolezza di non potersi avvalere della semplicistica
contrapposizione tra due mondi: essa dovrà avere, invece, una matrice
prettamente gnoseologica e metodologica.
A questo punto, diviene fondamentale appurare il senso della specificità della
metodologia delle scienze dello spirito, per comprendere quanto essa abbia
effettivamente influito sulla forma e gli intenti del pensiero di Spengler.
L’antitesi storia-natura si è avvalsa della contrapposizione tra dominî,
atteggiamenti e metodi esposta dalla filosofia diltheyana e l’ha sviluppata in un
concatenarsi di coppie antitetiche che hanno investito il rapporto originario
dell’uomo col mondo, la sua donazione di senso e di forma. Forma e legge,
tempo e spazio, destino e causalità, fisionomia e meccanismo sono i termini in
cui si esplica tale contrapposizione: in essa, gli echi di queste pagine dell’opera
di Dilthey sono evidenti. Ma come lavora il metodo specifico delle scienze dello
spirito nella filosofia di Spengler? Come si traducono i problemi dell’uniformità
e dell’individualizzazione nello stesso sapere storico?
Le scienze dello spirito, infatti, devono cercare di guadagnarsi quella validità
universale che possa legittimare il loro desiderio di essere considerate un sapere
58 Ivi, p.35.
29

autonomo rispetto alle scienze naturali: di contro alle accuse di soggettività
mosse dall’ambiente positivistico, questa esigenza conduce Dilthey a
sottolinearne l’aspetto legalistico, astratto.
“Alla proposizione del Wildeband secondo cui, nelle scienze naturali (psicologia
inclusa) il pensiero procede dalla ricognizione del singolo alla scoperta di leggi generali,
mentre nella storia si conserva l’amabile impronta dell’individuale, egli contrappone la sua
propria teoria delle strutture o dei tipi mentali che inseriscono i fatti individuali, le creazioni e
le teorie in un sistema di leggi. Anche nel mondo storico si danno conformità, ritorni e
concomitanze; se queste conformità non fossero possibili, la storia sarebbe una diversità
irriducibile all’intellegibilità. […] La separazione proposta da Wildeband tra scienze
nomotetiche e scienze idiografiche non va calata come una saracinesca. L’economia e la
linguistica che pure appartengono al gruppo delle scienze storiche ci forniscono esempi di
conformità, di stabilità, concordanze e permanenze, stabilite tra i fatti umani, Ed è questo
sistema di stabilità, di conformità, di permanenze e di concordanze che si tratta di infittire e di
tessere sempre più stretto in un’adeguata fondazione delle scienze morali.”. 59
Giusso fa giustamente riferimento alla polemica sorta tra Dilthey e Wildeband
circa la netta divisione tra scienze nomotetiche (ovvero legalistiche) e scienze
idiografiche (ovvero individualizzanti), ma non tiene conto dell’altro aspetto di
questa critica: non solo, infatti, Dilthey considera necessaria la ricerca delle
uniformità del mondo umano per conferire validità alla scienza che se ne
occupa, ma ritiene che non sia nemmeno possibile ridurre il metodo delle
scienze dello spirito alla sola legalità.
“La comunanza di operazioni logiche impiegate nei due gruppi di discipline non
esclude la prevalenza rispettiva della descrizione, dell’analisi, della comparazione,
dell’ermeneutica nelle scienze dello spirito e dell’induzione, dell’esperimento, della
matematica nelle scienze della natura.” 60 .
59 Lorenzo Giusso, Spengler e la dottrina degli universi formali, op. cit., p.19-20.
60 Pietro Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, op. cit., p.60.
30

La scientifizzazione del sapere del mondo umano non equivale al trasferimento
della metodologia naturale e meccanicistica al mondo storico: era proprio questo
il motivo di ogni critica al positivismo e della ricerca di un’autonomia
conoscitiva.
La teoria dei tipi, che già compare nell’Introduzione alle scienze dello spirito,
può dare tuttavia adito a una siffatta interpretazione:
“Tra lo storiografo e le sue fonti, da cui egli vuol ridestare certe forme a vita
palpitante, sta sempre un tipo (Typus), un modello di natura umana. […] La scienza vuol
semplicemente dare esattezza e fecondità a questo modello soggettivo. Vuole sviluppare
proposizioni generali il cui soggetto sia questa unità individuale e predicati tutti gli enunciati
su di essa che possano riuscire fecondi per intendere la società e la storia.” 61 .
Il tipo è sì una dimensione uniforme e permanente, ma è comunque anch’esso
una individualità storica che può essere compresa solo adottando un metodo
differente da quello delle scienze della natura: esso va intuito mediante
un’esperienza vissuta, la quale diventa l’organo specifico del sapere del mondo
umano. Ma l’esigenza di intelligibilità e di classificazione induce Dilthey a
concretizzare le visioni del mondo relative alle diverse epoche in determinati tipi
umani: essi costituiscono delle inesauribili possibilità di vita, delle sistemazioni
ideologiche e cosmologiche universali. In tal modo, la stessa tendenza della
filosofia ad essere un sapere universale viene soddisfatta; essa, però, non si
rapporta più agli enti della metafisica, bensì alla vissuta esperienza storica.
Ecco, allora, che i due momenti della metodologia storica si contessono:
universalità e individualità procedono insieme.
“Si tratta di conoscere differenze tipiche della vita spirituale al di là della ricerca fin
qui perseguita delle sue uniformità regolari, di descrivere e analizzare la fantasia dell’artista,
61 Wilhelm Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito, op, cit., p.50-51.
31

il temperamento dell’uomo che agisce, e di integrare lo studio delle forme della vita spirituale
descrivendone la realtà sia dello svolgimento che del contenuto.” 62 .
Il tipo umano può essere colto, nella sua contemporanea specificità spirituale,
dalla psicologia descrittiva, cioè da uno studio dell’interiorità che si limiti ad
accertare fatti e regolarità, senza avanzare assunti ipotetici: essa attinge
all’elemento più semplice della realtà socio-storica e, perciò, si configura come
la scienza che può fondare gnoseologicamente le scienze dello spirito.
“Le scienze dello spirito hanno a loro oggetto la vita individuale e sociale dell’uomo
nella sua storicità, e pertanto muovono dai risultati dell’indagine psicologica per penetrare i
rapporti inter-umani.” 63 .
La descrizione delle realtà individuali si concretizza nella biografia: essa si
configura come “un vertice altissimo della storiografia” 64 in grado di cogliere la
singolarità dell’esistenza al di là da qualsiasi generalizzazione. A partire dagli
elementi offerti dalla psicologia, tutte le altre scienze dello spirito costruiscono il
loro ambito parziale riferito alla realtà storico-sociale; in esse, la totalità è data
immediatamente, ma scomposta e distinta, per astrazione, nei suoi elementi.
Anche la storia si avvale del suo apporto fondamentale: di ciò si rende conto
anche Spengler che, ne Il tramonto dell’Occidente, fa della psicologia descrittiva
la metafora costante del rapporto individuo-civiltà, il metodo di svolgimento
delle manifestazioni simboliche dalle diverse animità storiche.
“La biografia presenta in purezza e per intero nella sua realtà effettiva il fatto storico
fondamentale. E solo lo storico che per così dire costruisce la storia muovendo da queste unità
di vita, solo lo storico che cerca di penetrare condizioni, formazioni sociali, epoche storiche
mediante il concetto di tipo e presentificazione, che concatena le vite l’una alle altre nel
62 Ivi, p.51
63 Pietro Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, op. cit., p.60.
64 Wilhelm Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito, op. cit., p.52.
32

concetto di generazioni, coglierà la realtà di un tutto storico a differenza delle morte astrazioni
che si cavano di solito dagli archivi.” 65 .
La difficoltà di individuare i piani dell’antitesi tra questi due gruppi di discipline
e quella, ancor più complessa, di definire il metodo precipuo delle scienze dello
spirito, accompagnano l’intera produzione di Dilthey e costituiscono il nucleo
centrale dello stesso storicismo. Spengler si colloca al termine di un faticoso
cammino filosofico, che vede la continuazione e, al tempo stesso, il tradimento
di questo pensiero. Ma quali sono i punti di contatto tra le categorie del
fondatore dello storicismo tedesco e la morfologia della storia spengleriana? E
quali, invece, le differenze fondamentali, i punti di rottura?
Per alcuni versi, Spengler è la concretizzazione dell’immagine dello “storico”
formulata da Dilthey: la contrapposizione tra storia e natura deriva dalla
medesima necessità di dare autonomia e validità a un ambito del sapere che
offre il vantaggio della certezza immediata, che non ha bisogno di prove o di
esperimenti perché gode dell’intuizione interna come forma di esperienza.
Tuttavia, l’articolazione dei momenti di questa antitesi si definisce, in Spengler,
con maggiore sicurezza: storia e natura non sono due realtà distinte ma due
diverse modalità di rapportarsi al reale. Esse sono il frutto di un’interpretazione
che permette di sussumerle all’interno delle stesse creazioni simboliche di una
civiltà. Inoltre, la storia spengleriana scivola, impercettibilmente, nella natura
nella misura in cui essa non è più il luogo della rigida spazialità e della causalità,
bensì il fondo magmatico e vivente da cui le civiltà emergono definendosi come
organismi.
Spengler gode della libertà di muoversi tra le categorie diltheyane e di elaborarle
con la fantasmagorica vitalità delle sue immagini. Ma il concetto di natura come
luogo dell’arida schematizzazione causale, della legalità sempre ripetentesi,
della necessità deterministica e del divenuto torna negli stessi termini
65 Ivi, p.52-53.
33

dell’Introduzione alle scienze dello spirito. La storia, invece, diventa, anche per
lui, sede della forma vivente, dell’irripetibilità del divenire, dell’intuizione.
L’esperienza vissuta si definisce anche qui come lo strumento di penetrazione
storica più adeguato, di contro alla concettualità e all’intelletto.
Tuttavia lo scopo di Spengler nel distinguere l’ambito storico da quello naturale
risponde ad esigenze molto diverse: lo scopo di Dilthey era quello di pervenire
ad una metodologia rigorosa delle scienze umane pari a quella delle scienze
della natura. Egli è uno studioso tenace e paziente nel ricostruire e rintracciare la
specificità delle scienze dello spirito; Spengler, invece, parte dalla certezza
dell’antitesi tra divenire e divenuto e la sviluppa conducendola ad esiti
completamente nuovi. Egli mira ad una gnoseologia spiccatamente
intuizionistica: la sua non vuole essere un’opera dimostrativa poiché egli ha
ormai intuito l’immagine della storia mondiale e le fasi necessarie che la
costituiscono; il suo è un sapere veggente ed esoterico che non si preoccupa di
esplicitare i suoi presupposti. Le finalità ultime del suo discorso riguardano la
comprensione del proprio tempo, di un’epoca di crisi e di trapasso.
Dilthey, d’altro canto, è più legato agli ambienti accademici, alle discussioni
post-kantiane ed anti-positivistiche. La sua, infatti, vuole essere, una ‘critica
della ragione storica’ che recuperi, sul piano della legittimità filosofica, il posto
spettante alle scienze umane.
“L’indagine critica deve rivolgere la sua attenzione anche a quel complesso di
discipline che non hanno trovato il loro posto nella critica della ragione di Kant e che il
mondo romantico ha contribuito a sviluppare, dando loro un posto accanto a quello delle
scienze della natura.” 66 .
Tutto questo non interessa a Spengler, che ostenta la sua distanza dagli ambienti
accademici. Lo stesso kantismo lavora in lui in maniera differente, come
66 Pietro Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, op. cit., p.37.
34

ostacolo critico alla sua immagine della storia e come elemento polemico nella
sua concezione dello spazio.
“Spengler si comporta come se romanticismo, storicismo e neocriticismo non fossero
mai esistiti, e come se la storiografia professionale fosse ancora immersa nel più estremo
scientismo positivistico.” 67 .
Ma la differenza degli intenti e dello stile di pensiero nasconde un ulteriore
analogia: l’insistenza diltheyana sulla ricerca sia delle uniformità che delle
individualità storiche, torna in Spengler nella fondamentale aporia tra fisionomia
e comparabilità delle civiltà. Le civiltà sono degli organismi individuali
assolutamente unici ed irripetibili: esse, tuttavia, sono caratterizzate da
un’omogeneità di fasi vitali che consente di stabilire delle sincronie, delle
affinità anche tra eventi lontanissimi. Spengler deve, allora, costruire una forma
di sapere che sappia, nel contempo, cogliere il volto, l’anima individuale di una
civiltà e la legalità (organica e non meccanica) che governa le sue scansioni
storiche.
“E’ appena il caso di notare come l’insistenza spengleriana sulla dimensione
idiografica strida violentemente con le precipitazioni nomotetiche del suo approccio
stadiologico. […] Il concetto spengleriano di civiltà è come diviso tra una dimensione
individualistica e una generalizzante.” 68 .
D’altro canto, le uniformità vengono rintracciate anche all’interno dell’universo
formale di ogni civiltà, i cui simboli riflettono la lingua dell’anima da cui
promanano 69 ; i tipi diltheyani si trasformano nelle famiglie di simboli di una
civiltà, rispecchianti la sua esistenza peculiare e intrasmissibile. Anche qui, le
67
Domenico Conte, Introduzione a Spengler, Laterza, Roma-Bari, 1997, p.22.
68
Ivi, p.23-24.
69
I chiarimenti relativi all’esplicazione della morfologia spengleriana saranno forniti nei prossimi capitoli. Per
ora, è importante comprendere quali aspetti dello storicismo lavorano nel pensiero di Spengler al fine di
determinare le peculiarità della sua posizione filosofica.
35

individuazioni si danno accanto alle permanenze e alle omogeneità:
fisiognomica e comparazione si configurano come metodologie compresenti e
intersecantesi nella morfologia della storia spengleriana.
“L’individuazione si realizza sulla base dell’uniformità attraverso un insieme di forme
fondamentali che sempre ritornano nel gioco delle variazioni e che costituiscono i tipi del
mondo umano. Così i tipi costituiscono il termine medio tra uniformità e individuazione
storica: essi indicano da un lato l’elemento comune, che si può trovare in una data sfera del
mondo umano, e dall’altro la sua ‘norma’ interiore.” 70 .
Inoltre, la paragonabilità tra civiltà e individuo consente a Spengler di applicare
le dinamiche dell’anima individuale alle modalità proprie dell’animità storica di
interpretare lo spazio e di esprimersi in simboli. La psiche individuale diviene
metafora dell’anima cosmica: a essa può essere applicata una psicologia
descrittiva, in grado di cogliere la sua unicità vivente.
Lo stesso concetto di civiltà viene introdotto da Dilthey, al termine
dell’Introduzione alle scienze dello spirito:
“Le relazioni di dipendenza e di affinità intercorrenti tra i fenomeni di una stessa età, e
manifestantisi nella perturbazione che, ai cangiamenti d’una componente dello stato sociale
complessivo, subentra anche in altri componenti, si possono paragonare al rapporto
intercorrente fra le parti costitutive, fra le funzioni d’un organismo. Relazioni siffatte stanno
alla base del concetto stesso di civiltà (Kultur) di un’età o di un’epoca, e da esse parte ogni
descrizione storica di una civiltà.” 71 .
Il primato che, alla fine della meditazione diltheyana, è assegnato
all’individualità storica trova il suo riscontro nell’assoluta incomunicabilità dei
simboli di una civiltà, nel loro radicale appartenere a una prospettiva totalizzante
che getta la sua ombra su qualunque interpretazione e forma di vita. La
70 Pietro Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, op. cit., p.74.
71 Wilhelm Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito, op. cit., p.148.
36

storicizzazione del mondo umano operata da Dilthey, si traduce, in Spengler, nel
relativismo delle civiltà, nella loro concezione monadica. In questo spostamento
può essere letto il tradimento di Spengler agli intenti diltheyani di una
fondazione delle scienze dello spirito: i tipi, da forme permanenti e ripetibili, si
trasformano in universi formali relativi e unici, in orizzonti chiusi destinati a
perire.
“L’opera di Spengler accoglie sì il quadro speculativo del pensiero diltheyano, ma al
tempo stesso lo trasforma inserendolo nell’ambito di un fondamentale orientamento
relativista.” 72 .
Rossi legge ne Il tramonto dell’Occidente la crisi dello storicismo: la
conoscenza della storia si trasforma in pura esperienza vissuta e si svincola dal
bisogno di un accertamento scientifico. Spengler trasforma unilateralmente
l’analisi della struttura storica del mondo umano operata da Dilthey e traduce “in
termini di necessità la relazione tra l’uomo e la situazione storica” 73 ; la storia, in
tal modo, diviene l’ambito determinante di tutto il mondo umano, in grado di
sussumere la stessa natura. Proprio la rivoluzionaria concezione delle civiltà
consente di stabilire la distanza che separa le due concezioni del mondo storico:
“Per Dilthey la validità di ogni manifestazione storica era sempre una validità
condizionata, da accertare in base al suo rapporto con la situazione da cui era emersa; ma
questo condizionamento non escludeva la possibilità di una relativa permanenza di tale
manifestazione nel corso dello sviluppo storico, e della sua sopravvivenza in altre epoche. Per
Spengler, invece, la validità di ogni manifestazione storica è una validità necessariamente
vincolata al processo evolutivo di una certa civiltà, ed anzi ad un particolare momento di tale
processo; e questo legame significa l’impossibilità di valere per altre civiltà o per altre fasi di
sviluppo della stessa civiltà.” 74 .
72 Pietro Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, op. cit., p.391.
73 Ibid.
74 Ivi, p.414-415.
37

Le manifestazioni storiche assumono un carattere assoluto, proprio in quanto
relative al destino precipuo di una data civiltà: tutto questo è quanto mai lontano
dal pensiero diltheyano. L’analisi della struttura del mondo umano come realtà
storica, che Dilthey aveva condotto in costante riferimento al suo procedere, si
trasforma in una morfologia della storia universale: lo storicismo, da metodo
rigoroso di fondazione delle scienze dello spirito, si trasforma in una sorta di
metafisica, di filosofia della storia che si colloca anteriormente a ogni indagine
gnoseologica. Secondo Rossi, questo è il tradimento più alto compiuto da
Spengler nei confronti dei presupposti dello storicismo contemporaneo.
In realtà, rispetto all’Introduzione alle scienze dello spirito, Spengler ha saputo
giocare sulla sua capacità immaginifica per dare spessore e vita alle scienze
umane. I linguaggi più disparati di cui si è avvalso sono la diretta testimonianza
della collaborazione reciproca delle scienze storiche nel definire il mondo
umano. L’antitesi storia-natura, nelle sue mani, si arricchisce di una prospettiva
nuova, calata nella ricerca profonda del senso della sua epoca, ormai giunta al
tramonto. Del resto, lo stesso Dilthey ha posto le basi per la concezione delle
civiltà come organismi transeunti:
“Entro il mondo storico che, come il mare, è sempre in moto ondoso, accanto agli stati
di fatto permanenti […] esistono anche estesi processi formanti ciascuno un insieme di
carattere più transitorio, che compaiono all’interno dell’interazione storica e vi crescono e si
diffondono per poi scomparire presto di nuovo.” 75 .
L’intuizione della caducità e dell’individualità delle forme storiche trova anche
qui il suo fondamento.
75 Wilhelm Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito, op. cit., p.153.
38

3. La civiltà e i suoi problemi
“Ciò che dà senso e contenuto di storia a quel mondo fuggente di forme, e che finora era
rimasto celato sotto la massa confusa delle date e dei fatti tangibili, è il fenomeno delle grandi
civiltà. Solo dopo che queste forme siano state percepite, vissute, individuate nel loro
significato fisiognomico, noi possiamo dire di aver compreso l’essenza e la forma interna
della storia umana nella loro opposizione a quella della natura.” 76 .
Il mondo come storia e il mondo come natura costituiscono lo sfondo entro cui
Spengler colloca il problema della civiltà: solo in virtù di essa la storia acquista
finalmente senso e valore rispetto alle scienze della natura. Ma la sua
esplicazione è di fondamentale importanza anche per la comprensione del senso
stesso de Il tramonto dell’Occidente: infatti, solo chiarendo cosa sia una civiltà,
Spengler può capire il senso della propria epoca e collocarla all’interno di un
grandioso disegno che vede come protagoniste le civiltà superiori nella loro
struttura formale, nei loro destini e nella loro sincronicità.
La storia, dice Spengler, “è la biografia delle grandi civiltà” 77 . L’introduzione di
questo tema è spesso accompagnata da un senso di mistero e come di scoperta:
Spengler, cioè, è come se procedesse per visioni, come se possedesse il dono di
cogliere ciò che tiene unita una molteplicità di manifestazioni nell’anima di una
civiltà:
“[…] io vedo una molteplicità di civiltà possenti, scaturite con una forza elementare
dal grembo di un paesaggio materno, al quale ciascuna resta rigorosamente connessa in tutto
il suo sviluppo: civiltà che imprimono ciascuna la propria forma all’umanità, loro materia, e
che hanno ciascuna una propria idea e delle proprie passioni, una propria vita, un proprio
76 TO, p.169-170.
77 TO, p.166.
39

volere e sentire, una propria morte. […] Ogni civiltà ha proprie originali possibilità di
espressione che germinano, si maturano, declinano e poi irrimediabilmente scompaiono.” 78 .
L’assunto fondamentale della nuova morfologia della storia mondiale è, quindi,
quello di una rivoluzione copernicana nell’ambito del mondo storico che pone
capo ad un fondamentale relativismo. Spengler, cioè, abbandona ogni
prospettiva eurocentrica, che costituirebbe una sorta di sistema tolemaico della
storia, e pone la nostra civiltà allo stesso livello formativo ed espressivo delle
altre civiltà superiori da lui individuate. In questo modo egli può svincolarsi da
una prospettiva quanto mai limitante ed accingersi ad una comparazione tra le
varie civiltà, i cui risultati saranno quanto mai fecondi 79 .
Ma prima di inoltrarci nel mondo della morfologia comparata di Spengler, sarà
opportuno comprendere fino in fondo che cosa vada qui inteso per civiltà. La
sua definizione discende direttamente dalla concezione peculiare della storia
come natura vivente. Le civiltà, infatti, sono definite come degli organismi di
una specie particolare che soggiacciono alla medesima legge degli esseri viventi:
esse nascono, maturano, invecchiano e muoiono. Vi è, quindi, una
corrispondenza tra la vita delle civiltà e la vita dell’individuo, sia esso umano,
animale o vegetale. Ecco perché Spengler può parlare dell’anima di una civiltà e
accennare alla necessità di una psicologia descrittiva come forma di sapere che
possa permetterci di conoscerla: anch’essa, in quanto individualità vivente,
possiede un’unità spirituale interna che può essere colta solo per deduzione,
dalle sue manifestazioni. Una civiltà che nasce è come un individuo che si desta
e, ciò che egli vive, nel suo essere parte di una data visione del mondo, è lo
specchio delle epoche della civiltà cui appartiene. Spengler dedica molte pagine
della sua opera alla descrizione della nascita della coscienza, dell’essere desto,
la cui formazione e il cui sviluppo per successive scissioni e diversificazioni,
78 TO, p.40.
79 La morfologia comparata sarà presa in esame solo nel secondo capitolo. Per il momento, ogni suo accenno è
unicamente funzionale al chiarimento dei problemi inerenti l’idea di civiltà.
40

può esserci utile nel ricostruire la nascita e le condizioni per l’attività di
significazione della stessa civiltà.
Ma il fatto che Spengler assimili una civiltà ad un organismo vivente, ci conduce
a due importanti conclusioni:
1) ogni civiltà è caduca: nel suo nascere è inscritto il suo perire, secondo la
necessità propria ad una logica organica;
2) solo una morfologia fisiognomica può approntare gli strumenti per
conoscerla.
Le civiltà nascono come i fiori dei campi, esse sono legate al paesaggio da cui
sono sbocciate: lo sfondo da cui emergono è la natura vivente di Goethe.
Spengler ci regala la bellissima immagine di una corrente indomabile che
prorompe da un oscuro passato e volge verso un futuro altrettanto oscuro e senza
tempo:
“Ma su questa superficie, le grandi civiltà generano maestosi cerchi di onde. Esse
appaiono d’un tratto, si espandono in magnifiche linee, poi si abbassano, scompaiono e lo
specchio delle acque ridiviene solitario e stagnante” 80 .
La nascita di una civiltà è frutto del caso: non è creata dagli uomini ma, come
abbiamo detto, essa dispone dell’umanità, dei popoli, delle razze e delle
generazioni come del suo materiale. Le correnti umane fluiscono all’interno del
suo stesso fluire, la cui immagine è colta da Spengler come in un sogno. Ma
qual è l’elemento che caratterizza una civiltà in quanto tale? Che cosa le
consente di essere considerata un tutto unitario? E che cosa regola, di
conseguenza, il suo disgregarsi e perire?
Ogni civiltà è un universo formale chiuso in se stesso, autoreferenziale, un
mondo di significati promananti da una forma originaria. Ciò che la caratterizza
è il suo esser forma in contrapposizione al mondo informe della realtà astorica.
80 TO, p.173.
41

Le civiltà sono “gli elementi ultimi del mondo storico delle forme” 81 . Di contro
a quanto di caotico e di cangiante vi è nel mondo storico, Spengler ravvisa
qualcosa di formato, di pregnante:
“Lo sguardo che sa penetrare nel profondo discerne però, in questo arbitrio, delle
forme pure che, fittamente velate e denudantisi solo malvolentieri, stanno alla radice di ogni
umano divenire.” 82 .
In un certo senso, qui Spengler sta procedendo alla ricerca, in campo storico,
dell’equivalente dell’Urpflanz goethiana nel campo delle scienze della natura,
ovvero di quel fenomeno originario, fondante, da cui tutte le altre forme
derivano. Se nella Metamorfosi delle piante Goethe faceva risalire tutte le forme
botaniche alla foglia 83 , qui Spengler concepisce le civiltà come “le unità
morfologiche minime della storia” 84 , cioè come gli elementi basilari della grande
potenzialità creatrice, formativa della storia. Continuando nel paragonare una
civiltà ad un organismo vivente, Spengler giunge a parlare di habitus di una
civiltà, con ciò intendendo “il suo modo specifico di apparire esteriormente, il
carattere, la forma , la durata del suo manifestarsi nel mondo” 85 , cioè lo stile di
una civiltà, che è ravvisabile in ciascuna delle sue manifestazioni, nella scelta di
ogni suo simbolo. L’atteggiamento di Spengler è quello di un botanico
distaccato da ciò che osserva, che ha conquistato una posizione privilegiata di
distanza dall’oggetto del suo studio ma che, al tempo stesso, dà a questa distanza
un nuovo significato, quello di colui che sa intuire il divenire delle forme
viventi.
Sono questi gli elementi che ci portano a parlare di naturalismo all’interno del
pensiero di Spengler e che troveranno il loro ulteriore compimento sia nel
81 TO, p.169.
82 TO, p.169.
83 Johann Wolfgang Goethe, Caspar Friedrich Wolf. Sulla formazione delle piante in La morfologia delle piante,
op. cit., p. 92 sgg.
84 TO, p.169.
85 TO, p.176.
42

secondo volume de Il tramonto dell’Occidente 86 che nell’opera postuma
Urfragen. I suoi esiti, all’interno della struttura della filosofia spengleriana,
saranno più in là approfonditi 87 ; per ora ci basti sottolineare che l’impronta
biologistica ci porta alla fondamentale conclusione della fatalità interna della
civiltà, ovvero alla necessità di un suo destino di morte, di tramonto appunto.
Ogni civiltà attraversa le medesime epoche della vita, le stesse fasi, sempre
ripetentesi, della ciclicità annuale della natura e delle stagioni: nella primavera
dell’infanzia, un’anima si affaccia “giovane, timida, piena di presentimenti” 88
per poi conquistare la chiarezza luminosa “delle altezze meridiane” 89 e con essa
una lingua delle forme virile, sicura, forte. Questa è la maturità di una civiltà, la
sua estate: qui “ogni tratto espressivo appare scelto, preciso, misurato, di una
meravigliosa lievità ed evidenza” 90 . Subentra poi l’autunno di una civiltà, la
civilizzazione incombe ma “la forza già in declino osa ancora una volta una
grande creazione” 91 . Infine, giunto l’inverno, essa diviene stanca e fredda e
aspira a tornare nel fondo naturale da cui era emersa, a “risprofondarsi nel
grembo materno, nella tomba” 92 .
La bellezza delle metafore spengleriane può aiutarci a comprendere il perché di
questa evoluzione. Nel momento in cui una civiltà nasce, ha, racchiuse dentro di
sé, una serie di possibilità di realizzazione che, nel corso della sua esistenza,
essa porta a compimento: una volta che ha esaurito la somma delle sue
potenzialità, non ha più nulla da creare, tutto ciò che le resta è la pietrificazione
e la degenerazione delle forme precedentemente plasmate. Ogni linfa vitale
86 Si tratta della prima parte del primo capitolo del secondo volume, intitolata La realtà cosmica e il microcosmo,
in cui Spengler approfondisce le possibilità di una biologia che abbia il suo sfondo nella fondamentale coppia
essere–essere desto, la cui controparte sono le coppie pianta–animale e cosmico–microcosmico, tutte di
derivazione goethiana e che torneranno in Urfragen.
87 I problemi di un possibile sfondo metafisico della teoria spengleriana della storia e della civiltà saranno presi
in esame nel quarto capitolo dedicato al tema delle “due nature”.
88 TO, p.175.
89 TO, p.175.
90 TO, p.175.
91 TO, p.176.
92 TO, p.176.
43

scorre via e viene meno ogni energia: è questa quella che Spengler chiama la
civilizzazione:
“Questo è il senso di ogni tramonto nella storia, il senso del compimento interno ed
esterno, dell’esaurimento che attende ogni civiltà vivente. Di tali tramonti, quello dai tratti più
distinti, il tramonto del mondo antico, lo abbiamo dinanzi agli occhi, mentre già oggi
cominciamo a sentire in noi e intorno a noi i primi sintomi di un fenomeno del tutto simile
quanto a decorso e a durata, il quale si manifesterà nei primi secoli del prossimo millennio, il
tramonto dell’occidente.” 93 .
Tutto ciò riguarda un destino necessario che è insito nella logica organica che
governa la storia. Spengler si destreggia con abilità tra le categorie di possibilità,
caso e necessità, in quanto la loro articolazione è di fondamentale importanza
per comprendere, da un lato, che tipo di determinismo operi nella storia e
dall’altro, quanto sia dato di conoscere e di prevedere nel mondo storico al di là
dell’imprevedibiltà e della casualità degli eventi. L’aver ravvisato nella storia
una legge (anche se non meccanicistica), e l’averla messa alla prova attraverso
un confronto fra le grandi civiltà, garantisce a Spengler uno sguardo quasi
vaticinante, cioè la possibilità di una prognosi della storia. Anzi, egli giunge a
ipotizzare di poter ricostruire interi aspetti mancanti di mondi lontani utilizzando
solo i pochi elementi che conosciamo o di prevedere la durata di un’epoca o di
una civiltà:
“Nel periodo delle sue origini, della sua ascesa e nel suo declino, in ognuna delle sue
fasi e delle sue epoche interiormente necessarie, ogni civiltà ha una determinata durata, una
durata che è sempre la stessa e che sempre ricorre con l’insistenza di un simbolo.” 94 .
93 TO, p.174.
94 TO, p.179.
44

Questa è, per Spengler, la sua “biologia del futuro” 95 che considera ritmo e
durata come concetti fondamentali nella determinazione della struttura della
storia.
Ma quanto c’è di casuale nella storia delle civiltà, nella loro evoluzione interna
e, quanto, invece, di necessario e, perciò, di prevedibile? Come si concilia la
necessità propria alla logica organica con le potenzialità che ogni civiltà può
portare a compimento?
“Da un lato, infatti, tale complesso (di possibilità) è necessariamente delimitato, fin
dal principio mediante l’appartenenza a una certa specie, e non rappresenta altro che l’eredità
biologica iniziale la quale determina lo sviluppo della civiltà: esso stabilisce, una volta per
sempre, quale sarà la fisionomia della civiltà. […] Ma dall’altro lato, che è ancora più
importante, la realizzazione di tale complesso avviene, e non può non avvenire, secondo un
ritmo che è quello del ciclo biologico di vita a cui la civiltà è subordinata: ogni possibilità
trova la sua realizzazione prestabilita entro questo ciclo, in maniera da risultare
necessariamente vincolata a una particolare fase di sviluppo della civiltà.” 96 .
Rossi sottolinea, in questo modo, la condizione di possibilità della morfologia
comparata, poiché stabilisce un ritmo comune di realizzazione proprio ad esseri
appartenenti alla stessa specie vivente. Ma, al di là delle affinità, ci interessa
anche capire come, data una certa forma iniziale peculiare, tutte le espressioni
che da essa discendono ne sono ugualmente e ulteriormente vincolate. Vale a
dire che, anche se una civiltà è libera, nel suo sviluppo, di portare a compimento
alcune forme anziché altre, queste dovranno però promanare da una stessa
animità creatrice e dovranno comparire solo in determinate epoche. Questo ci
riporta al problema della casualità: se è un caso che una civiltà sorga e che
assuma una certa forma, non lo sarà certo la logica secondo cui essa si
svilupperà e creerà i suoi simboli. Simile a un fiore che sboccia in un prato,
95 TO, p.179.
96 Pietro Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, op. cit., p.404.
45

anche le civiltà vengono all’esistenza senza un fine e senza un perché. Ogni
finalità e necessità sarà ravvisabile, invece, solo nella sua struttura interna:
“In effetti, è caso che la storia dell’umanità superiore si realizzi nella forma delle
grandi civiltà; è caso che una di esse sia sorta nell’Europa occidentale verso il mille. Ma da
allora essa ha seguito ‘la legge secondo la quale essa si presentò’. Ogni epoca dispone di una
ricchezza illimitata di possibilità stupefacenti e imprevedibili di realizzarsi per mezzo di
avvenimenti vari, l’epoca in se stessa restando però necessaria per il fatto stesso di esistere
come unità vitale.” 97 .
Per il fatto stesso di esistere, quindi, ogni civiltà ha il suo destino che,
ricordiamolo, non è un fine trascendente alla storia come poteva esserlo, per
alcuni versi, l’astuzia della ragione hegeliana, bensì la sua legge organica.
Ponendo mano agli eventi della storia occidentale, Spengler sottolinea come un
certo fine sarà comunque realizzato al di là delle tappe e degli strumenti
utilizzati. Ad esempio, il ruolo che Napoleone, l’uomo del destino, ebbe nella
storia europea fu sì necessario, ma ciò che egli significò poteva anche realizzarsi
in un’altra forma; oppure, ciò che rappresentò la rivoluzione francese poteva
anche realizzarsi in un altro luogo o mediante un altro avvenimento, ma “l’idea
di essa era necessaria e necessaria proprio in quel punto” 98 . Ciò che importa è il
senso di un’epoca. Da questo punto di vista, non c’è alcuna antitesi tra caso e
destino: ciò che cambia è solo il punto di vista:
“Solo lo sguardo che s’innalza fino all’elemento metafisico vede nelle date dei simboli
dell’avvenuto, tanto da trasformare il caso in destino.” 99 .
Ogni evento può apparire casuale oppure necessario ma solo una sguardo
allenato, conoscitore degli uomini e del mondo, potrà leggere in una congerie di
97 TO, p.227.
98 TO, p.231-232.
99 TO, p.222.
46

eventi casuali la presenza del destino. Solo “alla superficie dell’accadere
mondiale regna l’impreveduto” 100 .
Spengler ha individuato, ne Il tramonto dell’Occidente, otto civiltà superiori le
quali si sono avvicendate a partire dal 3000 a.C., spesso anche incontrandosi e
sovrapponendosi. Dal loro studio comparato egli si propone un sapere che si
estenda, oltre che sulle epoche passate, anche su quelle future, ma che trova i
suoi limiti nella possibilità costante di un mutamento improvviso nelle forme
della natura vivente. Spengler, cioè, non pretende di fare della sua nuova scienza
un elemento strutturante della realtà ma sa che, a partire dai fatti che gli sono
dinanzi, a partire dalla nascita di una forma, tutta la sua evoluzione gli può
essere nota. Egli sa con certezza che tutto ciò che nasce è destinato a perire ma
non sa “se e quando una nuova civiltà sorgerà nel futuro” 101 . Questa
autolimitazione delle possibilità conoscitive della morfologia comparata ci pone
di fronte ad un inquietante interrogativo: che cosa avviene dopo la morte di una
civiltà? E ancora: al di là dell’universo formale della civiltà che cosa ne è della
storia dell’umanità? Nascita e morte di una civiltà sono in rapporto,
rispettivamente, col mondo della forma e con l’informe:
“Una civiltà nasce nel punto in cui una grande anima si desta dallo stato della
psichicità primordiale di una umanità eternamente giovane e si distacca, forma dall’informe,
realtà limitata e peritura di fronte allo sconfinato e al perenne. […] Una civiltà muore quando
la sua anima ha realizzato la somma delle sue possibilità sotto specie di popoli, lingue, forme
di fede, arti, Stati, scienze; allora essa si riconfonde con l’elemento animico primordiale. Ma
finché essa vive, la sua esistenza nella successione delle grandi epoche, che contrassegnano
con tratti decisi la sua progressiva realizzazione, è una lotta intima e appassionata per
l’affermazione dell’idea contro le potenze del caos all’esterno, così come contro l’inconscio
all’interno, ove tali potenze si ritirano irate. ” 102 .
100 TO, p.218.
101 TO, p.702.
102 TO, p.173-174.
47

Nel momento in cui una civiltà muore ogni sua produzione, ogni suo pensiero,
ogni sua istituzione non è più il frutto della creazione di una forma, non è più
parte di un complesso di senso unitario, organico e nemmeno ne è la versione
degenerata e cristallizzata, tipica della civilizzazione: si tratta, invece, dice
Spengler, di pura storia zoologica. E’ questa un’affermazione dura, che lascia
perplessi. Tutto ciò che l’uomo fa ed è, al di là della vita di una civiltà, è solo la
storia della specie uomo ed ha lo stesso valore della storia delle gazzelle o delle
formiche. Ciò vale anche per l’uomo primitivo. Non c’è via d’uscita: “l’uomo
appartiene o ad una delle civiltà superiori ovvero, semplicemente, alla specie
umana in genere” 103 . Naturalmente questa tesi catturò subito l’attenzione dei
lettori del Tramonto e, insieme alla pronosticata fine della civiltà occidentale,
fece molto discutere. Tuttavia il dibattito si svolse anche su un altro piano,
anch’esso molto interessante, e influenzò lo stesso Spengler. Fu proprio la
collocazione della storia primitiva al di fuori del mondo organico delle civiltà ad
attirargli alcune critiche che lo condussero ad un ripensamento della sua
posizione, per alcuni versi ancora interno a Il tramonto dell’Occidente.
Domenico Conte ricostruisce il dibattito sorto tra Spengler e il celebre etnologo
Leo Frobenius nel suo Catene di civiltà 104 , dibattito che si snoda attraverso
intricate e reciproche influenze. Frobenius, da studioso dei popoli primitivi, fu
un grande ammiratore della nuova prospettiva della morfologia della storia
mondiale poiché, come abbiamo visto, svincolava lo studio delle civiltà dalla
visione eurocentrica, angusta e limitante. A suo avviso, però, Spengler si era
macchiato della gravissima colpa di non aver mostrato alcun interesse per i
fenomeni primitivi: al di fuori di una civiltà, infatti, regnerebbe solo il caos, per
cui l’età della pietra sarebbe priva di qualunque forma. Questa concezione
discontinua della storia avrebbe presto lasciato insoddisfatto lo stesso Spengler
che, con Frobenius aveva in comune non pochi punti nella concezione stessa
103 TO, p.720.
104 Domenico Conte, Catene di civiltà. Dal tramonto dell’Occidente alle opere postume in Catene di civiltà,
Edizione Scientifiche italiane, Napoli. 1994.
48

della civiltà. Ma se non possiamo parlare di influenze di Frobenius sulle idee
fondamentali della morfologia della storia mondiale che sono già espresse nel
primo volume de Il tramonto dell’Occidente (in quanto non solo Spengler non lo
cita come fonte ma è probabile che nel 1918 non avesse mai letto le sue opere),
le cose cambiano per l’edizione definitiva del 1923, comprendente anche il
secondo volume. In particolare, l’attenzione di Conte si appunta sul paragrafo
n°9 del primo capitolo dove non solo c’è un riferimento preciso a Frobenius 105
ma dove sembra che il tono stesso del discorso muti, e si faccia meno
“apodittico e imperioso” 106 .
“Gli sforzi che ora vediamo fare a Spengler per cercare di ribadire l’esattezza della sua
posizione e – nello stesso tempo – di tenere debitamente conto di una critica che lo ha
evidentemente toccato molto in profondità, appaiono quasi commoventi.” 107 .
A monte della nascita delle civiltà superiori vediamo, infatti, presa in
considerazione la civiltà primitiva:
“La civiltà primitiva fu qualcosa di forte e di intero, qualcosa di vivente e di attivo in
massimo grado; solo che essa è talmente diversa da tutte le forme psichiche di cui noi, uomini
di una civiltà superiore, disponiamo.” 108 .
Spengler, allora, apre alla considerazione delle civiltà primitive ma le inserisce
entro un ritmo cosmico impersonale in cui ogni manifestazione “obbedisce solo
a impulsi del momento” 109 e non ad una vocazione formativa unitaria come è nel
caso delle civiltà superiori. Parla, però, di ‘preciviltà’ (in tedesco Vorkultur) le
quali, come un residuo, permarrebbero nella fase giovanile delle civiltà ma che,
105 TO, p.697.
106 Domenico Conte, Catene di civiltà. Dal tramonto dell’occidente alle opere postume, op. cit., p.157.
107 Ivi, p.157-158.
108 TO, p.698.
109 TO, p.700.
49

“con un loro proprio sviluppo assolutamente uniforme” sarebbero “rispetto ad
ogni specie di civiltà primitiva qualcosa di diverso e affatto nuovo” 110 .
“Civiltà primitiva, civiltà della prima epoca, preciviltà, civiltà superiori: quanti
distinguo, e quante contraddizioni, rispetto ad un’immagine della storia che era stata tanto più
decisa e immediata: da un lato il ‘caos’, dall’altro la ‘forma’ […] Quante contraddizioni e
quante tortuosità a fronte dell’orgoglioso e nitido catastrofismo che aveva fatto scrivere a
Spengler che “l’inizio è sempre come un grido”. E questo aspetto ‘forte’ e ‘intero’ della
civiltà primitiva, che sembra preludere alla possibilità di un’indagine morfologica a tutto
tondo anche su di essa […] Dietro di sé la strada che lo aveva reso universalmente famoso.
Davanti la dolorosa consapevolezza di dover mettere in discussione il suo sistema.” 111 .
Percorrere questa nuova strada ci porterebbe, in questo momento, lontano dal
nostro discorso; ma quello che qui conta è capire come, già nei quattro anni che
intercorrono tra la stesura del primo e del secondo volume de Il tramonto
dell’Occidente, Spengler abbia operato un ripensamento e un
ridimensionamento della nettezza della sua definizione della civiltà. La difficoltà
più grande, probabilmente, era quella di definire l’origine di una civiltà, il suo
venir fuori dal nulla: ecco perché, in più punti, il pensiero di Spengler adombra
degli spunti metafisici e cala, sui passaggi più delicati della sua morfologia,
come un velo di mistero.
Le civiltà superiori sono rette, ormai è chiaro, da una logica interna necessaria
cui sono vincolate dal momento stesso in cui vennero all’esistenza. Ma esiste tra
le otto civiltà individuate da Spengler una qualche relazione? Qui tocchiamo un
altro tema scottante inerente il mondo delle forme storiche e che costituì un
punto di rottura rispetto alla tradizione. Tutta la nostra cultura è imbevuta della
convinzione che il mondo antico costituisca la base del nostro universo
spirituale, che l’arte, la filosofia, la matematica antiche siano i pilastri del nostro
110 TO, p.699-700.
111 Domenico Conte, Catene di civiltà. Dal tramonto dell’occidente alle opere postume, in Catene di civiltà, op.
cit., p.159.
50

sapere. Spengler non solo ridimensiona l’ammirazione sconfinata del mondo
occidentale per l’antichità, ma sostiene che non vi può essere nessuna possibilità
di comprensione tra le varie civiltà, anzi nessun rapporto:
“Il gruppo delle civiltà superiori non costituisce una unità organica. Che esse siano in
quel numero, che siano nate in quei luoghi e in quei tempi, ciò per il sapere umano è un caso,
privo di un senso più riposto.” 112 .
Spengler critica la storiografia moderna perché si limita a registrare influenze e
connessioni postulando uno svolgimento ininterrotto e lineare della storia
mondiale. Ciò che una civiltà ha creato può ridiventare vivo solo se un’altra
civiltà l’anima col proprio essere, cioè solo se viene sussunto e rivissuto al suo
interno:
“I significati sono intrasmissibili. Nulla può far superare la solitudine interna esistente
fra la vita di due uomini di specie diversa.” 113 .
O, come è detto in un altro punto:
“E’ assolutamente impossibile penetrare a fondo con le capacità della propria anima la
visione storica del mondo di civiltà estranee, l’imagine del divenire che anime altrimenti
costituite si sono formata. Qui resterà sempre un residuo inaccessibile, tanto maggiore per
quanto più scarsa è la propria sensibilità storica, il proprio istinto storico, la propria facoltà di
conoscenza degli uomini. […] Ciò che non si può ritrovare direttamente va, dunque, desunto
dai simboli della civiltà esterna.” 114 .
Nonostante questi proclami di distanze incolmabili, Spengler stesso presuppone
continuamente dei rapporti tra le civiltà: nel momento in cui nasce una nuova
animità, essa prende sempre spunto da ciò che preesiste, dai contenuti degli altri
112 TO, p.703.
113 TO, p.729.
114 TO, p.207.
51

universi storici. Essi, però, vengono sottoposti ad un’opera di traduzione e di
travisamento che li renderà assolutamente nuovi, in quanto plasmati a partire da
diversi presupposti formali. Lo stesso concetto di pseudomorfosi, che egli
introduce a proposito della civiltà magica, conferma questa ipotesi:
“Chiamo pseudomorfosi storiche i casi nei quali una vecchia civiltà straniera grava
talmente su di un paese che una civiltà nuova, congenita a questo paese, ne resta soffocata e
non solo non giunge a forme sue proprie e pure di espressione ma nemmeno alla perfetta
coscienza di se stessa. Tutto ciò che emerge dalle profondità di una giovane animità va a
fluire nelle forme vuote di una vita straniera; una giovane sensibilità si fissa in opere annose e
invece dell’adergersi in una libera forza creatrice nasce soltanto un odio sempre più vivo per
la costrizione che ancora si subisce da parte di realtà lontane nel tempo.” 115 .
Come si spiega questa aporia? Spengler sta solo confutando il modo tradizionale
di stabilire nessi ed influenze tra le civiltà: non esiste uno sviluppo lineare, né la
possibilità di vere e proprie acquisizioni. Prendere elementi da un’altra civiltà
vuol dire comunque riplasmarli, cioè tradurli nel linguaggio del proprio mondo
e, perciò, tradirli. Questo conferma l’impossibilità profonda di comprendere
realmente le espressioni di un’altra animità storica.
Il problema della possibilità di una comunicazione tra le varie civiltà sarà più
chiaro una volta che avremo compreso il carattere intrinsecamente simbolico di
questo universo e le dinamiche delle sue manifestazioni. Per ora ci basti aver
fatto questo passo avanti, perché, da questo momento ci sarà più comprensibile
la difficoltà dello stesso Spengler di parlare delle altre civiltà: dovremo infatti
chiederci continuamente il “da dove” dei discorsi di Spengler per interpretare
correttamente le aporie di alcune sue affermazioni e per collocare storicamente e
filosoficamente il suo stesso pensiero.
115 TO, p.926-927. Qui Spengler intende dimostrare la difficoltà, da parte della civiltà araba, di plasmare forme
simboliche rispondenti alla propria animità: la civiltà antica, ormai in procinto di morire, influenzò la sua
capacità espressiva, arrestando uno sviluppo spontaneo ed autentico.
52

In questo primo impatto col mondo delle civiltà della morfologia spengleriana è
importante tenere fermi due punti fondamentali:
1) le affinità tra le civiltà concernono i ritmi e le fasi del loro sviluppo e sono la
condizione della comparazione che Spengler intende ordire allo scopo di poter
comprendere a fondo il suo tempo e di prevedere il futuro, o meglio, le modalità
del futuro tramonto, della civiltà occidentale. Per questo egli si ritiene
depositario di un compito toccato in sorte al suo secolo:
“Questo sarà il grande compito del ventesimo secolo: mettere accuratamente in luce la
struttura interna delle unità organiche, mediante le quali e nelle quali si compie la storia
mondiale, separare ciò che è morfologicamente necessario ed essenziale dall’accidentale,
comprendere il valore espressivo degli eventi e individuare il linguaggio in essi riposto.” 116 .
2) Le civiltà sono delle monadi, degli orizzonti chiusi, privi di finestre,
rimandanti unicamente a se stesse. Vi è una “radicale differenza che separa il
mondo simbolico di una civiltà da quello di qualsiasi altra” 117 .
Sulla base di questo duplice volto dovrà procedere la nostra indagine
sull’universo delle espressioni simboliche di una civiltà e sulla possibilità di una
loro comprensione nell’ottica del disegno spengleriano di una morfologia della
storia mondiale.
Capitolo secondo
Conseguenze gnoseologiche dell’antitesi storia–natura.
Ne Il tramonto dell’Occidente la civiltà appare collocata su un duplice piano:
essa è sia un organismo che condivide ritmo e durata con gli altri membri della
116 TO, p.172.
117 Pietro Rossi., Lo storicismo tedesco contemporaneo, op. cit., p.405.
53

sua specie, sia una monade chiusa in se stessa ed assolutamente priva di finestre
per comunicare con l’esterno. Una volta delineato il doppio volto della civiltà,
Spengler deve necessariamente approntare un metodo di conoscenza storica che
faccia propria questa ambiguità e che si muova secondo questa contraddizione.
Abbiamo già visto come la storia sia sempre storia di civiltà e come le civiltà
costituiscano le unità morfologiche minime della storia. Ma, tenendo conto di
questi presupposti, Spengler deve ora elaborare una forma di conoscenza che sia
anche compatibile con i termini fondamentali della sua concezione della storia e
che non lo vincoli ad una struttura causale del reale. Che la conoscenza della
storia si sviluppi come morfologia è cosa ormai acquisita: l’influenza goethiana
è qui più che mai presente. Quindi Spengler non solo deve mirare a distinguere
la morfologia specificamente storica da quella naturale ma, all’interno della
prima, deve anche tenere conto del doppio volto della stessa civiltà.
1. La morfologia fisiognomica.
Innanzitutto, affrontiamo il primo aspetto della questione e cerchiamo di capire
come, dalla distinzione di atteggiamento e di interpretazione della realtà storica
e naturale, Spengler debba ora far discendere una vera e propria antitesi di forme
gnoseologiche. Anche da questo punto di vista sembra che ci troviamo,
nuovamente, di fronte ad un’ambiguità: perché se, da un lato, Spengler
concepisce la conoscenza della storia come un’intuizione delle sue forme, al
tempo stesso, sente la necessità di dare a questa conoscenza un metodo, di
codificarne i presupposti, di fare, a modo suo, della storia una scienza valida.
“Con riferimento alla differenza fra natura e spirito, l’accennato problema (della
conoscenza del mondo) è duplice, perché l’una e l’altro parlano una lingua delle forme
54

diversa sotto ogni riguardo. In una vaga imagine del mondo, come quella che di solito si ha, le
due lingue possono sovrapporsi e confondersi, ma mai fondersi in una interna unità.” 118 .
Storia e natura, quindi, si esprimono mediante linguaggi diversi, retti, come
abbiamo visto, da una diversa sintassi: la logica organica (fondata sul destino) e
quella meccanica (basata sul principio di causalità). La distinzione preliminare
tra questi due ambiti del reale o, meglio, tra queste due estreme possibilità di
interpretazione del reale, serve a Spengler a creare una metodologia specifica di
indagine storica che, da un lato, ricalchi l’impianto individualizzante delle
scienze dello spirito e, dall’altro, sappia anche procedere secondo una legge ad
essa appropriata. La dicotomia legge-individuo torna costantemente in Spengler
e si radicalizza proprio nella codificazione delle forme conoscitive del mondo
come storia. Ora, però, giunto il momento di dover distinguere la conoscenza
della storia da quella della natura, viene accentuato il tratto individualizzante di
questo nuovo sapere e tornano tutte le antitesi tipiche del rapporto tra questi due
mondi.
Forma e legge, direzione ed estensione, qualità e quantità sono i termini
antinomici di cui Spengler si serve per definire le opposte modalità di approccio
ai mondi formali della storia e della natura, definendo anche due diversi tipi
umani:
“L’artista, il vero storico, vede le cose in divenire. Egli rivive il divenire nei tratti di
tutto ciò che egli studia.” 119 .
“Il naturalista, l’uomo intellettuale produttivo in senso proprio, […] nel suo mondo
trova soltanto delle quantità prive di direzione, che egli misura, esamina, coordina. Soltanto il
quantitativo ammette una formulazione mediante numeri, solo esso è casualmente
determinato, può esser reso concettualmente intelligibile e venir formulato in leggi. Le
118 TO, p.162.
119 TO, p.167.
55

possibilità di ogni conoscenza naturale pura non vanno più oltre. Tutte le leggi sono relazioni
quantitative.” 120 .
Ma, alla conoscenza storica, tutto ciò è, e deve essere, assolutamente estraneo,
se non vuole essere qualcosa di internamente contraddittorio e privo di senso.
L’organo di conoscenza storica è diverso e diverse sono le facoltà da mettere
all’opera: qui agiscono la fantasia sensibile esatta di Goethe, l’intuizione,
l’esperienza vissuta. Abbiamo a che fare con “due diversi modi del
comprendere” 121 . Così come Spengler aveva individuato due diverse strutture
del reale, rispondenti a logiche opposte, allo stesso modo, in questa sede, ci sta
prospettando due antitetiche esperienze, quella scientifica e quella vivente. Egli
ci invita a seguire questa antitesi fino in fondo, a esplorarla nelle sue più
inaspettate conseguenze metodologiche:
“Ogni modo di comprendere il mondo può essere chiamato, in ultima analisi, una
morfologia. La morfologia del meccanico e dell’esteso, scienza che scopre e che coordina le
leggi naturali e le relazioni causali, si chiama sistematica. La morfologia dell’organico, della
storia e della vita, di tutto ciò che contiene in sé una direzione e un destino, si chiama
fisiognomica.” 122 .
L’antitesi mondo come storia–mondo come natura si arricchisce e si chiarifica
ulteriormente grazie alla delineazione di una modalità di conoscenza propria alle
forme storiche e si estrinseca nella coppia fisiognomica–sistematica.
“La sensibilità fisiognomica mediante la quale da un volto si può capire tutta una vita,
dall’imagine di un’epoca la sorte di interi popoli, d’istinto, senza un ‘sistema’, è
assolutamente lontana da tutto ciò che è ‘causa’ e ‘effetto’.” 123 .
120 TO, p.163.
121 TO, p.163.
122 TO, p.164.
123 TO, p.186.
56

Ma perché mai egli mette in campo questo strano aggettivo – fisiognomico - per
definire l’approccio più adeguato al mondo della storia? Ricordiamoci che le
civiltà (le unità minime della storia) sono state definite da Spengler come degli
organismi appartenenti ad una determinata specie vivente. Tuttavia sappiamo
anche che esse sono delle unità individuali, monadiche, che posseggono delle
animità caratterizzanti ogni loro manifestazione. Ogni civiltà ha la sua propria
animità, il suo proprio carattere, il suo proprio volto che nessuna conoscenza per
cause o concettuale potrà mai individuare nella sua assoluta unicità. Ecco perché
una civiltà va intuita, vissuta; ecco perché essa esige uno sguardo altro per
essere compresa nella sua specificità. L’approccio fisiognomico sarà l’unico in
grado di coglierne i tratti distintivi, di saggiarne il volto, la fisionomia appunto:
“Così la facciata visibile di ogni storia ha lo stesso significato dell’aspetto esterno di
un singolo, della sua statura, del suo viso, dei suoi atteggiamenti, del suo modo di andare, non
della lingua ma del parlare, non dello scritto ma dello scrivere. Tutto questo si presenta come
oggetto di studio al conoscitore di uomini. Il corpo in tutte le sue manifestazioni, il limitato, il
divenuto, il caduco è espressione dell’anima. Ora, essere conoscitore di uomini significa saper
anche capire quei grandi organismi umani di stile più elevato che io chiamo le civiltà
superiori; saper capire la loro fisionomia, la loro lingua, le loro azioni, allo stesso modo di
come si comprendono quelle di un dato individuo.” 124 .
L’analogia tra la civiltà come organismo e l’individuo viene qui più che mai
approfondita e si viene delineando uno schema di indagine rivolto a scoprire i
tratti caratteriali, psicologici dell’anima di una civiltà. Il morfologo, dotato di
questo sguardo fisiognomico, sarà quanto mai simile all’artista che, nella sua
veggenza, sa riassumere, nello spazio artistico delle sue opere, il senso di
un’intera epoca, sa fissare “tutta una storia in un istante” 125 . La fisiognomica è
paragonata all’arte del ritratto, ma viene adattata da Spengler al piano spirituale.
La caratteristica fondamentale di tale metodo di conoscenza storica è la sua
124 TO, p.165.
125 TO, p.166.
57

assoluta soggettività, laddove il lavoro dello storiografo, che si occupa delle
date, costituisce solo uno strumento finalizzato a quest’arte del ritratto sui
generis.
“Sono tratti del volto della storia tutti quei dati che finora sono stati valutati secondo
misure personali, secondo utilità e nocività, bene o male, piacere o dispiacere: forme politiche
e forme economiche, battaglie e arti, scienze e divinità, matematica e morale. Tutto quanto è
divenuto, tutto quanto è fenomenico, è simbolo, è espressione di un’anima. Esso vuol esser
considerato dallo sguardo del conoscitore di uomini, vuol essere sentito nel suo
significato.” 126 .
Continuando nella contrapposizione tra questi due atteggiamenti morfologici,
Spengler cerca di scavare nelle loro logiche interne, di capirne funzionamento e
presupposti. La storia procede grazie alla facoltà mnemonica, che non è per
niente comune a ogni essere desto: grazie ad essa è possibile vivere ogni istante
in relazione col passato e col futuro poiché solo la memoria consente
l’introspezione del proprio passato e, quindi, la conoscenza di sé.
L’atteggiamento storico implica “una sensibilità interna di una specie difficile a
descriversi, le cui impressioni tramutano senza cessa, per cui esse non possono
essere condensate e fissate in un dato punto del tempo” 127 . Viceversa, ogni
filosofia sistematica tende a definire, a non accettare il mistero del divenire, a
“sbarazzarsi di ciò che è inafferrabile, di ciò che per l’intelletto è troppo forte,
mediante concetti” 128 .
Rispetto al principio di causalità, Spengler tende a smentire la validità della
storiografia moderna che, non solo, cerca nella storia una ragione, ma che
considera il passato la causa del presente e del futuro:
126 TO, p.166.
127 TO, p.168.
128 TO, p.194.
58

“Tutto ciò che noi afferriamo intellettualmente ha una causa; tutto ciò che, in intima
certezza, viviamo come organica ha, invece, un passato.” 129 .
Il XIX secolo ha cercato di abolire ogni differenza tra natura e storia e di
fondare una scienza storica che, però, non ha tenuto conto delle modalità
specifiche di un approccio adeguato alle forme del divenire:
“Applicando a forza al vivente lo schema rigido di relazioni spaziali e antitemporali, di
causa ed effetto, nell’imagine sensibile, esteriore dell’accadere si introdussero i tratti
costitutivi dell’imagine fisica della natura – e così fra spiriti crepuscolari, cittadini, avvezzi
alla tirannia del pensiero causale nessuno sentì tutta l’assurdità di una scienza che, per
incomprensione circa il metodo, vuol comprendere un divenire organico come il meccanismo
di un divenuto” 130 .
La scienza storica cui Spengler allude è, invece, “una scienza del sangue”: essa
non ha a che fare con l’intelletto, ma è ”un intuito innato riguardo a persone e a
situazioni” che si appunta su ciò che è stato, “su ciò che fu necessariamente” 131 ,
non di certo su date o sulla critica scientifica.
Ma che rapporto c’è tra la morfologia sistematica e quella fisiognomica?
Secondo Spengler, l’Occidente ha ormai percorso la fase sistematica del sapere,
raggiungendo il suo apice nel XIX secolo. Ora, invece, è giunto il tempo di
“un’immensa fisiognomica, abbracciante tutto quanto è umano” 132 . Tale
compito, ovviamente, non può non spettare che allo stesso Spengler. La
morfologia fisiognomica, quindi, è in grado di saggiare ogni ambito e ogni
manifestazione di una civiltà, spaziando dall’arte alla scienza, dalla politica alla
morale, dalla matematica alla musica e cogliendo in ciascun elemento la sua
profonda appartenenza ad essa, il suo esserne simbolo, espressione, creazione.
Lo scopo dell’ampiezza del lavoro spengleriano è quello di mettere alla prova
129 TO, p.237.
130 TO, p.236-237.
131 TO, p.718.
132 TO, p.164.
59

tale metodologia storica rivoluzionaria in ogni ambito della vita umana,
dimostrando come nessuna manifestazione, neanche quelle più tarde e
senescenti, sfuggano alla donazione di senso da parte dell’anima della civiltà da
cui pure promanano.
Ancora nei frammenti di Urfragen, Spengler insiste sulla contrapposizione tra
fisiognomica e sistematica, a dimostrazione dell’importanza di questa
distinzione gnoseologica:
“La più profonda, la più naturale, la più antica immagine del mondo è quella che ci
offre la fisiognomica. Mentre l’altra, quella sistematica, è artificiale e transeunte. Ma è
proprio nella sua caratteristica di transitorietà che si colloca la più forte obiezione contro
qualsiasi sistematica sia teologica che filosofica o fisica.” 133 .
Ogni sistema, infatti, pretende per sé una validità assoluta: affinché essa possa
essere confermata, la verità propria al sapere sistematico dovrebbe essere
inconfutabile e perenne. Tuttavia la storia della scienza ci mostra come, di
continuo, un nuovo sistema confuti il precedente nell’attesa di essere a sua volta
confutato. Ma può quest’obiezione essere valida anche per il sapere storico?
Può, cioè, la consapevolezza della propria relatività e confutabilità essere un
punto di debolezza per la morfologia fisiognomica?
“Anche per le immagini fisiognomiche è la stessa cosa, ma nel caso specifico la cosa è
del tutto naturale, si tratta anzi di una normale ed essenziale esigenza. Dal che deriva, quindi,
che qualsiasi dottrina è convincente soltanto per il suo fondatore, poiché essa è espressione
della sua personalità e di quella di coloro che si sentono intimamente affini a lui. Esiste,
dunque, soltanto una giustezza fisiognomica, e cade in errore colui che crede di possedere
l’assoluta verità”. 134 .
133 UR, p.136.
134 UR, p.136-137.
60

Il frammento di Urfragen non solo ci permette di rispondere positivamente al
nostro quesito, ma ci colloca su un piano formale del pensiero spengleriano di
non facile interpretazione, sospeso tra relatività e assolutezza. La morfologia
fisiognomica è sempre soggettiva, relativa allo sguardo dello storico e della sua
epoca: ma, ci insegna Spengler, questa è anche la sua forza perché in qualunque
epoca un giudizio fisiognomico venga formulato, esso sarà sempre valido. La
possibilità del suo superamento è inscritta nella sua essenza e non costituirà mai
una smentita della sua giustezza: al contrario, superarla, negarne i contenuti
relativi, vorrà dire confermarla su di un piano più alto, nella sua portata formale.
Da ciò la sua assoluta giustezza. Spengler parla di scetticismo fisiognomico che
egli considera come l’ultimo stadio della filosofia occidentale: dopo il periodo
metafisico e il periodo etico, lo scetticismo farà della conoscenza e dell’etica
delle “semplici espressioni storiche di una data civiltà” 135 . In questo modo, i
vecchi sistemi e le vecchie prospettive filosofiche saranno smentite nella loro
pretesa di verità, mentre lo scetticismo non scanserà il pericolo di essere a sua
volta superato, perché la sua negazione è insita nella sua stessa logica. Spengler
riesce, così, a legittimare nella scansione delle fasi della civiltà occidentale, la
sua stessa filosofia, giungendo a rendere necessario il suo pensiero in quanto
espressione e simbolo del suo tempo. La validità della morfologia fisiognomica
si fonda su una complessa consapevolezza della collocazione intrinsecamente
filosofica del suo pensiero, attento non solo ai contenuti del suo sapere, ma
anche al ‘da dove’ del suo discorso. Le contraddizioni che pure si annoverano,
ne Il tramonto dell’Occidente, a proposito della prospettiva dello sguardo storico
trovano qui il loro fondamento: Spengler è, al tempo stesso, dentro e fuori lo
spazio prospettico della sua civiltà. Egli sa che non si può mai andare al di là del
punto di vista offerto dalla propria civiltà ma, al tempo stesso, accenna
continuamente ad una capacità di guardare dall’alto, di percorrere, mediante
questo nuovo sapere, le forme di vita di civiltà ormai scomparse.
135 TO, p.565.
61

Questa consapevolezza lo conduce a considerare la morfologia fisiognomica la
forma più autentica ed originaria di sapere storico ma anche il compito che
spetta al suo secolo dopo l’incontrastato dominio della scienza sistematica
nell’800. Essa, allora, si colloca all’inizio e alla fine di una civiltà, quasi a
volerne tirare le somme: in quanto stadio finale del pensiero filosofico, essa
compare solo nell’età del tramonto, nell’età in cui si profila la consapevolezza
della senescenza di una civiltà, per configurarsi come il frutto di un
autosuperamento del pensiero scientifico che, da elemento antitetico, vi viene
assorbito e sussunto.
Il primo volume de Il tramonto dell’Occidente si snoda in una sorta di percorso
circolare: l’intento di Spengler è quello di mostrare il carattere relativo delle
espressioni umane, a partire dalla delineazione del nuovo concetto di civiltà
come organismo, dalla cui animità ogni simbolo promana come in una
creazione. Il primo ambito preso in esame è quello della matematica che,
provocatoriamente, viene subito sottratta alla sua banale pretesa di validità
assoluta e relativizzata come manifestazione delle diverse civiltà 136 . Una volta
smitizzata la scienza certa per eccellenza, Spengler può facilmente continuare il
suo lavoro di relativizzazione degli ambiti storici che trova il suo ulteriore apice
e, quindi, il suo compimento, nell’ultimo capitolo, dedicato alla fisica. Ogni
mondo di forme costituisce un organismo sottoposto al destino organico di
corruzione e di morte: anche la fisica occidentale, che ha trovato la sua
perfezione nel Barocco, è ora vicina alla dissoluzione, ma la sua fine ha l’aspetto
di un autosuperamento. La teoria che attira l’attenzione di Spengler è quella
dell’entropia, con la quale, per la prima volta, viene introdotta, nella fisica, un
elemento di previsione:
136 Spengler si occupa delle forme della matematica nel primo capitolo, intitolato Sul senso dei numeri.
62

“L’entropia è matematicamente rappresentata da una grandezza determinata dallo stato
momentaneo di un sistema chiuso di corpi, grandezza che presso a ogni possibile mutamento
d’ordine fisico o chimico, può solo aumentare e mai diminuire.” 137 .
Con l’entropia, la fisica introduce nel sapere sistematico un margine di
probabilità e di previsione dei fenomeni futuri e, perciò, sconfina nell’ambito
proprio all’organico, facendo suo il movimento tipico della vita e del destino.
“Il rifugiarsi nella statistica rivela l’esaurirsi della forza organizzatrice già in atto in
quella tradizione (quella della fisica occidentale). Divenire e divenuto, destino e causalità,
elementi storici ed elementi naturalistici cominciano a confondersi fra di loro. Gli elementi
formali della vita: la crescenza, l’invecchiare, la durata di una vita, la direzione, la morte
tornano a imporsi.” 138 .
Con questa nuova teoria la fisica diventa essa stessa una fisiognomica perché si
occupa del decorso del mondo: finalmente torna ad essere goethiana. E’ proprio
qui che si può leggere il capovolgimento della sistematica nella fisiognomica e
si ha la prova della originarietà di quest’ultima.
“Il mondo critico delle forme della conoscenza della natura è sorto in contraddizione
col sentimento della natura e di Dio. Ma ora, alla fine dell’epoca tarda, esso ha percorso il suo
ciclo e torna all’origine.” 139 .
Spengler interpreta questo mutamento come segno della fine delle scienze
esatte, le quali esasperando i loro problemi e i loro metodi, giungono ad una loro
autodistruzione. L’entropia, infatti, segno e sintomo della decadenza, nasce nello
stesso ambito scientifico ma, portata fino in fondo nei suoi esiti, ne segna il
137 TO, p.636. Qui non sto cercando di definire cosa sia, nella fisica, l’entropia, né quali siano le sue implicazioni
scientifiche: ecco perché ho preferito usare la stessa definizione spengleriana e non quella di un manuale di
fisica. Qui mi interessa solamente capire perché Spengler consideri l’entropia un simbolo della decadenza e della
fine della fisica occidentale, al punto da citarla come fonte di un capovolgimento della fisica stessa nella
fisiognomica.
138 TO, p.638-639.
139 TO, p.639.
63

capovolgimento. Ciò che si profila a Spengler è la possibilità di una morfologia
delle scienze esatte, la cui fondatezza equivale alla definitiva relativizzazione
delle scienze stesse:
“Ma prima della fine si presenta allo spirito faustiano, eminentemente storico, un
compito ancor mai posto, mai sentito come possibile. Dovrà essere ancora scritta una
morfologia delle scienze esatte, la quale studierà in che modo tutte le leggi, tutti i concetti e le
teorie sono interiormente collegate in quanto forme e che cosa esse significhino nel corso
della vita della civiltà faustiana. La fisica matematica, la chimica, la matematica pura studiate
come un insieme di simboli: ecco il superamento definitivo della visione meccanicistica del
mondo per mezzo di un’idea intuitiva e di nuovo religiosa. Sarà l’ultimo capolavoro di una
fisiognomica che riprenderà in sé la sistematica, intesa essa stessa come espressione e
simbolo.” 140
In tal modo, viene determinato definitivamente il significato profondo
dell’antitesi storia–natura anche sul piano gnoseologico: così come il divenuto
era la forma cristallizzata del divenire da cui esso derivava, allo stesso modo la
sistematica è solo la forma tarda e civilizzata della fisiognomica, la quale è in
grado di sussumerla e di farne l’oggetto del suo sapere.
A partire dalla comprensione del ruolo che la morfologia fisiognomica occupa
nel pensiero spengleriano e del suo contrapporsi al mondo delle scienze della
natura, ci resta da vedere come, in concreto, essa venga applicata all’ indagine
delle forme di una civiltà. In particolare è a questo punto che si insinua la
profonda difficoltà di Spengler di conciliare i due volti della civiltà all’interno di
un sapere quale quello fin qui delineato.
“Der Untergang des Abendlandes è percorso da una profonda dicotomia, di cui
Spengler è perfettamente consapevole. Da una parte esso si configura come un’indagine
tipologica, tesa a rintracciare le corrispondenze tra le varie civiltà. Dall’altra si presenta come
un’analisi individualizzante, volta a evidenziare l’autonoma fisionomia di ogni singola civiltà.
140 TO, p.644.
64

[…] Questa dicotomia provoca anche una frattura nel procedimento empirico che Spengler
adotta per indagare i fenomeni storici. Da un lato, come espressione dell’approccio tipologico,
troviamo un’applicazione sistematica della storia comparata. Dall’altro, come strumento
dell’approccio individualizzante, troviamo quella che Spengler chiama fisiognomica.” 141 .
Questo non vuol dire che Spengler si contraddica, ma solo che egli percorre due
strade altrettanto valide per esplorare l’universo formale delle civiltà. L’esito più
evidente del metodo individualizzante è un profondo relativismo e la capacità di
cogliere gli aspetti marcatamente differenzianti delle civiltà da lui prese in
esame. Ogni civiltà ha un’anima che si esprime nelle sue manifestazioni 142 , ha
un volto, la cui specificità lo sguardo storico deve poter intuire: questi
presupposti conducono Spengler a codificare una molteplicità di fisionomiche
applicate a ciascun aspetto della vita umana, a ciascuna forma espressiva delle
civiltà, perseguendo lo scopo ultimo di una sostanziale differenziazione dei loro
linguaggi.
In particolare, Conte ci suggerisce di guardare con occhio diverso alla stessa
struttura dei due volumi che compongono Il tramonto dell’Occidente, poiché in
essi vi è “un’applicazione diversa del principio della comparazione” 143 . Nel
primo volume Spengler compara sì, ma per distinguere, per collocare qualsiasi
fenomeno storico “in una fase significativa dello sviluppo di una civiltà” 144 . La
morfologia delle arti, quella delle scienze esatte o della morale che compaiono
nel volume Forma e realtà hanno lo scopo di esasperare le differenze, di porre
l’accento su quanta incomunicabilità intercorra tra orizzonti chiusi, tra organismi
autonomi.
141 Domenico Conte, La morfologia storica comparata in Catene di civiltà, op. cit., p.362.
142 La dinamica secondo cui i simboli promanano da una civiltà sarà presa in esame solo nel terzo capitolo. Per
ora è importante solo stabilire la portata della morfologia fisiognomica all’interno dell’indagine storica
spengleriana.
143 Domenico Conte, La morfologia storica comparata in Catene di civiltà, op. cit., p.353.
144 Ibid.
65

“Così ognuna delle grandi civiltà ha dato luogo a una lingua segreta del sentimento del
mondo, lingua percepibile solo per colui la cui anima a tale cultura appartenga.” 145 .
Quanto di fondamentale una civiltà esprime nel proprio pensiero, nella propria
coscienza del mondo, sarà incomprensibile per chi appartiene ad un’altra civiltà.
Ecco, allora, che Spengler si appresta a fornirci una carrellata di esempi desunta
dall’indagine storica compiuta sulle otto civiltà superiori 146 attraverso uno
sguardo profondo rivolto ai più diversi ambiti storici. In particolare il suo sforzo
si appunta sull’esame dei tratti differenzianti la civiltà antica (o apollinea), la
civiltà araba (o magica) e la civiltà occidentale (o faustiana). La ricchezza delle
esemplificazioni spengleriane è tale da non consentirci di percorrerne l’intera
serie; ci bastino, tuttavia, pochi accenni per comprenderne la logica e i termini
fondamentali.
“Chiamerò ormai apollinea l’anima della civiltà antica, che scelse come tipo ideale
dell’esteso i singoli corpi sensibili e presenti. […] A essa oppongo l’anima faustiana, il cui
simbolo primordiale è lo spazio puro illimitato e il cui ‘corpo’ è la civiltà occidentale, nata
insieme allo stile romanico del decimo secolo nelle pianure nordiche tra l’Elba e il Tago. E’
apollinea la statua dell’uomo nudo, faustiana l’arte della fuga; sono apollinei la meccanica
statica, i culti concreti degli dèi olimpici, il regime politico delle città greche nella loro
isolatezza e il destino di Edipo; sono faustiani la dinamica di Galilei, il dogma cattolico–
protestante, le grandi dinastie del Barocco e il destino di re Lear. […] E’ apollinea l’esistenza
del Greco che chiama soma il suo Io; è faustiana l’esistenza vissuta con una profonda
consapevolezza presso a un Io che osserva se stesso.
E più lontano, mediatrice fra le due civiltà in reinterpretazione e trasmissione di forme prese
dall’antico, appare l’anima magica della civiltà araba, destatasi ai tempi di Augusto nel
paesaggio compreso tra il Tigri e il Nilo, fra il Mar Nero e l’Arabia meridionale, con la sua
algebra, la sua astrologia e la sua alchimia, coi suoi mosaici e i suoi arabeschi, i suoi califfati
145 TO, p.273.
146 Le otto civiltà individuate da Spengler sono: la babilonese, l’indiana, l’egiziana, la cinese, l’antica, l’araba, la
messicana, l’occidentale.
66

e le sue moschee, coi sacramenti e coi libri sacri della religione persiana, ebraica, cristiana,
della bassa antichità e manichea.” 147 .
Spengler fa della scoperta della civiltà magica un vanto personale, poiché, per la
prima volta, egli colloca un mondo di forme autonome tra il mondo antico e
quello occidentale, stabilendo una cesura nella presunta continuità tra l’anima
apollinea e anima faustiana di cui la Rinascenza ha fatto un dogma.
L’esito fondamentale cui approda la morfologia fisiognomica, applicata alle
manifestazioni delle diverse civiltà, è un profondo relativismo che abbraccia
ogni aspetto del vivere storico. Il tempo, lo spazio, la natura, la storia, il destino,
la religione, le arti, la politica, la scienza, la morale vengono tutti relativizzati
alle singole civiltà che, in quanto orizzonti chiusi, vengono a catturare le loro
espressioni in un’unica animità che risulta non solo diversa, ma incomprensibile,
ai membri delle altre culture. Tuttavia Spengler sa bene che questo vincolo vale
anche per lui, che egli stesso, nel delineare il profilo delle altre civiltà, non potrà
mai prescindere dal proprio punto di vista particolare:
“L’imagine dell’anima è sempre e soltanto l’imagine di una determinata anima.
Nessun osservatore potrà mai emanciparsi dalle condizioni del suo tempo e del suo ambiente;
in tutto quel che egli può anche ‘conoscere’ ognuna delle sue conoscenze è già un’espressione
della propria anima, quanto a scelta, direzione e forma interna.” 148 .
Questo ci conduce ad uno slittamento di significato dello stesso relativismo,
perché, per ogni universo formale, le proprie manifestazioni non saranno certo
relative, ma assolute, anzi necessarie, perché rispondenti a quella data anima e a
quella data epoca. Nel momento in cui un’umanità storica si esprime in una
forma politica o artistica, essa non sa nulla della propria relatività, ma crea
necessariamente seguendo l’anima della propria civiltà. Solo lo sguardo del
morfologo, solo una prospettiva da aquila può, secondo Spengler, prendere la
147 TO, p.277-278.
148 TO, p.454.
67

giusta distanza dalla limitatezza del proprio punto di vista e procedere ad un
nuovo tipo di indagine storica che prescinda dalla considerazione del presente.
Spengler, però, gioca continuamente con questa duplicità di problemi e spazia
dalla consapevolezza lucida dei propri limiti alle pretese di uno sguardo
veggente, ben conoscendo, quindi, le conseguenze ultime del suo relativismo in
sede di prospettiva non solo storica, ma filosofica.
Molti ritengono il relativismo spengleriano un momento di crisi dello storicismo
contemporaneo 149 , ma si tratta di un percorso di grande ricchezza speculativa, in
cui si rimettono in gioco gli stessi punti di vista. Spengler sa bene che Il
tramonto dell’Occidente è un prodotto del proprio tempo e sa che lo stesso
modo di fare storia soggiace alle regole del linguaggio in cui la propria civiltà si
esprime:
“Ma ogni civiltà e, con lievi differenze, ogni singolo in essa, ha una storia di una
specie determinata, nell’imagine e nello stile della quale viene percepito, sentito e vissuto
direttamente il divenire generale e personale, interno ed esterno, storico–mondiale e
biografico. Così la tendenza autobiografica dell’umanità occidentale fu del tutto estranea
all’umanità antica. Alla estrema consapevolezza storica dell’Europa occidentale, si
contrappone l’inconsapevolezza quasi sognante dell’anima indù. […] E’ assolutamente
impossibile penetrare a fondo con le capacità della propria anima la visione storica del mondo
di civiltà estranee, l’imagine del divenire che anime altrimenti costituite si sono formata.” 150 .
Ma per Spengler proprio la risoluzione di questo problema costituisce la chiave
per la comprensione del mondo storico. E, allora, qual è il suo suggerimento?
Come cerca di superare l’ostacolo?
“Ciò che non si può ritrovare direttamente va, dunque, desunto dai simboli della civiltà
esterna. Solo così quel che in sé sarebbe inintelligibile ci si renderà accessibile: donde l’alto
149 Pietro Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, op. cit., p.390.
150 TO, p.206-207.
68

valore dello stile storico di una civiltà e dei grandi simboli temporali che da essa
dipendono.” 151 .
La morfologia fisiognomica lavora sui simboli, poiché, per loro tramite, riesce a
individualizzare l’anima delle diverse civiltà, a calcare la mano sulla loro
autonomia. Ma lo scopo della morfologia spengleriana va oltre questa mera
diversificazione, non è suo interesse il solo classificare e distinguere ma anche il
prevedere: la conoscenza delle forme delle civiltà superiori va anche sottoposta
ad una comparazione, i cui esiti saranno quanto mai fecondi.
2. La morfologia comparata.
La morfologia storica comparata costituisce la seconda via, parallela alla
morfologia fisiognomica, che Spengler percorre nello studio delle forme delle
civiltà superiori. Qui non si tratta di stabilire influenze o nessi tra le diverse
epoche o culture ché, anzi, questa possibilità sembra preclusa dalla
fondamentale incomunicabilità che intercorre fra di esse, bensì, come vedremo,
di dischiudere alla storia una prospettiva completamente rivoluzionaria.
La condizione di possibilità di questa disciplina giace nella concezione della
civiltà come organismo, come essere vivente sottoposto ad una logica organica.
Le fasi, il ritmo, la durata delle sue scansioni vitali costituiscono il presupposto
della sua comparabilità. Le civiltà sono, infatti, organismi appartenenti alla
stessa specie vivente e, perciò, destinati a percorrere le stesse fasi: il biologismo
goethiano influenza anche qui la filosofia della storia spengleriana:
“La biologia chiama omologia degli organi la loro equivalenza morfologica, in
opposto all’analogia, la quale si riferisce invece all’equivalenza della loro funzione. Goethe
151 TO, p.207.
69

concepì questo importante concetto, che in seguito doveva dimostrarsi così fecondo. […] Io
introduco anche questo concetto nel metodo storiografico.” 152 .
Solo un addestramento dello sguardo consente di affinare tale facoltà
morfologica: grazie ad essa si apriranno, anche nell’ambito storiografico,
prospettive prima inaspettate. Il rapporto di omologia, riscontrabile tra le forme
biologiche, si trasforma, così, in un concetto specificamente storico, che
Spengler definisce sincronia:
“Chiamo sincronici quei fatti storici che in diverse civiltà occupano lo stesso luogo (un
luogo relativo) e che quindi si corrispondono come significato.” 153 .
Egli intende mostrare come tutte le grandi creazioni e manifestazioni storiche
“nascono, si compiono e si spengono sincronicamente, senza eccezione” 154 ,
come vi sia un’analogia di struttura fra le varie civiltà. Ogni fenomeno che
appare in una data civiltà avrà sempre il suo evento sincronico, ovvero
corrispondente quanto a significato e a portata, in un’altra civiltà. Questo criterio
d’interpretazione storiografica avrà la sua sublimazione nel ravvisare il
passaggio, in ciascun universo formale, dalla maturità alla vecchiaia o, il che è
lo stesso, dalla civiltà alla civilizzazione. Conoscere i simboli della fine di una
civiltà ormai morta vuol dire mettersi nella possibilità di riconoscere i segni
anche della propria decadenza:
“In tutte le civilizzazioni a un essere animato subentra un essere spiritualizzato in base
a uno spirito che, caso per caso, ha una diversa struttura e segue la lingua delle forme di un
diverso simbolismo. Malgrado l’originalità dell’essere che con una azione inconscia crea
queste forme tarde della superficie storica, la loro affinità nelle varie civiltà per quel che
riguarda la fase storica in cui appaiono, è d’importanza fondamentale. Ciò che esse esprimono
152 TO, p.180-181.
153 TO, p.182.
154 TO, p.182.
70

è diverso, ma il fatto che esse lo esprimono in quella data forma fa sì che esse possano essere
considerate come sincrone.” 155 .
Rossi ravvisa nella teoria nietzscheana dell’eterno ritorno il fondamento
ulteriore del concetto di sincronia tra gli avvenimenti storici. Spengler, cioè,
presuppone uno sviluppo ciclico della storia la cui portata, però, non concerne il
divenire cosmico, ma unicamente il ripetersi delle medesime fasi ed epoche
all’interno delle civiltà: la dottrina dell’eterno ritorno perde la sua finalità etica
di accettazione volontaria della vita e finisce col costituire lo sfondo per una
concezione storica che vede protagonista “un succedersi ciclico di organismi
biologici tra i quali è possibile istituire relazioni di corrispondenza” 156 .
E sono proprio i confronti a predominare ne Il tramonto dell’Occidente,
dimostrando l’inesauribile capacità di Spengler non solo di scovare affinità, ma
anche di saper leggere in tutti gli ambiti formali del mondo storico.
Ma che funzione ha la morfologia comparata all’interno della filosofia
spengleriana? Di contro allo sguardo intuitivo e veggente della morfologia
fisiognomica, qui viene riproposta la necessità di una “sistemazione
epistemologica” 157 , di una “teoria e di un metodo dei confronti” 158 . Se il sorgere
di una civiltà è avvolto in un insondabile mistero metafisico, nella più assoluta
mancanza di cause e di fini, la sua logica interna è individuabile non appena essa
si concretizza come forma:
“La nascita delle singole civiltà che, come abbiamo visto, avviene per caso, senza
alcuna logica o necessità interiore, deve essere concepita come una sorta di mutazione.
Attraverso questo salto, l’umanità ripresa in una civiltà appare sul proscenio della storia come
intimamente formata e chiaramente fisionomizzata. Tutte le potenzialità che, nel corso dei
155 TO, p.537.
156 Pietro Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, op. cit., p.395.
157 Domenico Conte, La morfologia storica comparata in Catene di civiltà, op. cit., p.335.
158 Ibid.
71

secoli, verranno poi ad estrinsecarsi, sono già contenute in nuce nell’atto esplosivo della sua
nascita, come se le civiltà fossero dotate di un proprio patrimonio genetico.” 159 .
Non regna l’evoluzione nell’universo delle civiltà spengleriane, ma solo salti e
mutazioni.
Questi presupposti biologistici stanno alla base di un sistema di comparazioni
che Spengler ordisce non più, come nel caso dei confronti fisiognomici, per
distinguere e negare ogni reale influenza tra le civiltà, ma per stabilire delle
affinità, per riscontrare delle analogie. La duplicità degli intenti gnoseologici
trova il suo riscontro, come abbiamo visto, nella stessa struttura de Il tramonto
dell’Occidente, il cui secondo volume obbedisce non più ad una logica
individualizzante, bensì ad un intento tipologico. In questo contesto, Spengler
crede in un metodo della morfologia comparata, in una teoria della struttura
della storia e si accinge, sulla scia della critica storicistica, alla ricerca di un
criterio di fondazione scientifica della storia che le doni la validità e
l’attendibilità che essa merita. In opposizione al giudizio negativo, espresso in
più punti, contro la fondazione di una scienza storica, qui Spengler auspica
un’imitazione della perizia intellettuale del matematico e dello scienziato. Siamo
di fronte, forse, ad un’altra contraddizione?
In realtà, egli non sta affatto smentendo l’impossibilità, prima affermata, di
applicare le categorie e le forme conoscitive delle scienze della natura alla storia
(pensare a una scienza storica è sempre qualcosa di contraddittorio), ma sta solo
sostenendo la necessità di fondare la disciplina storica su di un piano che non sia
solo quello della veggenza mistica: egli ha inteso dare alla storia una logica e un
senso non già razionali, ma organici e, con ciò, ha voluto creare i presupposti
per una metodologia dell’indagine storica che fosse in grado di rispondere al
compito assegnatosi sin dall’inizio de Il tramonto dell’Occidente:
159 Ivi, p.349.
72

“In questo libro vien tentata per la prima volta una prognosi della storia. Ci si è
proposti di predire il destino di una civiltà e, propriamente, dell’unica civiltà che oggi stia
realizzandosi sul nostro pianeta, la civiltà euro–occidentale e americana, nei suoi stadi futuri.
La possibilità di assolvere un compito di tanta portata non era stato, fino ad oggi, concepita;
quand’anche ciò accadde, i mezzi per venire a un serio risultato furono ignorati o
inadeguatamente utilizzati.” 160 .
Attraverso la morfologia comparata, Spengler è venuto in possesso dei mezzi
necessari per azzardare questa prognosi. Tenendo fermo questo scopo, egli non
poteva limitarsi ad indagare il decorso della civiltà faustiana, ma gli era
necessaria una serie di possibili raffronti cui commisurare e paragonare le forme
della civilizzazione occidentale, per lui incipiente.
“Per comprendere questa omologia tra due fatti è tuttavia necessaria una profondità di
sguardo e una indipendenza da ciò che si lega alle apparenze esteriori, ben diverse da quelle
finora riscontrabili fra gli storici. […] Da queste vedute deriva la possibilità di una indagine
che va ben oltre le ambizioni di ogni precedente storiografia, la quale si limitò essenzialmente
a considerare il passato a noi noto, ordinandolo secondo uno schema lineare. Si tratta della
possibilità di superare il limite del presente e di determinare anche le epoche non ancora
trascorse della storia occidentale nella loro forma interna, nella loro durata, nel loro ritmo, nel
loro senso, nelle loro conseguenze; non solo, ma insieme a ciò ci è data anche la possibilità di
ricostruire, in base a nessi morfologici, epoche sconosciute e già da tempo scomparse, intere
civiltà del passato.” 161 .
Naturalmente Spengler sa bene che la sua capacità di previsione non è
infallibile: abbiamo visto come lo sfondo naturale da cui le civiltà emergono non
sia vincolato da nessun criterio di razionalità e che, in esso, ogni cambiamento
appare come un salto, una mutazione improvvisa. La sua prognosi non vuole
certo strutturare il reale e tanto meno determinare il corso degli eventi, ma solo
comprendere il senso degli avvenimenti futuri, il loro significato all’interno
160 TO, p.13.
161 TO, p.183.
73

delle forme di una civiltà. Egli naturalmente non sa chi o cosa realizzerà la fase
storica da lui prevista, ma sa con certezza, con la sicurezza che solo uno sguardo
storico può infondere, che vi sarà qualcuno o qualcosa che attuerà tale fase
epocale. La logica organica di una civiltà ne costituisce il destino: a esso, nessun
evento che sia espressione di una data animità, potrà mai sfuggire. Tanto il
relativismo cui pone capo la fisiognomica, che la capacità di prevedere il futuro
della morfologia comparata, costituiscono “un’affermazione del carattere
necessario dello sviluppo storico” 162 e dell’idea di destino che lo sottende.
Tuttavia, la sicurezza delle previsioni gli è infusa anche da una considerazione
di carattere storico–statistico. Il fatto di avere di fronte a sé otto civiltà il cui
studio lo ha portato a ravvisare, tra le loro forme, delle analogie di struttura e di
durata, lo autorizza, senza dubbio, a estendere tali conclusioni anche all’unica
civiltà ancora in vita.
La ricerca delle affinità morfologiche si dispiega su due piani paralleli che sono
il riflesso della duplice considerazione della civiltà: da un canto, Spengler è a
caccia di quegli eventi ‘contemporanei’ alle varie civiltà, ovvero di quegli
avvenimenti che ricoprono il medesimo significato all’interno di civiltà diverse;
d’altro lato, però, si impegna, specie nel primo volume, a definire le affinità
delle manifestazioni appartenenti alla medesima civiltà allo scopo di risalire alla
natura dell’anima da cui promanano 163 .
Un primo esempio di considerazione sincronica inerisce tutti quei simboli che
appaiono nel trapasso dalla civiltà alla civilizzazione. Per Spengler ogni civiltà è
destinata inevitabilmente a invecchiare e a morire, ma egli individua delle forme
sempre ricorrenti e tipiche di questo passaggio. Un intero capitolo de Il tramonto
dell’Occidente è dedicato al simbolo della città che, sorta nel momento di
maggiore perfezione e maturità di una civiltà, si trasforma ben presto in
162 Pietro Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, op. cit., p.415.
163 Questo secondo aspetto della ricerca spengleriana delle affinità tra le forme storiche sarà maggiormente
approfondito nel terzo capitolo, quando apparirà più chiaro il rapporto tra l’anima della civiltà e le sue
manifestazioni simboliche e quando verranno dispiegati i singoli linguaggi di tali manifestazioni.
74

cosmopoli, segno mostruoso della fine. “Tutte le grandi civiltà sono state civiltà
cittadine” 164 : la nascita di entrambe deriva dal metter radici dell’umanità, dal suo
stanziarsi in un paesaggio così come fa una pianta sul suolo.
“Soltanto la civilizzazione con le sue città gigantesche torna a disprezzare queste
radici della spiritualità e si stacca da esse. L’uomo civilizzato, nomade intellettuale, torna ad
essere tutto microcosmo, privo di patria, spiritualmente libero come il cacciatore e il
pastore.” 165 .
La città, luogo di fioritura di tutte le espressioni di una civiltà, costituisce un
tutto che respira e che cresce, una forma unitaria il cui stile accompagnerà tutto
il corso della cultura da cui deriva. Tuttavia, è proprio qui, che la forma ha il suo
dissolvimento, che la civiltà cessa ogni forma di creazione:
“E nella città, disgiunta dalle potenze del paesaggio, quasi isolata dal suolo dalla
pavimentazione, la vita s’indebolisce sempre di più, mentre la percezione e l’intelligenza si
fanno sempre più acute. […] Le antichissime radici dell’essere si disseccano fra le masse di
pietra della città.” 166 .
L’informe succede alla forma, la metropoli alla città: Spengler riconosce questo
trapasso in ogni civiltà e lo considera un fenomeno tipico delle epoche tarde:
“dopo Siracusa, Atene e Alessandria viene Roma. Dopo Madrid, Parigi e Londra
vengono Berlino e New York.” 167 . A partire da questo momento la vita si
raccoglie in un solo punto e tutto il resto diviene provincia. Pensiamo, infatti,
alla Roma antica 168 , in cui tutta la vita spirituale e politica si accentrò nella
capitale di un grandioso impero oppure alla valenza culturale, in occidente, di
164 TO, p.777.
165 TO, p.777.
166 TO, p.781.
167 TO, p.59.
168 Per Spengler grecità e romanità costituiscono la civiltà e la civilizzazione del mondo antico.
75

Parigi o di Londra. Qui l’inorganico subentra all’organico, l’uomo nomade e
irreligioso a un popolo formato.
Ma la morfologia comparata si estende anche al dominio delle forme sociali: le
varie civiltà sono messe a confronto al fine di “configurare una fenomenologia
storica delle fondamentali forme di articolazione della società” 169 . Spengler ci
vuol mostrare, cioè, come a ogni fase di vita della civiltà corrisponda l’egemonia
politica e culturale di determinate classi sociali, articolando, così, i rapporti tra
sacerdotalità, nobiltà e borghesia in uno schema storico sempre ripetentesi.
Tuttavia Spengler traccia un quadro di comparazione veramente grandioso nella
fenomenologia della storia politica: anche qui, assistiamo alla successione di
forme politiche e statali che si ritrovano, nella medesima scansione, in tutte le
civiltà superiori. La politica diventa anch’essa un’espressione relativa, tipica
dello stile e del volto di ciascuna animità e, in quanto parte integrante di un
organismo vivente, è sottoposta sempre al medesimo destino.
“In ogni civiltà la storia in grande stile comincia con lo stato feudale.” 170 .
Provocatoriamente Spengler sostiene, quindi, che il feudalesimo è un fenomeno
iniziale non solo della civiltà occidentale, ma anche, ad esempio, di quella antica
(Basileus) o cinese (dove si ha una limitazione del potere imperiale da parte
della nobiltà). Qui lo stato è ancora legato al diritto privato e organizzato solo in
funzione di una determinata casta. Successivamente, lo Stato vince sulla casta,
dal diritto privato si passa a quello pubblico: è il tempo degli Stati assoluti in cui
spicca la figura del monarca. In Occidente tale periodo va dal ‘600 fino all’età
napoleonica, mentre il mondo antico lo visse durante l’età di Pericle. Questo è
l’apice per ciascuna civiltà, il momento di espressione delle forme più maturo e
compiuto.
169 Domenico Conte, La morfologia storica comparata in Catene di civiltà, op. cit., p.355.
170 TO, p.1201.
76

Con la rivoluzione borghese inizia il trapasso della civiltà nella civilizzazione: lo
stato viene sentito come un peso e si annuncia la potenza del denaro:
“La borghesia non ha mai pensato in termini di politica estera e di storia mondiale;
nessuno si domandò se uno Stato in una nuova forma avrebbe potuto sussistere in mezzo agli
altri Stati; tutto ciò di cui ci si preoccupava era di sapere se esso garantiva dei diritti”. 171 .
Le forme politiche si deteriorano articolandosi in tre fasi fondamentali:
‘napoleonismo’, ‘stati in lotta’ e ‘cesarismo’. Anche queste fasi sono
sincroniche: troveremo il loro evento corrispondente anche nelle altre civiltà
ormai morte. Ora, se la civiltà occidentale ha già percorso le prime due, la terza
si configura come una previsione per il nostro futuro.
Col napoleonismo si ha “l’avvento di potenze informi” 172 che, in occidente, si
manifestano nella rivoluzione francese e americana. Il presente di Spengler è,
invece, l’età degli stati in lotta, della prima guerra mondiale, “un’epoca di lotte
gigantesche” 173 che costituisce il punto di “passaggio dal napoleonismo al
cesarismo” 174 . La sua denominazione deriva dalla storia cinese, in cui, tra il V e
il III secolo, dopo guerre incessanti fra i diversi stati, emerse un potere
imperialistico. Comparativamente, Spengler legge nel suo presente l’avvento di
potenze sempre più informi, legate al denaro, alla democrazia e al
parlamentarismo, ma sa guardare anche al futuro:
“L’epoca degli ‘stati in lotta’ e quella successiva del ‘cesarismo’ mettono Spengler di
fronte a un compito nuovo. Finora i suoi raffronti si erano basati su di un metodo che può
essere definito tranquillamente di storia comparata. Adesso, però, nel metodo della
comparazione si introduce un nuovo principio. La storia comparata si trasforma in prognosi
comparata.” 175 .
171 TO, p.1245.
172 TO, p.1254.
173 TO, p.1273.
174 TO, p.1273.
175 Domenico Conte, La morfologia storica comparata in Catene di civiltà, op. cit., p.358.
77

Era questo, d’altro canto, il fondamentale motore di tutta la morfologia
comparata: arrivare a comprendere le dinamiche del proprio tempo, grazie
all’ausilio che solo le forme passate di civilizzazione possono dare; scrutare nei
meandri della storia passata per cercare di vivere autenticamente il proprio
presente.
D’altro canto, come abbiamo visto, Spengler non compara solo per cercare
analogie e prevedere il futuro: la comparazione mira anche a rinvenire l’anima
di una civiltà, a saper rintracciare uno stesso stile e una stessa tendenza
formativa nella molteplicità delle sue manifestazioni.
“L’ultima conseguenza della sapienza faustiana, anche se solo nelle sue massime
culminazioni, è il risolversi di tutto il sapere in un immenso sistema di affinità
morfologiche.” 176 .
Senza inoltrarci negli affascinanti mondi dei linguaggi specialistici de Il
tramonto dell’Occidente, ciò che ora ci interessa è capire come, in ogni caso,
non è mai l’avvenimento isolato, chiuso in se stesso, ad attrarre lo sguardo
storico di Spengler: un evento assume rilevanza storica solo se è riconducibile
ad una serie di nessi morfologici, solo se ha una sua potenza simbolica.
“Tutto, in Spengler, si rincorre in un gioco vorticoso di comparazioni, che trovano
sistematicamente la loro risoluzione in catene di simbolismi. Il fattore decisivo, nella
personalissima metodologia di Spengler, è che gli elementi della comparazione siano
suscettibili di essere inseriti nei rispettivi gruppi di affinità morfologiche, cioè in serie
simboliche significative. Una volta compiuta questa operazione la comparazione può dirsi
riuscita. “ 177 .
Da queste premesse metodologiche Spengler trae tutte le sue ricchissime e
inaspettate comparazioni le quali, però, hanno bisogno, per essere comprese, di
176 TO, p.648.
177 Domenico Conte, La morfologia comparata in Catene di civiltà, op. cit., p.352.
78

essere calate nelle modalità espressive di un’anima, nella creazione del suo
universo simbolico.
79

Capitolo terzo
Anima e simbolo: lingua delle forme.
1. L’anima e le sue manifestazioni: i simboli.
La morfologia della storia spengleriana si dispiega nel cercare affinità ma,
anche, nel rimarcare differenze. I nessi e le antitesi morfologiche traggono ogni
loro presupposto da una concezione intrinsecamente simbolica della storia delle
civiltà. Ma che cosa sono i simboli dell’universo storico di Spengler? E qual è la
logica del loro apparire?
Abbiamo già visto come ogni civiltà sia un organismo individualmente definito,
sebbene appartenente ad una comune specie vivente. Ora, proprio in questa
geniale paragonabilità tra civiltà e individuo, giace la condizione di possibilità
per pensare alla civiltà come depositaria di un’anima, di uno pneuma che la
contraddistingua nella sua assoluta specificità.
“Io distinguo l’idea di una civiltà, somma di tutte le sue possibilità interne, dalla sua
manifestazione sensibile sotto specie di storia, la quale della prima rappresenta solo la
realizzazione. Nello stesso rapporto sta l’anima col corpo vivente, sua espressione nel mondo
luminoso che si dischiude ai nostri occhi.” 178 .
Il rapporto tra anima e corpo viene riproposto su un piano storico–metafisico:
come l’anima costituisce solo l’idea del corpo che, tuttavia, lo vivifica e lo
individualizza, così la civiltà, nella sua portata ideale e formale, si concretizza
nelle sue manifestazioni sensibili, si esprime in esse. Spengler, cioè, sa che per
conoscere l’anima di una civiltà, la sua essenza, non può solo affidarsi al suo
sguardo veggente: i confini tra un uomo appartenente al tramonto dell’éra
faustiana e le altre civiltà superiori sono insormontabili; sa, però, che studiando
178 TO, p.171.
80

il corpo sensibile di esse, i loro segni luminosi e corporei, potrà risalire al loro
nucleo più profondo.
Ma perché parlare di pneuma? Nella tradizione filosofica, esso è una sorta di
energia, di spirito, di soffio che si effonde nei corpi per vivificarli, è un’essenza
comune che abbraccia le più diverse espressioni. Pneuma è l’anima in quanto
principio vitale, lo spirito come mezzo e tramite dell’azione creatrice divina.
Questo vuol dire che, per Spengler, l’anima di una civiltà è presente in tutte le
sue manifestazioni: essa le vincola, nelle loro modalità e nel loro significato più
profondo, con la necessità della sua natura.
Lo schema che qui Spengler ripropone è quello di una creatio ex nihilo: l’anima
genera il suo corpo sensibile e lo crea a sua immagine e somiglianza. Tuttavia,
come del resto traspare in tutta la struttura metafisico-teologica de Il tramonto
dell’Occidente, qui, parlare di elemento divino che crea, non vuol dire mai
evocare un Dio personale: per Spengler, già a partire dal Rinascimento il
concetto di Dio ha assunto una natura impersonale, di cui Cusano fu il più
grande codificatore 179 .
Lo schema creazionistico, proprio al rapporto anima–manifestazioni sensibili,
porta Spengler a presupporre un’antitesi tra anima e mondo:
“Se si chiama l’anima (quella sentita e non la corrispondente idea o rappresentazione)
il possibile, e il mondo, invece, il reale, termini sul cui significato un sentimento interno non
ci lascia alcun dubbio, la vita ci appare come la forma in cui si compie la realizzazione del
possibile.” 180 .
Nel suo ricco mondo di antitesi, Spengler raccoglie la coppia anima–mondo
all’interno dell’opposizione vita–morte, divenire–divenuto allo scopo di
definire, sin dall’inizio, la collocazione di questa possibilità del pensiero.
L’anima, però, consiste e si manifesta nelle sue espressioni sensibili, ovvero nel
179 Il problema di uno sfondo metafisico–teologico de Il tramonto dell’Occidente sarà ripreso nel quarto capitolo,
in cui sarà profilato un simile schema crazionistico anche per la stessa civiltà.
180 TO, p.92.
81

mondo stesso; in essa, cioè, soggiacciono le infinite possibilità di interpretazione
della realtà di cui Spengler ci ha parlato a proposito della distinzione storia-
natura.
Il problema dell’anima o, come più spesso viene definita, dell’animità
(Seelentum), attraversa tutto Il tramonto dell’Occidente, per essere poi ripreso
anche in Urfragen.
“La realtà dell’anima consiste nel fatto che l’animale, microcosmo nel macrocosmo,
libero e indipendente di fronte al cosmo, vive in contrapposizione ad esso, proprio per questo
suo essere libero, mentre la pianta è un elemento del cosmo intimamente unito a esso.” 181 .
Microcosmo e macrocosmo sono i termini di una contrapposizione che torna
anche nel Tramonto, aprendone il secondo volume. Ma perché questa
digressione nella biologia? Forse uno dei momenti più complessi della lettura di
quest’opera è proprio quello di riuscire a capire come incastrare e far lavorare
insieme temi apparentemente così lontani. Un aiuto può venirci dalle famose
antitesi spengleriane le quali, più che semplificare, forse ci forniscono
un’immagine più diretta di questa grandiosa visione d’insieme. Pianta e animale
vengono ricondotti alla coppia essere–essere desto, cioè ad un approfondimento
della coscienza che viene, come dire, scomposta e diversificata:
“Io distinguo l’essere dall’essere desto. L’essere ha ritmo e direzione, l’essere desto è
tensione ed estensione. Nell’essere vige un destino, l’essere desto distingue cause da effetti. Il
primo pone i problemi elementari del ‘quando’ e del ‘perché’, il secondo quelli del ‘dove’ e
dell’‘in che modo’.” 182 .
L’essere desto è la condizione propria dell’animale, di “un microcosmo che sta
in relazione con un macrocosmo” 183 , la condizione propria dell’uomo. Solo
181 UR, p.86.
182 TO, p.660.
183 TO, p.655.
82

quando si dorme la tensione della vita viene meno e si ritorna ad essere piante,
puri esseri cosmici, senza le scissioni tipiche di una vita libera. Infatti, ogni
libertà genera angoscia, si ha il senso di non essere più parte di quel tutto “da cui
si è stati dimessi per essere individui” 184 . Ma è proprio questa la condizione per
la donazione simbolica di senso al mondo: la consapevolezza della propria
finitezza e libertà, la paura e l’incomprensione della morte, ci ingiungono la
creazione di un mondo sensato:
“In tutti gli altri esseri, la vita scorre senza un senso dei suoi limiti, cioè senza un
sapere circa compito, significato, durata e fine. Per questo, per una correlazione profonda e
significativa, spesso il destarsi della vita interiore di un bambino si lega alla morte di un
parente. Egli capisce di colpo il cadavere disanimato che è divenuto tutto materia, tutto
spazio, e simultaneamente si sente come un essere singolo in un mondo esteso straniero.” 185 .
L’esperienza del bambino è quella dell’umanità tutta, che si desta alla scoperta
della morte e della propria isolatezza.
“In questo momento decisivo per l’esistenza, nel quale soltanto l’uomo diviene tale e
conosce la sua immensa solitudine nell’universo, l’angoscia cosmica gli si svela come
angoscia schiettamente umana di fronte alla morte, come angoscia per il limite del mondo
della luce, come angoscia per la rigida spazialità. Questa è l’origine del pensiero in senso
superiore, che a tutta prima è meditazione sulla morte.” 186 .
Spengler parla di angoscia per la spazialità, per il fisso, per il morto, di contro a
cui si pongono la temporalità della storia, il divenire, la vita: tutti termini che ci
sono familiari e che, come abbiamo visto, tornano sotto prospettive diverse e
talvolta inaspettate. Anima ed essere desto sono, quindi, termini, profondamente
184 TO, p.654.
185 TO, p.256.
186 TO, p.256.
83

legati in quanto ineriscono entrambi, sotto un certo aspetto, alla tensione della
creazione e della significazione simbolica:
“Quand’è che si può incominciare a parlare di anima? A cominciare dall’essere desto
libero e indipendente, che data il suo inizio proprio da questa libertà di movimento
dell’animale nel cosmo, e a cominciare dal quale, un mistero che non si potrà risolvere mai,
esiste anche l’anima, che infatti sarebbe una contraddizione in termini se non esistesse
l’essere desto.” 187 .
Ma qui Spengler parla dell’anima e delle sue dinamiche per riferirle alle civiltà
superiori, che posseggono anch’esse un’anima individuale. I processi, le
continue scissioni e diversificazioni della psicologia spengleriana sono
finalizzate a comprendere il come delle manifestazioni sensibili dalle civiltà ma,
soprattutto, il significato profondo di questa derivazione. L’antitesi anima–
mondo diviene, perciò, l’antitesi tra la civiltà possibile e la civiltà reale, tra
“l’idea dell’esistenza, universale o particolare” 188 e “il corpo di tale idea, come
la somma delle espressioni sensibili, spaziali, concrete” 189 .
Ma che caratteristiche ha questo corpo concreto? Qual è la sua natura?
Il macrocosmo, di fronte a cui si pone l’essere desto, è un insieme di simboli:
“I simboli sono segni sensibili, impressioni ultime, semplici e soprattutto involontarie
di un dato significato. Un simbolo è un aspetto della realtà che per un uomo dai sensi desti
indica, in termini di certezza interna immediata, qualcosa di incomunicabile
intellettualmente.” 190 .
Ogni civiltà, cioè, crea i suoi simboli adoperando la materia vivente che ha a
disposizione, ma senza un fine, senza un disegno che alluda ad un atto
187 UR, p.89.
188 TO, p.94.
189 TO, p.94.
190 TO, p.251.
84

volontario. Tutto ciò che Spengler sa di una civiltà non riguarda il perché della
sua nascita o il fine delle sue manifestazioni: egli sa solo che esiste un legame
intrinsecamente necessario tra una civiltà e le sue fasi, poiché essa è un
organismo vivente. Ma, data la legge interna che regola la scansione delle
manifestazioni, ciò che una civiltà dispiega è qualcosa di assolutamente unico ed
originale, un essere individuale le cui potenzialità saranno realizzate dalle sue
espressioni simboliche. Un simbolo, però, non è conoscibile intellettualmente, è
solo un’impressione che lo sguardo fisiognomico raccoglie, riconducendolo al
volto della civiltà da cui promana.
Lo scopo di Spengler è quello di un sapere totale, cioè di un tipo di conoscenza
che abbracci ogni ambito umano riconducendolo a simbolo di una civiltà:
“Ogni emozione propria ha un’espressione, ogni emozione altrui ci produce
un’impressione, e così tutto ciò di cui siamo coscienti, quale pur sia la sua forma – anima e
mondo, vita e realtà, storia e natura, legge, sentimento, destino, Dio, avvenire e passato,
presente e eternità – ha per noi un senso profondo e l’unico, estremo mezzo per cogliere
questa essenza inaccessibile è una specie di metafisica, nella quale tutto indistintamente
assuma il significato di un simbolo.” 191 .
Qui lo studio della storia come morfologia fisiognomica trova la sua ulteriore
conferma: essa sarà “una concezione simbolica che tutto abbraccia” 192 , uno
sguardo capace di cogliere tra i simboli di una civiltà affinità e differenze. Tutto
Il tramonto dell’Occidente è percorso dall’attuazione di questo principio
conoscitivo mirante, come vedremo, a costituire quelle catene di nessi
morfologici che, soli, dispiegano il volto di una civiltà, la sua animità. In
particolar modo l’attenzione di Spengler, nonostante sia rivolta a considerare i
simboli di tutte le otto civiltà superiori, si affissa su quella faustiana e su quella
191 TO, p.250-251.
192 TO, p.250.
85

antica: dal loro confronto trarrà, infatti, uno sguardo profondo sulla propria
civiltà e sui segni del suo tramonto.
A partire da questa concezione simbolica, la stessa fisiognomica diviene un
simbolo della civiltà occidentale nell’epoca della sua civilizzazione,
un’espressione relativa ma, insieme, necessaria della sua precipua fisionomia
storica, che trova nell’opera spengleriana il suo strumento per realizzarsi:
“Oggi un ultimo compito è tuttavia riservato al pensiero storico faustiano: la
coordinazione organica di questi singoli strati e il loro inquadramento in un’unica, immensa
storia mondiale con un’unica fisiognomica, la quale darà modo di risalire con continuità dalla
vita di un singolo individuo fino ai primi e agli ultimi destini dell’universo. Il diciannovesimo
secolo aveva già posto questo compito, in una formulazione meccanicistica epperò astorica.
Spetta al ventesimo secolo di realizzarlo nella forma ora detta.” 193 .
L’insistenza programmatica della sua filosofia può essere meglio compresa
proprio se calata in questa concezione simbolica onnicomprensiva, in grado,
cioè, di inglobare anche la stessa scienza dei simboli.
Ma che cosa può essere simbolo per Spengler? La fenomenologia delle
manifestazioni storiche di una civiltà non risparmia nessun ambito della vita
umana: tutto, all’interno di una civiltà, è simbolo, rimanda ad essa. Il fatto stesso
di riconoscere in uno stile architettonico o in una concezione dello stato, il
simbolo di una civiltà è garanzia della sua intrinseca unità.
“Ogni fenomeno storicamente significativo è, dunque, simbolo, d’un principio unitario
che lo precede e lo determina.” 194 .
Ecco perché al di fuori della vita organica di una civiltà non abbiamo più storia:
quando una civiltà muore regna l’informe, viene meno l’unità formale che fa dei
simboli la significazione precipua di quella civiltà e di nessun altra.
193 TO, p.692.
194 Domenico Conte, Introduzione a Spengler, op. cit., p.26.
86

“La realtà (il mondo nella sua relazione a un’anima) è per ognuno proiezione di ciò
che ha direzione nel dominio di ciò che è esteso; esso è il proprio che si rispecchia
nell’estraneo, conferendogli un significato. Mediante un tale atto tanto creativo quanto
inconscio (non sono ‘io’ a realizzare il possibile, è esso che ‘si’ realizza attraverso di me) si
crea il ponte del simbolo tra il qui vivente e il là; e dall’insieme degli elementi sensibili e
ricordati sorge subitamente e con la più perfetta necessità ‘il’ mondo che si comprende e che
per ciascuno rappresenta l’unico mondo.” 195 .
L’anima di una civiltà interpreta il mondo istituendolo; la creazione dei simboli,
tuttavia, è inconscia: ciò che ha direzione, vita, forma si imprime sull’estensione
dandogli un senso, un significato unitario. L’io che crea è super-individuale: la
sua materia vivente sono le razze, i popoli, le nazioni.
Ma il simbolismo è anche il presupposto teorico del relativismo spengleriano e
della fondamentale incomunicabilità tra i diversi universi formali:
“Solo dalla maggiore o minore affinità dei mondi vissuti da uomini di una stessa
civiltà o di una stessa comunità spirituale, dipende la maggiore o minore comunicabilità di ciò
che si vede, si percepisce, si conosce, ossia di ciò a cui è data una forma nello stile del proprio
essere mediante i mezzi espressivi del linguaggio dell’arte e della religione, mediante
assonanze, formule, segni che poi sono essi stessi simboli. […] Il grado di affinità di due
mondi di forme simboliche stabilisce il limite oltre il quale comprendere è autoilludersi.” 196 .
Ogni simbolo realizzato appartiene al mondo dell’estensione: anche se esprime
un’anima la cui essenza è il divenire, esso è legato alle leggi del divenuto. Per
Spengler, “è transitorio non solo ciò che accade ma anche ogni specie di
significato” 197 : i simboli sono sensibili, concreti, soggetti al trascorrere del
tempo. Da ciò la conclusione secondo cui ogni simbolo è caduco, transeunte:
195 TO, p.252.
196 TO, p.253-254.
197 TO, p.255.
87

“Il significato di un tempo non torna più. Ciò che entra nel regno dell’esteso ha con l’inizio
anche una fine. Vi è un nesso profondo e già per tempo sentito fra lo spazio e la morte.” 198 .
Di conseguenza, ogni manifestazione storica è destinata a tramontare: ogni fede,
ogni arte, ogni pensiero hanno una vita passeggera, in quanto intrinsecamente
simbolici. Proprio la conoscenza della morte, la consapevolezza della caducità
che solo l’uomo possiede, è la fonte di una donazione di senso che vuole anche
essere una difesa dalla morte stessa : “ogni simbolismo significa una difesa” 199
per Spengler.
Questa concezione prelude e giustifica l’affermazione fondamentale del
tramonto delle stesse civiltà che, realizzate le loro potenzialità mediante l’azione
di interpretazione e di creazione simbolica della realtà, sono destinate a perire
anch’esse, come tutto ciò che è storico e vivente.
“Balenii dell’anima sono i momenti creativi” 200 .
Questa frase, che apre un aforisma di Urfragen, indica la profonda intuizione
che Spengler ha della caducità: ciò che l’anima crea, il suo corpo sensibile è solo
un balenío, un istante scintillante di perfezione e compiutezza. Se “tutto ciò che
è divenuto è caduco” 201 allora ne segue che “tutto ciò che è caduco è soltanto un
simbolo” 202 . Ma questo non significa che tutto ciò che è simbolico perda la sua
rilevanza, ché, al contrario, proprio nella sua portata simbolica, ogni evento ed
espressione assumono profondità. Da questo punto di vista, Spengler ha fatto
suo l’insegnamento della caducità che Nietzsche ha lasciato al Novecento e che
anche molti poeti hanno raccolto. La morte di Dio ha contrassegnato la fine della
fede nell’assolutezza ed eternità dei valori; sul piano storico, essa si converte
198 TO, p.255.
199 TO, p.257.
200 UR, p.82.
201 TO, p.258.
202 TO, p.259.
88

nella fine della fede nell’eternità delle civiltà e delle loro espressioni: tutto
tramonta, anche le creazioni più geniali, gli stati più potenti, i pensieri più
profondi. Il sapere della caducità si tradurrà, in Spengler, anche nel problema di
come vivere alla fine dei tempi, di come affrontare autenticamente la fine,
sapendo che il tramonto del proprio mondo è vicino 203 .
Ogni evento assume rilevanza storica proprio nell’esprimere ed evocare l’anima
della civiltà cui appartiene: è questa la sua grandezza ed eternità, la potenza del
suo essere simbolo. Il fatto che i simboli siano relativi e caduchi non vuol dire,
però, che, per chi abita nell’universo di significati da essi istituiti, il mondo non
abbia un suo valore necessario. Anche qui il rapporto tra le categorie di relatività
e necessità torna a far slittare i piani del discorso spengleriano, coinvolgendo,
come vedremo, lo stesso concetto di anima.
Come, infatti, accade a tutti i fondamentali concetti dell’universo storico de Il
tramonto dell’Occidente, la stessa anima viene relativizzata, viene, cioè,
ricondotta a essere creazione simbolica delle stesse civiltà. Questo slittamento è
interessante per due ordini di motivi: innanzitutto, esso ci introduce nella logica
dei linguaggi speciali delle forme storiche e, in secondo luogo, ci consente
alcune considerazioni sulla capacità dell’anima creata di essere un simbolo
fedele e adeguato dell’anima della civiltà da cui promana.
Secondo Spengler “ogni civiltà possiede una propria psicologia sistematica” 204 ,
ovvero un modo assolutamente precipuo di considerare l’anima e i suoi processi
fondamentali. Essa sarà affine, nella sua forma, all’immagine della natura
propria di quella stessa civiltà. L’anima, in sé, è qualcosa di indescrivibile, è
solo un suono che evoca immagini e paragoni: parlarne vuol dire contrapporla
all’immagine della natura, come sua controparte.
203 Il problema della portata esistenziale della concezione storica delle civiltà e della loro intrinseca caducità sarà
affrontato nella seconda parte di questo lavoro, dedicato alla civilizzazione.
204 TO, p. 455.
89

“Ciò che non è più mondo esterno noi non lo vediamo; ne sentiamo la presenza in altri
e in noi stessi.” 205 .
Essa sarà un anti–mondo, la cui logica fondamentale seguirà la forma che, di
civiltà in civiltà, assume la fisica. Non definibile positivamente, via negationis,
l’anima sarà “l’incarnazione di ciò che non è estensione” 206 ; ogni
rappresentazione del mondo psichico sarà, quindi, la negazione della
rappresentazione della natura.
“Questo corpo immaginario dell’anima non sarà mai altro che l’immagine fedelmente
riflessa della figura secondo la quale l’uomo di una civiltà matura concepisce il suo mondo
esteriore.” 207 .
Queste considerazioni preludono ad una fondamentale differenziazione di
significati che l’anima possiede in seno alle diverse civiltà: vi sarà, quindi,
un’anima apollinea, un’anima magica e un’anima faustiana, le cui forme
riflettono l’Anima 208 della loro civiltà. Spengler, naturalmente, accentua le
differenze per rimarcare la natura dell’anima faustiana, la cui componente
essenziale è la volontà.
“L’uomo antico – l’uomo apollineo, dedito all’esistenza puntiforme euclidea –
considerò l’anima come un cosmos ordinato in un insieme di belle parti. […] Il che rifletteva
la natura quale si offriva allo sguardo degli uomini antichi: una somma ben ordinata di cose
afferrabili.” 209 .
205 TO, p.449.
206 TO, p.450.
207 TO, p.453.
208 Qui la parola ‘anima’ è usata nel senso iniziale, cioè come pneuma, soffio vivificante di una civiltà che è
presente in tutte le sue manifestazioni simboliche. Perciò, per evitare confusioni, qui ho preferito usare la a
maiuscola.
209 TO, p.455.
90

Spengler contrappone una statica psichica, in cui lo stesso concetto di volontà è
assente, ad una dinamica dell’anima, tipica dell’uomo faustiano.
“Si prenda una qualunque delle psicologie occidentali. Vi si troverà immancabilmente
un ordine che non è corporeo, ma sempre funzionale: y = f (x): questa è la figura primaria di
tutte le impressioni che riceviamo nel nostro interno, perché essa sta già alla base del nostro
mondo esterno. Pensare, sentire, volere: anche volendolo, nessun psicologo occidentale si
libererà mai da questa triade.” 210 .
L’anima magica verte, invece, sul dualismo tra due entità: lo spirito e l’anima.
Se quest’ultima è una sostanza che compenetra il corpo, lo spirito è “una
seconda sostanza astratta, divina, soffusa dall’alto della cripta cosmica giù
nell’umanità” 211 . In questa seconda identità dell’anima magica, Spengler ravvisa
il presupposto del consensus tipico dei membri di questa civiltà.
La capacità di denotare un tono dell’anima con termini e concetti desunti dalla
fisica è non solo coerente con la difficoltà stessa di parlare dell’anima, ma è
anche tipico di un tentativo costante, da parte di Spengler, di immettere tutti i
simboli di una stessa civiltà in una sorta di griglia tematica, in cui ogni
significato rimanda all’altro secondo dei nessi morfologici.
Ma come avviene questo riflettersi dell’Anima di una civiltà nell’anima intesa
come sua manifestazione?
“Fu infatti l’anima faustiana che in uno sforzo pluricentenario cercò di tracciare un
ritratto di se stessa, una immagine che nel contempo stesse in una armonia profonda e sentita
con la sua concezione del mondo. La visione gotica del mondo con la sua lotta fra ragione e
volontà fu effettivamente un’espressione del sentimento della vita degli uomini delle Crociate,
del periodo degli Svevi e delle grandi cattedrali. Si vide l’anima così perché si era così.” 212 .
210 TO, p.456.
211 TO, p.458.
212 TO, p.462.
91

L’Anima si riflette nell’anima: è questa la profonda intuizione di Spengler. In
essa sta tutta la necessità delle espressioni simboliche e tutta la portata dei nessi
morfologici. L’anima dell’uomo occidentale, che è anche la sua propria anima,
gli fa cogliere la portata riflessiva che emerge dalla codificazione di questo
simbolo fondamentale: si tratta, cioè, di quel contenuto dell’Anima occidentale
che, nel suo stesso essere e nella impossibilità di una negazione di sé che non
avvenga con la sua stessa logica (quella della volontà e dello sforzo), è specchio
fedele di ciò da cui promana.
Il simbolo elementare della civiltà occidentale - l’estensione infinita - si
manifesta nel volere e nel pensare dell’uomo faustiano: la direzione si trasforma
in volontà, in tensione infinita.
Tutto ciò ci riconduce al nostro intento primario: indagare il come dei simboli
dall’anima delle civiltà, comprendere la logica del loro istituirsi ed apparire.
2. Simbolo originario e creazione del macrocosmo.
La contrapposizione tra anima e mondo, che è alla radice di ogni creazione
simbolica, si esplica in quella, più profonda, di microcosmo e macrocosmo:
l’essere desto dell’uomo istituisce un mondo di significati, traspone
nell’estraneità dell’esteso la propria direzione vitale. Il macrocosmo è, appunto,
il risultato di questa interpretazione dello spazio:
“Ma sempre e dovunque si può parlare di vita desta, io a ciò che sta fuori di me do il
contenuto di tutto il mio Io, dalle impressioni semisognanti di una coscienza naturalistica fino
al rigido mondo delle leggi causali e dei numeri che a quella si sovrappongono e che la
vincolano. […] Questa è l’idea del macrocosmo, della realtà quale insieme di tutti i simboli
riferentesi a un’anima. Non v’è nulla che sia privo di questa qualità del significativo. Tutto
ciò che esiste è anche simbolo. A partire dalla figura corporea (volto, forma, attitudine dei
singoli, delle caste, dei popoli), ove di ciò si è sempre saputo, fino alle presunte forme eterne
92

e universalmente valide della conoscenza, della matematica, della fisica, tutto parla della
natura di una data anima e di essa soltanto.” 213 .
Il macrocosmo è, quindi, il risultato complessivo dell’interpretazione simbolica
dell’anima di una data civiltà, la somma delle sue manifestazioni sensibili; esso
è il mondo che ci circonda, il significato dei nostri pensieri, il senso del nostro
produrre, lo scopo del nostro agire. Tutto fa parte del macrocosmo perché tutto è
simbolo. Il cosmo che ci sta di fronte è privo di quella validità assoluta cui
conduceva, invece, ogni pregiudizio realista.
Se per Kant, le leggi della natura erano universalmente valide poiché derivavano
da forme di conoscenza comuni a tutti gli uomini, Spengler arriva a prospettarci
una relatività del mondo stesso. In quanto membri di una data civiltà, gli uomini
interpretano l’estensione spaziale in modo diverso e peculiare: diversa è l’anima
che agisce in loro, relative, perché storiche, le forme del loro pensare.
Spengler cerca di delineare le modalità e le motivazioni profonde di questa
grande creazione di forme. Abbiamo già accennato all’intimo nesso che lega il
mondo dei simboli alla consapevolezza della caducità: entrambi hanno a che
fare con l’esteso, con lo spazio.
“Così l’essenza di ogni autentico simbolismo, inconscia e interiormente necessaria,
procede dalla conoscenza della morte, nella quale si rivela il mistero dello spazio.” 214 .
Spengler immagina l’uomo primitivo alle prese con la scoperta della morte e con
l’ostilità dello spazio; queste causalità inesorabili minacciano costantemente la
sua esistenza: da ciò il bisogno di difendersi. A partire da questo momento nasce
la vita personale, la sensazione di essere un Io di contro a un mondo, inizia una
scissione e, con essa, una donazione di senso:
213 TO, p.253.
214 TO, p.257.
93

“A partire da tale punto, tutto quanto si oppone alle nostre sensazioni non è più una
resistenza, una cosa, una impressione come nell’animale e ancor nel bambino, bensì anche
un’espressione. Le cose non sono più soltanto reali nell’ambiente, ma entro una ‘visione del
mondo’ esse, quali appaiono, hanno anche un senso. Prima solo esse avevano un rapporto con
l’uomo, ora anche l’uomo ha un rapporto con esse. Esse sono divenute simboli della sua
esistenza.” 215 .
L’uomo si appropria del reale e gli dà un significato che rifletta la sua anima, per
poi farne, nuovamente, qualcosa di estraneo. Ma, definendo il macrocosmo,
l’uomo si riconosce come microcosmo, scopre il suo Io: le due operazione sono
parallele e rimandano ad una matrice originaria.
“La tensione tra microcosmo e macrocosmo, la scissione tra i due, il ‘contro’, la
polarità, tutto ciò è un fatto originario, da cui deriva anche la polarità tra mondo materiale e
mondo spirituale. Anima e mondo, ciò nonostante, costituiscono una unità che fonda il suo
principio nel cosmo.” 216 .
Questo vuol dire che l’Io sorge col mondo, che non c’è un mondo in sé prima
che anche l’Io si riconosca come tale. Il macrocosmo, quindi, non è una realtà
distinta da quella che tutti conosciamo e in cui tutti viviamo: questo spiega il
difficile ruolo di Spengler che, in quanto membro di una civiltà particolare, sa di
dover assurgere a una prospettiva diversa che, dall’alto, gli consenta di scollarsi
dal proprio mondo per leggerlo come tale, per collocarlo nella sua relatività
storica. Ma egli sa anche quanto ciò sia intrinsecamente impossibile: lo afferma
lucidamente ma, al tempo stesso, escogita un tipo di conoscenza che, nella sua
struttura, faccia propria questa contraddizione. 217
215 TO, p.257.
216 UR, p.105.
217 A questo proposito, si confronti, nel capitolo secondo, la struttura delineata per la morfologia fisiognomica
nonché la forma del nuovo scetticismo spengleriano.
94

Le potenze estranee della morte e della natura incutono un senso di paura, di
angoscia che Spengler definisce angoscia cosmica. In essa giace la possibilità
della creazione del macrocosmo:
“Fra i sentimenti primordiali, l’angoscia cosmica è certo il più creativo. A essa l’uomo
deve le forme e le figure più profonde e maturate non solo della sua vita interiore cosciente,
ma anche dei riflessi di essa nelle innumerevoli opere della civiltà esterna.” 218 .
Come calato alle origine della psiche e della natura umana, Spengler ci offre il
decorso di questa paura ancestrale: dal senso del proprio essere-esposti-al
mondo, egli fa scaturire la necessità di una riconciliazione con esso, di un
dominio. E furono proprio la conoscenza, la sistematizzazione del reale
mediante il linguaggio e la causalità, a permettere all’uomo una difesa
dall’estensione spaziale:
“La conoscenza maturatasi in parole, in nomi, trasforma necessariamente il caos delle
impressioni originarie in una ‘natura’ che ha leggi a cui essa deve obbedire e del ‘mondo in
sé’ fa un ‘mondo per noi’. Essa calma l’angoscia cosmica domando il mistero, forgiandolo in
una realtà afferrabile, incatenandolo mediante le leggi ferree del linguaggio intellettuale delle
forme a esso impresse.” 219 .
All’origine di qualunque attribuzione di forma vi è, quindi, il timore, ma
Spengler ci insegna anche che ogni sapere è una forma di potere, una presa di
sicurezza sul mondo.
La comprensione delle motivazioni più profonde della creazione del
macrocosmo a partire dall’umanità originaria, consente a Spengler di avere
dinanzi a sé la dinamica stessa di questa poiesi simbolica. Ogni volta che egli
parla dell’uomo primitivo è come se il suo sguardo veggente si ponesse agli inizi
di una civiltà, quando un mondo simbolico ormai morto risulta privo di senso o
218 TO, p.132-133.
219 TO, p.134.
95

incomprensibile e quando urge una nuova creazione: qui l’anima di una civiltà si
desta e imprime la propria forma sulla materia vivente. Ma come inizia questo
processo? Qual è il primo atto poietico di un’anima nascente?
L’organo attraverso cui ogni anima si realizza è “una simbolizzazione
dell’esteso” 220 , l’interpretazione dello spazio. Da essa sorge ogni simbolo primo,
cioè quel simbolo originario che identifica, fisiognomicamente, ciascuna civiltà.
“Il modo dell’estensione possiamo chiamarlo il simbolo primo di una civiltà. Tutta la
lingua delle forme della realtà di questa, la sua fisionomia propria a differenza di quella di
ogni altra civiltà e, soprattutto, dell’ambiente quasi senza volto del primitivo deve esser
dedotta da esso: giacché l’interpretazione della profondità assurge ora al valore di un’azione,
di espressione formativa attraverso opere, di trasformazione della realtà, la quale non serve
più a una necessità della vita come negli animali, ma deve farsi un simbolo della vita che si
servirà di tutti gli elementi dell’estensione, della materia, di linee, colori, suoni, movimenti e
che, ancor dopo secoli, testimonierà del modo in cui i suoi creatori avevano compreso il
mondo.” 221 .
La codificazione del simbolo primo ha inizio dall’esperienza della profondità.
Di contro a lunghezza e larghezza, questa terza dimensione rappresenta
l’autentico rapporto col mondo circostante, essa è “ciò che attivamente si
estende” 222 , l’espressione della natura stessa. Nell’esperire la profondità, l’essere
desto riceve un’immagine nuova del mondo, come ridettata.
“Dalla corrente delle sensazioni l’Io trae una unità formata, una immagine mobile che
appare soggetta al principio di causalità non appena l’intelletto si impadronisce di essa; ed
essa, divenuta allora il riflesso di uno spirito personale, si fa peritura, caduca.” 223 .
220 TO, p.135.
221 TO, p.268-269.
222 TO, p.259.
223 TO, p.260.
96

Ne deriva che l’esperienza dell’estensione sia molto diversa da uomo a uomo,
come lo dimostra, ad esempio, la percezione personalissima dello spazio nelle
opere d’arte. Ma, allora, che ne è dello spazio kantiano, forma pura
dell’intuizione sensibile, e presupposto universale della matematica e della
fisica?
Il confronto che Spengler ordisce con la filosofia kantiana risulta, qui, più che
mai interessante. Lo spazio assoluto dell’estetica trascendentale è una forma
dell’intuizione che non può essere applicata ad ogni percezione del mondo:
questo spazio rigido, causale è la forma di interpretazione del reale solo degli
uomini di civiltà tarde, ormai sottoposti al dominio dell’intelletto. Kant, cioè,
avrebbe ricostruito unicamente le modalità di intuizione del mondo empirico
caratteristiche dell’uomo occidentale della sua epoca, senza comprenderne la
fondamentale relatività. Ed egli non si limitò a questo, perché sul concetto di
spazio assoluto fondò anche una geometria universale: ma, di lì a poco, fecero la
loro comparsa geometrie non euclidee che dimostrarono la possibilità di
intendere l’estensione tridimensionale in più modi, tutti egualmente validi.
La matematica costruita sul concetto di spazio assoluto, rigido, atemporale,
quale quello kantiano, risulta, perciò, inadeguata ad abbracciare le innumerevoli
forme di esperienza dello spazio e della profondità proprie ad una vita calata nel
tempo, direzionata.
“Nella ricchezza sconfinata delle sue varietà, l’esperienza della profondità si sottrae a
ogni determinazione numerica. Tutta la lirica e la musica, tutta la pittura egiziana, cinese,
occidentale contraddicono apertamente l’ipotesi di una struttura rigorosamente matematica
dello spazio vissuto e visto, e solo perché nessun filosofo moderno ha capito qualcosa di
pittura essi tutti una tale confutazione l’hanno ignorata.” 224 .
Spengler, in questo modo, riesce a liberarsi del fantasma kantiano che minava,
con la presunta corrispondenza tra le forme universali dell’intuizione e le
224 TO, p.263.
97

scienze matematiche, ogni possibilità di legittimare la morfologia fisiognomica.
Le stesse esperienze quotidiane smentiscono una forma così astratta della
spazialità ma recuperano, di contro, la matrice originaria dell’interpretazione del
mondo, che è sempre fluida, vivente, direzionata. Spengler cerca di determinare
un rapporto tra la vita delle forme storiche e la fissità che le caratterizza in
quanto simboli. Ecco perché, proprio in questo punto, estende il rapporto tra
divenire e divenuto, tra destino e causalità alla coppia tempo–spazio. La
profondità spaziale è un tempo fissato, cristallizzato: il fluire del divenire
storico, della natura vivente si spazializza nella codificazione dei simboli di una
civiltà, delimitandosi in forme caduche.
“Finché, quasi sognando, facciamo vagare lo sguardo nelle lontananze, sentiamo
tutt’intorno un tessersi e un muoversi di forme. Ridestati d’un tratto, dinanzi a un occhio
freddo si presenta uno spazio inerte. Questo spazio è; per il fatto stesso di essere, è al di fuori
del tempo, è disgiunto dal tempo epperò dalla vita. In esso regna la durata, residuo di un
tempo morto.” 225 .
Dal tempo si genera lo spazio che, però, finisce per ucciderlo, cristallizzandolo.
Ciascuna forma storica trapassa sempre dalla esuberanza vitale del divenire alla
rigida astrattezza del divenuto, ma questo processo rientra nella stessa logica
della vita che, nello spazio, trova “il più originario e possente dei suoi
simboli” 226 .
Il destarsi di un’anima è parallelo al sorgere di una civiltà e alla comprensione
originaria del lontano e del tempo. Con essa sorge “il simbolo dell’estensione
che, a partire da tale punto, resterà il simbolo primo di questa vita”. 227 Esso
definirà lo stile di ogni sua creazione, la forma in cui potranno realizzarsi le
potenzialità della sua essenza. Il simbolo primo della civiltà occidentale è lo
spazio infinito, l’impulso verso la profondità; il mondo antico, invece, istituì il
225 TO, p.266.
226 TO, p.267.
227 TO, p.268.
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simbolo del corpo vicino, circoscritto, la civiltà egiziana quello della via, la
magica il simbolo della cripta cosmica. Queste intuizione originarie sono innate,
appartengono intrinsecamente all’anima di ciascuna civiltà; tuttavia, esse
debbono essere acquisite da ciascuno dei suoi membri come in una sorta di
anamnesi platonica: ogni individuo ripete in se stesso l’atto creativo con cui la
civiltà era sorta, ma è determinato, in questo, dallo sviluppo necessario
dell’animità in cui prende forma il suo mondo. Spengler, infatti, contesta più
volte la pretesa di far rinascere forme di civiltà ormai morte entro la struttura
vitale di un’altra anima: ogni civiltà ha solo un numero di possibilità definite e,
credere di poter ricreare simboli lontani, è solo un’illusione: essi verranno
semplicemente tradotti e sussunti, quindi ricreati, all’interno del nuovo universo
formale oppure, ogni tentativo del genere, sarà assolutamente privo di senso. 228
L’individuazione del simbolo elementare consente a Spengler di poggiare il suo
sguardo fisiognomico sul volto di una civiltà, sulla sua espressione, sul suo
modo di esistere, nonché di spiegarsi, per deduzione, la natura profonda di tutte
le altre forme di una civiltà, la logica del loro apparire.
“Ma lo stesso simbolo originario non si realizza. Esso agisce nel sentimento della
forma di ogni comunità, di ogni stadio ed epoca dettando lo stile di tutte le manifestazioni
della vita. Esso vive nelle forme politiche, nei miti e nei culti religiosi, negli ideali dell’etica,
nelle varietà della pittura, della musica e della poesia, nei concetti fondamentali di ogni
scienza senza essere rappresentato da nessuno di tutti questi elementi in particolare.” 229 .
Il simbolo elementare è inesauribilmente presente in ogni aspetto della vita
storica: nessuna espressione lo manifesta e lo rappresenta esaustivamente; è
quella dimensione ideale e formale di un’animità che mai si esaurisce, ma a cui
ogni parte del suo corpo concreto rimanda. In questo, Spengler ricalca ancora lo
228 Questa critica si applicherà particolarmente al tentativo del Rinascimento di far rivivere il senso del corpo e
della statua della civiltà antica. Spengler contesterà la stessa possibilità di questo processo e giudicherà con
molta severità il tentativo, peraltro non riuscito, di negare il simbolo elementare della civiltà occidentale di cui
pure il Rinascimento è figlio.
229 TO, p.269.
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schema degli ideali platonici e, come il filosofo greco, si reputa in grado di
assurgere, esotericamente, ad un sapere che intuisca e veda la natura di questo
elemento originario. Dal simbolo primo, quindi, discendono i simboli derivati, i
quali parlano la stessa lingua delle forme; anzi, le stesse parole che noi
adoperiamo per definirlo sono simboli che ad esso rimandano. Ma non sarà certo
il sapere concettuale a poter definire l’intuizione prima dello spazio che esso
rappresenta: il simbolo elementare parla, invece, al sentimento interno; anche il
solo suono della parola può destare più di quanto nessun concetto possa mai
determinare.
Spengler ha rinvenuto l’esistenza di otto civiltà superiori perché ciascuna di esse
promanava da un diverso simbolo primo:
“Vi è una molteplicità di simboli primi. L’esperienza della profondità grazie alla quale
un mondo diviene, grazie a cui la sensazione si estende a mondo, piena di una significazione
dell’anima che la ha e per essa soltanto […] in ogni civiltà superiore realizza, secondo una
profonda necessità, la possibilità della forma sulla quale riposa tutto l’essere di essa. Ogni
parola-base, come massa, sostanza, materia, cosa, corpo, estensione e le altre espressioni
verbali di tipo analogo, presenti a migliaia nelle lingue di altre civiltà, sono segni
incontrovertibili determinati dal destino che fissano, in nome di una data civiltà, quella fra le
infinite possibilità cosmiche che ha un significato per essa e che quindi è necessaria.” 230 .
La necessità del destino determina la forma secondo cui una civiltà deve
realizzare se stessa a partire dalla scelta iniziale, involontaria ed inconscia, del
simbolo primo. Dinanzi ad un’animità nascente si dischiudono un’infinità di
forme possibili: la determinazione della propria deve accordarsi con sua la
natura, deve avere un senso per essa. Spengler, qui, si colloca ad un livello del
pensiero dove è possibile dominare le altezze metafisiche della nascita di un
mondo, che egli contempla con trepidazione:
230 TO, p.276.
100

“La scelta del simbolo primo, che per chiunque sappia considerare la storia mondiale
in tal guisa, ha qualcosa di emozionante, nel momento in cui l’anima di una civiltà si desta ad
autocoscienza nel suo paesaggio, è ciò che tutto decide.” 231 .
Da questo momento, ogni civiltà può dare origine alla creazione del suo corpo
sensibile poiché essa possiede la regola del suo formarsi. Ma, prima di
esaminare la lingua delle forme che ne consegue, cerchiamo di capire come, in
concreto, Spengler legga i simboli primi delle due civiltà che più hanno attratto
la sua attenzione: quella antica e quella occidentale.
Abbiamo detto che lo spazio infinito è il simbolo elementare della civiltà
faustiana, cioè l’ideale da sempre cercato nel mondo circostante, che ha ispirato
ogni teoria e azione nel corso del suo sviluppo millenario. Spengler, tuttavia,
ritiene indicativa non solo la presenza di questo sentimento del mondo in ogni
manifestazione dell’anima occidentale, ma anche il fatto che lo stesso concetto
di spazio, per noi così scontato, sia del tutto assente nel mondo antico. Proprio il
silenzio del pensiero greco su quello che per noi costituisce un mistero, un
centro costante di domande è, per Spengler, prova della natura di questa civiltà.
“Come mai per il nostro sentimento più profondo il mondo altro non è se non lo spazio
cosmico, nato proprio dall’esperienza della profondità, spazio la cui sublime vacuità è
riconfermata dai sistemi di stelle fisse in essa sperduti? Questo sentimento di un mondo si
sarebbe potuto renderlo anche soltanto imaginabile a un pensatore antico?” 232 .
Per il greco, che pure guardò con chiarezza al suo mondo, il fenomeno primo fu
l’????, il “fondo materiale primordiale di tutte le cose tangibili” 233 . Quello che
per noi è lo spazio, costituiva per essi solo un non-essere, perché privo di quella
corporeità che, sola, in quel mondo, contava. Negando lo spazio, l’anima greca
231 TO, p.276.
232 TO, p.270.
233 TO, p.270.
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definì ciò che essa non poteva essere, ciò che non poteva corrispondere alla sua
natura.
“L’elemento materiale, il visibilmente delimitato, il tangibile, l’immediatamente
presente: ecco le caratteristiche che esauriscono l’antico concetto dell’estensione. L’universo
antico, il cosmos, l’insieme armoniosamente ordinato di tutte le cose vicine e perfettamente
visibili è tutto raccolto sotto la volta celeste corporea. Altro non esiste.” 234 .
Fatalmente, il problema dello spazio doveva riguardare, per la natura della sua
anima, solo la civiltà occidentale: il nostro impulso a tendere oltre i limiti del
vicino e del corporeo, a perderci nelle lontananze temporali e spaziali, a
superarci indefinitivamente risulterebbe non solo estraneo, ma anche terribile,
all’anima corporea e attaccata al presente dell’uomo antico. Non a caso,
Spengler ravvisa i segni della nascita della civiltà occidentale nel periodo gotico,
quando l’architettura, l’arte che più di ogni altra riesce a farsi espressione del
simbolo primo dell’estensione, si impose con le guglie delle cattedrali tutte
slanciate verso l’alto, verso distanze infinite. Mentre il tempio, che racchiude
interamente in sé l’anima antica, se ne stava maestoso, attaccato alla terra nella
sua solidità materiale.
Ma fu essenzialmente la musica, nella sua incorporeità, a farsi il veicolo
privilegiato dell’anima faustiana: come vedremo, essa prese forma in suoni
incorporei che, soli, poterono rappresentare la purezza dello spazio.
La civiltà antica ebbe altre categorie cosmiche, i suoi concetti fondamentali di
materia, sostanza, forma sono per noi incomprensibili, perché rimandano a un
mondo dalla diversa struttura, ormai morto e lontano: i nostri tentativi di tradurli
o di utilizzarli sono quasi sempre vani e insufficienti.
234 TO, p.271.
102

“I lineamenti fondamentali del pensiero, della vita, della coscienza del mondo sono
diversi quanto quelli del viso degli uomini.” 235 .
La differenza fisiognomica torna arricchita dal cammino percorso intorno
all’universo dei simboli e ci dischiude un mondo di linguaggi formali,
rispondenti ciascuno al proprio simbolo originario. Spengler, con energia
inesauribile, ci condurrà attraverso le più disparate manifestazioni di una civiltà
per dimostrarci come tutte promanano da un elemento ideale specifico che in
essi si realizza, vivendo. La logica organica è, infatti, sempre sullo sfondo e
determina le scansioni vitali di ogni animità e delle sue corrispondenti
espressioni.
3. Lingua delle forme simboliche: linguaggi specifici e loro
rispecchiarsi reciproco nell’anima di una civiltà.
Il tramonto dell’Occidente costituisce il tentativo grandioso di costruire una
morfologia della storia mondiale, in cui ogni aspetto della vita storica di una
civiltà venga ricondotto ad una griglia di nessi morfologici. Questo presupposto
della nuova concezione della storia di Spengler ci giunge ora chiarito dalla
scoperta del simbolo originario. A partire dalla scelta del simbolo primo, che
contrassegna la nascita di una nuova animità storica, viene definita la legge di
derivazione di ogni altra espressione che, inesauribilmente, ad esso rimanda. Per
Spengler, cioè, esiste sempre una parentela morfologica tra le diverse
manifestazioni di una stessa civiltà.
“Ciò che interessa a Spengler non è l’avvenimento storico isolato nella sua singolarità,
bensì la riconducibilità dell’avvenimento in una serie significativa, sostanziata di nessi
morfologici.” 236 .
235 TO, p.275.
103

Questo principio costituisce la struttura portante e la modalità di presentazione
delle molteplici comparazioni spengleriane: il loro scopo è, come sappiamo,
ravvisare non solo delle affinità di svolgimento storico tra le varie civiltà, ma
anche individualizzare ciascuna di esse mediante la ricerca interna dei loro nessi
formali. Il modo della loro espressione e manifestazione costituisce il linguaggio
specifico del loro apparire, cioè quella lingua speciale che assume un senso solo
all’interno di una data civiltà. Vi è, quindi, una tecnica delle forme storiche,
poiché tutte debbono essere come risucchiate in una serie di nessi, ovvero
animate da uno stesso spirito.
Naturalmente, nello svolgere la lingua delle forme delle civiltà superiori,
Spengler non manca, talvolta, di compiere forzature, di vedere a tutti i costi
analogie laddove potrebbero non esistere o non essere riconosciute da chi, da
una prospettiva specialistica, colloca in altro modo eventi e opere umane.
“A chi gli avesse obiettato che in questo modo le sue comparazioni non andavano a
risolversi in un guadagno cognitivo, bensì nel confermare tesi precostituite, Spengler avrebbe
risposto con un sorriso di scherno. Per lui le domande erano sempre – esse stesse – le risposte,
e l’esperienza scientifica non faceva altro che andare a dimostrare, una seconda volta, ciò che
era apparso chiaro in un unico momento di illuminazione.” 237 .
Le critiche specialistiche che, già dopo la pubblicazione del primo volume de Il
tramonto dell’Occidente, fioccarono nei confronti di Spengler, erano
probabilmente valide nei loro contenuti, ma assolutamente lontane dall’aver
colto realmente la prospettiva spengleriana che qui vediamo messa all’opera.
Prese singolarmente, esse davano filo da torcere, ma erano decisamente lontane
dal comprendere le modalità stesse del pensare di Spengler:
236 Domenico Conte, La morfologia storica comparata in Catene di civiltà, op. cit., p.342.
237 Ivi, p.346.
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“Spesso ci sono momenti in cui concepisco la mia anima come una grande fioritura.
Tutto trabocca. In pochi minuti arrivo a concepire pensieri su matematica, guerra, Rembrandt,
lirica, linguaggio, e poi sento che proprio queste idee nate così alla rinfusa erano le migliori.
Non rifletto, esse saltano fuori così, pronte. Ma un attimo più tardi, in un altro stato d’animo
favorevole, un po’ stanco, vorrei sempre avere accanto a me qualcuno con cui poter
continuare a pensare. Allora molte cose potrebbero essere ancora approfondite. Ed è proprio
questa sensazione, di essere solo tra fantasmi, a risvegliarmi. Lo spirito si chiude, e sono di
nuovo un essere umano sulla superficie della terra.” 238 .
Questo scorcio sull’interiorità di Spengler, uomo peraltro assai schivo e pieno di
paure, ci può dare la misura di come egli stesso concepisse il suo pensiero: non
una tecnica del comparare, ma un nascere spontaneo dei nessi morfologici come
in un giardino rigoglioso. Ma ogni pensiero geniale ha, tuttavia, bisogno di
essere meditato e mediato dal linguaggio della comunicazione scritta: ecco
allora spiegata la rigidità, spesso criticata, nel ricondurre, a tutti i costi, i simboli
più disparati alla natura del simbolo elementare. Si tratta, però, di un lavoro di
grande respiro che dimostra il profondo impegno di penetrare negli universi
formali delle varie civiltà.
“La civiltà è la sintesi dei grandi simboli del vivere, del sentire, dell’intendere: questa
è la lingua con la quale un’anima può esprimere ciò che sente.” 239 .
La lingua di una civiltà è costituita dai suoi simboli: ciò che un’animità sente lo
esprime nelle sue creazioni. Spengler sa bene che uno sguardo veramente
consapevole può essere gettato solo sulla civiltà occidentale: solo di essa egli
può capire la logica più profonda, perché ne è un membro consapevole e tardo.
Ma la sola indagine sulla lingua delle forme faustiane non bastava al suo scopo:
dimostrarne l’imminente tramonto, interpretare i segni della fine, era possibile
solo mediante un confronto. Le altre civiltà superiori, nonostante la rivoluzione
238 Oswald Spengler, A me stesso, Adelphi, Milano, 1993, p.57.
239 TO, p.276-277.
105

copernicana praticata sin dall’inizio dell’opera, sono, alla fine, funzionali a
comprendere il proprio tempo e la propria civiltà, a dimostrare come tutti gli
organismi viventi della storia seguano lo stesso decorso.
Finora, abbiamo gettato il nostro sguardo solo su alcuni simboli della civiltà
faustiana: sappiamo quale sia il suo simbolo originario, cioè il modo della sua
estensione, e che natura abbia l’anima occidentale. Ma come si esplica
ulteriormente questa lingua dei nessi formali? In che modo l’estensione
illimitata è alla base di ogni altra sua realtà oggettiva? E, poi, perché, chiamare
faustiana l’anima occidentale?
Il Faust goethiano costituisce l’essenza dell’uomo occidentale; la brama di
sapere, la tensione verso mete sempre nuove, la fame d’assoluto, la ricerca di
nuove esperienze interiori, la sperimentazione più audace: ecco la natura
dell’anima faustiana. Spengler adotta questa immagine dell’uomo e la applica a
tutte le creazioni che promanano da questo centro vivificante.
“Mefistofele: E chi potrebbe mai / indovinar la meta a cui pretendi.
Dev’essere, per certo, / sublime e temeraria!
Forse, poi che per aria / svolazzasti alla luna così vicino,
la nostalgia ti spinge / a indirizzar lassuso il tuo cammino?
Faust: Ma no! Questo terreno orbe consente / per grandi gesta spazio sufficiente.
Mirabolanti imprese / debbono pur riuscire!
Io sento in me la forza / anche al più audace agire […]
L’Azione è tutto: ed è la Gloria niente.
Mefistofele: Si troveran poeti, tuttavia, / per decantar alla ventura gente
la tua magnificenza, / e accender la follia con la follia.
Faust: E tu, di tutto ciò devi fare senza! / Che ne sai tu di quanto l’uomo agogna?
La tua natura di contraddittore, / tagliente e amara, via!, come potrebbe / quello saper, di cui
l’uomo, abbisogna?” 240 .
240 Johann Wolfgang Goethe, Faust – Seconda parte della tragedia in Opere, Sansoni, Firenze, 1970, p.1165.
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Faust è l’uomo mai pago di ciò che possiede: la sua immensa conoscenza, il
riconoscimento delle sue doti, la ricchezza non gli sono sufficienti. Nel tentativo
di penetrare i meandri più oscuri del cosmo, di estendere ancora il suo sapere,
egli si imbatte in Mefistofele, lo spirito diabolico e negatore, che appagherà
questa sete insaziabile. Dapprima l’amore nei confronti di Margherita, poi, nel
secondo Faust, le atmosfere sognanti, di immensa altezza metafisica, il potere,
l’azione, la bellezza; la tensione infinita, il sublime e il temerario vengono
realizzati da Mefistofele nell’attesa di prendere possesso di questa grande anima,
che ha suggellato col sangue questo scellerato patto.
Spengler, che considera l’opera goethiana lo specchio fedele della propria
civiltà, la utilizza per scavare a fondo nelle creazioni occidentali e per scorgerne
l’intimo nesso.
“Superare ogni ostacolo è piuttosto l’impulso tipico dell’anima occidentale. Attività,
decisione, autoaffermazione – ecco che cosa si esige contro le comode superficialità della
vita, contro le impressioni del momento, del vicino, del facile, la realizzazione di ciò che ha
una universalità e una durata, che collega spiritualmente passato e avvenire, è il contenuto di
ogni imperativo faustiano.” 241 .
Qui entra in azione lo Spengler psicologo, il conoscitore dell’anima nel senso
più alto. L’anima faustiana emerge, come abbiamo detto, con prepotenza sin
dall’inizio: col Gotico essa assume la forma dell’architettura delle cattedrali, il
senso della cui religiosità richiama quanto mai la tensione infinita di
quest’anima giovane, alle prese con la definizione di sé. I sogni di grandezza
divennero pietra attraverso le volte che dominavano gli interni.
241 TO, p.473.
107

“Solo l’anima faustiana ebbe bisogno di uno stile che attraversasse le mura e
conducesse nello spazio cosmico sconfinato, che facesse dell’interno e dell’esterno
dell’edificio due imagini corrispondenti di un unico sentimento del mondo.” 242 .
Ogni costruzione occidentale ha un volto, che può essere colto appieno dal
motivo della facciata e che interagisce col suo corpo articolato. Ma Spengler
sottolinea anche la rilevanza simbolica delle finestre, intese come strumenti di
un’esperienza della profondità:
“Qui si sente la volontà di penetrare in una sconfinatezza partendo da una interiorità,
volontà che fu anche quella che sotto tali volte informò la musica del contrappunto, la quale
per luogo proprio ebbe appunto quegli ambienti e il cui mondo incorporeo doveva sempre
rimanere quello del primo periodo gotico.” 243 .
Contemporaneamente alle cattedrali, nasce il cristianesimo germanico–nordico
che si distacca, quanto alla concezione profonda dei simboli, da quello magico,
cioè da quello di Gesù, di Paolo e dei Padri della Chiesa. Esso affonda le sue
radici nella religiosità nordica della Walhalla, nelle leggende del Graal, dove
dominano “regioni lontane, nebbiose, faustiane” 244 , dove il mondo degli déi si
libra al di sopra della realtà sensibile. Un’immensa solitudine promana da questi
luoghi, una nostalgia per la foresta, una sensazione di abbandono. Questa è la
radice della religiosità faustiana, che si esprime anche nel miracolo
dell’eucarestia in cui, chi vi partecipa, entra a far parte di una comunità mistica.
Ma, ciò che è più importante, da una concezione dello spazio come cosmo
illimitato nasce la necessità di raffigurarsi un dio unico. “La solitudine
dell’anima faustiana non si concilia con un dualismo di potenze cosmiche” 245 :
ecco perché, dalla religiosità occidentale scompare ben presto qualunque altra
242 TO, p.338.
243 TO, p.302.
244 TO, p.282.
245 TO, p.284.
108

entità ultraterrena diversa dal Dio infinito. La stessa gerarchia celeste o la figura
del diavolo perdono terreno: il divino si decorporizza. Da ciò deriva anche un
altro intimo nesso:
“Alla fine del diciassettesimo secolo la lingua delle forme della pittura non si mostra
più all’altezza di questa religiosità e la musica strumentale diviene l’unico, l’ultimo mezzo di
espressione religiosa.” 246 .
Qualunque forma d’arte possiede una grammatica e una sintassi del linguaggio
delle forme e si configura come un’espressione privilegiata del simbolo primo,
dato il diretto rapporto coi problemi della spazialità e della formazione.
“Il fenomeno del grande stile procede dunque dalla natura del macrocosmo, dal
simbolo primo di una grande civiltà: Se si sa intendere il senso della parola, la quale designa
non un dato formale bensì una storia della forma, non si possono confondere le espressioni
artistiche frammentarie e caotiche dell’umanità primitiva con la determinatezza sintetica di un
tale stile nato da una secolare evoluzione. Non l’arte in genere, ma solo l’arte delle grandi
civiltà, che crea le sue opere in una unità di espressione e di significazione, ha uno stile.” 247 .
Lo stile di una civiltà si riflette, quindi, meglio che mai, nello stile unitario e
significativo dell’arte: architettura, pittura, poesia e musica sono le forme che
l’anima faustiana privilegia per esprimersi. Spengler, infatti, elimina ogni
differenza tra arti dell’occhio e arti dell’orecchio in quanto colori e suoni sono
gli strumenti di un’unica forza creatrice. Quando parla di arte romanica, gotica,
rinascimentale, barocca, rococò o impressionista, non si riferisce a stili diversi,
ma a momenti e stadi dell’unico grande stile di una civiltà.
Col risveglio dell’anima faustiana, intorno al mille, “l’idea della forma era già
irrevocabilmente posta, restava solo da svilupparla” 248 . L’architettura, nel suo
246 TO, p.284.
247 TO, p.304.
248 TO, p.306.
109

apporto con materiali destinati alla conservazione e alla memoria storica, è la
madre di tutte le altre arti: dal suo linguaggio formale si originarono la pittura,
che fu essenzialmente arte del ritratto, e la musica, concepita come
un’architettura di suoni. La scultura, per quanto presente in Occidente, non
costituisce, per Spengler, un’arte tipicamente faustiana, ma solo il tentativo di
ripresa di una concezione del corpo antica.
La pittura occidentale promana dal simbolo dell’estensione infinita nella misura
in cui elabora una prospettiva, cioè una tecnica del lontano, e si appropria dei
colori delle lontananze atmosferiche, quali l’azzurro, il grigio e il verde: i
contorni si sfumano e irrompe nei quadri la necessità della distanza immateriale.
“Agisce, qui, una nostalgia faustiana. Si vuole essere soli con lo spazio infinito. […]
Nella lontananza lo spazio diviene tempo. L’orizzonte sta a significare il futuro.” 249
La lontananza, infatti, è anche una sensazione storica che trova modo di
esprimersi nella spazialità delle forme pittoriche. Lo “sfondo diviene un segno
dell’infinito” 250 e “l’orizzonte appare nel quadro come un grande simbolo dello
spazio cosmico sconfinato” 251 .
Ma ogni paesaggio occidentale fu, essenzialmente, anch’esso un ritratto:
l’attenzione dell’artista fu sempre diretta a cogliere gli elementi peculiari,
fisiognomici, caratteriali di ogni soggetto. In ogni caso, un’arte del ritratto
sarebbe stata inconcepibile nel mondo antico: esso è il volto di un’anima, un
viaggio nella sua individualità unica e irripetibile.
“Ma per noi il ritratto è musica. Lo sguardo, il giuoco della bocca, la posizione della
testa, le mani: tutto costituisce una ‘fuga’ delicatissima, che risuona a più voci verso
l’osservatore dotato di intelletto.” 252 .
249 TO, p.365.
250 TO, p.362.
251 TO, p.362.
252 TO, p.392.
110

Il ruolo del ritratto occidentale è maggiormente comprensibile se si intuisce che,
parallelamente ad esso, sorge, anche linguisticamente, il soggetto come centro
d’azione e di pensiero: quest’arte diviene, perciò, uno spiraglio sull’interiorità.
“Il ritratto del periodo migliore del Barocco tratta il corpo come qualcosa di in sé
irreale, come spoglia espressiva di un Io dominatore dello spazio, usando a tal fine tutti i
mezzi del contrappunto pittorico che abbiamo riconosciuto essere elementi rappresentativi di
lontananze tanto spaziali che storiche, con la prospettiva, l’atmosfera immersa nel bruno, la
pennellata mossa, le tonalità sfumate dei colori e delle luci. Tutto il quadro ha un unico tema:
l’anima.” 253 .
La musica costituisce una delle possibilità più autentiche dell’anima occidentale,
che essa giunge a perfezionare solo nel Barocco, quando anche l’architettura e la
pittura si fanno musicali, iniziando una nuova fase dell’arte faustiana. Essa
nasce dal simbolo dell’estensione infinita e si arricchisce del contributo del
ritmo.
La musica gotica fu “un’architettura delle voci umane” 254 in quanto si sviluppò
nella tecnica del contrappunto seguendo il sistema degli archi delle cattedrali.
Accanto alla musica sacra si originò anche una musica profana, quella dei
trovatori, le cui canzoni parlavano al cuore. Provocatoriamente, Spengler
sostiene che se “il duomo è musica, nel castello si fa della musica” 255 : nel primo
caso, tutto è teoria, intelletto; nel secondo, improvvisazione, sentimento. Ma col
Barocco, la supremazia della voce umana ebbe fine: la musica strumentale
divenne l’arte più importante, soppiantando il ruolo dell’architettura.
253 TO, p.397.
254 TO, p.346.
255 TO, p.346.
111

“Il grande problema che ora si poneva era quello di estendere il corpo sonoro
all’infinito, anzi di dissolverlo in uno spazio infinito di suoni.” 256 .
Si ha una rinascita del contrappunto e delle fughe, il cui scopo diviene la
creazione di una prospettiva dello spazio sonoro. Compaiono le sinfonie, le
sonate: la musica si fa incorporea, realizzando l’ansia di superamento della
finitezza e del vicino tipica dell’anima faustiana. Tramite gli archi, si stabilisce
un accesso all’interiorità più profonda.
“Qui, nella musica da camera, la musica occidentale in genere giunge al suo apice. Il
simbolo primo dello spazio infinito ha qui conseguito una espressione perfetta.” 257 .
Da questo momento, ogni forma d’arte tende a decorporizzarsi, a rendersi
musicale, a dissolvere ogni plasticità: la musica si fa assoluta, coinvolgendo
tutte le altre espressioni.
Ma Spengler non si limita a confermare le sue tesi precostituite: la sua immensa
cultura artistica, unita alla sua dote nel cercare analogie prima impensabili, lo
spingono a concepire l’arte stessa come un organismo vivente che, dopo aver
percorso determinate fasi, trova la sua morte. Egli, quindi, legge nel suo presente
la fine dell’arte: anch’essa, come le civiltà superiori di cui fa parte, muore
quando ha realizzato le sue possibilità. Ora, la pittura occidentale trova la sua
fine nell’impressionismo, che si configura come la sublimazione del suo stile, la
realizzazione ultima del suo senso del mondo, ma anche come la trasformazione
dell’arte in tecnica. La musica, d’altro canto, si spegne col Tristano che, per
Spengler, è ormai privo di forza interna nonostante la sua sublimità e grandezza:
“Ciò che caratterizza la forza creatrice in declino è l’informe e lo sproporzionato di cui
l’artista abbisogna per produrre ancora qualcosa di completo e di intero.” 258 .
256 TO, p.348.
257 TO, p.349.
258 TO, p.439.
112

Ogni espressione di una civiltà ha il proprio posto: non tutte le arti sono sempre
ugualmente possibili. Quando una di esse ha realizzato le sue potenzialità, ogni
creazione diventa priva di quell’unità simbolica che la rendeva necessaria. Ecco
perché Spengler ritiene impossibile, nonché infruttuoso, il tentativo di far
rinascere un’arte ormai morta, cioè priva di quella forza simbolica che solo, in
un altro tempo e in un altro contesto, essa possedeva. Questo è il caso del
Rinascimento italiano, che volle, programmaticamente, riportare in vita la
scultura plastica antica. Nato da una rivolta contro lo spirito faustiano, da una
resistenza contro il suo destino, esso, però, non fu altro che la logica
conseguenza del Gotico.
“La Rinascenza si appropriò di alcune di queste arti dell’imagine e della parola e tutto
finì lì. Essa non modificò in nulla la mentalità dell’Europa occidentale, il sentimento della
vita. Essa giunse fino al dominio del costume e del gesto, ma non fino alle radici
dell’esistenza.” 259 .
Il Rinascimento non fu affatto un reale rinnovamento del sentimento antico del
mondo: gli artisti di quest’epoca, di fatto, non si ispirarono al simbolo dello
spazio circoscritto, corporeo, ma continuarono la tradizione faustiana della
prospettiva, dandogli però un accento meridionale più solare, di contro allo stile
più nebbioso e angosciato del Gotico del nord.
Ma come si estrinseca ulteriormente il simbolo originario dell’anima faustiana?
Nonostante la grande attenzione di Spengler per i problemi dell’arte, che pure
occupano centinaia di pagine de Il tramonto dell’Occidente, la relativizzazione
delle stesse scienze esatte costituisce il presupposto per parlare anche di una
matematica e di una fisica faustiane. Il simbolo originario dell’estensione
259 TO, p.352.
113

infinita trova modo di realizzarsi in una matematica funzionale e in una fisica
dello spazio puro.
Accostata alla arti plastiche e alla musica, la matematica è una scienza rigorosa
che ha fatto da specchio ad ogni metafisica. Per Spengler non esiste un numero
in sé: ogni numero è simbolo della civiltà da cui deriva. Come tutti gli
organismi, anche la matematica ha stili e periodi. Per la matematica occidentale
l’estensione diviene “lo spazio nel quale le cose appaiono come sue funzioni” 260 .
Qui il numero stesso si distacca da ogni significazione corporea e tangibile, non
è più una grandezza: i numeri negativi e irrazionali, il calcolo infinitesimale
divengono segni dell’incommensurabile che agisce nell’anima occidentale. Vi è,
quindi, una parentela tra pensiero matematico e visione del mondo, che spesso si
esplica in una profonda visione religiosa. A confermare questo nesso, Spengler
cita, tra gli altri, l’esempio di Cartesio, il quale portò a compimento questa
nuova idea del numero, liberandosi della geometria euclidea, fondata sul
principio della grandezza corporea e misurabile, e istituendo la geometria
analitica. “Con il che l’analisi dell’infinito era un fatto compiuto” 261 .
“Al posto dell’elemento sensibile della superficie e del segmento concreto –
espressione specifica del senso antico del limite – appare ora l’elemento spaziale astratto,
opposto a quello antico, costituito dal punto, che a partire da tale momento viene
caratterizzato mediante un gruppo di numeri puri coordinati. Cartesio ha distrutto il concetto
di grandezza, di dimensione sensibile, trasmesso dagli antichi testi, sostituendolo col valore
relazionale variabile del luogo nello spazio. Non ci si è accorti che ciò equivaleva ad una
eliminazione della geometria in generale.” 262 .
Il numero cartesiano fu il frutto dell’impulso faustiano verso l’illimitato e
divenne pura relazione, funzione.
260 TO, p.107.
261 TO, p,124.
262 TO, p.124.
114

Lo stesso processo di scorporizzazione avviene anche nella fisica occidentale, il
cui nucleo centrale è il concetto di forza, corrispettivo di quello di volontà. Essa
fu una fisica del lontano, una dinamica dello spazio illimitato. Basta confrontare
la concezione degli atomi della civiltà antica e di quella occidentale per
accorgersi di come essi non siano più dei corpuscoli, ma dei centri di forza.
L’atomo non è più corpo tra corpi, ma centro di una spazio infinito: questa è la
stessa concezione che abbiamo vista applicata anche nell’arte del ritratto, a
dimostrazione di come, nell’universo simbolico spengleriano, ogni espressione
rimandi incessantemente all’altra e la arricchisca di nuove possibili sfumature.
“Gli atomi della fisica occidentale rassomigliano alle figure e ai temi della musica. La
loro essenza consiste in vibrazioni e in radiazioni: il loro rapporto coi processi naturali è
quello del motivo con la frase musicale.” 263 .
Spengler arriva a parlare di concezione dinamico–contrappuntistica degli atomi,
intesi come centri di forza astratti e aggressivi che trovano la loro immagine
corrispondente sia nella concezione degli Stati dinastici, sia nella morale tipica
dell’uomo faustiano, fondata sulla volontà di potenza.
Se pensiamo all’ambizione politica degli imperatori o dei papi nel Medioevo,
oppure alle lotte sanguinose tra gli Stati nazionali dell’età moderna,
comprenderemo come il riconoscere una frontiera, un limite per l’agire politico,
sarebbe equivalso, per essi, a una disfatta, a un segno di intrinseca debolezza.
“Qui lo spazio infinito si manifesta nell’ambito della vita politica attiva in tutta la sua
indescrivibile potenza, e alle figure degli Ottoni, di Corrado II, di Enrico VI e di Federico II si
potrebbero aggiungere i Normanni conquistatori della Russia, della Groenlandia,
dell’Inghilterra, della Sicilia e quasi della stessa Costantinopoli, insieme ai grandi papi, a
263 TO, p.578.
115

Gregorio VII e a Innocenzo III, che vollero rendere coestensiva la sfera visibile della loro
potenza col mondo allora conosciuto.” 264 .
Tutte le espressioni dell’anima faustiana sono votate all’espansione, sia sul
piano politico–economico che sul piano spirituale. La sua ultima
manifestazione, in tal senso, è stata l’imperialismo, in cui essa “ha superato ogni
limite geografico e materiale, senza nessuno scopo pratico, solo per amore di un
simbolo” 265 . L’imperialismo ha trasformato la terra in un unico sistema
economico. Esso è la diretta conseguenza dell’ansia dell’Io conoscente di
assoggettare il mondo, di quella volontà di potenza che Spengler ravvisa in ogni
espressione dell’anima faustiana. Grandi uomini come Ottone il Grande o come
Napoleone ebbero per oggetto reale delle loro ambizioni proprio l’illimitato.
La struttura della morale occidentale viene definita da Spengler come
intrinsecamente socialista; il simbolo primo qui si realizza nel “sentimento del
mondo per cui un’opinione propria viene affermata in nome di tutti” 266 , anche
quando non ne siamo consapevoli. Tutti, perciò, siamo socialisti, in
un’accezione certamente non economica. In Occidente vige un monoteismo
etico, cioè la tensione costante a universalizzare i valori. Ecco perché,
“l’imperativo morale, inteso come forma della morale, è faustiano e soltanto
faustiano” 267 : il centro della nostra morale è l’Io che agisce, laddove l’azione è
satura di energia di direzione.
“All’uomo faustiano è impossibile non diciamo negare, ma anche soltanto
disconoscere questa forma fondamentale della sua esistenza. Ogni rivolta contro di essa va a
presupporla. Chi combatte il ‘progetto’, considera questa sua azione come un progresso.” 268 .
264 TO, p.301.
265 TO, p.506.
266 TO, p.510.
267 TO, p.511.
268 TO, p.512.
116

La volontà di potenza, che dirige ogni agire e tendere dell’uomo, non è passibile
di essere superata: la sua forza consiste nel fatto che ogni tentativo di negarla
verrà condotto a partire dalla sua stessa logica. Ogni superamento sarà sempre
un tendere, uno Streben, che la riconfermerà non più sul piano dei contenuti, ma
su quello più profondo, della forma stessa dell’agire.
“L’istinto faustiano, attivo, volitivo, con la tendenza verticale delle sue cattedrali
gotiche e con la sua trasformazione significativa del feci in ego habeo factum, col suo
orientamento verso il lontano e il futuro, esige la libertà, cioè uno spazio per la propria
attività, e solo per essa. […] La volontà di potenza riaffermata anche nel campo etico, lo zelo
nell’erigere la propria morale a verità universale, la volontà di imporla all’umanità, di
trasformare, di superare, di distruggere tutto ciò che è diverso, fa parte della nostra stessa
natura.” 269 .
Pensare di trasformare il nostro senso del mondo è impossibile: non ci si può
convertire a nessun altra morale, non la si può scegliere, perché vi siamo
immersi completamente. Spengler ravvisa nella produzione dei miti e nella
nostra concezione del dramma, l’ulteriore conferma di un’anima che si realizza
secondo il carattere del Faust goethiano: entrambe vedono protagonista l’eroe
solitario, amante della sperimentazione e bramoso d’illimitato, entrambe si
avvalgono di un’indagine psicologica che scava nell’interiorità per sviscerare
intenzioni e angosce profonde. Anche qui la natura del simbolo originario viene
alla luce prepotentemente.
La grandiosa visione d’insieme sulle manifestazioni dell’anima occidentale è
accompagnata dall’amara e lucida constatazione che ciascuno dei linguaggi
formali fin qui designati, sarà soggetto alla dissoluzione: la civilizzazione
incombe su ogni produzione più autentica per disanimarla e privarla della sua
forza poietica. Le produzioni dei tempi tardi saranno sì le ultime e sublimi
creazioni del sentimento faustiano, ma porteranno già in sé l’ombra del tramonto
269 TO, p.513-514.
117

imminente. 270 Tra queste, Spengler annovera il danaro che, con la sua
astrattezza, divincolerà definitivamente l’uomo dai valori concreti della terra,
divenendo la legge fondamentale delle metropoli disumanizzate: esso sarà la
creazione più fedele dello spirito faustiano, poiché realizzerà, su scala mondiale,
il superamento di ogni finitezza e corporeità.
Il medesimo procedimento adoperato per discendere dal simbolo primo
dell’estensione illimitata ai simboli derivati dell’anima occidentale, viene
applicato da Spengler anche alle altre civiltà superiori, raggiungendo, però,
forme degne di considerazione e, talvolta, sorprendenti, nell’analisi della civiltà
antica e di quella magica 271 . I simboli primi che si realizzano in esse sono,
rispettivamente, il corpo vicino, tangibile e presente e la caverna, intesa come
luogo magico di raccoglimento e di presenza del divino.
La civiltà antica viene anche definita apollinea e, già nella delineazione delle
forme artistiche, la vediamo realizzarsi essenzialmente nella scultura
raffigurante il corpo umano: quest’arte consente la lavorazione di materiali
tangibili finalizzati alla creazione di una figura finita, dalle proporzioni
simmetriche, di un corpo fra corpi che esclude ogni introspezione, ogni
manifestazione dell’anima e ogni inquietudine.
Spengler tratta con molta sufficienza le creazioni artistiche antiche e accusa
l’Occidente di essersi perso e smentito fin troppo nell’ammirazione
incondizionata di un passato che, non solo è irrecuperabile, ma che è anche
contrario alla natura autentica della nostra animità. Spengler, infatti, lavora
molto sulla contrapposizione mondo occidentale–mondo antico e, talvolta,
270 Spengler dedica molte pagine del secondo volume de Il tramonto dell’Occidente ai fenomeni della
civilizzazione, che gettano un’ombra inquietante sul nostro secolo. Questo aspetto della filosofia spengleriana
costituisce il nucleo del suo pensiero che più ha destato interesse e scalpore; tuttavia, ogni presupposto per la sua
comprensione giace nella struttura profonda degli universi formali, nella capacità di visione e di previsione delle
forme organiche di una civiltà, quale le abbiamo fin qui delineate. Le problematiche della civilizzazione e del
destino dell’occidente saranno prese in esame più avanti, nella seconda sezione.
271 La varietà sorprendente dei nessi morfologici rinvenuti da Spengler tra le manifestazioni di queste due civiltà
mi costringe a non seguirle con lo stesso procedimento analitico adoperato per la civiltà occidentale. La mia
intenzione è solo quella di dimostrare come egli si sia adoperato, con un immane sforzo di sintesi, a mettere in
atto la sua immagine delle civiltà come organismo il cui corpo sensibile sia la realizzazione delle possibilità
peculiari in essa contenute, originando dei linguaggi formali assolutamente conchiusi.
118

l’infittisce, accostandovi l’universo della civiltà araba: in tal modo può calcare
l’accento sull’individualità dei tre linguaggi formali, sulle loro fisionomie.
“Si metta in confronto lo spirito faustiano delle navate quasi senza pareti, a volta
slanciata; inondate da una luce iridescente, con l’effetto che fanno le strutture a cupola arabe,
cioè cristiano-antiche e bizantine. Anche la cupola che sembra librarsi libera sulla basilica o
sull’ottagono significa un superamento del principio antico del peso naturale, quale si esprime
nel rapporto fra colonne e architrave. Anche qui la costruzione smentisce tutto ciò che è
corporeo.” 272 .
Alla cattedrale gotica corrisponde la maestosa creazione del tempio greco, pura
corporeità tangibile, e la cupola dorata delle basiliche o delle moschee magiche;
alla fisica dinamica del mondo faustiano la statica di quello apollineo e
l’alchimia di quello magico:
“La natura dell’uomo antico ebbe il suo massimo simbolo artistico nella statua nuda;
da essa si sviluppò coerentemente una statica dei corpi, una fisica del vicino. Alla civiltà araba
appartiene l’arabesco e la volta a cripta della moschea, e da tale sentimento del mondo nacque
l’alchimia, con la rappresentazione di sostanze dall’azione misteriosa. […] Infine la natura
dell’uomo faustiano ha prodotto una dinamica dello spazio illimitato, una fisica del
lontano.” 273 .
Per quanto riguarda la concezione degli atomi, per gli antichi, essi erano delle
“forme in miniatura” 274 , per noi occidentali, invece, delle “quantità di
energia” 275 . Da ciò derivavano anche le forme politiche delle due civiltà: agli
Stati dinastici sempre in espansione dell’Occidente, Spengler contrappone le
polis greche e il concetto di nazione magica fondato sul consensus religioso; al
dio unico e infinito le divinità corporee e isolate del politeismo apollineo.
272 TO, p.303.
273 TO, p.574.
274 TO, p.578.
275 TO, p.578.
119

“Abbiamo queste cittadine, quasi atomi politici, sparse in lunghe file su isole e coste,
ognuna tenentesi gelosamente a sé eppure eternamente bisognosa di appoggio, conchiusa e
capricciosa fino alla caricatura, oggi all’apogeo e domani schiantata; e, come contrapposto, gli
Stati dinastici del diciassettesimo e del diciottesimo secolo, campi politici di forza diretti e
controllati dai grandi centri energetici dei gabinetti e delle grandi diplomazie secondo piani
lungimiranti.” 276 .
Le divinità greche erano il frutto del sentimento del corpo finito, conchiuso: essi
costituivano “una somma di realtà corporee” 277 , puri somata, sempre prossimi,
sempre vicini. Il Dio magico è la realtà suprema che si effonde nelle anime di
tutti i credenti, è la divinità che, alchemicamente, riassorbe in sé le molteplici
divinità antiche, smaterializzandole. Il Dio faustiano è volontà infinita che si
perde nelle lontananze siderali
O ancora, Spengler sottolinea l’antitesi tra geometria euclidea (fondata sulle
grandezze numeriche e sulle forme tangibili) e la geometria analitica, la cui
nascita passa attraverso le forme magiche dell’algebra.
Gli stessi popoli sono creazioni delle civiltà: vi sono popoli apollinei, magici o
faustiani. “Non sono stati gli Arabi a creare la civiltà araba” 278 , ad esempio: la
civiltà magica ha creato nel suo seno vari popoli tra cui quello ebraico, quello
cristiano e quello islamico, ma tutti rispondenti alla lingua delle sue forme.
Il nostro excursus potrebbe durare ancora molto: ci si può perdere nel fascino
delle comparazioni spengleriane e rimanere affascinati dall’aggressiva
convinzione delle sue antitesi. Questo filosofo talvolta venerato e talvolta odiato,
dal tono imperioso e sicuro di sé, ci ammalia e ci provoca, come aveva fatto coi
suoi contemporanei. La certezza con cui delinea gli universi formali delle civiltà
superiori, l’insistenza con cui inserisce ciascun aspetto formale in griglie di nessi
276 TO, p.579-580.
277 TO, p.607.
278 TO, p.899.
120

simbolici può, però, destare sospetti più che per i risultati, per le modalità del
suo operare.
“Nel gesto grandiosamente sovrano della spengleriana scelta concettuale, che
maneggia le civiltà come pietruzze colorate e mobilita, come dicevano i nazisti, destino,
cosmo, sangue, spirito in perfetta indifferenza – in tutto ciò si esprime il motivo del dominio.
[…] Egli costringe la storia negli scomparti del suo grande piano, come Hitler spostava le
minoranze da un paese all’altro. Alla fine i conti tornano. Tutto è messo al suo posto.” 279 .
Sono, queste, parole molto forti che Adorno, da uomo di sinistra che ha visto
l’orrendo spettacolo della seconda guerra mondiale e del nazismo, riferisce alla
logica dei linguaggi formali di Spengler. 280 Questa critica è interessante per due
ordini di motivi: innanzitutto, essa non giunge da uno specialista e non si
riferisce ai contenuti degli accostamenti morfologici, ma si appunta sulla
struttura del pensiero di Spengler, identificandola, come abbiamo visto, con
un’ottica di dominio. In secondo luogo, essa ci consente di immaginare la
risposta che lo stesso Spengler avrebbe potuto dare qualora avesse ascoltato
questa critica così forte.
Per Adorno, la morfologia di Spengler si colloca su una prospettiva di
grandiosità delle categorie utilizzate, tale da apparire superiore ad ogni scienza
specialistica. Ma se questo può essere considerato un punto di forza, al tempo
stesso, ne costituisce anche la debolezza, poiché essa non si è mai posta il
problema del rapporto tra concetto e singolarità. Il fatto assurge a presupposto di
uno schematismo che tutto ordina mediante uno sguardo onnicomprensivo:
279
Theodor Wiesengrund Adorno, Spengler dopo il tramonto in Prismi – Saggi sulla critica della cultura,
Einaudi, Torino, 1972, p.50.
280
Qui non si tratta di accostare o meno Spengler al nazismo - non è certamente questo che ora è in questione -
ma di giudicare da tutti i possibili punti di vista l’operato di questo filosofo che, comunque, è il frutto di uno
spirito conservatore. Tuttavia, si può brevemente dire che la visione di un imminente tramonto della civiltà
occidentale non fu certamente apprezzata dal regime nazista, che vedeva nel Terzo Reich una sorta di palingenesi
dell’Europa a opera del popolo tedesco. Spengler fu sì un simpatizzante, ma solo per un breve periodo: più tardi i
suoi rapporti col nazismo degenerarono.
121

“In nessun luogo gli si palesa un particolare, sul conto del quale non l’abbiano già
rassicurato le tavole sinottiche della sua morfologia comparata delle civiltà. Fisiognomica egli
chiama orgogliosamente il suo metodo. In realtà il suo pensiero fisionomico è legato al
carattere di totalità delle categorie. Ogni elemento singolo, anche periferico, diviene la cifra di
quello grande, della civiltà, giacché il mondo è pensato così compatto, che non resta spazio
per cosa alcuna che per sua natura non si identifichi senza tensioni con quella grande
costellazione.” 281 .
La totalità è indizio di una logica di sistemazione del tutto che soffoca ogni
libertà, ogni svolgimento individuale e concreto: la dipendenza del particolare
dal tutto “fa sparire nella sua astratta estensione le dipendenze concrete e
nettamente differenziate che decidono della vita degli uomini” 282 . Tutto è
riportato alle fasi necessarie che il destino assegna a ciascun organismo: non c’è
spazio per nessuna riscossa umana.
Per Adorno, Spengler si è, in tal modo, collocato alle spalle del potere per
fornirgli una giustificazione metafisica, per riportare la condizione dell’uomo
della civilizzazione a una necessità destinale e immutabile. Ma, al di là della
durezza di questo giudizio, quali sono le acquisizioni importanti per il nostro
discorso? E quali le possibili risposte di Spengler?
Questo saggio fa suo un atteggiamento critico non specialistico in grado di
metterci in guardia dal considerare sempre innocenti le grandi categorizzazioni
spengleriane; ma non considera il fatto che Spengler si è programmaticamente
sforzato di non applicare alla storia un sapere concettuale: in lui non agisce lo
schematismo kantiano o la totalità hegeliana, bensì una logica della storia
sussunta dalla natura vivente, sorta in contrapposizione ad un sapere, quale
quello scientifico, che nel conoscere annientava e disanimava l’organismo
vivente delle civiltà, sottoponendole alla rigida causalità. Ma è poi così chiuso e
281 Theodor Wiesengrund Adorno, Spengler dopo il tramonto, op. cit., p.51.
282 Ibid.
122

apodittico l’atteggiamento di Spengler? O non traspare, invece, una grande
apertura di domanda nell’intero corpo della sua filosofia?
Per Conte, “nelle domande di Spengler c’è sempre qualcosa di fatale e di
aperto” 283 . Al di là delle risposte così sicure e ostentate, c’è la logica di un
domandare che è tipicamente filosofica e che ci consente di aprire ai nostri occhi
prospettive inaspettate. Che cosa sono gli aforismi di Urfragen se non la messa
in discussione degli stessi presupposti de Il tramonto dell’Occidente? Essi
riaprono questioni profonde e mai chiuse di un pensiero che si pone, altrove,
come sicuro e totalizzante. I dubbi e le paure che trapelano da A me stesso ne
sono un’ulteriore conferma. Ma, al di là degli sfoghi personali, poteva il filosofo
dell’avvenire, l’ultimo rappresentante consapevole dell’éra faustiana, usare un
tono e un atteggiamento non tipicamente rispondente alla natura dell’anima del
suo mondo? La grandezza di Spengler consiste nell’aver saputo creare delle
categorie a cui egli non teme di appartenere: egli è anzi “lo strumento sensibile,
preciso, piazzato nel bel mezzo del paesaggio tormentato della Germania dei
primi decenni del secolo, che registra le scosse, i sommovimenti, le stasi” 284 della
sua civiltà.
“Uno stesso sentimento del mondo ci parla da tutte queste forme. Esse sono nate con
l’anima faustiana e si sono invecchiate insieme a essa. Esse ne rappresentano la civiltà quale
spettacolo storico nel mondo del tempo e della luce diurna. L’unificazione dei singoli dominî
scientifici in un tutto avrà i tratti della grande arte del contrappunto. Una musica
infinitesimale dello spazio cosmico illimitato: questa è sempre stata la nostalgia profonda di
quell’anima. […] Ricondotta alla formula di una causalità dinamico-imperativa, formula che è
una necessità logica per il modo faustiano di capire il mondo, sviluppata in una scienza
tirannica, demiurgica, trasformatrice della terra, essa è un testamento fissato in forme di una
possente trascendenza, il quale forse non verrà mai dissuggellato. 285 ”
283 Domenico Conte, Catene di civiltà, op. cit., p.12.
284 Ivi, p.13.
285 TO, p.649.
123

Si tratta del testamento che ci parla attraverso le parole di Spengler e che, con
lucida consapevolezza, egli ci invita ad accettare come parte integrante del
nostro essere.
Capitolo quarto
124

Le due nature
Perché mai parlare di due nature in riferimento alla filosofia spengleriana?
Questo titolo, alquanto spiazzante, è il frutto di uno slittamento di significato
che il concetto di natura assume ne Il tramonto dell’Occidente. Esso può
essere utile a rintracciare un filo costante, ma spesso nascosto, del pensiero di
Spengler, ovvero quello di uno sfondo metafisico che è sotteso alla
morfologia della storia mondiale. Questo percorso, più che acquisire nuovi
elementi, sarà una analisi dei temi già trattati, ma da un diverso punto di
vista, attento a cogliere i presupposti metafisici del pensiero storico di
Spengler.
1. Natura come simbolo di una civiltà.
La concezione spengleriana del rapporto storia–natura riemerge arricchita dal
percorso appena compiuto intorno alla intrinseca portata simbolica delle civiltà.
La capacità di Spengler di ricondurre ogni manifestazione storica ad espressione
simbolica, ha portato a riconoscere un profondo relativismo: la scelta del
simbolo primo, infatti, condiziona formativamente ogni simbolo che da esso
deriva. Gli stessi concetti di anima, di morale, di matematica o di arte sono stati
sottoposti a questa azione plasmatrice.
Il concetto di natura era stato determinato da Spengler in antitesi a quello di
storia: esso, più che una dimensione ontologica, una struttura dell’essere della
realtà, era stato definito una forma estrema di interpretazione del mondo, la cui
simmetrica possibilità era, invece, l’interpretazione storica 286 . Questa
286 A questo proposito, si confronti il primo paragrafo del capitolo primo, in cui natura e storia vengono profilate
come le estreme possibilità di interpretazione della realtà, come un ampio ventaglio di interpretazioni possibili
all’interno del quale ciascuno poteva collocarsi. Già qui si è visto Spengler porsi il problema di negare un livello
realistico di questa differenziazione e ricondurre tutto alla prospettiva, all’atteggiamento dell’individuo stesso.
125

anticipazione consente, ora, di estendere il relativismo delle forme simboliche
anche a questa fondamentale dimensione del reale:
“Ogni civiltà ha il suo peculiare modo di vedere, di conoscere il mondo come natura
o, il che è lo stesso, essa ha una sua natura che un uomo di un’altra civiltà non può possedere
nella stessa forma.” 287 .
Non solo la storia (il modo secondo cui la temporalità è percepita) viene
assoggettata alla lingua delle forme, ma l’intera natura diventa un prodotto
simbolico.
Se, all’inizio, Spengler ha ricavato lo stesso concetto di una morfologia
fisiognomica dalla peculiare considerazione del rapporto storia-natura, ora,
entrambe vengono risucchiate nelle catene dei nessi formali. Questo slittamento
permette di sottolineare come tutti i fondamentali strumenti teorici de Il
tramonto dell’Occidente siano, al tempo stesso, fuori e dentro la civiltà faustiana
di cui Spengler è membro. La concezione della natura vivente e il problema del
meccanicismo a partire dai quali egli ha costruito questo immenso percorso,
sono anch’essi ricondotti a creazioni peculiari e relative del mondo in cui sono
stati formulati. Tutto il suo discorso, quindi, si sprigiona da una prospettiva
quanto mai unilaterale, che viene a gettare la propria ombra sui modi di sentire
la storia e di concepire la natura delle altre civiltà superiori. La consapevolezza
che più volte Spengler ha mostrato di questo limite, o meglio di questo
presupposto irrinunciabile del sapere storico, lo ha condotto a strutturare un
pensiero che si muove secondo questa doppia prospettiva, che possiamo definire
storica e metafisica al tempo stesso.
Dal punto di vista storico, quindi, la natura si presenta anch’essa come un
simbolo di una data civiltà, per cui avremo una natura faustiana, una natura
apollinea, una natura magica, indù e così via. Rispetto alla pressoché totale
287 TO, p.206.
126

impossibilità di conoscere il modo in cui civiltà estranee sentono il tempo e il
divenire, Spengler ritiene plausibile, anche se “difficilissimo, farsi una
rappresentazione esatta della natura, del mondo casualmente ordinato di altri” 288 .
Infatti, qui siamo di fronte alla unificazione delle leggi del divenuto in un
sistema comunicabile e suscettibile di conoscenza. Spengler, cioè, sta
presupponendo la fissità del mondo del divenuto e la sua riconducibilità ad una
forma codificata che nessun sapere del divenire può mai rischiare di
raggiungere, se non cristallizzandosi e rinunciando alla sua essenza.
La concezione della natura discende direttamente dall’interpretazione dello
spazio propria del simbolo elementare. Essa è uno dei simboli fondamentali di
cui consta il macrocosmo, anzi quello con cui facilmente può venire identificato
nel suo contrapporsi all’essere desto dell’uomo, nel suo essere terreno di azione
e di conoscenza e, quindi, di ulteriore formazione.
“Risvegliandomi al giorno o alla vita, al mattino e con la nascita, nasce il mio spazio.
[…] L’estraneo, infatti, esiste in sé (il cosmo), ma sarà soltanto all’apparire dell’essere desto
che verrà plasticamente modellato in categorie spaziali.” 289 .
Il microcosmo, nel destarsi al mondo, lo ordina e lo codifica donandogli un
senso nel quale possa ritrovare se stesso, il suo essere.
“L’immagine del mondo che noi creiamo, siamo noi stessi. Il che rivela insieme, e
un’interiore sua necessità, e che noi non possiamo scoprire nulla che non sia in noi. Nello
stesso istante in cui parliamo del mondo, parliamo proprio di noi. Non soltanto, ma pochi
inoltre sono quelli che riescono a descrivere questa immagine, e alla maggior parte di essi
(che vengono considerati profondi) necessita la creazione di tali immagini per sapere che cosa
essi siano. Ecco a che cosa si riduce il senso della grande filosofia.” 290 .
288 TO, p.207.
289 UR., p.92.
290 UR, p.114.
127

Per Spengler, la riduzione della stessa natura a simbolo è l’ultimo e definitivo
passo verso una concezione del mondo come rappresentazione, come frutto di
una creazione che già il solo sguardo che si desta opera, nel contempo,
introducendovisi.
La sua filosofia è, quindi, la chiarificazione di questo impulso rappresentativo e
formativo proprio dell’essere desto; ma, sappiamo come ogni riferimento alla
psiche dell’individuo sia un segno che rimanda a quella più grande anima che
presiede al corpo della civiltà. Anima e mondo si differenziano nei due poli della
realtà, ma il mondo di contro a cui l’anima si pone è a sua volta ricompreso tra
le creazioni dell’anima.
“Sicché esistono tanti mondi quanti sono gli esseri desti e le schiere di esseri uniti da
uno stesso sentire, e nell’esistenza di ciascuno di essi il mondo che si ritiene unico, autonomo
ed eterno e che si crede aver in comune con gli altri è una esperienza sempre nuova ed
irripetibile.” 291 .
Tutti noi siamo portati a ritenere la natura che ci è di fronte, le leggi del suo
funzionamento, le formule dei suoi fenomeni come validi universalmente. Ma
Spengler ci ha già messi in guardia da questo pregiudizio realista: le scienze
della natura sono il riflesso fedele del simbolo originario, la conseguenza della
sua interpretazione formativa dello spazio. La natura, come luogo dell’esteso e
del meccanico è, perciò, immediatamente coinvolta in questo processo. In noi,
però, è presente sempre un bisogno di permanenza, cioè di una dimensione
fissata e stabile che dia un senso al nostro conoscere:
“Il mio mondo subisce delle trasformazioni, e passa dal giorno alla sera o alla notte,
dall’inverno alla primavera. Ma ciò nonostante, credo che qualcosa permanga.” 292
291 TO, p.252.
292 UR, p.117.
128

Abbiamo la necessità di percepire l’identità del mondo: si tratta dello sgomento
di fronte al divenire e al movimento che, non a caso, la fisica, per Spengler,
stenta a comprendere. Ma questa è anche la domanda originaria circa il
mutamento delle cose, nata con la stessa filosofia. Che cosa fa sì che una
sostanza muti pur non mutando essa stessa? Che cosa cambia in essa? La
sapienza eraclitea del divenire deve conciliarsi con le esigenze della vita pratica,
col bisogno di sapere che le cose stanno solide e costanti lì, dove le avevamo
poste, conoscendole.
Ma, d’altro canto, è proprio dalla inesorabilità del fisso e del morto che aveva
origine la donazione di senso 293 : nel destarsi al mondo, l’uomo sente l’esigenza
di ordinare e di interpretare ciò che gli sta di fronte nella sua irrimediabile
alterità, di farlo suo mediante un gesto di creazione, in cui il significato delle
cose ne emerga relativizzato e, al tempo stesso, riformulato. Questa
appropriazione deve, però, risultare fonte di stabilità e di sicurezza, deve essere
una forma di difesa. L’anima della civiltà agisce sulla sua materia vivente e crea
il simbolo della natura: la fede nell’identità del mondo è sintomo del carattere
necessario di questa creazione.
“L’identità del mondo (mondo della percezione e mondo dell’azione) sussiste per tutti
gli esseri. Un sasso in un sentiero è reale sia per il topo che per l’insetto oppure per l’uccello
che ci stanno su, così come per un cane o un filosofo che ci inciampino contro.
Nell’immagine del loro mondo, anche se il reale si presenta ogni volta diversamente, secondo
come esso viene veduto, odorato o sentito, ciò non toglie, però, che esso rimanga sempre il
medesimo.” 294 .
L’illusione di un mondo in sé - il pregiudizio realista - è connaturata allo stesso
relativismo delle civiltà: per ciascuna di esse, le sue creazioni sono necessarie,
sono il corpo sensibile che promana dalla sua animità, intesa come forma pura.
293 Si confronti il terzo capitolo di questo lavoro: nel paragrafo Dal simbolo originario al macrocosmo è
evidenziata la logica del sorgere dell’universo simbolico dal non senso della morte e dello spazio.
294 UR, p.117.
129

L’anima crea il suo corpo, ci ha suggerito Spengler: la natura, in quanto segno
sensibile, ne fa parte e risponde alla sua logica.
“I vari fisici greci, arabi, tedeschi, hanno analizzato ‘la’ natura nei suoi ultimi
elementi: perché mai non hanno trovato le stesse cose? Perché ognuno ha una sua propria
natura, benché creda sia la stessa di tutti gli altri; lo crede con una ingenuità che salva la sua
visione del mondo e salva lui stesso. ‘Natura’ è un qualcosa di proprio, che viene saturato in
tutto e per tutto di un contenuto personalissimo. La natura è funzione, ogni volta, di una data
civiltà.” 295 .
L’ingenuità del fisico è la fede nell’identità del proprio mondo, anzi di un
mondo che non si sa nemmeno essere esclusivamente il proprio.
Ma come possiamo conoscere la concezione che altri popoli ebbero della natura
che li circondava? Possiamo tentare di risalirvi ponendo le dovute domande ai
simboli che già conosciamo: lo spazio, il tempo, l’arte, la fisica ci possono
aiutare a percorrere questa ricostruzione.
In particolar modo, la fisica si configura come il sintomo sempre vivido della
concezione della natura propria di una data civiltà: Spengler la considera un
frammento di storia, ovvero “l’espressione e la realizzazione di una civiltà, un
aspetto, sviluppatesi organicamente, dell’essenza di questa” 296 . Lo stesso modo
di ricerca, di indagine della natura, costituisce il presupposto di ciò che si ritiene
di aver accertato mediante le conquiste di tale scienza. C’è, infatti, da chiedersi
che cosa cercassero, nella natura, gli uomini delle diverse civiltà, poiché ogni
loro domanda conteneva già lo stile e lo spirito di ogni possibile risposta.
“Teoria vuol dire immagine, visione. Soltanto essa trasforma una formula matematica
in una vera legge naturale. Tutto ciò che è esatto matematicamente non ha, in sé, un senso;
ogni osservazione fisica è tale che il suo risultato va a provare qualcosa solo nel presupposto
295 TO, p.260.
296 TO, p.568.
130

di un certo numero di ipotesi legate a imagini, che grazie a essa appariranno più
convincenti.” 297 .
Nessun pensatore, nessuno scienziato può bandire da sé tale forma inconscia del
pensare, poiché è intrinseca al suo essere membro di una data civiltà.
“E appunto sulle teorie, non sui numeri puri, poggia ogni conoscenza della natura.
L’inconscia nostalgia di ogni vera scienza, la quale, ripetiamolo, esiste solo nello spirito degli
uomini di una civiltà, è di comprendere, penetrare e abbracciare l’imagine cosmica della
natura, non è il misurare per se stesso. I numeri dovrebbero essere sempre e soltanto le chiavi
del mistero. Ma per il contare in se stesso nessun uomo di un qualche valore ha mai
sacrificato qualcosa.” 298 .
Spengler riconduce ogni fisica a fede, a credenza in determinati presupposti che
in essa agiscono: i numeri e le formule sono solo i suoi strumenti. Ecco perché
anche la natura deve essere risucchiata nei nessi simbolici di una civiltà: non si
può comprendere che cosa un europeo, un antico o un arabo intendessero per
natura senza penetrare nel loro universo formale.
Sappiamo che la civiltà antica fu una civiltà tutta presa dal presente, dalla
tangibilità e compiutezza delle forme corporee: la fisica che le corrispose fu una
statica dei corpi. Spengler deduce queste caratteristiche dall’analisi delle forme
artistiche (il tempio e la statua), ma anche dall’esame dei simboli temporali. Ad
esempio, l’umanità antica seppe fare a meno, inconsapevolmente, dell’orologio,
della misurazione del tempo.
presente.” 299 .
“La vita antica euclidea, irrelata, puntiforme, era tutta chiusa nel momento
297 TO, p.568.569.
298 TO, p.569.
299 TO, p.208.
131

La stessa previsione del futuro fu semplicemente ricondotta al “singolo evento
imminente” 300 : manca ogni reale proiezione, ogni dinamica temporale. Tutte le
opere sono costruite solo in vista del presente: non c’è nulla che pretenda per sé
durata e memoria. Spengler giunge a dire che, nel mondo antico, “il tempo
manca” 301 .
L’assenza di una dimensione storico-temporale si riflette anche nella concezione
della natura: il cosmo antico è un insieme di corpi, di belle parti, in cui manca
ogni senso del divenire e del movimento. Quest’ultimo, infatti, non fu concepito
come un processo o come uno svolgimento, bensì come un “mutamento della
posizione dei corpi” 302 , come uno spostamento di solidi nello spazio.
“L’antica indagine critica della natura pose come differenziazione elementare quella
degli stati visibili di aggregazione, cioè i famosi quattro elementi di Empedocle, la corporeità
solida, la corporeità fluida e il non corporeo.” 303 .
Gli stessi atomi, come sappiamo, furono concepiti come corpuscoli, come
elementi tangibili e materiali che compongono una realtà puramente sensibile.
L’assenza di una concezione dello spazio, la mancanza di un senso della
direzione, fanno della civiltà antica un mondo apollineo della bellezza e
dell’apparenza, dei contorni privi di sfumature, della pura luminosità che genera
contrasti.
Per la civiltà araba, gli elementi naturali sono il riflesso del modo magico e
occulto con cui le cose appaiono alla vista.
“Il mondo che si dispiega dinanzi all’essere desto magico possiede una estensione di
una specie che noi possiamo chiamare caverniforme (a cripta), per difficile che sia per l’uomo
occidentale, trovar nel suo vocabolario una parola che almeno adombri il senso dello spazio
magico.” 304 .
300 TO, p.208.
301 TO, p.209.
302 TO, p.575.
303 TO, p.575.
304 TO, p.990
132

Nella cripta cosmica la tensione tra microcosmo e macrocosmo resta oscillante,
dando vita ad “un dualismo elementare” 305 che compenetra, in modi
svariatissimi, le manifestazioni dello spirito magico. Spengler cita una frase del
Vangelo di Giovanni: ”La luce brilla nella caverna e si difende contro le
tenebre” 306 per giustificare non solo la definizione del simbolo primo ma lo
stesso intrinseco dualismo di questa civiltà: luce e tenebre sono elementi magici
in egual misura e li vediamo agire tanto negli spettacolari ori dei mosaici, quanto
nelle dinamiche etico-religiose.
Il simbolo della caverna, lo spazio chiuso e spirituale delle costruzioni arabe,
corrispondono ad un’immagine alchemica dell’indagine della natura. Essa
implica una dissoluzione dell’immagine corporea della realtà tipica del mondo
antico: la realtà plastica delle cose viene distrutta al fine di scoprire i misteri
della loro essenza. Dai gradi della corporeità si passa agli attributi magici:
“Nasce così l’imagine dell’elemento chimico, quella specie di sostanze magiche che
mediante una causalità misteriosa si manifestano nelle cose e poi di nuovo scompaiono,
obbedendo perfino all’influenza degli astri.” 307 .
La scorporizzazione operata dalla civiltà araba nel campo dell’indagine naturale,
trovò modo di manifestarsi anche nella matematica: qui la comparsa dell’algebra
e dei numeri irrazionali pose fine al concetto di numero come grandezza, tipico
del mondo greco. Inoltre, l’arte degli arabeschi, l’apice dell’astrattezza
ornamentistica, contrassegnò la morte della corporeità delle costruzioni antiche,
permettendo un alleggerimento della struttura architettonica. Spengler giunge a
considerare la stessa controversia circa la natura di Cristo come un problema
alchemico: si trattava, infatti, di stabilire, per alcuni versi, la composizione
305 TO, p.991.
306 TO, p.991.
307 TO, p.575.
133

chimica della natura del Messia, il che fu congeniale allo spirito del primo
cristianesimo.
“Il metodo chimico di stile arabo è indice di una nuova coscienza del mondo. La
scoperta di esso si lega al nome di Ermete Trismegisto, che sarebbe vissuto ad Alessandria
nello stesso periodo di Plotino e di Diofante, il creatore dell’algebra. D’un tratto la scienza
apollinea della natura, la statica meccanica, ha fine.” 308 .
Ciò che conta per l’alchimista sono le forze occulte racchiuse magicamente
nell’essenza dei corpi, i quali, quindi, vengono per la prima volta considerati al
di là della loro forma visibile. Opera, nell’animità magica, una forma di
trascendenza che vediamo realizzata anche nelle sue concezioni religiose: le
divinità olimpiche si dissolvono nel Dio unico di ebraismo, cristianesimo ed
islamismo, eredi dell’Uno neo-platonico. Il senso magico della religiosità si
manifesta nella mancanza di un legame tra comunità e luogo di culto: là dove un
gruppo di fedeli si riunisce, lì è la chiesa; il divino consiste in quella dimensione
spirituale che avvolge, dall’alto, ogni credente, determinando il consensus
universale. La concezione della natura è profondamente legata, qui più che mai,
alla dimensione religiosa. Anche qui agiscono forze segrete: fenomeni come
l’estasi e l’ascesi mistica sono tipici di questa civiltà, che insinua una visione
non più corporea e tangibile del reale.
La concezione della conoscenza come estasi, come contemplazione, come
congiungimento col divino, prelude alla negazione dell’Io singolo in favore
della comunità, della verità che solo in essa il divino trasfonde. La conoscenza
stessa non si configura come il risultato e il premio di un faticoso cammino
intellettuale, di una conquista, ma come una rivelazione che ha il sapore della
rinuncia al sé. Nel mondo magico vi è il primato della fede oscura sullo spirito
critico:
308 TO, p.576.
134

“La fede oscura, originaria, riconosce fonti superiori della verità grazie alle quali cose
a cui il proprio riflettere non giungerà mai possono essere rivelate e esser rese in un certo
modo accessibili: parole profetiche, sogni, oracoli, scritti sacri, la voce della divinità. Invece
lo spirito critico vuol esser debitore solo a se stesso di tutte le sue conoscenze e crede di esser
da tanto. Egli diffida delle verità che vengono dall’esterno, anzi ne nega perfino la possibilità.
Per lui è verità solo un sapere che si dimostra da sé.” 309 .
La civiltà occidentale ha fatto suo l’atteggiamento critico: la sua concezione
della conoscenza risponde a una logica completamente diversa da quella magica.
La natura diventa il luogo in cui l’uomo può esercitare la sua sete d’assoluto, il
suo bisogno di uno spazio infinito: essa è sia la terra da conquistare che il
mondo di forze da assoggettare.
“Il greco studiò la natura dell’essere visibile; noi studiamo il modo di impadronirci
delle forze invisibili del divenire. Quel che per il primo era una amichevole immedesimarsi
con l’apparenza sensibile, per noi, invece, è uno spietato interrogare la natura, è l’esperimento
metodico.” 310 .
La nostra fisica fa suo l’impeto del simbolo primo e si determina come una
fisica del lontano, come una dinamica dello spazio. La stessa chimica, che nasce
come scienza magica, si dissolve “nel sistema complessivo della dinamica
pura” 311 e si inserisce nella visione meccanica della natura. La scoperta degli
elementi della combustione può essere ricondotta ad un sistema di energie cui
presiede la volontà umana.
309 TO, p.1044.
310 TO, p.574.
311 TO, p.576.
135

“Solido e fluido divengono termini riferentisi a vari rapporti di tensione fra molecole.
Con le nostre analisi e le nostre sintesi la natura non viene soltanto interrogata, ma anche
costretta. La chimica moderna è un capitolo della fisica moderna dell’azione.” 312 .
I concetti fondamentali della nostra fisica sono quelli di forza, massa, velocità,
azione: essi esprimono l’energia di direzione propria alla nostra animità
prettamente storica, calata nel tempo. A differenza del mondo antico, infatti,
possiamo riscontrare, nella civiltà occidentale, un numero impressionante di
simboli temporali: dagli orologi, che contrassegnano ogni istante della nostra
giornata, all’importanza della durata che è implicita nella nostra mania di
conservare, di applicare un metodo archeologico ad ogni ambito della vita
storica. Ma proprio questa consapevolezza del divenire, che ci contrappone al
mondo senza tempo degli antichi, deve darci il segno della intrinseca relatività
della nostra fisica.
“I fisici di oggi dimenticano troppo facilmente che già parole, come grandezza,
posizione, processo, mutamento di stato, corpo, sono imagini specificamente occidentali,
aventi un significato al livello del sentire che non si può rendere esso stesso con parole, che
era del tutto estraneo al pensiero e al sentimento arabo o antico e che condiziona
completamente il carattere dei fatti scientifici in quanto tali. […] Tali costruzioni mentali noi
le consideriamo come risultati di una indagine neutra, talvolta come risultati definitivi. Ma
una mente acuta del tempo di Archimede dopo uno studio approfondito della nostra fisica
teoretica avrebbe certamente dichiarato esser per lui incomprensibile come qualcuno possa
presentare come scienza e come deduzioni necessarie dai dati di fatto rappresentazioni così
arbitrarie, così grottesche e confuse.” 313 .
Anche il più semplice dei fatti contiene una teoria, un presupposto, una fede.
Spengler passa in rassegna le fondamentali creazioni della fisica faustiana: dai
campi magnetici alle correnti e alle onde elettriche, dagli studi sulla luce e sui
312 TO, p.577.
313 TO, p.571.
136

corpuscoli volanti alla teoria cinetica dei gas, dalla concezione degli atomi come
centri di forza alla cinetica. Esse rispondono al medesimo impulso formativo
delle costruzioni gotiche, delle navigazioni dei Vichinghi in mari sconosciuti e
dei viaggi di esplorazione del globo di Colombo: la nostalgia delle lontananze
siderali di un Galilei o di un Copernico si inserisce nella stessa catena di nessi
morfologici. Il pathos della terza dimensione si esprime in egual misura nella
rappresentazione della natura e nell’immagine dell’anima faustiana.
Lo scopo fondamentale della fisica occidentale è quello di ricondurre tutta la
natura ad un sistema di meccanica pura: questo è il presupposto, quasi
dogmatico, di ogni sua ricerca. Ma, nella stessa storia delle scienze della natura
della civiltà faustiana, troviamo anche la morfologia goethiana, il cui impianto
concettuale è enormemente distante da ogni fisica meccanicistica. Questo vuol
dire che la fisica, e quindi la conoscenza della natura, costituisce anch’essa un
organismo che, all’interno della scansione vitale di una civiltà, presenta fasi ed
epoche peculiari. 314
“La storia delle civiltà superiori ci mostra che la ‘scienza’ è un fenomeno tardo e
passeggero, pertinente all’autunno e all’inverno di questi grandi organismi viventi, spettacolo
che nel pensiero antico e indù, cinese e arabo è durato pochi secoli, coi quali essa ha esaurito
le sue possibilità. La scienza antica si è spenta nel periodo fra le battaglie di Canne e di Azio
per cedere nuovamente il posto all’imagine del mondo della seconda religiosità. Così è anche
possibile prevedere quando il pensiero naturalista occidentale raggiungerà il limite del suo
sviluppo.” 315 .
L’anima di una civiltà sceglie la scienza per realizzare se stessa solo nella sua
fase più tarda, quando l’arte ha quasi del tutto esaurito la sua possibilità
rappresentativa del simbolo primo, divenendo tecnica. Ma, nella scienza (che
qui è intesa essenzialmente come immagine della natura), una civiltà esprime
314 Nel secondo capitolo di questo lavoro si è già accennato ad un decorso della fisica e ad un suo possibile
scivolamento nella fisiognomica.
315 TO, p.572.
137

alcune delle sue creazioni più mature: ad essa si lega l’intelletto tardo delle
grandi città, che preannuncia l’imminente civilizzazione.
Talvolta uno stesso concetto scientifico, uno stesso criterio di interpretazione
delle forme della natura, può dare esiti diversi all’interno della stessa civiltà:
basta pensare al concetto di evoluzione che, dalla fine dell’Ottocento, cominciò
a destare l’attenzione non del solo mondo scientifico. Spengler, infatti,
contrappone l’evoluzione goethiana al concetto di evoluzione del darwinismo.
Quest’ultimo appartiene al diciannovesimo secolo, al secolo positivista e ne è lo
specchio fedele; viceversa Goethe fu il rappresentante di una concezione della
natura lontana da ogni meccanicismo da civilizzazione.
“Il culto dell’utile doveva allora (nell’800) venire in primo piano. E’ a esso che
Darwin, in nome del secolo, ha sacrificato la teoria goethiana della natura. La logica organica
dei fatti della vita è stata sostituita da una logica meccanica travestita da fisiologia. Eredità,
adattamento, selezione naturale sono determinismi utilitari di contenuto puramente
meccanico. Ai nessi fatali storici si sostituisce qui il moto naturale ‘nello spazio’.” 316 .
L’antitesi storia-natura viene storicizzata: da contrapposizione tra due forme
universali di interpretazione del mondo, Spengler le trasforma in momenti della
teoria della natura della civiltà faustiana; essi trovano la loro esemplificazione
proprio nel concetto di evoluzione:
“Spengler distingue due concetti di evoluzione, uno goethiano e uno darwiniano. Del
primo egli mette sempre in rilievo l’aspetto incentrato sul dispiegarsi di potenzialità interne,
immanenti. La caratteristica dell’evoluzione così come la intende Goethe risiederebbe quindi
nel compimento interno, endogeno, di tali potenzialità. L’evoluzione darwiniana sarebbe
contraddistinta dal fatto di rimandare a meccanismi esterni agli organismi (l’adattamento, la
selezione naturale).” 317 .
316 TO, p.242.
317 Domenico Conte, Catene di civiltà, op. cit. p.232.
138

Nella fase più tarda, ogni immagine della natura si fa più intellettuale, più arida,
più meccanicistica. L’apparire della fisica ha trasformato “il sentimento
faustiano della natura in conoscenza concettuale, e le figure di una fede
originaria nelle forme meccaniche di una scienza esatta” 318 . Nel suo procedere
verso la dissoluzione, essa esprime nella sua ultima purezza, l’ansia faustiana di
dominio e di illimitato.
“Non esiste una pura natura” 319 : sempre, in essa, sarà contenuto qualcosa di
storico, ovvero di relativo. La collocazione della natura fra i simboli di una
civiltà consente a Spengler di portare fino in fondo la sua concezione del mondo
come interpretazione. In Urfragen, essa si approfondisce in considerazioni di
carattere più teorico, in grado di far cogliere il profondo lavorio concettuale che
Spengler operò su queste tematiche anche al di là de Il tramonto dell’Occidente.
Il problema dell’interpretazione della natura e della sua riduzione a simbolo
viene considerato da un’ottica più ampia, svincolata dai mondi delle civiltà e più
attenta all’essere vivente in quanto tale:
“Il dilemma consiste nel fatto che ognuno possiede un suo proprio mondo circostante,
sia esso uomo o volpe o insetto, e che nonostante ciò tutti possediamo lo stesso mondo. Il
‘mio’ mondo, infatti, muta col procedere di ogni mio passo, ma se mi osserva una
cinciallegra, una lepre o un cacciatore, allora io rappresento qualcosa in ognuno di questi
mondi circostanti. E mi immedesimo così nel più profondo della realtà, in cui tutti questi
universi particolari sono relazioni di un misteriosissimo mondo con la percezione di quei
piccoli universi, dei quali io stesso sono uno.” 320 .
La relatività dei punti di vista fa degli esseri viventi delle monadi, cioè dei centri
di rappresentazione, delle prospettive. Ma, parlando di uno “stesso mondo”,
Spengler sta come cercando di estrarre dalle più disparate e relative concezioni
della natura, una sorta di fondo comune su cui ogni organismo o civiltà possa
lavorare con la sua azione plasmatrice. Questa operazione costituisce, però, un
318 TO, p.631.
319 TO, p.586.
320 UR, p.117.
139

tentativo di sconfinare dal terreno puramente storico: il divincolarsi dalla
prospettiva della natura come simbolo della propria civiltà, equivale a porsi su
un piano metafisico. D’altro canto, è proprio da questa posizione che Spengler
ha potuto dirci che il mondo è una creazione simbolica, che ogni natura è
funzione di una data rappresentazione.
“Ma questi mondi, presunti oggettivi, contengono invece un errore di pensiero.
L’uomo, pensando, dimentica di collocare nel pensiero se stesso, nonostante che il tutto sia
una sua impressione sensoriale, una sua norma mentale, un effetto di cui egli stesso è causa.
Ritiene che tutto questo esista ‘in sé’ e che egli ci viva dentro quasi per caso, mentre tutto
s’identifica invece con la sua immagine del mondo, e di essa è anzi il punto mediano. E così
procedendo ci si dimentica del problema fondamentale: che significato attribuire, cioè, a
questo creatore del mondo? Il mondo, per dirla breve, è l’irradiazione di una realtà vitale,
anzi il suo esser desto come parte integrante della sua esistenza. Ma allorquando noi tutti
crediamo di vivere nello ‘stesso’ mondo o di parlare dello stesso mondo, proprio qui sorge il
problema.” 321 .
L’attenzione di Spengler alla collocazione del pensiero rispetto a se stesso trova
qui un’interessante problematizzazione: essa culmina in un relativismo che
coinvolge ogni essere vivente. Ogni realtà vitale si irradia in un mondo le cui
forme ne sono la manifestazione fedele: questa affermazione costituisce il
riscontro dell’immagine de Il tramonto dell’Occidente secondo cui l’anima di
una civiltà crea il suo corpo sensibile.
Ma, a questo punto, possiamo anche chiederci se lo schema creazionistico sia
applicabile esclusivamente ai simboli di una civiltà e all’interpretazione del
mondo, o se, invece, non possa essere l’immagine, calata nella storia, di una
creazione molto più vasta, quella delle civiltà superiori dalla natura vivente. E’
questo l’esito più profondo della concezione spengleriana della natura, quale si
profila nel complicatissimo intreccio di piani del suo discorso filosofico.
321 UR, p.115-116.
140

2. Natura come fondo originario da cui le civiltà emergono.
Esiti metafisici della filosofia della storia spengleriana.
Conformemente all’impianto simbolico de Il tramonto dell’Occidente, anche la
natura è stata collocata tra le manifestazioni di una civiltà; Spengler è giunto a
relativizzare e a introdurre tra le creazioni di un’animità storica quella che,
precedentemente, aveva considerato una modalità universale di interpretazione
del reale.
In questo modo, lo schema creazionistico delle civiltà è stato portato fino in
fondo: tutto è simbolo; tutto rimanda, in quanto segno sensibile, all’anima
plasmatrice delle civiltà. E’ ormai palese che, per Spengler, la creazione consiste
essenzialmente in una formazione, cioè nella donazione, alla materia vivente, di
un medesimo sentire che si realizzi in una catena di nessi morfologici. Formare
vuol dire ordinare la molteplicità caotica della vita degli uomini con un comune
criterio di interpretazione, che rifletta l’anima della civiltà appena sorta. Lo
pneuma di una civiltà deve vivificare e plasmare di sé ogni manifestazione
sensibile.
Si è già visto Spengler, trepidante, immaginare l’istante in cui una civiltà sceglie
il proprio simbolo primo, ovvero la regola a partire dalla quale viene deciso lo
spirito che animerà ogni altra espressione simbolica, secondo uno schema
unitario. Già in questo, egli si è collocato in una prospettiva non più
semplicemente storica: ponendosi nella posizione di spettatore della creazione di
un mondo, il suo sguardo si è reso metafisico.
141

“In dote per la vita ho ricevuto lo sguardo. Il dono geniale, se così posso esprimermi,
di osservare, di stare a osservare. […] Questo sguardo è il vero talento filosofico. Una scienza
filosofica specialistica è una assurdità filosofica.” 322 .
L’insistenza sulla capacità di vedere si colloca all’interno di una tradizione
filosofica intrinsecamente teoretica, i cui esiti metafisici si intravedono nel
linguaggio di Spengler. Percorrendo fino in fondo questa dimensione del
pensiero spengleriano, sarà, a questo punto, lecito chiedersi se non sia possibile
estendere e approfondire questa nuova prospettiva fino ad applicarla anche ad
un’altra creazione, quella delle stesse civiltà dalla natura vivente. Nel momento
in cui una civiltà nasce non costituisce, anch’essa, una nuova forma, il frutto di
una creazione sui generis?
Il concetto di natura vivente non costituisce solo un momento storico della
concezione faustiana della natura: esso indica quel flusso caotico e incessante
che si cristallizza nelle varie formazioni storiche. Allora, è forse possibile
affermare che la natura interna alle civiltà è solo il riflesso, relativo e
storicizzato, di una Natura altra, da cui ogni civiltà emerge.
Questa seconda Natura, qui profilata, non costituisce il tema esplicito delle
considerazioni di Spengler, ma in molti punti di Urfragen e de Il tramonto
dell’Occidente, è possibile trovare allusioni o ipotesi in tal senso. D’altro canto,
non è la prima volta che i fondamentali concetti della morfologia della storia
mondiale sono sottoposti a questi slittamenti di significato: una simile struttura
era stata già presentata a proposito dell’Anima di una civiltà in rapporto
all’anima peculiare e relativa che da essa derivava 323 . Ma qui si tratta di
concepire una più immane creazione, quella delle forme pure delle civiltà
superiori dalla natura vivente.
322 Oswald Spengler, A me stesso, op. cit., p.17.
323 Si confronti, a tale proposito, il terzo capitolo, paragrafo primo, di questo lavoro, in cui le modalità della
derivazione dei simboli dall’anima di una civiltà vengono ampiamente esplicate e ricondotte ad una struttura
riflessiva.
142

Il presupposto per la comprensione di questa creazione giace nella
rappresentazione dell’immagine che Spengler ebbe della Natura goethiana. Il
fatto che egli abbia applicato la logica organica alla storia e che abbia
considerato le civiltà come degli organismi viventi, può farci presupporre che la
Natura assurga a dimensione metafisica onnicomprensiva, ad un flusso vitale
infinito.
“Nella stessa misura in cui la natura universale libera dal suo seno la ‘vita’, e tanti
piccoli mondi diventano così liberi nel mezzo di quell’un grande, liberi per loro fortuna o
sfortuna, si origina l’ostilità tra essi.
E che cos’è questa vita totale? Un manto vegetale che compatto circonda il pianeta, sulla terra
e sul fondo dei mari, con l’eccezione di alcuni punti ghiacciati e deserti, e ancora uno sfrenato
esercito di esseri che scavano, che nuotano, che strisciano, che si muovono rapidamente, che
volano, al di dentro e al di sopra di esso, ricercando, affermandosi, lottando, annientando e
annientati.
Su una coltre di vita radicata alla terra, vagabondano schiere di vita in movimento.” 324 .
L’immagine della vita totale corrisponde alla natura universale, da cui i mondi
(o le civiltà) si staccano, individualizzandosi. Il principium individuationis libera
i singoli organismi dalla totalità naturale e, determinandoli, li contrappone.
Spengler utilizza più volte la tradizionale immagine della libertà come
separazione e, in essa, vede anche l’istinto al ricongiungimento cosmico, ovvero,
alla morte, alla fine del ciclo vitale. Questa concezione è l’erede della filosofia
goethiana della Natura, concepita come un’infinita unità vitale, non divisibile,
né conoscibile concettualmente. La stessa metafora vegetale che caratterizza
l’immagine spengleriana, deriva dall’intrinseca impronta biologistica degli studi
di Goethe, dalla ricerca della pianta originaria e dall’esame morfologico delle
creazioni naturali.
324 UR, p.342-343.
143

La Natura vivente è l’elemento originario in cui siamo costituzionalmente calati:
essa è il ricettacolo universale di ogni possibile creazione e formazione, è
movimento puro, pura vitalità.
“Natura! Ne siamo circondati e avvolti, incapaci di uscirne, incapaci di penetrare più
addentro in lei. Non richiesta, e senza preavviso, essa ci afferra nel vortice della sua danza e ci
trascina seco, finché, stanchi, non ci sciogliamo dalle sue braccia. Crea forme eternamente
nuove; ciò che esiste non è mai stato; ciò che fu non ritorna – tutto è nuovo e pur sempre
antico. Viviamo in mezzo a lei e le siamo stranieri. […] Sembra aver puntato tutto
sull’individualità, ma non sa che farsene degli individui. Costruisce sempre e sempre
distrugge: la sua fucina è inaccessibile.” 325 .
Si palesa, qui, la comune visione della Natura come di un essere
imperscrutabile, infinitamente creatore, presupposto di ogni individualità. Alla
base, vi è una comune matrice spinoziana: il dualismo tra natura naturans e
natura naturata si traduce nel rapporto tra la Natura spengleriana e le forme
pure delle civiltà.
Spengler si colloca, quindi, su un filone filosofico che da Spinoza passa fino a
Goethe e al romanticismo: l’originalità del suo pensiero consiste nell’applicare
questo schema creazionistico alle forme della storia, grazie alla geniale sintesi
tra questa e la botanica goethiana. Ecco perché la metafisica spengleriana
assume sempre toni biologistici: le sue immagini sono sempre costellate dalla
concretezza delle creature naturali, rese intuitive dal loro essere calate nelle
dinamiche botaniche o animali. Di contro alla costruzione spinoziana dei modi e
degli attributi, egli preferisce il linguaggio concreto della storia e delle piante.
Sullo sfondo vi è l’immagine panteistica del divino, il Deus sive Natura di
Spinoza: il rapporto di Dio col mondo veniva risolto nell’esplicarsi della
325 Johann Wolfgang Goethe, Natura in La morfologia delle piante, op. cit., p.152. Questo frammento, pur non
appartenendo a Goethe, è stato introdotto tra i suoi scritti per la profonda rispondenza alla sua concezione della
natura. L’utilizzo di questa fonte è, comunque, rispondente alla chiarificazione della comune visione della natura
propria a Spengler e alla temperie culturale di Goethe. Egli stesso, infatti, disse: “Che l’abbia scritto io, non
ricordo di certo; ma le sue considerazioni collimano con le idee alle quali la mia mente era allora pervenuta.”
(Ivi, p.155).
144

Sostanza infinita in modi ed attributi che ne costituivano le individualizzazioni,
le manifestazioni nello spazio e nel pensiero. L’infinito si finitizza; la natura
naturans, sostanza infinita ed eterna, si concretizza in un’infinità di maniere
d’essere, nella natura naturata. Anche in Spengler, come in Spinoza, il divino
perde ogni connotazione tradizionale e personale, per divenire una divinità senza
volto; tuttavia, mentre per il filosofo del Seicento esso coincideva con l’ordine
geometrico del mondo, in Spengler diviene il presupposto naturale, informe ed
infinito, da cui prendono forma le creazioni storiche. La derivazione delle civiltà
dalla Natura diventa una creatio ex nihilo, laddove creare è formare.
“Una civiltà nasce nel punto in cui una grande anima si desta dallo stato della
psichicità primordiale di una umanità eternamente giovane e si distacca, forma dall’informe,
realtà limitata e peritura di fronte allo sconfinato e al perenne. Essa fiorisce sul suolo di un
paesaggio esattamente delimitabile, al quale resta radicata come una pianta. Una civiltà muore
quando la sua anima ha realizzato la somma delle sue possibilità sotto specie di popoli,
lingue, forme di fede, arti, Stati, scienze; essa allora si riconfonde con l’elemento animico
primordiale.” 326 .
Questo celebre passo, peraltro già preso in considerazione, può ora chiarire
l’immagine che Spengler ebbe della formazione delle civiltà. Esse sono il frutto
di un’opera di formazione a partire dalla magmatica Natura vivente; il loro
nascere risponde a una pura casualità; esse si affacciano sul panorama della
storia mondiale con la stessa spontaneità dei fiori che sbocciano sui campi.
Spengler parla di “una lotta intima e appassionata per l’affermazione dell’idea
contro le potenze del caos” 327 : vi è una dinamica di contrapposizione e di lotta
della forma contro l’informe. Per realizzarsi, per creare un mondo, un’anima
emerge dalla natura vivente come da uno scontro profondo: le potenze del caos
326 TO, p.173.
327 TO, p.174.
145

“si ritirano irate” 328 , in attesa di riprendere il sopravvento quando l’anima,
realizzate le sue possibilità vitali, scorre via dalle creazioni di una civiltà che,
irrigidendosi, muore.
A confermare l’ipotesi di una natura come sfondo da cui le civiltà emergono,
Spengler sostiene che tutte le manifestazioni vitali che non sono espressione di
una civiltà non fanno parte della storia, ma possono essere considerate
unicamente come pura storia zoologica di una data specie vivente. In esse,
infatti, manca ogni unità e portata simbolica, non si ha la sensazione di essere
dinanzi ad un organismo in sé conchiuso. Alla fine di una civiltà l’informe
prende il sopravvento, le potenze del caos riemergono e pongono fine ad ogni
significazione simbolica. Spengler, infatti, giunge a paragonare la vita degli
uomini dopo la fine di una civiltà, a quella di una qualunque altra specie vivente,
a conferma della fondamentale matrice biologistica della sua visione metafisica.
Quindi l’universo storico è unicamente forma, ovvero vita di esseri governati da
una logica organica: esso è natura naturata che emerge da una natura naturans.
Il destino di caducità e di finitezza delle civiltà si contrappone all’eterno fluire
della natura vivente:
“C’è in lei una vita eterna, un eterno divenire, un moto perenne; eppure, non fa un
passo avanti. Si trasforma di continuo, non conosce un attimo di quiete. Ignora l’immobilità;
colpisce di maledizioni l’indugiare. E’ salda. Il suo passo è misurato, rare le sue eccezioni,
invariabili le sue leggi. […] Suscita dal nulla le sue creature, e non dice loro né da dove
vengono né dove venno. Devono soltanto correre. La strada la conosce lei. […] La vita è la
sua più bella scoperta; la morte, il suo stratagemma per ottenere molta vita.” 329 .
Dalle leggi invariabili della Natura goethiana, Spengler ha tratto la logica del
destino e l’ha applicata alla storia: la morte è implicita nella vita degli organismi
naturali così come la civilizzazione è il destino inevitabile di ogni civiltà. La
328 TO, p.174.
329 Johann Wolfgana Goethe, Natura in La morfologia delle piante, op. cit., p.153.
146

creazione dal nulla è il momento misterioso di questo emergere delle forme, il
punto in cui ogni essere desto frena il suo orgoglio conoscitivo e si inchina
dinanzi al mistero di ogni inizio 330 .
“Tutte le forme del divenire, sia positivo o negativo, sono ‘eterne’, assolutamente
cosmiche cioè, e si ripetono dappertutto. Una fiamma perisce come un essere umano, la
civiltà è un vegetale. E così la procreazione si ripete in ogni specie di attività creativa.” 331
Il linguaggio di Spengler imita quello goethiano, ma si arricchisce di una
profonda nota polemica nei confronti della scienza del suo tempo, specie di
quella storica. Ad essa manca proprio questo sguardo metafisico che le
consentirebbe di cogliere il sorgere delle stesse civiltà, la loro nascita alla vita e
alla forma, a prescindere dagli schemi economici ed evoluzionisti.
“L’inizio è sempre come un grido. L’ottuso miscuglio di paura e di difesa dà luogo,
d’un tratto, ad un moto puro e fervido di risveglio che, partendo dalla madre terra, si sviluppa
come una fioritura e fa sì che la profondità del mondo della luce sia abbracciata e compresa
con un solo sguardo. Dovunque l’occhio dello spirito si è portato su se stesso, un tale
rivolgimento è stato sentito come una rinascita interiore. In tali momenti – mai prima e mai
poi di nuovo con la stessa potenza e interiorità – qualcosa come un grande chiarore corre fra
gli spiriti eletti del tempo, a sciogliere in amore gioioso ogni paura e a fare apparire
subitamente l’invisibile in una trasfigurazione metafisica.” 332 .
Non c’è gradualità e progresso nel sorgere di una civiltà: la sua nascita è un
grido improvviso e luminoso nella caotica notte delle informi potenze della
natura. Tuttavia, essa conserva uno stretto legame con la terra su cui è sorta:
come una pianta, ogni civiltà resta avvinghiata al suo paesaggio materno, ne
rispecchia la natura nella realizzazione del suo universo simbolico. Ed è proprio
330 Nel Tramonto dell’Occidente, a p.696, si legge: “L’origine della terra, l’origine della vita, l’origine
dell’animale che si muove liberamente sono misteri che noi dobbiamo accettare come tali.”
331 UR, p.351.
332 TO, p.1059.
147

questo forte legame alla terra che denota la differenza tra le civiltà superiori e le
forme primitive di vita, le quali, invece, “hanno sempre qualcosa di erratico” 333 .
I cambiamenti che le contraddistinguono non hanno alcun senso interno, non
rispondono ad una logica organica: esse non hanno ancora preso forma, non
hanno scelto alcun simbolo elementare che dia loro unità e significato.
Nascere, per una civiltà, vuol dire, infatti, giungere a quella chiarezza interiore
che dirada ogni paura nei confronti dello spazio; vuol dire interpretare
l’estensione, darle una forma. Il carattere di illuminazione che presiede a questa
donazione di senso deriva da un presupposto decisamente anti-evoluzionistico.
Per Spengler, la natura non si evolve, ma compie delle mutazioni improvvise: la
nascita di una civiltà, così come la sua morte, potrebbero avere origine da una di
queste mutazioni.
“Ebbene, noi invece troviamo forme del tutto fisse ed invariabili in lunghissimi
periodi, forme che non si sono sviluppate per adattamento ma che sono apparse d’un tratto
nella loro struttura definitiva, che non si trasformano in altre più adatte all’ambiente ma si
fanno invece sempre più rare e infine scompaiono, mentre altre specie, del tutto diverse, si
manifestano.” 334 .
La critica ai concetti darwiniani di selezione naturale e di adattamento è, qui,
sicuramente implicita: di contro a questa concezione evolutiva, Spengler fa sua
la teoria delle mutazioni del biologo De Vries 335 e la applica non solo alle fasi
interne delle civiltà, ma al loro stesso comparire.
“Tutto ciò che ci è dato di constatare c’impone invece la convinzione che nella natura
animale e vegetale si verificano continuamente mutazioni improvvise e profonde che sono
333 TO, p.1058.
334 TO, p.694.
335 In una nota, Spengler cerca addirittura di conciliare il mutazionismo di questo botanico olandese
dell’Ottocento con il senso dell’evoluzione goethiana: “Noi vediamo come una forma impressa si sviluppa nei
singoli esemplari, non vediamo però come essa si sia determinata per tutta una specie” (TO, p.1434). Il che è
come dire che la scelta del simbolo primo avviene d’un tratto, per una mutazione improvvisa, ma lo svolgimento
della sua forma risponde al concetto di compimento interno e di destino tipica dell’evoluzione delle forme
goethiana.
148

d’ordine cosmico, che non sono mai limitate al solo dominio della superficie terrestre, con
cause che sfuggono alla percezione e all’intelligenza umana.” 336 .
Il concetto di mutazione potrebbe essere un'altra via, alquanto originale, per
alludere ad una creatio ex nihilo, cioè ad uno schema della creazione che faccia
della morfologia della storia mondiale l’esito impensato di una struttura
teologico-metafisica. Ma Spengler non tenta una definizione del divino: esso
resta sullo sfondo come una natura magmatica e informe, come una divinità
senza volto che, demiurgicamente, crea formando.
Il concetto di mutazione improvvisa ritorna nell’analisi, decisamente simbolica,
della nascita della mano, ovvero di quell’organo che, per eccellenza, rende gli
esseri umani artefici e plasmatori. Alla capacità teoretica dello sguardo, la mano
aggiunge la finalità pratica del fare, dell’afferrare, del creare.
“Essa deve essere sorta all’improvviso, in confronto col ritmo delle correnti cosmiche.
Rapida come un lampo, come un terremoto, come tutto ciò che è decisivo nelle vicende del
mondo, che fa epoca nel senso più elevato. Anche su questo punto, dobbiamo sbarazzarci
delle vedute del secolo scorso quali, dopo le indagini geologiche di Leyll, sono espresse nel
concetto di ‘evoluzione’. Una variazione lenta, flemmatica, risponde al temperamento inglese,
non alla Natura. […] Ed è assolutamente impossibile che la mano, l’andatura eretta,
l’atteggiar del capo e il resto si siano sviluppati l’una dopo l’altro, l’una dall’altro. Tutto ciò è
sorto insieme, e improvvisamente. La storia dell’ universo procede di catastrofe in catastrofe,
sia che noi possiamo o no capirle e spiegarle. Dopo De Vries, questo si chiama ‘mutazione’: è
un intimo mutamento che di colpo si estende a tutti gli esemplari d’una specie, senza causa
apparente, come tutto nella realtà. E’ il misterioso ritmo del reale.” 337 .
Il tono imperioso di Spengler è inconfondibile, ma non deve ingannarci circa le
finalità del discorso qui intrapreso. L’importanza della nascita della mano è la
conseguenza necessaria di un percorso che, dalla biologia, conduce Spengler ad
336 TO, p.696.
337 Oswald Spengler, L’uomo e la macchina, Corbaccio, Milano, 1931, p.56-58.
149

aprirsi le porte di una metafisica molto particolare, in grado di utilizzare i
concetti più disparati e concreti per penetrare nei misteri della creazione
cosmica. Il ponte tra questo piano biologico-metafisico e quello della morfologia
delle civiltà è costruito da coppie di concetti come quelli di essere ed essere
desto, di nucleo e patina che sono i corrispondenti della coppia civiltà-
civilizzazione. Tutto torna, nell’universo spengleriano, con una sorprendente
ricchezza di prospettive. La civilizzazione contrassegna l’esito di una civiltà, il
suo rendersi puro intelletto, puro spirito di contro alla freschezza originaria e
inconscia delle forme della civiltà; la civilizzazione è l’involucro, la nuda
spoglia di contro al nucleo pregnante di un’animità ancora giovane.
“Il giudizio dell’istinto (che è muto, difficile da esprimersi) sta contrapposto al
giudizio dell’intelletto. ‘L’intelligenza’ originariamente è istintiva, vitalmente attiva. E
quando essa viene sottratta, sottratta alla vita, diviene ‘intelletto’.” 338 .
Spengler, in tal modo, ordisce un fitto intreccio tra categorie biologiche e
categorie storiche cosa che, del resto, aveva già messo all’opera nella stessa
definizione della civiltà come organismo. L’essenziale è riconoscere, in questa
prospettiva biologistica, il segno di una struttura metafisico-teologica, in cui la
Natura è fonte di una creazione, le cui dinamiche tanto si ispirano alla
concezione romantica della Natura vivente.
Ma, considerando il riferimento costante al problema delle forme, tale struttura
potrà essere sottoposta anche ad un secondo criterio di interpretazione. Bisogna
ricordare che lo studio morfologico della natura era funzionale, nella stessa
opera di Goethe, ad acquisire una nuova prospettiva nel campo della poesia e
dell’arte: la natura poteva essere lo scrigno di una ricerca di forme
indispensabile per delle finalità estetiche 339 . Non sarà allora possibile pensare
338 UR, p.312.
339 La ricerca della Urpflanz, ad esempio, fu la proiezione, nella botanica, di un pensiero profondo intorno alla
Urform, che ebbe modo di concretizzarsi sia nei romanzi che nelle poesie di Goethe.
150

alla nascita delle civiltà come ad un fenomeno estetico? Lo stesso accenno
simbolico alla mano (l’organo indispensabile alle creazioni dell’arte per
eccellenza) non può, forse, alludere ad una creazione artistica delle forme delle
civiltà superiori?
Ammettere questa ipotesi di lavoro, vuol dire pensare a un’influenza su Spengler
del primo Nietzsche: ne La nascita della tragedia, infatti, il problema
dell’origine di un genere artistico diventa metafora di una interpretazione del
mondo. Del resto, è innegabile che la filosofia nietzscheana abbia avuto un forte
ascendente sulla delineazione di molteplici concetti de Il tramonto
dell’Occidente. Lo stesso Spengler lo riconosce esplicitamente:
“Sento il bisogno di nominare coloro a cui debbo quasi tutto: Goethe e Nietzsche. A
Goethe devo il metodo, a Nietzsche il modo di impostare i problemi – e se dovessi condensare
in una formula il mio rapporto con secondo direi: dai suoi sprazzi si luce ho tratto una visione
d’insieme.” 340 .
Se il rapporto con Goethe è esplicito e senza contrasti, quello con Nietzsche
presenta tutte le asperità tipiche di una grande ammirazione che vuole, ma non
riesce, a creare un distacco, una cesura: echi nietzscheani si trovano, oltre che
nei temi e nelle esplicite citazioni, anche nella struttura stessa del pensiero
spengleriano, nelle modalità del suo operare.
“L’aristocraticismo, il disprezzo delle masse, il pathos della distanza, l’esaltazione
anticonvenzionalistica della violenza, l’etica dell’animale da preda, l’insistenza sulla razza
sono tutti punti che Spengler mutua direttamente da Nietzsche e che determinano il carattere
cinico e provocatorio della sua filosofia politica. Spengler si impossessa di due temi-chiave
della riflessione nietzscheana: la volontà di potenza e la decadence. […] La decadence
diventa il fenomeno universale della civilizzazione, inevitabile fase biologica caratterizzante i
periodi terminali di tutte le civiltà in termini di pietrificazione e fossilizzazione. La volontà di
340 TO, p.5.
151

potenza viene invece trasformata da principio universale della vita e della storia a
caratteristica peculiare di una specifica civiltà, quella faustiana.” 341 .
Lo scopo dell’ambizioso disegno della morfologia spengleriana è quello di
sussumere la stessa filosofia di Nietzsche all’interno della civiltà occidentale,
come momento necessario della realizzazione delle sue possibilità e come
elemento della sua civilizzazione. La volontà di potenza viene storicizzata, senza
tenere conto della portata universale di questo principio vitale e al prezzo di
aspre critiche. Ma Spengler stesso, dopo tutto, soggiace al grande fascino
esercitato dalla filosofia di Nietzsche su molti suoi contemporanei: la ripresa
delle tematiche del suo pensiero è solo il sintomo di un’influenza più profonda,
che tocca le corde dei presupposti e della forma del metodo spengleriano. Infatti,
la volontà di potenza resta sullo sfondo, come principio che anima e che
sospinge la stessa nascita delle forme di una civiltà; è quella paura primordiale
che spinge alla difesa e all’impossessamento del mondo mediante la donazione
di senso. Da simbolo precipuo della civiltà occidentale, essa ritorna a essere un
principio di vita universale: questo rincorrersi dei presupposti è, però, taciuto
dallo stesso Spengler che, giocando con le sue fonti, finisce con l’appropriarsene
più intimamente di quanto sia disposto ad ammettere.
Il tentativo di interpretare la nascita delle civiltà dalla Natura vivente alla luce
della coppia apollineo-dionisiaco, trova qui la sua giustificazione. La stessa
definizione della civiltà antica come mondo delle forme apollinee autorizza a
credere che simili categorie circolassero, oltre che nel lessico, nel pensiero di
Spengler. Ma in che senso si può sostenere un’interpretazione estetica della
nascita delle civiltà?
L’apollineo e il dionisiaco sono considerati gli istinti artistici della stessa natura:
l’arte plastica e la musica sono i simboli di una più ampia creazione, quella delle
forme del mondo. Facendo propria la lezione schopenaueriana del mondo come
341 Domenico Conte, Introduzione a Spengler, op. cit., p.39-40.
152

appresentazione, Nietzsche fa del sogno e dell’ebbrezza gli strumenti della
figurazione, della nascita delle forme a partire dal fondo dionisiaco in eterno
divenire.
“L’uomo filosofico ha il presentimento che anche nella realtà in cui viviamo e siamo
(non solo nel sogno) se ne nasconda un’altra tutta diversa, in modo che anche questa nostra
realtà sia quindi un’apparenza; e Schopenauer indica addirittura come contrassegno del
talento filosofico il dono che altri abbia di vedere in certi momenti gli uomini e tutte le cose
come puri fantasmi e ombre di sogno.” 342 .
Spengler ha mostrato di saper cogliere il carattere simbolico di ogni
manifestazione storica, di essere in grado di guardare prospetticamente le stesse
civiltà come creazioni relative promananti da una Natura infinita: tutto ciò
consente di collocarlo tra chi possiede questo dono. Egli ha saputo applicare
queste categorie metafisiche al piano storico, considerando le civiltà il frutto di
un’interpretazione, di una poiesi simbolica, da parte di una divinità senza volto.
Come Nietzsche, anche Spengler ha affisso il suo sguardo sul fondo dionisiaco
dell’esistenza: in lui, però, la capacità di contemplare il dolore che sottende ogni
creazione luminosa, si è trasformato nella consapevolezza della caducità di ogni
organismo storico, dell’inevitabilità del tramonto dell’Occidente, nella filosofia
del destino.
“L’arte dionisiaca conferisce espressione alla volontà nella sua onnipotenza per così
dire dietro il principium individuationis, alla eternità della vita di là da ogni fenomeno e
nonostante ogni annullamento. La gioia metafisica del tragico è un trasferimento della
sapienza dionisiaca, istintivamente inconscia, nel linguaggio dell’immagine. […] Invece l’arte
plastica ha uno scopo affatto diverso: qui Apollo vince il dolore dell’individuo con la
luminosa glorificazione dell’eternità dell’apparenza; qui la bellezza trionfa del dolore insito
nella vita; qui il dolore viene, in un certo senso, cancellato – mercé una menzogna – dal
sembiante della natura. Nell’arte dionisiaca e nella sua simbolica tragica la natura stessa ci
342 Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, Laterza, Roma-Bari, 1984, p.23.
153

apostrofa con la sua voce vera e schietta: ‘Siate come sono io! Io, che nella vicenda incessante
dei fenomeni sono la madre primordiale eternamente creatrice, eterna impositrice
dell’esistenza, che in questa vicenda dei fenomeni trova il suo eterno appagamento’.” 343 .
Il fenomeno estetico della tragedia si traduce in una ontologia: come nel
frammento goethiano sulla Natura, anche qui è presente uno sfondo primordiale
che impone l’esistenza, una fucina sempre esuberante di nuove forme. Il dolore
della creazione consiste nel fatto che ogni nascita deriva da una scissione e ogni
ricongiungimento si realizza solo nella morte. Nietzsche adombra una
giustificazione estetica del mondo: in essa, il mondo diventa la creazione
artistica di un Dio, la sua interpretazione dello spazio, la sua invenzione di
forme: non sono forse questi gli stessi termini con cui Spengler concepisce la
nascita del macrocosmo, la scelta del simbolo primo?
Apollinee, allora, non sono solo le forme peculiari della civiltà antica ma, su un
piano ontologico più vasto, le stesse creazioni storiche: esse sono forme che
emergono dall’informe, idee che lottano contro le potenze irate del caos. Anche
qui, il mondo della bella apparenza è l’universo simbolico in cui viviamo, in cui
siamo radicati, ignari del suo essere interpretazione, inconsapevoli della sua
natura derivata. Lo sguardo che solo pochi uomini hanno avuto in dono,
consente loro di smascherare questa struttura, pur essendone parte,
irrimediabilmente. Il loro destino è di trovarsi sempre dentro e fuori quel mondo
di significati da essi percepito.
“Giacché, a nostra umiliazione ed esaltazione, bisogna che noi ci rendiamo chiaro
conto soprattutto di questo, che l’intera rappresentazione artistica non è eseguita affatto per
noi, per una nostra qualsiasi edificazione o educazione, anzi, che noi non siamo neppure i veri
e propri creatori di quel mondo dell’arte; al contrario possiamo ben ammettere di noi, che noi
stessi per il vero creatore di quel mondo siamo già immagini e proiezioni artistiche, e la nostra
343 Ivi, p.119.
154

suprema dignità consiste appunto nell’importanza che abbiamo come opere d’arte; giacché
l’esistenza e il mondo sono eternamente giustificati come fenomeno estetico.” 344 .
La consapevolezza di non essere gli artefici di ogni creazione e significazione,
ma del fatto che, alle nostre spalle, lavora una forza interpretante, è sicuramente
spiazzante: la stessa concezione dell’io, della morale, della religione, dello stato,
della natura sono il frutto di un’interpretazione che ci precede e che, al tempo
stesso, ci ingloba: per alcuni versi, noi siamo questa morale, questa natura,
questo io interpretato. La sensazione che qualcosa come un destino ci determina
e ci trascina insensibilmente, ma prepotentemente, verso determinate creazioni
simboliche appartiene anche a Spengler; la delineazioni delle fasi necessarie
delle civiltà, la discontinuità di ogni organismo storico rispondono a questa
intuizione.
“L’immagine del mondo è una mia creazione, nella quale io osservo me stesso, ed è
una parte della mia stessa natura, una parte di me, che rimango, comunque una creazione del
mondo. Tale correlazione appare imperscrutabile, né vale la pena chiedersi che cosa si
nasconda ‘dietro l’apparenza’ … un tale interrogativo è senza senso.” 345 .
Pur rifuggendo di indagare esplicitamente il problema del ‘da dove’
dell’apparenza, Spengler si pone le domande adeguate: come egli stesso ci
insegna, la logica del domandare filosofico può già indirizzare verso lo spirito di
una possibile risposta. In tal modo, lo schema metafisico-teologico de Il
tramonto dell’Occidente può emergere, nonostante l’arrestarsi timoroso
dell’intelletto dinanzi ai grandi misteri.
Spengler sa di far parte di un mondo la cui logica interna è inoltrepassabile:
traspare sempre la consapevolezza profonda che la sua stessa filosofia, il suo
modo di essere e di pensare siano solo l’esito dell’evoluzione interna di una
344 Ivi, p.47.
345 UR, p.111.
155

forma impressa alla storia all’inizio della civiltà occidentale. Ciò, però, non vuol
dire che ogni contenuto del pensiero sia predefinito ma, sicuramente, che il
significato della sua epoca di civilizzazione deve essere realizzato dal senso del
suo operato teoretico.
Resta solo da chiedersi: perché mai questa Natura divina ha bisogno di
manifestarsi nelle civiltà superiori? Da dove sorge l’esigenza di creare sempre
nuove forme? Nietzsche risponderebbe: dall’esuberanza di vita, dalla
sovrabbondanza di sé.
“Il vero ente, l’Uno primigenio, come eterno sofferente e pieno di contraddizioni, ha
bisogno, per la sua continua liberazione, della visione estasiante, della gaudiosa
apparenza.” 346 .
Il dionisiaco ha bisogno delle forme apollinee per sgravarsi della sua pienezza;
la Natura spengleriana ha bisogno di realizzarsi negli organismi storici delle
civiltà. Sempre, però, le forme soggiacciono alla logica del divenire: sorte per
porre un velo di luminosa apparenza sul fondo terrificante dell’esistenza
dionisiaca, esse anelano a ricongiungersi col tutto. Il dionisiaco ripristina i
vincoli della natura, riconcilia le forme col loro creatore.
“Il gioco di costruzione e distruzione del mondo della individualità è lo sfogo di un
piacere primordiale.” 347 .
L’esito di ogni creazione è, comunque, la morte, l’inevitabile estinguersi della
vita da ogni contenuto formale. La ‘seconda’ Natura di Spengler è depositaria di
questo sapere: caduche sono le civiltà e caduchi i loro simboli. In ogni caso,
però, essa è quell’istanza metafisica che sfugge ad ogni logica deterministica, è
la realizzazione di un’idea assolutamente non meccanicistica, è quel mistero di
346 Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, op. cit., p.37.
347 Ivi, p.169.
156

contro a cui l’intelletto umano deve arrestarsi e inginocchiarsi. La domanda sulla
Natura originaria è realmente una Urfrage nel senso spengleriano: è
quell’enigmatico interrogativo di fronte a cui “l’uomo davvero profondo si pone
in atteggiamento contemplativo, senza la fretta e l’impazienza del ricercatore
meccanicistico” 348 . Mentre l’intelletto cerca la sicurezza della comprensione che
tutto spiega, l’istinto ha la sicurezza di chi accetta il mistero. Le sue invettive
contro il sapere causale si traducono nell’apertura di uno sguardo veggente, in
grado di intuire l’atto di nascita delle forme storiche.
Le due nature dell’universo storico di Spengler si inseguono in un continuo
rimando di creazioni e di interpretazioni, inanellandosi in un gioco di riflessi
reciproci: dalla Natura vivente emergono le civiltà, come in una creatio ex
nihilo; l’anima, in quanto forma pura di una civiltà, crea il suo corpo sensibile;
la natura, alla fine, viene ricondotta a creazione simbolica e relativa di una data
animità storica. Il cerchio si chiude in un affascinante e intricato slittamento di
piani.
348 Domenico Conte, Catene di civiltà, op. cit., p.212.
157

SEZIONE SECONDA
Capitolo primo
158

La civilizzazione
Civilizzazione come destino necessario.
Spengler e la consapevolezza del tramonto.
L’analisi della civilizzazione occidentale costituisce uno degli aspetti più famosi
e suggestivi de Il Tramonto dell’Occidente: essa si annuncia, sin
dall’Introduzione, come una scoperta di enorme rilevanza storica ed esistenziale,
come il fine a cui l’immane morfologia spengleriana tende, come al suo scopo
primario. La concezione, fin qui delineata, della storia come natura vivente
trova, a questo punto, la sua ragione più profonda: le civiltà sono organismi le
cui fasi vitali seguono una logica organica necessaria; la civilizzazione si
configura come l’epoca tarda, senescente di ogni civiltà, come l’autunno che
prelude alla morte. Il problema di comprendere la civilizzazione e le forme del
suo apparire si rivela di fondamentale importanza, perché Spengler intende
leggere nei fenomeni del suo tempo i simboli di una civilizzazione incipiente e,
quindi, i segni anticipatori della fine.
“Se si vuol sapere in che forma il destino della civiltà occidentale si compirà nel
futuro, bisogna prima sapere che cosa sia una civiltà, in che rapporto essa sta con la storia
visibile, con la vita, con l’anima, con la natura, con lo spirito, in quali forme essa si manifesta
e in che misura queste forme abbiano valore di simboli e come tali vadano interpretati.” 349 .
Seguendo il suggerimento spengleriano, la delineazione della struttura organica
delle civiltà superiori ha costituito 350 lo sfondo essenziale per qualunque
discorso sulla civilizzazione o sul destino dell’Occidente: solo comprendendo
come una civiltà nasca e si sviluppi nelle sue manifestazioni sensibili, è
possibile capire come e perché essa possa tramontare. Ma quale definizione
Spengler dà della civilizzazione?
“Così considerato il tramonto dell’Occidente significa nulla di meno che il problema
stesso della civilizzazione. Qui ci si presenta una delle questioni fondamentali di ogni storia
superiore. Che cosa è la civilizzazione, intesa come conseguenza logica e organica, come
compimento e sbocco di una data civiltà?
Giacché ogni civiltà ha la sua civilizzazione. Qui, per la prima volta, queste due parole che
finora avevano designato una vaga distinzione di ordine etico, vengono assunte in un senso
periodico a esprimere una successione organica rigorosa e necessaria. La civilizzazione è
l’inevitabile destino di una civiltà. Con ciò si può raggiungere un’altezza, dalla quale si può
scorgere la soluzione dei problemi più ardui della morfologia storica. Le civilizzazioni sono
349 TO, p.14.
350 Tutta la prima sezione, infatti, ha analizzato gli aspetti della teoria spengleriana della natura e della storia,
ponendo una particolare attenzione all’espressione simbolica delle civiltà.
159

gli stadi più esteriori e più artificiali di cui una specie umana superiore è capace. Esse
rappresentano una fine, sono il divenuto che succede al divenire, la morte che segue alla vita,
la fissità che segue all’evoluzione. […] Esse rappresentano un termine, irrevocabile ma
sempre raggiunto secondo una necessità interna da qualsiasi civiltà.” 351 .
Tornano, in questa definizione, i termini già noti di divenire e divenuto, di vita e
morte: essi sono applicati non più all’antitesi tra storia e natura, ma alla stessa
civiltà secondo una scansione periodica. Ed è proprio questa la novità della
contrapposizione Kultur-Zivilisation: Spengler ha abolito ogni distinzione etica,
ogni possibile coloritura morale della degenerazione da civilizzazione, poiché
essa è solo l’invecchiamento necessario di un essere vivente che nasce, che
cresce e che muore. Ma, all’avvento della civilizzazione è legata anche la
sensazione di un destino che incombe nella sua inesorabilità organica 352 .
Spengler, cioè, sa con la certezza del suo sguardo storico, che essa è anche la
forma del tempo in cui egli vive.
Innanzitutto, la civilizzazione può essere compresa se ricondotta al carattere
intrinsecamente storico e formativo della civiltà, la cui vita si esplica
nell’espressione della propria animità, nella manifestazione sensibile delle
proprie possibilità.
“Ogni civiltà sta in un rapporto profondamente simbolico e quasi mistico con l’esteso,
con lo spazio in cui e attraverso cui essa intende realizzarsi. Una volta che lo scopo è
raggiunto e che l’idea è esteriormente realizzata nella pienezza di tutte le sue interne
possibilità, la civiltà d’un tratto si irrigidisce, muore, il suo sangue scorre via, le sue forze
sono spezzate, essa diviene civilizzazione.” 353 .
Una civiltà giunge alla sua civilizzazione quando ha esaurito le sue possibilità
espressive, quando viene meno il suo istinto creativo, formatore. Non si crea più,
ma si comincia a riflettere e a rimescolare i contenuti già presenti. Il corpo
simbolico di una civiltà si isterilisce e la vita si cristallizza in forme senza
anima.
Ogni civiltà è una creatura della natura vivente, del suo istinto apollineo,
formativo. Prima di essere donatrice di forma, è essa stessa forma che emerge da
un informe flusso originario, un organismo che si contrappone al caos dionisiaco
della natura. Come già Spengler ha anticipato, al di fuori della storia regna il
non-senso, la pura vita zoologica. La civilizzazione costituisce il punto in cui la
forma di una civiltà comincia a perdere la sua chiarezza, la sua forza vitale: le
potenze del caos, che si erano ritirate irate dal mondo della storia, cominciano a
far sentire la loro pressione sull’idea di una civiltà. Nel momento in cui essa ha
termine, la vita dell’uomo non è più storica, perché “esaurisce le ultime
351 TO, p.57.
352 Il problema esistenziale della civilizzazione come destino inevitabile sarà affrontato nel prossimo capitolo.
Per ora, il destino viene visto unicamente nella sua componente organica.
353 TO, p. 174.
160

possibilità di una esistenza piena di significato” 354 . Se lo scopo ultimo
dell’umanità superiore è sempre stato quello di realizzare “qualcosa di
assolutamente spirituale” 355 , di tradurre “un’idea in una forma storicamente
vivente” 356 , ciò che rimane dopo che una civiltà si è conclusa, è la lotta
puramente animale per la potenza.
“Resta la sola lotta per la nuda potenza, per il vantaggio animale in sé. E se prima
perfino la potenza apparentemente più priva di spiritualità continuava a servire, in qualche
modo, all’idea, ora, nelle civilizzazioni tarde, perfino il prestigio apparente di una idea è solo
una maschera per una volontà puramente zoologica di potenza.” 357 .
Nella storia di una civiltà ogni epoca assume un senso unico ed irripetibile;
viceversa, nelle tarde civilizzazioni, nel momento in cui un’animità si congeda
dalla storia, interi decenni o secoli divengono privi di importanza, di rilevanza
epocale e si tramutano in periodi puramente biologici. Spengler parla della
“augusta durata” 358 di un mondo senza storia, che permane identico a se stesso
nel carattere perenne e immutabile delle leggi naturali.
La civilizzazione, così, come tutti i grandi nuclei problematici della storia
spengleriana, viene immersa e tradotta in categorie puramente naturali.
Un’ottica vitalistica percorre l’antitesi civiltà-civilizzazione e la complica, al
tempo stesso approfondendola, attraverso l’inserimento di nuove coppie
antitetiche; esse, come si vedrà, assumeranno le vesti più impensate e finiranno
per rincorrersi in continue diramazioni.
La coppia civiltà-civilizzazione rimanda, infatti, all’antitesi originaria di essere
ed essere desto. La dimensione organica del sangue e della forma percorre un
ciclo cosmico: essa soccombe dinanzi all’avanzare delle potenze informi e
astratte delle epoche tarde, per poi riaffermarsi in un ultimo slancio di autenticità
nel momento finale, epigonale di una civiltà. In questo schema, che si cercherà
di chiarire nelle prossime pagine, Spengler non segue una logica dialettica: il
ciclo si chiude grazie alla forza stessa della vita che si riappropria delle sue
creazioni, distruggendole; la linfa vitale raggiunge il suo scopo profondo
rimpossessandosi delle forme meccanizzate e disanimate in un ultimo slancio
che prelude alla fine.
“Le potenze del sangue e della vita sono sempre in agguato nel profondo dell’essere e
tendono a riprendere il loro antico potere sul lato più recente dei viventi.” 359
354 TO, p.721.
355 TO, p.722.
356 TO, p.722.
357 TO, p.722.
358 TO, p.723.
359 TO, p.1037.
161

La dicotomia di fondo tra una lato profondo, istintuale della vita e un lato più
superficiale e razionale, costituisce il Leitmotiv dell’intera opera spengleriana e
trova, nell’antitesi civiltà-civilizzazione il suo momento più alto.
“Tale dicotomia percorre dimensioni assai diverse – la biologia e la politica,
soprattutto – sottoponendole tutte alle medesime sanzioni interpretative. La sicurezza
istintiva, immediata, insofferente dei carichi della ragione; quella sicurezza radicata sia nella
sfera biologica dell’essere sia nella sfera storica delle forme imbevute di ethos e di tradizione;
quella sicurezza che avverte sempre come inopportuno e fastidioso il ragionamento
razionalistico, sia che questo investa la dimensione biologica in guisa degli apparati sensori
superficiali dell’essere desto, sia che abbracci la dimensione politica sotto la forma astratta
delle prescrizioni della ragione illuministica: sono questi gli elementi che circolano
continuamente nell’opera di Spengler, caratterizzandola fortemente.” 360 .
Biologia e politica sono i piani sempre ricorrenti e intersecantisi in cui Spengler
dispiega le categorie del suo pensiero. Sebbene essi trovino modo di
manifestarsi nello stesso Tramonto dell’Occidente, è Urfragen il laboratorio
della metafisica naturale di Spengler. Qui la coppia essere-essere desto trova il
suo fondamento più adeguato accanto alla metafora pianta-animale.
“La mia bipartizione dell’animalità animale:
a) Nucleo: vegetativo, anima, e oltre, all’esterno, il mistero dell’universo.
b) Patina esteriore: animalesca, sensi. La superficie dell’essere si oppone alla superficie del
mondo, che la percepisce come pressione, colore, tonalità, tatto, resistenza.” 361 .
Non solo nell’ambito puramente biologico, ma anche nel campo storico, il
nucleo costituisce l’elemento istintivo ed originario della forma. La civiltà,
spesso paragonata alla pianta, consta di due piani, di due diversi spessori che,
ora, assumono anche una struttura periodica. La patina esteriore, infatti, da
membrana che racchiude e protegge, definendo un organismo rispetto al
macrocosmo, diventa l’elemento soggetto all’irrigidimento proprio della
senescenza, la componente che, pur racchiudendo il nucleo originario, si
deteriora perdendo la sua linfa vitale. Essa, di contro all’istinto, viene assimilata
all’intelligenza, al mondo causale delle verità, alla scienza e ai frutti di un
pensiero astratto. L’essere cosmico proprio alla pianta si divarica sempre più
dall’essere desto tipico della vita animale, scisso di contro alla natura.
La civilizzazione occidentale può essere compresa solo se calata in questa
griglia categoriale, che spazia dalla biologia degli organismi viventi al vitalismo
delle forme politiche. La componente metafisica della filosofia spengleriana è
sempre sullo sfondo della sua concezione storica. Ma come si esplica la
dicotomia vita-morte ne Il tramonto dell’Occidente?
360 Domenico Conte, Evoluzione (in tedesco ‘progresso’). Spengler tra vitalismo e irrazionalismo politico in
Catene di civiltà, op. cit, p.289.
361 UR, p.367.
162

“Civiltà e civilizzazione: sono come il corpo vivo di un’anima e la sua mummia. In tali
termini si distingue l’esistenza euro-occidentale di prima e dopo il diciannovesimo secolo, la
vita in una pienezza e in una naturalezza, la cui forma nasce e si sviluppa dall’interno, in un
unico slancio grandioso che dall’infanzia del gotico va fino a Goethe e a Napoleone; e quella
vita tarda, artificiale, senza radici delle nostre grandi città, le cui forme sono tracciate
dall’intelletto.
Civiltà e civilizzazione: sono come l’organismo che nasce da un paesaggio e il meccanismo
risultante dall’irrigidimento di esso. L’uomo di una civiltà vive rivolto verso l’interno, quello
di una civilizzazione vive rivolto verso l’esterno, nello spazio fra corpi e ‘fatti’. Ciò che l’uno
sente in termini di destino, l’altro lo conosce come una relazione di causa ed effetto. A partire
da tal momento si è materialisti in un senso specifico, valido solo all’interno di una
civilizzazione; lo si è, che lo si voglia o no.” 362
Ciò che Spengler ha definito essere tipico dell’interpretazione propria al mondo
come natura, ora viene fatto valere per la civilizzazione. I termini dell’antitesi
storia-natura slittano e vengono applicati a quella civiltà-civilizzazione. Ma
come è possibile questo stravolgimento di piani? La civiltà è un pezzo di quella
natura vivente che Spengler ha identificato con la storia morfologicamente
considerata; essa risponde alla legge organica di ogni essere vivente che le
impone un destino necessario di maturazione, di decadenza e di morte. Tuttavia,
proprio seguendo il suo destino organico, la civiltà si isterilisce, si cristallizza in
creazioni artificiali, che esulano dalla forma, dall’idea che ne era all’origine, in
quanto ne sono il puro irrigidimento. Lo spazio torna a regnare sul tempo. La
difficoltà nell’intendere questo mondo di antitesi consiste proprio nel
comprendere la loro costante messa in discussione, da parte di un pensiero che si
arricchisce di nuove prospettive. Il mondo come storia e il mondo come natura,
però, non sono due realtà ontologicamente definite, bensì due possibilità estreme
del pensiero. Esse, allora, vengono storicizzate e, in tal modo, assimilate,
rispettivamente alla civiltà e alla civilizzazione, che ne assorbono tutta la portata
antitetica.
La civilizzazione si configura come un destino necessario: ogni civiltà le va
incontro, che ne sia consapevole o meno. Spengler ha racchiuso nel concetto di
durata la scansione ritmica di questo trapasso, arrivando a postulare una
sincronia simbolica nel passaggio dalla civiltà alla civilizzazione.
“Nel periodo delle sue origini, nella sua ascesa e nel suo declino, in ognuna delle sue
fasi e delle sue epoche interiormente necessarie, ogni civiltà ha una determinata durata.” 363 .
Spengler stabilisce una contemporaneità, una tipicità di forme, nel trapasso dalla
civiltà alla civilizzazione. Conformemente all’impianto relativista che
caratterizza le civiltà superiori, Spengler individua tante civilizzazioni quante
sono le civiltà da lui esaminate. Vi sarà, allora, una civilizzazione babilonese,
egiziana, antica, indù, messicana, araba. Ripercorrendo le fasi organiche di
362 TO, p.528-529.
363 TO, p.179.
163

civiltà ormai scomparse, egli ha tratto la convinzione che la civiltà occidentale
sia ormai nel pieno della sua civilizzazione: i simboli del suo tempo hanno lo
stesso significato, la stessa portata dei segni che hanno accompagnato la fine di
altri mondi storici. Pur nella peculiarità delle loro forme, essi rappresentano tutti
l’irrigidimento dell’anima che li aveva costituiti: era questo, in ultima istanza, lo
scopo ultimo della morfologia comparata. Da questo punto di vista, non importa
come una certa scansione epocale si realizzi, quale sia il simbolo elementare o le
condizioni materiali che la sorreggano: l’importante è che essa si verifichi nella
portata del suo significato storico.
“Il trapasso dalla civiltà alla civilizzazione, la vittoria della metropoli inorganica sulla
campagna organica che, spiritualmente, doveva divenire provincia, era necessario, e
necessario proprio in quel punto. […] Un avvenimento fa epoca, cioè: nel corso di una civiltà
esso contrassegna un rivolgimento necessario, fatale.” 364 .
A partire dalla collocazione organica del concetto di civilizzazione, Spengler si
appresta a riconoscere i segni, nei singoli mondi formali, della senescenza della
civiltà occidentale: l’arte, la scienza, la morale, la politica, la religione sono
sottoposte a un’attenta analisi del loro linguaggio allo scopo di cogliere, anche
in esse, i sintomi della malattia da civilizzazione.
Ciascun mondo di forme si configura come un organismo che vive e che cresce
all’interno dell’organismo-civiltà e che, perciò, è sottoposto alla medesima
logica organica che governa i più grandi universi formali. Questo conduce
Spengler ad affermare la caducità non solo della civiltà, ma anche dell’arte, della
scienza, della religione, della morale interne ad essa: suo compito è quello di
disegnare il decorso morfologico di queste forme simboliche, allo scopo di
individuare le fasi della loro esistenza organica, il compiersi delle loro
possibilità vitali.
Il mondo delle forme artistiche costituisce il riflesso fedele della capacità
formativa della civiltà che ne ospita lo sviluppo. L’arte, infatti, è la sede quanto
mai adeguata per comprendere il modo in cui una civiltà perde il suo istinto
creativo, esaurisce la stessa esigenza di creare, avendo ormai espresso, in opere
piene di forza, l’anima del suo simbolo elementare.
“Ci resta ancora da seguire, nelle sue grandi linee, il concludersi dell’arte occidentale.
Qui agisce la necessità più profonda che mai sia stata in atto nella storia. Abbiamo appreso a
vedere nelle arti dei fenomeni elementari. Noi non cerchiamo più cause ed effetti nel senso
fisico per cogliere il senso complessivo del loro sviluppo. Abbiamo accordato il suo diritto al
concetto della fatalità di un’arte. Infine abbiamo riconosciuto che le arti sono degli organismi,
i quali, entro quei più grandi organismi che sono le civiltà, hanno un dato luogo, nascono, si
maturano, invecchiano e poi scompaiono per sempre.” 365 .
364 TO, p.231-232.
365 TO, p.422-423.
164

All’apice della civiltà faustiana, la musica si presenta come l’arte che meglio sa
esprimere il simbolo elementare della pura infinità spaziale. Se la scultura ha
esaurito le sue possibilità espressive già col Barocco, la musica deve ancora
percorrere le fasi della sua maturità e vecchiaia.
“Arti dello spazio, la pittura a olio e la musica strumentale assumono il dominio. E’ la
parte che nell’antichità avevano avuto le arti materiali e euclidee: l’affresco rigorosamente
piatto e la statua isolata.” 366 .
Nel momento in cui uno stile si avvicina alla sua maturità, ha bisogno di
un’assoluta purezza di espressione, di una “inesorabile chiarezza del
simbolo” 367 . Il mezzogiorno, l’estate della vita di un organismo, si presenta,
infatti, con la perfezione maggiore che sia possibile raggiungere: il simbolismo
si fa matematico, puro, intenso. Ad esempio, nella musica di Haydn e di Bach
viene raggiunta l’unione tra spirito artistico e stile matematico.
Alla fine del ‘700, anche l’architettura muore dissolvendosi nello stile musicale
del Rococò: lo spazio puro trionfa sulla materia e l’architettura perde la capacità
di rappresentare, mediante la pietra, l’anelito di infinito che col Gotico aveva
trovato la sua prima e fresca espressione.
Ma laddove Spengler legge distintamente i segni della civilizzazione, è nella
pittura impressionistica di fine Ottocento. Per alcuni versi, l’impressionismo non
designa solamente l’ultima fase dell’arte occidentale, ma una caratteristica
saliente di tutta l’arte faustiana.
“Essa non esprime forse la tendenza dell’essere desto a sentire il puro spazio infinito
come la realtà incondizionata e suprema e a considerare ogni forma sensibile che in esso si
trova come una realtà condizionata e di second’ordine – a sentir così per via della più
profonda delle necessità?” 368 .
Con l’impressionismo si attua fino in fondo il capovolgimento del senso
euclideo del mondo; esso compenetra di sé tutta la fisionomia della nostra civiltà
più tarda, in cui il simbolismo dello spazio infinito si è reso più rarefatto e
perfetto. Questo nuovo stile ha la capacità di cogliere l’impressione, l’attimo del
paesaggio in divenire. Esso dà alla pittura storia e movimento: il destino si
riflette in quest’arte della lontananza e dello sfumato. Di contro a questa
immagine dell’impressionismo come stile che abbraccia l’intera arte faustiana,
racchiudendone l’essenza, Spengler ci dà anche l’immagine relativa di uno stile
storicamente limitato all’epoca tarda della civiltà occidentale.
“Non dobbiamo nemmeno ingannarci circa il carattere del nuovo episodio pittorico,
che di là dal diciannovesimo secolo, limite fra civiltà e civilizzazione, poté dare ancora
366 TO, p.424.
367 TO, p.424.
368 TO, p.429.
165

l’illusione di una grande cultura pittorica. Esso stesso, nell’indicare come tema suo proprio la
pittura all’aria libera, ha rivelato in modo abbastanza chiaro il senso del fenomeno passeggero
che costituisce. Pittura all’aria libera: questo vuol dire un distacco cosciente, intellettualistico
e brutale da ciò che a un tratto si prese a chiamare ‘la salsa bruna’ e che, come vedemmo, nei
quadri dei grandi maestri era stato il colore specificamente metafisico.” 369 .
Il bruno da studio, tipico della pittura del ‘600, viene considerato innaturale:
l’anima che aveva sentito in questa tecnica il simbolo della nostalgia, quasi
religiosa, per l’infinito è ormai scomparsa.
“Il materialismo delle metropoli euro-occidentali soffiò sulle ceneri e produsse questa
curiosa, breve rifioritura che riprende due generazioni di pittori.” 370 .
L’impressionismo ha fatto suo lo spirito astratto e meccanicizzante di un’epoca
tarda, anzi ne è una chiara espressione. Spengler parla di arte agonizzante, che
ha concepito il ritorno alla natura come necessità di tornare al mondo
conosciuto, e non vissuto, della fisica e del concetto. La creatività delle epoche
precedenti viene meno, così come l’aura religiosa che circonda ogni anima
nascente.
“Il nuovo artista è un operaio, non un creatore. Egli dispone dei colori spettrali non
spezzati gli uni vicini agli altri. La sottile scrittura, la danza delle pennellate dà luogo a rozze
maniere: punti, quadrati, larghe masse inorganiche vengono proiettate, mescolate, distese.
[…] Arte pericolosa, scrupolosa, fredda, malata, adatta per nervi più che raffinati, ma
scientifica fino all’estremo, forte in tutto ciò che è dominio delle difficoltà tecniche,
esasperata nella sua programmaticità. Essa poté trovare un suo ambiente naturale solo nella
Parigi di Baudelaire.” 371 .
I pittori all’aria libera trasformarono la musica dello spazio in una scienza
naturale, utilizzarono il cervello anziché il cuore, la fredda ragione al posto di
quell’istinto tipico di chi si sa strumento di un’animità storica. Ogni arte in
declino abbandona la forma che promana dalla forza creatrice della civiltà, e dà
vita a creazioni in cui domina l’informe e lo sproporzionato: “questo sfarzo di
dimensioni vuote è proprio a tutte le civilizzazioni nascenti” 372 . La forma di
un’epoca domina e rende schiavi gli artisti che non sanno più padroneggiarla.
“Il segno di ogni arte vivente, cioè la pura armonia fra volontà, interna necessità e
capacità, la naturalezza del fine, l’inconscio della realizzazione, l’unità di arte e civiltà – tutto
ciò è finito. […] A partire da tale punto in essa si comincia a balbettare, ma nessuno se ne
accorge perché nessuno sa più parlare fluidamente.” 373 .
369 TO, p.434.
370 TO, p.434.
371 TO, p.435.
372 TO, p.440.
373 TO, p.440.
166

L’istinto formativo di questi artisti si è spento, come del resto anche quello della
civiltà di cui fanno parte. Tutto deve essere combinato, mescolato con fredda
lucidità, perché manca ogni spontaneità.
Spengler trae la sua diagnosi della fine dell’arte occidentale dalla comparazione
con i segni analoghi della morte dell’arte antica. Tutto combacia
sorprendentemente.
“Dobbiamo trasportarci nell’Alessandria del 200 a.C. per conoscere il frastuono
artistico con il quale una civilizzazione cosmopolita sa crearsi l’illusione che la sua arte non è
morta.” 374 .
Viene meno la capacità di desiderare qualcosa di diverso. L’arte del periodo
imperiale si limitò ad essere pura copia di opere preesistenti: gli artisti di allora
furono esclusivamente copisti. Non si era più in grado di creare e ci si rivolgeva
con sguardo nostalgico ad un passato che nemmeno si era più capaci di
comprendere. Lo spettacolo che offrono tutte le civiltà alla fine delle loro
epoche più tarde è quello di forme instancabilmente imitate che non
appartengono a nessuna epoca in particolare, poiché mancano di vita storica.
La civilizzazione dell’arte occidentale è legata ai nomi di Wagner e degli
impressionisti. Con essi si compie la fine dell’arte faustiana:
“Tutto ciò che Nietzsche ha scritto su Wagner vale anche per Manet. In apparenza,
ritorno all’elementare, alla natura di contro alla pittura contenutistica e alla musica assoluta, la
sua arte rappresenta invece un cedimento di fronte alla barbarie delle grandi città, l’iniziale
dissoluzione che nell’ambito dei sensi si esprime in una mescolanza di brutalità e di
raffinatezza; rappresenta un passo, che doveva essere necessariamente l’ultimo. Un’arte
artificiale non è suscettibile di sviluppo organico. Essa segna la fine.
Triste constatazione: segue da ciò che per l’arte figurativa occidentale l’è irrevocabilmente
finita. La crisi del diciannovesimo secolo fu l’agonia. Come ogni altra, l’arte faustiana muore
per senilità, dopo aver realizzato le sue possibilità interne, dopo aver assolto il compito che le
era stato assegnato nello sviluppo dalla sua civiltà.” 375 .
Nel delineare la civilizzazione dell’arte, Spengler propone instancabilmente il
nesso con l’artificio, con il freddo raziocinio che spesso definisce anche
l’intelligenza da grande città. Il problema della trasformazione della città in
metropoli è parallelo ed intrinsecamente legato al trapasso dalla civiltà alla
civilizzazione. I cambiamenti avvenuti nelle città contemporanee hanno prodotto
una grandissima impressione su gran parte del mondo intellettuale di allora. Lo
stesso Nietzsche, alla fine del secolo precedente, articola i discorsi e la filosofia
di Zarathustra in una dinamica di contrapposizione e di critica nei confronti della
grande città. Il mercato, la piazza sono i luoghi in cui vive la ‘piccola gente’,
l’umanità che deve essere superata.
374 TO, p.444.
375 TO, p.442-443.
167

“Amico mio, fuggi nella tua solitudine! Io ti vedo assordato dal fracasso dei grandi
uomini e punzecchiato dai pungiglioni degli uomini piccoli.
La foresta e il macigno sanno tacere dignitosamente con te. Sii di nuovo simile all’albero che
tu ami, dalle ampie fronde: tacito e attento si leva sopra il mare.
Là dove la solitudine finisce, comincia il mercato: e dove il mercato comincia, là comincia
anche il fracasso dei grandi commedianti e il ronzio di mosche velenose.” 376 .
La metropoli si configura come la negazione dell’organico, come il luogo della
folla e della massa informe. Ma come si articola il discorso di Spengler sulla
metropoli, in relazione sia alle suggestioni della filosofia nietzscheana, sia
all’ambito di una comparazione storica che lo conduce a ravvisare in essa una
fase sempre ricorrente nella storia delle civiltà superiori?
“Questo è il processo spirituale proprio al periodo ultimo di una civiltà, all’epica
ionica come a quella barocca. Come al tempo dell’ellenismo, iniziatosi con la fondazione di
Alessandria, grande città artificiale staccata dalla campagna, oggi le città che già
rappresentarono una civiltà (Firenze, Norimberga, Salamanca, Bruges, Praga) sono divenute
città di provincia, che oppongono una disperata ma vana resistenza interna contro lo spirito
delle metropoli. La metropoli significa il cosmopolitismo in luogo della patria, il freddo senso
pratico in luogo del rispetto per quanto è stato tramandato ed è maturato, l’irreligiosità
scientista come dissoluzione del precedente fervore religioso, la ‘società’ in luogo dello Stato,
i diritti naturali in luogo di quelli acquisiti.” 377 .
Ogni civiltà, come una pianta, mette radici in un determinato paesaggio, in
simbiosi col quale ha inizio il suo sviluppo organico. La vita dell’uomo di una
civiltà si svolge nella città: è qui che si attua la storia, di contro all’esistenza
senza tempo delle campagne. Ma questa radicata esistenza cittadina delle civiltà
è soggetta, anch’essa, al trascorrere del tempo e all’invecchiamento: le città
divengono il luogo dello spirito e della cultura e ne riflettono l’irrigidimento da
civilizzazione.
“Soltanto la civilizzazione con le sue città gigantesche torna a disprezzare queste
radici della spiritualità e si stacca da esse. L’uomo civilizzato, nomade intellettuale, torna ad
essere tutto microcosmo, privo di patria, spiritualmente libero come il cacciatore e il pastore.
[…] Oggi, alla fine di questa civiltà, una spiritualità senza radici vaga fra ogni possibile
specie di paesaggi e di orizzonti intellettuali. Il periodo intermedio fu quello in cui l’uomo
sapeva morire per un pezzo di terra.” 378 .
L’anima di una città è un tutto che vive, che respira, che cresce, che ha una sua
fisionomia e una sua storia. Essa è un organismo che si esprime in una peculiare
lingua delle forme, un simbolo della civiltà cui appartiene. Ma proprio là dove
era nata la vita storica, si attua il capovolgimento gigantesco delle forme viventi
in forme cristallizzate e morte:
376 Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano, 1987.
377 TO, p.60.
378 TO, p.777.
168

“E nella città, disgiunta dalle potenze del paesaggio, quasi isolata dal suolo dalla
pavimentazione, la vita s’indebolisce sempre di più, mentre la percezione e l’intelligenza si
fanno sempre più acute. L’uomo diviene spirito, diviene libero, epperò di nuovo nomade, però
più freddo e con un orizzonte più ristretto. Lo spirito è la forma tipicamente cittadina
dell’essere desto intelligente. Le religioni, le arti e le scienze divengono a poco a poco
spirituali, straniere alla terra, incomprensibili per il contadino legato alla terra. E con la
civilizzazione si ha il climaterio. Le antichissime radici dell’essere si disseccano fra le masse
di pietra delle città.” 379 .
Qui Spengler utilizza il repertorio concettuale di Nietzsche, ma ne fa slittare il
significato. Lo spirito libero diventa una creazione relativa delle epoche tarde,
laddove la libertà non è più distruzione dei vincoli metafisici e trascendenti, ma
quella di un essere che ha perso il contatto con la terra, per diventare tutto
intelletto. Da questo punto di vista, Nietzsche è inserito nel processo di
civilizzazione del mondo faustiano come uno dei suoi esponenti più
rappresentativi ma, al tempo stesso, le categorie che Spengler manovra così
abilmente sarebbero impensabili, senza il contributo del filosofo che meglio ha
saputo leggere la crisi del suo tempo.
Ogni città assorbe gli eventi che l’hanno percorsa, serbandone il segno tra le sue
strade e i suoi palazzi; essa è storica sia perché è soggetta al trascorrere del
tempo, sia perché reca il segno e la fisionomia delle civiltà che ospita. Spengler
individua, cioè, degli elementi tipici, peculiari nel volto di ciascuna città che
rimandano al simbolo elementare della civiltà da cui promanano; ma, al di là
delle differenze, legge nello sviluppo dei nuclei urbani un medesimo procedere
verso le forme tarde delle epoche da civilizzazione. Alla fine di ogni civiltà, le
città perdono la loro anima prettamente storica e fagocitano i centri più piccoli,
che diventano pura provincia, lontana dai processi storici. Le metropoli
assurgono a sede della politica mondiale, ma il prezzo che esse pagano è il totale
sradicamento dal paesaggio e dalla forma da cui erano sorte.
“La ‘cosmopoli’, questo colosso di pietra, la si incontra alla fine del ciclo di ogni
grande civiltà. L’uomo della civiltà, che era stato formato spiritualmente dalla campagna,
diviene proprietà e strumento della sua stessa creatura, della città, e infine viene ad essa
sacrificato. Questa massa di pietra è la città assoluta. Quale si disegna in una grandiosa
bellezza nel mondo illuminato dell’occhio umano, la sua imagine contiene tutto l’augusto
simbolismo della morte proprio a ciò che è definitivamente ‘divenuto’.” 380 .
La metropoli distrugge il paesaggio, la natura si fa artificiale, mutano suoni e
colori: tutto si intona al grigio della pietra. L’abitante di queste metropoli è
l’uomo civilizzato, senza radici perché abituato a vivere in città che sono tutte
uguali, che hanno ormai perso la peculiarità della loro fisionomia storica. Le
379 TO, p.781.
380 TO, p.793.
169

città organiche, centro della vita politica e religiosa, si trasformano in cittàalveari,
le cui case si riducono a puri dormitori, in cui regna l’inorganico.
La città si fa astratta, priva di anima, le sue forme divengono puramente
geometriche. Questo processo è rintracciabile anche nel mondo antico, dove le
metropoli rimasero fedeli, pur nella loro espansione e smisuratezza, alla
corporeità euclidea.
“Mentre le città gigantesche dell’era presente palesano tutto il nostro impulso verso
l’infinito, la metropoli schiettamente antica non volle espandersi ma divenire sempre più
compatta. […] Anche ora la città deve essere un corpo, solido e rotondo, soma in senso
stretto.” 381 .
Nella Roma imperiale, ad esempio, questo si ottenne mediante lo sviluppo in
altezza delle costruzioni dove, nella più grande miseria, vivevano masse umane
ormai imbarbarite.
La massa urbana è l’elemento che caratterizza ogni civilizzazione: essa è la
protagonista della vita cittadina e di quella politica 382 . Di contro alle caste
originarie della nobiltà e della sacerdotalità, distinguendosi anche dalla
borghesia cittadina, la massa rappresenta il tipo umano collettivo tipico delle
metropoli odierne:
“La massa rappresenta l’assolutamente informe, che perseguita con odio ogni specie di
forma, ogni differenza di rango, la proprietà ordinata, il sapere organizzato. E’ il nuovo
nomadismo delle cosmopoli, per il quale gli schiavi e i barbari del mondo antico, i çûdra
dell’India e, infine, qualsiasi tipo di uomo si dissolvono in ugual misura in alcunché di
ondeggiante completamente disgiunto dalle origini, non riconoscente più il proprio passato né
possedente un futuro. Con il che il Quarto Stato diviene l’espressione della storia che
trapassa nella non-storia. La massa è la fine, è il nulla radicale.” 383 .
La massa è l’inorganico che subentra all’organica articolazione delle classi. Ma
come si svolge la sua esistenza? Quali sono i simboli tipici della civilizzazione
cittadina?
Spengler ha sempre cercato di distinguersi dai suoi contemporanei; in A me
stesso traspare continuamente la sensazione di una profonda solitudine umana ed
intellettuale, l’incapacità di trovare qualcuno con cui sia possibile una
conversazione che esuli dalla superficialità moderna. Spengler ha la sensazione
di appartenere ad un altro rango spirituale ma sa bene come gli sia impossibile
sfuggire al suo tempo, se non a costo di un alto prezzo 384 .
381 TO, p.796.
382 La massa urbana è la protagonista della democrazia contemporanea, la cui esistenza è in diretta connessione
con la nascita della classe borghese e della potenza astratta del danaro. Le dinamiche politiche ed economiche di
questi simboli della civilizzazione occidentale saranno prese in considerazione nel secondo paragrafo di questo
capitolo. Per ora, la massa sarà definita solo in base alla sua esistenza tipicamente cittadina.
383 TO, p.1184.
384 “Lo stesso senso di oppressione provo talvolta per il fatto di essere in questo secolo. Viene spogliato di tutto:
civiltà, belle zza, colori. Una volgare quotidianità in forma di tecnica, ‘ragione’, igiene diffonde su tutte le cose
170

La massa è la ‘piccola gente’ degli svaghi e dei divertimenti; come nell’antica
Roma essa si ciba di panem et circenses.
“Cinema, espressionismo, teosofia, pugilato, danze negre, poker, scommesse alle
corse, tutto questo lo si può ritrovare sotto altra forma anche in Roma antica e un competente
potrà individuare fenomeni analoghi nelle città cosmopolite esistite in Cina, in India, in
Arabia.” 385 .
Per Spengler, chi vive nelle metropoli, non può più separarsene: il suo spirito si
è ormai isterilito, si è fatto tutta tensione, essere desto, “il ritmo cosmico si è
ritirato dalla sua vita” 386 . L’ultimo uomo è animato dall’intelligenza, dalla
volontà di comprendere fino all’estremo, di scoprire e svelare ogni cosa.
L’intuizione del destino si indebolisce a favore dell’esigenza di una conoscenza
per cause:
“L’intelligenza è l’esercizio perfetto del pensiero che si sostituisce ad una esperienza
inconscia della vita: è qualcosa di scarno, di squallido. I visi intelligenti degli uomini di tutte
le razze si rassomigliano. E’ la stessa razza che da essi si è ritirata.”. 387
La razza è l’elemento cosmico che si associa al sangue, al destino, all’essere:
tutto questo scompare negli uomini della civilizzazione. La stessa denatalità è
indice di una sterilità di fondo che caratterizza i periodi tardi di tutte le civiltà.
Lo spettacolo che si offre è quello di città sempre più vecchie e spopolate, prive
della voglia di vivere e di rigenerarsi. Ma chi è stato sedotto dall’ultimo scorcio
di vita di queste creature gigantesche, non riesce a liberarsene.
“I popoli delle origini possono staccarsi dall’ambiente ed emigrare lontano. Il nomade
intellettuale non lo può più. La nostalgia per la grande città è forse più forte di qualsiasi altra.
Per lui la patria significa ognuna di queste città, mentre già il villaggio più vicino ormai gli
rappresenta qualcosa di estraneo. Si preferisce morire sull’asfalto delle strade anziché tornare
alla campagna. Perfino il disgusto per questa magnificenza, la stanchezza provocata da queste
luci di mille colori, il taedium vitae che alla fine assale parecchi, non riescono a liberarli. Essi
portano seco la città anche nei monti e al mare. Essi hanno perduto la campagna in se stessi e
non la ritrovano più all’esterno.” 388 .
Ma come si colloca lo stesso Spengler rispetto a questo affresco delle metropoli
odierne? Qual è la sua posizione teorica ed esistenziale?
Nel suo strutturare ogni problema in antitesi, egli non si preoccupa mai di
occultare il suo giudizio di valore e, perciò, il suo propendere per l’uno o l’altro
l’alito dell’ordinarietà. Non c’è più gusto a vivere oggi” (O.Spengler, A me stesso, op. cit, p.67-68). Il disgusto
per il suo tempo si converte in alta consapevolezza ma, al tempo stesso, nella profonda difficoltà di vivere e di
comunicare.
385 TO, p.799.
386 TO, p.797.
387 TO, p.798.
388 TO, p.797.
171

termine. Ma, come si è già avuto modo di notare, le antitesi spengleriane non
sono sempre di facile interpretazione: esse sfuggono a immediate catalogazioni
anche perché, chi le pone, fa parte di esse. Per questa ragione, non ci si può
limitare a registrare il disprezzo per il mondo senza forma delle città: Spengler
abita in esse, le conosce perfettamente anche se il suo punto di vista si spaccia
per una prospettiva isolata e dall’alto.
Ma, soprattutto, che funzione avrebbe il puro disprezzo? Spengler non apre
nessuno spiraglio nei confronti di un rinnovamento o di una rinascita di forme
ormai passate: “Indietro non si torna, non v’è che da andare avanti” 389 . Il
destino della civiltà occidentale volge verso la fine, irreversibilmente. L’analisi
della metropoli è un topos della cultura moderna; essa accomuna Spengler e
Nietzsche in un senso che va oltre la pura concordanza dei termini. L’attacco
alla Zivilisation della metropoli è anche una figura dello Zarathustra.
“Così, passando lentamente in mezzo a varie genti e a città d’ogni genere, Zarathustra
allungava la via del ritorno alla sua montagna e alla sua caverna. Ed ecco che, senza
accorgersene, si trovò davanti alla porta della grande città: qui un pazzo furioso gli balzò
incontro e gli sbarrò il cammino. Ma costui era lo stesso pazzo che il popolo chiamava la
‘scimmia di Zarathustra’: egli infatti aveva ricopiato qualcosa della costruzione e del tono dei
suoi discorsi e volentieri prendeva in prestito dal tesoro della sua saggezza.” 390 .
La scimmia di Zarathustra 391 è un discepolo del suo insegnamento che, però, non
ha vinto il puro disprezzo per la metropoli. Non appena lo incontra, inizia la
serie di improperi e di giudizi contro la feccia che abita le grandi città:
“Oh Zarathustra, qui è la grande città: qui nulla hai da cercare e tutto da perdere.
Perché sei voluto passare a guado attraverso questa melma? Abbi compassione dei tuoi piedi!
Sputa piuttosto sulla porta della città e – torna indietro!
Qui è l’inferno dei pensieri da eremita: qui i grandi pensieri vengono bolliti vivi e cotti a
pezzi. Qui marciscono tutti i grandi sentimenti: qui soltanto sentimentucci scheletriti possono
far rumore coi loro ossicini! […] Non vedi le anime penzolare come stracci sudici e stracchi?
– E di questi stracci fanno anche giornali! […] Tutti sono infermi e appestati di opinioni
pubbliche. […] Sputa su questa città di mercanti e torna indietro!
Qui il sangue scorre sempre marcio e schiumoso per tutte le vene: sputa sulla grande città che
è la grande cloaca dove tutta la feccia si raduna schiumeggiante!” 392 .
Il discorso della scimmia è sorprendentemente simile alla critica spengleriana
della metropoli: i termini collimano, il giudizio sui giornali e l’opinione pubblica
si trova anche ne Il tramonto dell’Occidente. Ma questo vuol forse dire che
389 TO, p.796.
390 Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, op. cit., p.214.
391 Il riferimento alla scimmia di Zarathustra non è casuale. Come ricorda Conte nella sua Introduzione a
Spengler (op. cit., p.38, nota 2), Thomas Mann ebbe a dire: “Come vede, non ho voltato le spalle a Nietzsche,
anche se, certamente, rinuncio ben volentieri alla sua astuta scimmia, il signor Spengler”. Quello che intendo
stabilire è se tale appellativo gli sia realmente attribuibile o se, almeno, in questo contesto, egli abbia superato il
puro scimmiottamento dei concetti nietzscheani in una maturata considerazione del problema della metropoli.
392 Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, op. cit., p.214-215.
172

anche Spengler si trova nella condizione di essere rimproverato e disprezzato da
Zarathustra, come il suo discepolo? Ciò che qui è in questione non è l’affinità
dei contenuti, bensì la capacità di Spengler di andare oltre il disprezzo per la
civilizzazione, che pure anima le sue pagine. Nietzsche stesso si mette alla
prova: l’invito che la scimmia fa a Zarathustra di tornare indietro è la versione
nichilista e malata del pensiero dell’eterno ritorno. La rabbia di Zarathustra alle
parole del pazzo è indice di un disprezzo per chi, limitandosi a disprezzare, è
diventato parte di ciò che odia: “Perché hai abitato così a lungo presso la palude,
tanto da diventare tu stesso rana e rospo?” 393 . Zarathustra disprezza il suo
disprezzo, non comprende perché abbia messo in guardia lui e non se stesso. La
scimmia tenta il suo pensiero più profondo, lo scimmiotta appunto. Ma perché
Zarathustra non può tornare indietro? Non è questo l’eterno ritorno?
“No. Questo è lo spirito di gravità, l’essere ancorati al dato, il non poterlo che
contemplare. […] Limitarsi al disprezzo senza far luce, senza comprendere. Subire il destino
– non teorizzarlo. Essere la scimmia, la farsa di Zarathustra – non la sua tragedia. L’eterno
ritorno non è tornare indietro – ma ripetersi oltrepassando. Comprendersi per insegnare. […]
Così, disprezzare la metropoli non conta. Questo disprezzo ci lega, ci fa vivere in negativo. Il
gracidare della scimmia nasconde invano questa servitù. Zarathustra guarda a lungo la
metropoli e tace. Il suo problema è conoscerla: vederne il tempo e il destino. Ritornare a
prima della metropoli, o ritornare indietro, sui propri passi, è l’idea dei nani e delle
scimmie.” 394 .
Zarathustra insegna al pazzo che dove non è possibile amare, bisogna passare
oltre, accettare anche ciò che ci procura dolore. La metropoli esiste, è un fatto
del nostro tempo. Spengler, come Zarathustra, non si limita a disprezzarla, ma la
colloca nel tempo, cerca di prevederne il destino, senza tentare di mutarlo.
Anche Spengler è come tentato dallo spirito di gravità, ma cerca con molta
lucidità di contemplare i segni dell’imminente tramonto della sua civiltà e di
passare oltre. La sua immane difficoltà consiste nel collocarsi dentro e fuori la
realtà storica offerta al suo sguardo, di darne un lucido quadro nella dolorosa
consapevolezza di farne parte.
Lo stadio finale della vita delle città è il suicidio della razza, lo spopolamento di
questi centri giganteschi: la storia passata ce ne ha sovente offerto degli esempi.
Si tratta di un’estinzione interna, di un’autorinuncia.
“A tal punto la storia della città ha termine. Da mercato delle origini divenuta città di
civiltà e infine città cosmopolita, essa sacrifica il sangue e l’anima dei suoi creatori a questa
evoluzione e al suo ultimo frutto, allo spirito della civilizzazione, finendo così col distruggere
anche se stessa.” 395 .
393 Ivi, p.216.
394 Massimo Cacciari, Dialettica del negativo e metropoli in Metropolis, Officina Edizioni, Roma, 1973, p.32-33.
395 TO, p.805.
173

Di contro all’anima formata dei popoli che appartengono e che vivono in una
civiltà, i popoli che vengono dopo la sua fine sono definiti da Spengler popoli di
fellahim, cioè incapaci di quella coesione e forma interna che, sola, può
garantire loro l’indipendenza di contro alle altre genti. Anche i popoli, infatti,
sono simboli di una civiltà: quando questa si estingue si riducono a essere preda
di popolazioni più giovani e coese.
“Per quanto riguarda i popoli primitivi e i popoli di fellahim, la loro vita si esaurisce in
quegli alti e bassi zoologici, in una vicenda disordinata priva di un fine e di una durata
determinata, nella quale, pur accadendo moltissime cose, in fondo, in un senso superiore,
nulla accade. Popoli storici, popoli la cui esistenza sia la storia mondiale, sono soltanto le
nazioni. 396 ”
La caratteristica fondamentale dei popoli civilizzati è il loro anelito alla pace
mondiale: la debolezza li spinge a codificare un cosmopolitismo che assicuri
loro benessere e stabilità. Ma questo, per Spengler, è sintomo di un
indebolimento della vita: le potenze del sangue hanno abbandonato tali popoli
che sono destinati a perire per mano di nazioni giovani e più aggressive, a
diventarne gli oggetti.
“Tutti i riformisti e i cittadini del mondo difendono ideali da fellach, coscientemente e
incoscientemente. Il loro trionfo significa una abdicazione della nazione non a favore della
pace universale bensì di altre nazioni.” 397 .
Un popolo, in tal modo, retrocede in uno stadio prettamente naturalistico in cui
coloro che prima versarono il sangue per la loro nazione, finiscono per farlo in
favore di altri. La subordinazione è il destino di ogni civiltà che si incammina
verso il tramonto, di ogni cosmopolitismo da grande città.
La civilizzazione occidentale costituisce un tema affascinante e vorticoso che
rischia di prestarsi ad infiniti confronti e suggestioni. Spengler, d’altro canto, ha
disseminato Il Tramonto dell’Occidente di numerose interpretazioni di questo
fenomeno, che lo coinvolge così da vicino e urgentemente. Accanto all’arte e
alla città, le sue analisi si sono rivolte ai contesti più disparati, ma l’esame del
trapasso dell’anima e della morale occidentali dalla civiltà alla civilizzazione
costituisce una delle prospettive più significative di questo fenomeno. La
morale, infatti, è il terreno di nascita e di coniazione dei valori di una civiltà e,
perciò, costituisce lo specchio fedele dell’esaurirsi della capacità formativa ed
espressiva di un’animità storica nel momento della sua senescenza.
Di contro all’aura misteriosa che avvolge la concezione dell’anima di una
giovane civiltà, la psicologia sistematica la considera un mero meccanismo, un
aggregato di parti e di funzioni.
396 TO, p.900.
397 TO, p.924.
174

“Associazioni, appercezioni, affetti, moventi, pensiero, sentimento, volontà: sono tutti
meccanismi morti, la cui topografia ha costituito il contenuto insignificante della nuova
scienza dell’anima. Si voleva cercare la vita e si è finiti in un’ornamentistica di concetti.” 398 .
L’immagine della propria anima che ciascuna civiltà possiede è sottoposta
anch’essa al trascorrere del tempo e alla degenerazione. L’anima faustiana, il cui
simbolo elementare è lo spazio infinito, piega il suo anelito di potenza e il suo
fondamentale aristocraticismo alla cultura massificata delle metropoli. L’anima
dell’uomo si spiritualizza fino a diventare puro intelletto astratto, pura tensione:
la componente dell’essere e del sangue, che si esprimeva nell’ansia di conquista
e di conoscenza, si spegne nell’acconciarsi ai piaceri piccoli e meschini del
benessere quotidiano. Anche nelle scienze, la polarità fra intenditore e profano è
un simbolo che comincia a venire meno, proprio perché il sentimento faustiano
della vita è in via di spegnersi.
La caratteristica di ogni civilizzazione è il rivolgersi delle forze creatrici
dall’interno verso l’esterno: avendo esaurito le sue possibilità formative, una
civiltà cristallizza le forme precedenti e rivolge ogni azione verso ciò che la
circonda. Questo fenomeno tipico di ogni civilizzazioni risulta potenziato nella
civiltà occidentale, il cui desiderio di spazi infiniti si traduce in un’espansione
territoriale e imperialistica.
“La civiltà faustiana fu, dunque, orientata in massimo grado verso l’espansione,
espansione sia politica, sia economica, sia spirituale; essa ha superato ogni limite geografico e
materiale; senza nessuno scopo pratico, solo per amore di un simbolo, essa ha cercato di
raggiungere il polo nord e il polo sud; infine, essa ha trasformato la superficie terrestre in un
unico dominio coloniale e in un unico sistema economico.” 399 .
La compresenza di questi aspetti, apparentemente in contraddizione, caratterizza
l’anima faustiana da civilizzazione. La grandezza come la piccolezza si
esasperano nella profonda coscienza di una povertà interiore che deve essere
compensata da un mondo esterno da conquistare. Il ridimensionamento di
un’anima che diventa tutta microcosmo di contro a un mondo da conoscere e da
assoggettare, si traduce in una morale da civilizzazione.
La morale, come mondo conchiuso di forme, è anch’essa un organismo interno
alla civiltà da cui promana: come l’arte e la scienza, anch’essa subisce
l’invecchiamento tipico di ogni essere vivente.
“A fianco di queste grandi unità delle forme, il cui divenire, compiersi e terminarsi
abbraccia un numero predeterminato di generazioni umane e che dopo una vita di pochi secoli
sono irrevocabilmente destinate a morire, v’è il gruppo delle morali apollinee e di quelle
faustiane, che nel loro insieme vanno parimenti concepite come unità d’ordine superiore. La
loro esistenza è un destino che si deve accettare.” 400 .
398 TO, p.453.
399 TO, p.506.
400 TO, p.518.
175

Spengler mira a distinguere “le chiacchiere letterarie dei filosofi dell’etica
sociale e degli apostoli umanitari dagli istinti profondi della civilizzazione
europea” 401 . La morale faustiana è la morale della volontà di potenza, la morale
dei signori nietzscheana; di contro ad essa, la tendenza volgare e superficiale al
benessere pubblico e alla felicità rappresenta solo il lato negativo dell’etica
occidentale: tra questi due universi di valori Spengler stabilisce una scansione
periodica, la stessa che porta dalla civiltà alla civilizzazione. Ma che cosa
avviene quando un sistema etico entra nella sua fase più tarda? Qui la dicotomia
essere-essere desto si traduce in quella tra ethos e morale.
“L’ethos è la struttura interiore, la tendenza della vita volta a una meta, tendenza
istintiva e non scoperta stillandosi il cervello. La morale, al contrario, è legge, premio e
punizione per le azioni individuali commesse, scaturenti dal pensiero causale, ‘eternamente
giusta e non viva’.” 402 .
L’ethos è un modo di vivere superindividuale, che non si sceglie perché si fa
parte del mondo storico da cui anch’esso è scaturito. Ecco perché Spengler
sostiene che non si può cambiare coscientemente la propria morale: essa fa parte
di noi e ci determina. Ma la morale in senso stretto diventa puro regolamento,
legge esteriore e causale, puramente intellettiva: essa è la forma tipica della
civilizzazione. Torna la dinamica fra forme vive e forme cristallizzate:
“Essere in grado di identificare l’ethos contenuto nei fenomeni della storia equivale a
vedere forme vive. La morale, invece, irrigidisce, pietrifica, fossilizza in quanto regolamento.
La morale è astratta come la ragione illuministica. […] L’ethos, che è istintivo, si accontenta
di sé: esso non può essere insegnato. La morale, che è riflessiva, vuole educare.” 403 .
Il processo di civilizzazione della morale segna l’abdicazione dell’anima a
favore del cervello: ciò si riflette sulla percezione che ciascuna civiltà ha
dell’anima individuale e del suo sistema etico.
“Non appena la vita diviene stanca, non appena si sente il bisogno di una teoria per
organizzarla nel quadro artificiale delle grandi città, le quali oggi sono mondi spirituali a sé,
non appena la vita diviene oggetto di scienza, la morale va invece a costituire un problema. La
morale di una civiltà è quella che si ha, la morale di una civilizzazione è quella che è oggetto
di una ricerca.” 404 .
La morale come problema è una situazione tipica sia del socialismo etico
faustiano sia delle dottrine stoiche ed epicuree del mondo antico. La morale di
una giovane civiltà viene percepita con naturalezza, non viene avvertita come un
401 TO, p.525.
402 UR, p.487.
403 Domenico Conte, Evoluzione (in tedesco progresso) in Catene di civiltà, op. cit., p.282.
404 TO, p.531.
176

peso: “solo il malato sente le proprie membra” 405 . Spengler mutua da Nietzsche i
concetti di malattia, di nichilismo, di decadence, ma li rende tipici di ogni epoca
tarda. In particolare il concetto di transvalutazione dei valori gli è indispensabile
per spiegare la crisi creativa che colpisce ogni civilizzazione :
“Quando Nietzsche usò per la prima volta la formula ‘inversione di tutti i valori’, il
movimento spirituale del secolo, nel punto di mezzo del quale noi stiamo vivendo, trovò
finalmente la sua formula. Inversione di tutti i valori: questo è il carattere più intimo di ogni
civilizzazione. Si comincia col dare una diversa impronta a tutte le forme della preesistente
civiltà, col capirle e con l’adoprarle in altro modo. Non si crea più, ci si limita a cambiare il
senso di quel che esiste. In ciò sta l’aspetto negativo di tutte le epoche di tale tipo. Esse
presuppongono come avvenuto l’atto puramente creativo. Esse raccolgono la mera eredità di
grandi realtà.” 406 .
Una civiltà che invecchia non ha più energia creativa; la morte dei valori e delle
forme della sua giovinezza le impedisce di coniarne degli altri. Ciò che ci si
limita a fare è copiare - come nell’arte - rimescolare, riflettere a partire dalle
forme già date. La strumentalizzazione dell’apparato filosofico nietzscheano
conduce Spengler a relativizzare un pensiero che, invece, ha saputo
comprendere e addirittura accelerare la crisi del mondo contemporaneo,
leggendo nel fondo dell’animo umano. Il vuoto creato dalla morte di Dio
conduce al nulla svilente e terrificante dell’assenza dei fondamenti del nostro
agire. Spengler, come Nietzsche, registra questo evento epocale ma lo espande a
tutti gli aspetti della civilizzazione occidentale, fino a considerarlo un momento
sempre ripetentesi nelle epoche tarde di ciascuna civiltà. L’impoverimento della
vita nell’intellettualismo da grande città è un episodio riscontrabile anche nel
tardo impero romano o nell’India buddista: similmente, anche noi occidentali
stiamo vivendo la negazione di tutte le grandi forme della civiltà, la morte di una
vita millenaria. E’ quello che Nietzsche ha definito l’avvento del nichilismo:
“Esso non è estraneo a nessuna delle maggiori civiltà. Secondo necessità, esso si lega
alla conclusione di ciascuno di questi possenti organismi. Socrate era nichilista e così pure
Buddha. […] Qui non si tratta di mutamenti politici e economici; anzi, nemmeno di
mutamenti propriamente religiosi o artistici. In genere, si tratta di qualcosa di inafferrabile,
non di fatti, ma della natura di un’anima che ha completamente finito di realizzare le sue
possibilità. […] Non si tratta, qui, della vita esteriore, del livello di vita, delle istituzioni, del
costume, ma di ciò che vi è di più profondo, di ultimo, dell’esser finito dell’uomo delle
metropoli.” 407 .
Ogni civiltà ha il suo modo peculiare di estinguersi, per cui vi sarà un nichilismo
apollineo, faustiano o buddhista. Esso consisterà nell’autonegazione della stessa
civiltà: tutti gli ideali, le forme artistiche o religiose vengono liquidate, ma la
405 TO, p.529.
406 TO, p.526-527.
407 TO, p.528.
177

modalità di questa negazione esprime ancora una volta il simbolo primo da cui
ogni civiltà era nata.
“Il nichilista faustiano, Nietzsche come Ibsen, Marx come Wagner, infrange gli ideali;
il nichilista apollineo lascia che essi crollino sotto i suoi occhi; il nichilista indù si stacca da
essi e si ritira in se stesso.” 408 .
Naturalmente, come per la maggior parte dei contributi nietzscheani a Il
tramonto dell’Occidente, anche il problema del nichilismo, dell’inversione dei
valori e della decadenza agiscono su un piano che va oltre quello ammesso e
formulato esplicitamente da Spengler. Questi, con la sua opera, fa parte del
destino nichilistico dell’Occidente, anzi contribuisce ad esasperarne la
consapevolezza. Il suo porsi al di fuori di un processo storico di cui, invece, è
intrinsecamente parte corrisponde alla strategia, già più volte messa in atto, di
sdoppiare la prospettiva del suo sguardo, di renderla più profonda ed
inattaccabile. In realtà, Spengler sa bene che dalla propria civiltà e dal proprio
destino è impossibile sfuggire; come Nietzsche, egli ha imparato a percorrere il
tramonto. Ciò che li distingue sta nella grande prospettiva di riscatto e di
creazione di quella nuova umanità prospettata da Nietzsche-Zarathustra ma tanto
criticata da Spengler.
“Vi è un significato profondo nel fatto che Nietzsche ci si mostra perfettamente lucido
e sicuro finché si tratta di considerare ciò che va distrutto e diversamente valutato, ma si perde
in nebulose generalità non appena si chieda il perché, lo scopo di tutto questo. La sua critica
della decadenza è irrefutabile, ma la sua dottrina del superuomo è una fantasia.” 409 .
Al nichilismo passivo, Nietzsche opponeva un nichilismo attivo, creatore:
l’inversione dei valori non era il loro rimescolamento da parte di un’anima
stanca e malata, ma la creazione di un modo diverso di concepire i valori che
esulasse dalla pretesa di validità assoluta ed eterna della tradizione metafisicocristiana.
Il loro sovvertimento non è sintomo di vecchiaia e di morte, ma di un
tramonto che prelude a una nuova creazione.
“Tutt’intorno è autunno e cielo puro e pomeriggio. Guardate la pienezza attorno a noi!
Bello è guardare verso mari lontani, dalla sovrabbondanza. Un tempo, nel guardare verso mari
lontani, si diceva Dio; ora però io vi ho insegnato a dire: superuomo. Dio è una supposizione;
ma io voglio che il vostro supporre non si spinga oltre i confini della vostra volontà creatrice.
Forse che potreste creare un dio? – Dunque non parlatemi di dei! Certo, voi potreste creare il
superuomo.
Forse non voi stessi, fratelli! Ma potreste creare in voi i padri e gli antenati del superuomo: e
questo sia il vostro creare migliore.” 410 .
408 TO, p.536.
409 TO, p.547.
410 Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, op. cit., p.100. Senza pretendere di entrare nel cuore del pensiero
di Nietzsche, un tentativo di mettere a confronto l’atteggiamento e i problemi del tramonto di quest’ultimo e di
Spengler sarà percorso nel secondo capitolo di questa sezione.
178

Ne Il tramonto dell’Occidente, invece, si percepisce solo un’atmosfera luttuosa
di fine e di commiato. Le pagine dedicate alla civilizzazione della morale
faustiana, però, si arricchiscono del profondo disprezzo nei confronti di un
mondo in cui non è più possibile riconoscersi e acconciarsi.
Ma come si esplicita l’etica da civilizzazione? Quali sono le sue caratteristiche?
Ogni sistema di comportamento è un riflesso della conoscenza nella vita, “la
giustificazione di una morale pratica che deve regolare la vita perché questa in
se stessa non ha più alcuna norma” 411 . Il mondo cessa di essere considerato da
quell’altezza da cui solo i grandi uomini del passato seppero contemplarlo: alla
prospettiva da aquila si sostituisce quella da rana, alla morale tragica la morale
plebea.
“La morale tragica di una civiltà conosce e comprende la durezza dell’esistenza, ma
sente un orgoglio nell’affrontarla. […] La morale plebea di Epicuro e della Stoa, delle sette
del tempo del buddismo e del diciannovesimo secolo è una tattica per scansare il destino.” 412 .
Tutto ciò che era grande e fiero diventa piccolo e meschino. La natura
intrinsecamente religiosa dell’anima di una civiltà si converte nell’irreligiosità
tipica delle metropoli. “L’essenza di ogni civilizzazione è l’ irreligione” 413 :
l’anima ha perso il profondo legame con la sua idea, la dimensione creatrice del
suo operare. Ogni tratto dell’esistenza perde a poco a poco la sua religiosità: al
creare subentra il costruire.
La protagonista della morale di quest’epoca di decadenza è la plebe informe
delle grandi città: essa anela all’uomo nuovo, si abbandona all’ottimismo più
irragionevole e sfrenato nella sua più misera mediocrità.
“L’uomo nuovo rappresenta la plebe informe, inondante tutte le metropoli al posto del
popolo, è la massa cittadina sradicata in luogo dell’uomo di un paesaggio da cultura. E’ il
frequentatore dell’agora di Alessandria e di Roma e la sua corrispondenza sincrona è il
moderno lettore di gazzette; è l’uomo istruito, quel seguace del culto di una mediocrità
intellettuale e della pubblicità che esiste oggi, come era esistito allora; è l’uomo antico e
occidentale frequentatore di teatri e dei luoghi di divertimento, appassionato per lo sport e per
la letteratura alla moda. Non l’umanità, ma questa massa che affiora in periodi tardi è
l’oggetto della propaganda stoica e socialistica.” 414 .
Spengler ha descritto quello che è, ancor’oggi, il mondo occidentale e ciò può
far immaginare quale impressione disorientante abbiano recato tali parole
innanzitutto fra i suoi contemporanei. Pur se si tiene conto delle sue posizioni
marcatamente conservatrici, risulta chiaro che Spengler ha comunque saputo
guardare in faccia al suo tempo e metterne a nudo la piccolezza. L’attivismo
411 TO, p.532.
412 TO, p.532-533.
413 TO, p.538.
414 TO, p.540.
179

sociale frettoloso della civilizzazione va tenuto nettamente distinto dalla volontà
di potenza faustiana: lo spirito evade da se stesso distraendosi, occupandosi di
mille minuzie e diatribe. La cura per il fatto biologico della digestione,
dell’igiene e della nutrizione fa parte di questo piccolo mondo.
Ma il migliore esempio di etica da civilizzazione ce lo offre il socialismo:
sebbene costituisca il carattere tipico della morale occidentale, esso ha saputo
trasformare il tempo e il destino in un meccanismo razionale.
“La direzione è ciò che è vivo, il fine è ciò che è morto. E’, in genere, faustiano
l’ardore dell’andar avanti, è socialistico in particolare il resto meccanico di questo
movimento, il progresso.” 415 .
L’agire faustiano si trasforma nell’etica del lavoro, nel concetto di produzione e
di progresso. Il socialismo da civilizzazione è, però, il coronamento logico e
pratico dell’anelito faustiano verso un fine e, perciò, ne segna la conclusione.
“Quest’anima è volontà e null’altro; essa abbisogna di un fine per la sua nostalgia
colombiana; essa deve almeno fingersi un senso e un fine della sua attività.” 416 .
Il bisogno di autoilludersi è proprio di ogni anima che teme il nulla dei suoi
fondamenti. La lucida consapevolezza mostrata anche da Nietzsche nel
comprendere come per l’uomo sia meglio volere il nulla anziché non volere, la
necessità dell’anima faustiana di porsi sempre innanzi una meta che dia senso al
suo agire, viene assimilata da Spengler e adattata all’etica da civilizzazione.
Qualcosa di questa menzogna indispensabile alla vita è presente negli ideali
dell’etica sociale.
“Il socialismo politico, economico, etico, tace rigorosamente circa la serietà distruttiva
delle sue finalità ultime, onde salvare l’illusione di una necessità storica della sua
esistenza.” 417 .
Secondo Spengler, la civiltà occidentale muore in virtù di se stessa: essa crea nel
suo seno quelle forze che finiranno col negarne la forma. Si tratta di
un’autonegazione che, nel momento stesso in cui viene messa in atto, risponde
intimamente, per un’ultima volta, al simbolo elementare del tendere faustiano
verso l’infinito. Essa è superamento, lotta, anche diatriba, ma sempre
occidentale nella sua profonda essenza. La stessa autoillusione epigonale del
progresso o dell’evoluzionismo biologico risponde ancora a questa logica.
Ma che posto occupa la riflessione di Spengler sul destino dell’Occidente nel
verificarsi degli eventi che preludono al tramonto? Non sarà anch’essa inglobata
415 TO, p.544.
416 TO, p.548.
417 TO, p.548.
180

nella logica della fine? Tracciando una storia morfologica del pensiero, Spengler
si colloca alla fine della speculazione metafisica ed etica.
“Al filosofo non è dato scegliere il suo oggetto, e la filosofia non ha sempre e ovunque
gli stessi problemi. Non vi sono problemi eterni; vi sono soltanto problemi sentiti, e posti in
base a un’esistenza di tipo determinato. ‘Tutto ciò che è effimero è soltanto un simbolo’ – un
tale principio vale anche per ogni filosofia vera, che è l’espressione spirituale di
quell’esistenza, la realizzazione di possibilità dell’anima in un mondo di forme costituito da
concetti, da giudizi, da costruzioni intellettuali, il quale si riassume nella persona vivente del
suo autore.” 418 .
Il Tramonto dell’Occidente è la filosofia del suo tempo, è anch’esso un simbolo
della civilizzazione, una traduzione della volontà di potenza nel linguaggio di
un’epoca tarda; ma esso è consapevole della sua collocazione storica. Con
Spengler, per la prima volta, un mondo prende coscienza della sua fine: la
guerra mondiale, l’imperialismo, la crescita aggressiva di altri popoli, la nuova
morale sono tutti segni inequivocabili della morte di un mondo che egli porta a
conoscenza dell’Occidente. Ma che portata ha questa consapevolezza?
“Anche il prevedere un destino ineluttabile è tra le possibilità di uno sguardo storico
posseduto soltanto dallo spirito faustiano. Anche il mondo antico morì, ma senza averne
coscienza. Esso credette in una esistenza eterna. Esso visse i suoi ultimi giorni in un felice
abbandono, come un dono degli dei, e ognuno di quei giorni per sé. Noi invece conosciamo la
nostra storia. Ci attende ancora un’ultima crisi, che investirà tutto il mondo europeo e
americano. Per il suo decorso ci si rifarà al tardo ellenismo. La tirannia dell’intelletto, che noi
non avvertiamo solo perché ne rappresentiamo l’apice, in ogni civiltà non è altro che l’epoca
compresa fra maturità e senilità.” 419 .
L’intelletto delle epoche tarde pervade la stessa filosofia spengleriana che è, al
tempo stesso, eminentemente storica. La sua sensibilità nel cogliere il tempo che
passa, la veggenza nel comprendere i segni della caducità del suo mondo erano
sconosciute al mondo antico, fondamentalmente astorico. Gli ultimi giorni della
civiltà apollinea furono vissuti in un’aurea incoscienza: gli dei concessero loro il
privilegio di sentirsi eterni.
Tuttavia, è forse possibile avanzare l’ipotesi per cui il senso storico non è
semplicemente un simbolo della civiltà occidentale, bensì il sintomo esclusivo
della sua civilizzazione. Il creatore di un mondo non ha senso storico: anche se
la nascente anima faustiana si proietta nel futuro, anche se la durata e la
preoccupazione sono suoi simboli peculiari, tuttavia essa non ha passato. Solo
una civiltà giunta al suo termine ha storia, solo per essa il passato ha importanza
ed anche questo è il segno del suo imminente tramonto.
Ma nel mondo occidentale, in cui gli dei sono fuggiti, la sensazione di essere
transeunti si fa sempre più evidente fino a pervadere ogni manifestazione della
418 TO, p.554.
419 TO, p.642.
181

civiltà. Il prendere piede dell’informe, del grandioso e dello sproporzionato
privo di anima ne è un sintomo costante. Ma Spengler saluta questa
consapevolezza come un dono: al di là delle considerazioni esistenziali 420 ,
l’anima faustiana trova in essa la sua ultima suprema espressione. Per la prima
volta si invecchia e si muore, sapendo di invecchiare e di morire. Ma può questa
consapevolezza mutare il corso o il senso di questo tramonto?
Secondo Spengler, non vi sono vie d’uscita: egli non si abbandona a escatologie
salvifiche, la fine non si converte immediatamente nella speranza di un nuovo
inizio. Tutto sta nel morire con onore e dignitosamente: “questa onorevole fine è
l’unica cosa che non si può togliere all’uomo” 421 . Ma teoreticamente, tale
consapevolezza inserisce un nuovo pezzo nel mosaico del pensiero occidentale:
a partire da questo momento l’uomo del tramonto sa come collocare se stesso e
la propria azione nel mondo. Questa triste ricchezza non fu data all’uomo antico,
perso nell’illusione della sua eternità.
Portando fino in fondo il pensiero di Spengler, si adombra, però, un’altra
possibilità rispetto a quella da lui prospettata: non è forse il tramonto già di per
sé una nuova creazione? L’Occidente è la terra che sa del suo tramonto, ma che
non tramonta mai. Non si muore, sapendo di morire: la consapevolezza della
morte introduce una struttura nuova del pensare che incide e muta il contenuto
del pensiero. Paradossalmente, il suo è un tramontare perenne, perché è nella sua
natura il vivere come terra del tramonto. La sua fine è permanente. Queste
suggestioni si originano dal cuore delle categorie del pensiero di Spengler, ma
vanno oltre, ipotizzando una diversa dimensione di quell’Occidente da lui stesso
definito: forse esso è da sempre civilizzazione, che vive del perenne stato della
sua precarietà.
2. I simboli della civilizzazione occidentale:
la macchina, il danaro, il cesarismo.
Ogni civilizzazione promana dall’idea della civiltà di cui rappresenta la fase più
tarda: prima che una civiltà abbia fine, tutti i suoi simboli continuano ad essere
l’espressione della sua animità più profonda. La civilizzazione segna, però, una
modificazione della organicità e della pregnanza di questi simboli: essi
divengono più spirituali, rarefatti, si astraggono dal loro fondo vitale per
consegnarsi all’ineluttabilità del divenuto. Ma Spengler concepisce il tramonto
di una civiltà anche come il suo momento più autentico, poiché anche la sua
morte avviene secondo le modalità profonde della sua natura, cioè attraverso un
autosuperamento che, nell’atto stesso di negare una civiltà, ne afferma, per
un’ultima volta, l’idea elementare propria al suo sorgere. Questo processo risulta
quanto mai evidente nella civiltà faustiana: al di là dei simboli finora esaminati,
420 La portata esistenziale de Il tramonto dell’Occidente sarà affrontata nel secondo capitolo di questa sezione.
421 Oswald Spengler, L’uomo e la macchina, op. cit., p. 151.
182

essa trova nei momenti epigonali della tecnica, dell’economia e della politica le
sue manifestazioni più spiritualizzate e astratte. Il loro apparire, d’altro canto, si
interseca con l’avvento di una nuova religiosità successiva a ogni ateismo nella
storia delle civiltà. La macchina, il danaro e il cesarismo sono i fenomeni che
definiscono il volto della civilizzazione occidentale.
a) La macchina.
La tecnica faustiana costituisce uno dei simboli più pregnanti di un’anima
anelante all’infinito: essa, infatti, è la simbolizzazione della volontà di potenza
dell’uomo sulla natura, esprimentesi mediante il principio di causalità della
scienza fisica e il carattere operativo delle ipotesi di lavoro.
“La nostra volontà di dominio sulla natura si esprime nella persuasione che nessuna
potenza al mondo potrà infirmare i nostri calcoli. Ciò è faustiano.” 422 .
La tendenza della scienza occidentale della natura è quella di costruire un
sistema di leggi meccaniche che permettano una presa di possesso spirituale del
mondo per mezzo della misura. Essa è volontà di dominio e null’altro. La
conoscenza diventa una forma di assoggettamento, una riconduzione del
divenire al divenuto.
Ma, prima di storicizzare e di relativizzare il rapporto tra la tecnica operante e la
civiltà faustiana, Spengler giunge ad affermare il carattere originario della
manualità e dell’agire umano sulla natura. Ne L’uomo e la macchina, la
comprensione della tecnica viene ricondotta al rapporto originario tra
microcosmo e macrocosmo, viene cioè sussunta all’interno delle categorie
cosmiche e vitalistiche della sua metafisica.
“Ciò che contraddistingue il tipo vitale dell’animale da quello della pianta è il libero
movimento nello spazio, il relativo arbitrio e indipendenza dalla rimanente Natura, e quindi la
necessità di mantenersi di contro alla Natura, di dare alla propria esistenza una specie di
senso, di contenuto, di superiorità. Solo partendo dall’anima si può trovare il valore della
tecnica.” 423 .
La tecnica diviene, per Spengler, la stessa tattica della vita: essa fornisce
all’essere desto le armi per la lotta strutturale e fondante di ogni esistenza. “La
tecnica è antica quanto la vita” 424 : ogni microcosmo deve adoperarsi per
sopravvivere ed affermarsi.
Spengler fa risalire l’origine della tecnica alla strutturale condizione di animale
da preda della creatura-uomo; profilando una gerarchia della vita, il carnivoro ne
è alla sommità, come elemento dominante, a partire dalla catena alimentare.
422 TO, p.590.
423 Oswald Spengler, L’uomo e la macchina, op. cit., p.21-22.
424 TO, p.1385.
183

“La bestia feroce è la più alta forma della vita dotata di libero movimento. In essa
riscontriamo la massima indipendenza dagli altri, la massima libertà per uso proprio; essa
risponde di sé, è sola, rappresenta in modo estremo la necessità di conservarsi lottando,
vincendo, distruggendo. Il tipo ‘uomo’ acquista un alto rango per il fatto d’essere un animale
feroce.” 425
A ogni animale feroce, i cui occhi sono fatti per scrutare l’orizzonte alla ricerca
di una preda, è proprio uno sguardo di controllo e di dominio dell’ambiente
circostante. L’occhio domina il mondo, contemplandolo.
“Un infinito sentimento di potenza si trova in questo ampio tranquillo sguardo, un
sentimento di libertà che deriva dalla superiorità e si fonda sulla violenza, sulla
consapevolezza di non essere preda di nessuno. Il mondo è la preda, e da questo fatto è nata,
in ultima analisi, l’umana civiltà” 426 .
Ma che posto occupa l’uomo in questa gerarchia della vita? Anch’egli è un
animale da preda, che vive uccidendo e distruggendo, secondo Spengler.
Bandendo ogni ottimismo sulla natura umana, egli rintraccia le radici della
tecnica nell’essenza violenta della vita; tuttavia, nell’uomo, essa non è istintiva
come negli animali, bensì pensata, costruita:
“La tecnica della vita dell’uomo è cosciente, volontaria, variabile, personale, identica.
Viene imparata e perfezionata. L’uomo è diventato il creatore della tattica della sua vita:
questa è la sua grandezza; - e il suo destino. E la forma intima di questa vita creatrice noi
chiamiamo civiltà, cultura; la chiamiamo possedere cultura, soffrire della cultura. Le creazioni
dell’uomo sono espressioni di questa esistenza personale.” 427 .
L’uomo, per agire nel mondo, ha bisogno di strumenti che ritrova nella natura o
che fabbrica da sé: la mano si configura come l’arma più forte e imbattibile nel
mondo degli esseri desti. Essa, come “membro tastante e operante” 428 è una
dominatrice pratica del mondo. Sorta da una mutazione improvvisa 429 , la mano
entra in simbiosi con lo strumento da utilizzare. La tecnica dell’uomo si
sviluppa, perciò, innanzitutto come progettazione e invenzione degli strumenti
d’uso quotidiano.
“Con la mano, con l’arma e col pensiero personale, l’uomo è diventato creatore. Tutto
ciò che gli animali fanno resta nella cornice dell’agire della specie e non ne arricchisce la vita.
Ma l’uomo, l’animale creatore, ha diffuso sul mondo una ricchezza di pensiero e d’azione
inventiva, che lo giustifica quando egli chiama ‘storia del mondo’ la sua breve storia e
considera il suo ambiente, ciò che lo attornia, come l’umanità, con tutto il regno della Natura
come sfondo, oggetto e mezzo.” 430
425
Oswald Spengler, L’uomo e la macchina, op. cit., p. 37-38.
426
Ivi, p.41-42.
427
Ivi, p.51.
428
Ivi, p.56.
429
Circa la nascita della mano, si confronti anche il capitolo quarto della prima sezione, alla p.161.
430
Oswals Spengler, L’uomo e la macchina, op. cit., p.63.
184

La mano dell’uomo esplica il suo pensiero nell’azione. Spengler ricorda l’evento
epocale della scoperta del fuoco: esso contrassegna l’origine di un sapere
tecnico che, nel mito, si configura come la tracotanza dell’uomo di fronte agli
dei, come l’inizio della storia dell’impossessamento del mondo da parte
dell’uomo.
“Si vede come nasce il fuoco. Anche molti animali vedono ciò. Ma l’uomo soltanto
pensa – fine e mezzo - un procedimento per creare il fuoco. Nessun’altra azione può dare
altrettanto l’impressione della creatività. E’ l’azione di Prometeo. Uno dei più sinistri,
formidabili, misteriosi fenomeni della Natura. Quale effetto deve aver prodotto sull’anima, il
primo sguardo alla fiamma accesa dell’uomo!” 431 .
Il mito di Prometeo fu, non a caso, anche l’oggetto di un’opera giovanile
goethiana; ma, dalla metafora romantica della libertà, Spengler sposta la sua
attenzione sulla sensazione di potere, di dominio che un tale gesto infuse
nell’uomo. Da questo momento, si fu coscienti della propria capacità creativa: la
tecnica è artificio di contro alla natura, essa sfrutta l’abilità e l’intelligenza
umana di organizzazione e di produzione per strappare ad essa il privilegio di
creare delle forme.
Ma qual è la conclusione di questa lotta, di questo processo di separazione e di
individuazione dell’uomo rispetto alla Natura?
“L’uomo creatore è uscito dall’associazione della Natura, e con ogni nuova invenzione
si allontana di più, e più ostilmente da essa. E’ questa la sua storia del mondo, la storia di una
incontenibile, progressiva, fatale scissione fra il mondo umano e l’Universo, la storia d’un
ribelle che alza la mano contro la madre dal cui grembo è uscito.
La tragedia dell’uomo comincia, perché la Natura è più forte. L’uomo resta soggetto alla
Natura che, nonostante tutto, abbraccia anche lui, sua creatura. Tutte le grandi civiltà sono
altrettante sconfitte. Restano sul terreno, quali vittime, intere razze, distrutte, spezzate,
condannate alla sterilità e alla rovina spirituale. La lotta contro la natura è disperata, e tuttavia
sarà condotta sino alla fine.” 432 .
L’uomo è condannato dal destino a portare fino in fondo la sua natura: l’esito
ultimo di questo processo sarà la perdita della sua naturalezza di contro
all’artificio dilagante delle sue creazioni, la morte delle civiltà a cui ha dato
forma. Ma non era questo anche l’esito di ogni civilizzazione? La ricostruzione
dell’origine del rapporto dell’uomo con la tecnica porta Spengler alle medesime
conclusioni de Il tramonto dell’Occidente: la natura finisce col rimpossessarsi
delle forme storiche a cui ha dato vita, mentre l’anelito formativo dell’uomo si
disperde nella caducità delle sue creazioni.
Spengler utilizza la metafora della vita per risalire all’origine della tecnica
umana, ma i termini di questa immagine sono simboli dell’anima faustiana: la
431 Ivi, p.64.
432 Ivi, p.68-69.
185

volontà di potenza nietzschana viene a giustificare la natura profonda dell’uomo
e la logica stessa della vita. Anche in questo caso, il suo è un porsi in una
duplice prospettiva: dall’alto, egli cerca di risalire alla genesi della natura
dell’uomo in quanto artefice, creatore di strumenti e di una tattica di
sopravvivenza; ma, in quanto membro della civiltà occidentale, non può che
interpretare questo processo che secondo la logica interna ed inoltrepassabile
della sua civiltà. 433 Categorie ontologiche e categorie storiche si intersecano nei
due piani del suo pensiero: in questo modo, egli giustifica la natura di un’anima
assetata di dominio ma, al tempo stesso, ridimensiona l’episodio della civiltà
occidentale a momento transeunte della storia mondiale. Anche la scienza,
infatti, non è che un organismo interno agli universi storici, destinato, perciò, a
percorrere un cammino organico di crescita, di decadenza e di morte.
Il problema della macchina si inserisce nell’ambito di questa parabola, come il
suo culmine, ma anche come il motivo della sua fine. Tale paradosso si fonda
sul processo di astrazione e autonomizzazione dei simboli umani di una civiltà.
Essa è la creazione di un uomo che anela a impossessarsi degli stessi poteri della
natura, a sostituirsi a Dio nell’amministrazione delle sue leggi.
Ma non è solo questo anelito che spinge Spengler a introdurre un nesso tra
scienza e religione, poiché alla base dei presupposti della scienza vi è sempre
una fede sconfinata in un’immagine del cosmo assolutamente non comprovabile,
ma sorta insieme all’anima di ciascuna civiltà.
“A noi nulla appare più evidente di ciò, che l’esperienza sia la fonte della scienza
positiva. L’esperimento faustiano, che si serve del misurare, non è altro che la manipolazione
sistematica ed esaustiva di questa esperienza. […] Evidentemente non si è abbastanza
riflettuto sulla peculiarità di questo concetto puramente faustiano. Ciò che lo caratterizza, non
è la sua antitesi esteriore con la fede. Secondo la sua struttura, l’esperienza esatta sensibile e
razionale si accorda anzi perfettamente con la fede.” 434
La teoria è l’evocazione di una forza in cui si crede ciecamente: religione e
fisica nascono entrambe dallo stupore dinanzi all’estraneo, dalla venerazione
paurosa e amorevole di fronte alle potenze del cosmo. Ma esse si configurano
anche come due momenti storicamente distinti del rapporto dell’uomo di fronte
al mondo: la religione è lo stupore originario di fronte alla divinità naturali, è la
condizione propria di un’anima nascente; la scienza, invece, è un fenomeno
tardo e passeggero che raggiunge il suo apice nel periodo della civilizzazione.
Da questo punto di vista, il circuito fede-scienza era già stato chiaramente
profilato da Nietzsche ne La gaia scienza, in cui la volontà di verità, che aveva
433 Ne L’uomo e la macchina, ma anche in molte pagine de Il tramonto dell’Occidente, Spengler pone
l’antropologia a fondamento della morfologia. Bisogna ricordare, però, che la stessa antropologia è e non può
non essere che faustiana: essa promana da un membro della tarda civiltà occidentale e si sviluppa secondo i
criteri della volontà di potenza. Ciò può sembrare un paradosso, ma Spengler deve elevare l’antropologia
occidentale a antropologia tout-court: solo così egli è realmente coerente col suo pensiero, assoluto nella sua
relatività.
434 TO, p.593.
186

animato la creazione dei valori assoluti e trascendenti della religione, finisce per
estremizzarsi e per dirigersi contro questi stessi valori, conducendo all’ateismo
e, in ultima istanza, alla fede nella tecnica.
“La fede nella scienza, che esiste ormai incontestabilmente, non può aver avuto la sua
origine da un calcolo utilitario, ma è sorta piuttosto dalla volontà di verità a tutti i costi. […]
Ebbene, si sarà compreso dove voglio arrivare, vale a dire che è pur sempre una fede
metafisica quella su cui riposa la nostra fede nella scienza; che anche noi, uomini della
conoscenza di oggi, noi atei e antimetafisici, continuiamo a prendere anche il nostro fuoco
dall’incendio che una fede millenaria ha acceso, quella fede cristiana che era anche la fede di
Platone, per cui Dio è verità e la verità è divina… Ma come è possibile, se proprio questo
diventa sempre più incredibile, se niente più si rivela divino salvo l’errore, la cecità, la
menzogna, se Dio stesso si rivela come la nostra più lunga menzogna?” 435 .
Spengler, partendo da questo nesso, considera l’ateismo come la sensazione di
abitare in un mondo sdivinizzato, abbandonato dalla causalità sacra e governato
dalla pura causalità meccanica: la tecnica, da questo punto di vista, diviene, essa
stessa, la nuova fede nell’età della civilizzazione, ciò in cui tutti crediamo nella
irreligiosa natura del nostro tempo. Sia la scienza che la religione si originano
dalla ricerca delle cause: sorta dalla teoria religiosa, la conoscenza critica giunge
ad esaminare le verità della fede e a insinuarvi il dubbio dell’intelletto.
Ma, nella civiltà faustiana, la tecnica risponde a un impulso molto più originario
che, col tempo, si fa più astratto, artificiale, ma anche più autentico: la macchina
ne è l’ultima e più profonda creazione.
“Si è spiato il corso della natura annotandone i segni grazie ai mezzi e ai metodi che
utilizzano le leggi del ritmo cosmico. L’uomo ha osato assumere la parte di un dio, e si
capisce che i primi che si dettero a fabbricare e a conoscere queste cose artificiali, queste cose
prodotte da un’arte, i fabbri soprattutto, siano stati considerati come esseri strani, epperò
timorosamente venerati o aborriti.” 436
Solo la scienza faustiana diventa “l’organo della volontà tecnica di potenza” 437 e
si presenta come una meccanica pratica. L’uomo faustiano è intrinsecamente
legato ad essa: Spengler considera Ruggero Bacone il primo esponente di un
sapere mirante esclusivamente a costituire la base dell’esperimento tecnico.
“Ma l’audacia dello scopritore di nessi dinamici andò ancora oltre. […] Non ci si
facciano delle idee sbagliate quanto ai moventi ultimi che stettero alla base di tali scoperte. La
pura contemplazione non avrebbe avuto bisogno dell’esperimento; per contro il simbolo
faustiano della macchina che già nel dodicesimo secolo condusse a costruzioni meccaniche e
fece del perpetuum mobile l’idea prometeica dello spirito occidentale, non avrebbe potuto
farne a meno.” 438 .
435 Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, Adelphi, Milano, 1984, p.206-208.
436 TO, p.1387.
437 TO, p.1093.
438 TO, p.1093.
187

A tale immagine si accompagna la concezione di Dio come grande macchinista,
infinito, perpetuo nel suo operare. Di nuovo, le scoperte dell’uomo vengono
sentite come un atto di tracotanza nei confronti della natura e di Dio:
“Come nell’antichità la rivolta di Prometeo contro gli dei fu sentita come hybris, del
pari nel Barocco la macchina fu sentita come qualcosa di diabolico. Lo spirito infernale aveva
rivelato all’uomo il segreto per impadronirsi del mondo e per fargli assumere la parte di un
dio.” 439
L’uomo faustiano è scopritore ed inventore per eccellenza: la volontà di
illuminare e di dominare le forze del cosmo sono incomprensibili per i membri
delle altre civiltà, perché sono l’immediata conseguenza della scelta del simbolo
primo della nostra civiltà. La figura di Faust è il simbolo di una civiltà di
inventori che cerca di strappare, sin dalle celle dei conventi, a Dio i suoi segreti,
il suo bottino spirituale. La macchina sorge come uno strumento che ricalchi e
che domini le forze della natura, è il frutto supremo della nostalgia d’infinito
dell’anima occidentale.
“Ma essi (gli scopritori) sempre di nuovo soggiacquero alla tentazione; essi
strapparono alla divinità i suoi segreti per divenire essi stessi Dio. Essi spiarono le leggi del
ritmo cosmico per usar violenza su di esso e così crearono l’idea della macchina, piccolo
cosmos obbediente esclusivamente alla volontà dell’uomo.” 440 .
Ma come può l’uomo rendersi Dio se non creando egli stesso un piccolo
universo, capace di muoversi per forza propria? La macchina nasce dall’impulso
a soggiogare la natura con le sue stesse forze, a fabbricare un mondo che
obbedisca solo al dito dell’uomo. Nel diciannovesimo secolo, l’uomo
occidentale diviene “il sapiente sacerdote della macchina” 441 , la tecnica diviene
la religione dei materialisti, assumendo la verità e l’eternità proprie al divino.
Già la macchina a vapore rende la natura schiava dell’uomo: la sua forza
inorganica viene assoggettata e trasformata in lavoro. La nostra civiltà è
percorsa da rapidi cambiamenti e invenzioni che coinvolgono lo stesso lavoro
umano che cambia e che si accelera enormemente.
“Tutta la civiltà è giunta a un tale grado di attivismo, che sotto di esso la terra trema. E
ciò che si è svolto nel corso di appena un secolo è uno spettacolo di una tale potenza, che
l’uomo di una futura civiltà, di una civiltà con una anima diversa e con diverse passioni, avrà
il sentimento che la stessa natura ne doveva esser stata scossa nel suo equilibrio. […] Qui ha
agito un impulso della vita a trascendere e ad innalzarsi che, intimamente affine a quello del
gotico, al tempo dell’infanzia della macchina a vapore trovò espressione nel monologo del
Faust di Goethe. L’anima ebbra vuol portarsi di là da spazio e tempo. Una indicibile nostalgia
439 TO, p.1094-1095.
440 TO, p.1390.
441 Oswald Spengler, L’uomo e la macchina, op. cit., p.124.
188

la attira verso lontananze sconfinate. Ci si vorrebbe perdere nell’infinito, si vorrebbero
sciogliere i vincoli del corpo ed errare nello spazio cosmico fra le stelle.”. 442
Spengler inserisce la macchina tra i più autentici simboli faustiani di nostalgia
per le lontananze sconfinate ma, in quanto tale, essa è anche sottoposta alla
senescenza e alla caducità tipica di ogni simbolo. Da sogno infinito di potere e
di creazione, essa diventa lo strumento dell’industria e del materialismo, il segno
della civilizzazione occidentale. Con la macchina, infatti, l’uomo faustiano
finisce per diventare lo schiavo della sua creazione.
“Ma in realtà, né le teste né le mani possono mutar nulla al destino della tecnica
meccanica, che s’è sviluppata da una intima necessità psichica ed ora va maturando verso il
perfezionamento, verso la fine. Noi ci troviamo oggi al vertice, là dove comincia l’ultimo atto.
E’ l’ora delle decisioni supreme. La tragedia è alla fine.” 443 .
Ma come avviene questo epilogo? Conformemente al carattere tragico
dell’anima faustiana, anche la fine della tecnica assume questo tono: la
macchina, creazione dell’uomo intenzionato a incrementare smisuratamente il
suo potere, insorge contro il suo padrone, schiavizzandolo a sua volta. Spengler
la definisce una sorta di vendetta della natura contro l’essere che ha osato rapirle
i poteri e confrontarsi con lei. Alla fine dei tempi, il rapporto tra microcosmo e
macrocosmo si ristabilisce nella sua autentica gerarchia.
La stessa macchina, nata per sostituire e potenziare il lavoro dell’uomo, assume i
tratti spiritualizzati e astratti tipici di tutti i simboli della civilizzazione:
“E queste macchine nella loro forma sono sempre più disumanizzate, sempre più
ascetiche, mistiche, esoteriche. Esse avvolgono la terra con una rete infinita di forze sottili, di
correnti e di tensioni. Il loro corpo si fa sempre più spirituale, sempre più chiuso. Queste
ruote, questi cilindri, queste leve non parlano più. Ciò che in esse è più importante si ritira
all’interno. La macchina è stata sentita come qualcosa di diabolico, e non a torto. Agli occhi
del credente essa rappresenta la detronizzazione di Dio. Essa pone la causalità sacra nelle
mani dell’uomo e questi la mette silenziosamente, irresistibilmente in moto con una specie di
preveggente onnisapienza.” 444 .
La macchina segue il medesimo processo vitale delle altre forme storiche: come
l’arte, la metropoli e la morale, essa perde ogni concretezza corporea e si
spiritualizza. L’elettricità, l’elettromagnetismo erano gli ultimi ritrovati di questa
creazione non più legata ai meccanismi visibili ma, se Spengler avesse
conosciuto l’intelligenza artificiale, avrebbe sicuramente pensato di aver visto
giusto nella direzione dell’evoluzione della tecnica nella civiltà occidentale.
Ma in che modo avviene il sovvertimento del rapporto tra macchina e uomo?
Come fa la macchina a prendere il sopravvento sul suo padrone?
442 TO, p.1391.
443 Oswald Spengler, L’uomo e la macchina, op. cit., p.131.
444 TO, p.1392.
189

“Nelle sue mosse come nelle sue abitudini l’uomo sarà spinto dalla macchina in una
direzione sulla quale non vi sarà più né sosta, né possibilità di tornare indietro. Il contadino,
l’artigiano, perfino il commerciante appaiono insignificanti di fronte a tre figure a cui lo
sviluppo della macchina ha dato forma: l’imprenditore, l’ingegnere e l’operaio
industriale.” 445 .
Di questi tre tipi umani, solo l’ingegnere si configura come colui che sa
rimanere padrone dell’universo creato: lo stesso imprenditore, insieme agli
operai, finisce col diventarne schiavo. L’esistenza dell’industria meccanica
dipende solo dall’esistenza di menti qualificate, laddove la forza delle braccia
viene da Spengler sottomessa in una forma aristocratica di organizzazione del
lavoro.
“L’ingegnere è propriamente il silenzioso dominatore e il destino dell’industria
meccanica. […] Solo quando questo esercito di inventori, il cui lavoro intellettuale forma una
interna unità con quello della macchina, non avrà più una posterità, l’industria malgrado la
presenza di operai e di imprenditori si spegnerà.” 446 .
Nulla, però, potrà arrestare la conclusione di questo dramma della civiltà
faustiana. La natura viene saccheggiata e offerta al pensiero occidentale che ne
fa un meccanismo in azione. Ne L’uomo e la macchina, Spengler descrive la
gioia dell’uomo moderno di fronte al varo di una nave o al funzionamento di una
nuova macchina: è questo il vertice delle emozioni e dell’orgoglio dell’uomo
della nostra epoca.
Le dinamiche della fine dell’era della macchina vengono delineate in una
duplice direzione: una storico-politica e l’altra interna allo stesso simbolismo
della tecnica. Tutto il mondo viene meccanizzato, tutto ciò che è organico
soggiace all’artificio.
“La stessa civiltà è diventata una macchina che fa o vuole ogni cosa per mezzo di
macchine. Ormai si pensa solo in cavalli-vapore. Non si vede più cascata d’acqua senza
trasformarla col pensiero in energia elettrica. […] Abbia senso o no, il pensiero tecnico vuole
realizzarsi. Il lusso della macchina è una conseguenza d’una costruzione del pensiero. La
macchina è, in ultima analisi, un simbolo, come il suo segreto ideale, il perpetuum mobile, è
una necessità dello spirito e dell’intelletto, non una necessità vitale. Essa comincia ad essere
spesso in contrasto con la prassi economica. La decadenza si annunzia già d’ogni parte. La
macchina, col suo numero e col suo raffinamento, finisce col venir meno al suo scopo.” 447 .
La tecnica non avrà fine per la carenza delle materie prime, ma per
l’esaurimento di quelle intelligenze che ad essa sono preposte. Spengler coglie
nella civiltà faustiana i primi segni di una stanchezza della tecnica, di una sorta
di sazietà. Di contro al tecnicismo imperante, egli intravede un ritorno al
445 TO, p.1393.
446 TO, p.1394.
447 Oswald Spengler, L’uomo e la macchina, op. cit., p.137-138.
190

pensiero speculativo, alla natura, una fuga dalle città, dalla schiavitù delle
macchine. In tal modo, “comincia la fuga dei condottieri nati davanti alla
macchina” 448 , per cui resteranno solo talenti di second’ordine, mentre il potere
delle mani e delle braccia si ribella contro il proprio destino, contro la vita
organizzata della produzione industriale. Tuttavia, il più grave sintomo della
decadenza Spengler lo ravvisa nel tradimento verso la tecnica, ovvero nella
diffusione del monopolio conoscitivo dell’industria al di là dell’Europa e
dell’America: non si esportano più solo prodotti, ma anche i metodi e i segreti
del lavoro tecnico. In tal modo i paesi prima sfruttati vengono messi nelle
condizioni di rifarsi nei confronti dei loro padroni: anche sotto questo riguardo,
una civiltà finisce per via di un’autonegazione, di forze che si rivolgono contro
chi le ha suscitate. Ma, per gli altri popoli, la tecnica non è un intimo bisogno:
solo l’uomo faustiano aveva trovato in essa il proprio destino.
“La storia di questa tecnica sarà logorata e consumata dall’interno, come tutte le
grandi forme di qualsiasi civiltà. Quando e in qual maniera, non sappiamo.” 449 .
Nella civilizzazione faustiana, l’attacco più tremendo sferrato alla tecnica
proviene da un altro dei suoi simboli più eminenti: il danaro. Di contro al
carattere stazionario degli impianti meccanici, esso rappresenta la fluidità e
l’incorporeità per eccellenza. Il danaro tende ad essere l’unica potenza,
scontrandosi sia col pensiero tecnico sia con quello politico. E’ questa l’ultima
grande azione che si svolge sul palcoscenico della civiltà occidentale.
b) Il danaro.
Il danaro si configura come uno dei simboli più tipici della civiltà occidentale
che, conformemente al suo destino di civilizzazione, subisce il più evidente e
pervasivo processo di astrazione. La sua esistenza è legata alla nascita delle città
e della borghesia, la storia della sua ascesa e decadenza va quindi di pari passo
con quella della democrazia e del parlamentarismo.
“In origine la nobiltà e il sacerdozio nascono dalla terra libera rappresentando il puro
simbolismo dell’essere e dell’essere desto, del tempo e dello spazio: dal predare e dal
riflettere sorge successivamente un duplice tipo umano di minor contenuto simbolico, che nei
periodi tardi cittadini perviene all’egemonia nel segno dell’economia e della scienza. In
queste due nuove correnti dell’essere le idee di destino e di causalità vengono pensate a
fondo, senza scrupoli e in uno spirito antitradizionale; sorgono delle potenze mortali per gli
ideali da casta dell’eroismo e della santità: il danaro e la ragione, che a quegli ideali stanno
come l’anima della città sta all’anima della campagna. La proprietà ormai si chiama
ricchezza, la visione del mondo si chiama sapere.” 450 .
448 Ivi, p.142.
449 Ivi, p.150.
450 TO, p.1165-1166.
191

Se la politica si origina dal sentimento della potenza e dello stato, l’economia
nasce dal sentimento della proprietà come preda e come rapina. Scienza ed
economia raggiungono il loro apice espressivo nella maturità della civiltà
occidentale, segnandone però la decadenza e il tramonto. Si tratta, infatti, delle
potenze microcosmiche della tensione e dell’essere desto, dell’intelletto e
dell’astrazione: con esse, una civiltà si irrigidisce in forme ormai prive della
potenza cosmica dell’essere, aliene dalla razza e dal sangue. Tuttavia, anche in
questi suoi simboli, l’anelito faustiano per le distanze infinite trova l’ultimo e
superbo modo per manifestarsi.
“Ma lo spirito critico è solo una delle due tendenze che prendono forma dalla massa
confusa della non-casta. A lato dei concetti astratti appare il danaro astratto, disgiunto dai
valori originari della campagna: a lato dello studio del pensatore appare la banca come
potenza politica. L’una e l’altra cosa sono intimamente apparentate e inseparabili. E’ l’antica
opposizione fra sacerdotalità e nobiltà che si continua, con minore asprezza, all’interno della
borghesia in una forma cittadina.” 451 .
La borghesia rappresenta la casta economica per eccellenza: Spengler la
definisce una non-casta proprio perché essa si definisce di contro allo stato e alla
nobiltà nella rivendicazione dei suoi diritti, senza possedere un proprio volto e
una propria funzione originarî . Nella città ha luogo la lotta per la libertà e per la
democrazia, ma essa diventa anche il teatro dell’ascesa della potenza del danaro.
“Con l’affermarsi dello Stato governato dalle città subentra l’economia cittadina del
danaro che all’inizio di ogni civilizzazione, parallelamente al trionfo della democrazia
cosmopolita, si sviluppa in una dittatura del danaro. Ogni civiltà ha un suo proprio originale
mondo delle forme. Il danaro corporeo di stile apollineo – la moneta metallica coniata – è così
diversa dal danaro faustiano dinamico-relazionale – legato alle operazioni di credito.” 452 .
Nel mondo borghese occidentale, l’economia pervade tutta l’esistenza, tanto che
si è e si viene definiti unicamente da ciò che si fa per vivere. La borghesia nasce
come classe che si dedica al commercio, ovvero a una forma di parassitismo
raffinato e improduttivo che rende l’uomo nomade e affrancato dalla terra. Le
stesse città si identificano inizialmente col mercato: col loro sorgere si modifica
completamente il senso del valore delle cose e della loro possibilità di scambio.
Se, originariamente, i beni venivano valutati dalla vita, dalla loro effettiva
utilità, con l’economia cittadina i beni si trasformano in merce.
“Lo scambio diviene smercio e al posto di un pensare in termini di beni subentra un
pensare in termini di danaro. Allora dalle realtà tangibili dell’economia viene astratto
qualcosa di puramente esteso, una forma delimitante, proprio come il pensiero matematico
trae dal mondo circostante meccanicamente concepito le proprie entità: e cotesta astrazione,
451 TO, p.1249.
452 TO, p.1357.
192

che è appunto il danaro, corrisponde assolutamente all’altra astrazione, che è il numero.
Entrambi sono immagini del tutto anorganiche” 453 .
Il danaro diventa una categoria di pensiero. Se per il contadino esistono solo
valori sentiti in base ai bisogni del momento, con la città nascono dei sistemi di
valori oggettivi, che sussistono al di là delle realtà concrete e individuali. Col
prezzo, si inizia a calcolare il valore di un bene unicamente in base alle sue
caratteristiche quantitative e alla sua funzione di merce.
La forma occidentale di danaro assume la forma astratta del capitale, che non
consiste in beni, ma che viene investito in essi: il danaro assume una consistenza
mobile per eccellenza.
Il danaro tende a rendere mobile qualsiasi cosa. L’economia mondiale è un’economia
fatta di valori astratti, liquidi, del tutto disgiunti dal suolo, in quanto divenuta realtà.” 454 .
Il pensiero faustiano da civilizzazione trasforma tutto in energia finanziaria. Qui
il danaro è percepito non come grandezza, ma come funzione. Di contro alla
moneta antica, il mondo occidentale concentra il valore del danaro nella sua
forza, nella sua azione. Il credito, la partita doppia furono le prime fondamentali
creazioni di questa concezione economica che traduce tutto in termini
quantitativi e dinamici: la stessa ditta, cuore dell’economia faustiana, non è altro
che un centro di forza, che il titolare dirige come se fosse un piccolo cosmos. Il
danaro si astrae e si emancipa a tal punto dal concetto di grandezza da andare ad
indicare non la banconota o l’assegno, ma addirittura l’atto col quale tale
funzione viene messa per iscritto.
“Il danaro faustiano non viene coniato come moneta ma si manifesta come centro
d’azione legato ad una vita che grazie al suo rango interiore conferisce al pensiero un
significato di realtà. Il pensiero finanziario genera il danaro: ecco il segreto dell’economia
mondiale.” 455 .
Il danaro non è grandezza, ma strumento astratto e funzione: esso trova il suo
terreno d’azione più propizio nel mondo politico delle città. Spengler, infatti,
identifica democrazia e plutocrazia come forme proprie alla vita del Terzo Stato.
Ma in che modo il danaro può diventare una forma di potere politico? Come ha
potuto la ricca borghesia cittadina condizionare la lotta politica e fare della
democrazia un baluardo dei suoi interessi privati? Nella delineazione delle
dinamiche economico-politiche della civilizzazione occidentale, si scopre tutto
lo Spengler conservatore, avverso alla Repubblica di Weimar e nostalgico
dell’Impero. Il suo schierarsi contro la democrazia e il parlamentarismo ha fatto
453 TO, p.1364.
454 TO, p.1369.
455 TO, p.1379.
193

di lui uno strumento ideologico nelle mani del nazismo da cui lo separa, come si
vedrà, un’inconciliabile diversità di orizzonti. 456
Il danaro diviene uno strumento di potere e di propaganda politica, capace di
fare leva sui due principi fondamentali di ogni democrazia: la libertà di stampa e
il suffragio universale. I suoi inizi sono sempre caratterizzati dalle grandi verità
e dai grandi ideali, ma ad essi succede subito la consapevolezza di poter far uso
dei diritti garantiti dalle costituzioni solo se si ha il danaro per manipolarli.
“Ciò che vi è di tragicomico nella lotta disperata che i riformatori e gli apostoli della
libertà conducono contro l’influenza del danaro è che essi proprio con una tale lotta la
rafforzano. Negli ideali di casta della non-casta rientra sia il culto della maggioranza
esprimentesi nelle idee dell’universale eguaglianza, dei diritti innati e del suffragio universale,
sia la libertà dell’opinione pubblica, soprattutto come libertà di stampa. Questi sono degli
ideali, ma nella realtà alla libertà di stampa si associa la formazione di tale opinione, la quale
costa danaro, la libertà di stampa presuppone il possesso dei giornali, che è questione di
danaro, e il diritto al voto è in funzione delle campagne elettorali, che dipendono dai desideri
di chi le finanzia.” 457 .
Il cinismo mostrato da Spengler nel riconoscere alcuni dei meccanismi più
spietati delle democrazie moderne non deve meravigliare: egli legge in esse un
momento di decadenza e di estraniazione dall’autentica vita politica, ma anche
una fase che ricorre in ogni civilizzazione. Si tratta del costume di ogni
democrazia matura. Nella Roma imperiale utilizzare il danaro per fini politici
non era affatto una scandalo, ma nella civiltà occidentale esso ha assunto una
potenza e una portata disumanizzante e grandiosa, data la brama di infinito
dell’anima faustiana da cui promana anche questo simbolo.
La vita delle metropoli e della massa informe si lega perfettamente alla
prospettiva democratica e al monopolio del danaro: il grande potere economico
tiene in scacco le masse cittadine con l’illusione della libertà. Ma come si
realizza concretamente tale dominio?
“Ma mentre il mondo antico, con il Foro di Roma alla testa, raccolse la massa
popolare in un corpo visibile e compatto per costringerla a far dei suoi diritti l’uso che si
desiderava, nella fase ciclica corrispondente, sincronica, la politica euro-americana ha creato
mediante la stampa un campo di forze saturo di tensioni spirituali e finanziarie che abbraccia
tutto il mondo e nel quale ognuno è inquadrato senza che se ne renda conto, tanto che egli si
trova a dover pensare, volere ed agire come una qualche personalità lontana, che ha la
potenza, ritiene utile.” 458 .
456 Per i rapporti tra Spengler e il nazismo rimando al saggio di Detlef Felken, Spengler e il nazionalsocialismo
in Estetica 1991 – Sul destino, Il mulino, Bologna, 1991, in cui si profila una identità puramente terminologica
tra la filosofia politica di Spengler e il nazismo, mentre, in realtà, si ebbe a creare una frattura insanabile tra il
regime e il veggente del tramonto e della crisi del mondo occidentale.
457 TO, p.1250.
458 TO, p.1336.
194

Tale forma di esercizio del potere è considerato da Spengler tipicamente
faustiano: infatti, il danaro, non agisce più, come nel mondo apollineo,
trasformandosi in giochi o in banchetti per il popolino, né passando di mano in
mano come fonte di corruzione. Esso viene assoggettato alla logica della
distanza tipica del mondo occidentale e diventa un campo di forze che agisce
mediante gli strumenti che la tecnica gli mette a disposizione.
“La stampa e, ad essa connessa, le agenzie telegrafiche d’informazione assoggettano
l’essere desto di interi popoli al fuoco tambureggiante e assordante di frasi, di parole d’ordine,
di punti di vista, di scene, di sentimenti, giorno per giorno, anno per anno, cosa che riduce
ogni Io ad una funzione di una immensa indefinita entità spirituale.” 459 .
In molti casi la stampa diviene uno strumento della politica e della guerra (basta
pensare all’uso delle campagne di stampa), ma su di essa signoreggia sempre il
danaro. Attraverso questo strumento la democrazia nasconde la sua più profonda
natura: anch’essa promana dalla volontà di potenza.
“La volontà di potenza in pura veste democratica ha realizzato il suo capolavoro nel
far sì che il sentimento di libertà dei suoi oggetti si sente perfino lusingato dalla schiavitù più
abietta che sia mai esistita.” 460 .
Nella vita spirituale delle masse cittadine al libro si sostituisce il giornale: la
molteplicità dei punti di vista viene schiacciata dalle notizie quotidiane che
penetrano nelle case borghesi fin dal mattino, determinando e inculcando la loro
verità nelle menti dei futuri elettori. Solo “ciò che la stampa vuole è vero” 461 .
Chi detiene il monopolio dell’informazione può mutare e formare nel giro di
poche settimane l’intera opinione pubblica dirigendola a suo piacimento: per
Spengler, si tratta solo di danaro. La sua provocatoria conclusione è che la stessa
istruzione obbligatoria finisce con l’essere uno strumento nelle mani degli abili
direttori della politica e dell’informazione: “chi ha imparato a leggere, cadrà
sotto il loro potere e la tarda democrazia, dopo aver sognato un diritto di
autodeterminazione del popolo, condurrà ad una determinazione dei popoli da
parte delle potenze che controllano la parola stampata” 462 .
Spengler, quindi, aveva già intuito l’importanza che non solo nelle democrazie,
ma specialmente nei regimi totalitari, avrebbe avuto la propaganda sulla capacità
di formare il consenso: da questo punto di vista, più che un ideologo del
nazismo, egli fu sicuramente un osservatore attento del suo tempo e degli
strumenti che la società metteva a disposizione del potere politico. La stampa,
asservita al danaro (o alla forza), trionfa sugli stessi spiriti liberi, costringendoli
a servirla. Ma qual è l’esito di questo processo? Il danaro, che trova nello
459 TO, p.1336.
460 TO, p.1337.
461 TO, p.1338.
462 TO, p.1339.
195

sfruttamento e nella manipolazione dell’opinione pubblica l’apice del suo essere
espressione della volontà faustiana di potenza, si appropria degli stessi istituti
democratici grazie ai quali aveva acquistato tutta la sua forza, e li distrugge. Il
danaro, come simbolo della civiltà occidentale, raggiunge il suo acme alla
vigilia del suo tramonto, dopo aver, però, fagocitato sia la democrazia che il
mondo della tecnica.
“Non si potrebbe immaginare una satira più sinistra di quella della libertà di pensiero.
Una volta non si aveva il diritto di pensare liberamente; adesso lo si ha, ma non se ne può fare
più uso. Si pensa soltanto ciò che altri vuole che si pensi e proprio questo vien sentito come
libertà.” 463 .
In questo modo, l’ingerenza del danaro nella politica determina non solo la fine
delle idee liberali con le quali il suo potere era cresciuto, ma anche della sua
stessa forza simbolica. La democrazia, suscitata dalla non-casta borghese e
affermatasi mediante la strumentalizzazione delle libertà mediante la stampa e il
danaro, finisce col distruggere se stessa. Le dinamiche intraviste da Spengler
fanno parte, a questo punto, delle previsioni e non più della lettura del presente.
Attraverso l’esame del decorso storico della civiltà antica, egli si ritiene in grado
di prevedere la fine della democrazia e della dittatura del danaro e l’avvento di
un potere che incarni, per un’ultima volta, le forze del sangue e della razza.
Anche in questo caso, come per la tecnica, la civiltà faustiana porta a
compimento e a morte le sue forme, attraverso un’autodistruzione, cioè
attraverso il rivolgersi delle forze suscitate contro i suoi stessi creatori. La
stampa, infatti, diviene uno strumento di manipolazione delle masse che ben
presto sfugge dalle mani delle democrazie e dei parlamentarismi, una fonte di
censura e di limitazione che può fare comodo a delle nature dominatrici.
“La dittatura dei capi-partito prende per base la dittatura della stampa. Per mezzo del
danaro ci si intende a sottrarre masse di lettori e interi popoli all’influenza della parte
avversaria e ad assoggettarla alla propria. Sotto un tale regime ognuno verrà a sapere solo ciò
che si vuole che egli sappia, e una volontà superiore formerà per lui l’imagine del mondo.
[…] Come a colpi di frusta, articoli, telegrammi, illustrazioni spingono le masse nella
direzione voluta fino al momento in cui esse stesse chiedono di prender le armi e costringono
i loro capi ad una lotta, che è poi quella stessa a cui costoro volevano vedersi costretti.
Questa è la fine della democrazia. […] Oggi la vita si è riaffermata; i sogni dei riformatori
del mondo sono divenuti strumenti nelle mani di nature dominatrici” 464 .
L’organizzazione partitica diventa, per Spengler, il tramite dell’ascesa dei
Cesari; alla fine si è lettori ed elettori solamente per essere manipolati in questo
passaggio di forme di potere: i diritti del popolo verranno tanto più tutelati,
quanto più verranno svuotati di significato. La civilizzazione occidentale si
compie all’insegna di una lotta intestina e profonda tra i due piani vitali
463 TO, p.1339-1340.
464 TO, p.1341.
196

dell’anima faustiana: l’essere riemerge e lotta contro le forme astratte e spirituali
dell’essere desto.
“Attraverso il danaro la democrazia distrugge se stessa, una volta che il danaro ha
distrutto lo spirito. Ma appunto perché sono svaniti tutti i sogni di coloro che la realtà si
lasciasse migliorare grazie alle idee, appunto perché si è imparato che nel regno della realtà
una volontà di potenza può esser piegata solo da un’altra volontà di potenza, si desta una
profonda nostalgia per tutto ciò che ancora vive delle antiche, nobili tradizioni. Ci si sente
stanchi fino al disgusto di dover combattere col danaro. Si spera in una qualche liberazione, in
una qualche schietta linea di onore e di cavalleria, di interna nobiltà, di sacrificio e di dovere.
Verrà allora il tempo in cui le potenze formate dal sangue si ridesteranno dal profondo.” 465 .
Il cesarismo cresce nutrendosi della democrazia e dei suoi istituti e imbastisce
col danaro l’ultima grande lotta della civiltà occidentale.
c) Il cesarismo.
Nel prevedere il futuro della civiltà faustiana, Spengler tocca il vertice della sua
indagine storica: è qui, infatti, che convergono le categorie della morfologia
comparata e di quella fisiognomica, allo scopo di comprendere il senso e la
portata del proprio tempo. La prima guerra mondiale ha prodotto una grande
frattura epocale nell’immaginario di anime conservatrici e legate alla tradizione
come quella di Spengler; con essa, si diffonde un grande senso di crisi e di
precarietà che trova ne Il tramonto dell’Occidente una delle espressioni più forti
e indicative, mentre la critica della modernità trova nel concetto di civilizzazione
una pregnanza e una incisività che fanno epoca.
Partendo dall’avvento della democrazia e dalla diffusione del sapere tecnico,
Spengler prevede un’ultima fondamentale fase per la civiltà faustiana, cioè
l’avvento di un potere forte e personale che, da un canto, promani dal simbolo
primo dell’anima faustiana ma, dall’altro, sia anche l’espressione dell’informe
che regna in ogni civilizzazione.
“Essere in ‘perfetta forma’ è tutto. Ci troviamo nei tempi più difficili che la storia di una
civiltà superiore conosca. L’ultima razza in forma, l’ultima tradizione vivente e l’ultimo capo
che dietro di sé abbia l’una e l’altra giungeranno alla meta” 466 .
Il cesarismo segna la rivincita dei valori della tradizione e del sangue che il
razionalismo del diciannovesimo secolo aveva calpestato e negato. Ma come fa
Spengler a prevedere un tale esito della politica occidentale? Quali sono i suoi
riferimenti sincronici?
“Sempre di nuovo vediamo riapparire nella storia il tipo dell’uomo dall’anima forte e
del tutto ametafisico. Nelle sue mani sta il destino spirituale e materiale di ogni epoca ultima.
E’ lui che ha realizzato l’imperialismo babilonese, egiziano, indù, lo stoicismo e il socialismo,
465 TO, p.1342.
466 TO, p.1294.
197

fino alla forma di un modo universale di sentire capace di trasportare e di trasformare ancora
una volta in tutta la sua sostanza una umanità in via di estinzione.” 467 .
Il cesarismo è il momento epigonale di ogni civiltà, la fase che la trasporta nella
non storia, nel non-senso storico. Spengler rintraccia nel passaggio dal tribunato
all’impero, il periodo in cui la Roma antica visse questo periodo necessario e
sempre ricorrente. Le dinamiche sono simili a quelle del suo presente: il Cesare
è colui che sa sfruttare e manipolare gli strumenti offerti dalla congiuntura
politica, che sa fare delle masse cittadine il baluardo del suo consenso di contro
agli interessi dei partiti. Ma abbiamo visto come la democrazia offra essa stessa
il fianco ad essere superata e negata, poiché proprio le forze e gli ideali da essa
suscitati si rivolgono contro le sue strutture e fantomatiche libertà. Non appena
la stampa e il danaro si presentano come mezzi che abili minoranze partitiche
sanno sfruttare per condizionare un’opinione pubblica illusa di autodeterminarsi,
un uomo forte e deciso può impossessarsi di queste armi per affermare il suo
potere personale.
“E non appena la forma cessa di avere la forza di attrazione propria ad un giovane
ideale per il quale si va sulle barricate, entrano in azione i mezzi extraparlamentari impiegati
per raggiungere il fine malgrado il voto e senza il voto: fra di essi stanno il danaro, la
pressione economica e soprattutto lo sciopero. Né le masse delle grandi città né le forti
individualità hanno un vero rispetto per questa forma priva di profondità e di passato, e non
appena ci si accorge che è soltanto una forma essa diviene anche una maschera e una
larva.”. 468
Spengler, così, delinea la fine del parlamentarismo occidentale, definito un
breve e suggestivo spettacolo a cui solo pochi avevano seriamente creduto. Alla
fine della prima guerra mondiale, con la Repubblica di Weimar, tutto ciò che
resta della grande politica sono solo i partiti, educati a fare opposizione e ad
agire attraverso le dinamiche democratiche. Il parlamentarismo è anch’esso un
simbolo faustiano della durata e della preoccupazione per il futuro, ma non è
certo l’apice della storia politica dell’Occidente: la sua decadenza prelude
all’avvento di una nuova forza. Sincronicamente, Spengler legge nella prima
guerra mondiale l’evento contemporaneo al periodo degli stati in lotta cinese:
esso segna, in ogni civiltà, il passaggio al cesarismo, secondo una fase la cui
durata si aggira intorno ai due secoli. Nel momento in cui una guerra pone fine
all’organicità di una civiltà, si dà la possibilità a delle forti personalità di
prendere il potere e di gestirlo in modo personale. Grandi uomini d’azione
trovano in questi frangenti il modo per attuare il proprio destino. Spengler, però,
non si stanca mai di sottolineare come questo ‘potere di uno solo’ non sia
assolutamente assimilabile al potere monarchico tipico delle giovani civiltà:
infatti, un’animità nascente trova nella figura del capo il modo per stabilire la
467 TO, p.58.
468 TO, p.1272.
198

propria forma storica, per coagularsi in funzione della sua figura; il Cesare,
invece, compare sempre in un momento in cui questa forma si è perduta,
puntando su una dimensione privata di potere che nulla ha a che fare con la
coesione delle prime epoche.
“La civiltà aveva unito tutte le forze in una forma rigorosa. Ora esse tornano allo stato
libero e la ‘natura’, cioè l’elemento cosmico, prorompe d’un tratto. Il passaggio dallo Stato
assoluto alla molteplicità dei popoli – di popoli in lotta – di ogni civilizzazione nascente per
gli idealisti e gli ideologi può significare quel che essi meglio credono; nel mondo dei fatti
esso però significa il passaggio da un governare nello stile e nel ritmo di una tradizione
rigorosa al sic volo, sic jubeo di un regime personale senza limiti.” 469 .
L’eliminazione delle vecchie forme spiana la via al potere cesareo. Nella Roma
antica il primo privato a cercare di conquistare l’imperium, sfruttando il favore
delle masse cittadine, fu Mario; tuttavia, lo stesso istituto del tribunato mostra la
tendenza della politica romana all’affermazione di un potere dittatoriale.
“Non vi era bisogno di chiamare nessun tiranno, perché il tiranno esisteva già. Il
tribuno possedeva diritti di sovranità ma nessun diritto di carica e grazie alla sua inviolabilità
poteva compiere atti rivoluzionari che in ogni altra Polis sarebbero stati impensabili senza una
lotta di piazza.” 470 .
Non a caso, quando Cesare salì al potere assunse il tribunato perenne, l’unica
carica che gli conferisse una reale sovranità ed inviolabilità. Le lotte romane tra
l’aristocrazia e il potere statale vengono ricondotte da Spengler alle
rivendicazioni delle caste occidentali nei confronti dello stato assoluto: la
vittoria delle democrazie e delle forme liberali rappresenta, però, solo un
momento transitorio, in attesa che le forze autentiche della razza e del sangue
riprendano il sopravvento.
L’epoca degli stati in lotta, per l’Occidente, si è svolta in un crescendo di
armamenti e tensioni che ha avuto termine solo con la prima guerra mondiale.
Tutto ciò che Spengler sostiene avvenga dopo questo momento fa parte
unicamente delle sue previsioni. In un certo senso, egli riesce a intravedere già
una seconda guerra mondiale, condotta da eserciti di volontari e di entusiasti che
faranno pressione sui loro governi per intraprenderla.
“Fra due generazioni la loro volontà sarà più forte di quella di tutti coloro che
vogliono la pace. A queste guerre che si combatteranno per il retaggio di tutto il mondo
prenderanno parte interi continenti, […] nuove tecniche e nuove tattiche saranno impiegate
dalle due parti. I grandi centri di potenza insediati nelle metropoli disporranno a piacere degli
Stati minori, dei loro territori, delle loro economie e dei loro uomini; tutto ciò non significherà
469 TO, p.1276-1277.
470 TO, p.1240.
199

più che provincia, sarà oggetto, mezzo e fine. […] Ci siamo abituati a non prestar quasi
attenzione a cose che prima della guerra avrebbero fatto rabbrividire il mondo.” 471 .
L’avvento del cesarismo è legato ad uno scontro tra potenze, al ripristino
dell’autentica natura di contrapposizione e di lotta della vera vita politica. La
lotta finale è quella tra politica ed economia, tra essere ed essere desto:
“Il danaro aveva trionfato sotto forma di democrazia. Ma dopo che esso ha distrutto gli
antichi ordinamenti della civiltà, dal caos emerge una grandezza nuova e onnipotente che si
afferma sin nelle radici più profonde del divenire: quella costituita da uomini di statura
cesarea. Essi infrangono l’onnipotenza del danaro. In ogni civiltà, il periodo imperiale
significa la fine della politica determinata dallo spirito e dal danaro. Le potenze del sangue, gli
impulsi innati di ogni vita, la forza corporea non spezzata riprendono l’antico dominio. La
razza si riafferma pura e irresistibile; il successo ai più forti e il resto come preda. Essa
s’impadronisce del governo del mondo e il regno dei libri e dei problemi perde ogni forza e
cade in oblio.” 472 .
Ma che caratteristiche possiede questo tipo cesareo? Come riesce ad incarnare
gli ideali del sangue e della razza? Spengler lo definisce uno psicologo, un
conoscitore di uomini, colui che possiede lo sguardo in grado di intuire
immediatamente la congiuntura politica e di agire con tempestività. Egli non
pensa, non ha ideali o coscienza, ma agisce con una sicurezza cosmica, quasi
sonnambolica, che Spengler talvolta paragona a quella di uno stormo di uccelli
in volo o di un cavallo purosangue. Agisce in modo giusto senza saperlo, gli
sono estranee le teorie o le grandi parole. Il Cesare incarna la vita cosmica
perché anch’essa è senza coscienza: in lui agisce una forza che lo trascende
come individuo e lo conduce ad essere lo strumento di un destino ineluttabile.
Solo l’elemento impersonale che si attua in lui può possedere quella forza
cosmica formatrice in grado di educare e di plasmare un intero popolo. Il
sentimento di potenza che prova un tale uomo alla vigilia di uno scontro o di un
trattato decisivo resterà sempre sconosciuto all’uomo delle teorie.
“Vi sono momenti – momenti che contrassegnano le culminazioni delle correnti
cosmiche – nei quali un singolo sa di essere identico al destino e al centro del mondo e sente
la sua personalità quasi come una veste nella quale la storia del futuro sta per avvolgersi.” 473 .
Di fronte a questa potenza, la natura spirituale e astratta del danaro è destinata a
soccombere: Il tramonto dell’Occidente si chiude con la previsione di questa
vittoria del sangue sull’intelletto e sullo spirito, con la dimostrazione della forza
della vita sulle forme isterilite e cristallizzate. La potenza del danaro può essere
fronteggiata solo da un’altra potenza e l’unica che possegga questo requisito è la
forza politica di un capo che si faccia portatore degli ideali e dei valori
471 TO, p.1291.
472 TO, p.1295.
473 TO, p.1310.
200

tradizionali della politica. Il ciclo vitale di una civiltà si chiude quando la
corrente cosmica da cui la forma era emersa si rimpossessa della sua creazione,
dissolvendola nel suo grembo materno. Il cesarismo rappresenta il momento
epigonale di una civiltà ma, nel mondo occidentale, esso, per un’ultima volta,
esprime prepotentemente il simbolo della volontà infinita. I crudi fatti della vita
storica si affermano nella loro lucida e spietata validità di contro alle teorie di
pace o di democrazia.
“Nella storia l’essenziale è sempre e soltanto la vita, la razza, il trionfo della volontà di
potenza, non il trionfo della verità, delle invenzioni o del danaro. La storia mondiale è il
tribunale del mondo ed essa ha sempre riconosciuto il diritto della vita più forte, più piena, più
sicura di sé: il suo diritto all’esistenza, non curandosi se ciò venga riconosciuto giusto o
ingiusto dall’essere desto. […] Così lo spettacolo offerto da una civiltà superiore, da questo
meraviglioso mondo di divinità, di arti, di idee, di battaglie, di città, si chiude di nuovo con i
fatti elementari del sangue eterno, che fa tutt’uno con l’onda cosmica in perenne
circolazione.”. 474
Alla fine, ciò che si riafferma è quel fondo caotico ed originario da cui le civiltà
erano emerse e la cui accettazione è doverosa a chiunque non voglia farsi
schiacciare dalla storia. Il Cesare, da questo punto di vista, è colui che sa
cavalcare l’onda degli eventi, che sa collocarsi nel destino della propria epoca e
guardare lucidamente l’avvicinarsi della propria fine. Il percorso che ogni civiltà
compie nella sua esistenza organica è come un circolo, la forma originaria si
esprime in ogni epoca, ma con una diversa pregnanza: al tramonto della civiltà
faustiana, l’informe delle ultime creazioni storiche ripercorrerà lo stesso spirito
cavalleresco e guerriero del Gotico, recuperando i valori del sangue e, così,
chiudendo il circolo vitale.
“Per l’Occidente, nei tempi di cui parliamo si ridesterà l’anima del primo gotico: lo
spirito degli ordini cavallereschi supererà il vichinghismo avido di preda. La grande forma
politica della civiltà essendo irrevocabilmente dissolta, i capi futuri potranno anche regnare
sul mondo come su una loro proprietà privata; ma questo loro potere informe e illimitato
implicherà altresì un compito, quello di una instancabile cura per questo stesso mondo, il che
costituirà l’opposto di tutti gli interessi dell’epoca dell’egemonia del danaro ed esigerà un alto
sentimento dell’onore e del dovere.” 475 .
Il ritorno ai valori e ai sentimenti della giovane civiltà faustiana comporta anche
il ritorno della religiosità, prima corrosa dal dubbio dello spirito critico. Essa è
l’altra faccia del cesarismo, delle epoche ultime: il vuoto di un’anima morente
esige qualcosa in cui credere ciecamente nell’affrontare il suo trapasso dalla
storia al non-senso puramente biologico. Tuttavia, questo nuovo fervore
religioso manca di forza creativa: esso è comunque l’espressione di un’animità
che ha esaurito le sue possibilità vitali e che ripropone semplicemente l’antica
474 TO, p.1397-1398.
475 TO, p.1343.
201

fede distrutta dallo spirito libero delle metropoli. Questo fenomeno è
riscontrabile in ogni civilizzazione: nel mondo antico, ad esempio, col sorgere
del cesarismo, si sentì presto l’esigenza di importare una miriade di culti
dall’oriente, che finirono con l’intrecciarsi allo stesso culto dell’imperatore.
Le previsioni di Spengler colpiscono per la loro veggenza e per la spaventosa
somiglianza degli eventi previsti con quelli che, di lì a poco, l’Europa avrebbe
dovuto affrontare. L’avvento del nazismo fu salutato da molti come
l’inveramento dell’epoca del cesarismo prevista da Spengler. Ma può essere
considerata valida questa interpretazione? O non si può cogliere piuttosto una
discrepanza fondamentale tra l’avvento del nazismo e il significato che il
cesarismo occupa nel destino dell’Occidente spengleriano? Per rispondere a
queste domande, bisogna innanzitutto capire quali furono i rapporti che
intercorsero sia storicamente che teoricamente tra Spengler e il nazismo.
L’unico incontro tra Hitler e Spengler diede a quest’ultimo l’impressione di non
trovarsi dinanzi ad un uomo del destino: l’entusiasmo iniziale per l’avvento del
nazismo fu sostituito, ben presto, dal distacco di chi vedeva in esso unicamente
il realizzarsi della barbarie 476 . D’altro canto, al principio, Spengler fu corteggiato
dal nazismo affinché collaborasse alla sua propaganda, per poi essere censurato
come pensatore non in sintonia col regime.
“Dopo la presa del potere Spengler dovette rapidamente riconoscere che, come del
resto egli aveva già intuito, il nazismo non era affatto un alleato, per quanto rozzo, della sua
visione del mondo, bensì un nemico pericoloso. Con crescente amarezza egli dovette
constatare che con l’instaurazione dello Stato a partito unico, la NSDAP diventava una rivale
potenziale dello Stato medesimo. Lo Stato nazionalsocialista non andava nella direzione di un
superamento autoritario – da Spengler auspicato – dell’ideologia politica, bensì, al contrario,
in quella di un assorbimento partitico ideologico dell’autorità statale.” 477 .
Felken, infatti, individua proprio nella concezione dello Stato le più forti
dissonanze tra Spengler e il nazismo: lo Stato non era un bottino di cui potersi
appropriare, ma “la fisionomia di una unità storica dell’esistenza” 478 , la
condizione di stabilità nel fluire perenne della storia. Il Cesare del futuro
spengleriano era colui al quale veniva affidato il compito di salvaguardare lo
Stato nei confronti degli interessi particolari e dei partiti; Hitler, d’altro canto,
fece del suo stesso partito lo Stato.
Tutta la storiografia che vede in Spengler un precursore del nazismo finisce col
badare più alle assonanze terminologiche che alla sostanza: che egli sia stato un
conservatore, ostile alla democrazia e al parlamentarismo, non v’è dubbio; che
476 In una delle lettere di Spengler riportata da Felken si legge: “Inveiscono contro Il tramonto dell’Occidente, di
cui non conoscono nient’altro che il titolo … e lo perseguitano come un’offesa, se li si definisce barbari. Eppure,
per quest’epoca, non c’è niente di meno offensivo. Ma proprio loro aprono la strada a una barbarie che non è
quella dei Germani, bensì quella dei cannibali: torture, assassinî, illegalità, ruberie”. Detlef Felken, Spengler e il
nazionalsocialismo, op. cit., p.253.
477 Ivi, p. 278.
478 TO, p. 1185.
202

sia stato un critico aspro della modernità in nome della tradizione traspare da
ogni pagina delle sue opere; ma, a un certo punto, la sua teoria si ritrasse dinanzi
alla prassi storica, come a volerne rifiutare gli esiti più profondi. Proprio la
previsione del futuro dell’Occidente è ciò su cui, paradossalmente, si
concentrano le contrapposizioni tra Spengler e il regime: a chi vedeva nel Terzo
Reich un rinnovamento dell’umanità per mezzo della razza, non poteva piacere
l’ipotesi che l’avvento del cesarismo potesse significare anche il ritorno al puro
non-senso storico, all’informe tipico di ogni fine. Il cesarismo, infatti, avrebbe
costituito l’ultima grande espressione di una civiltà ormai nel pieno della sua
civilizzazione e la modernità andava, di conseguenza, accettata come destino
ineluttabile dei tempi ultimi.
“Nella filosofia spengleriana non c’è spazio per una restaurazione dei ceti o per una
‘ri-agrarizzazione’ della società industriale. L’uomo moderno deve porsi sul solido terreno dei
fatti, per collaborare attivamente al compimento di un futuro determinato in quanto
civilizzazione.” 479 .
In Hitler l’accettazione del progresso e della tecnica è unicamente funzionale
allo sviluppo militare: il dominio faustiano della natura è il contrassegno di un
uomo forte e violento. Ciò che gli mancò fu invece la consapevolezza tragica
che il progresso è anche rottura, punto di non ritorno.
Di fronte al destino di ogni civiltà, sorretto da una logica ciclica e organica,
Spengler esclude non solo il progresso, ma anche l’utilità di ogni utopia
rivoluzionaria; il nazismo, invece, concepisce la storia mondiale come
minacciata da forze distruttive (tra cui il giudaismo) a cui poter opporre
un’ipotesi di azione rivoluzionaria. Di contro al destino ineluttabile
dell’Occidente, Hitler affermava:
“Non sono affatto un seguace di Oswald Spengler! Non credo affatto al tramonto
dell’occidente! Al contrario, credo che il compito che mi è stato affidato dalla Provvidenza sia
quello di fare in modo che tale tramonto non si realizzi.” 480 .
Ciò ci dà l’ultima conferma che egli non fu il Cesare aspettato da Spengler, che
gli fu estraneo il compito assegnato dal destino all’uomo forte della fine dei
tempi.
Di contro ai colori cupi e all’orizzonte tetro prospettato da Spengler, sembra
quasi che il cesarismo abbia la funzione di una salvezza, di una redenzione dalla
modernità. In effetti, in molte pagine de Il tramonto dell’Occidente, esso viene
salutato come la rivincita delle forze cosmiche nei confronti dello spirito
cittadino freddo, astratto, ormai cristallizzato. L’avvento del cesarismo e della
seconda religiosità segna il primato della vita sulle tensioni microcosmiche di
479 Detlev Felken, Spengler e in nazionalsocialismo, op. cit., p. 270.
480 Ivi, p.273.
203

un’esistenza fattasi tutta desta, un ritorno all’essere pianta, alla sicurezza
cosmica dello stesso agire.
“Dopo duecento anni di orge di scientismo, se ne ha però abbastanza. Ne ha
abbastanza non il singolo, ma l’anima stessa della civiltà.” 481 .
Scienza e danaro sono gli avversari da combattere, gli ostacoli che la vita deve
superare per riaffermarsi. Il cesarismo non è solo l’opportunistica speranza
politica in un futuro egemonico della Germania, dopo la sconfitta della prima
guerra mondiale, ma è la stessa affermazione della vita.
“Il cesarismo è una manifestazione primigenia della volontà di potenza, che in
Spengler è analoga alla volontà di vita. La loro alleanza delinea uno scenario salvifico ed
escatologico, uno squarcio palingenetico per sottrarsi alla mediocrità del presente.” 482 .
Ma ci può essere vera salvezza? Il ritorno alla vita è anche la morte di una
civiltà, il suo ritorno al non-senso biologico, è la stanchezza di un’anima che si è
ormai realizzata e cede all’informe. In Spengler non c’è redenzione del presente,
né possibilità di fuga, ma accettazione del destino.
“Insieme allo Stato formato anche l’alta storia passa ad una stato di sonno. L’uomo
torna ad essere pianta: aderente alla zolla, ottuso, durevole. Il villaggio senza tempo, il
contadino eterno riaffiorano, a generare figli e a seminare la Madre Terra, in un pullulare di
esseri laboriosi e sobri sul quale soffia la tempesta scatenata dagli imperatori militari. In
mezzo alla campagna stanno le vecchie città cosmopolite, sedi vuote di un’anima spenta,
nelle quali lentamente va ad annidarsi una umanità senza storia. Si vive alla giornata, con una
breve, modesta felicità, e si sa soffrire. […] E mentre in alto vi è un perenne alternarsi di
vittorie e disfatte, in basso si prega, si prega con quel potente fervore della seconda religiosità
che ha ormai superato per sempre ogni dubbio. Ora, ed ora soltanto, la pace mondiale è
divenuta realtà. […] Essa ha suscitato quella profonda capacità di rassegnazione che l’uomo
storico non riesce ad apprendere in tutto il millennio dell’evoluzione delle sue civiltà. Solo
con la fine della grande storia riappare l’essere desto calmo e santo. E’ uno spettacolo sublime
nella sua assenza di ogni scopo: senza scopo e sublime come il corso delle stelle, come le
rivoluzioni della terra e l’alternarsi dei mari e dei continenti, dei ghiacci e delle foreste vergini
su di essa. Può essere motivo di ammirazione o di pianto – comunque, è in tali termini che si
presenterà la realtà.” 483 .
La stanchezza dell’uomo ultimo traspare da queste pagine: Spengler si pone
come osservatore di un futuro che, tuttavia, grava già pesantemente su ogni sua
consapevolezza. Ma dove si colloca la stessa filosofia spengleriana nell’ambito
di un quadro così pessimistico? E che portata esistenziale può avere il tramonto
dell’Occidente per chi percorre ed è consapevole di questo cammino?
481 TO, p. 643.
482 Domenico Conte, Evoluzione (in tedesco progresso). Spengler tra vitalismo e irrazionalismo politico in
Catene di civiltà, op. cit., p.293.
483 TO, p. 1300-1301.
204

205

Capitolo secondo
Conseguenze esistenziali de Il tramonto dell’Occidente.
1. Destino, libertà e necessità.
Prevedendo l’avvento del cesarismo, Spengler ha delineato la rivincita della
politica e del sangue sulle forme astratte e prive di vita della metropoli, la
vittoria delle forze cosmiche sul microcosmo da civilizzazione, resosi ormai
tutto spirito e intelletto. L’indagine morfologica ha, così, raggiunto il suo apice:
essa, infatti, è diventata la veggenza di uno sguardo storico in grado di
ricostruire il volto peculiare dell’Occidente nella sua fase più tarda, mediante
l’analisi comparata del destino delle civiltà superiori. Ma essa ha costituito, al
tempo stesso, il riconoscimento dei segni della fine e la sua anticipazione:
“Tutto ciò è preludio, grande e magnifico, di un’epoca a venire con la quale la storia
dell’uomo euro-occidentale si chiuderà definitivamente.” 484 .
La previsione contenuta ne Il Tramonto dell’Occidente pone l’uomo del
ventesimo secolo di fronte a un destino prefissato: le forme della civilizzazione
occidentale finiranno col ripercorrere le stesse scansioni vitali delle civiltà
passate, rinnovando un ciclo naturale di inevitabile caducità. Ma che influenza
ha la consapevolezza di questo destino sulla libertà dell’individuo? Come si può
vivere e progettarsi liberamente, se al futuro appaiono già precluse determinate
forme di vita? La civiltà occidentale ha già espresso la maggior parte delle
possibilità della sua forma: che cosa resta da vivere all’uomo della
civilizzazione?
484 TO, p. 68.
1

“La constatazione di più civiltà, costantemente esposte anche a possibilità di
involuzione e di scomparsa, proponeva con urgenza l’interrogativo intorno al destino
dell’Occidente. Dal momento che la civiltà occidentale non è la civiltà, e tanto meno la fase
più alta dello sviluppo della civiltà, ma è soltanto una civiltà, potrà essa sfuggire alla sorte che
l’analisi storica ha rivelato comune a tutte le altre che finora l’hanno preceduta? E, dal
momento che anche la civiltà occidentale è esposta al rischio di decadere e perire, è fo rse
giunto il momento in cui essa dovrà interrompere il suo sviluppo progressivo – quello che le
ha consentito di realizzare le sue conquiste e di estendere su tutta la terra il suo dominio - per
iniziare un processo involutivo? Non si tratta di un interrogativo astrattamente formulato; si
tratta invece di una domanda vitale che risuona con diverso accento, ma spesso in tono
angosciato e privo di speranza, in tanta parte della cultura europea degli anni della prima
guerra mondiale.” 485 .
Questi interrogativi, queste domande vitali, sono il frutto di un’interpretazione
storica che ha introdotto nelle dinamiche temporali una necessità organica
inesorabile; ricondurre le civiltà superiori a forme viventi emerse dalla natura,
vuol dire assegnare ad esse un destino di crescita, di maturità e di decadenza
simile a quello delle piante. Il corpo sensibile di una civiltà si definisce
nell’espressione della sua animità ma, quando essa ha esaurito le sue possibilità
viventi, allora ne subentra l’irrigidimento e prevale la pura riflessione su forme
preesistenti. La civilizzazione è incapacità di creare, di esprimersi in forme
nuove, è l’adagiarsi di un’anima stanca sugli allori della sua giovinezza.
Tale legge organica vale anche per gli universi formali interni alle civiltà:
ciascuno di essi possiede una serie di possibilità espressive in cui manifestare la
propria idea e forma, ma il significato di ciascuna creazione sarà sempre il
risultato di una necessità storico-naturale che in essa trova il modo di esplicarsi.
Ogni simbolo possiede una necessità profonda propria al suo apparire in un dato
tempo e in un dato luogo: nel mondo storico spengleriano non regna affatto la
casualità, bensì il destino organico insito in ogni forma vivente. Un filo
485 Pietro Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, op. cit., p. 421.
2

invisibile lega e determina la scansione degli eventi, secondo una finalità
naturale di senescenza e caducità 486 . Spengler, sostituendo al presupposto
necessario del progresso, il presupposto di un destino che condurrà sicuramente
alla morte, ha trasformato la necessità nella categoria della caducità inevitabile.
L’idea di destino è la diretta conseguenza dell’impianto biologistico della storia
spengleriana: ogni civiltà, infatti, vive uno sviluppo interno, uno svolgimento
della propria forma che, dal piano naturale, passa ad essere la legge inesorabile
della vita degli individui.
“Così devi essere, a te stesso non puoi sfuggire.
Ciò dissero già le sibille, i profeti;
e non v’è tempo o forza che possa infrangere
la forma in te impressa che viva si sviluppa.” 487
Nel momento in cui una civiltà viene alla luce, la forma è l’idea che fissa, che
decreta le possibilità del suo svolgimento organico, con la stessa necessità di un
destino. Goethe ha fornito a Spengler l’idea di uno sviluppo che coinvolge non
solo il Seelentum delle civiltà superiori, ma anche l’essere umano che in esse si
trova a vivere: non si può sfuggire a se stessi, ad un destino che preesiste ad ogni
atto di volontà.
L’impatto che l’intuizione di questa struttura deve aver avuto non solo su
Spengler, ma sui suoi contemporanei, deve essere stato sconvolgente. La densa e
fosca sensazione di essere degli epigoni domina le pagine de Il tramonto
dell’Occidente; e allora Spengler è spinto a chiedersi: che fare, cosa poter
sperare nei tempi del tramonto? Il rapporto tra destino, caso e causalità è stato
già esplicato a proposito della struttura della civiltà; ma ora si tratta di
486
Questo processo è stato ampiamente illustrato nell’ambito degli universi simbolici e della loro analisi
morfologica; si confronti il capitolo terzo della prima sezione.
487
TO, p.245. Si tratta di alcuni versi goethiani contenuti nei Primi detti orfici riportati da Spengler per
dimostrare quanto l’idea della natura vivente possa essere la base di una struttura di pensiero che vincoli
l’esistenza dell’uomo alle stesse leggi che valgono per ogni organismo, ivi comprese le civiltà.
3

comprendere, al di là delle categorie storiche, come tale rapporto influenzi le
vita degli individui. Sin dall’Introduzione, Spengler ha rilevato la centralità di
questo problema, invitando implicitamente il lettore a tenerlo presente nel corso
di tutta la sua opera. Ma quali sono i termini della questione?
“Chi non comprende che questa fine è inevitabile, chi non comprende che si deve
volere o questo o nulla, che si deve amare questo destino o disperare dell’avvenire, della vita,
chi non sente la grandezza che sta anche in questa attività di possenti menti, in questa energia
e disciplina di nature metalliche, in questa lotta condotta coi mezzi più freddi e astratti, chi
indulge nell’idealismo da provinciale, in nostalgie per lo stile della vita di tempi passati –
costui deve rinunciare a capire la storia, a vivere la storia, a creare la storia.” 488 .
La portata esistenziale del destino organico delle civiltà si presenta come
angoscia di fronte all’ineluttabile: l’angoscia del singolo di fronte all’idea della
propria morte, infatti, si traduce nell’angoscia di fronte all’idea che tutto ciò che
si è e che si conosce sta per morire, sta per perdere il proprio significato. Ma c’è
di più, perché si tratta anche di riuscire a trovare la propria collocazione in
un’epoca di crisi e di esaurimento delle possibilità vitali. A questo punto,
Spengler sente la prognosi del futuro come un compito, come un dono che egli
può fare alle nuove generazioni: chi, infatti, nasce alla fine dei tempi trova
dinanzi a sé solo un ventaglio limitato di possibilità espressive. Non ogni forma
è adatta alla civilizzazione occidentale: Spengler ha già profilato la fine dell’arte
e della filosofia, ha già parlato di una supremazia del danaro e della tecnica. Ciò
che egli ha previsto, lo sviluppo organico di ciascuno di questi universi formali,
deve essere d’aiuto a chi si accinge a scegliere la propria strada:
“Circa il futuro, fino a oggi, ci si poteva augurare quel che si voleva. Quando i fatti
mancano, è il sentimento a decidere. D’ora innanzi ognuno sarà tenuto a sapere quel che nel
futuro può accadere e quindi accadrà con l’inevitabilità di un fato, indipendentemente da
488 TO, p.68.
4

ideali, speranze e desideri personali. Volendo usare il termine problematico di libertà, dovrà
dirsi che non siamo più liberi di realizzare questo o quello, bensì o nulla, oppure quel che è
necessario. Sentir ciò come bene, è proprio ad uno spirito realistico. Col deplorare o
l’accusare nulla, del resto, sarebbe cambiato. […] L’epoca presente è un’epoca di
civilizzazione, non di civiltà, il che rende impossibile tutta una serie di contenuti della vita. Si
può deplorare ciò e tradurre tale deplorazione in una filosofia o lirica pessimistica, e non si
mancherà di farlo, ma non si può mutare nulla.” 489 .
La forza al nostro agire è data dal presupposto e dal sentimento della sua libertà,
dalla possibilità che esso possa inserirsi nel corso degli eventi e mutarlo: ma ora
Spengler sta negando la stessa condizione di possibilità della libertà,
configurando un’altra dinamica del volere.
“Il macrocosmo domina come una cieca sorte sulla vita microcosmica. […] La volontà
dunque ha ancora un mondo di segrete azioni contrarie che le si oppongono, che sono
importanti per il successo o l’insuccesso. Il giudizio della storia, l’immagine della storia
registra però soltanto ciò che è successo e non quanto sarebbe potuto accadere. Questa forza è
inesorabile. […] Noi parliamo di inconsapevole malasorte, di favorevoli circostanze. Tutto ciò
fa parte del grande duello tra microcosmo e macrocosmo, tra volontà e destino.” 490 .
La coesistenza di necessità e libertà all’interno della morfologia della storia
spengleriana è uno dei problemi più ardui che si pongono sul piano esistenziale.
Esso ha da sempre suscitato aspre critiche proprio perché toccava le corde
delicate del senso stesso dell’agire umano. Che ruolo può avere, infatti, l’agire
libero nella storia di una civiltà superiore? E, soprattutto, che conseguenza può
avere su questa presunta libertà la consapevolezza della caducità e
dell’imminente tramonto della civiltà occidentale?
489 TO, p. 70-71.
490 UR, p. 503-504.
5

“La volontà libera è una certezza interiore. Ma per quanto si voglia o si faccia, il
risultato reale di ogni decisione, ciò che a essa segue in modo brusco, sorprendente,
imprevedibile, obbedisce a una necessità profonda e all’occhio dell’intelletto passato appare
inserirsi in un ordine superiore. E là dove fu destino che ciò che venne voluto si realizzasse si
può sentire appunto come grazia l’insondabile.” 491 .
Alla fine, il contenuto della libera volontà è comunque inserito nell’ordito
necessario di un destino nel quale, solo, essa trova giustificazione.
Contrapponendosi a tutte le ipotesi ideologiche di mutare il mondo, di
migliorarlo o di renderlo più giusto, Spengler sostiene la vanità di ogni libero
progetto che, di fatto, non sia in sintonia col destino della propria civiltà, che
non sia, cioè, tra le possibilità necessarie che essa deve realizzare in un dato
momento storico.
“Se si vuole stabilire con maggior rigore quale sia, nell’opera spengleriana, il
significato del destino così enfaticamente proclamato a cardine del divenire delle varie civiltà,
si vede come esso non indichi altro che l’assenza di qualsiasi dimensione di scelta umana
nell’ambito della storia. Come tale, il destino designa l’impossibilità della scelta per l’uomo,
cioè l’impossibilità per l’uomo di scegliere la direzione del proprio agire in una certa
situazione. L’uomo non può scegliere la situazione in cui vive e nella quale deve operare; ma
non può neppure scegliere il modo in cui affrontarla, e operare nel suo ambito. Ciò perché la
situazione non è un ambito di possibilità, da cui l’uomo sia condizionato, ma è invece
l’imposizione di una possibilità univoca che deve essere realizzata infallibilmente.” 492 .
La libertà dell’uomo si traduce nell’amor fati, nell’accettazione del destino, nel
saper agire nella sua stessa direzione. All’uomo viene data solo la libertà di
seguire o meno un destino irreversibile e non, certo, quella di inserirsi in esso e
di deviarne il corso. Da questo punto di vista l’azione libera è solo quella
coronata dal successo: infatti, solo il volere che individui il corso della storia e
491 TO, p.220.
492 Pietro Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, op, cit., p. 428.
6

che si conformi ad esso, sarà passibile di essere realizzato. L’uomo, perciò può
accettare quell’unica possibilità di vita che il destino gli propone o non
realizzare nulla, condannandosi all’eterna vanità di ogni volontà e di ogni
azione. L’opera di Spengler si configura, allora, come il tentativo di determinare
anticipatamente il futuro della propria civiltà allo scopo di consentire l’unico
tipo di libertà che, in genere, sia possibile nella storia:
“Nessuna civiltà è libera di scegliere; ma oggi, per la prima volta, una civiltà può
prevedere quale via il destino abbia scelto per essa.” 493 .
La coerenza di ciascuna civiltà al proprio simbolo elementare si traduce
nell’impossibilità delle forme storiche di intraprendere un cammino arbitrario e
libero nella scelta dei suoi simboli: tutto deve necessariamente scaturire dal
simbolo originario e rimandare ad esso come al suo principio ideale e formatore.
Allo stesso modo, chiunque viva in una civiltà sarà inserito nella determinatezza
delle sue espressioni in modo tale che una forza più grande agirà attraverso di lui
nella definizione degli eventi e delle sue scelte più profonde. Come dice
Spengler, non è l’artista che sceglie lo stile, ma è lo stile che sceglie l’artista
attraverso il quale prendere corpo e manifestarsi: in questa seconda scelta agisce
la necessità organica delle forme espressive. Ma da essa traspare anche una
strumentalizzazione dell’individuo che diventa, così, funzione di un procedere e
di una forza che lo trascende. A prescindere dalla natura di questa forza, che in
Spengler assume il volto della necessità vitale del mondo storico, ciò che qui
interessa è comprendere come l’individuo riesca ad assorbire tale
consapevolezza e a vivere. E, infatti, lo stesso Spengler è portato a chiedersi
quale portata esistenziale possa avere la sua prognosi del futuro dell’Occidente,
che impatto essa possa avere sulla vita.
493 TO, p. 247.
7

“Mi aspetto l’obiezione che questa prospettiva del mondo che ci dà una certezza
quanto alla fisionomia e alla direzione del futuro tagliando corto con tante grandi speranze, è
nemica della vita e tale da riuscire esiziale per molti se non dovesse restare pura teoria, ma
divenire la visione pratica del mondo del gruppo delle personalità chiamate davvero a dar
forma al futuro.” 494 .
Ragionando nei termini nietzscheani del favorire o dell’essere ostili alla vita,
Spengler dischiude dinanzi a sé una prospettiva di scelta esistenziale che delinea
una gerarchia vitale. Le anime forti saranno coloro capaci si assumersi il carico
della consapevolezza del futuro e di darvi forma: costoro sono quegli uomini del
destino cui Spengler tributa il merito di farsi strumento della necessità storica,
trovando in ciò la loro forza. Queste nature metalliche sono le sole a poter
sopportare il fardello della necessità inevitabile e a introdurvisi, allo scopo di
potenziarne l’efficacia storica.
“Per cui bisogna capire il tempo per il quale si è nati. Chi non sa sentire e capire le
forze più segrete del suo tempo, chi non percepisce in sé qualcosa di affine ad esse che lo
spinge innanzi in una direzione che non si lascia definire mediante concetti, chi crede alle
apparenze dell’opinione pubblica, alle grandi parole e ai grandi ideali del giorno, non è
all’altezza degli avvenimenti del tempo suo.” 495 .
Il tipo ideale dell’uomo della civilizzazione è, per Spengler, colui che sa fare
della propria libertà un corollario della necessità organica del proprio tempo.
Sostanzialmente, si tratta dell’uomo politico dell’ultima ora, ma anche
dell’uomo d’azione di ogni tempo, di colui che sente se stesso come un destino,
come una parte delle potenza cosmiche.
“A chi è maestro del mondo dei fatti basta dirigere impercettibilmente quel che per lui
è la semplice realtà data. Ciò sembra poca cosa, eppure è così che si prepara la libertà in
494 TO, p.71.
495 TO, p.1308.
8

senso superiore. Sono importanti le mosse minime, l’ultimo cauto colpo di timone, la
sensibilità per le più sottili oscillazioni dell’anima, dei popoli e dei singoli. L’arte dello Stato
poggia sulla chiara visione delle grandi linee tracciate irrevocabilmente dalla storia e, in pari
tempo, sulla sicura utilizzazione di ciò che è unico e personale, di ciò che può trasformare una
sciagura imminente in un successo decisivo. Il segreto di ogni vittoria consiste
nell’organizzazione dell’irrilevante.” 496 .
Questi sono gli ‘uomini superiori’ della storia e del destino: ma che ne è di
coloro che non posseggono tale natura metallica, che non sanno intuire il destino
e, impercettibilmente, farne la propria arma vincente?
L’uomo faustiano tende a considerare ogni sua creazione come eternamente
valida, a “concepire il proprio apparire nel mondo come qualcosa di
definitivo” 497 . Nelle epoche tarde ciò si trasforma nell’odio inconscio dell’uomo
verso il destino, verso l’irripetibilità e l’irreversibilità degli eventi, e si traduce
nelle creazioni spirituali e sistematiche della civilizzazione. Ma questa
sensazione è radicalmente mutata dalla consapevolezza dell’inevitabile tramonto
della propria civiltà: Spengler ha evidenziato i segni inequivocabili di questa
decadenza. Che ne è, allora, dell’esistenza degli individui la cui natura non
sopporta questa prospettiva? Che spazio resta alla loro libertà?
“Per l’uomo desto vi è dunque un doppio problema: quello dell’essere desto e quello
esistenziale, il problema dello spazio e quello del tempo, in correlazione col mondo come
natura oppure del ritmo: l’essere desto cerca di capire non soltanto se stesso, ma altresì una
realtà che gli è estranea. Anche se tutto gli dice che un tale assunto supera le possibilità della
conoscenza, l’angoscia induce ogni essere a cercare e a preferire una apparenza di soluzione
allo sguardo nel nulla.” 498 .
L’esperienza della caducità, offerta all’uomo faustiano dalla morfologia
spengleriana, incontra talvolta nature che non sopportano di fissare il proprio
496 TO, p.1313-1314.
497 TO, p.38.
498 TO, p.671.
9

sguardo sui limiti che incombono sulle proprio agire: essi si acconciano alla vita,
si sostengono con le loro illusioni, si accontentano di una piccola felicità anziché
leggere i segni, nel proprio tempo, del loro destino. Si tratta dello stesso ‘piccolo
uomo’ descritto nello Zarathustra da Nietzsche, di colui che ha piccole mire e
piccoli scopi.
“Essi vorrebbero allettarmi e lodarmi per la virtù piccola; vorrebbero convincere il mio
piede al ticchettare della piccola felicità.
Io passo in mezzo a questa gente e tengo gli occhi aperti: costoro son diventati più piccoli e
diventano sempre più piccoli: - ma in ciò consiste la loro dottrina sulla felicità e la virtù.
Infatti, anche nella virtù essi sono modesti, - perché vogliono vivere comodi. Ma alla
comodità si adatta solo la virtù modesta. […]
Ma la loro ora verrà! E anche la mia verrà! Di ora in ora essi diventano più piccoli, più poveri,
più infecondi, - povera erba! povero terreno!
E presto staranno là com’erba e stoppie rinsecchite, davvero! stanchi di se stessi e, più ancora
che all’acqua, anelanti al fuoco!” 499 .
Proprio coloro che non accettano la fine saranno i primi a perire della loro stessa
meschinità, del loro inane sforzo a ostacolare i tempi: la stanchezza delle loro
membra affretta il loro trasformarsi in erba rinsecchita, in vita organica priva di
senso.
La libertà dell’uomo della civilizzazione non è, quindi, libertà di scelta poiché
ogni agire contro il destino si rivelerebbe un tentativo di rivolta infecondo. Una
volta riconosciuto il complesso di possibilità proprie ad una data civiltà in un
dato momento della sua storia, bisogna essere in grado di introdurvisi e di
sfruttare tale corrente. Spengler, partendo dalla constatazione della fine dell’arte,
si pone il problema della possibilità della sua esistenza nel secolo ventesimo:
499 Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, op. cit., p.205 e p.209.
10

“Si cerchino le grandi personalità, che possono giustificare l’affermazione che esiste
ancora un’arte informata da una necessità fatale. Si cerchino i compiti naturali e necessari che
esse dovrebbero realizzare. Si visitino esposizioni, concerti, teatri e si troveranno solo degli
industriali dell’arte e dei rumorosi pazzi che insistono nel confezionare per il mercato
qualcosa di cui, interiormente, già da tempo si sente l’inutilità. […] Nell’adunanza generale di
qualche società per azione o fra ingegneri delle migliori fabbriche di macchine si troverà più
intelligenza, gusto, carattere e capacità che non in tutta la pittura e la musica dell’Europa
contemporanea.” 500 .
Questa provocatoria affermazione è la rivelazione di quanto sia ancora rimasto
da esprimere alla civiltà faustiana: solo il mondo della tecnica e dell’economia
costituiscono il presente della sua esistenza organica, ma sono anch’essi suoi
simboli perituri. Tuttavia, Spengler, tracciando una morfologia di ogni
organismo interno alle civiltà, ha previsto lo svolgimento di ciascun ambito
nell’esaurirsi delle sue possibilità espressive: qui la morfologia fisiognomica si
fa strumento dell’esistenza e le indica il cammino da percorrere nelle epoche
tarde. Spengler, cioè, delineando il futuro, ritiene di fare un dono ai suoi
contemporanei, di evitare la dispersione delle loro energie vitali in un’agire che
si contrapponga al destino.
“Noi siamo uomini di una civilizzazione e non del periodo gotico o rococò; noi
abbiamo da tener conto dei fatti freddi e duri di un’epoca tarda avente il suo parallelo non
nell’Atene di Pericle bensì nella Roma cesarea. L’uomo euro-occidentale non dovrà più
attendersi una grande pittura e una grande musica. Le sue possibilità architettoniche si sono
esaurite già da cento anni. A lui sono rimaste possibilità nel dominio dell’estensione. Ma io
non vedo che svantaggio dovrebbe esservi se una generazione valida e piena di speranze
illimitate verrà a sapere tempestivamente che una parte di tali speranze sono vane. Anche se
queste fossero le più care, chi vale qualcosa saprà abbandonarle e imporsi. 501 .
500 TO, p.443.
501 TO, p.71.
11

La libertà, per Spengler consiste nella consapevolezza di ciò che ci è precluso,
nella libertà di non sprecare le proprie forze in ciò che esula dalle possibilità del
proprio tempo. Da questa prospettiva si comprende anche lo sforzo costante di
Spengler di giustificare la legittimità del proprio compito filosofico: lo
scetticismo, come si è visto, è l’ultima fase del sapere filosofico in grado di
assumere su di sé, fisiognomicamente, ogni altro ambito del sapere. Come l’arte,
anche la filosofia offre lo spettacolo di misere figure di pensatori, nessuna delle
quali si mostra capace di “un unico giudizio profondo e veggente” 502 . La
filosofia ha perso la capacità di essere un simbolo del suo tempo, per cui viene
meno il senso ultimo dell’azione filosofica, il suo essere una componente vitale
della civiltà occidentale.
“Da prospettive da aquila si è scesi a prospettive da rana. Il problema, qui, è nulla di
meno quello di sapere se oggi o domani una filosofia sia possibile. E se non è possibile, è
meglio farsi coltivatori o ingegneri, qualcosa di vero e di reale, e non rimasticare temi scontati
col pretesto di un rinnovato impulso del pensiero filosofico essendo preferibile costruire un
motore da aeroplano che una nuova teoria dell’appercezione inutile quanto le precedenti. […]
Un pensiero che non sa abbracciare e mutare fin nel profondo tutta la vita di un’epoca è
meglio che non sia espresso.” 503 .
Il problema della scelta e della libertà si pone, allora, anche per lo stesso
Spengler, il cui pensiero trova la sua collocazione pratica, oltre che teoretica,
nell’indicare la strada e il destino agli epigoni della civiltà occidentale. Ma che
sacrificio sta chiedendo ai suoi contemporanei? Non è nella stessa natura
dell’anima faustiana l’esigenza di presupporsi libera di agire? La volontà è il
cardine di ogni morale occidentale: questo ce lo ha insegnato proprio Spengler.
502 TO, p.76.
503 TO, p.77.
12

“E’ soltanto sullo sfondo grandioso costituito da questo mito che nell’anima faustiana
nacque il senso di quel che essa era. Un Io sperduto nell’infinito, fatto tutto di forza ma
impotente fra una infinità di più grandi forze; tutto volontà ma pieno di angoscia per la sua
libertà. Il problema del libero arbitrio non fu mai pensato in modo così profondo e
tormentoso. […] Ogni limite della libertà fu sentito come una catena che ci si trascinava
dietro nella vita e questa stessa vita fu concepita come una morte vivente.” 504 .
Che ne è allora di questa profonda interpretazione del libero arbitrio nel tempo
della civilizzazione? Spengler, in effetti, non nega la possibilità di volere
liberamente, ma quella di poter far agire la propria libertà in un corso di eventi
governato da una necessità organica. L’amor fati è la capacità di nature forti di
accettare la realtà che scaturisce da uno sguardo più attento sulla storia delle
civiltà, ma non è la negazione del volere in se stesso. Il problema del disprezzo
del proprio tempo e della desolante povertà di possibilità che esso offre, deve
risolversi nella salda accettazione del destino che ci compete: lo stesso
Zarathustra deve superare il disprezzo per la piccola gente perché ne comprende
la necessità. Fare della libertà un’espressione della necessità storica è il punto
più alto cui un uomo della fine dei tempi possa arrivare.
“Poter volere liberamente, questo è, in fondo, l’unico dono che l’anima faustiana
invoca dal cielo.” 505 .
Questo anelito si mantiene anche alla fine dei tempi ma si rafforza e si
arricchisce dalla consapevolezza del futuro. Rossi parla, a questo proposito, di
un’aporia nel concetto spengleriano di libertà, che rivela un’esigenza etica mai
esplicitamente riconosciuta. Di contro alla necessità organica delle civiltà, egli
riconosce la libertà dell’individuo che ancora può opporsi al proprio destino, per
quanto vanamente.
504 TO, p.1080.
505 TO, p.1081.
13

“Questo riconoscimento di una dimensione di libertà dell’operare umano, per quanto
sia rinserrata sempre entro il quadro della necessità biologica dominata dal destino, […] non
riesce tuttavia a conciliarsi con lo sforzo spengleriano di piena subordinazione dell’individuo
alla civiltà come totalità che lo comprende e trascende il suo operare. L’uomo, per quanto
faccia parte di una certa civiltà ed abbia la propria situazione determinata in un certo
momento del suo sviluppo, può tuttavia opporsi al destino e rifiutare così di riconoscere tale
situazione: in maniera che la necessità del divenire storico non lo assoggetta a sé fino al punto
che egli non possa almeno tentare di opporsi ad essa. Il dovere dell’individuo è quindi di
accettare il dominio del destino senza tentare una vana e, in quanto vana, colpevole resistenza
ad esso” 506 .
L’accettazione del destino diverrebbe, così, un compito, un dovere etico-
normativo che garantirebbe il successo della propria azione. Non conformarsi ad
esso diverrebbe, da questo punto di vista, motivo di colpa nei confronti della
propria epoca.
“Un secolo di azioni puramente espansive con esclusione di ogni superiore produzione
artistica o metafisica […] è un’epoca di decadenza. Certamente noi non abbiamo scelto questo
tempo. Non possiamo cambiare il fatto di essere nati come uomini di un incipiente inverno di
completa civilizzazione e non nelle altezze solari di una civiltà matura del tempo di Fidia o di
Mozart. Tutto sta nel rendersi conto di questa situazione, di questo destino, di comprenderlo,
perché malgrado le illusioni che ci possiamo creare non si può evitarlo. Chi non sa
riconoscere questo, non può esser contato fra gli uomini della sua generazione. Resterà uno
sciocco, un ciarlatano o un pedante.” 507 .
Spengler intende donare agli uomini del suo tempo la consapevolezza delle
possibilità storiche che, sole, renderebbero la loro esistenza autentica e degna di
essere vissuta. La forza nel riuscire a dirigere o meno la propria volontà nella
506 Pietro Rossi, Oswald Spengler e la crisi relativistica dello storicismo in Storia e storicismo nella filosofia
contemporanea, op. cit., p. 84-85.
507 TO, p.79.
14

stessa direzione del destino decide della levatura morale dell’uomo. Chi non
riesce ad accettare l’idea della fine dei tempi, chi non comprende che tutto ciò
che vive è destinato a svanire, è un vigliacco: la volontà non può prolungare ciò
che il destino ha sancito, né può ergersi a modificare il corso degli eventi e le
possibilità da esso assegnateci. In Urfragen, la dinamica tra libertà e destino di
traduce nel rapporto tra un destino interiore, microcosmico e un destino
esteriore, prettamente cosmico, relativo all’ambiente e alla storia.
“Destino è già dove, quando e come si viene generati: in quale secolo, in quale popolo,
in quale strato sociale: ma anche il corpo dell’anima quando esso è malato, debole e storpio,
fa parte del destino. Le tragedie degli individui sono collocate nella contraddizione di questi
destini, interiore ed esteriore. Il modo come ognuno riesce a venirne a capo ne caratterizza il
rango.
La storia del mondo è una tragedia, poiché l’uomo civile, a differenza dell’animale, è costretto
razionalmente a porsi delle domande per le quali non esiste risposta alcuna.” 508 .
Tragico è il destino dell’uomo, poiché ciò che determina la sua esistenza non
dipende dalla sua volontà. Ma esiste anche una differenza di rango tra gli
uomini, una collocazione morale ed esistenziale che dipende dal loro
atteggiamento di fronte al destino. Spengler, per la prima volta, ha messo gli
uomini della civiltà faustiana nella condizione di operare quell’unica scelta che
decide del loro rango ma, anche, in ultima istanza, della loro libertà. Come per
Zarathustra, il volere dell’uomo si scontra col macigno dell’irrevocabile, sia esso
passato o futuro: la libertà umana deve mettersi alla ricerca di una diversa
dinamica del volere che non neghi il destino, che non gli si contrapponga
ostinatamente e vanamente. La previsione del futuro mette nelle mani dell’uomo
faustiano una possibilità mai osata prima: egli può cibarsi delle illusioni dei suoi
ideali, oppure decidere di volere proprio ciò che è necessario. E’ proprio questa
decisione che determina il modo in cui poter vivere alla fine dei tempi.
508 UR, p.508-509.
15

2. Come vivere alla fine dei tempi:
Spengler e Zarathustra.
L’antitesi tra destino e libertà ha evidenziato tutta la tragica condizione di chi
può scegliere liberamente pur sapendo che la propria volontà si colloca entro un
ventaglio di possibilità vitali limitate e definite: l’imminente tramonto
dell’Occidente, diagnosticato da Spengler, si configura come l’origine di un
problema esistenziale lasciato in eredità ai suoi contemporanei e ai suoi posteri.
E allora, come usare questa forma ultima di libertà che comunque ci rimane?
Come vivere sapendo che i contenuti del nostro agire sono determinati da un
destino che conduce il nostro mondo verso il suo irrimediabile tramonto?
Lo stesso Spengler ha evidenziato una duplice possibilità: o volere il nulla
oppure ciò che è necessario. Da questa alternativa, egli ha tratto una gerarchia,
una differenza di rango, che si stabilisce a partire dalla reazione degli uomini
dinanzi a tale istanza. Ora, il problema di come vivere alla fine dei tempi, di
come amministrare la propria libertà, si traduce essenzialmente nel problema di
come attraversare il tramonto, poiché non vi è alcun modo di sfuggire alla sua
inesorabilità. E’ questa, perciò, l’unica dimensione in cui risulta possibile
stabilire l’autenticità e l’ambito del volere individuale.
La duplicità di atteggiamento e di risposta a tale estrema possibilità si colloca
sul medesimo piano concettuale del nietzscheano meriggio di Zarathustra:
l’angoscia nichilistica provata dinanzi alla propria fine convive con la volontà di
tramontare e di percorrere, liberamente, ciò che per necessità attende il proprio
cammino. L’uomo della civilizzazione occidentale e Zarathustra vivono lo
stesso momento di presagio della fine ed è su questa possibile vicinanza che si
svolgerà il tentativo di comprendere gli esiti esistenziali de Il tramonto
dell’Occidente.
16

La civilizzazione è la sensazione di vivere in un’epoca di crisi e di sterilità
formativa, è l’incapacità di darsi dei nuovi contenuti perché l’anima faustiana ha
esaurito il suo bisogno di esprimersi e, stanca, si piega su se stessa: Spengler
stesso lo ha detto, tutto questo è nichilismo, è la fase ricorrente nelle epoche
tarde di tutte le civiltà superiori. Ma, questo momento di dissoluzione può essere
sia subito che voluto, desiderato, anzi, accelerato: da questo punto di vista la
civilizzazione, nel momento in cui prende coscienza di sé, comincia a volgere
più speditamente al suo compimento.
“La civilizzazione pura come processo storico consiste in una demolizione metodica di
forme divenute inorganiche e morte” 509 .
E’ questo l’unico punto, ne Il tramonto dell’Occidente, in cui Spengler definisce
la civilizzazione come una decostruzione, una demolizione calcolata e voluta
delle forme senescenti di una civiltà ormai in decadenza. Qui si delinea la
possibilità che il tramonto di un mondo divenga il contenuto di una volontà
libera, tale che essa possa fare sua, fino ad identificarvisi, la necessità organica
delle forme storiche. Ciò che resta oscuro è chi possa essere il soggetto di questa
volontà, cioè se essa sia riconducibile al volere del singolo individuo o se
appartenga alla dimensione cosmica della natura vivente. Tuttavia, essa prelude
a quella dinamica del volere che Spengler auspica nelle nature metalliche degli
uomini ultimi e che si delinea nell’immagine estrema della volontà di
tramontare.
“L’uomo ultimo delle metropoli non vuol più vivere: come tipo, come massa, non
come singolo; in questo essere collettivo la paura per la morte si spegne. Quel che riempie di
un’angoscia profonda e inesplicabile il contadino, cioè l’idea dell’estinguersi della famiglia e
del perdersi del nome, cessa ora di avere un significato. Il continuarsi del proprio sangue non
509 TO, p.58.
17

viene più sentito come un dovere per questo sangue, il destino di essere l’ultimo di un ceppo
non viene più sentito come una tragedia.” 510 .
La sterilità dell’uomo della civilizzazione viene interpretata da Spengler come
l’orientamento metafisico dell’umanità ultima verso la morte. La stessa
stanchezza di vivere promana anche da molte pagine dello Zarathustra: essa è la
versione passiva, demolitrice del nichilismo, è la stanchezza mortale che assale
quando ci si rende conto di aver distrutto a colpi di martello i valori della
tradizione metafisico-religiosa e di avere di fronte a sé l’abisso e il vuoto della
fine di un mondo. Il sostegno, sia pure negatore della vita, offerto dagli ideali
ascetici, viene meno, e la sensazione di essere sospesi sul nulla soffoca e
paralizza ogni ulteriore agire o creazione.
“‘Ed ecco vidi venir sugli uomini una grande mestizia. I migliori si stancarono delle
loro opere. Una dottrina si diffuse e insieme una credenza: ‘tutto è vano, tutto è indifferente,
tutto fu!’. […] Si, noi abbiamo raccolto la messe: ma perché tutti i frutti ci si abbrunirono e
marcirono tra le mani? Che cosa cadde giù dall’invida luna, la scorsa notte? Tutto il lavoro
fatto è vano, il nostro vino è diventato veleno, un occhio malvagio riarse e ingiallì i nostri
campi e cuori. Tutti diventammo aridi; e se fuoco piove su di noi, ci ridurremo in polvere,
come la cenere: - anzi abbiamo stancato persino il fuoco. Tutte le sorgenti sono esaurite per
noi, e anche il mare si è ritratto. Ogni fondo vuole spalancarsi, ma il baratro non vuole
inghiottire! ‘Ah, dov’è ancora un mare dove si possa annegare’: così risuona il nostro
lamento ripetendosi su bassure paludose. In verità, siamo già diventati troppo stanchi, anche
per morire; così restiamo in veglia e sopravviviamo – negli avelli!’.” 511 .
E’ questo l’atteggiamento nichilistico di fronte all’istanza suprema della fine dei
tempi: all’incapacità di creare, all’esaurirsi delle sorgenti dell’anima, fa
riscontro la stessa incapacità di morire. Non si ha il coraggio di guardare negli
occhi la verità del proprio tempo e di percorrere fino in fondo il tramonto; si
510 TO, p.799.
511 Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, op. cit., p. 163.
18

pretende si essere imperituri quando i segni della civilizzazione incipiente sono
mostrati nella più grande chiarezza.
Zarathustra è il profeta dell’eterno ritorno, di quel pensiero abissale che gli
procura la gioia più profonda e l’amarezza più grande: qui la consapevolezza
della necessità della fine si complica nell’immagine dell’eterno riproporsi anche
del passato, di tutto ciò che è stato superato e negato. L’anelito a questo pensiero
supremo convive con la stanchezza e il disgusto. Zarathustra, perciò, oscilla
continuamente tra questi due sentimenti: sovente la stanchezza lo assale,
l’annuncio del lungo crepuscolo rischia di soffocare la sua luce, la mestizia lo
spinge a rinunciare alla vita. Sono proprio queste le atmosfere che si respirano
anche in molte pagine de Il tramonto dell’Occidente: le anime deboli non sanno
sopportare l’annuncio del crepuscolo imminente e annegano la loro residua
vitalità nelle illusioni di eternità dei loro ideali, si acconciano alla vita pur
sentendo la rigidità che assale ogni loro creazione.
Uno dei passi in cui Nietzsche ha saputo meglio evidenziare questa duplicità di
atteggiamenti di fronte al pensiero dell’eterno ritorno è contenuto ne La gaia
scienza:
“Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nelle più
solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: ‘Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta,
dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente
di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente
piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e
successione – e così pure questo ragno e questo lume di candela tra i rami e così pure questo
attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con
essa, granello della polvere!.’ Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il
demone che così ti ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui
questa sarebbe stata la tua risposta: ‘Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina?’. Se quel
pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse
ti stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa: ‘Vuoi tu questo ancora una volta e ancora
innumerevoli volte?’ graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! Oppure, quanto
19

dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun’altra cosa che questa ultima
eterna sanzione, questo suggello?” 512 .
In che modo Nietzsche può aiutarci a comprendere le istanze spengleriane? Ciò
che qui importa è capire come un pensiero, un’ipotesi possa far subire, a chi lo
percorra fino in fondo, una metamorfosi. Il peso più grande che Spengler dona ai
suoi contemporanei è la previsione dell’imminente tramonto della civiltà
faustiana: il sua annuncio ha la stessa portata esistenziale della profezia
dell’eterno ritorno. Come vivere sapendo che tutto sta per finire? Come
sopportare il macigno del futuro, anziché del passato? I termini si rovesciano,
ma le reazioni dell’uomo sono le stesse. Nietzsche ha descritto come l’esistenza
possa radicalmente mutare e cambiare di valore, a partire da una rivelazione, il
cui contenuto incide e trasforma il valore di ogni istante vissuto.
La diversità degli atteggiamenti implica la delineazione di una gerarchia vitale.
Ora, se in Nietzsche si tratta di stabilire chi riesca a vivere ogni istante come se
fosse destinato a ripetersi in eterno, secondo un grande anno cosmico, chi, cioè,
riesca a donare ad ogni azione la pienezza di un atto felice da desiderare
all’infinito; in Spengler c’è da stabilire chi sia in grado di fissare il suo sguardo
sulle residue possibilità del presente e fare del proprio volere un momento del
necessario svolgimento del proprio mondo storico. In entrambi i casi, un
pensiero muta il proprio stare al mondo e, in entrambi i casi, si tratta di riuscire a
convivere con esso senza rinunciare alla vita, senza mestizia, senza il terrore di
un’istanza suprema. Sia Spengler che Nietzsche alludono a un tipo umano che
sappia fare di questo pensiero un momento di pienezza e di giustificazione
dell’esistenza. Ma in che modo le categorie del pensiero di Nietzsche agiscono
ne Il tramonto dell’Occidente? E in che punto se ne distaccano?
Zarathustra, come Spengler, ci insegna a tramontare bene, autenticamente. In
entrambi vi è il desiderio di insegnare agli uomini di dire sì alla vita.
512 Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, op. cit., p. 201-202.
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“Io sono diventato uno che benedice e che dice di sì: e ho lottato e sono stato un
lottatore, per avere un giorno le mani libere al benedire.” 513 .
Dalla lotta e dalla demolizione, Zarathustra passa all’accettazione: di fronte a
tutto ciò che non si può amare, bisogna passare oltre, giungendo a volere la
necessità anche di ciò che provoca disgusto. E’ questa la lezione impartitaci
dinanzi alla grande città ed è questo l’insegnamento di chi dice di sì alla vita,
con tutte le sue brutture. L’amor fati di Zarathustra trova il suo strumento più
sublime nel pensiero dell’eterno ritorno: il gravame del passato, di ciò che si è
superato e abbattuto viene redento tramite una volontà che vuole a ritroso, che
giunge a dire: ‘Così volli che fosse’. Ma essa trova il suo momento più alto e
coraggioso, la sua capacità di sgravarsi dal peso più grande incitando al ritorno
di ogni cosa:
“Coraggio è la mazza più micidiale, coraggio che assalti: esso ammazza anche la
morte, perché dice: ‘Questo fu la vita? Orsù! Da capo!’” 514 .
Ma per ricominciare il ciclo bisogna perire: Zarathustra insegna ai suoi discepoli
come tramontare, come affrontare il loro meriggio. Tuttavia, anche nel morire
esiste una gerarchia: non tutti gli uomini sanno tramontare bene, non tutti sanno
conoscere il proprio destino e cavalcare l’onda della sua necessità inesorabile. In
Spengler, infatti, emerge la duplicità degli atteggiamenti umani dinanzi alla
morte della civiltà occidentale: gli uomini d’azione, coloro che sanno guardare
negli occhi il loro destino, sono i formatori dei tempi ultimi; gli altri, incapaci di
badare ai fatti e chiusi nella dimensione eterna ed immutabile delle loro verità,
non accettano la fine, né sanno cambiare il segno del loro volere.
513 Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, op. cit., p.201.
514 Ivi, p.191.
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“Ma per noi, posti da un destino in questa civilizzazione e in questo punto del suo
divenire in cui il danaro celebra i suoi ultimi trionfi e in cui il suo erede, il cesarismo, ormai
avanza silenziosamente e irresistibilmente, è strettamente definita la direzione di quel che
possiamo volere e che dobbiamo volere, a che valga la pena di vivere. A noi non è data la
libertà di realizzare una cosa anziché l’altra. Noi ci troviamo invece di fronte all’alternativa di
fare il necessario o di non poter fare nulla. Un compito posto dalla necessità storica sarà in
ogni caso realizzato: o col concorso dei singoli o ad onta di essi.
Ducunt fata volentem, nolentem trahunt.” 515
Il destino trascina con sé anche chi non vuole seguirlo, chi, vanamente, si
oppone ad esso, chi non conforma la propria volontà a ciò che è
deterministicamente prefissato. Non c’è possibilità di scegliere ma solo di
mutare il senso di ciò che comunque accadrà, di mettere in atto una dinamica del
volere che sappia far coincidere libertà e necessità. Qui si tratta di cambiare il
segno del nichilismo che caratterizza tutte le epoche tarde, di trasformarlo, come
direbbe Nietzsche, in un nichilismo attivo, di superare la mestizia della fine.
Ecco, allora che il tramontare assume il carattere di un compito etico: del modo
con cui ci si accinge a declinare ne va della dignità e dell’autenticità
dell’esistenza. Chi vuole il proprio tramonto, chi del meriggio fa un contenuto
della propria volontà, è in grado di superare la mestizia e la stanchezza degli
epigoni. Come insegna Zarathustra, bisogna apprendere a morire al momento e
nel modo giusto:
“Molti muoiono troppo tardi, e alcuni troppo presto. Ancora suona insolita questa
dottrina: ‘Muori al momento giusto!’.
Muori al momento giusto: così insegna Zarathustra. Certo, colui che mai vive al momento
giusto, come potrebbe mai morire al momento giusto? Non fosse mai nato! – Questo consiglio
io do ai superflui. […] Per tutti, morire è una cosa importante: ma la morte non è ancora una
festa. Gli uomini non hanno ancora imparato come si consacrano le feste più belle.
515 TO, p.1398.
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Io vi mostro la morte come adempimento, la morte che per i vivi diventa uno stimolo e una
promessa. Colui che adempie la sua vita, morrà la sua morte da vittorioso, circondato dalla
speranza e dalle promesse di altri. […] Vi faccio l’elogio della mia morte, la libera morte, che
viene a me, perché io voglio.” 516 .
Ma perché Zarathustra vuole la propria morte? E’ proprio nella motivazione
profonda della volontà di tramontare che le strade di Nietzsche e di Spengler si
separano, perché se per entrambi la morte è adempimento, conclusione di un
ciclo vitale che, nel suo corso, ricalca il volgere dell’anno e delle stagioni, in
Nietzsche essa è anche il preludio di una nuova vita, di una nuova creazione.
“Un tempo il creatore cercò compagni e figli della sua speranza; ed ecco: si trovò che
non poteva trovarli, ameno che egli stesso non li creasse.
Così sono nel pieno della mia opera, mentre vado ai miei figli e torno indietro: per amore dei
figli suoi, bisogna che Zarathustra compia se stesso.” 517 .
E’ necessario superare la fase distruttiva: non solo bisogna crearsi la libertà per
una nuova creazione, conquistarsi lo spazio prima occupato dai vecchi valori,
ma passare al momento creativo, all’io sono, ad una nuova interpretazione della
vita. Zarathustra compie il suo destino tramontando, laddove tramontare è amare
i propri figli, è accelerare la distruzione in nome di un nuovo inizio.
“Io disturbai queste abitudini sonnacchiose, quando mi misi a insegnare: che cosa sia
buono, che cosa cattivo, non lo sa nessuno: - a meno che non sia uno che crea!
- Costui è però colui che crea la meta dell’uomo e che dà alla terra il suo senso e il suo futuro:
solo costui fa sì, creando, che qualcosa sia buono o cattivo.” 518 .
Spengler è consapevole di questa fase costruttiva del pensiero di Nietzsche, ma
la rinnega, riconducendola a momento specifico della decadenza occidentale.
516 Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, op. cit., p.84.
517 Ivi, p.195.
518 Ivi, p.240.
23

L’inversione di tutti i valori in nome di una diversa interpretazione della vita
viene ricondotta a quella incapacità di creare tipica di ogni civilizzazione 519 :
invertire i valori vorrebbe dire rimescolarli, riflettere su di essi senza essere più
in grado di formare alcunché di significativo ed espressivo per la propria epoca.
Per Nietzsche, invece, tale processo è un creare che sfrutta lo spazio guadagnato
ai valori distrutti ma, soprattutto, è un dare vita a un universo di nuove
interpretazioni che stravolgono, dall’interno, la struttura stessa e la concezione
dei valori tradizionali della metafisica. La morte di Dio implica la fine della fede
nel carattere assoluto ed eterno dei valori; le nuove tavole transvalutano proprio
tale struttura: si crea sapendo che ogni valore è caduco e volendo tale caducità.
Di conseguenza, il tramonto di Zarathustra è strettamente legato all’inizio di una
nuova anima, di un nuovo mondo.
“Là fu, anche, dove io raccolsi per strada la parola ‘superuomo’ e che l’uomo è
qualcosa che deve essere superato, che l’uomo è un ponte e non uno scopo: che si chiama
beato per il suo meriggio e la sua sera, come via verso nuove aurore. […]
A loro insegnai tutti quanti i miei disegni e pensieri: serrare in uno e raccogliere insieme ciò
che nell’uomo è frammento ed enigma ed orrida casualità, in quanto poeta, solutore di enigmi
e redentore della casualità, insegnai loro a creare nell’avvenire e a redimere nella creazione
tutte le cose che furono. Redimere il passato nell’uomo e ricreare ogni ‘così fu’, finché la
volontà dica: ‘Ma così volli che fosse! Così vorrò che sia’. […]
Giacché per una volta ancora io voglio andare dagli uomini: tra loro voglio tramontare,
morendo voglio donare loro il più ricco dei miei doni!
Questo l’ho imparato dal sole, che di ricchezza sovrabbonda, quando va giù: attingendo da
tesori inesauribili ricolma d’oro il mare. […]
Anche Zarathustra vuol tramontare, come il sole: ed ecco sta qui seduto e attende, antiche
tavole infrante intorno a sé, e anche tavole nuove – scritte a metà.” 520 .
519 Si confronti il primo capitolo di questa sezione in cui la teoria nietzscheana dell’inversione di tutti i valori
viene esplicata da Spengler per essere ricondotta alla civilizzazione occidentale.
520 Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, op. cit., p. 242-243.
24

Di contro a questo superbo dono di Zarathustra che, tramontando, crea le
condizioni per il superamento di un’umanità stanca e decadente, Spengler
applica lo schema della ciclicità naturale ad un decorso rigorosamente interno
alle singole civiltà superiori. A suo avviso, non è possibile prevedere alcunché
circa il futuro sorgere di altre civiltà o di altri mondi simbolici: la loro nascita
esula da qualunque volontà umana e si colloca nell’ambito di quell’infinita
natura vivente da cui, del tutto casualmente, come i fiori nei campi, esse possono
emergere, senza alcun presagio. Solo quando una civiltà è sorta, essa obbedisce
a una legge organica che la morfologia fisiognomica è in grado di intuire, fino a
prevedere la decadenza e la fine della sua forma. Ne Il tramonto dell’Occidente
regna solo una grande mestizia, l’esigenza di guardare con coraggio e fierezza
una morte che non presenta alcuna via d’uscita. Spengler invita al realismo, al
disincanto di fronte ad una inesorabilità naturale che esige, però, la forza di
scoprirsi caduchi oltre ogni limite. Più che la morte, infatti, soffoca e paralizza
gli animi la mancanza di senso del proprio agire, la certezza che le proprie opere
presto non saranno più comprese, la sensazione di non essere liberi di scegliere
la propria esistenza. Per Spengler, questa è la realtà dei fatti. Quando una civiltà
finisce, regna l’assenza di ogni scopo, subentra la pura esistenza biologica: tutto
si sussegue senza un filo logico, senza una storia; “ciò può essere motivo di
ammirazione o di pianto – comunque, è in tali termini che si presenterà la
realtà” 521 .
Ma vi è davvero una tale distanza tra il tramontare nietzscheano e quello di
Spengler? Se si percorrono fino in fondo le categorie de Il tramonto
dell’Occidente, si scorgerà, forse, proprio nella civilizzazione l’ultimo atto
creativo di un’anima storica. Da un certo punto di vista, la reinterpretazione dei
contenuti di una civiltà, compiuta dalla civilizzazione, è una sorta di
521 TO, p.1301.
25

pseudomorfosi 522 interna: Spengler ha coniato questo concetto per indicare il
momento di passaggio dalle forme invecchiate di una civiltà morente alle forme
nascenti di una nuova civiltà, in cui il vecchio grava e condiziona il nuovo
soffocando un’originale e libera creazione simbolica. Ma tale concetto, che pur
garantiva una forma di comunicazione tra le varie civiltà, può ora essere
applicato allo svolgimento della stessa anima faustiana. Una civiltà che sa di
morire, in fondo, non muore mai, ma fa della propria decadenza e morte una
condizione perenne di vita: la civiltà occidentale si rigenera continuamente a
partire dalla consapevolezza della propria morte, rimescolando e trasformando i
vecchi valori; essa reinterpreta e, perciò, in ultima istanza, continua a creare.
L’inversione nietzscheana di tutti i valori può essere quindi concepita come lo
strumento che la civilizzazione occidentale adopera per durare nella sua perenne
sensazione di caducità, per formare ancora, a partire dall’istanza del suo
tramonto sempre imminente.
Tuttavia, per Spengler, il dar forma al proprio tempo vuol dire assimilarne la
profonda precarietà: l’ipotesi della civilizzazione come riformulazione e
creazione interna, non deve far dimenticare l’importanza dell’assunzione su di
sé del destino di un’epoca. Anche Nietzsche ha fatto del saper morire una
questione di rango, un luogo di confronto tra due tipi umani fondamentali: la
piccola gente e gli uomini superiori. Il superamento dell’uomo in nome del
superuomo è ciò che spinge Zarathustra al tramonto ma, soprattutto, è ciò che lo
incita ad acuire la mestizia e la stanchezza di chi non sa ancora morire.
“Questi giovani cuori sono già tutti invecchiati – anzi neppur vecchi! Ma stanchi,
volgari, comodi – essi dicono ‘noi siamo di nuovo devoti’. […]
522 “Chiamo pseudomorfosi storiche i casi nei quali una vecchia civiltà straniera grava talmente su di un paese
che una civiltà nuova, congenita a questo paese, ne resta soffocata e non solo non giunge a forme sue proprie e
pure di espressione ma nemmeno alla perfetta coscienza di se stessa.” TO, p.926.
26

Colui che tra gli uomini è della mia specie, non deve legare il suo cuore a questi credenti;
colui che conosce la natura labile e vile dell’uomo, non deve credere a queste primavere e a
questi prati multicolori!
Se potessero diversamente, allora vorrebbero anche diversamente. I mezzi e mezzi rovinano
qualunque cosa intera. Se le foglie appassiscono – che c’è da lamentarsi!
Lasciali andare e cadere, Zarathustra, e non lamentarti! Meglio ancora soffia tra loro un
sussurrio di venti, soffia tra questa foglie, Zarathustra: perché tutto quanto è appassito fugga
via da te ancor più presto!” 523 .
Il tramonto dell’Occidente ha una funzione simile a quella di Zarathustra: esso
deve essere un vento forte soffiato su tutti coloro che non sanno accettare il
destino, un invito a scegliere bene oppure a tramontare presto, sotto il peso di
una previsione, di un pensiero che incide su ogni loro azione. Dall’utilità che
ciascuno saprà trarre dalla diagnosi circa le ultime possibilità che ancora restano
da vivere e da percorrere agli epigoni, Spengler trae una collocazione etica dei
suoi contemporanei. A tutti coloro che non sanno vivere, giunge il suo invito a
crollare; questo è anche il compito morale, oltre che filosofico, di Spengler: chi
non sa accettare il proprio destino, deve abbattersi al più presto.
“Certo, l’esito potrà essere tragico per taluni quando, negli anni decisivi, acquisteranno
la certezza che per essi nel dominio dell’architettura, del dramma e della pittura non è più
possibile alcuna conquista. Che costoro crollino. Finora tutti hanno creduto che in tali dominî
non esistano limiti di sorta; si è voluto che ogni epoca abbia i suoi compiti in qualsiasi
dominio, compiti che nel nostro caso ci si è dati a cercare sforzatamente e con una cattiva
coscienza, per rendersi conto solo postumamente in che misura una tale convinzione fosse
fondata o no e se il lavoro di tutta una vita fosse stato necessario oppure superfluo. Ma
chiunque non è un mero romantico non indulgerà in simili attitudini! […]
L’accennata dottrina io la considero come qualcosa di benefico per le generazioni che
vengono perché essa mostrerà loro quel che è possibile, epperò necessario e quel che non
appartiene alle possibilità interne del tempo. Finora una massa enorme di spirito e di energia
è stata sciupata su false vie. L’uomo euro-occidentale, così storico nel suo pensare e nel suo
523 Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, op. cit., p. 218-219.
27

sentire, si trova in un periodo in cui non si rende conto della propria direzione. Egli indaga e
cerca e si smarrisce quando le circostanze esterne non gli sono favorevoli. Ma ora il lavoro di
secoli gli darà finalmente la possibilità di riconoscere e di esaminare il luogo della sua vita nel
complesso di una civiltà, epperò anche ciò che egli può e deve fare. Se per effetto di questo
libro uomini della nuova generazione si dedicheranno alla tecnica invece che alla lirica, alla
marina invece che alla pittura, alla politica invece che alla critica della conoscenza, essi
faranno ciò che io desidero, né si potrebbe desiderare per essi nulla di meglio.” 524
La civilizzazione deve essere costruita, portata avanti nella sua inesorabilità e
non essere vanamente ostacolata. Il tramonto deve essere voluto e desiderato,
portato fino in fondo: solo così si compirà non solo il destino di una civiltà, ma
anche la pienezza dell’uomo. Far coincidere libertà e necessità è il compito più
arduo che Spengler ci lascia in eredità. Non a caso, per Zarathustra, questo è il
traguardo più difficile, che disorienta e paralizza gli stessi uomini superiori,
coloro che hanno ricevuto in dono il pensiero abissale e che spesso non sanno
convivere con esso.
“I più preoccupati si chiedono oggi: ‘come può sopravvivere l’uomo?’. Zarathustra
invece chiede, primo e unico: ‘come può essere superato l’uomo?’. Il superuomo mi sta a
cuore, egli è la mia prima e unica cosa, e non l’uomo: non il prossimo, non il miserrimo, non
il più sofferente, non il migliore. Fratelli miei, ciò che io posso amare dell’uomo è che egli sia
un trapasso e un tramonto. E anche in voi è molto che mi fa amare e sperare. […] Che voi
abbiate disperato, in ciò vi è molto da onorare. Perché voi non imparaste a rassegnarvi, non
imparaste le piccole assennatezze. Oggi, infatti, la piccola gente è diventata padrona. […] Ciò
chiede e chiede e di chiedere non si stanca: ‘come conservare l’uomo nel modo migliore, per
il tempo più lungo, con il massimo del piacere?’. Con ciò essi sono i padroni di oggi. […]
Superate, ve ne prego, uomini superiori, le piccole virtù, le piccole assennatezze, i riguardi
minuscoli, il brulichio delle formiche, il benessere miserabile, la felicità del maggior numero!
E piuttosto di rassegnarvi, disperate. E, in verità, io vi amo, uomini superiori, perché oggi
non sapete vivere! Così, infatti, voi vivete nel modo migliore! ” 525 .
524 TO, p.71-72.
525 Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, op. cit., p. 349-350.
28

La stessa incapacità di vivere presenta due livelli, due dimensioni di autenticità.
Sia Spengler che Nietzsche assimilano l’accettazione del destino, il saper
tramontare al vivere bene, al sapersi inserire nel proprio tempo contribuendo a
dargli l’ultima forma. Tuttavia, il discorso di Spengler è più legato alla prassi
storica, alla concretezza delle scelte quotidiane. Il suo subordinare al destino la
volontà e la vita del microcosmo trova nella storia la sua compensazione:
proprio nella vita storica delle civiltà, l’uomo conquista la sua posizione nel
cosmo, di fronte al quale, altrimenti, sarebbe solo un granello di polvere. La
storia dà senso e significato ad ogni sua creazione. Il problema si pone quando
subentrano le epoche prive di storia, quando una civiltà ha termine e non dona
più forza ai suoi simboli. Spengler si colloca alla vigilia di un tale periodo e
cerca di dare un orientamento ai suoi contemporanei: sebbene utile solo alle
nature metalliche, esso ha lo scopo di inserire le dinamiche della volontà umana
in ciò che comunque accadrebbe, a loro discapito e nella loro inconsapevolezza.
Che lo stesso Spengler senta tutto il turbamento di questo suo compito è facile
immaginarlo: il suo discorso, nella sua portata esistenziale, lo coinvolge e lo
avvolge più che mai.
“Ma bisognerebbe staccarsi completamente dalle proprie convinzioni e poterle vedere
dinanzi a sé, non meno estranee di quelle di un altro. Quanto ciò è difficile! Chi vuol venire a
tanto deve avere la forza non solo di sciogliersi dalle verità connesse alla sua comprensione
intellettuale del mondo anche quando esse esistono in lui come un insieme di concetti e di
metodi, ma altresì di penetrare a fondo il proprio sistema da un punto di vista
fisiognomico.” 526 .
Lo scopo di Spengler, così come quello di Nietzsche, è quello di prospettare agli
uomini un metro, un compito per il loro agire. Essi vogliono suscitare, in chi si
526 TO, p.1052-1053.
29

trovi dinanzi il proprio tramonto, la capacità di affrontarlo nella maniera
migliore, di trasformarlo in un’istanza di pienezza oltre che di mestizia.
“Quando siete i volenti di un’unica volontà e questa volontà culminante di ogni fatalità
ha per voi il nome di necessità: lì è l’origine della vostra virtù. In verità, essa è un nuovo bene
e male! In verità, un nuovo profondo fremito e la voce di una nuove sorgente!
Potenza è questa nuova virtù; un pensiero dominante essa è, attorno al quale si avvolge
un’anima intelligente: un sole d’oro, e attorno a esso il serpente della conoscenza.” 527 .
527 Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, op. cit., p.90.
30

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Longanesi, Milano, 1971, correntemente citato nel testo con la sigla UR.
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- L’uomo e la macchina. Contributo ad una filosofia della vita, trad. it. di
Angelo Treves, Corbaccio, Milano, 1931.
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LETTERATURA SECONDARIA
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31

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- La gaia scienza, Adelphi, Milano, 1984.
32

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- Oswald Spengler e la crisi relativistica dello storicismo in Storia e storicismo
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33