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ANNALI DELLA FACOLTÀ
DI LETTERE E FILOSOFIA
DELL’UNIVERSITÀ DI CAGLIARI
NUOVA SERIE XXIII (VOL. LX) - 2005
UNIVERSITÀ DI CAGLIARI
2006

ANNALI DELLA FACOLTÀ
DI LETTERE E FILOSOFIA
DELL’UNIVERSITÀ DI CAGLIARI
NUOVA SERIE XXIII (VOL. LX) - 2005
SOMMARIO
ROBERTO SIRIGU, I reperti come segni del passato. Riflessioni sul rapporto tra archeologia
e semiotica — ANTONIO IBBA, Comunità romane nella regione di
Téboursouk (Tunisia): i Novenses di Cartagine e di Uchi Maius — FRANCO
PORRÀ, Nuovi cippi a capanna rinvenuti in Sardegna — STEFANIA MELE, I capitelli
binati dell’abbazia della Santissima Trinità di Saccargia — ROBERTO
CORONEO, Il Peccato e l’eterna lotta fra Il Bene e Il Male. Un percorso
iconografico nella scultura romanica della Corsica — BIANCA FADDA, Un nuovo
documento su Benedetta, marchesa di Massa e del giudicato di Cagliari
— MATTEO VINTI, I canti di Stazio. (Pg. XX 124-XXII 117) — SARA
CHIRRA, Notizie sui frati domenicani in Sardegna attraverso una cronaca cinquecentesca
della provincia d’Aragona — FRANCESCO CARBONI, Sigismondo
Arquer e Don Gaspare Centelles nella bufera politica del XVI secolo — SIMONA
BANDE, I codici teatrali nella Comedia del Desenclauamiento di Antonio Maria
da Esterzili — GIORGIO PUDDU, Difficoltà internazionali e instabilità interna
del regno di Sardegna tra la pace di Amiens e quella di Presburgo — GÜNTER
ZÖLLER, La metafisica dopo la metafisica. La concezione limitativa della «filosofia
prima» in Kant — ELISABETTA PIREDDU, Il paesaggio sonoro nei romanzi di
Grazia Deledda — MARZIA MARINO, Gli artisti sardi del Novecento nella collezione
Piloni — RAFFAELA STRINA, Dialettica dell’illuminismo e teologia negativa
— GIULIA MAZZARELLI, Il boom economico e la commedia all’italiana —
ANDREA NIEDDU, La svolta economica del 1973 — TATIANA COSSU, Immagini
di patrimonio: memoria, identità e politiche dei beni culturali — ALBERTO
CAOCI, Etica della ricerca in antropologia — MICHELA PIRAS, Il fenomeno dei
graffiti come messaggio sociale giovanile.
EDIZIONI
AV
CAGLIARI - 2005

Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta in qualsiasi forma a stampa,
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ROBERTO SIRIGU
I REPERTI COME SEGNI DEL PASSATO
RIFLESSIONI SUL RAPPORTO TRA ARCHEOLOGIA E SEMIOTICA
SOMMARIO: 1. Presupposti e obbiettivi di questo lavoro. – 2. Definizioni di “archeologia”.
– 3. Lewis Binford: gli eventi archeologici come linguaggio
non decifrato. – 4. Contro il presunto “mutismo” degli “oggetti”. – 5. Ian
Hodder: la lettura del testo archeologico. – 6. “Contesto”: un concetto
troppo ambiguo. – 7. L’indagine archeologica come analisi testuale della
realtà materiale. – 8. In conclusione: il contributo della semiotica al definirsi
dell’archeologia moderna come “scienza dell’uomo”.
1. Presupposti e obbiettivi di questo lavoro. – Col presente contributo
aggiungo un nuovo tassello ad un personale percorso di ricerca, teso a
rendere esplicita la natura del rapporto intercorrente tra archeologia e semiotica.
Ancora più propriamente vorrei mostrare (e dimostrare) la necessità
di riconoscere nei tratti peculiari dell’archeologia moderna i connotati
di una semiotica speciale ( 1 ). È mia convinzione che a tale rapporto
debba essere attribuito un valore costitutivo per l’archeologia moderna:
da ciò consegue la necessità di affrontare e approfondire questo tema.
Ma una convinzione personale, per quanto radicata al punto da
condizionare la scelta dell’argomento di studio, non può essere proposta
da uno studioso come ragione di per sé sufficiente a giustificare
e quindi a rendere legittimo il senso del proprio lavoro scientifico ( 2 ).
( 1 ) Ecco la definizione di “semiotica specifica” o “speciale” elaborata da Massimo
A. Bonfantini: «[La semiotica è la] disciplina che studia i segni, tutte quelle cose, o meglio
tutti quegli eventi che fungono da segni. E appare subito ovvio che i segni si possano
dividere secondo varie modalità in generi e specie; e che correlativamente si abbia
una semiotica generale, come studio e teoria degli aspetti universali, essenziali, comuni
a tutti i segni in quanto tali, e tante semiotiche specifiche – che so?, dei linguaggi verbali
e non verbali, della musica e delle arti visive, ecc.» (BONFANTINI 1991, pp. 5-6).
( 2 ) «La scelta dell’argomento di studio non è innocua, [essa] implica già un’interpretazione
preliminare ed è ispirata dal nostro presente interesse. [L’argomento

6
ROBERTO SIRIGU
La scelta dell’argomento di studio è dunque il primo, fondamentale
passo di cui ogni studioso debba rendere scientificamente conto. Ritengo
quindi doveroso chiarire da dove abbia avuto origine questo
mio cammino di ricerca.
Anch’io, come chiunque intenda fare della ricerca scientifica la propria
professione, ho compiuto un percorso formativo che, partendo
dalla condizione di “studente”, conduce infine (nella più felice delle
ipotesi) al riconoscimento dello status di “studioso” da parte della comunità
scientifica di riferimento. In tale percorso, ha svolto inevitabilmente
una funzione cruciale la lettura della produzione scientifica (articoli,
monografie, manuali ( 3 ), ecc.) accreditata da parte della comunità
scientifica. Lo scopo che attraverso queste letture si intende raggiungere
è duplice: da un lato far acquisire allo “studente” le informazioni
scientifiche che tale produzione intende trasmettere esplicitamente al
lettore; dall’altro fargli apprendere le regole che struttureranno le specifiche
forme che dovrà e potrà assumere il suo discorso scientifico perché
possa essere accettato dalla comunità scientifica di riferimento.
Uso il termine “discorso” nella specifica accezione ad esso attribuita
da Michel Foucault. Secondo Foucault, ricordiamolo,
una disciplina viene definita da un campo d’oggetti, da un insieme di metodi,
da un corpus di proposizioni considerate vere, da un gioco di regole e di definizioni,
di tecniche e di strumenti: tutto questo costituisce una sorta di sistema
anonimo a disposizione di chi voglia e possa servirsene, senza che il suo senso o
la sua validità siano legati a colui che ne è stato il possibile inventore ( 4 ).
Conseguente ad una simile configurazione del concetto di “disciplina”
è il ruolo attribuito da Foucault al discorso all’interno dell’ambito
circoscritto dalle pratiche disciplinari. Per Foucault infatti
la disciplina è un principio di controllo della produzione del discorso. Essa
gli fissa dei limiti col gioco di una identità che ha la forma di una permanente
ritualizzazione delle regole ( 5 ).
di studio] non è un semplice dato, ma un frammento di universo che è circoscritto
dal nostro scopo» (STAROBINSKI 1974, trad. it. 1981, p. 193).
( 3 ) Sempre attuali in proposito le riflessioni del filosofo della scienza Thomas
Kuhn riguardo alla fondamentale funzione attribuita dalla comunità scientifica al
“manuale” come strumento privilegiato di trasmissione e conservazione dei principi
che caratterizzano il “paradigma” dominante nelle fasi di “scienza normale”
(KUHN 1970, trad. it. 1978, pp. 29-42).
( 4 )FOUCAULT 1971, trad. it. 2001, p. 21.
( 5 )FOUCAULT 1971, trad. it. 2001, p. 23.

I reperti come segni del passato. Riflessioni sul rapporto tra archeologia e semiotica
L’aver sperimentato nella mia pratica di ricerca (prima da “studente”
e poi da “professionista” della ricerca archeologica) la validità
di tali presupposti concettuali, mi ha spinto a tenere in particolare
considerazione i vari generi di segnali comunicativi veicolati dal discorso
archeologico, non solo dunque quelli più espliciti, ma anche e
soprattutto quelli nascosti nelle “pieghe” di tale discorso. È così che,
già da studente, ho cominciato a porre attenzione alle tracce linguistiche
presenti nella letteratura specialistica di ambito archeologico
di quella che ben presto mi è apparsa come una vocazione interpretativa
del dato archeologico in chiave semiotica.
Queste “tracce” si colgono con disarmante chiarezza in vari ambiti
del “discorso archeologico”, ma particolarmente significativa mi è
sempre apparsa la loro presenza in quello specifico luogo dello spazio
discorsivo rappresentato dall’insieme delle definizioni di disciplina archeologica.
Essendo questo lo spazio cruciale elaborato dalla comunità
scientifica costituita dagli archeologi allo scopo specifico di trasmettere
una esplicita e consapevole immagine di sé, ho sempre ritenuto fortemente
indicativa tale presenza, così come mi è sempre apparsa altrettanto
indicativa e degna di essere indagata la tendenza mostrata dalla
maggior parte degli archeologi a sottovalutare (quando non addirittura
ad ignorare) la rilevanza teorica e metodologico-operativa di questa
matrice semiotica implicita nel discorso archeologico.
Obbiettivo specifico di questo lavoro sarà dunque tentare di seguire
con più attenzione alcune di tali “tracce linguistiche”, per provare
a vedere verso quali percorsi esse possano condurre la riflessione
teorica in ambito archeologico, partendo proprio dall’esame di alcune
delle definizioni di “archeologia” che gli stessi archeologi hanno
elaborato e proposto nelle proprie pubblicazioni.
2. Definizioni di “archeologia”.
Si potrebbe pensare agli eventi archeologici come ad una sorta di linguaggio
non decifrato, che abbiamo bisogno di decodificare per giungere da
semplici discorsi sulla materia e sulle cose a osservazioni di interesse sul
comportamento di coloro che sono vissuti prima di noi ( 6 ).
Gli archeologi possono leggere i testi della cultura materiale in modi paragonabili
alla lettura dei testi storici ( 7 ).
( 6 )BINFORD 1983, trad. it. 1990, p. 24.
( 7 )HODDER 1986, trad. it. 1992, p. 227.
7

8
ROBERTO SIRIGU
Lo scopo della ricerca archeologica [è] quello di ricostruire la storia della
presenza umana su un territorio partendo proprio dall’analisi dei segni che
questa vi ha lasciato. L’archeologo […] interroga il terreno, esamina la stratificazione,
vi individua e legge i segni dell’uomo ( 8 ).
L’archeologia può essere considerata […] nel modo in cui de Saussure considerava
il linguaggio. Possiamo postulare l’esistenza di un langage, cioè la
struttura sistematica, archeologico, senza considerare i singoli archeologi,
eppure dobbiamo ammettere l’esistenza della parole, cioè le parole effettivamente
usate, i praticanti della disciplina ( 9 ).
Gli archeologi si occupano dei resti materiali del passato e sembra essere comune
per loro trattare questi materiali come se fossero ‘tracce’ o ‘documenti’: in
fondo il passato non esiste più mentre rimangono i suoi residui materiali. Il ragionamento
è esplicito nel nostro uso della metafora testuale del ‘documento
archeologico’ nella quale sembra che il passato, ormai assente, abbia scritto dei
messaggi su un supporto che è invece sopravvissuto sino ai nostri giorni ( 10 ).
Anche i monumenti e gli oggetti, anche i contesti sono ‘libri’, elementi di
comunicazione non verbale che hanno svolto un ruolo tutt’altro che secondario
– e qualche volta esclusivo – nei contatti umani, tanto che gli archeologi
da tempo ragionano come se esistesse un linguaggio dei reperti, peculiare
ai diversi aspetti delle cose, che occorre innanzi tutto conoscere, per
trasferirlo in un linguaggio comprendibile. Il lavoro dell’archeologo è in
questo senso assimilabile a quello di un traduttore, che deve conoscere le
forme attraverso le quali le singole componenti della lingua su cui opera
esprimono i loro significati ( 11 ).
Queste definizioni dell’attività interpretativa dell’archeologo, benché
non del tutto coincidenti tra loro, appaiono certamente e manifestamente
incentrate sull’esplicita assimilazione dell’indagine archeologica
ad una pratica interpretativa concettualmente fondata sulla decodifica
di segni. Questa constatazione, tutt’altro che scontata, ci consente di
formulare immediatamente alcune considerazioni.
Innanzi tutto occorre sottolineare il fatto che le proposte di autodefinizione
che abbiamo preso in esame siano state formulate da ar-
( 8 )MANACORDA/ZANINI 1988, p. 26.
( 9 )MALINA/VASˇÍČEK 1990, trad. it. 1997, p. 199.
( 10 )BARRETT 2000, p. 244.
( 11 )MANACORDA 2004, p. 5.

I reperti come segni del passato. Riflessioni sul rapporto tra archeologia e semiotica
cheologi (rispettivamente: Lewis Binford, Ian Hodder, Enrico Zanini,
John C. Barrett, Jaroslav Malina e Zdeněk Vasˇíček, Daniele Manacorda,
ma gli esempi potrebbero essere molti altri) ( 12 ) di nazionalità
diverse, che operano in “sottocampi” disciplinari differenti, e
che soprattutto si riconoscono in presupposti teorici differenti, anche
se tutti generati da quel processo rivoluzionario (nel senso kuhniano
del termine) che ha preso inizio a partire dagli anni ’60 del ventesimo
secolo, da cui è nata l’archeologia moderna (intesa come disciplina
che vuole riconoscersi ed accreditarsi come scientifica).
La rilevanza di questa convergenza su un punto così cruciale (la
definizione di sé) del “discorso archeologico” si fa ancora più significativa
nel caso di Binford e Hodder, capiscuola di due delle principali
correnti teoriche dell’archeologia contemporanea (la New Archaeology
e l’archeologia contestuale) il dibattito tra le quali è sempre
stato caratterizzato da un notevole carattere di conflittualità.
È proprio su questa specifica convergenza, per certi versi inattesa,
tra le descrizioni proposte da Binford e Hodder dell’azione interpretativa
esercitata dall’archeologo sulla realtà materiale, che concentreremo
ora la nostra attenzione, non perché le altre definizioni appaiano
meno interessanti, ma in ragione della indiscutibile rilevanza delle
tesi di Binford e Hodder nel quadro interno al dibattito teorico
che anima la comunità degli archeologi.
Osservando più da vicino quale funzione attribuiscano i due studiosi
all’immagine che assimila l’attività interpretativa esercitata dall’archeologo
sulla realtà materiale alla interpretazione di segni o, più
specificatamente, alla lettura di un testo, cercheremo di comprendere
meglio alcuni dei principi-chiave pertinenti alle rispettive posizioni
teoriche.
3. Lewis Binford: gli eventi archeologici come linguaggio non decifrato.
– Partiamo dall’analisi della proposta teorica di Lewis Binford.
Uno dei punti cruciali della sua riflessione riguarda il problema della
relazione intercorrente tra passato e presente. In particolare, Binford si
mostra preoccupato del fatto che «la documentazione archeologica è con
noi oggi» ( 13 ). Partendo da questa constatazione, Binford afferma che
( 12 ) Un ultimo esempio per tutti. Ecco come David L. Clarke intitola il paragrafo
III e i relativi sottoparagrafi del capitolo di Archeologia analitica significativamente
intitolato «Discussione e speculazione»: «Grammatica archeologica»; «Sintassi»;
«Pragmatica»; «Semantica» (CLARKE 1968, trad. it. 1998, pp. 355-359).
( 13 )BINFORD 1983, trad. it. 1990, p. 23.
9

10
ROBERTO SIRIGU
non ci sono precise osservazioni che provengano direttamente dal passato
(come avviene per uno storico che utilizza notizie ricavate da uno scritto
del quindicesimo secolo in cui figurano osservazioni fatte a quell’epoca
personalmente dall’autore) ( 14 ).
Partendo da questo presupposto, Binford prosegue sostenendo che
le considerazioni sulla testimonianza archeologica sono contemporanee e
non contengono nessuna informazione sul passato. Il reperto archeologico
non è costituito da simboli, parole o concetti, ma da oggetti materiali. La
sola maniera per capirne il significato, per esteriorizzare la documentazione
archeologica attraverso le parole, è giungere alla conoscenza, anche parziale,
dell’origine di questi oggetti, di come si sono modificati nel tempo, acquistando
le caratteristiche che hanno oggi. Quest’opera di comprensione si
basa su un ampio bagaglio di cognizioni che legano tra loro le attività umane
(aspetti dinamici) alle conseguenze di quelle attività evidenziate negli oggetti
materiali (aspetti statici). Si potrebbe pensare agli eventi archeologici come
ad una sorta di linguaggio non decifrato, che abbiamo bisogno di decodificare
per giungere da semplici discorsi sulla materia e sulle cose a osservazioni di
interesse sul comportamento di coloro che sono vissuti prima di noi ( 15 ).
Per giungere alla “decodifica” del “linguaggio non decifrato” della
realtà materiale, Binford ritiene possibile adottare anche in ambito
archeologico il metodo delle scienze naturali.
Questa potrebbe essere la proposta più logica poiché anche gli studiosi di
queste discipline, come gli archeologi, affrontano fatti che non «parlano da
soli». Fisici, chimici, biologi, e altri non immaginano certo che relazioni
osservate tra oggetti abbiano significati che automaticamente si evidenzino.
Tentano continuamente in primo luogo di dare significato a tali osservazioni
e poi di verificare quanto tale significato si accosti alla realtà. Questa,
senza dubbio, è la posizione dell’archeologo: il dare senso ai fatti archeologici
da lui osservati nel suo tempo, cercando poi di capire quanto questa ricostruzione
del passato possa essere veritiera ( 16 ).
Posta questa relazione tra archeologia e scienze naturali come
fondamento metodologico della “nuova archeologia”, Binford prosegue
chiedendosi:
( 14 )BINFORD 1983, trad. it. 1990, p. 23.
( 15 )BINFORD 1983, trad. it. 1990, pp. 23-24.
( 16 )BINFORD 1983, trad. it. 1990, p. 27.

I reperti come segni del passato. Riflessioni sul rapporto tra archeologia e semiotica
In che modo quanto detto sopra influenza il procedimento usato per scavare
una determinata zona? Dobbiamo occuparci del significato dei resti archeologici
prima ancora di iniziare gli scavi? Se è così, ciò in che misura incide
sui risultati? Certamente gli archeologi nell’accezione di scopritori, devono
interessarsi di tali problemi. […] L’archeologia deve capire quanto sia
necessario un equilibrato sviluppo delle tecniche che ci permettono accurate
deduzioni logiche sul passato, e osservazioni archeologiche che ci forniscano
materia per l’interpretazione. […] In poche parole: buone tecniche
di scavo dipendono dalla consapevolezza del potenziale esistente per trarre
deduzioni dal passato, ma le stesse tecniche ci portano a svariati e diversi
approfondimenti metodologici, poiché spesso troviamo cose che non comprendiamo,
che suscitano la nostra curiosità e richiedono ulteriori ricerche
prima di essere utilizzate come mezzi per una migliore conoscenza del passato.
L’archeologia è quindi una disciplina interattiva che può crescere soltanto
con un equilibrio tra teoria e pratica ( 17 ).
Partendo da queste considerazioni di base, Binford indica la strada
della ricerca etnografica come via privilegiata per estrapolare dagli
oggetti la loro potenzialità informativa, nella misura in cui consentirebbe
agli archeologi l’osservazione diretta della dimensione dinamica
in cui gli oggetti prodotti nel presente vivono e di formulare, partendo
da questa osservazione, delle ipotesi valide anche per l’interpretazione
del passato:
I rapporti tra oggetti trovati e condizioni che li hanno originati, si possono
studiare solo tra popolazioni viventi ( 18 ).
A esemplificazione di questo assunto teorico-metodologico, Binford
cita il proprio lavoro di ricerca compiuto tra i Nunamiut, un
gruppo di esquimesi cacciatori di caribù residente in Alaska, e tra i
Navajos, pastori del sud-ovest in America.
Non affronteremo l’analisi della parte del volume dedicata più
nello specifico alla descrizione di queste esperienze di ricerca “sul
campo”. Le considerazioni espresse da Binford nel capitolo di taglio
più esplicitamente teorico qui riassunte mi paiono sufficienti per
tentare di esprimere alcune riflessioni sul tema specifico che abbiamo
scelto di affrontare.
( 17 )BINFORD 1983, trad. it. 1990, pp. 27-29.
( 18 )BINFORD 1983, trad. it. 1990, p. 31.
11

12
ROBERTO SIRIGU
4. Contro il presunto “mutismo” degli “oggetti”. – Mi pare lecito innanzi
tutto affermare che, nell’economia del discorso teorico elaborato
da Binford, il riferimento al concetto semiotico di “linguaggio” trova
giustificazione quasi esclusivamente come similitudine esemplificativa
delle difficoltà interpretative insite nell’azione indagatrice dell’archeologo,
ma non sfocia in esiti teorici più fruttuosi. Credo anzi vada rimarcato
il fatto che la mancata consapevolezza dimostrata da Binford
delle implicazioni espistemiche dell’assunto semiotico di partenza sia
tra le cause principali di alcune delle difficoltà interpretative che lo
stesso Binford indica come peculiari dell’azione interpretativa dell’archeologo.
Nel momento in cui afferma che «il reperto archeologico non è
costituito da simboli, parole o concetti, ma da oggetti materiali»
Binford non sembra rendersi conto che proprio ciò che egli “maneggia”
in quel momento non è un “oggetto materiale” ma è un “concetto”.
Anzi, per maggiore esattezza, sono due i concetti a cui implicitamente
egli fa riferimento: il concetto di “reperto archeologico” e
il concetto di “oggetto materiale”. L’archeologo, come qualunque
essere umano prima ancora che come qualunque scienziato, entra in
contatto con la realtà materiale instaurando un tipo di rapporto cognitivo
che risponde al nome di semiosi:
Tutti gli oggetti e gli eventi sono potenzialmente o effettualmente semiotici.
Perché agendo fisicamente, direttamente o indirettamente, sui nostri organismi
e sugli organi sensoriali e sul nostro sistema nervoso centrale, mettono
in moto in noi un processo di risposta e di interpretazione, di percezione
e di giudizio: insomma una semiosi. Fra noi e tutti gli oggetti e gli
eventi vi è dunque una potenziale e attuale dialettica di segnità. Oggetti ed
eventi lasciano segni sui nostri corpi e noi intenzioniamo e diamo senso
agli oggetti e agli eventi ( 19 ).
L’archeologo quindi si è già addentrato in questo tipo di processo
inferenziale sia nell’affermare che un “oggetto materiale” è un “reperto
archeologico” sia nel riconoscere che un “frammento di realtà materiale”
è un “oggetto”. Come ha ben chiarito il semiologo Luis Prieto,
[…] un oggetto infatti non è altro che un frammento della realtà materiale
che il soggetto riconosce appunto come tale ossia come un frammento di questa
realtà ( 20 ).
( 19 )BONFANTINI 2000, p. 8.
( 20 )PRIETO 1995, p. 72.

I reperti come segni del passato. Riflessioni sul rapporto tra archeologia e semiotica
Occorre poi notare che la terminologia specialistica di cui la disciplina
archeologica si è opportunamente dotata è espressione di una
duplice funzione cognitiva che potremmo definire da un lato connotativa
e dall’altro metalinguistica.
Per chiarire meglio questo passaggio logico del nostro ragionamento,
chiariamo il significato dei concetti semiotici di denotazione,
connotazione e metalinguaggio, ricorrendo alla spiegazione di tali
concetti fornitaci da Roland Barthes:
[…] ogni sistema di significazione comporta un piano di espressione (E) e
un piano di contenuto (C), e che la significazione coincide con la relazione
(R) dei due piani: E R C. Supporremo ora che un tale sistema E R C divenga
a sua volta il semplice elemento di un secondo sistema, che gli sarà
così estensivo; in questo modo ci troveremo di fronte a due sistemi di significazione
che si innestano l’uno nell’altro e che nondimeno sono «sganciati».
Tuttavia, lo «sganciamento» dei due sistemi può effettuarsi in due
modi completamente diversi, a seconda del punto di inserimento del primo
sistema nel secondo, dando così luogo a due insiemi opposti. In un
caso il primo sistema (E R C) diviene il piano di espressione o significante del
secondo sistema:
2 E R C
1 ERC
o anche: (E R C) R C. Ciò si verifica nella semiotica connotativa, così chiamata
da Hjelmslev; il primo sistema costituisce allora il piano di denotazione
e il secondo sistema (estensivo al primo) il piano di connotazione. Si dirà
quindi che un sistema connotato è un sistema il cui piano di espressione è esso
stesso costituito da un sistema di significazione [...] Nel secondo caso (opposto)
di sganciamento, il primo sistema (E R C) diviene non già il piano
d’espressione, come nella connotazione, ma il piano di contenuto o significato
del secondo sistema:
2 E R C
1 ERC
o ancora: E R (E R C). É il caso di tutti i meta-linguaggi: un metalinguaggio
è un sistema in cui il piano del contenuto è esso stesso costituito da un sistema
di significazione; o anche, è una semiotica che tratta di una semiotica ( 21 ).
( 21 )BARTHES 1964, trad. it. 1992, p. 79.
13

14
ROBERTO SIRIGU
Riassumendo, possiamo affermare che il termine denotazione designa
il caso in cui il significante di un dato segno (ciò che chiamiamo
“segno”, non dimentichiamolo, è sempre il frutto di una relazione tra
un “significante” e un “significato”) non sia a sua volta costituito da un
altro segno; il termine connotazione fa riferimento al caso in cui il significante
di un segno sia un altro segno, cioè il caso in cui si sovrapponga
ad un segno un nuovo significato (che “assimila” il significato precedente,
senza sostituirlo); il termine metalinguaggio indica la possibilità
che un sistema di significazione “parli” di un altro sistema di significazione
o anche di se stesso (emblematico il caso della linguistica).
Alla luce di quanto detto sinora, appare chiaro che l’azione linguistica
che l’archeologo esercita nei confronti della realtà materiale è
certamente un’azione connotativa. Termini come “segno”, “reperto”,
“testimonianza”, “documento”, ecc., con cui l’archeologo denomina
gli “oggetti”, rappresentano altrettanti attributi connotativi che l’archeologo
“proietta” sui “frammenti di realtà materiale” che egli riconosce
come “oggetti” nel tentativo di giungere a comprenderne il/i
significato/i).
Al tempo stesso, nel momento in cui l’archeologo postula l’esistenza
di quello che, mutuando una felice espressione del filosofo
Jean Baudrillard, potremmo chiamare “sistema degli oggetti” ( 22 ),
“parlando” di tale sistema per mezzo del proprio linguaggio specialistico
attribuisce automaticamente a tale linguaggio una funzione metalinguistica
rispetto al sistema semiotico degli oggetti.
È evidente che entrambe queste operazioni rappresentano passaggi
obbligati per poter giungere alla comprensione ( 23 ) del passato attraverso
lo studio della cultura materiale. Ma è al tempo stesso chiaro
che tale operazione modifica il significato degli oggetti, nella misura
in cui «l’oggetto da interpretarsi si è accresciuto di tutto l’apporto
dell’attività interpretativa» ( 24 ). Ciò avviene perché l’interpretazione
«è un atto di conoscenza» ( 25 ): Essa esprime «la somma di
tutti gli atti diretti verso l’oggetto» ( 26 ).
Per scongiurare i pericoli insiti nell’attraversamento della distanza
che ci separa dalla realtà che stiamo esaminando, non serve dunque
( 22 )BAUDRILLARD 1968.
( 23 ) Per una illuminante riflessione sulla differenza e sui rapporti intercorrenti
tra i concetti di conoscenza e comprensione, rinvio alla lettura di PETRILLI 2004.
( 24 )STAROBINSKI 1974, trad. it. 1981, p. 207.
( 25 )STAROBINSKI 1974, trad. it. 1981, p. 206.
( 26 )STAROBINSKI 1974, trad. it. 1981, p. 206.

I reperti come segni del passato. Riflessioni sul rapporto tra archeologia e semiotica
limitarsi a segnalare genericamente il pericolo di “contaminazione”
insito in ogni atto cognitivo, né sottovalutare la portata di tale operazione.
Occorre invece compiere il percorso cognitivo che ci conduce
alla comprensione del passato in piena luce, senza offuscare
nessun tratto del cammino dietro automatismi o passaggi dati per
scontati.
Se ciò non avviene, inevitabilmente andremo incontro ad una serie
di difficoltà, tra le quali va certamente annoverato il fatto che gli “oggetti”
possano apparire “incapaci” di “comunicare direttamente” ( 27 )
informazioni sul passato. Se infatti spogliamo quei frammenti di realtà
materiale che chiamiamo “oggetti” della loro realtà concettuale, ci
ritroveremo privi di qualunque possibilità di “accesso cognitivo”.
D’altro canto, se accettassimo come valida l’ipotesi che gli oggetti
siano incapaci di “comunicare” qualunque informazione sul passato,
come sostiene Binford, lo stesso collegamento analogico ( 28 ) compiuto
da Binford tra elementi fisici prodotti in passato e situazioni osservabili
nel presente, presupposto imprescindibile dell’analisi etnoarcheologica,
risulterebbe impraticabile.
In realtà lo stesso Binford mostra di non attenersi all’assunto su
cui egli dichiara di fondare il proprio ragionamento. Egli infatti presuppone
la possibilità di confronto tra le società del passato e le società
a lui contemporanee basandosi, almeno in parte, proprio su informazioni
ricavate dall’osservazione diretta dei reperti e sulla convinzione
che queste informazioni dicano realmente qualcosa sulla natura
degli oggetti stessi e su coloro che li hanno fabbricati ed usati. È
proprio partendo da questi presupposti che Binford, elaborando
un’ipotesi abduttiva ( 29 ), ha potuto decidere di compiere uno studio
( 27 ) Anche in questo caso, il verbo utilizzato da Binford mi pare di per sé significativo.
Più avanti cercheremo di comprendere meglio quale modello espistemologico
sia sotteso a questa convinzione che gli “oggetti” comunichino informazione.
( 28 ) «Al centro dell’archeologia […] è il concetto di analogia. Per analogia intendiamo
un certo modo di pensare per cui, sulla base della somiglianza di alcune
proprietà o di alcuni rapporti tra due fenomeni, presupponiamo somiglianze in
tutti gli altri fenomeni. La struttura del confronto è sempre determinata dalla nostra
esperienza precedente, compresi i nostri scopi e i nostri schemi di pensiero»
(MALINA/VASˇÍČEK 1990, trad. it. 1997, p. 165). Per una adeguata comprensione
delle implicazioni epistemologiche innescate dall’utilizzo del principio analogico
(razionale, ma non logico) come strumento di comprensione del reale, rinvio alla
lettura del fondamentale MELANDRI 2004.
( 29 ) Faccio notare che Binford impiega, significativamente, il termine “deduzioni”
per designare il tipo di inferenze logiche utilizzate dall’archeologo per desu-
15

16
ROBERTO SIRIGU
approfondito sulle abitudini di vita di alcune popolazioni a lui contemporanee
(Nunamiut, Navajos), cogliendo una qualche analogia
tra le abitudini di vita degli uomini del paleolitico e quelle di queste
popolazioni. In realtà dunque non è affatto scontato desumere dalla
“contemporaneità” dei reperti rispetto all’archeologo l’impossibilità
di inferire informazioni dagli oggetti fabbricati e utilizzati in passato.
Il presunto mutismo degli oggetti di cui parla Binford, appare in
questo senso non sostenibile.
D’altro canto, sarebbe ingenuo credere che sia possibile inferire
informazioni su un dato fenomeno o su un dato oggetto basandosi
esclusivamente sull’osservazione di quel dato fenomeno o di quel
dato oggetto. È ciò che acutamente ha osservato Starobinski a proposito
dell’analisi testuale:
L’analisi interna, com’è praticata in uno studio testuale, non impedisce di
considerare i dati esterni. Per un effetto che non ha nulla di paradossale, la
scelta di un testo, facendo esistere una regione intratestuale, determina nello
stesso tempo un mondo che gli è esteriore. Non potremo accontentarci
di ricercare la legge che regna all’interno di un testo; esplorando il suo
mondo dall’interno, dovremo individuare tutti gli apporti, tutti gli echi
esterni. Si determina un continuo andirivieni. L’attenzione per l’interno ci
riporta all’esterno ( 30 ).
Anche l’archeologo, nel momento in cui intraprende il proprio
percorso interpretativo verso la comprensione di un qualunque “testo
archeologico” non parte mai “da zero”. Egli interpreta la realtà
archeologica utilizzando, inevitabilmente, una gamma più o meno
ampia di informazioni, un bagaglio di conoscenze (interconnesse tra
loro a formare una rete a struttura enciclopedica) ( 31 ) che gli giungo-
mere informazioni “dal passato”, coerentemente con la propria impostazione nomologico-deduttiva.
In realtà molto più appropriato sarebbe parlare di inferenze
abduttive, deduttive, induttive, a seconda delle specifiche situazioni in cui l’archeologo
deve esercitare la propria azione interpretativa del dato materiale. Per un approfondimento
in proposito mi permetto di rinviare al mio articolo SIRIGU 2005,
dedicato espressamente all’analisi di questo problema.
( 30 )STAROBINSKI 1974, trad. it. 1981, pp. 203-204.
( 31 ) Seguendo la definizione proposta da Umberto Eco, col termine “enciclopedia”
intendo designare «»un postulato semiotico. Non nel senso che non sia anche
una realtà semiosica: essa è l’insieme registrato di tutte le interpretazioni, concepibile
oggettivamente come la libreria delle librerie, dove una libreria è anche
un archivio di tutta l’informazione non verbale in qualche modo registrata, dalle
pitture rupestri alle cineteche. Ma deve rimanere un postulato perché di fatto non

I reperti come segni del passato. Riflessioni sul rapporto tra archeologia e semiotica
no da fonti spesso assai disparate. All’interno di questa gamma trova
una collocazione privilegiata l’insieme di conoscenze sul passato codificate
dalla disciplina archeologica, ma il bacino di informazioni e
conoscenze da cui l’archeologo può attingere non si esaurisce certo
con esse.
In conclusione mi pare di poter affermare che l’assunzione di un
approccio semiotico all’analisi archeologica del passato può fornire un
contributo fondamentale nell’instaurare una dinamica dialogica sempre
attiva e “virtuosa” tra passato e presente. Va quindi rifiutato, da
questo punto di vista, il “pessimismo” implicito nell’approccio di Binford
nei confronti del problema interpretativo della realtà materiale.
La proposta di Hodder, che, come è noto, si pone in aperto e dichiarato
contrasto con l’approccio processualista, appare decisamente
più attenta a sottolineare le potenzialità semiotiche della realtà
materiale verso cui l’archeologo volge la propria attenzione. Vediamola
dunque più in dettaglio.
5. Ian Hodder: la lettura del testo archeologico. – Come è noto, la
proposta di archeologia contestuale nasce in aperta polemica con l’impostazione
degli archeologi processualisti in generale e di Binford in
particolare.
Ian Hodder, promotore di tale proposta teorica, accusa la New
Archaeology di riduzionismo, cioè di non riuscire ad offrire altra spiegazione
dei fenomeni culturali se non in chiave di “sopravvivenza
materiale” ( 32 ). Per uscire da questa visione dell’indagine archeologica,
a suo avviso troppo angusta rispetto alla complessità dei fenomeni
culturali, Hodder propone di concepire l’interpretazione della realtà
materiale come lettura del passato.
Il concetto di lettura viene impiegato da Hodder in senso letterale,
non metaforico. Egli infatti considera la realtà materiale come un
è descrivibile nella sua totalità. Le ragioni per cui non è descrivibile sono varie: la
serie delle interpretazioni è indefinita e materialmente inclassificabile; l’enciclopedia
come totalità delle interpretazioni contempla anche interpretazioni contraddittorie;
l’attività testuale che si elabora sulla base dell’enciclopedia, agendo sulle
sue contraddizioni, e introducendovi di continuo nuove risegmentazioni del continuum,
anche sulla base di esperienze progressive, trasforma nel tempo l’enciclopedia,
così che una sua ideale rappresentazione globale, se mai fosse possibile, sarebbe
già infedele nel momento in cui è terminata; infine l’enciclopedia come sistema
oggettivo delle sue interpretazioni è ‘posseduta’ in modo diverso dai suoi diversi
utenti» (ECO 1984, pp. 109-110).
( 32 )HODDER 1986, trad. it. 1992, p. 6.
17

18
ROBERTO SIRIGU
testo, in cui i singoli oggetti assolvono la funzione di parole dotate di
significato. Hodder attribuisce al concetto di significato del testo archeologico
una duplice accezione semantica:
1) “il sistema strutturato di interrelazioni funzionali”, all’interno del
quale sono inseriti gli oggetti;
2) il “contenuto strutturale di idee e simboli” della realtà materiale ( 33 ).
La comprensione del senso della realtà materiale è possibile solo
attraverso una lettura che sia finalizzata a cogliere entrambe le accezioni
del significato del “testo archeologico”.
Perché questa lettura risulti proficua, è però necessario che l’archeologo
sia consapevole delle peculiarità che connotano il “testo archeologico”:
mentre gli archeologi possono leggere i testi della cultura materiale in modi
paragonabili alla lettura dei testi storici, vi sono differenze peculiari tra la
cultura materiale e la lingua parlata o scritta, differenze che devono essere
ulteriormente indagate. Spesso la cultura materiale sembra essere una lingua
più semplice ma più ambigua, e, in confronto con il linguaggio parlato,
sembra spesso più fissa e durevole. Inoltre, per la maggior parte le parole
sono significanti arbitrari dei concetti significati: pertanto il rapporto tra
il termine ‘tree’, in opposizione ad ‘arbre’ o ‘tarm’, e il concetto di ‘albero’
è convenzionale e storico. Ma una ‘parola’ della cultura materiale, come
una fotografia o una scultura che rappresenti un essere umano, non è una
rappresentazione arbitraria di ciò che è significato: così, in contrasto con la
maggioranza delle parole, molti segni della cultura materiale sono aniconici.
Queste e altre differenze implicano che gli archeologi debbano sviluppare
teoria e metodo propri per leggere i propri dati particolari ( 34 ).
Giunto a questo punto del proprio discorso, Hodder si pone il
problema della messa a fuoco dei criteri necessari per una “lettura”
dei “segni della cultura materiale”. Hodder si chiede cioè quale meccanismo
trasformi gli “oggetti” in “segni”, facendo così loro acquistare
“significato”, e quale sia il percorso che l’archeologo deve compiere
per giungere alla comprensione di tale significato. Hodder risponde
ad entrambe le domande ricorrendo al concetto di contesto.
Ogni oggetto esiste in molte dimensioni importanti contemporaneamente
e così, dove esistono i dati, si può seguire una ricca rete di associazioni e
contrasti nel percorso verso l’interpretazione del significato. La totalità del-
( 33 )HODDER 1986, trad. it. 1992, p. 149.
( 34 )HODDER 1986, trad. it. 1992, p. 227.

I reperti come segni del passato. Riflessioni sul rapporto tra archeologia e semiotica
le dimensioni di variabilità collegate a un oggetto può essere identificata
come il contesto dell’oggetto. Il contesto rilevante per un oggetto X al quale
stiamo tentando di dare un significato (di qualunque tipo) è costituito
da tutti quegli aspetti dei dati che hanno rapporto con X che siano significativamente
inseriti in uno schema nei modi precedentemente descritti.
Una definizione più precisa del contesto di un attributo archeologico è la
totalità dell’ambiente rilevante, dove ‘rilevante’ si riferisce ad un rapporto
significativo con l’oggetto – vale a dire un rapporto necessario a capire il significato
dell’oggetto ( 35 ).
Il contesto viene quindi ad assumere una funzione centrale nell’impostazione
epistemologica proposta da Hodder: è infatti il “contesto”,
inteso nel senso più lato del termine, ad offrire di volta in volta all’archeologo
la chiave di lettura corretta della realtà materiale.
D’altro canto è ancora il concetto di “contesto” ad offrire, secondo
Hodder, l’unica vera possibile soluzione ad un problema centrale
nell’ambito della riflessione storica sul passato: il problema dell’analisi
del rapporto dinamico che lega l’individuo alla società di cui è parte
integrante. Hodder indica come uno dei limiti più gravi della proposta
processuale la sottovalutazione del ruolo dell’individuo nell’ambito
della definizione delle varie identità culturali:
Nella Nuova Archeologia l’individuo viene evitato, discusso al di fuori della
teoria sociale. Come notava Flannery (1967), lo scopo non era quello di
raggiungere il singolo indiano al di là del manufatto, ma piuttosto il sistema
al di là di entrambi, indiano e manufatto ( 36 ).
Per Hodder, non solo «l’idea che l’archeologia non possa ‘vedere’
gli individui è ingannevole» ( 37 ), ma la comprensione della dinamica
tra individuo e società diventa proprio uno degli obbiettivi centrali
della ricerca archeologica. Per fare ciò, l’archeologia deve dedicare
maggior attenzione alla dimensione simbolica degli oggetti, andando
oltre la semplice, quando non addirittura semplicistica, interpretazione
funzionale degli stessi.
Partendo da questa breve sintesi della proposta teorica di Hodder,
proviamo ora a riflettere su alcuni punti salienti di tale proposta.
( 35 )HODDER 1986, trad. it. 1992, p. 171.
( 36 )HODDER 1986, trad. it. 1992, p. 10.
( 37 )HODDER 1986, trad. it. 1992, p. 10.
19

20
ROBERTO SIRIGU
6. “Contesto”: un concetto troppo ambiguo. – Innanzi tutto va messo
in rilevo un primo aspetto problematico nella riflessione di Hodder:
l’assenza di una definizione esplicita del concetto di “testo archeologico”.
Certo, ci viene detto che il “significato” del “testo archeologico”
è il risultato della relazione intercorrente tra il “sistema
strutturato di interrelazioni funzionali” all’interno del quale sono inseriti
i “manufatti”, e il “contenuto strutturale di idee e simboli” della
realtà materiale, ma, dal momento che anche la definizione di
concetti come “sistema”, “struttura”, “funzione”, “contenuto strutturale”,
ecc., viene postulata senza essere mai resa esplicita, una simile
definizione di “testo archeologico” appare troppo vaga e quindi
non soddisfacente.
È questa vaghezza a determinare, all’interno del quadro teorico
delineato da Hodder, uno slittamento del baricentro concettuale dal
concetto di “testo archeologico” a quello di “contesto”, che Hodder
definisce, come abbiamo ricordato, «la totalità dell’ambiente rilevante,
dove ‘rilevante’ si riferisce ad un rapporto significativo con l’oggetto
– vale a dire un rapporto necessario a capire il significato dell’oggetto».
La pericolosità di questa operazione mi pare evidente:
una simile definizione del concetto di “contesto” appare infatti tanto
vaga da consentire in qualunque situazione problematica di individuare
un “contesto” ad hoc a cui poter fare riferimento per interpretare
a nostro piacimento la realtà materiale “aggirando” (senza risolverle)
eventuali difficoltà interpretative.
Anche l’assimilazione tra “manufatti” e “parole” non mi pare del
tutto convincente, come d’altronde lo stesso Hodder lascia intendere
quando ci segnala l’esistenza di alcune rilevanti differenze (per altro
anch’esse discutibili) tra le proprietà attribuibili alle due entità
concettuali. Se è vero infatti che tutte le “parole” sono “segni”, non
è affatto vero il contrario: le “parole” sono solo una sottoclasse (anche
se di grande rilevanza) nella classe dei “segni”, in cui possono essere
inseriti a pieno titolo anche i “manufatti”. Le affinità tra “manufatti”
e “parole” derivano proprio da questa comune appartenenza ad
una stessa classe, quella appunto dei “segni”.
In sintesi, mi pare si possa affermare che la svolta testuale proposta
da Hodder, pienamente condivisibile negli intenti, appare poco
convincente sul piano dell’elaborazione concettuale perché troppo
“moderata” e non sufficientemente mirata nel proporre un approccio
semiotico all’analisi archeologica della realtà materiale.
Proviamo dunque a portare avanti il nostro discorso in questa direzione.

I reperti come segni del passato. Riflessioni sul rapporto tra archeologia e semiotica
7. L’indagine archeologica come analisi testuale della realtà materiale.
– Come abbiamo avuto modo di vedere, non è possibile attribuire
alla realtà materiale i connotati di un “testo” senza proporre una
esplicita definizione di tale concetto. È questo quindi il primo passo
che dobbiamo compiere.
Nella vasta (e sempre crescente) letteratura che ruota intorno al
problema della definizione di tale concetto, la definizione proposta
dal semiologo russo Jurij M. Lotman si distingue come una delle più
semplici e, al tempo stesso, più funzionali.
Per giungere ad una chiara definizione di “testo” Lotman parte
da una prima considerazione:
va sottolineato che, parlando della espressività materiale del testo, abbiamo
in mente una proprietà altamente specifica dei sistemi segnici. Sostanza
materiale di questi sono non le «cose», ma i rapporti delle cose ( 38 ).
Il termine “testo” designa dunque innanzi tutto un «sistema invariante
di rapporti» ( 39 ). Perché un “frammento” di realtà materiale
possa essere “trattato” come un testo occorre che esso sia percepibile
da un soggetto come un sistema all’interno del quale il rapporto intercorrente
tra gli elementi che lo compongono sia definibile come invariante.
Ancora più specificamente, possiamo mettere in evidenza
queste proprietà generali di cui ogni “testo” appare dotato:
Alla base del concetto di testo, gioverà porre le seguenti definizioni.
1) Espressività. Il testo è fissato in certi segni, e in questo senso si contrappone
alle strutture extratestuali. […]
2) Delimitazione. La delimitazione è inerente al testo. […]
3) Strutturalità. Il segno non è una semplice successione di segni tra due
limiti esterni. Al testo è propria una organizzazione interna, che lo trasforma
(al livello sintagmatico) in un complesso strutturale ( 40 ).
Col termine “testo” possiamo quindi designare qualunque concreto
insieme di segni, delimitato da precisi confini extratestuali, strutturalmente
organizzato.
A quali, tra i possibili “frammenti di realtà materiale” che rientrano
nella sfera di competenza dell’indagine archeologica (“manufatti”,
“monumenti”, “siti”), è applicabile il concetto di “testo” che ab-
( 38 )LOTMAN 1972, p. 69.
( 39 )LOTMAN 1972, p. 69.
( 40 )LOTMAN 1972, pp. 67-69.
21

22
ROBERTO SIRIGU
biamo proposto? Per rispondere a questo interrogativo, di particolare
utilità è la proposta di tripartizione tipologica degli “oggetti” elaborata
dal semiologo Massimo A. Bonfantini:
Gli oggetti si presentano […], in primo luogo, come oggettualità assolutamente
naturale o spontanea, non rielaborata dall’uomo secondo un’intenzione
e un progetto. In secondo luogo, come oggettualità trasformata, nel senso
di elaborazione della natura e produzione di artefatti, cioè di oggetti d’uso o
mezzi di produzione o strumenti, progettati e realizzati secondo una precisa
intenzione e una precisa finalità di servizio per utili azioni e/o trasformazioni
immediatamente materiali. In terzo luogo, come oggettualità propriamente
segnica o comunicativa o testuale, disposta o incisa o scritta per produrre immediatamente
pensiero e non per determinare fisicamente azione ( 41 ).
Otteniamo così una preziosa tripartizione generale della realtà
materiale in oggetti naturali (molti dei quali – come gli elementi paesaggistici
– possono determinare la configurazione generale di un
“sito”), artefatti (come le strutture murarie e i manufatti di uso pratico),
segnici (come le opere d’arte) ( 42 ).
Come si vede, in questa tripartizione solo la terza categoria, quella
degli “oggetti” definiti “segnici”, riguarda prodotti dell’azione
umana realizzati con specifici intenti comunicativi. Ciò ci offre lo
spunto per una importante precisazione terminologica: la distinzione
semantica tra i concetti di semiotica e semiologia.
Come è noto, la disciplina semiotica è oggi giunta ad una più
chiara e rigorosa articolazione interna. Da un lato la semiotica, in
quanto generale scienza della significazione, ci aiuta a comprendere
che qualunque elemento della realtà materiale (così come la realtà
materiale nel suo insieme) può assumere vari significati o sensi. Sensi
( 41 )BONFANTINI 2000, p. 8.
( 42 ) Questa ripartizione non è esente da possibili critiche, come ci suggerisce lo
stesso Bonfantini: «Si potrebbe obiettare forse di primo acchito a questa tripartizione
un eccesso di rigidità. Si potrebbe cioè sostenere che fra oggetti naturali, artefatti,
segnici c’è più continuità che separazione, più parziale sovrapposizione che
assoluta opposizione. Tuttavia, la ragionevolezza della distinzione, così chiaramente
fondata sui due parametri della presenza o assenza dell’intenzione progettuale
e della presenza o assenza di un effetto o uso immediatamente materiale,
permane. Come si vede bene anche quando la tripartizione si applica agli eventi o
azioni. Dove allora distingueremo tra accadimenti naturali, avvenimenti o azioni
intenzionali o trasformative, atti segnici intenzionali e comunicativi. È vero che i
segni possono essere, come si dice, ‘performativi’ e decisivi, ma senza la ‘forza’,
proprio nel senso fisicamente costrittivo del termine e nel senso esecutivo del termine,
i segni non hanno immediata effettualità materiale» (BONFANTINI 2000, p. 9).

I reperti come segni del passato. Riflessioni sul rapporto tra archeologia e semiotica
e significati dipendono dalla stessa fisicità di tali elementi, ossia dal
fatto di far parte, in quanto “oggetti” (cioè in quanto frammenti di
realtà materiale), di una specifica rete di relazioni fisiche che da un
lato collega tra loro i frammenti di realtà materiale e dall’altro pone
tali frammenti in relazione con i soggetti cognitivi.
Al tempo stesso la semiologia, intesa come scienza della comunicazione
(e quindi definibile come una branca della semiotica), ci offre
preziosi strumenti di lettura per interpretare i prodotti materiali di
quelle azioni umane classificabili come atti comunicativi, cioè di
quegli “oggetti” (in senso lato) prodotti da un soggetto per comunicare
un dato messaggio ad uno o più destinatari. La compresenza in un
determinato sito di queste due categorie di “frammenti” di realtà
materiale (nonché la possibile appartenenza di uno stesso “frammento”
ad entrambe le categorie) determina gli specifici connotati del testo
archeologico di cui gli “oggetti” possono entrare a far parte.
Se dobbiamo, ad esempio, analizzare una struttura muraria, ci
troviamo davanti ad una serie piuttosto eterogenea di dati che vanno
dalle tecniche murarie adottate ai materiali utilizzati, fino a giungere
agli aspetti più prettamente decorativi, come intonaci affrescati, mosaici,
ecc.
Ora, è chiaro che, adottando un approccio strettamente semiologico,
cioè finalizzato a cogliere in quella struttura muraria i segni di una volontà
comunicativa da parte del suo realizzatore o committente, la nostra
indagine dovrebbe limitarsi all’analisi dei soli elementi decorativi,
ossia di quegli elementi realizzati allo scopo di comunicare un qualche
tipo di messaggio di natura estetica, mentre l’analisi di una tecnica
muraria o dei materiali da costruzione utilizzati non ci può fornire
nessun elemento pertinente ad uno studio di carattere semiologico.
Allargando però la prospettiva d’indagine ad un’analisi semiotica della
struttura muraria, ci accorgiamo che anche l’analisi dei dati relativi
alla sfera più strettamente tecnica diventa pertinente: l’adozione di una
specifica tecnica muraria o la scelta di utilizzare determinati materiali da
costruzione, pur non essendo atti condizionati da un qualche genere di
finalità comunicativa, non per questo sono privi di significato.
L’assunzione di un approccio semiotico all’analisi archeologica della
realtà materiale consente quindi di inquadrare con maggiore chiarezza
e coerenza logica all’interno di una prospettiva di analisi unitaria
l’insieme di fenomeni eterogenei che concorrono a “dare forma”
a tale realtà ( 43 ).
( 43 ) La necessità di mantenere la distinzione terminologico-concettuale tra “semiologia”
e “semiotica”, già presente nella doppia paternità della disciplina semiotica
23

24
ROBERTO SIRIGU
Procedendo oltre, dobbiamo ora chiederci in che modo l’archeologo
possa giungere all’attribuzione di una valenza testuale dei singoli
“frammenti di realtà materiale” individuati per mezzo della propria
azione cognitiva.
L’atto semiotico fondamentale non consiste […] nella produzione di segni,
ma nella comprensione di un senso. Questo non significa innanzitutto ricondurre
un oggetto significante (o representamen) a una legge generale di
tipo ipotetico (se c’è questo allora quello) ma semmai porlo come un testo e
cioè interrogarsi sul perché di quell’oggetto, dunque innanzitutto sulla sua
differenza rispetto al contesto (differenza sintagmatica), sulla sua differenza
rispetto a quel che potrebbe essere al suo posto (differenza paradigmatica) e
sulla ragione di queste differenze – che sono sempre ragioni, rete di ipotesi
principali e accessorie che costituiscono la testualità dell’oggetto ( 44 ).
Ciò significa che il frazionamento della realtà materiale in testi,
ossia in frammenti della realtà materiale dotati di senso, è un atto
sempre riconducibile alle scelte interpretative che il soggetto compie
nei confronti della realtà materiale sulla base dell’assunzione di specifici
punti di vista, sempre regolati dal principio di pertinenza. Infatti,
come ha affermato con estrema chiarezza Luis Prieto,
la validità di una conoscenza dipende non soltanto, come viene solitamente
ammesso, dalla sua verità, ma anche dalla sua pertinenza. La sua pertinenza
appare persino come un criterio di validità logicamente anteriore a quello
costituito dalla verità poiché la questione della verità di una conoscenza si
pone soltanto per una conoscenza già considerata come pertinente. Ora, se
la verità è un rapporto tra la conoscenza e l’oggetto, la pertinenza è invece
un rapporto tra la conoscenza e il soggetto, per definizione storico sociale,
che la costruisce e se ne serve ( 45 ).
Da ciò non consegue però la necessità di abbandonarsi ad una pericolosa
deriva relativista. Infatti
il fatto di essere “parziale” non costituisce per nulla, per una conoscenza,
una specie di tara conseguente alla limitatezza dell’intelligenza che l’ha costruita:
anzi, il considerare nell’oggetto solo quello che conta per i propri
riconducibile alle figure di Charles Sanders Peirce (PEIRCE 2003) e Ferdinand de
Saussure (SAUSSURE 1922), è sostenuta con efficace argomentazione in CAPUTO 2003.
( 44 )VOLLI 2000, pp. 13-14.
( 45 )PRIETO 1989, pp. 9-10.

I reperti come segni del passato. Riflessioni sul rapporto tra archeologia e semiotica
interessi, ossia solo ciò che fa sì che l’oggetto realizzi o meno il concetto
pertinente per tali interessi, costituisce il fondamento stesso della conoscenza
( 46 ).
Fatta questa importante precisazione, possiamo tornare a ragionare
intorno al concetto di “testo”, cercando di compiere ulteriori
passi in avanti per rendere del tutto operativa in ambito archeologico
la definizione che abbiamo assunto come valida.
Imprescindibile sfondo concettuale del nostro agire interpretativo
è quello spazio semiotico che Lotman ha efficacemente battezzato
con l’appellativo di semiosfera.
L’universo semiotico può essere considerato come un insieme di testi e di
linguaggi separati l’uno dall’altro. In questo caso tutto l’edificio apparirà
formato da singoli mattoni. È però più feconda l’impostazione opposta.
Tutto lo spazio semiotico si può considerare infatti come un unico meccanismo
(se non come un organismo). Ad avere allora un ruolo primario non
sarà allora questo o quel mattone ma il «grande sistema» chiamato semiosfera.
La semiosfera è quello spazio semiotico al di fuori del quale non è
possibile l’esistenza della semiosi ( 47 ).
La semiosfera precede quindi, da un punto di vista logico, i testi
che la compongono, così come i testi precedono i segni. È solo da un
punto di vista operativo che il semiologo (così come l’archeologo)
può partire dai singoli segni per giungere ai testi, tenendo ben presente
però che tale percorso è specularmente inverso a quello che caratterizza
la semiosi.
Il concetto di semiosfera implica un inevitabile riferimento ad un
altro concetto fondamentale, quello di cultura. È ancora nell’ambito
della riflessione di Lotman che troviamo la definizione che più sembra
rispondere alle nostre esigenze.
Della cultura esistono numerose definizioni. […] D’altra parte anche nella
molteplicità delle definizioni, è possibile individuare qualcosa di comune
che risponde evidentemente a certi connotati ascrivibili intuitivamente alla
cultura, qualunque sia l’interpretazione del termine. Limitiamoci a segnalarne
due. In primo luogo, alla base di tutte le definizioni c’è la convinzione
che la cultura possieda dei tratti distintivi. Nella sua apparente banalità,
( 46 )PRIETO 1989, pp. 11-12.
( 47 )LOTMAN 1985, p. 58.
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26
ROBERTO SIRIGU
questa affermazione ha un contenuto che non è privo di significato: ne deriva
l’asserto che la cultura non rappresenta mai un insieme universale, ma
solo un sottoinsieme con una determinata organizzazione. Essa non ingloba
mai tutto, al punto di formare una sfera a sé stante. La cultura è pensata
solo come una porzione, come un’area chiusa sullo sfondo della non cultura.
[…] In secondo luogo, tutta la varietà delle demarcazioni tra cultura e
non cultura si riduce in sostanza a questo, che, sullo sfondo della non cultura,
la cultura interviene come sistema di segni. […] Noi intendiamo
[quindi] la cultura come memoria non ereditaria della collettività, espressa
in un determinato sistema di divieti e prescrizioni ( 48 ).
Cultura come memoria non ereditaria della collettività, espressa in
un determinato sistema di divieti e prescrizioni: è, questa, una definizione
al tempo stesso molto generale ma anche molto puntuale che
può rivelarsi estremamente utile sul piano operativo anche in ambito
archeologico. Alla luce di tale definizione infatti, appare chiaro che
la “cultura” è, da un lato, il prodotto delle vicende storiche concrete che
hanno contrassegnato la vita di una civiltà e, al tempo stesso, è lo
strumento regolatore dei fenomeni che in futuro potranno e dovranno
interessare coloro che in quella cultura si identificano.
Ciò, ovviamente, non avviene mai in seguito all’azione di semplicistici
automatismi:
Questa formulazione, una volta che si accetti, comporta alcune conseguenze.
Ne deriva anzitutto che la cultura è, per definizione, un fenomeno sociale.
[…] Inoltre, poiché la cultura è memoria (o, se si preferisce, registrazione nella
memoria, di quanto è già stato vissuto dalla collettività), essa si ricollega
immancabilmente all’esperienza storica passata. La definizione della cultura
come memoria della collettività pone, in termini generali, il problema del sistema
di regole semiotiche secondo le quali l’esperienza di vita del genere
umano si fa cultura: regole che, a loro volta, possono venir trattate come un
programma. L’esistenza stessa della cultura sottintende la costruzione di un
sistema di regole per la traduzione dell’esperienza immediata in testo ( 49 ).
Giunti al termine di questo breve percorso di riflessione, ritengo
ora possibile proporre una piccola, ma concettualmente sostanziale,
modifica terminologica: anziché parlare genericamente di “contesti
archeologici”, in molti casi sarà più corretto parlare di “testi archeo-
( 48 )LOTMAN/USPENSKIJ 1975, pp. 39-43.
( 49 )LOTMAN/USPENSKIJ 1975, pp. 43-44.

I reperti come segni del passato. Riflessioni sul rapporto tra archeologia e semiotica
logici”. Al termine “testo” andrà attribuita la funzione concettuale e
operativa di strumento epistemico proposta da Volli: Ogni frammento
di realtà materiale circoscritto dall’interesse cognitivo dell’archeologo
(“oggetto”, “monumento”, “sito””, ecc.) potrà così legittimamente
essere posto come un testo. Ciò non solo non implica una perdita di
funzione del concetto di contesto, ma ne esalta semmai la chiarezza
concettuale. Esso sarà inteso
[…] come l’orizzonte di riferimento di un testo; come l’ambiente, soprattutto
culturale, entro cui un testo nasce e opera; come il circuito della comunicazione
che consente al testo di circolare; e come l’insieme dei testi, o delle
porzioni di testo, che co-occorrono con una porzione data ( 50 ).
Inoltre il “contesto”, nel suo rapporto dinamico con il “testo”,
continuerà a svolgere anche altre fondamentali funzioni.
Da un lato il contesto pertinentizza il testo: segnala che cosa della situazione
comunicativa è testo (in una conferenza, la richiesta di un bicchier d’acqua da
parte dell’oratore non fa parte pienamente della sua esposizione). Dall’altro il
contesto categorizza il testo: segnala quale funzione assumono nella situazione
comunicativa questo o quell’elemento testuale (in una conversazione formale,
un colpo di tosse può significare la fine dello scambio di battute ( 51 ).
8. In conclusione: il contributo della semiotica al definirsi dell’archeologia
moderna come “scienza dell’uomo”. – Molto altro occorrerebbe
dire per chiarire più opportunamente le innumerevoli implicazioni
teorico-metodologiche che l’instaurazione di un rapporto sistematico
tra archeologia e semiotica porterebbe con sé. Ma è giunto il momento
di esprimere qualche considerazione conclusiva.
Come spero risulti evidente, non aspiravo ad una trattazione né sistematica
né esaustiva (come potrebbe essere altrimenti?) dei temi
trattati. Più modestamente, ho cercato di cogliere come un invito alla
riflessione alcuni dei fili che compongono la trama del discorso archeologico.
Sono convinto che l’archeologia moderna, per costituirsi come
disciplina pienamente autonoma e scientificamente fondata nei suoi
presupposti teorici e nelle sue metodologie, debba ancora interrogar-
( 50 )CASETTI 1994, p. 99.
( 51 )CASETTI 1994, p. 105.
27

28
ROBERTO SIRIGU
si su se stessa e sugli obbiettivi cognitivi che può (e quindi deve) raggiungere.
Ciò che l’assunzione di un approccio semiotico può aiutarci
a comprendere con maggiore lucidità è che certamente essa può essere
concepita come una scienza finalizzata al raggiungimento di una conoscenza
della realtà materiale e che tale conoscenza non può che essere
concepita, per usare una terminologia mutuata ancora una volta dalla
riflessione di Luis Prieto, come conoscenza di una conoscenza.
È a motivo del fatto che una conoscenza della realtà materiale possiede
sempre una pertinenza e del fatto che questa pertinenza non viene mai imposta
dal suo oggetto che una conoscenza della realtà materiale costituisce
a sua volta un oggetto distinto dal suo oggetto e non un semplice prolungamento
mentale di esso. Conoscere una conoscenza della realtà materiale sarebbe
innanzi tutto esplicitare la pertinenza di questa conoscenza perché
solo con tale esplicitazione essa appare come un oggetto distinto da quello che
costituisce a sua volta il suo oggetto. Una scienza dell’uomo scopre il suo oggetto
tramite una siffatta esplicitazione e può allora costituirsi ( 52 ).
Acquisire consapevolezza del costitutivo rapporto intercorrente tra
archeologia e semiotica può aiutarci ad “esplicitare” la “pertinenza”
di quella specifica “conoscenza” che chiamiamo “archeologia”. Solo
così sarà possibile, io credo, dare piena compiutezza al “costituirsi”
di tale disciplina come “scienza dell’uomo”.
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ANTONIO IBBA
COMUNITÀ ROMANE NELLA REGIONE
DI TÉBOURSOUK (TUNISIA):
I NOVENSES DI CARTAGINE E DI UCHI MAIUS (*)
Per l’età romana, si è spesso sottolineata ( 1 ) l’elevata urbanizzazione
della media valle della Medjerda (Tunisia Settentrionale), antico
Bagrada flumen, in particolare del territorio compreso fra questo fiume,
la piana del Krib e la catena del Djebel Sidi ech Cheïdi a Sud,
regione chiusa ad oriente dall’Oued Tessa, un affluente di destra
della Medjerda, ed attraversata longitudinalmente dai loro numerosi
affluenti (p. e. Oued Khalled, Oued Remel, Oued Arkou, Oued
Thibar). In questa non vasta regione collinosa, circa 30 chilometri
quadrati, sono stati individuati, a distanze spesso non superiori ai 10
chilometri, talvolta inferiori ai 5 chilometri ( 2 ), numerosi saltus im-
(*) Si ringraziano in questa sede la prof.ssa M. Bonello Lai per aver presentato
questo lavoro al comitato scientifico della rivista e per aver discusso con lo scrivente
tutte le problematiche relative al testo; i proff. M. Khanoussi e A. Mastino per aver
autorizzato la pubblicazione del testo, anticipando una più sintetica scheda presente
in Uchi Maius 2. Le iscrizioni, c.d.s., e per aver voluto rileggere il testo.
Il disegno è di S. Ganga.
( 1 ) Per tutti si vedano P.-A. FÉVRIER, Approches du Maghreb romain. II. Pouvoirs,
différences et conflits, Aix-en-Provence 1990, pp. 79-81; G. CH. PICARD, La
civilisation de l’Afrique romaine, Paris 19902 , pp. 56-57; sulla valle dell’Oued
Arkou nello specifico si rimanda a C. CAZZONA-P. FLORIS-A. IBBA, Non exiguum
populum plebeium et vicos circa villam in modo municipiorum: Iscrizioni funerarie
da Aïn Wassel (Tunisia), in AA.VV., Cultus splendore. Studi in onore di Giovanna
Sotgiu, a cura di A.M. Corda, Senorbì 2003, p. 165 e nota 8. Per le istituzioni
di molti dei centri ricordati infra, si rimanda a J. GASCOU, La politique municipale
de l’Empire Romain en Afrique Proconsulaire de Trajan à Septime-Sévere, (Coll.
ÉFR nr. 8) Rome 1972, pp. 173-187; C. LEPELLEY, Les cités de l’Afrique romaine
au Bas-Empire. II: Notices d’histoire municipale, Paris 1981, passim.
( 2 ) Utile in questo senso è un confronto con AA.VV., Barrington Atlas of the
Greek and Roman World, ed. by R.J.A. Talbert in coll. with alii, Princeton 2000,
tavv. 32-33.

32
ANTONIO IBBA
periali ( 3 ), ricchi praedia privati ( 4 ) ed agglomerati urbani anche di
una certa importanza: tre coloniae ( 5 ), dei municipia ( 6 ), civitates indigene
( 7 ) e piccoli pagi ( 8 ), almeno una res publica ( 9 ), alcune comunità
dall’incerto statuto ( 10 ), una miriade d’insediamenti dei quali si
è perduto il nome antico ma testimoniati da rovine e necropoli talvolta
imponenti ed estese ( 11 ).
( 3 ) Sulla loro localizzazione, cfr. L. CARTON, Un pays de broussailles à l’époque
romaine, RT, 1904, pp. 215-232, 333-344; J. CARCOPINO, L’inscription d’Aïn-el-
Djemala. Contribution à l’histoire des saltus africains et du colonat partiaire, MEFR,
26, 1906, pp. 423-440; J.-M. LASSÈRE, Ubique Populus. Peuplement et mouvements
de population dans l’Afrique romaine de la chute de Carthage à la fin de la dynastie
des Sévères (146 aC - 235 pC), Paris 1977, pp. 319-320; FR. JACQUES, L’origine du
domaine de la Villa Magna Variana id est Mappalia Siga (Henchir Mettich): une
hypothèse, AntAfr, 29, 1993, pp. 63-69.
( 4 ) Per esempio i praedia Pullaienorum (CIL, VIII, 26415) a Henchir El Mra
Meïta, a metà strada fra la nostra Henchir ed-Douâmis ed Henchir ech Chett; i
praedia di Attia Quieta non distanti da Tichilla (AE, 1908, 156), i praedia Rufi
Volusiani a Bir Tersas (CIL, VIII, 25990), i p(raedia) B(---) c(larissimae) f(eminae)
lungo l’Oued Khalled, presso Aïn el-Jemala (ILTun., 1321).
( 5 ) Oltre ad Uchi Maius (infra) si ricorderanno per esempio le coloniae di Thubursicum
Bure e Thugga, queste ultime già municipia fondati da Settimio Severo e
coloniae deductae nella seconda metà del III secolo.
( 6 ) Si pensi ai municipia di Thibaris, Thimida Bure, Numlulis, Aunobaris ed
Agbia, Thignica e Tichilla, Mustis e Thacia. Forse godeva di uno statuto municipale
se non addirittura coloniale Thigibba Bure (AE, 1999, 1845).
( 7 ) Per esempio le civitates Sustritana (CIL, VIII, 25934; ILAfr., 495), Bencennensis
(CIL, VIII, 15447), Sucubucensis (AE, 1987, 1021), Mizigitana (ILAfr.,
500), Geumitana (CIL, VIII, 27413), l’anonima civitas di Henchir Belda (CIL,
VIII, 27432).
( 8 ) Si ricordino i pagi di Suttua (CIL, VIII, 26418), Avensis (26157), Assalitanus
(ILAfr., 501) e di Thac... (CIL, VIII, 27416). La stessa Uchi Minus (infra) era
probabilmente un pagus.
( 9 ) La res publica Uchiminensium (M. KHANOUSSI, Sur la découverte, dans le
nord-ouest tunisien, d’Uchi Minus, oppidum augustéen, CRAI, 2002, pp. 325-332).
( 10 )Per esempio Aptucca (cfr. A. BESCHAOUCH, Trois inscriptions romaines récemment
découvertes en Tunisie, B.C.T.H., n.s., 10-11 B, 1974-1975, pp. 193-
194), Gillium (CIL, VIII, 26222, 26224-26226, cfr. ILTun., 1367), Coreva (J.
PEYRAS, Le Tell nord-est tunisien dans l’Antiquité. Essai de monographie régionale,
Paris 1991, pp. 8-9).
( 11 )Per una conoscenza capillare della regione è ancora insostituibile il voluminoso
lavoro di L. CARTON, Découvertes épigraphiques et archéologiques faites en Tunisie
(région de Dougga), Paris 1895, passim; una piccola parte delle sue osservazioni
sono ora riprese in AA.Vv., Rus Africum. Terra, acqua, olio nell’Africa Settentrionale.
Scavo e ricognizioni nei dintorni di Dougga (Alto Tell tunisino), a cura di M.
DE VOS, Trento 2000, passim.

I Novenses di Cartagine e di Uchi Maius
Questo variegato panorama può ora essere ulteriormente arricchito
grazie ai frammenti di un’iscrizione rinvenuti a Henchir ed-
Douâmis, “le rovine dei sotterranei”, nel governatorato di Béja, località
della valle dell’Oued Arkou, 12 km ad Ovest di Thugga, 20
km a Sud-ovest di Téboursouk (Thibursicum Bure), 10 km a Nordovest
di Le Krib (Mustis), dove sin dal 1993 operano congiuntamente
l’Institut National du Patrimoine de Tunis e l’Università degli
Studi di Sassari, nell’ambito di un progetto mirante allo studio, alla
salvaguardia, alla valorizzazione del patrimonio archeologico ed epigrafico
della colonia Mariana Augusta Alexandriana Uchitanorum
Maiorum ( 12 ).
Negli anni 1996 e 1998, infatti, durante le indagini condotte da
Sauro Gelichi e Marco Milanese nella cittadella islamica (nella parte
nord-occidentale della collina di Henchir ed-Douâmis) ( 13 ), furono
rinvenuti due frammenti irregolari ma perfettamente combacianti di
una lastra di calcare giallastro, molto compatto, reimpeigati come
zeppe nelle strutture murarie medievali dell’area ( 14 ), forse la parte
centrale di un’iscrizione: le tracce di malta presenti nella faccia posteriore
del frammento 1 fanno supporre che la pietra fosse originariamente
murata in un edificio o costituisse il rivestimento di una
base di statua ( 15 ).
( 12 )Una sintesi del progetto e dei risultati raggiunti, ora in A. IBBA, La cooperazione
degli Atenei Sardi con i paesi del Maghreb: motivazioni, risultati, prospettive negli
studi classici, Sassari 2004, pp. 6-13; AA.VV., La collina dei sotterranei. Un decennio
di scavi in Tunisia. Catalogo della mostra a cura di L. Sanna, Sassari 2004, passim.
( 13 )Una sintesi di queste indagini ora in Le ricerche archeologiche nella “cittadella”,
in La collina dei sotterranei, cit., pp. 15-26 (schede curate da M. Baldassarri, S.
Gelichi, M. Milanese).
( 14 )Frammento 1 (N° inv.: I 248): cm. 33,5 x 27 x 10; frammento 2 (N° inv. I
317): cm. 22 x 21 x 10,5. Le dimensioni fornite sono quelle massime residue. La
superficie del frammento 1 ha assunto un colore rossiccio per una prolungata
esposizione al sole.
( 15 )Poiché in età medioevale la malta non veniva utilizzata dagli arabi, cfr.
nota nr. 13, si deve supporre che questa risalga all’età romana. Un classico esempio
di basamento composito, con nucleo in opera cementizia e rivestimento con
lastre di calcare è la base di Settimio Severo (CIL, VIII, 26255 = ILS, 9401, cfr. P.
RUGGERI, La casa imperiale, in AA.VV., Uchi Maius 1. Scavi e ricerche epigrafiche in
Tunisia, a cura di M. Khanoussi e A. Mastino, Sassari 1997, pp. 143-145, nr. 13),
ancora visibile nel foro di Uchi Maius. Alla stessa tipologia sembrerebbero rifarsi
due dediche per Commodo e Caracalla (AE, 2000, 1732-1733, cfr. M. KHANOUS-
SI-A. MASTINO, Nouvelles découvertes archéologiques et épigraphiques à Uchi Maius
(Henchir ed- Douâmis, Tunisie), CRAI, 2000, pp. 1293-1298, nrr. 6-7), provenienti
sempre dalla principale piazza pubblica del pagus.
33

34
ANTONIO IBBA
Il campo epigrafico, verosimilmente centrato ( 16 ), è perfettamente
liscio ( 17 ) e mostra 6 linee non complete di una capitale allungata
molto elegante, dal solco sottile e poco profondo, secondo uno stile
scrittorio ben consolidato in Africa ( 18 ); molto comune è anche l’interpunzione
con minuscole “spina di rosa” ( 19 ), tutte con vertice inferiore
rivolto a sinistra ( 20 ). Si osservi, infine, come la l. 3 sia nettamente
più alta e con lettere più ariose rispetto alle ll. 1-2, 4; al contrario,
la l. 5 e probabilmente la l. 6 sono più basse, quasi che si trattasse
delle ultime lettere del testo ( 21 ):
In questa sede proponiamo a titolo di ipotesi una parziale restituzione
dell’iscrizione, nella quale le ll. 3 e 6 presenterebbero forse degli
ampi vacat iniziali e finali:
------
[pago (?) Uc].h.i.tanorum .M[aiorum et (?)]
[rei publica].e (?) Novensi s.u[b (nome del patrono)]
[op].t.imo pa.t[rono]
[---] .M qui de.d.i[---]
( 16 )Si osservi il vacat (almeno cm. 4) presente alla fine della l. 6.
( 17 )Dimensioni complessive dei due frammenti: cm. 43,8 x 33,8 x 10,5 (misure
massime residue).
( 18 )Si osservi la I longa alla l. 2 e la A senza traversa. Utili confronti si possono
ricavare sia con le iscrizioni della stessa Uchi Maius, attualmente in fase di pubblicazione,
sia con quelle censite nella vicina Thugga (AA.VV., Dougga. Fragments
d’histoire. Choix d’inscriptions latines éditées, traduites et commentées (Ier-IVe siècles),
sous la direction de M. Khanoussi et L. Maurin, Bordeaux-Tunis 2000) sia con i
testi conservati al Museo del Bardo di Tunisi (Z. BENZINA BEN ABDALLAH, Catalogue
des inscriptions latines païennes du Musée du Bardo (Coll. ÉFR. nr. 92), Paris
1986). Questo tipo di scritture sono ampiamente diffuse nel II-III secolo, senza
escludere episodiche testimonianze nel I e IV secolo. Solo per citare alcuni esempi
da Uchi Maius, si confronti il testo con AE, 1997, 1665 (metà del II secolo), CIL,
VIII, 26254 (anno 179), 26256 (anno 197), 26260 (fra il 195-197), 26275 (seconda
metà del III secolo), AE, 1997, 1672 (probabilmente del IV secolo).
( 19 )Per questo segno di interpunzione, cfr. la bibliografia e gli esempi riportati
da R. ZUCCA, Un’iscrizione monumentale dall’Oristanese, in L’Africa Romana, 9,
Sassari 1992, p. 598, fig. 1, p. 599, nota 26. I piccoli triangoli, realizzati con un
preciso colpo di ugnetta, avevano il vertice rivolto verso sinistra, in basso.
( 20 )L’interpunzione è assente solo alla l. 1 e non è verificabile alla l. 4, davanti
alla lettera Q.
( 21 )Altezza delle lettere: l. 1: cm. 5; l. 2: cm. 4,3; l. 3: cm. 5,7; l. 4: cm. 4,5-5;
linea 5: cm. 4,3; l. 6: cm. 3 (residua). Interlinea: ll. 1/2: cm. 2,4; ll. 2/3: cm. 2,2;
ll. 3/4: cm. 2,5; ll. 4/5: cm. 2,4; ll. 5/6: cm. 1,8.

I Novenses di Cartagine e di Uchi Maius
[---I].u.l[i]ano M(arco) [---]
[mag(istris) pa].gi.
------
Le poche lettere a disposizione rendono difficile un’interpretazione
univoca. È in ogni caso sicura l’integrazione M[aiorum] ( 22 ) alla l. 1,
probabilmente seguita da una congiunzione et.
Alla l. 2, in frattura, è visibile la parte superiore di un’asta verticale
dalla quale si dipartono due o più verosimilmente tre braccia, dunque
una F (forse la sigla f. per filius) o una E (la desinenza di una parola);
l’assenza di un segno d’interpunzione nella parte finale della stessa linea
pongono dei dubbi sull’esistenza del nominativo / genitivo Novensis (seguito
da V) o del dativo Novensi (seguito da su[b] e forse il nome di un
personaggio). Quest’ultima ipotesi sembra quella preferibile per la presenza
di un dativo / ablativo alla l. 3 ( 23 ), verosimilmente integrabile, infatti,
in [op]timo pat[rono] (della T si nota parte della traversa).
Alla l. 4, sempre in frattura, è visibile una A o una M (probabili
desinenze di una parola); infine alla l. 5 si distinguono l’apice di una
lettera indistinta (S?), seguita da due aste verticali. Alla l. 6 è visibile
la parte superiore di una lettera tondeggiante, una C o una G; il vacat
dopo l’interpunzione porterebbe infine a supporre che alla “spina
di rosa” non seguissero altre lettere.
L’eleganza del testo, il riferimento agli Uchitani, la probabile integrazione
[op]timo pat[rono], fanno pensare ad un’iscrizione pubblica
nella quale si ricordavano le comunità degli Uchitani Maiores e
dei Novenses, forse accomunate da un anonimo rappresentante ( 24 )
che potrebbe aver curato la dedicatio di un edificio pubblico (per
esempio un’aedes, una fons o un templum) ( 25 ).
( 22 )Si è visto infatti (supra, nota 9) che gli abitanti di Uchi Minus preferivano
chiamarsi Uchiminenses.
( 23 )Si deve il suggerimento a M. Bonello Lai. Conseguentemente a questa scelta,
dobbiamo preferire alla l. 1 un’integrazione [pago Uc]hitanorum M[aiorum et
(?)] in luogo della possibile [pagi Uc]hitanorum M[aiorum et (?)].
( 24 )Si deve tuttavia osservare che se è ben noto il fenomeno di patroni legati a più
comunità contemporaneamente (cfr. p.e. B.H. WARMINGTON, The Municipal Patrons
of Roman North Africa, PBSR, 22, 1954, pp. 40-45), queste sembrerebbero attestate
solo in iscrizioni che riportano il cursus del notabile (p.e. CIL, XI, 1059), come per le
dediche ai patroni pagi et civitatis di Thugga (CL. POINSSOT, M. Licinius Rufus patronus
pagi et civitatis Thuggensis, B.C.T.H., n.s., 5, 1969, pp. 230-233, 236).
( 25 )Nell’integrazione della linea, oltre al dubbio dedit (suggerimento di S.
Ganga) / dedicavit, si potrebbe pensare ad un soggetto plurale autore dell’atto: dederunt
/ dedicaventunt.
35

36
ANTONIO IBBA
È nota, infatti, la storia istituzionale di Uchi Maius ( 26 ), un piccolo
insediamento verosimilmente fondato dai Numidae ( 27 ) in cima
ad una collina, sulla strada che collegava Thibursicum Bure a Sicca
Veneria passando per Aptucca ( 28 ), in Africa Proconsularis: colonizzata
dai veterani di C. Mario nel 103 a.C. ( 29 ), la comunità è ricordata
da Plinio il Vecchio (NH, V, 29) come oppidum civium Romanorum,
entità giuridica di incerta definizione ( 30 ), mentre nelle iscrizioni appare,
almeno dal principato augusteo ( 31 ), come un pagus di cittadini
( 26 )Cfr. A. BESCHAOUCH, Colonia Mariana «Augusta» Alexandriana Uchitanorum
Maiorum. Trois siècles et demi d’histoire municipale en abrégé, in Uchi Maius 1,
cit., pp. 97-104.
( 27 )P. RUGGERI-R. ZUCCA, Nota preliminare sul pagus e sulla colonia di Uchi
Maius (Henchir ed-Douâmis, Tunisia), in L’Africa romana, 10, Sassari 1994,
pp. 645, 655-656; M. GHAKI, Uchi Maius à l’époque préromaine, in Uchi Maius 1,
cit., pp. 15-20.
( 28 )RUGGERI-ZUCCA, Nota preliminare, cit., pp. 656-657; C. VISMARA, Prime
osservazione sulla topografia urbana, in Uchi Maius 1, cit., pp. 24-25.
( 29 )P. QUONIAM, À propos d’une inscription de Thuburnica (Tunisie), Marius et
la romanisation de l’Afrique, CRAI, 1950, p. 333; L. TEUTSCH, Das Städtewesen in
Nordafrika in der Zeit von C. Gracchus bis zum Tode des Kaisers Augustus, Berlin
1962, pp. 10-11, 23-25.
( 30 )L’espressione oppidum civium Romanorum è oggetto di un lungo dibattito
fra gli studiosi. Secondo QUONIAM, Thuburnica, cit., 1950, p. 335; TEUTSCH,
Städtewesen, cit., pp. 234-235; A.N. SHERWIN-WHITE, The Roman Citizenship,
Oxford 19732 , pp. 344-350, 353, si trattava di un conventus di cittadini romani,
preesistente al 46 a.C. e creato dai veterani di Mario; l’opinione è sostanzialmente
identica a quella già proposta da T.R.S. BROUGHTON, The romanization of Africa
Proconsularis, Baltimore-London 1929, p. 77; CH. SAUMAGNE, Le droit latin et les cités
romaines sous l’empire. Essais critiques, Sirey 1965, p. 81; H.-G. PFLAUM, La romanisation
de l’ancien territoire de la Carthage punique à la lumière des découvertes épigraphiques
récentes, AntAfr, 4, 1970, pp. 75-117. Per CL. POINSSOT, Immunitas perticae
Carthaginensium, CRAI, 1962, pp. 65, nota 2, 68 l’oppidum era un castellum o
un pagus non autonomo, per J. DESANGES, Le statut des municipes d’après les données
africaines, RHDFE, 50, 1972, pp. 353-373; ID., Plinie l’Ancien, Histoire Naturelle,
Livre V, 1-46, 1ere partie (L’Afrique du Nord), Paris 1980, pp. 72, 215-216, 284-288
si tratterebbe invece di un municipium civium romanorum in opposizione al municipium
latinum; per GASCOU, Politique municipale, cit., pp. 18-19; il termine non
avrebbe un significato preciso ma alluderebbe a municipia, conventus o pagi, comunità
in ogni caso caratterizzate dalla presenza di cittadini romani.
( 31 ) CIL, VIII, 26274. L’attribuzione del testo al principato augusteo non è
unanime. Per FR. JACQUES, Municipia libera de l’Afrique Proconsulaire, in AA.VV.,
Epigrafia. Actes du colloque international d’épigraphie latine en mémoire de Attilio
Degrassi (Rome, 27-28 maggio 1988), (Coll. ÉFR nr. 143), Paris 1991, pp. 600-
606 il testo è da porre fra il 44-43 a.C., quando l’Africa Nova era controllata da
Antonio; per BROUGHTON, Romanization, cit., pp. 61-67; ID., The inscription of

I Novenses di Cartagine e di Uchi Maius
romani dipendente da Cartagine ( 32 ), che raggiunse la completa autonomia
ed il prestigioso rango di colonia solo nel 230 d.C., ex indulgentia
dell’imperatore Severo Alessandro ( 33 ). Poste queste premesse,
si potrebbe supporre che alle ll. 5-6 venisse ricordato la coppia
eponima dei magistri pagi ( 34 ), la principale magistratura della
comunità, e, se l’integrazione Iuliano proposta alla l. 5 da M. Bonello
Lai fosse esatta, ci troveremmo di fronte al cognomen del primo
funzionario ed al praenomen (Marcus) del secondo.
La presenza di un genitivo plurale alla l. 1, ci costringe a supporre
che l’etnico [Uchi]tanorum [Maiorum] fosse preceduto da un termine
relativo allo statuto giuridico della città, forse in dativo se teniamo
conto della restituzione Novensi su[b ---] (l. 2): escluso colonia ( 35 ) per
Phileros, AJPh, 50, 1929, pp. 279-285, nel 39 a.C. con Lepido; per D. FISHWICK,
On the origins of Africa Proconsularis II: the administration of Lepidus and the commission
of M. Caelius Phileros, AntAfr, 30, 1994, pp. 74-76, fra il 40-36 a.C.; per
SAUMAGNE, Droit Latin, cit., pp. 85-95 e A. LUISI, Il liberto Marco Celio Filerote,
magistrato municipale, Atene e Roma, n. s., 20, 1975, pp. 44-56, nel 38-37 a.C.
( 32 )POINSSOT, Immunitas, cit., pp. 64-65; SAUMAGNE, Droit latin, cit., p. 82;
PFLAUM, Romanisation, cit., pp. 78-79; KHANOUSSI-MASTINO, Nouvelles découvertes,
cit., pp. 1289-1292. Ad Uchi Maius e sul suo territorio sono attestati 18 tribuli
dell’Arnensis, quindi dei Cartaginesi di pieno diritto (appena un’attestazione della
tribù Quirina, cfr. AE, 1997, 1665); le iscrizioni della città ricordano alcuni magistrati
della capitale provinciale: un duoviro (AE, 2000, 1731), tre praefecti iure dicundo
(CIL, VIII, 15453 = 26267, 26244; AE, 1997, 1665), un flamen perpetuus
(CIL, VIII, 26283), dei sacerdotes Cererum (AE, 1997, 1665; CIL, VIII, 26245,
26255 = ILS, 9401), un decurione di Cartagine originario del pagus (CIL, VIII,
26276). Si ricordi inoltre che una dedica a Karthago è posta da un membro del pagus
(CIL, VIII, 26239 = ILS, 9398).
( 33 )CIL, VIII, 15447 e AE, 2001, 2086 entrambe del 230. Sempre legate ai festeggiamenti
per la deduzione coloniale potrebbero essere AE, 1997, 1675 e AE,
1999, 1852.
( 34 )Questa è nota in CIL, VIII, 26249 = AE, 1997, 1673: Faus[to] Fabio
H[onorato] m(agistris) p(agi) (le integrazioni sono riportate nel catalogo di prossima
pubblicazione); CIL, VIII, 26252: Q(uinto) Memm[io ---] / P(ublio) Muci[o ---] /
mag(istris) [pag(i)]; AE, 1997, 1666: C(aio) [M]ario Faustino L(ucio) Pro/pertio Rog[a]to
mag(istris) pag(i). I testi sono solo del principato di Marco Aurelio ma non si può escludere
che nel periodo precedente ed in quello successivo venisse ricordata la magistratura:
analizzando la situazione di Thugga A. CHASTAGNOL, La civitas de Thugga d’Auguste
à Marc Aurèle, in AA.VV., Dougga (Thugga). Études épigraphiques, textes réunis par M.
Khanoussi e L. Maurin, (Ausonius nr. 1) Paris 1997, p. 59 suppone che la presenza dei
magistri sia sinonimo di una maggior autonomia concessa da Marco Aurelio al pagus
Thuggensis, un’ipotesi che potrebbe ben sposarsi anche per Uchi Maius.
( 35 )La colonia Uchitanorum Maiorum (con o senza i vari cognomenta onorari,
spesso preceduta dal termine res publica, talora da ordo) è ricordata in CIL, VIII,
15450; 15452; 15454 = 26270; 15455; 26246; 26268; 26269; 26272; 26275;
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38
ANTONIO IBBA
la supposta presenza dei magistri, dobbiamo pensare a res publica ( 36 )
o pagus ( 37 ), con una preferenza per il secondo termine giacché i magistri
pagi non sono ancora attestati per la res publica nell’epigrafia
uchitana: si osservi a questo proposito che lo spazio occupato da
questa restituzione (circa 26 centimetri) ben si adatta ad un’integrazione
della l. 2 in [rei publica]e Novensi o Novensis piuttosto che in
[colonia]e Novensi o Novensis ( 38 ).
L’etnico Novenses deriva dall’aggettivo novus, spesso utilizzato in
unione a sostantivi come castra, oppidum, vicus, forum, portus (talvolta
sottintesi), ed indicava gli abitanti una comunità fondata ex
novo dai Romani ( 39 ): dei Novenses cives sono noti ad esempio a Novae
in Dalmatia ( 40 ); un accampamento di Novae è attestato in Moe-
26280; 26281; AE, 1997, 1675; 2000, 1729, probabilmente CIL, VIII, 15451;
26263; AE, 1997, 1671; 1997, 1672.
( 36 )La res publica Uchitanorum Maiorum è nota in CIL, VIII, 26253-26255;
AE, 2000, 1728, 1732-1733; forse CIL, VIII, 15449 = 26258 = AE, 1994, 1847 =
AE, 2000, 1734 a-c (grande iscrizione dei portici del foro). I testi, quando databili,
si pongono fra il 179 ed il 209 d.C. Sul termine res publica, cfr. J. GASCOU,
L’emploi du terme respublica dans l’épigraphie latine d’Afrique, MEFRA, 91, 1979,
pp. 383-398. Non si può inoltre escludere che qui venga ricordato l’universus ordo
Uchitanorum Maiorum (CIL, VIII, 26271): il testo fu redatto probabilmente dopo
il 230 d.C. ma non sappiamo se il lapicida si sia servito di formulari desueti o in
auge al momento della commissione del documento.
( 37 )Cfr. CIL, VIII, 26252: pag(us) Uchitan[orum] Maioru[m d(ecreto)
d(ecurionum) p(ecunia) p(ublica) f(ecit)]...; AE, 1997, 1666: pagus Uchitano[r(um)]
Maior(um) d(ecreto) d(ecurionum) p(ecunia) p(ublica) f(ecit) ..., verosimilmente in
CIL, VIII, 26249 = AE, 1997, 1673: [pagus (?) Uchitanorum M]aiorum ... (l’integrazione
verrà presentata nel catalogo di prossima pubblicazione).
( 38 )È tuttavia preferibile escludere l’integrazione [colonia]e (genitivo o dativo),
che sulla pietra occuperebbe uno spazio minore. La scelta di un genitivo ci costringerebbe
inoltre ad abbandonare la lettura su[b ---] ed a spiegare la presenza
della V in frattura. Per una restituzione [civitat]e Novensis, cfr. infra.
( 39 )Cfr.G. PERIN, Lexicon totius latinitatis, VI, Onomasticon, Patavii 1940,
pp. 352-353, s.v. Novus. Si osservi che accanto alla forma Novensis è nota anche
quella Novanus, relativa ad esempio ad un fiume degli Apennini (H. PHILIPP, in
RE, XVII, 1, 1936, col 1135, s.v.); si ricordino, fra gli altri, un vicus Novanensis o
ad Novas sulla via Appia, presso l’attuale chiesa di S. Maria a Vico (ID., ibid, coll.
1134-1135, s. v. Novanensis; cfr. CIL, X, 3764 = ILS, 6341), i Fabraterni Novani
in CIL, X, 5578, 5585 da Fabrateria Nova, i Ferentinates Novani in CIL, X, 5825,
5828 da Ferentino (regio I), i Castronovani in CIL, XI, 3579-3581 da Castronovo
in Etruria, i Foronovani in CIL, IX, 4780, SupIt., 5, FN, 21-22, 32 da Forum Novum
nel Sannio (cfr. CIL, VI, 1706 e XI, 1059).
( 40 )CIL, III, 1908, cfr. B. SARIA in RE, XVII, 1, 1936, coll. 1129-1131; G. AL-
FÖLDY in RE, Suppl. XI, 1968, coll. 1015-1018. Si veda inoltre il municipium Novensium
in CIL, III, 1892, 1908-1910, 3202, 13887 e in AE, 1964, 224.

I Novenses di Cartagine e di Uchi Maius
sia ( 41 ), la statio di Novae in Macedonia ( 42 ), il Novus vicus in Germania
( 43 ), la città di Nova Augusta nella Hispania Tarraconensis ( 44 ),
infine dei Sorrinenses Novenses sono ricordati in Etruria ( 45 ). In Africa
troviamo fra le altre le comunità di Nova Castra in Mauretania Sitifensis
( 46 ), Nova Petra ( 47 ) e Nova Sparsa ( 48 ) in Numidia Militiana;
una colonia Nova è menzionata su una tabella defixionis amatoria ritrovata
4 chilometri a Sud di El Djem, in Byzacena ( 49 ).
Una particolare fortuna ebbero gli oppida nova. Un Oppidum Novum
è attestato in Mauretania Tingitana ( 50 ), una res p(ublica)
Oppidon[o]vensium è ricordata in Mauretania Caesariensis ( 51 ) ed infine
gli Oppidani No[---] ( 52 ) sono menzionati in un’iscrizione rinve-
( 41 )E. POLASCHEK in RE, XVII, 1, 1936, coll. 1125-1129, nr. 3.
( 42 )ID., ibid., col. 1129, nr. 3.
( 43 )A. FRANKE, ibid., coll. 1228-1229.
( 44 )A. SCHULTEN, ibid., col. 1123.
( 45 )CIL, XI, 3009 = ILS, 6595 da Montefiascone; CIL, XI, 3014 da Viterbo.
( 46 )F. WINDBERG, in RE, XVII, 1, 1936, coll. 1123-1124.
( 47 )ID., ibid., col. 1124.
( 48 )ID., ibid., coll. 1124-1125.
( 49 )L. FOUCHER, Une inscription magique d’El Jem, AntAfr, 36, 2000, pp. 57-
61 = AE, 2000, 1611 c. Non sappiamo se dalla stessa località proveniva il Victor a
Novis menzionato su un ostrakon proveniente dall’Isolotto dell’Ammiragliato a
Cartagine (AE, 1912, 70 = 1998, 1566, l. 9), cfr. J. T. PEÑA, The mobilization of
State Olive Oil in Roman Africa: the Evidence of Late 4th Century ostraca from Carthage,
in AA.VV., Carthage Papers. The early colony’s economy, water supply, a public
bath and the mobilization of State olive oil, ed. by J.T. Peña et alii, (JRA Suppl. 28)
Portsmouth 1998, pp. 116-238 ed in particolare pp.139-140, e la plebs Novensis da
porre presumibilmente in Byzacena, cfr. S. LANCEL, Actes de la conférence de Carthage
en 411, IV : Additamentum criticum, notices sur les sièges et les toponymes, notes complémentaires
et index, (Sources chrétiennes nr. 373) Paris 1991, pp. 1437-1439.
( 50 )A. AKERRAZ-R. REBUFFAT, El Qsar el Kebir et la route intérieure de Maurétanie
Tingitane entre Tremuli et ad Novas, in AA.VV., Histoire et Archéologie de l’Afrique
du Nord. Actes du IVe colloque international réuni dans le cadre du 113e Congrès
national des Sociétés savantes (Strasbourg, 5-9 avril 1988). Tome II. L’armée et les
affaires militaires, Paris 1991, pp. 367-408.
( 51 )AE, 1973, 654, cfr. PH. LEVEAU, L’Aile II des Thraces, la tribu des Mazices et
les praefecti gentis en Afrique du Nord. (À propos d’une inscription nouvelle d’Oppidum
Novum et de la pénétration romaine dans la partie orientale des plaines du
Chélif), AntAfr, 7, 1973, pp. 186-189, cfr. CIL, VIII, 9643 = ILS, 6880: Oppidon.,
erroneamente ma non arbitrariamente sciolto in Oppidon(ovani).
( 52 )CIL, VIII, 10530 = 12552 a = EE, V, 452 = VII, 153, cfr. CH. TISSOT,
Géographie comparée de la province romaine d’Afrique, Paris 1888, pp. 764-765.
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ANTONIO IBBA
nuta a Cartagine: il testo è solitamente integrato dagli studiosi in
No[vani]; alla luce dell’iscrizione di Uchi Maius e del testo della
Mauretania Caesariensis, si potrebbe restituire No[venses] e proporre
un’identificazione fra i Novenses di Cartagine e quelli di Uchi Maius.
Sfortunatamente la localizzazione di questo Oppidum Novum non
è assolutamente nota. Il testo di Cartagine, una lastra di marmo chiaro
fratta in numerose parti non combacianti ( 53 ), fu interpretato da
Charles Saumagne come un tariffario fiscale emanato da Valentiniano
I nel 370 ( 54 ), una lunga lista nella quale si menzionavano le centesime
addizionali di varie categorie sociali e, in una tavola annessa, gli etnici
relativi a comunità e tribù che dovevano versare una determinata somma
all’annona imperiale, in base all’estensione e alle caratteristiche fisiche
e giuridiche del proprio territorio. Lo studioso riteneva l’elenco
( 53 )Una proposta di ricostruzione del testo, con alcuni frammenti già pubblicati
in CIL, VIII, 10530 = 12552, 1127 + 1158 = 14280, 24608 a, 24609 a-b,
24610-24613, in ILAfr., 81 (da Kairouan) e 370 ed in ILTun., 894-897 fu tentata
da CH. SAUMAGNE, Un tarif fiscal au quatrième siècle de notre ère, Karthago, 1,
1950, pp. 109-200 (con bibliografia precedente e tavole dei singoli pezzi). I circa
80 frammenti dell’iscrizione, realizzata in blocchi di notevole dimensione sorretti
da capitelli, furono rinvenuti in vari punti di Cartagine, fra la collina della Byrsa e
la spiaggia, nel foro, in una cisterna vicino al mare, presso la basilica del Demerch
I, nella regione di Douar-ech-Chott e a Koudiat-el-Hobsia; un frammento fu rinvenuto
nella grande moschea di Kairouan, reimpiegato come base di colonna.
Saumagne riteneva che esistessero più copie di uno stesso regolamento, dipendenti
da due minute differenti, e proponeva di organizzare il testo in paragrafi: indicazione
dei cespiti d’entrata dell’annona, cifre globali (per circoscrizione fiscale) di
ciascun cespite, elenco alfabetico (all’interno della circoscrizione) delle varie categorie
di terre soggette ad imposta, indicazione del numero delle centurie e degli
iugera soggetti all’imposta, indicazione delle porzioni di terra soggette ad imposta
straordinaria.
( 54 )La cronologia è proposta da SAUMAGNE, Tarif, cit., pp. 127-128, 151-156
(secondo la P.L.R.E. I, p. 911 e T.D. BARNES, The new empire of Diocletian and Constantine,
Harvard 1982, p. 146 il tariffario sarebbe del 369 circa). Nel testo si farebbe
riferimento ad una dispositio Tiberiani (P.L.R.E., I, p. 911, Tiberianus nr. 2, cfr.
fr. 11), già nota da un testo del 385 (CJ, IX, 60), nella quale venivano indicate le
possessiones i cui proprietari dovevano ad limitem frumenta convehere. Il personaggio
viene identificato dallo stesso Saumagne e dagli autori della P.L.R.E. con C.
Annius Tiberianus, comes Africae nel 325-327 (P.L.R.E., I, pp. 911-912, C. Annius
Tiberianus, nr. 4, cfr. CTh., XII, 1, 15; 5). Sulla politica fiscale di Valentiniano I,
cfr. SAUMAGNE, Tarif, cit., pp. 133-147; P. ROMANELLI, Storia delle province romane
d’Africa, Roma 1959, pp. 595-596; A.H.M. JONES, The Later Roman Empire
284-602, Oxford 1964, pp. 146-148; A. PIGANIOL, L’empire chrétien (325-395),
Paris 1972 2 , p. 209; C. LEPELLEY, Les cités de l’Afrique romaine au Bas- Empire. I:
La permanence d’une civilisation municipale, Paris 1979, pp. 68, 101-102: è nota la
sua decisione di lasciare a disposizione delle comunità urbane e a quelle africane in
particolare solo 1/3 delle rendite (CTh., IV, 13, 7 del 7 settembre 374).

I Novenses di Cartagine e di Uchi Maius
riportasse le circoscrizioni fiscali in cui era divisa l’Africa del IV secolo,
con riferimento particolare alle province tetrarchiche di Zeugitania
e Byzacena ( 55 ), e che nella lista si operasse una distinzione fra fundi
imperiali o privati (frammenti 60-62) ( 56 ), territoria affidati a tribù
(frammento 63) ( 57 ), terre delle comunità urbane ( 58 ).
Organizzate su base geografica ( 59 ), le circoscrizioni avrebbero finito
per radunare centri limitrofi. Nel frammento 52, infatti, venivano
ricordati i [M]ascululita[ni] ( 60 ), i Simittense[s] ( 61 ), i [Thu]burni-
( 55 )La scissione della provincia severiana dell’Africa Proconsularis in Tripolitania,
Byzacena e Zeugitania fu decisa nel 294-298 secondo A. CHASTAGNOL, Les gouverneurs
de Byzacène et de Tripolitaine, AntAfr, 1, 1967, pp. 119-120, nel 297-298 per
W. SESTON, Dioclétien et la Tétrarchie. I: guerres et réformes (284-300), Paris 1946,
pp. 329-331, nel 303 secondo G. DI VITA-ÉVRARD, L. Volusius Bassus Cerealis, légat
du proconsul d’Afrique T. Claudius Aurelius Aristobulus, et la création de la province
de Tripolitaine, in L’Africa Romana, 2, Sassari 1985, pp. 162-177.
( 56 )Fr. 60: [fun]dus Arad[itanus / fun]dus Alfia[nus / fun]dus Aquae [---]. Fr.
61: [fund]us Caninia[nus / fundus] Ioven[---]. Fr. 62 [---]tan[--- /---]ianus [---/---]es
[---/---]ni [---/---]ani. Il [fun]dus Arad[itanus] del frammento 60 viene individuato
da SAUMAGNE, Tarif, cit., p. 129 nella piana del Fahs, non distante da Bou Arada:
una plebs fundi [---]itani è in CIL, VIII, 23022. I vari fundi ricordati nel frammento,
sempre secondo SAUMAGNE, Tarif, cit., p. 130, avrebbero fatto parte di
una circoscrizione fiscale e fondiaria simile a quelle note nella regione dei saltus fra
il II-III secolo, cfr. supra.
( 57 )SAUMAGNE, Tarif, cit., pp. 131-132. Le terre sono indicate come pars territorii
di un popolo.
( 58 )In generale SAUMAGNE, Tarif, cit., pp. 130-131. Il fatto che le città vengano
ricordate attraverso l’etnico, qualificherebbe come personale l’imposta percepita
sui membri di una res publica installati in un territorium pubblico. Anche le città
come i fundi erano raggruppati per circoscrizioni fiscali. Dal frammento 62 sembrerebbe
dedursi che la lista della comunità urbanizzate seguiva a quella dei fundi:
forse in una stessa circoscrizione le terre dei fundi si sommavano a quelle delle città.
( 59 )Per SAUMAGNE, Tarif, cit., pp. 127, 130-131 le proprietà soggette alla vectio
erano scelte pro proximitate e verosimilmente in base ai prodotti che ciascuna poteva
fornire all’annona.
( 60 )H. DESSAU in RE, XIV, 2, 1930, coll. 2064-2065, s.v. Moderna Henchir
Gergour, fra Sicca Veneria e Simitthus. Nella prima metà del I secolo vi è attestata
una comunità di Numidae con un conventus civium Roman(orum) (CIL, VIII,
15775, cfr. SAUMAGNE, Droit Latin, p. 111). Forse dipendente da Sicca Veneria
(LASSÈRE, Ubique populus, cit., p. 219), Masculula in seguito raggiunse probabilmente
l’autonomia.
( 61 )H. DESSAU, in RE, III, A, 1, 1927, coll. 143-144; TEUTSCH, Städtewesen,
cit., pp. 171-172; J.-M. LASSÈRE, Remarques sur le peuplement de la colonia Iulia
Augusta Numidica Simitthus, AntAfr, 16, 1980, pp. 27-44. Moderna Chemtou, colonia
Iulia Augusta Numidia Simitthus. La popolazione era composta in parte da
militari, in parte da indigeni che avevano ricevuto la cittadinanza romana.
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ANTONIO IBBA
ci[enses] ( 62 ) ed i [Thu]nusud[enses] ( 63 ), etnici relativi a comunità
della Numidia Hipponiensis settentrionale, fondate a non breve distanza
fra loro da indigeni e cittadini romani ( 64 ); una situazione
identica si percepisce nel cosiddetto “frammento c” ( 65 ) per Ululen-
[ses] ( 66 ), Uccunn[enses ?] ( 67 ), Vazaritan[i] ( 68 ), Zamense[s] ( 69 ) e Zufo-
( 62 )H. TREIDLER, in RE, VI, A, 1, 1936, col. 620; TEUTSCH, Städtewesen, cit.,
pp. 172-173. Moderna Henchir Sidi Ali Bel Kassem, fra Ghardimaou e Simitthus,
insediamento di veterani di Mario ed in seguito colonia augustea di veterani.
( 63 )H. TREIDLER, in RE, Suppl. VII, 1940, col. 1571; TEUTSCH, Städtewesen, cit.,
pp. 33, 119; DESANGES, Plinie l’Ancien, cit., p. 293; J. GASCOU, La politique municipale
de Rome en Afrique du Nord. II. Après la mort de Septime- Sévère, in ANRW, II, 10.2,
1982, p. 286. Odierna Sidi Meskine, 18 km a Sud-est di Simitthus. Nelle iscrizioni appare
la forma Thunusida o Thunusuda. Per SAUMAGNE, Droit latin, cit., p. 100 era un
insediamento dei veterani di Mario; non si può escludere che fosse un pagus di Sicca
Veneria o di Simitthus. Divenne in seguito colonia (CIL, VIII, 22193-22194).
( 64 )Si osservi un passo di Plinio il Vecchio, NH, V, 29: oppida civium Romanorum
XV ex quibus in mediterraneo dicenda ... Simittuense, Thunusidiense, Thuburnicense
... Si è già detto supra del convenutus di Masculula.
( 65 )CIL, VIII, 12552 c = ILPB, Carth., 23.
( 66 )Da Ululis secondo SAUMAGNE, Tarif, cit., p. 131, nota nr. 21. Forse identificata
da J. PEYRAS, Deux études de toponymie et de topographie de l’Afrique antique, AntAfr,
22, 1986, pp. 219-222; ID., Tell, cit., pp. 298, 354, 356 sulla riva destra dell’Oued
Tine, fra Thuccabori e Uccula; al contrario secondo M. KHANOUSSI-M. GHAKI,
Ulules: le nom d’Ellès dans l’Antiquité, B.C.T.H., n.s., 25 B, 1996-1998, p. 128,
da porre invece a Ellès, nella parte meridionale della Numidia Hipponiensis.
( 67 )Secondo SAUMAGNE, Tarif, cit., p. 131 nota nr. 21, seguito da PEYRAS, Toponymie,
cit., p. 222, il testo dovrebbe essere corretto in Ucculenses, questi ultimi gli
abitanti di Uccula Afrorum (moderna Hr. Douirat), sulla riva destra dell’Oued Tine,
fra Avedda, Tezaga e Ulula, cfr. CHR. COURTOIS in RE, VIII, A, 1, 1955, col. 546;
TISSOT, Géographie, cit., pp. 301-302; PFLAUM, Romanisation, cit., p. 99; L. MAURIN
- J. PEYRAS, Uzalitana. La région de l’Ansarine dans l’Antiquité, CT, 19, fasc. 75-76,
pp. 79-91; LEPELLEY, Notices, cit., p. 232; GASCOU, Après la mort de Septime-Sévère,
cit., pp. 290-291; PEYRAS, Tell, cit., pp. 163-168, 178, 233, 245-246, 263. Civitas
indigena fra II-III secolo, secondo Peyras era un municipium già nel II secolo, ipotesi
ben lungi dall’essere dimostrata.
( 68 )PFLAUM, Romanisation, cit., p. 106; PEYRAS, Toponymie, cit., p. 223; ID.,
Tell, cit., pp. 147-151, 176. Il centro viene localizzato da Peyras nell’agglomerato
di Henchir Bâjar, sulla riva sinistra dell’Oued Tine, non distante da Zufor e Ureu,
a Nord di Aulodes e Avedda (cfr. CIL, VIII, 14349: c[ivis] Vaz[---]). Per Peyras si
trattava di una civitas o di un municipium.
( 69 )Secondo PEYRAS, Toponymie, cit., pp. 223-225; ID., Tell, cit., pp. 96-101 si
tratterebbe di Zama Minor, a suo giudizio da localizzare a Sidi Abd-el-Basset, sulla
riva sinistra dell’Oued Tine, a Sud di Chiniava e Thizika, ad Oriente di Ureu.
CIL, VIII, 14343, cfr. 14344-14345, mostra una comunità romana, amministrata
da duoviri e fondata da Traiano o più verosimilmente da Marco Aurelio o Setti-

I Novenses di Cartagine e di Uchi Maius
ce[nses] ( 70 ): la critica si è divisa per una localizzazione di queste comunità
nell’Alto Tell Tunisino, nella valle dell’Oued Tine, o nella
parte meridionale della Numidia Hipponiensis, al confine con il pagus
Thuscae ( 71 ); sempre nella regione dell’Alto Tell vengono individuati
gli [---]pseta[ni] e gli [A]vedde[nses ?] del frammento 56 ( 72 );
nell’antico Byzacium, infine, lungo il litorale tunisino fra Neapolis o
Pupput, sul golfo di Hammamet, e Thapsus ( 73 ), vengono collocati
gli [U]zien[es] ( 74 ) e gli [U]zitt[enses] ( 75 ) del frammento 57, centri
non distanti dalla moderna Sousse ( 76 ).
mio Severo. Una Zama Regia, odierna Jâma, è stata individuata 35 km a Nord di
Mactaris, a non grande distanza da Ellès = Ululis (cfr. supra, nota 64): dunque nella
regione della Thusca: LEPELLEY, Notices, cit., p. 326; A. M’CHAREK, Inscriptions
découvertes entre Zama Regia (Henchir Jâma) et [Ma]rag(ui) Sara (Henchir Chaâr),
in L’Africa Romana, 9, Sassari 1992, p. 252; A. BESCHAOUCH, Zama, BSNAF,
1995, pp. 42-43; A. FERJAOUI, Recherches archéologiques et toponymiques sur le site
de Jama et dans ses alentours, CRAI, 2001, pp. 837-864. Va d’altronde ricordato
che BESCHAOUCH, Zama, cit., p. 43, fidando sulle indicazioni di Tolomeo, si dice
scettico riguardo l’esistenza di una qualsiasi Zama Minor.
( 70 )PEYRAS, Toponymie, cit., pp. 225-226; ID., Tell, cit., pp. 151-152 pone la
comunità a Bir Sfir o Sofouir, sulla sinistra dell’Oued Tine, poco a Sud di Vazari.
Lo studioso propone di correggere il frammento a in Zuforenses, d’onde un toponimo
Zufor / Zufora / Zufori.
( 71 )La circoscrizione della Thusca era un distretto fiscale creato dai Cartaginesi
lungo la Dorsale Tunisina, conservato dai Romani almeno sino al principato di Antonino
Pio, cfr. G. CH. PICARD, Civitas Mactaritana, Karthago, 8, 1957, pp. 8-14,
19-21; ID., L’administration territoriale de Carthage, in AA.VV., Mélanges d’archéologie
et d’histoire offerts à André Piganiol, éd. par R. Chevallier, Paris 1966, pp. 1257-
1262; G. PICARD-A. MAHJOUBI-A. BESCHAOUCH, Pagus Thuscae et Gunzuzi, CRAI,
1963, pp. 124-130.
( 72 )PEYRAS, Tell, cit., pp. 158-163, 178, 183. Moderna Henchir Bedd, sulla
riva destra dell’Oued Tine, fra Aulodes e Uccula. Municipio fondato da Settimio
Severo e Caracalla (GASCOU, Politique municipale, cit., p. 189: ILTun., 1206,
1211). Secondo Peyras, il toponimo dovrebbe correggersi in Medd(a). SAUMAGNE,
Tarif, cit., p. 130 era incerto sull’identificazione della città.
( 73 )J. DESANGES, Étendue et importance du Byzacium avant la création, sous Dioclétien,
de la province de Byzacène, CT, 11, fasc. 44, 1963, pp. 18-22; R. REBUFFAT,
Où étaient les Emporia?, Semitica, 39.2, 1990, pp. 112-115.
( 74 )Secondo SAUMAGNE, Tarif, cit., p. 131, nota 21, associabili agli Uzaenses,
cfr. ILTun., 148 da Msaken nella regione di Sousse.
( 75 )P. QUONIAM in RE, A, 2, 1967, coll. 1330-1332. Città situata 17 km a
Sud-ovest di Sousse, in località Henchir Makrceba, forse civitas stipendiaria facente
parte del pagus Gurzensis.
( 76 )Più incerta l’identificazione di altri etnici riportati sulla pietra: nel frammento
51 si ricordano i [S]ufer[itani] (dubbioso SAUMAGNE, Tarif, cit., p. 130) ed
43

44
ANTONIO IBBA
È quindi ragionevole supporre che anche gli etnici ricordati nel
“frammento a” ( 77 ), fossero caratterizzati da una contiguità geografica:
qui, accanto agli [---]ANI SE[---] ( 78 ), si ricordavano infatti gli[---]ulitani,
da intendersi verosimilmente come i [Numl]ulitani ( 79 ) della regione
di Téboursuk, i [---]cennenses o [---]nennenses, forse identificabili con i
Bencennenses ( 80 ), d’incerta localizzazione ma certamente limitrofi agli
Uchitani Maiores ( 81 ), infine i Mizeoterenen[ses] ( 82 ) di Bou Jelida, poco
i Thisipit[ani ?] o Thisibitani (cfr. TISSOT, Géographie, cit., p. 764; H. TREIDLER in
RE, VI, A, 1, 1936, col. 291) / Thisiritani; nel frammento 55 i Segisim[itani], i
Tiblet[ani?], i Ted[---]; nel frammento 53 i Tugumita[ni] e gli Ummann[enses]; nel
frammento 59 i Senet[---] e i Cicisi[---]; nel frammento 89 bis i Succur[enses].
( 77 )EE, V, 452 = VII, 153 = CIL, VIII, 10530 = 12552 a.
( 78 )Sittiani secondo Th. Mommsen (CIL, VIII, 10530 = EE, V, 452), SE o SL
secondo A. L. DELATTRE, Inscriptions de Carthage 1875-1882, Bull. ép. de la Gaule,
4, 1884, p. 209, nr. 282, e J. Schmidt (CIL, VIII, 12552 a).
( 79 )TISSOT, Géographie, cit., p. 765: moderna Henchir el-Matria, 15 km a
Nord Ovest di Thugga. Per GASCOU, Politique municipale, cit., pp. 161-162, 184
il pagus e la civitas di Numlulis (CIL, VIII, 26121) divennero municipium (26129)
forse durante il principato di Settimio Severo, per analogia con la storia istituzionale
di Thugga. In alternativa lo stesso Tissot proponeva i Titulitani da Tituli (moderna
Mahjouba, 55 km a Sud-sud-ovest di Sicca Veneria, al confine con Ammaedara), civitas
durante il III secolo, cfr. N. KALLALA, Civitas Titulitana: Mahjouba (Région du
Kef, au nord-ouest de la Tunisie), Africa, 17, 1999, pp. 87-95. Meno verosimile la
proposta di Th. Mommsen (CIL, VIII, 10530 = EE, V, 452) e Ch. Saumagne (Tarif,
cit., p. 131, nota nr. 21), che integravano in [Max]ulitani, dunque gli abitanti
della col[onia Iulia] Ind(ustria) o Ind(ulgentia) Ma[xula] (AE, 1949, 175 = 1948,
91), alle porte di Cartagine e non distante dal Capo Bon (cfr. TEUTSCH, Städtewesen,
cit., pp 45-47; GASCOU, Politique municipale, cit., p. 25; DESANGES, Plinie l’Ancien,
cit., pp. 220-221; LEPELLEY, Notices, cit., pp. 140-141).
( 80 )Se TISSOT, Géographie, cit., p. 765 (CIL, VIII, 10530 = EE, V, 452) pensava
ai Bencennenses, A.L. DELATTRE, Inscriptions latines de Carthage, Bull. ép. de la
Gaule, 6, 1886, p. 141 (CIL, VIII, 12552 a = EE, VII, 153) era alquanto perplesso
di fronte a questa lettura e propendeva per [---]nennenses, interpretati da SAU-
MAGNE, Tarif, cit., p. 130 come [Mi]nennenses (ipotesi già in ILTun., 894).
( 81 ) I Bencennenses dedicarono una base di statua alla Concordia Augusta in occasione
della deduzione della colonia di Uchi Maius nel 230 (CIL, VIII, 15447 =
D. SANNA, Contributo alla storia di Uchi Maius: la promozione istituzionale ed i
rapporti con la civitas Bencennensis nell’età di Severo Alessandro, in Uchi Maius 1,
cit., pp. 199-200). Il culto della Concordia è ben attestato in Africa, spesso legato
a centri confinanti che potevano aver intavolato delle discussioni sull’estensione
dei rispettivi territoria (J. TOUTAIN, Les cultes païens dans l’Empire romain. Les provinces
Latines, Paris 1907, vol. I, p. 419; J.R. FEARS, The Cult of Virtues and Roman
Imperial Ideology, in ANRW, II, 17.2, 1981, pp. 933-934): non è improbabile
che l’ampliatio della pertica Uchitanorum Maiorum al momento della deductio,
forse un mutamento nella condizione giuridica della terra controllata da ciascuna

I Novenses di Cartagine e di Uchi Maius
a Nord di Thignica, ed i nostri Oppidani No[venses]. Questa ipotesi troverebbe
ora conferma proprio nell’iscrizione di Henchir ed-Douâmis,
dove accanto agli Uchitani Maiores vengono ricordati i Novenses.
Non siamo purtroppo in grado di stabilire lo statuto di questo
centro urbano: per ragioni puramente formali, abbiamo già detto di
preferire una generica res publica a colonia ( 83 ). Sembrerebbe inoltre
da escludersi la formula [civitat]e Novensis, giacché presupporrebbe
un uso sostantivato dell’aggettivo, in sostituzione di Oppidum Novum,
ipotesi non praticabile per il ricordo degli Oppidani No[venses]
nel “tariffario del 370” ( 84 ). Si osservi, infine, che:
a) il titolo res publica era applicabile ad un qualsiasi agglomerato,
senza distinzioni di rango ( 85 );
b) il termine colonia era il più prestigioso fra i titoli cui poteva ambire
una comunità ( 86 );
c) le coloniae in questa parte dell’Africa furono dedotte solo nel III
secolo, dopo il 230 d.C. ( 87 ), quando ormai non si potrebbe più
pensare ad un pagus Uchitanorum Maiorum ( 88 );
delle due comunità ed un’eventuale gestione dei vectigalia della regione, preoccupassero
i Bencennenses e li spingessero a ribadire sul suolo di Uchi Maius l’amicizia
che legava le due comunità (SANNA, Uchi Maius, cit., pp. 192-196).
( 82 )N. FERCHIOU, Sur la frange de la pertica de Carthage: la gens Bacchuiana et
le municipium Miz(eoter) - Quelques inédites, CT, 27, fasc. 107-108, 1979, pp. 19,
22; LEPELLEY, Notices, cit., 1981, p. 258; GASCOU, Après la mort de Septime- Sévère,
cit., pp. 288-289: il sito è stato identificato a Bou Jelida, 19 km a Sud di Thignica
e a 20 km ad Ovest di Bisica Lucana. Municipium (AE, 1979, 651), fondato fra il
principato di Marco Aurelio e quello di Gordiano III (cfr. CIL, VIII, 12331).
( 83 )Cfr., supra.
( 84 )Cfr. supra. Anche gli Oppidonovenses di Mauretania Caesariensis (cfr. supra,
nota 61) confermerebbero l’uso del termine oppidum nell’etnico. Si osservi, infine,
che l’integrazione [civitat]e, come [colonia]e, occuperebbe sulla pietra uno spazio
minore rispetto a [rei publica]e e che l’uso di un genitivo Novensis impedirebbe
un’integrazione finale della l. 2: su[b + nome di un personaggio].
( 85 )GASCOU, Respublica, cit., pp. 383-398. Lo studioso rileva la sua attribuzione
a coloniae, municipia, civitates, pagi, vici etc. Il termine res publica indicava
semplicemente che una comunità possedeva una propria cassa pubblica e quindi
un’autonoma capacità di spesa.
( 86 )Sulle coloniae, cfr. FR. JACQUES – J. SCHEID, Roma ed il suo Impero. Istituzioni,
economia, religione, Milano 20033 , pp. 296, 305-310. Sarebbe quindi alquanto
insolito che in un’iscrizione un pagus precedesse una colonia, pur ricordando che il
testo troverebbe posto proprio nella comunità giuridicamente meno importante.
( 87 )Cfr. supra.
( 88 )Cfr. supra.
45

46
ANTONIO IBBA
d) le civitates erano per definizione delle comunità indigene autonome
preromane ( 89 ), dunque poco adatte a ricevere il toponimo
Oppidum Novum ( 90 ).
In conclusione, non ci nascondiamo che si potrebbero offrire altre
possibili integrazioni al testo rinvenuto a Henchir ed-Douâmis,
modificando alcuni dei presupposti riportati nelle pagine precedenti:
emerge in ogni caso l’attestazione durante il principato di una
nuova comunità nel triangolo compreso fra i corsi della Medjerda,
del Siliane e del Tessa, forse un antico oppidum civium Romanorum
sfuggito a Plinio il Vecchio ( 91 ), forse uno degli insediamenti “anonimi”
sinora individuati nella regione.
( 89 )J. GASCOU, EB, XIII, 1994, C 74, s.v. civitas; S. AOUNALLAH, Le Cap Bon, jardin
de Carthage. Recherches d’épigraphie et d’histoire romano-africaines (146 a.C. -
235 p.C.), Bordeaux 2001, pp. 172-173; JACQUES - SCHEID, Roma, cit., pp. 287-290.
( 90 )Si è già detto (supra) del campo semantico in cui veniva utilizzato l’aggettivo
Novensis, tipico delle fondazioni ex novo dei Romani. Si osservi inoltre che le
civitates dell’Alto Impero portavano solitamente un toponimo indigeno: solo durante
il Basso Impero, con la generalizzazione del termine civitas, apparvero degli
esempi “latini” come la civitas Faustinianensis, cfr. CL. LEPELLEY, La création de cités
nouvelles en Afrique au Bas-Empire: le cas de la civitas Faustinianensis, in
AA.VV., L’Afrique, la Gaule, la religion à l’époque romaine. Mélanges à la mémoire
de Marcel Le Glay, éd. par Y. Le Bohec (Coll. Latomus nr. 226), Bruxelles 1994,
pp. 288- 299.
( 91 )Cfr. supra.

FRANCO PORRÀ
NUOVI CIPPI A CAPANNA RINVENUTI IN SARDEGNA
Nella località denominata “Bidda Beccia” del Comune di Isili
sono stati rinvenuti i reperti nrr. 1, 2, 3, 4, 5, tutti molto vicini tra
loro, ai bordi di una radura risultato di lavori agricoli. Il reperto nr. 6,
invece, è un blocco inglobato in un muretto a secco nella località
“Genna Orani” nell’agro di Nurallao ( 1 ). Il muretto in questione costituisce
non solo confine tra proprietà diverse, ma anche tra i Comuni
di Isili a sud e Nurallao a nord (vd. cartina).
Questi rinvenimenti ci permettono di individuare nella località
“Bidda Beccia” una necropoli di età romana caratterizzata dalla presenza
di monumenti funerari per lo più inscritti e appartenenti alla
tipologia del cippo a capanna ( 2 ).
( 1 ) Questo materiale mi fu segnalato diversi anni fa dal dott. Michele Orrù, allora
laureando in Antichità romane, il quale, assieme al signor Antonio Serra, appassionato
conoscitore del territorio locale, mi accompagnò in una prima ricognizione
autoptica il 5 agosto 1995. A entrambi va il mio più caloroso ringraziamento.
Una seconda ricognizione fu effettuata successivamente il 23 luglio 1997 dallo
scrivente e dai docenti dell’Ateneo sassarese Attilio Mastino e Paola Ruggeri,
ugualmente accompagnati da Michele Orrù. Il materiale grafico e fotografico presente
in questo lavoro è stato realizzato da Salvatore Ganga.
( 2 ) Per altri documenti epigrafici provenienti da questa località e in generale dal
territorio di Isili vd. A.M. CORDA, Note di epigrafia dal territorio di Isili, SS XXX
(1992-1993), pp. 479-496 = ID., Note di epigrafia latina dal territorio di Isili, Quaderni
di epigrafia. Cattedra di epigrafia latina. Università degli studi di Cagliari 2
(1995), pp. 33-44. Nel testo che segue si propongono le seguenti abbreviazioni: IL-
Sard = G. SOTGIU, Iscrizioni latine della Sardegna (Supplemento al Corpus Inscriptionum
Latinarum, X e all’Ephemeris Epigraphica, VIII), I, Padova 1961; ELSard = G.
SOTGIU, L’epigrafia latina in Sardegna dopo C.I.L. X e l’E.E. VIII, ANRW, II, 11, 1,
Berlin-New York 1988, pp. 551-739; Inscr. Aq. = J.B. BRUSIN, Inscriptiones Aquileiae,
III, Udine 1993; NBAS = Nuovo Bullettino Archeologico Sardo. Le altre abbreviazioni,
ove non altrimenti specificato, sono quelle de “L’Année philologique”.

48
FRANCO PORRÀ
Cartina elaborata sulla base della tavoletta I.G.M.I. - Foglio 540 Sez. IV – Isili. Ai reperti nrr. 1-5 si
riferisce l’indicazione di molteplicità di ritrovamenti, al reperto nr. 6 l’indicazione di ritrovamento
isolato.

Nuovi cippi a capanna rinvenuti in Sardegna
1
Cippo a capanna in calcare bianco locale pertinente ad una tomba
a incinerazione di cui costituisce la parte superiore di chiusura. Il
monumento non è integro e consiste di due frammenti dei quali il
più grande poggiava tra le pietre di un muro a secco, il più piccolo,
invece, è stato rinvenuto nelle immediate vicinanze. Il manufatto riproduce,
in forma molto semplificata, una capanna parallelepipeda
con le pareti lisce e tetto a doppio spiovente con sporgenze sul fronte
e sui fianchi. Le superfici non presentano decorazioni a rilievo e
sono profondamente alveolate soprattutto nella parte frontale che
reca l’iscrizione; la lettura della linea 3 risulta pertanto difficile e impossibile
quella della probabile linea 4 (fig. 1).
Sul fondo è presente un profondo incavo di forma tronco-piramidale
a base rettangolare che rende evidente la funzione di coperchio
di cinerario del monumento in esame ( 3 ). L’accostamento dei due
frammenti recuperati consente di risalire alla misura sia della lunghezza
totale sia di quella dell’incavo poiché presenta tracce evidenti
della parete di fondo (vd. figg. 2 e 3).
Misure in cm: altezza 54; larghezza inferiore 56,5; larghezza superiore
67; profondità 70. Misure dell’incavo in cm: altezza 11; larghezza
base inferiore 42,5; larghezza base superiore 36.
L’iscrizione, incisa su campo aperto, è costituita da tre righe residue
con profonde linee di preparazione (fig. 4).
Dimensioni dello specchio epigrafico in cm: altezza 47; larghezza
56,5. Altezza delle lettere in cm: linea 1: 3,6; linea 2: 3,6-4,3; linea 3:
3,6-4,3. Interlinea: cm 2,5.
Il testo proposto è il seguente:
D(is) M(anibus)
Sulla Annonis (scil. filius)
pii[ssi]m(us) vixit .a.n(nis)
------
Si tratta di un’iscrizione funeraria introdotta dall’adprecatio agli
dei Mani ridotta alle due lettere iniziali, cui segue il nome del defunto
in caso nominativo, accompagnato dal patronimico espresso mediante
un cognomen.
( 3 ) Vd. in proposito G. TORE, Sedilo. I materiali archeologici. I. Rilievo funerario
in pietra, (Antichità sarde. Studi e ricerche. 4/I-V, 1996/1998), Sassari 1998, pp. 24,
nr. 42 (tav. IX, 42c), 25, nr. 45b (tav. X), 41-42.
49

50
FRANCO PORRÀ
Nelle iscrizioni funerarie del mondo romano l’uso dell’invocazione
ai Mani in sigla diventa comune dalla seconda metà del I secolo
d.C. ( 4 ). Per quanto riguarda la Sardegna non si conoscono tituli funerari
provvisti dell’adprecatio che siano cronologicamente databili
con certezza anteriormente alla fine del I secolo d.C. ( 5 ). All’interno
della produzione epigrafica sarda l’adprecatio ai Mani ricorre con notevole
frequenza (440 attestazioni su 558 valutabili, pari al 78,8%) ( 6 ).
L’invocazione ai Mani è seguita dal nome del defunto in nominativo,
il caso più attestato nelle iscrizioni funerarie pagane della Sardegna
romana ( 7 ).
Per quanto riguarda il nome del defunto, Sulla è un cognomen di
probabile origine etrusca ampiamente diffuso nel mondo romano ( 8 ).
( 4 ) Si veda in proposito M. SILVESTRINI, Cronologia, p. 217, nota 11 in Le epigrafi
romane di Canosa (a cura di M. Chelotti, V. Morizio, M. Silvestrini), II, Bari
1990 con bibliografia.
( 5 ) Le iscrizioni dei militari della cohors I Sardorum, un tempo considerate le
più antiche attestazioni sarde di questa formula, sono in realtà da collocarsi tra il
II e il III secolo d.C. Si vedano in proposito F. PORRÀ, Una nuova cronologia per la
cohors I Sardorum di stanza in Sardegna, AFMC n.s. XIII (1989) parte I, pp. 5-13;
ID., L’utilizzo delle fonti epigrafiche per la comprensione del mondo antico: i reparti militari
della Sardegna romana, in Tra Sardegna e Tunisia. Ciclo di lezioni e resoconti di
attività pratiche per un progetto di cooperazione tra l’Università degli Studi di Cagliari
e l’Institut National du Patrimoine di Tunisi (Cagliari 26 ottobre-6 novembre 1998),
Atti a cura di G. Sotgiu e A.M. Corda, Cagliari in c.d.s., pp. 99-104; A. MASTINO,
Le iscrizioni rupestri del templum alla Securitas di Tito Vinio Berillo a Cagliari, in
Rupes loquentes. Atti del Convegno internazionale di studio sulle iscrizioni rupestri
di età romana in Italia, Roma-Bomarzo, 13-15 ottobre 1989, Roma 1992, p. 566,
nota 29; ID., Le relazioni tra Africa e Sardegna in età romana, ASSard XXXVIII
(1995), p. 78, nota 396; P. RUGGERI, Aùstis: l’epitafio di Cn(aeus) Coruncanius
Faustinus, NBAS 4 (1987-1992), p. 160, nota 5.
( 6 ) Dato statistico che si evince nel recentissimo lavoro su questo tema di P.
Floris (La memoria dei defunti, in Storia della Sardegna antica, a cura di A. Mastino,
Nuoro 2005, p. 445).
( 7 ) Per i 374 testi sardi in cui l’invocazione ai Mani è seguita dal nome del defunto
è stato registrato che il nominativo ricorre nel 40,1% dei casi, il dativo nel
32,9%, il genitivo nel 6,4%, mentre nel 20,6% delle testimonianze la determinazione
del caso è incerta. Questi dati risultano in P. FLORIS, La memoria, cit., p. 446.
Anche in Africa si registra la prevalenza del nominativo in questa posizione; in
proposito A. MASTINO, Le relazioni, cit., p. 78.
( 8 )Si veda I. KAJANTO, The Latin Cognomina, Helsinki 1965, p. 106. È interessante
notare che a Fordongianus, località non lontana da Bidda Beccia, si registra
un’altra attestazione di tale cognomen; vd. in proposito G. SOTGIU, Arula dedicata ad
Esculapio da un L. Cornelius Sylla (Fordongianus, Forum Traiani), in Studi in onore
di Giovanni Lilliu per il suo settantesimo compleanno, Cagliari 1985, pp. 117-125.

Nuovi cippi a capanna rinvenuti in Sardegna
Anno, patronimico del defunto, è un cognomen di origine punica ( 9 ).
La filiazione è espressa secondo l’uso non romano del cognomen paterno
al genitivo ( 10 ).
Tra l’onomastica del defunto e l’indicazione incompleta del dato
biometrico ( 11 ) si registra la presenza del termine elogiativo piissimus
particolarmente presente nei tituli funerari latini ( 12 ).
2
Cippo a capanna a tetto displuviato in calcare bianco locale con
alveoli che rendono difficoltosa la lettura dell’iscrizione (fig. 5).
La faccia inferiore, quella posteriore e il colmo del tetto sono profondamente
scheggiati.
Nella parte anteriore è stato risparmiato un frontoncino triangolare
sul quale sono incise le lettere dell’adprecatio (vd. fig. 6). Al di
sotto di questo residua parte di uno specchio epigrafico ribassato incorniciato
da stretti listelli marginali.
In ciascun fianco sono evidenti due listelli verticali sporgenti, verosimilmente
rappresentazione di elementi strutturali, quasi a voler assicurare
una resa plastica più realistica della capanna (vd. fig. 7).
Misure in cm: altezza (residua) 47; larghezza 60,5; profondità 55.
Misure del frontoncino in cm: altezza 17; larghezza 53,5.
( 9 ) Per la diffusione e il significato del cognomen Anno nel Nord Africa si vedano
G. HALFF, L’onomastique punique de Carthage. Répertoire et commentaire, Karthago
XII (1963-1964), pp. 111-112; F. VATTIONI, Antroponimi fenicio-punici nell’epigrafia
greca e latina del Nord Africa, AION (archeol) I (1979), p. 164, nr. 41. Per l’attestazione
di detto elemento onomastico nella penisola iberica vd. A. TOVAR, Les
noms ibériques, in L’onomastique latine, Colloques internationaux du CNRS, n. 564
(Paris 13-15 octobre 1975), Paris 1977, p. 286.
( 10 )Con riferimento alle attestazioni sarde vd. A. MASTINO, Le relazioni, cit., p. 75
con puntualizzazioni bibliografiche sull’attestazione del fenomeno nelle aree galliche
e africane. Per quanto riguarda testimonianze nella Spagna romana vd. J. VIVES,
Inscripciones latinas de la España romana, Barcelona 1971, pp. 260-263.
( 11 )Dopo il termine vixit residua parte di due lettere, delle quali la prima è forse
il tratto superiore dell’asta obliqua sinistra di una A, mentre la successiva potrebbe
essere la parte superiore sinistra di una N.
( 12 )In proposito vd. CH. PIETRI, Inscriptions funéraires latines, in ID., Christiana
respublica. Eléments d’une enquête sur le christianisme antique, III, Rome 1997,
p. 1417. Per attestazioni nelle iscrizioni funerarie pagane della Sardegna cfr. P. FLO-
RIS, Riscoperta di un’iscrizione caralitana, AFLC n.s. XXI (2003), [2004], pp. 95-96.
Per iscrizioni cristiane vd. A.M. CORDA, Le iscrizioni cristiane della Sardegna anteriori
al VII secolo, Città del Vaticano 1999, p. 163, NOR003. Tra le epigrafi cosiddette
“false” cfr. CIL X, 1477*.
51

52
FRANCO PORRÀ
L’iscrizione si articola in quattro linee residue. Non si coglie la
presenza di linee guida.
Misure dello specchio epigrafico in cm: altezza (residua) 24; larghezza
45. Altezza delle lettere in cm: linea 1: 7,5-8,2; linea 2: 5,5-
6,2; linea 3: 5,5-6; linea 4: 5. Interlinea: cm 2-2,5.
Si propone la seguente lettura:
D(is) M(anibus)
Aino Libial(is)
f[ili..] p(ius) vi.x(it) .a.n(nis)
.L .XIII ++
------
Il titulus funerario è introdotto anche in questo caso dall’adprecatio
agli dei Mani ( 13 ).
Si propone, tenendo presente la struttura del testo precedente e
di quelli seguenti, di leggere il nome del defunto in caso nominativo
(Aino/Ainonis). Non si può comunque escludere che l’elemento onomastico
sia in dativo; in questo caso si dovrà pensare alla forma Ainus/Aini
( 14 ). Per entrambe le forme, come si potrà vedere dagli
esempi seguenti, il dittongo iniziale risulta indifferentemente nelle
varianti Ai e Ae.
Aeno figura in un’epigrafe proveniente dall’Africa Proconsolare ( 15 )
nella quale costituisce la denominazione del genio del municipium; secondo
i primi editori dell’iscrizione, L. Maurin e J. Peyras ( 16 ), il
nome appartiene ad una divinità indigena, la cui origine deve essere
ricercata nell’eredità culturale berbero-punica. L’elemento onomastico
Aeno risulta anche come antroponimo. Il cognomen è attestato nella
penisola italica a Comum ( 17 ), mentre ad Aeclanum si trova il gentilizio
Aenonius ( 18 ). A. Holder riferisce dell’esistenza di vascula da Treviri e
( 13 )Vd. la scheda 1, p. 50.
( 14 )Se si dovesse accettare la seconda possibilità, i termini concordati con il
nome del defunto dovrebbero essere intesi nel medesimo caso.
( 15 )AE 1973, 602 da Avedda, od. Hr. Bed.
( 16 )Uzalitana. La region de l’Ansarine dans l’antiquitè, in CT XIX (1971), pp. 70-
71.
( 17 )CIL V, 5342: Aenoni Aupledonis f.
( 18 )CIL IX, 1147: P. Aenonius Aviola.

Nuovi cippi a capanna rinvenuti in Sardegna
Friedberg (CIL XIII, 10010 48a-b ) recanti la forma Aeno(n) ( 19 ). Sono
attestati, inoltre, il toponimo Aenona (città della Dalmazia) e l’idronimo
Ainos/Aenus (affluente del Danubio) ( 20 ).
La forma Ainus/Aenus è presente in due iscrizioni urbane ( 21 ) e in
un titulus proveniente da Bracara Augusta (Lusitania) ( 22 ). Si registrano,
inoltre, diverse attestazioni del femminile Aina ( 23 ).
Il patronimico del defunto potrebbe essere Libial o Libialis e in entrambi
i casi si tratterebbe di un unicum assoluto. L’elemento onomastico
deve essere messo in relazione con il sostantivo Libia il quale, oltre
che come nome geografico ( 24 ), è attestato come antroponimo ( 25 ).
Sono note, inoltre, derivazioni da Libia tramite suffissi (Libiane in CIL
VI, 8641; Libicus in AE 1964, 94 da Roma) ( 26 ). La formazione del cognomen
come etnico tramite il suffisso –alis non è comune, giacché
il suffisso in questione era prevalentemente adoperato per nomi teofori
( 27 ), per quanto siano attestati raramente anche cognomina in –alis
derivanti da nomi di luogo (Orientalis, Fagutalis) ( 28 ). Il toponimo Libia
impone il riferimento immediato all’ampia regione geografica africana;
nondimeno si deve rilevare l’esistenza di una civitas stipendiaria di nome
Libia (od. Lena) nella provincia dell’Hispania Tarraconensis ( 29 ).
( 19 )Alt-celtischer sprachsatz, Leipzig 1896, III, c. 516. Per altro instrumentum
vd. CIL VII, 133620 (Londinium: AEN), XIII, 1001070 (Vichy: AIN), XIII,
100103022a/c (Pays de Guines: of(ficina) Aeni; Aini m[a(nu)]).
( 20 )Per entrambi si veda A. HOLDER, Alt-celtischer, cit., I, c. 71.
( 21 )CIL VI, 9367, 20272.
( 22 )CIL II, 2447 = 5609.
( 23 )Vd. CIL XIII, 4609 (Scarponna, Gallia Belgica), IX, 6163 (Taranto: Domitia
Aina), AE 1968, 356 (Pesch, Germania Inferior), J. VIVES, Inscripciones, cit.,
2613 (Villalcamjo, Zamora, Hispania Tarraconensis: Aine). Si veda, inoltre, la forma
Ena in AE 1991, 735 (Rifreddo, Cuneo).
( 24 )Vd. PW, XIII, 1 (1926), cc. 149-202, nr. 2, s.v. Libye; K. ZIMMERMANN,
Der neue Pauly. Enzyklopädie der Antike, 7 (1999), cc. 151-152, s.v. Libyes, Libye.
( 25 )Si vedano le seguenti attestazioni, tutte per individui di sesso femminile:
CIL VI, 7577, 16282, 18518, 21435 (Roma); Inscr. Aq. III, 3533 (Aquileia).
( 26 )Per un Gemi[nius?] Libia[nus?] da Aquileia si veda AE 1975, 411l.
( 27 )Cfr. I. KAJANTO, Latin Cognomina, cit., pp. 55, 107.
( 28 )Per Orientalis cfr. I. KAJANTO, Latin Cognomina, cit., pp. 45, 204; per Fagutalis
si vedano invece le pp. 50, 184, 215 della stessa opera.
( 29 )Per lo status di civitas stipendiaria vd. PLIN., N. h., III, 3, 24. Si vedano,
inoltre, DE, IV, pp. 946-947, s.v. Libia e 947, s.v. Libienses con riferimenti bibliografici;
A. HOLDER, Alt-celtischer, cit., II, c. 205, ss.vv. Libia, Libienses.
53

54
FRANCO PORRÀ
Si registra nel testo la presenza dell’espressione pius vixit, frequentemente
attestata nell’epigrafia funeraria della Spagna e dell’Africa ( 30 ).
Nella linea 4 il numerale indicante gli anni vissuti dal defunto,
sessantatré ( 31 ), è seguito da due lettere non identificabili con certezza
che potrebbero comunque essere FC, PC, PO. Pertanto i pertinenti
scioglimenti potrebbero essere rispettivamente f(aciendum)
c(uravit), p(onendum) c(uravit), po[suit] ( 32 ).
3
Cippo a capanna in calcare bianco locale fortemente mutilo. Residua
anteriormente la sporgenza della falda destra del tetto; inferiormente,
in quel che resta di un frontoncino triangolare, si individuano
le lettere dell’adprecatio e nell’estremità destra è incisa una
palmetta stilizzata (figg. 8, 9 e 10).
Misure in cm: altezza (residua) 39; larghezza (residua) 57,5; profondità
(residua) 38.
Misure dello specchio epigrafico residuo in cm: altezza 20; larghezza
35. Altezza delle lettere in cm: linea 1: 8,2.
Il testo è il seguente:
D(is) M(anibus)
------?
Lo stato del supporto non permette di conoscere lo sviluppo del
testo dell’iscrizione, la cui natura funeraria è comunque dimostrata
dalla presenza delle lettere DM, sigla dell’adprecatio agli dei Mani.
Non è comunque da escludere che queste ultime costituissero la to-
( 30 )In proposito vd. R. CAGNAT, Cours d’épigraphie latine, Paris 19144 , p. 283; P.
BATTLE HUGUET, Epigrafia latina, Barcelona 19632 , p. 73; J.M. LASSÈRE, Recherches sur
la chronologie des épitaphes païennes de l’Africa, AntAfr 7 (1973), pp. 126-127. In
Sardegna questa espressione non è particolarmente diffusa. Si vedano le iscrizioni
CIL X, 7671 da Karales, CIL X, 7846 = ELSard, C76a, p. 662 da Uselis, ELSard,
E27, p. 625 e add. E27, p. 671 da Turris Libisonis.
( 31 )Le lettere dell’indicazione biometrica sono parzialmente evanide e in particolare
sono di lettura difficile nella linea 3 la X di vix(it), la A e la N di an(nis) e
nella linea successiva la L e la X del numerale LXIII.
( 32 )I tre verbi facere, ponere e curare sono normalmente impiegati nell’epigrafia
funeraria per sottolineare la dedica del monumento funebre. Per attestazioni di faciendum
curavit, ponendum curavit o del solo verbo ponere nelle iscrizioni funerarie
della Sardegna romana si veda P. FLORIS, Le iscrizioni funerarie pagane di Karales,
Cagliari 2005, pp. 616-617 e note 331 e 333.

Nuovi cippi a capanna rinvenuti in Sardegna
talità del testo dell’epigrafe, ipotesi suffragata dalla grandezza dei caratteri.
In tal caso, come è stato già affermato ( 33 ), nel cippo potrebbe
vedersi un prodotto non finito oppure un segnacolo funerario
anonimo.
Come è stato già detto, si coglie nell’angolo destro del frontoncino
un simbolo stilizzato che potrebbe corrispondere ad una palmetta ( 34 ).
La palma non costituisce una novità per l’epigrafia funeraria di
questa zona; si possono citare, infatti, le due attestazioni di Isili e
della vicina Nuragus ( 35 ).
4
Cippo a capanna in calcare bianco locale anepigrafe fortemente
mutilo (fig. 11). Il reperto presenta su un lato e sulla falda residua del
tettuccio un’interessante decorazione tendente, probabilmente, a riprodurre
in modo naturalistico le abitazioni locali (figg. 12 e 13) ( 36 ).
( 33 )Si vedano L. GASPERINI, Ricerche epigrafiche in Sardegna (II), L’Africa romana.
Atti del IX convegno di studio, Nuoro, 13-15 dicembre 1991, a cura di A. Mastino,
Sassari 1992, pp. 581-583; G. TORE, Sedilo, cit., pp. 26-27; R. ZUCCA, Ula
Tirso. Un centro della Barbaria sarda, Dolianova 1999, p. 73.
( 34 )Per il significato della palma nel mondo culturale pagano vd. F. CUMONT,
Recherches sur le symbolisme funéraire des Romains, Paris 1942, pp. 481-482. Per il
mondo cristiano vd. P. BRUUN, Symboles, signes et monogrammes, in Sylloge inscriptionum
Christianarum veterum Musei Vaticani, curante Henrico Zilliacus, I:
2, Helsinki 1963, pp. 142-143.
( 35 )Rispettivamente ILSard, 173 e A. TARAMELLI, VIII. Nuragus. Tomba romana
nella necropoli di Valentia, NSA (1903), p. 536. Per altre attestazioni in iscrizioni
funerarie pagane dell’isola si vedano G. SOTGIU, Le iscrizioni dell’ipogeo di
Tanca di Borgona (Portotorres, Turris Libisonis), Roma 1981, p. 34, nr. 15; R.
ZUCCA, Le massae plumbeae di Adriano in Sardegna, L’Africa romana. Atti dell’VIII
convegno di studio, Cagliari, 14-16 dicembre 1990, a cura di A. Mastino, Sassari
1991, p. 825 e nota 119; A.M. COSSU, Iscrizioni di età romana dal Barigadu,
L’Africa Romana. Atti del X convegno di studio, Oristano, 11-13 dicembre 1992, a
cura di A. Mastino e P. Ruggeri, Sassari 1994, p. 983; P. FLORIS, Le iscrizioni funerarie,
cit., p. 691. Per la presenza della palma nelle iscrizioni cristiane della Sardegna
cfr. A.M. CORDA, Il simbolismo nelle iscrizioni paleocristiane della Sardegna:
alcune note, in La Sardegna paleocristiana tra Eusebio e Gregorio Magno. Atti del
Convegno Nazionale di Studi, Cagliari 10-12 ottobre 1996, Cagliari 1999, p. 56
(indice key word in context) e L. GASPERINI, Olbiensia epigraphica, in Da Olbìa ad
Olbia. 2500 anni di storia di una città mediterranea. Atti del Convegno internazionale
di Studi, Olbia, 12-14 maggio 1994, a cura di A. Mastino e P. Ruggeri, Sassari
1996, pp. 311-312.
( 36 )Per altri esempi di cippi che riproducono strutture architettoniche vd.
A.M. COSSU, Iscrizioni di età romana, cit., pp. 988, nr. 7, 991, nr. 8.
55

56
FRANCO PORRÀ
Nel lato si notano quattro fasce rettilinee a rilievo rappresentanti
verosimilmente elementi della struttura portante.
Per tutta la lunghezza del lato si coglie un’abrasione causata sicuramente
dal vomere di un aratro quando il cippo era interrato
(figg. 12 e 13).
Il tetto, di cui rimane un unico spiovente, è coperto da file di embrici
sovrapposti scolpiti nella pietra (vd. figg. 13 e 14).
Misure in cm: altezza 45 (residua); larghezza 37,5 (residua); profondità
72,5.
Per quanto riguarda la totale assenza di testo sul cippo, le spiegazioni
possibili potrebbero essere diverse. Si potrebbe pensare, infatti,
che il cippo sia uno scarto di bottega incompiuto oppure che vi fosse
un epitafio non inciso, ma dipinto e che quindi le lettere siano
scomparse ( 37 ). Una terza possibilità è che l’assenza di scrittura sia
voluta e imputabile ad un costume locale poco propenso all’uso della
scrittura ( 38 ).
5
Cippo a capanna in calcare bianco locale anepigrafe ( 39 ) mutilo
sul lato destro (figg. 15 e 16). La parte inferiore reca traccia di due
incavi poco profondi (vd. fig. 17). Questo dato può permettere di
ipotizzare che il cippo fosse destinato a coprire una tomba con due
scomparti ( 40 ).
Misure in cm: altezza 51; larghezza 54; profondità 72,5.
6
Cippo a capanna in calcare bianco locale reimpiegato in un muretto
a secco in località “Genna Orani”, nel territorio di Nurallao.
Del monumento residua la parte superiore e sono identificabili
gli spioventi del tetto, sotto il quale si trova il campo epigrafico inscritto
(vd. fig. 18).
( 37 )Cfr. R. ZUCCA, Ula Tirso, cit., p. 60.
( 38 )Per questo atteggiamento si veda A. MASTINO, Analfabetismo e resistenza:
geografia epigrafica della Sardegna, in L’epigrafia del villaggio, a cura di A. Calbi, A.
Donati e G. Poma, Faenza 1993, pp. 457-536.
( 39 )Per l’assenza di testo vd. la scheda precedente.
( 40 )Per un altro cippo avente anche la funzione di coperchio di cinerario vd. la
scheda 1.

Nuovi cippi a capanna rinvenuti in Sardegna
Misure in cm: altezza (residua) 35,5; larghezza (residua) 44,5.
L’iscrizione, mutila su entrambi i lati e inferiormente, è incisa
senza l’ausilio di linee di preparazione e si articola su tre righe residue
(vd. fig. 19).
Dimensioni dello specchio epigrafico in cm: altezza (residua) 27;
larghezza (residua) 35. Altezza delle lettere in cm: linea 1: 5,8-6,4;
linea 2: 4-4,6; linea 3: 2,5 (residua). Interlinea: ll. 1-2: cm 6; ll. 2-3:
cm 1,4.
Il testo proposto è il seguente:
D(is) M(anibus)
[---]nius Cra.c.i.u[s ---]
[---] .f.i.l.i.u[s ---]
------
Si tratta di un’iscrizione funeraria introdotta dall’adprecatio agli
dei Mani.
Viene ricordato un defunto di sesso maschile, del cui nome in
caso nominativo sopravvivono le lettere finali del gentilizio (NIVS) e
quelle iniziali del cognomen (CRACIV).
Per quanto riguarda il primo elemento onomastico, va notato che
i gentilizi terminanti in –nius sono numerosissimi e pertanto risulta
ardua una pertinente integrazione ( 41 ).
Passando al secondo elemento onomastico, W. Schulze riferisce dell’antroponimo
Cracial attestato in epigrafi etrusche che ricollega alle
forme latine Gracius e Craccius provenienti rispettivamente dall’area
iberica ed elvetica ( 42 ). Inoltre un’attestazione di Gracius proviene dalla
località di Enzen nella Germania Inferior (CIL XIII, 7901) ( 43 ).
( 41 )Cfr. in proposito H. SOLIN-O. SALOMIES, Repertorium nominum gentilium
et cognominum latinorum, Hildesheim-Zürich-New York 19942 , pp. 244-260.
( 42 )W. SCHULZE, Zur Geschichte lateinischer Eigennamen (1904). Mit einer Berichtungsliste
zur Neuausgabe von Olli SALOMIES, Darmstadt 1991, pp. 172-173.
( 43 )Per l’alternanza delle lettere C (Cracius) e G (Gracius), fenomeno assai comune
nell’epigrafia latina, vd. V. VÄÄNÄNEN, Introduzione al latino volgare, Bologna
1982 3 , p. 113; P. COLAFRANCESCO, La lingua latina nelle iscrizioni del tardo impero, in
Le iscrizioni dei cristiani in Vaticano. Materiali e contributi scientifici per una mostra
epigrafica, a cura di I. di Stefano Manzella, Città del Vaticano 1997, p. 115; G. LU-
PINU, Contributo allo studio della fonologia delle iscrizioni latine della Sardegna paleocristiana,
in La Sardegna paleocristiana tra Eusebio e Gregorio Magno. Atti del Convegno
Nazionale di Studi, Cagliari 10-12 ottobre 1996, Cagliari 1999, p. 255, nr. 14;
ID., Latino epigrafico della Sardegna. Aspetti fonetici, Officina linguistica, III, 3
(2000), pp. 57-58; P. FLORIS, Le iscrizioni funerarie, cit., p. 680.
57

58
FRANCO PORRÀ
Nella terza linea è riconoscibile il termine filiu[s] da attribuire al
defunto o ad un eventuale dedicante dell’epitafio.
Considerazioni conclusive
Come si è potuto notare tutti i documenti esaminati appartengono
alla particolare tipologia del cippo a capanna con tetto displuviato.
Si tratta di un tipo di monumento legato al rito funerario dell’incinerazione
che, come dice lo stesso nome utilizzato in Sardegna per
essi ( 44 ), riproduce più o meno schematicamente nelle sue fattezze le
strutture di un’abitazione. I sei reperti esaminati si aggiungono a quelli
che sono stati individuati nell’area centro occidentale dell’isola ( 45 ).
Fuori dalla Sardegna si conoscono monumenti dotati di caratteristiche
simili in diverse aree geografiche. I “cippi a casetta” sono attestati
in ambito etrusco senza soluzione di continuità dal IV secolo
a.C. al I secolo d.C. Nell’area gallica le cosiddette stèles maisons sono
presenti per un arco di tempo che va dal I secolo d.C. al III. Infine,
nella penisola iberica, e più precisamente nella Lusitania, sono da registrare
dei monumenti analoghi definiti pedras formosas ( 46 ). Recentemente
la tipologia in questione è stata oggetto di analisi da parte
di G. Tore e R. Zucca. Dal primo il cippo a capanna è stato messo
in relazione con l’architettura funeraria punica del Capo Bon e con
le cassette-cinerari con coperchio a tettuccio presenti in contesti tardo-punici
a Cartagine, Karales e Sulci, ritenendo meno probabili i
legami con le aree etrusca e celtica ( 47 ). Il secondo, invece, privilegia
il collegamento con il mondo gallo-romano e soprattutto con le produzioni
ispano-romane della regione degli Asturi ( 48 ).
Analizzando i monumenti si coglie che tutti sono realizzati nel
calcare locale ( 49 ). Questo fatto permette di ipotizzare l’esistenza in
( 44 )Come si vedrà più avanti monumenti dotati delle medesime caratteristiche
presenti in altre zone del Mediterraneo occidentale sono denominati in modo diverso
dagli studiosi moderni, mentre è sconosciuto il loro nome antico.
( 45 )Si veda da ultimo A.M. COSSU, Iscrizioni di età romana, cit., pp. 973-1011
(specialmente pp. 1001-1003).
( 46 )Per una trattazione sull’origine della tipologia vd. A.M. COSSU, Iscrizioni di
età romana, cit., p. 1003.
( 47 )G. TORE, Sedilo, cit., p. 115.
( 48 )R. ZUCCA, Ula Tirso, cit., p. 58.
( 49 )Nella località Aisara del Comune di Isili si trovano delle cave di questo materiale.
Il toponimo Aisara è posto ipoteticamente in relazione da Attilio Mastino (in
A. MASTINO-P. RUGGERI, La romanizzazione dell’Ogliastra, Sacer, Anno VI, n. 6

Nuovi cippi a capanna rinvenuti in Sardegna
loco di botteghe di lapicidi atte a soddisfare la committenza indigena
( 50 ).
Quattro dei cippi esaminati sono inscritti (nrr. 1, 2, 3, 6), mentre
due sono anepigrafi (nrr. 4, 5). Tutti i tituli sono frammentari: uno
presenta solamente l’invocazione agli dei Mani (nr. 3), mentre, per
quanto riguarda gli altri, residua sempre la parte iniziale del testo. Le
epigrafi, tutte di carattere funerario, sono introdotte dall’adprecatio
agli dei Mani, sempre proposta in sigla (DM). L’onomastica dei defunti
per i nrr. 1 e 2 consiste nel cognomen in caso nominativo (anche
se per il nr. 2 non può essere esclusa la possibilità di un dativo) ( 51 ) seguito
dal patronimico di tipo non romano consistente in un cognomen
in genitivo ( 52 ). Nell’iscrizione nr. 6 sopravvivono i due elementi onomastici
nomen e cognomen, per quanto non si possa escludere che nella
lacuna iniziale fosse presente, oltre le prime lettere del gentilizio, anche
il praenomen. I duo nomina permettono, comunque, di collocare il
defunto in uno stadio più avanzato del processo di romanizzazione.
Per quanto riguarda la condizione giuridico-sociale degli individui
menzionati nelle iscrizioni nrr. 1, 2 e 6, per i primi due la formula
onomastica (cognomen accompagnato dal patronimico) permette di
pensare che si tratti di peregrini di condizione non servile; per quello
dell’iscrizione nr. 6 i duo nomina consentono di prendere in considerazione
lo status di cittadino romano o in alternativa quello di liberto.
Passando alla struttura dei tituli, si rileva in due casi (nrr. 1 e 2)
la presenza dei termini elogiativi pii[ssi]m(us) e p(ius) riferiti ai defunti
( 53 ). In entrambe le iscrizioni l’elogium precede l’indicazione
(1999), p. 20 e nota 43) con la popolazione degli Aisaronensioi di sicura origine
etrusca ricordata da PTOL. III, 3, 6.
( 50 )Cfr. R. ZUCCA, Le iscrizioni latine del martyrium di Luxurius (Forum Traiani-Sardinia),
Oristano 1988, p. 49; ID., Le persistenze preromane nei poleonimi e negli
antroponimi della Sardinia, L’Africa romana. Atti del VII convegno di studio, Sassari,
15-17 dicembre 1989, a cura di A. Mastino, Sassari 1990, p. 667 e nota 73. Per
considerazioni generali sulle cave e le officine epigrafiche in età romana cfr. G.C.
SUSINI, Epigrafia romana, Roma 1982, pp. 62-68.
( 51 )Sulla diffusione dei casi seguenti l’invocazione ai Mani vd. supra la scheda 1.
( 52 )Si tratta del sistema onomastico più diffuso nell’Impero romano presso le
popolazioni indigene. Si vedano in proposito F. JACQUES-J. SCHEID, Roma e il suo
Impero. Istituzioni, economia, religione, Roma-Bari 19992 , p. 269; A.M. COSSU,
Iscrizioni di età romana, cit., p. 976, nota 20.
( 53 )Sull’uso epigrafico dell’elogium, diffusosi dalla metà del I secolo d.C. nei tituli
funerari di individui di condizione sociale non elevata, vd. CH. PIETRI, Inscriptions,
cit., in ID., Christiana, cit., p. 1415 con bibliografia.
59

60
FRANCO PORRÀ
biometrica, del tutto incompleta nel primo caso, e limitata al numero
degli anni vissuti nell’iscrizione nr. 2.
Lo stato frammentario dei testi impedisce di cogliere la presenza
certa di un dedicante, figura molto comune nell’epigrafia funeraria
della Sardegna romana ( 54 ). Tale figura non può comunque essere
esclusa nelle iscrizioni nr. 2 e nr. 6. Nella prima in virtù delle lettere
FC, PC o PO che sono da abbinare ad una volontà di dedica. Nella
seconda per la presenza del termine filiu[s] che potrebbe essere riferito
al figlio del defunto nel suo ruolo di dedicante il monumento.
L’esame paleografico permette di stabilire innanzitutto una realizzazione
ascrivibile a mani diverse. Il testo nr. 1 è redatto in capitale
non monumentale con l’ausilio di linee guida e per quanto riguarda
le lettere si individuano le L (l. 2) il cui braccio è assai corto, obliquo
e si collega all’asta verticale prima della sua estremità inferiore,
una A senza traversa (Annonis, l. 2), una P caudata (l. 3). L’iscrizione
nr. 2 presenta caratteri propri della capitale monumentale con una O
tonda (l. 2), una B con occhiello inferiore maggiore di quello superiore
(l. 2), una A priva di traversa (Libial, l. 2) e una F caudata (l. 3). Il
testo nr. 6 mostra invece caratteri da capitale meno monumentale,
una V (la prima della l. 2) con l’asta sinistra un po’ più sviluppata
della destra, una R (l. 2) con apicatura nell’estremità inferiore dell’asta
verticale, infine una A priva di traversa (l. 2).
Sulla base degli elementi esaminati si può avanzare una proposta
cronologica. Per quanto riguarda la tipologia monumentale, va evidenziato
che ci troviamo davanti a reperti che non sono stati ritrovati in occasione
di scavi archeologici, fatto che impone, quindi, di privilegiare i
dati testuali ( 55 ). Nondimeno la connessione dei cippi a capanna con il
rito dell’incinerazione permette di restringere l’arco cronologico al periodo
compreso tra il I e il II secolo d.C. ( 56 ). Tra gli elementi interni ai
testi uno dei più rilevanti è la presenza dell’invocazione agli dei Mani in
sigla. Come si è precedentemente osservato, tale espressione non è attestata
con certezza in Sardegna prima della fine del I secolo d.C. D’altra
parte, il fatto che l’adprecatio risulti presente in tutti e quattro i monumenti
inscritti permette di escludere che essi siano da collocare nella
( 54 )Vd. in proposito P. FLORIS, La memoria, cit., p. 446.
( 55 )Sugli elementi interni dei testi epigrafici si fonda ugualmente la proposta
cronologica avanzata da A.M. Cossu (Iscrizioni di età romana, cit., p. 1002) per i
cippi a capanna del Barigadu.
( 56 )Cfr. M. PERRA, Nuove scoperte epigrafiche dal territorio di Samugheo, L’Africa
romana. Atti del X convegno di studio, Oristano, 11-13 dicembre 1992, a cura di
A. Mastino e P. Ruggeri, Sassari 1994, p. 1017 e nota 15.

Nuovi cippi a capanna rinvenuti in Sardegna
fase iniziale della diffusione di tale moda epigrafica e che, anzi, siano da
porre nel momento della sua massima accettazione ( 57 ). L’ipotesi cronologica
più attendibile, quindi, sembra essere quella che pone nell’ambito
del II secolo d.C. i reperti presi in esame. D’altra parte l’elogium ( 58 )
e la struttura onomastica composta di cognomen e patronimico non
mettono in discussione la suddetta proposta cronologica ( 59 ).
L’analisi del dato onomastico permette di avanzare l’ipotesi che il
materiale umano citato nei cippi a capanna non sia di origine indigena
e di prendere in considerazione aree geografiche di provenienza
esterne alla Sardegna.
Interessanti le considerazioni che possono scaturire dall’esame dell’onomastica.
Il patronimico Anno (nr. 1) è un cognomen di origine
punica e come tale è giustificata la sua presenza in Sardegna, così
come in ambito nord-africano e iberico ( 60 ). Le varianti proposte per il
nome del defunto del testo nr. 2 Aino/Ainus sembrano riportare per lo
più ad area celtica ( 61 ). Nella medesima iscrizione figura il patronimico
Libial/Libialis, un unicum, per cui si può fare riferimento al cognomen
Libia, attestato nella penisola italica come antroponimo, mentre
come nome geografico rimanda non solo all’Africa, ma anche alla penisola
iberica. Infine, il dato onomastico presente nel titulus nr. 6
(Cracius), oltre che da collegare con l’area culturale etrusca, permette
di stabilire relazioni con regioni dell’Europa centro-occidentale.
Dopo aver passato in rassegna le diverse possibilità si può evidenziare
che i collegamenti con la penisola iberica sono giustificati da differenti
elementi come la tipologia monumentale e il dato onomastico relativo a
diversi individui (Aino/Ainus, Cracius, Libial, Anno). Nondimeno alcuni
di questi stessi elementi onomastici (Aino/Ainus e Cracius) e il dato monumentale
permettono di ipotizzare connessioni anche con l’area galli-
( 57 )Si vedano in proposito F. PORRÀ, Una nuova cronologia, cit., p. 6; ID.,
L’utilizzo delle fonti epigrafiche, cit., p. 101.
( 58 )Gli aggettivi elogiativi iniziano a comparire negli epitafi latini dalla metà
circa del I secolo d.C. e con il tempo divengono un elemento sempre più diffuso
nel linguaggio epigrafico funerario. In proposito si vedano G.C. SUSINI, Epigrafia
romana, cit., pp. 101-102; F. PORRÀ, Una nuova cronologia, cit., p. 10, nota 17;
ID., L’utilizzo delle fonti epigrafiche, cit., p. 101.
( 59 )L’uso del cognomen seguito da filiazione espressa mediante nome unico in
genitivo è attestato in Sardegna per tutta l’età imperiale e in particolare nelle zone
interne per i primi due secoli. Si veda A. MASTINO, Le relazioni, cit., pp. 74-75.
( 60 )Cfr. la nota 9 della scheda 1.
( 61 )Si veda, però, la forma Aeno attestata come teonimo in Africa Proconsolare
(cfr. supra la scheda 2).
61

62
FRANCO PORRÀ
ca, così come per l’onomastica (Anno, Aino, Libial) e la tipologia del
monumento non si possono escludere legami con l’Africa.
Pur non scartando la possibilità di rapporti con le aree galliche e
africane, sembra particolarmente degna di considerazione la connessione
dei documenti in esame con la penisola spagnola, giustificata
anche dalla presenza di elementi iberici nell’isola in età imperiale.
Sappiamo, infatti, che una coorte dei Lusitani, forse la VII ( 62 ), fu
stanziata ad Augustis, l’odierna Austis, nella prima metà del I secolo
d.C. ( 63 ). Infatti un’iscrizione rinvenuta in questo centro, precisamente
nella località di Perda Litterada, databile nei decenni iniziali
del I secolo d.C., menziona un Ubasus Chilonis filius Niclinus tubicen
della coorte ( 64 ); Austis ha restituito documentazione epigrafica
relativa anche a civili di origine lusitana ( 65 ), il che fa pensare che accanto
al centro militare si fosse sviluppato un insediamento civile
per i familiari dei soldati e i veterani ( 66 ).
Alla coorte in questione è stato attribuito il merito di aver importato
nell’isola il culto della dea Atecina, divinità celtica venerata nella
penisola iberica, ove era identificata con Proserpina ( 67 ). Il nome
della dea, infatti, è attestato in una stele di trachite oggi nel Museo
Archeologico Nazionale di Cagliari ( 68 ).
( 62 )Per la coorte in questione cfr. da ultimo A. IBBA, L’esercito e la flotta, in Storia
della Sardegna antica (a cura di A. Mastino), Nuoro 2005, p. 395.
( 63 )R. ZUCCA (Neoneli-Leunelli. Dalla civitas Barbariae all’età contemporanea,
Neoneli 2003, p. 32; Gli oppida e i populi della Sardinia, in Storia della Sardegna
antica, a cura di A. Mastino, Nuoro 2005, p. 312) ha proposto che Augusto tra il
6 e il 14 d.C. avesse costituito un presidio di soldati lusitani ad Austis per fronteggiare
i torbidi che in quel periodo si verificarono in Sardegna.
( 64 )CIL X, 7884; A. IBBA, L’esercito, cit., p. 395, invece di Ubasus propone Isasus
come già Y. LE BOHEC, La Sardaigne et l’armée romaine sous le Haut-Empire,
Sassari 1990, pp. 109-110, nr. 7.
( 65 )Vd. il Caturo che compare in AE 1978, 376.
( 66 )Vd. in proposito R. ZUCCA, Neoneli, cit., p. 32.
( 67 )Vd. A. BALIL, En torno a las relaciones de Cerdeña e Hispania en la epoca romana,
SS XIV-XV (1955-57), Parte II, pp. 130-133; J.M. BLAZQUEZ MARTINEZ,
Religiones Primitivas de Hispania. I. Fuentes literarias y epigraficas, Madrid 1962,
pp. 141-147; G. SOTGIU, La civiltà romana. L’epigrafia, in Il museo archeologico
nazionale di Cagliari, Sassari 1989, pp. 221 e 222, nr. 2; P. MELONI, La Sardegna
romana, Sassari 19902 , pp. 402, 539; P. RUGGERI, La vita religiosa, in Storia della
Sardegna antica, a cura di A. Mastino, Nuoro 2005, p. 419.
( 68 )CIL X, 7557 = ELSard, C1, p. 607. Sulla base del materiale lapideo R.
Zucca (Ula Tirso, cit., p. 47; Neoneli, cit., p. 32; Gli oppida, cit., p. 297) sostiene

Nuovi cippi a capanna rinvenuti in Sardegna
L’elemento militare ha avuto senza dubbio un ruolo nella romanizzazione
di ampie parti della Sardegna e in modo particolare della sua
zona centrale nella quale si collocano, oltre Augustis, gli importanti
centri di Aquae Hypsitanae/Forum Traiani, Valentia, Uselis, Biora ( 69 ).
L’area cimiteriale nella quale si collocano i sei reperti oggetto di
indagine in questa sede si trova nelle immediate vicinanze di Valentia,
l’odierna Nuragus. Valentia sorge probabilmente nel II secolo
a.C., come la documentazione archeologica e la tipologia stessa del
nome fanno pensare ( 70 ), soprattutto per rispondere alle esigenze militari
di controllo delle aree interne abitate dai popoli della Barbaria.
L’importanza del ruolo strategico di Valentia andò sicuramente aumentando
con il tempo, come si può dedurre dal fatto che essa sia
l’unico oppidum interno menzionato nella fonte augustea della formula
provinciae di Plinio il Vecchio ( 71 ). In epoca augustea, infatti,
Valentia si trovò in una posizione importante nell’articolato progetto
di sistemazione di presidi militari (Augustis, Biora, Luguido) voluto
da Augusto per la parte interna dell’isola ( 72 ). Il carattere strategico
che il rinvenimento sia stato effettuato a Fordongianus e che Serbulus, dedicante
del titulus, potesse essere un miles della coorte dei Lusitani. In tal senso anche P.
RUGGERI, Una nuova testimonianza tra Sarditas e Romanitas: la cupa di Lucius Valerius
Torbenius ad Ula Tirso (Oristano), in Serta antiqua et mediaevalia, VI, Usi e
abusi epigrafici, Atti del Colloquio Internazionale di Epigrafia Latina (Genova 20-22
settembre 2001), a cura di M.G. Angeli Bertinelli e A. Donati, Roma 2003, p. 508,
nota 3. Degno di nota è che secondo G. Tore (Sedilo, cit., p. 67) il monumento
potrebbe ipoteticamente rappresentare una variante del tipo a capannina.
( 69 )Le iscrizioni rinvenute in questi centri permettono di cogliere l’apporto, all’interno
di una tradizione espressiva indigena, di un insieme di codici (linguistici,
decorativi, tipologici) ascrivibile a lapicidi al seguito dei militari; in proposito vd.
A.M. COSSU, Iscrizioni di età romana, cit., p. 983, note 67-68 e G. TORE, Sedilo,
cit., p. 96. Sul ruolo svolto da militari stanziati su terre prossime a centri strategicamente
importanti si sono soffermati J.R. ROWLAND JR., Preliminary Etymological
Observations on the Romanization of Sardinia, AFLC n.s. VIII (1988), p. 246 e R.
ZUCCA, Persistenze, cit., p. 666.
( 70 )Vd. R. ZUCCA, Le Civitates Barbariae e l’occupazione militare della Sardegna:
aspetti e confronti con l’Africa, L’Africa romana. Atti del V convegno di studio,
Sassari, 11-13 dicembre 1987, a cura di A. Mastino, Sassari 1988, pp. 363-365.
( 71 )N. h., III, 7, 85. Come è noto Plinio per la sua formula provinciae si rifà ai
Commentarii Geographici e alla Tabula Picta di M. Vipsanio Agrippa; vd. P. ME-
LONI, La Sardegna romana, cit., p. 234; R. ZUCCA, Gli oppida, cit., p. 205.
( 72 )Per la creazione di questi centri militari vd. P. MELONI, La Sardegna romana,
cit., p. 303 e più diffusamente pp. 307-311. Per l’attenzione riservata da Augusto a
questa zona nevralgica della Sardegna vd. R. ZUCCA, Ula Tirso, cit., pp. 46-47; ID.,
Neoneli, cit., pp. 32-33; ID., Gli oppida, cit., pp. 311-312.
63

64
FRANCO PORRÀ
del sito è ulteriormente confermato dalla sua ubicazione presso la via di
interesse militare per mediterranea che collegava Karales con Olbia ( 73 ) e
dall’epitafio di età imperiale menzionante Germanus, Nepotis (filius),
miles verosimilmente di un reparto ausiliario ( 74 ).
La zona nella quale si colloca l’area cimiteriale oggetto di indagine
potrebbe essere vista come un’emanazione della più importante
località di Valentia e si potrebbe ipotizzare che parte dei suoi abitanti
fossero discendenti di militari o civili provenienti da questo oppidum
ai quali furono concesse parcelle di terra ( 75 ).
È interessante notare come alcuni dei centri voluti da Augusto
come presidio delle zone interne dell’isola fossero sedi di coorti ausiliarie
reclutate in ambito gallico (Aquitani a Luguido) o ispanico
(Lusitani ad Augustis); con tutte le cautele del caso, quindi, si potrebbe
pensare che Valentia fosse presidiata, vista la sua vicinanza ad
Augustis, da distaccamenti della coorte dei Lusitani o che in essa fosse
stanziata un’altra unità ausiliaria arruolata nella penisola iberica.
Proprio la tipologia del cippo a capanna, infatti, permette di stabilire
un ulteriore collegamento tra la Sardegna e la penisola spagnola.
Come si è già detto, recentemente R. Zucca ha sottolineato a questo
proposito le coincidenze esistenti tra l’isola e la regione iberica delle
Asturie ( 76 ). Analogie particolarmente stringenti, inoltre, sono state
colte da chi scrive tra i cippi a capanna in questa sede esaminati con
alcuni di quelli della zona di Poza de la Sal (Bureba, Burgos) ( 77 ).
Sorge a questo punto il problema di quale possa essere stato il veicolo
di diffusione della tipologia del cippo a capanna dalla penisola
iberica alla Sardegna. Questo ruolo potrebbe essere assegnato, sulla
base delle analogie monumentali riscontrate ( 78 ), al reparto acquar-
( 73 )Come testimonia il miliario CIL X, 8026 dell’epoca di Valentiniano (364-
366 d.C.) rinvenuto nei pressi del centro.
( 74 )CIL X, 8323.
( 75 )Come si è detto (vd. p. 62) la documentazione epigrafica mette in evidenza
che ad Augustis dovette essere creato accanto al presidio della cohors Lusitanorum
uno stanziamento civile per i veterani e i familiari dei soldati; R. Zucca (Gli oppida,
cit., p. 312) ipotizza che questo materiale umano possa essere stato destinatario
di assegnazioni di terre.
( 76 )Ula Tirso, cit., p. 58.
( 77 )Ad esempio sono notevoli le analogie che si possono cogliere tra i monumenti
qui contrassegnati dai nrr. 1 e 2 e quello riportato nella tavola XI, 1-2 del volume di
J.A. ABASOLO-M.L. ALBERTOS-J.C. ELORZA, Los monumentos funerarios de epoca romana,
en forma de casa, de la region de Poza de la Sal (Bureba, Burgos), Burgos 1975.
( 78 )Vd. p. 58 e nota 46.

Nuovi cippi a capanna rinvenuti in Sardegna
tierato ad Augustis nella prima parte del I secolo d.C., la cohors Lusitanorum,
a tutt’oggi l’unica unità ausiliaria ispanica attestata in Sardegna.
A questo reparto quindi si potrebbe attribuire, oltre alla diffusione
nell’isola del culto della dea Atecina Turobrigense, anche
quella del cippo a capanna, attestato in tutta la Sardegna centro-occidentale.
Già R. Zucca aveva ipotizzato che tale funzione potesse
essere stata svolta da un reparto iberico attivo nell’isola, più esattamente
da una cohors Asturum ( 79 ). Vista la collocazione geografica
della zona di Poza de la Sal in territorio celtibero e la possibilità di
attribuire ad un reparto ausiliario la responsabilità della diffusione
del monumento funerario, non si potrebbe ipoteticamente escludere
l’attribuzione di tale azione ad un’unità ausiliaria composta da Celtiberi
attiva in Sardegna ( 80 ). Va comunque tenuto presente che la documentazione
epigrafica fino ad oggi non ha restituito elementi che
facciano pensare alla presenza nell’isola di unità ausiliarie di Asturi o
Celtiberi. Comunque non è neanche da escludere che all’interno
della cohors Lusitanorum operassero elementi asturiani e/o celtiberici;
in tal caso questo fatto avvalorerebbe ulteriormente il ruolo propagatore
attribuito precedentemente al reparto in questione.
( 79 )Ula Tirso, cit., p. 58.
( 80 )È nota l’esistenza di alcune cohortes Celtiberorum per le quali vd. PW, IV, 1
(1900), cc. 267-268, s.v. cohors; vd. inoltre DE, II, p. 153, s.v. Celtiberorum
(cohortes).
65

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Figura 1
Figura 2
FRANCO PORRÀ

Nuovi cippi a capanna rinvenuti in Sardegna
Figura 3
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Figura 4
Figura 5
FRANCO PORRÀ

Nuovi cippi a capanna rinvenuti in Sardegna
Figura 6
Figura 7
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FRANCO PORRÀ

Nuovi cippi a capanna rinvenuti in Sardegna
Figura 10
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Figura 12
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FRANCO PORRÀ

Nuovi cippi a capanna rinvenuti in Sardegna
Figura 14
Figura 15
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Figura 16
Figura 17
FRANCO PORRÀ

Nuovi cippi a capanna rinvenuti in Sardegna
Figura 18
Figura 19
75

STEFANIA MELE
I CAPITELLI BINATI DELL’ABBAZIA
DELLA SANTISSIMA TRINITÀ DI SACCARGIA (*)
SOMMARIO: 1. Descrizione dei capitelli binati. – 1.1 Il capitello con fogliame. –
1.2 Il capitello con cespi. – 1.3 Il capitello con scene neotestamentarie. –
1.4 Il capitello con leoni. – 2. Quadro comparativo. – 3. Conclusioni.
In assenza di documenti epigrafici o archivistici, le notizie riguardanti
la fondazione dell’abbazia romanica della Santissima Trinità di
Saccargia (Codrongianos) si evincono dal cosiddetto Condaghe, noto
da un apografo seicentesco, che fu inserito da Pasquale Tola nel Codex
Diplomaticus Sardiniae, dove è datato 5 ottobre 1116 ( 1 ). Vi si
apprende che la chiesa e il monastero furono fondati e dotati, ad
adempimento votivo ( 2 ), dal giudice di Torres Costantino I de Lacon
e da sua moglie Marcusa de Gunale, nel tempo in cui era papa
Pasquale II (1099-1118), e che la fabbrica fu commissionata a maestranze
pisane. La data riportata nel documento, relativa alla solenne
consacrazione della chiesa, appare anche nel Libellus Judicum Turritanorum,
cronaca compilata alla fine del XIII secolo che dichiara la
conformità al condaghe ( 3 ). La chiesa ha icnografia a croce commissa,
(*) Desidero ringraziare il Prof. Roberto Coroneo e la Prof.ssa Renata Serra per
la disponibilità e la competenza scientifica offertami, quest’ultima anche per avermi
generosamente permesso di consultare i volumi della sua preziosa biblioteca.
( 1 ) P. TOLA, Codex Diplomaticus Sardiniae, vol. I, Torino 1861 (= CDS), pp. 192-
194, sec. XII, doc. XXI.
( 2 ) R. CORONEO, “Segni e oggetti del pellegrinaggio medioevale in Sardegna –
L’età giudicale”, in Gli Anni Santi nella Storia, Atti del Congresso Internazionale
(Cagliari 16-19 ottobre 1999), a cura di L. D’Arienzo, Cagliari 2000, pp. 472-474.
( 3 ) Libellus Judicum Turritanorum, a cura di A. Sanna, con introduzione di A.
Boscolo, Cagliari 1957 (= LJT), pp. 46-47; Cronaca medioevale sarda. I sovrani di
Torres, a cura di A. Oronesu, V. Pusceddu, Quartu Sant’Elena 1993, p. 34, con
traduzione a fronte.

78
STEFANIA MELE
con aula mononavata e pronunciato transetto triabsidato. Raffaello
Delogu vi distinse due fasi edilizie ( 4 ). All’impianto, ascrivibile al secondo
decennio del XII secolo (ante 1116) e dovuto a maestranze
pisane, spettano il transetto triabsidato e l’aula per due terzi circa
della lunghezza; all’ampliamento, risalente al 1180-1200 e opera di
maestranze pisano-pistoiesi, sono da assegnare la sagrestia, il campanile,
l’allungamento della navata verso occidente e la sua sopraelevazione,
la facciata e il portico ( 5 ). Nell’abside mediana è dipinto un
ciclo neotestamentario, attribuito da Renata Serra alla seconda metà
del XII secolo e ascritto a maestranze tosco-laziali ( 6 ).
All’interno della chiesa sono custoditi quattro capitelli binati erratici,
finora inediti, rinvenuti nel corso degli scavi che hanno interessato
l’area adiacente all’edificio, dove era collocato il distrutto
monastero benedettino appartenente all’ordine dei Camaldolesi ( 7 ).
Al monastero erano annessi due chiostri ( 8 ).
I capitelli, scolpiti in marmo bianco, misurano cm 47 x 20 x 13,
ø cm 14. Sono del tipo definito binato o “a coppia”, utilizzato appunto
per colonne binate sistemate trasversalmente rispetto alle arcate
del muro che dovevano sostenere, come si trovano in diversi
chiostri e campanili. Scolpiti su tutti e quattro i lati, sono erosi e
scheggiati ma leggibili. Presentano motivi fitomorfi, zoomorfi e antropomorfi.
1. Descrizione dei capitelli binati
1.1 Il capitello con fogliame. – Il capitello con fogliame (fig. 1) si
differenzia dagli altri, poiché i due piccoli capitelli affiancati che lo
compongono hanno forma autonoma l’uno dall’altro. Sono sormontati
da un comune pulvino, costituito da una tavoletta rettangolare,
posto sui rispettivi abachi, che presentano dei dadi: uno al centro di
( 4 ) R. DELOGU, L’architettura del Medioevo in Sardegna, Roma 1953, pp. 77-
78, 155-157.
( 5 ) R. CORONEO, Architettura romanica dalla metà del Mille al primo ’300 =
Storia dell’arte in Sardegna, vol. IV, Nuoro 1993, pp. 136-144, sch. 46, con bibliografia
precedente a p. 318.
( 6 ) R. SERRA, Pittura e scultura dall’età romanica alla fine del ’500 = Storia dell’arte
in Sardegna, vol. I, schede e apparati di R. CORONEO, Nuoro 1990, p. 30,
sch. 12, con bibliografia precedente a p. 300.
( 7 ) G. ZANETTI, I Camaldolesi in Sardegna, Cagliari 1974, pp. 55-79.
( 8 ) S. MAESTRI, “(SS) Codrongianos, SS. Trinità di Saccargia 1994-95”, in Archeologia
medievale, XXIII, 1996, pp. 570-572.

I capitelli binati dell’abbazia della Santissima Trinità di Saccargia
ciascuna faccia concava e uno a conclusione di ciascun angolo. I capitelli
sono formati da giri sovrapposti di foglie lisce, carnose, lanceolate
e ricurve. Il giro fitomorfo inferiore nasce alla base dei capitelli,
laddove essi si univano alle colonne giustapposte. In ogni lato, altre
due corone di foglie si sviluppano da un corto fusto, da cui spunta
anche una foglia trilobata, di dimensioni notevolmente ridotte, in
posizione mediana nelle facce dei capitelli. Agli angoli dei capitelli le
foglie lunghe dei diversi giri si ripiegano su se stesse, poggiandosi
quelle di ciascuno strato sulle corrispondenti dello strato inferiore.
Le terminazioni delle foglie della corona superiore si appallottolano,
quelle della corona mediana formano ciascuna un ampio gancio. Sopra
ogni crochet creato dalle foglie superiori si trova un dado dell’abaco.
Queste foglie superiori sono unite da elementi ricurvi, sopra
i quali basano i dadi dei lati concavi degli abachi.
1.2 Il capitello con cespi. – Un secondo capitello binato scolpito
con motivi vegetali (fig. 2) presenta cespi di piccole e grosse foglie,
disposte in simmetria rispetto a un breve fusto, e un ramo che passa
alternativamente sopra e sotto di essi. Uno dei lati lunghi è molto
deteriorato; in quello opposto si vede come i cespi siano rivolti in
modo alterno verso l’alto e verso il basso. Poggiano su un giro di
carnose foglie ricurve: grandi e larghe quelle degli angoli, piccola e
stretta quella ancora leggibile in uno dei lati brevi. Le foglie, piegate
verso il basso, partono dalle basi circolari del capitello.
1.3 Il capitello con scene neotestamentarie. – Il terzo capitello esaminato
ha una decorazione complessa (figg. 3-6). Vi sono figurate
due scene evangeliche fra loro collegate: le Marie al sepolcro e la Resurrezione.
In uno dei lati lunghi sono scolpite le Marie, l’angelo che
avvertì le pie donne che Gesù era risorto ( 9 ) e il sepolcro, reso come
un sarcofago e molto piccolo rispetto alle altre figure. Le Marie sono
tre, secondo il Vangelo di Marco, che menziona Maria di Magdala,
Maria di Giacomo e Salome ( 10 ). La conformazione del capitello fa
sì che i quattro personaggi risultino divisi in due gruppi. Nel primo
appaiono due Marie, di cui sono visibili solo le teste, i colli e una
piccolissima parte delle vesti, poiché il capitello in questa zona è ro-
( 9 ) Mt 28, 1-6; Mc 16, 5-7. Secondo Lc (24, 4-7) e Gv (20, 12-13) gli angeli
erano due.
( 10 ) Mc 16, 1-2. Lc (24, 10) nomina Maria di Magdala, Giovanna e Maria di
Giacomo, accompagnate da altre donne. Per Mt (28, 1) le pie donne erano due:
Maria di Magdala e l’altra Maria. Gv (20, 1) cita solo Maria di Magdala.
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STEFANIA MELE
vinato. Il secondo gruppo è costituito dalla terza Maria, che regge il
contenitore dell’unguento, e dall’angelo, con capelli a ciocche boccolate,
che con la grande mano destra tiene un enorme turibolo dal
manico rigido e poggia la sinistra sullo spigolo anteriore del coperchio
del sarcofago; di entrambi si leggono per intero le vesti, rese
con pieghe profondamente solcate. Il coperchio è sollevato dalle
braccia tese di due piccoli angeli, la cui parte inferiore è lacunosa. Al
centro del sepolcro, tra le due figure con le ali spiegate, si trova un
foro circolare. Dalla cassa sporge un lembo del sudario, il candido
lenzuolo nel quale Giuseppe d’Arimatea avvolse il corpo di Gesù ( 11 ).
L’angelo turiferario è posto sotto un angolo dell’abaco; l’ala sinistra,
minutamente lavorata, e la parte inferiore della veste svolazzante
sono visibili in uno dei lati brevi, nel quale aggetta anche il profilo
di uno dei quattro soldati presenti in quest’interpretazione della Resurrezione.
Il soldato, sistemato ugualmente sotto un angolo dell’abaco,
è all’estrema sinistra dell’altro lato lungo; regge con la mano
sinistra una lancia, mentre con la destra tiene uno scudo. Come tutti i
soldati raffigurati, indossa la cotta di maglia e l’elmo conico ( 12 ). Sempre
a causa della conformazione del capitello, costituito quasi da due
blocchi troncoconici, in cui due figure per volta si organizzano nello
spazio a formare una sorta di “V”, questo soldato fa gruppo con un altro
personaggio: il diavolo. È rappresentato come un essere mostruoso
dalla testa simile a una grande maschera, a cui sono uniti due grandi
orecchini ad anello, e con la bocca aperta a formare un rettangolo, da
cui esce quello che sembra un lungo serpente. Questo gli passa intorno
attraversando gli orecchini, mentre il diavolo lo stringe con la
mano destra sollevata e la sinistra abbassata. Segue un soldato che alza
con la mano destra un pugnale e ha il braccio sinistro piegato verso
destra. Come le altre guardie ha una cintura alla vita dalla quale pende
un secondo pugnale. Al suo fianco, sotto l’angolo dell’abaco, è il profilo
di un armigero, che ha un pugnale tenuto dalla cinta ed è affacciato
nell’altro lato breve; con la mano destra sostiene uno scudo triangolare
dalla punta acuta e con la sinistra stringe una lancia. Un’altra lancia
divide in due questo lato, che ospita sulla destra un soldato che ha
parte del corpo protetta dallo scudo triangolare dalla punta acuta sorretto
con la mano sinistra, mentre con la destra solleva un pugnale; il
( 11 ) Mt 27, 57-60; Mc 15, 43-46; Lc 23, 50-53. Secondo Gv (19, 38-40) il
corpo di Gesù fu avvolto nelle bende da Giuseppe d’Arimatea insieme a Nicodemo.
( 12 ) Cfr. L.G. BOCCIA, voce “Armamento difensivo”, in Enciclopedia dell’Arte
Medievale = EAM, vol. II, Roma 1991, pp. 460-471.

I capitelli binati dell’abbazia della Santissima Trinità di Saccargia
suo profilo spunta nella zona con le due Marie. La quasi totalità dei
personaggi presenta bulbi oculari tondi e sporgenti; gli occhi del diavolo
sono delle cavità profonde e rettangolari.
Tutte le facce del capitello sono ornate sullo sfondo da rosette a
corolla concava, con un numero variante da quattro a sei di petali
carnosi aggettanti, e con fiore centrale umbonato, intorno alle quali
corre un sottile ramo.
1.4 Il capitello con leoni. – Il capitello con ornamentazione zoomorfa
(figg. 7-8) consta di sei coppie di leoni: due per ciascun lato
lungo, una per quelli corti. Disposte in simmetria antitetica, le fiere
hanno le teste girate rispetto al corpo, perciò nei lati lunghi quelle
poste in posizione mediana hanno i musi vicini; le teste degli altri leoni
risultano scolpite negli spigoli del capitello, sotto gli angoli dell’abaco.
In ogni coppia i due leoni retrospicienti hanno le code intrecciate
tra loro e le zampe anteriori combacianti. Nella plastica
sono minuziosamente descritti i particolari anatomici; è evidenziato
il costato e il trattamento a ciocche delle criniere e delle code. In
uno dei lati lunghi è distinguibile la lavorazione a treccia di una delle
code. I bulbi oculari delle fiere sono rotondi.
2. Quadro comparativo. – Esemplari di capitelli binati con decorazione
fogliacea, dalle varie tipologie e disposizioni di foglie, coronano
colonne giustapposte appartenenti a strutture architettoniche
romaniche d’ambito non solo italiano.
In Liguria, a Genova, capitelli binati ornati con foglie d’acqua
sono presenti nel Chiostro dei Canonici della cattedrale di San Lorenzo,
consacrata nel 1118. Sono esemplari di una produzione seriale,
che preannuncia le formule iterate del gotico ( 13 ).
In Campania, capitelli a coppia variamente elaborati con motivi
fogliacei sono nel chiostro dell’abbazia della Santissima Trinità a
Cava dei Tirreni, sorta nel 1011. Il chiostro fu edificato in due fasi:
alla prima, del XII secolo, risale il lato est, alla seconda il resto della
costruzione ( 14 ).
In Sicilia, una proliferazione di capitelli binati, fra i quali si trovano
anche esemplari con fogliame, è nel chiostro di Monreale, la cui co-
( 13 ) F. CERVINI, Liguria romanica = Patrimonio artistico italiano, Milano 2002,
pp. 81, 94, fig. 93.
( 14 ) M. D’ONOFRIO, in M. D’ONOFRIO, V. PACE, La Campania = Italia romanica,
vol. IV, Milano 1981, p. 270, figg. 136-138, 140.
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STEFANIA MELE
struzione potrebbe essere iniziata nel 1176. I capitelli sono stati realizzati
da cinque maestri: due specificamente scultori, due al contempo
scultori e marmorari e uno unicamente marmorario ( 15 ). Solo di quest’ultimo
si conosce il nome, inciso, col genitivo sbagliato, su una bina
con foglie d’acanto: EGO ROMANUS FILIUS COSTANTINUS MARMU-
RARIUS ( 16 ). Francesco Gandolfo rileva che entrambi nomi, Romano
e Costantino, rimandando alla comunità di origine greca, sono indicativi
dell’estrazione locale dello scultore. Nel chiostro si sono succeduti
gruppi e botteghe, come era la prassi del cantiere medioevale, dove i
marmurarii, che lavoravano accanto ai magistri, si limitavano alla realizzazione
in serie di capitelli aniconici ( 17 ).
A Palermo, capitelli binati scolpiti con un doppio giro di foglie
d’acanto sono nel chiostro adiacente alla chiesa di San Giovanni degli
Eremiti. Risalente al XIII secolo, era attiguo al distrutto monastero
( 18 ).
Nella Spagna settentrionale, a Santillana del Mar, capitelli binati
fogliacei sono nel chiostro del XII secolo ( 19 ) della collegiata di Santa
Juliana. Scolpiti a coppia in un unico blocco, hanno forma allungata
e piccoli abachi lisci. Uno degli capitelli è costituito, come
quello di Saccargia, da due capitelli affiancati aventi forma autonoma
l’uno dall’altro; ciascuno ha un’unica corona di foglie lisce e carnose
che agli angoli si appallottolano.
Sempre in Spagna, nei pressi di Burgos, capitelli binati con foglie
sono presenti nel chiostro del monastero di Las Huelgas ( 20 ), fondato
nel 1180-81 ( 21 ).
Ancora in provincia di Burgos, capitelli binati decorati con foglie
sono nel chiostro e nella sala capitolare del monastero di San Dome-
( 15 )G. CASSATA, in La Sicilia = Italia romanica, vol. VII, introduzione di R.
SANTORO, schede di G. CASSATA, D. CICCARELLI, G. COSTANTINO, Milano 1986,
pp. 209-210, fig. 73.
( 16 )R. SALVINI, Il Chiostro di Monreale e la scultura romanica in Italia, Palermo
1962, pp. 196-197, n. 118, fig. 91.
( 17 )F. GANDOLFO, “Il chiostro di Monreale”, in I Normanni, popolo d’Europa
1030-1200, catalogo della mostra (Roma, Palazzo Venezia, 28 gennaio-30 aprile
1994), a cura di M. D’Onofrio, Venezia 1994, p. 238.
( 18 ) G. CASSATA, in La Sicilia, cit., pp. 110-111, figg. 28-30.
( 19 ) L.M. DE LOJENDIO, A. RODRÍGUEZ, La Castiglia del nord = Europa romanica,
vol. I, Milano 1979, p. 39.
( 20 ) P.F. PISTILLI, in P.F. PISTILLI, R. LEGLER, W. JACOBSEN, voce “Chiostro”,
in EAM, vol. IV, Roma 1993, p. 709, fig. a p. 715.
( 21 ) L.M. DE LOJENDIO, A. RODRÍGUEZ, La Castiglia, cit., vol. I, 1979, p. 335.

I capitelli binati dell’abbazia della Santissima Trinità di Saccargia
nico di Silos. L’abbazia fu guidata fino al 1073 da san Domenico. I
capitelli sono ornati con diversi tipi di foglie, per esempio lanceolate,
lobate, d’alloro, d’acanto ( 22 ).
In Catalogna, a Barcellona, capitelli a coppia fogliacei sono nel
chiostro di Sant Pau del Camp, tarda manifestazione del Romanico.
La maggior parte dei capitelli ha una tipologia derivata dal corinzio,
appena sbozzato o lavorato con cura ( 23 ).
Sempre in Catalogna, piccoli capitelli fogliacei sono nella galleria
superiore dell’abside della cattedrale di Santa Maria di Urgell, detta
La Seu d’Urgell. La chiesa, fondata nell’839, fu rinnovata e consacrata
nel 1040 ( 24 ).
Il capitello binato con fogliame a cespi simmetrici ricorda la decorazione
fitomorfa della ghiera destra del portico della chiesa di
Saccargia, frutto dei restauri eseguiti tra il 1903 e il 1906 ( 25 ), ma
modellata su un tratto della ghiera originaria, conservato nella navata.
Se però nelle ghiere antica e moderna della Santissima Trinità i
cespi, diversamente dal capitello, sono scolpiti tutti rivolti verso l’alto,
una cornice ( 26 ) con cespi alternati verso l’alto e verso il basso è visibile
nella facciata dell’atrio porticato della cattedrale di Sant’Antioco di
Bisarcio, presso Ozieri (ante 1090; ante 1153; ante 1174) ( 27 ).
Osservando il capitello figurato si nota come la sua iconografia
sia ripresa in modo palmare dal Pergamo di Guglielmo (1159-62), il
più importante documento della scultura romanica presente in Sardegna
e una delle più alte creazioni della plastica medioevale. Fu realizzato
in marmo da Guglielmo, scultore e architetto attivo a Pisa
nel penultimo quarto del XII secolo, e dagli aiuti ( 28 ), per essere col-
( 22 ) F.J. PÉREZ DE URBELL, El claustro de Silos, Burgos, s. d., pp. 18-20, figg. a
pp. 23, 116, 203, 211, 216.
( 23 ) E. JUNYENT, La Catalogna, 2 = Europa romanica, vol. VI, 1981, pp. 55-56,
fig. 17.
( 24 ) E. JUNYENT, La Catalogna, cit., pp. 37-38, fig. 3.
( 25 ) L’edificio ha subito ingenti restauri a partire dal 1894, che ne hanno modificato
alcune parti, cfr. A. INGEGNO, Storia del restauro dei monumenti in Sardegna
dal 1892 al 1953, Oristano 1993, sch. 9, 13, 59, 75, 97. Soprattutto i lavori
eseguiti tra il 1903 e il 1906 hanno portato a dei rifacimenti che spesso sono stati
delle innovazioni, cfr. R. DELOGU, L’architettura, cit., p. 155, n. 39 a p. 175.
( 26 ) Per l’immagine, cfr. P. SANPAOLESI, Il duomo di Pisa e l’architettura romanica
toscana delle origini, Pisa 1975, fig. XVIIa.
( 27 ) R. CORONEO, Architettura, cit., pp. 90-93, sch. 19, con bibliografia precedente
a p. 317.
( 28 ) R. SERRA, Pittura, cit., p. 37, sch. 13, con bibliografia precedente a p. 300.
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STEFANIA MELE
locato nella cattedrale di Santa Maria a Pisa. L’origine dell’artista è
ignota, ma il suo nome e la sua opera sono attestati da due iscrizioni,
in una delle quali, nota da trascrizioni del XVII secolo, è definito
«prestantior arte modernis» ( 29 ). Morì prima del 1173 e fu sepolto
nella facciata della chiesa pisana, come indicava l’epigrafe che doveva
accompagnare il sarcofago ( 30 ). Nel 1311-12 venne posato nel
duomo toscano il pergamo scolpito da Giovanni Pisano ( 31 ) e quello
più antico fu trasferito nella cattedrale di Santa Maria di Castello a
Cagliari, città che dipendeva politicamente da Pisa. Il pergamo,
composto da otto pannelli, in seguito ai lavori di ristrutturazione del
Seicento fu rimosso e smembrato in due “pulpiti” inaccessibili, che
furono addossati alla controfacciata, ai lati del portale mediano,
dove sono tuttora ( 32 ). Le colonne che sostenevano il cassone, prima
che fosse diviso, poggiavano su quattro monumentali leoni in marmo
grigio venato, che vennero collocati a ornamento della scala
d’accesso al presbiterio.
Nel “pulpito” a sinistra del portale sono raffigurate, nella lastra
frontale a destra del leggio con il Tetramorfo, le Marie al sepolcro e la
Resurrezione, un’unica scena sviluppata su due registri, ognuno sormontato
da un’iscrizione ( 33 ).
( 29 )«HOC GUILLELMUS OPUS PR[A]ESTANTIOR/ ARTE MODERNIS QUAT[TU]OR
ANNORUM SPATIO SED DO[MI]NI CENTIUM DECIES/ SEX MILLE DUOBUS», cfr. A.
MILONE, R. CORONEO, in Il Duomo di Pisa = Mirabilia Italiae, Saggi, a cura di A.
Peroni, Modena 1995, pp. 598-601, sch. 1820-1829.
( 30 )Ǡ SEPULTURA GUILIELMI [M]/ AGISTR[I] QUI FECIT PERGUM S(AN)C(T)E/ MA-
RIE», cfr. A. MILONE, “Il Duomo e la sua facciata”, in Il Duomo di Pisa, cit., p. 202;
A. MILONE, in Il Duomo di Pisa, cit., p. 601, sch. 1830; A. MILONE, in I marmi di
Lasinio, La collezione di sculture medievali e moderne nel Camposanto di Pisa, Catalogo
della mostra (Pisa, 30 luglio-31 ottobre 1993), a cura di C. Baracchini, Firenze
1993, p. 314, fig. PL 2.
( 31 )CRISPINO VALENZIANO, “Gli errori nel “pulpito” del Duomo di Pisa”, in
Storia ed Arte nella Piazza del Duomo, Conferenze 1991, Quaderno n. 1, 1993,
pp. 155-162.
( 32 )È andata perduta l’epigrafe che informava circa la donazione, il trasferimento
e la collocazione a Cagliari: «CASTELLO CASTRI CONCEXIT/ VERGINI MATRI
DIREXIT/ ME TEMPLUM ISTUD INVEXIT/ CIVITAS PISANA ANNO CURRENTE MILLE-
NO/ PROTINUS/ ET TRECENTENO/ ADDITOQUE DUODENO/ INCARNATIONIS», cfr.
R. SERRA, voce “Guglielmo”, in EAM, vol. VII, Roma 1996, pp. 152-155.
( 33 ) Il pannello superiore, con le pie donne che procedono verso il sepolcro,
sopra il quale un angelo turiferario con le ali spiegate è in volo, è commentato dalle
parole dell’angelo: «[SUR]REXIT VERE DOMINUS NOLITE TIMERE (Il Signore è veramente
risorto, non abbiate paura)». Nella lastra inferiore, con i soldati e il diavolo,
si legge: «[TUR]BANTUR STULTI SERVANTES CLAUSTRA SEPULCHRI (Sono tur-

I capitelli binati dell’abbazia della Santissima Trinità di Saccargia
Secondo Corrado Maltese ( 34 ), Guglielmo ha realizzato il pergamo
con due collaboratori. A uno di questi, dagli interessi cromatici e decorativi,
che ha definito più orafo che scultore, per la composizione rigida
delle figure e per la resa delle rosette e dei racemi sullo sfondo e
delle pieghe parallele delle vesti, che sembrano proprie della lavorazione
dell’avorio e del metallo ( 35 ), lo studioso ha attribuito i pannelli
con le Marie al sepolcro e la Resurrezione ( 36 ). A questo riguardo, Anna
Rosa Calderoni Masetti sostiene l’importanza di mettere l’accento sul
ruolo di Guglielmo, considerando la collaborazione di altri scultori,
denunciata dalle differenze stilistiche, come normale procedura di
bottega ( 37 ). Nell’Archivio di Stato di Pisa è conservato un documento
pergamenaceo, datato al 1 gennaio del 1165, che offre un quadro
significativo dei rapporti che intercorrevano nel XII secolo tra committenti
e artisti e tra questi ultimi e gli scolari, nonché del modo in
cui il lavoro venisse organizzato. Dall’atto, stipulato da Guglielmo e
dal collaboratore Riccio, relativo a lavori da realizzare per la cattedrale
pisana, sembra di capire che i due artisti lavorassero parallelamente,
ciascuno con propri collaboratori, che per Guglielmo non potevano
essere più di tre, per Riccio soltanto due ( 38 ).
Nelle facce del capitello binato è la scena distribuita su due registri
nella lastra del pergamo, compresi alcuni dettagli iconografici che, allo
stato attuale degli studi, non sono stati rilevati in altre opere.
bati gli stolti, che fanno da guardia all’ingresso del sepolcro)», cfr. A. R. CALDERO-
NI MASETTI, Il pergamo di Guglielmo per il Duomo di Pisa, oggi a Cagliari = Opera
della Primaziale Pisana, Quaderno n. 14, Pontedera 2000, p. 48.
( 34 ) C. MALTESE, Arte in Sardegna dal V al XVII, schede di C. MALTESE e R.
SERRA, Roma 1962, pp. 200-201, sch. 19-21.
( 35 ) R. SERRA, La Sardegna = Italia romanica, vol. X, Milano 1989, p. 133.
( 36 ) Oltre a quelli con l’Annunciazione, la Visitazione, la Natività, il gruppo del
leggio con san Paolo fra Tito e Timoteo e i leoni che artigliano il toro e l’orso. All’altro
collaboratore, che ricerca effetti plastici e mostra interessi narrativi, ha assegnato
l’Adorazione dei Magi, il Ritorno dei Magi, l’Ultima Cena, il Bacio di Giuda,
l’Ascensione, il Tetramorfo e il leone che ghermisce il cerbiatto e l’uomo. A Guglielmo,
che modella il marmo ottenendo effetti cromatici e luministici e palesa
interessi di individuazione plastica delle figure e narrativi, ha attribuito I Magi da
Erode e la Strage degli Innocenti, il Battesimo di Cristo e la Presentazione al tempio,
la Trasfigurazione e il leone vincente sul drago, cfr. C. MALTESE, Arte in Sardegna,
cit., p. 201.
( 37 ) A.R. CALDERONI MASETTI, Il pergamo, cit., pp. 32-34.
( 38 ) A.R. CALDERONI MASETTI, “Note e documenti, I maestri Guglielmo e Riccio
in un documento del 1165”, in Bollettino Storico Pisano, LXX, Pisa 2001, pp. 237-
244.
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STEFANIA MELE
Sia nel capitello, sia nel “pulpito”, sono tre le Marie al sepolcro, diversamente
dalla tradizione bizantina ( 39 ) che, rifacendosi al Vangelo di
Matteo ( 40 ), le rappresenta in numero di due, e l’angelo del Signore, ormai
acefalo nell’ambone, è posto a destra, nell’atto di reggere un grande
turibolo ( 41 ). In entrambe le opere il sepolcro è raffigurato con il coperchio
sollevato dello stesso tanto dalla cassa dalle braccia tese verso l’alto
di due piccoli angeli ( 42 ). Poiché, prima del ritrovamento dei capitelli
binati di Saccargia, questo modo di realizzare il sarcofago nel pergamo
poteva considerarsi un unicum, esso è un indizio sicuro per affermare
che lo scultore dei capitelli ha visto l’opera di Guglielmo e aiuti. Al centro
di ambedue le casse un lembo del sudario pende all’esterno.
Nel sarcofago dell’ambone compaiono tre fori circolari, particolare
ripreso nel capitello, anche se qui il foro è uno solo, probabilmente
per ragioni di spazio. La presenza dei fori nella tomba di Cristo è rilevabile
in altre opere romaniche, ma non è frequente. Nel Museo Civico
di Modena è custodito un capitello in marmo (cm 25 x 35 x 24),
appartenente a una serie comprendente altri dodici pezzi, attribuito a
un artista campionese, il cosiddetto Maestro dei Giudici ( 43 ), con le
tre Marie al sepolcro. Databile al 1160-70 circa ( 44 ), proviene plausibilmente
da un ambone distrutto della chiesa di San Vitale di Carpineti,
dalla tradizione assegnata all’opera della contessa Matilde ( 45 ).
La scena con le tre Marie al sepolcro, istoriata in uno dei lati lunghi,
che mostra figure dalle teste allungate, con i visi rettangolari e gli zigo-
( 39 ) M. SALMI, La scultura romanica in Toscana, Firenze 1928, p. 80, n. 9 a p. 92.
( 40 ) Mt 28, 1.
( 41 ) Nel pergamo però le Marie hanno il capo coperto con il manto e il maphorion,
l’angelo è in volo e il turibolo è sostenuto da catenelle, anziché avere il lungo
manico rigido.
( 42 ) Diversamente dal capitello, nel “pulpito” le figurette alate sono più piccole
dell’arca.
( 43 ) R. GRANDI, “I Campionesi a Modena”, in Lanfranco e Wiligelmo, Il Duomo
di Modena, Quando le cattedrali erano bianche, Mostre sul Duomo di Modena
dopo il restauro, schede di R. GRANDI, Modena 1985, p. 550, sch. C. 7 a p. 570,
figg. 815, 864-865.
( 44 ) S. SETTIS, “Iconografia dell’arte italiana, 1100-1500: una linea”, in Storia
dell’arte italiana, parte I a cura di G. Previtali “Materiali e problemi”, vol. III,
“L’esperienza dell’antico, dell’Europa, della religiosità”, Torino 1979, figg. 275-
276 e relativa didascalia.
( 45 )È Adolfo Venturi, il primo a studiarli, ad attribuirli all’artista del pontile
del duomo di Modena, cfr. A. VENTURI, Storia dell’arte italiana, III, L’arte romanica,
Milano 1904, pp. 263-264, figg. 261-264.

I capitelli binati dell’abbazia della Santissima Trinità di Saccargia
mi sporgenti, coperte con turbanti e drappi solcati da pieghe, è resa in
maniera drammatica. La Maddalena, affranta, è china sul sarcofago fra
le due Marie rivolte verso di lei; la donna a sinistra impugna un contenitore,
quella a destra poggia la mano destra sulla sua schiena e la sinistra
sotto un suo braccio, nell’atto di sollevarla ( 46 ). Il sepolcro mostra
nella parte anteriore i fori circolari e un lembo panneggiato del sudario,
che fuoriesce al centro della cassa, sebbene qui, diversamente che
nelle opere conservate in Sardegna, il coperchio sia poggiato sopra di
essa. I fori sono dieci, disposti su due file, in modo da risultare, rispetto
al “sacro lino”, che scende oltre la base del sepolcro, quattro da una
parte e sei dall’altra. Il lembo occupa uno spazio sufficientemente ampio
da far immaginare altri due circoli sotto di esso, in modo da ottenere
una disposizione equilibrata.
Ancora più pertinente è il confronto con il capitello binato e il
Pergamo di Guglielmo, se si considera che il capitello di Modena dispone
su entrambi i lati brevi, di cui uno lacunoso nella parte inferiore,
un angelo con le ali aperte che regge un enorme turibolo.
L’angelo che campeggia nel lato integro tiene l’incensiere, minuziosamente
lavorato, con la mano destra, come nelle sculture esaminate,
e si differenzia dall’altro sia per la posizione della mano sinistra,
che qui, enorme e piatta, è sollevata a mostrare la palma, sia per l’assenza
nella tunica del motivo a forellini che decora il collarino della
veste dell’altro angelo.
Nell’altro lato lungo, opposta a quella con le Marie al sepolcro, è
scolpita una scena ad essa strettamente legata, con le tre Marie dal
mercante che acquistano le unzioni prima di recarsi al sepolcro di Cristo,
tratta dal Vangelo di Marco ( 47 ). Le mirrofore, ciascuna delle quali
reca un contenitore, sono davanti a due mercanti, il più vecchio dei
quali, barbato, tiene la mano destra su un recipiente poggiato sul bancone
e regge con la sinistra la bilancia con cui pesa i profumi.
Nell’arte romanica l’iconografia delle Marie al sepolcro è desunta
dal dramma liturgico, che originariamente era solo una delle forme
della liturgia. Il culto cristiano è essenzialmente drammatico e le cerimonie
della Chiesa hanno generato il dramma sacro. È allo scadere
( 46 ) Questo modo di rappresentare l’episodio costituisce un unicum nel Romanico,
cfr. É. MÂLE, L’art religieux du XII e siècle en France, Paris 1966, p. 135.
( 47 ) Mc 16, 1: «Passato il sabato, Maria di Magdala, Maria di Giacomo e Salome
comprarono gli oli aromatici per andare ad imbalsamare Gesù». Anche secondo
Lc (24, 1) le pie donne portano alla tomba gli aromi per completare la sepoltura,
ma questi erano stati preparati da loro (23, 56; 24, 1). Mt non parla d’unzioni.
Per Gv (19, 39) fu Nicodemo a portare una mistura di mirra e d’aloe.
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STEFANIA MELE
del X secolo che apparve il più antico dei drammi liturgici, il dramma
della Resurrezione. Nel Libro dei costumi, scritto nel 967 da San
Dustano per i monasteri inglesi, la cerimonia, che aveva inizio il venerdì
santo, è descritta in tutti i suoi particolari. Quel giorno, dopo
averla venerata, si avvolgeva la croce, simbolo del Salvatore, in un
velo, simboleggiante la sindone di Cristo, e la si portava solennemente
alla tomba. Sull’altare era stata preparata un’imitazione della tomba di
Cristo, in cui si depositava la croce, che vi restava fino al mattino di
Pasqua. Prima dell’iniziale rintocco delle campane, si faceva sparire la
croce misteriosamente, non lasciando nel sepolcro che il velo. La messa
aveva inizio e il Vangelo del giorno di Pasqua era rappresentato ai
fedeli: un monaco, con indosso un camice bianco, andava a sedersi,
come l’angelo, vicino alla tomba; altri tre monaci, avvolti da lunghi
mantelli che li facevano rassomigliare a delle donne, avanzavano lentamente
e quasi esitando, con l’incensiere in mano. «Chi cercate?» domandava
loro l’angelo. «Gesù di Nazareth» rispondevano le pie donne.
«Colui che cercate» rispondeva l’angelo «non è più qui. Egli è resuscitato.
Venite e osservate il luogo dove è stato deposto il Signore».
Mostrava allora che nel luogo dove era stata collocata la croce non
v’era che il sudario. Le pie donne, preso il velo e sollevatolo davanti ai
fedeli, cantavano: «Il Signore è resuscitato». A questo segnale, i fedeli
intonavano un canto trionfale e le campane suonavano a distesa.
San Dustano non ha immaginato questo dramma, ma, specifica
nella prefazione, si è comportato come l’ape, che fa il miele con ogni
sorta di fiore, attingendo dalle chiese del continente per la sua Inghilterra.
È dunque probabile che, dal tempo carolingio, la cerimonia
pasquale si celebrasse nei monasteri francesi, diffondendosi poi,
nel Medioevo, in buona parte del mondo cristiano ( 48 ).
Anche l’iconografia delle Marie dal mercante è ripresa dal dramma
sacro della Resurrezione. Infatti, nel XII secolo, alla cerimonia liturgica
del mattino di Pasqua si aggiunse un piccolo dramma. Seguendo
il Vangelo di Marco ( 49 ), s’inserì nella liturgia pasquale un
dialogo fra le tre Marie e i venditori di aromi, che veniva recitato la
mattina di Pasqua nelle chiese del Mezzogiorno della Francia, al
quale gli artisti provenzali si sono ispirati spesse volte ( 50 ). Poiché la
discussione col mercante che alza il prezzo era diventata un momento
comico, nel capitello del Maestro dei Giudici, dove la scena con
( 48 ) É. MÂLE, L’art religieux, cit., p. 126.
( 49 ) Mc 16, 1.
( 50 ) É. MÂLE, L’art religieux, cit., pp. 133-135.

I capitelli binati dell’abbazia della Santissima Trinità di Saccargia
le Marie dal mercante si contrappone fisicamente a quella sintetica
delle Marie al sepolcro, sono quindi rappresentati entrambi gli aspetti
del dramma sacro, la commedia e la tragedia ( 51 ).
È appunto in ambito provenzale che si riscontrano confronti
puntuali per il sepolcro con i circoli del capitello di Modena. Émile
Mâle mise in luce come l’iconografia del sarcofago sia molto simile a
quella rappresentata nell’architrave del portale meridionale della facciata
della chiesa abbaziale di Saint-Gilles-du-Gard e sia praticamente
identica a quella di un fregio sul fianco destro della parrocchiale
di Notre-Dame des Pommiers a Beaucaire ( 52 ). Gli stessi testi furono
esaminati da Mario Salmi che, confrontando i sepolcri raffigurati
con quello del Pergamo di Guglielmo, notò ugualmente la presenza
dei circoli e il particolare del lenzuolo che fuoriesce dalla cassa ( 53 ).
In entrambi i modelli francesi compare, oltre alla scena con le
Marie al sepolcro, anche quella con le Marie che acquistano i profumi,
presente inoltre in un grande bassorilievo su uno dei pilastri del
chiostro di Saint-Trophime ad Arles, dove sono scolpite le pie donne,
in alto, vicine ai due mercanti di profumi seduti davanti al bancone,
in basso ( 54 ). Nello stesso pilastro, accanto a questo pannello,
è raffigurata la Resurrezione, resa però in maniera differente rispetto
alle opere analizzate: due angeli sono piazzati ai lati della tomba; la
croce, che è stata appena portata via dal sarcofago, si eleva al di sopra;
il velo che l’avvolgeva pende; un angelo, che domina la composizione,
ondula un incensiere ( 55 ). Il richiamo al dramma liturgico è
perspicuo, come in un bassorilievo visibile nella chiesa di San Paolo
a Dax che per certi aspetti richiama vagamente la lastra del pulpito
di Guglielmo e il capitello binato. Nel pannello con le Pie donne al
sepolcro, quest’ultimo è reso come una cassa sormontata da un coperchio
triangolare, sollevato da due angeli per mostrare che il corpo di
Cristo non c’è più. Sopra il sepolcro, due mani ondulano dei grandi
incensieri e una terza mano, al centro, tiene una croce. Le Marie
sono disposte ai lati, due da una parte e una dall’altra. Al dramma liturgico
riportano non solo la croce, che fa pensare a quella che a Pasqua
veniva levata dalla tomba prima dell’arrivo delle pie donne, ma
anche i due angeli, che a volte vi comparivano, secondo i Vangeli di
( 51 ) S. SETTIS, “Iconografia”, cit., p. 205.
( 52 ) É. MÂLE, L’art religieux, cit., p. 136, n. 1.
( 53 ) M. SALMI, La scultura, cit., p. 93, n. 19.
( 54 ) É. MÂLE, L’art religieux, cit., p. 135.
( 55 ) É. MÂLE, L’art religieux, cit., pp. 129-130.
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STEFANIA MELE
Luca e Giovanni ( 56 ), e i turiboli, che ricordano quelli con cui si incensava
la tomba con la croce. Sono la compresenza degli enormi incensieri
che oscillano e dei due angeli che sollevano il coperchio a rievocare
le sculture site in Sardegna, dove l’incensiere grande è uno
solo (retto dalla mano dell’angelo) e gli angeli sono quelli piccoli che
sorreggono il coperchio con le braccia tese verso l’alto.
Émile Mâle rilevò la dipendenza del capitello di Modena dalle
analoghe raffigurazioni di Saint-Gilles-du-Gard, di Beaucaire e del
chiostro di Arles, ma, secondo Renzo Grandi, è solo dal rilievo della
parrocchiale di Beaucaire, datato 1150 circa ( 57 ), che il capitello del
Maestro dei Giudici dipende, non solo dal punto di vista iconografico,
ma anche stilistico ( 58 ). Leggendo il rilievo di Beaucaire da destra
verso sinistra, la scena con l’Acquisto dei profumi, dove i due mercanti
sono rappresentati, come nel capitello di Modena, uno giovane e
l’altro vecchio, che pesa i profumi, e quella con le Marie al sepolcro,
contigue, rispettano la successione logica e testuale. Il gruppo con i
soldati messi a guardia del sepolcro è posto a sinistra di questo. Nella
raffigurazione delle Marie al sepolcro, in cui appare l’angelo e alla
sua sinistra le tre pie donne, recanti ciascuna un contenitore con i profumi
appena acquistati, il sepolcro ha otto fori, disposti su due registri
sovrapposti di quattro, separati verticalmente in due gruppi d’uguale
numero dal panneggio del lenzuolo.
A Saint-Gilles-du-Gard ( 59 ), nell’architrave del portale di destra,
risalente alla seconda metà del XII secolo ( 60 ), le scene delle Marie
che acquistano i profumi, dove, come a Modena, Arles e Beaucaire, i
mercanti sono due, e delle Marie al sepolcro, procedendo da sinistra
verso destra, si susseguono in quest’ordine logico, separate solo dal
gruppo delle guardie, che indossano cotte di maglia. Nella prima
scena le tre donne, coperte da lunghe vesti, hanno in mano i contenitori
degli unguenti e sono in piedi davanti ai mercanti che, come
ad Arles, sono seduti. Il bancone è davanti al venditore più prossimo
alle Marie, che pesa i profumi con la bilancia e ha la parte inferiore del
( 56 ) Lc 24, 4, 23; Gv 20, 12-13.
( 57 ) S. SETTIS, “Iconografia”, cit., fig. 274 e relativa didascalia.
( 58 ) R. GRANDI, “I Campionesi”, cit., p. 550.
( 59 ) La costruzione dell’edificio romanico ebbe inizio nel 1116, cfr. G. BAR-
RUOL, voce “Saint-Gilles-du-Gard”, in EAM, vol. X, Roma 1999, p. 239.
( 60 ) X. BARRAL I ALTET, “L’arte romanica (1100-1200)”, in G. DUBY, X. BAR-
RAL I ALTET, S. GUILLOT DE SUDUIRAUT, La scultura, La grande arte del Medioevo
dal V al XV secolo = Storia di un’arte, Modena 1993, p. 98, figg. a pp. 51 e 99, con
relativa didascalia.

I capitelli binati dell’abbazia della Santissima Trinità di Saccargia
corpo occultata, mentre l’altro, alla sua destra, è visibile quasi interamente.
Nella seconda le tre donne compaiono dietro al sepolcro, affianco
al quale è situato l’angelo, assiso, aureolato e con le ali spiegate.
Il sarcofago presenta una sola fila di quattro fori; tra il primo circolo a
sinistra e gli altri c’è uno spazio nel quale sembra di vedere la traccia di
un altro foro, come se questo, un tempo scolpito, fosse stato poi eliminato.
I panneggi del lenzuolo fuoriescono dalla cassa, chiusa dal coperchio,
a coprire parte dei fori disposti paratatticamente sulla destra.
Lo stile dell’artista del portale si distingue per l’irrigidimento del volume
delle pieghe, l’accentuazione dei contrasti di luce e ombra e soprattutto
per il modo di realizzare alcune pieghe a spirale ( 61 ).
È interessante notare che, ancora nella vicina Arles, sono visibili
sarcofaghi con i fori in un rilievo con i Patriarchi psicofori ( 62 ) della
facciata di Saint-Trophime, realizzata intorno al 1190. Vi si apre il
portale occidentale, concluso verso il 1190, quando la galleria romanica
del chiostro era terminata da meno di un decennio ( 63 ). Renzo
Grandi, concordando con lo Stoddard ( 64 ), che ha isolato e studiato
un gruppo di rilievi scolpiti nella zona inferiore della facciata, denunciandone
i caratteri non provenzali e il collegamento con il pontile
della cattedrale di Modena, propone di approfondire quest’opinione
sulla base del rapporto con il celebre capitello dei Giudici ( 65 )
della torre campanaria della cattedrale, detta la Ghirlandina, scolpito
appunto dal Maestro dei Giudici, l’autore del capitello del Museo
Civico di Modena. Lo studioso attribuisce a questo stesso artista i
dadi dello zoccolo della facciata di Arles ( 66 ) che hanno le proporzio-
( 61 ) X. BARRAL I ALTET, “L’arte romanica”, cit., p. 98. Gli artisti e le maestranze
di Saint-Gilles-du-Gard hanno poi operato altrove. Si avvertono echi di questo
capolavoro nella stessa Provenza, in Linguadoca e nella bassa valle del Rodano, in
Italia, in Sicilia, nella Penisola Iberica e anche in Renania, cfr. X. BARRAL I ALTET,
“L’arte romanica”, cit., pp. 98-99.
( 62 ) Per le immagini, cfr. M. THOUMIEU, Dizionario d’iconografia romanica,
Milano 1997, fig. 28; R. SALVINI, Il Chiostro, cit., figg. 60-62.
( 63 ) X. BARRAL I ALTET, “L’arte romanica”, cit., p. 99, fig. a p. 49 e relativa didascalia.
( 64 ) W.S. STODDARD, The Façade of Saint-Gilles-du-Gard. Its Influence on French
Sculpture, Middletown 1973, pp. 287-297.
( 65 ) R. GRANDI, “I Campionesi”, cit., p. 549, figg. 804, 807.
( 66 ) L’irradiamento da Arles (Montmajour, Avignone) non sempre è rapportabile
a quello di Saint-Gilles-du-Gard, soprattutto per quanto riguarda le opere più
distanti, della Catalogna, dell’Italia meridionale e della Terrasanta, cfr. X. BARRAL
I ALTET, “L’arte romanica”, cit., p. 99.
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STEFANIA MELE
ni di un capitello e su tre lati raffigurano le storie di Sansone e di
Daniele nella fossa dei leoni ( 67 ).
In Borgogna, a Saulieu, è la collegiata di Saint-Andoche, consacrata
nel 1119 ( 68 ). Fra la cinquantina di capitelli della navata centrale,
diversi per motivi e tecniche scultoree, cinque sono istoriati
con scene del Vecchio e Nuovo Testamento, scelte e sistemate senza
intenti programmatici, collocabili intorno al 1120-40. In uno di
essi, dove le forme morbide sono evidenziate dall’uso del trapano,
sono le Pie donne al sepolcro e la Resurrezione. Il sarcofago, sopra il
quale è seduto un angelo nimbato con le ali aperte, verso cui una
delle tre Marie poste sotto la cassa sembra sollevare lo sguardo, presenta
due semifori, da ciascuno dei quali fuoriesce un lembo drappeggiato
del lenzuolo. Un decoro corre lungo il bordo delle due
aperture semicircolari. Nel capitello è inoltre la scena col Cristo risorto
che appare alla Maddalena ( 69 ), non molto frequente nel Romanico,
desunta dal Vangelo ( 70 ), dove segue l’episodio delle Marie al
sepolcro. Henri Focillon, che ha studiato i rapporti tra la struttura
dei capitelli romanici e la loro elaborazione plastica, sostiene che le
ornamentazioni e le raffigurazioni siano condizionate dalla struttura
architettonica, a cui si adattano; soprattutto la figura umana viene
modificata nelle proporzioni, che arrivano ad annullarsi per assecondare
il manufatto. Egli distingue dal tipo oblungo quello corto, dotato
di una grossa testa, il più utilizzato nei capitelli, dove è usuale
vedere teste enormi su corpi piccoli, piuttosto che la tipologia lunga
che difficilmente potrebbe uniformarsi alla volumetria del capitello
( 67 ) Per le immagini, cfr. R. GRANDI, “I Campionesi”, cit., fig. 808; R. SALVI-
NI, Il Chiostro, cit., figg. 27, 71.
( 68 ) R. OURSEL, La Borgogna = Europa romanica, vol. II, Milano 1979, p. 206.
( 69 ) Cristo è rappresentato di dimensioni maggiori rispetto agli altri personaggi,
col nimbo crociato e le braccia alzate per allontanare la Maddalena che regge il
contenitore degli unguenti, dietro la quale sono due donne abbracciate.
( 70 ) Mc 16, 9: «Resuscitato al mattino nel primo giorno dopo il sabato, apparve
prima a Maria di Magdala ...»; Gv 20, 14-18: «… [Maria di Magdala] si voltò
indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era Gesù. Le disse
Gesù: «Donna perché piangi? Chi cerchi?». Essa, pensando che fosse il custode del
giardino, gli disse: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io
andrò a prenderlo». Gesù le disse: «Maria!». Essa allora, voltatasi verso di lui, gli
disse in ebraico: «Rabbuni!», che significa: Maestro! Gesù le disse: «Non mi trattenere,
perché non sono ancora salito al Padre … Maria di Magdala andò subito ad
annunziare ai discepoli …». In Mt (28, 9) Gesù risuscitato andò incontro a Maria
di Magdala e all’altra Maria. Secondo Lc (24, 15) il Cristo risorto apparve a due
discepoli in cammino verso Emmaus.

I capitelli binati dell’abbazia della Santissima Trinità di Saccargia
senza assumere posizioni difficoltose. Del tipo corto con grossa testa,
comune nella plastica provenzale e in quella lombarda, sono presenti
molteplici esemplari in Borgogna, come nella scena del Noli me
tangere del capitello di Saint-Andoche ( 71 ).
L’architettura e la scultura borgognone si diffondono in Provenza,
come testimonia anche la pianta di Saint-Gilles-du-Gard ( 72 ).
Un sepolcro con i fori appare sia nella formella bronzea con le Pie
donne al sepolcro ( 73 ) della Porta di San Ranieri, realizzata per il braccio
meridionale del transetto del duomo di Pisa, sia in quella del
Portale Maggiore del duomo di Monreale, opere di Bonanno Pisano,
che lavorò nella città toscana nell’ultimo quarto del XII secolo ( 74 ). La
Porta di San Ranieri, priva d’iscrizione, è stata attribuita allo scultore
in base al confronto con le imposte della cattedrale di Monreale ( 75 ),
firmate e datate 1186 ( 76 ). È costituita da formelle, incorniciate da
rosette carnose e dotate di didascalie ( 77 ), che svolgono il ciclo cristologico.
Nel riquadro con le Pie donne al sepolcro, sito nel battente
di sinistra e commentato dall’iscrizione SEPUL/CRUM posta in alto a
sinistra sopra le tre donne, la cassa, sistemata sotto un ciborio con
copertura a cupola, presenta due fori ai lati delle gambe dell’angelo
che vi è seduto sopra; sotto il sepolcro si trovano tre soldati, in cotta
di maglia e con l’elmo conico, addormentati e appoggiati ai rispettivi
scudi triangolari, sotto i quali spuntano le lance.
Nelle formelle circondate da rosette del Portale Maggiore di Monreale
si leggono storie del Vecchio e Nuovo Testamento. Le scene
evangeliche sono realizzate quasi sullo stesso stampo di quelle della
( 71 ) H. FOCILLON, Scultura e pittura romanica in Francia = Biblioteca di storia
dell’arte, vol. 13, Torino 1972, pp. 107-108, 112, fig. 31.
( 72 ) X. BARRAL I ALTET, “L’arte romanica (1100-1500)”, cit., p. 66.
( 73 ) Il Duomo di Pisa = Mirabilia Italiae, Atlante fotografico, a cura di A. Peroni,
Modena 1995, p. 185, fig. 413; C. BARACCHINI, in Il Duomo di Pisa, cit., p. 398,
sch. 413.
( 74 ) J. WHITE, voce “Bonanno Pisano”, in EAM, vol. III, Roma 1992, p. 616.
( 75 ) A. CALECA, “Architettura e scultura romaniche”, in Il Duomo di Pisa, Il
Battistero-Il Campanile, a cura di E. Carli, Firenze 1989, p. 22.
( 76 )«ANNO/ D(OMI)NI/ MCL/ XXXVI/ I(N)DICTIO(N)E/ III BON(N)A/ NUS CI/ VIS
PIS/ ANUS/ ME FEC/ CIT», cfr. J. WHITE, voce “Bonanno Pisano”, cit., p. 616. Per
William Melczer la Porta di San Ranieri è anteriore a quella di Monreale di una decina
d’anni, cfr. W. MELCZER, “Le porte bronzee di Bonanno Pisano”, in Le porte di
bronzo dall’antichità al secolo XIII, Testi, a cura di S. Salomi, Roma 1990, p. 387.
( 77 ) I. BALDELLI, “Le iscrizioni latine e volgari nelle porte di Bonanno Pisano”,
in Le porte di bronzo, cit., pp. 389-397.
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94
STEFANIA MELE
Porta di San Ranieri, giungendo però a risultati di qualità minore. Il
riquadro con le Marie al sepolcro è molto simile a quello di Pisa. A
sinistra, sotto la didascalia SEPULCRUM, nel gruppo con le tre donne
che portano gli unguenti nelle mani ammantate, quella situata in
posizione mediana è più visibile a paragone della corrispondente pisana,
di cui spunta solo la testa, in secondo piano. Le guardie, anche
qui tre e addormentate abbracciate agli scudi, sono stanti. Il sarcofago
sotto il baldacchino mostra tre fori ( 78 ).
Guglielmo e i suoi collaboratori iniziarono a lavorare a Pisa prima
di Bonanno e vi continuarono, è quindi certo che quest’ultimo
vide il pergamo ora locato nella cattedrale cagliaritana. Per il sepolcro
di Cristo Bonanno adottò due soluzioni proposte da Guglielmo:
il sarcofago con tre spioncini (nella formella del duomo pisano uno
dovrebbe essere sotto le gambe dell’angelo) e il motivo della rosetta.
In Puglia, un sepolcro del Redentore con tre circoli è nella lunetta
che sovrasta l’architrave della porta d’accesso alla cosiddetta Tomba
di Rotari, denominazione con cui è noto il San Giovanni in
Tumba, edificio dell’inizio del XII secolo sito nell’abitato di Monte
Sant’Angelo ( 79 ). Nel blocco inferiore dell’architrave compare la scena
della Cattura di Gesù e in quello superiore della lunetta sono gli
episodi, disposti di seguito senza soluzione di continuità, della Deposizione
dalla croce, del Trasporto al sepolcro, delle Pie donne al sepolcro
e della Resurrezione ( 80 ). Nella parte destra della lunetta, l’angelo con
le ali spiegate che stringe nella mano sinistra una croce è rivolto verso
le tre Marie che avanzano tenendo ciascuna un contenitore per i profumi;
in secondo piano il Cristo nimbato, di proporzioni maggiori,
che con la mano sinistra regge il libro e con la destra benedice, è vici-
( 78 ) Nella formella adiacente è il Cristo risorto che appare alla Maddalena, scena
assente nella porta di Pisa, con l’iscrizione: «MARIA NOLI ME TANGERE». Il Redentore
è in piedi e la Maddalena a terra, sotto un albero piegato, cfr. R. SALVINI, Il
Chiostro, cit., fig. 105.
( 79 ) L’edificio fa parte di un complesso monumentale formato dalla chiesa di
San Pietro, quasi completamente distrutta nel 1894, dal San Giovanni in Tumba,
probabile battistero del San Pietro, e dalla chiesa di Santa Maria, incominciata nel
1198, cfr. P. BELLI D’ELIA, “I grandi santuari della Puglia medioevale. Sintesi”, in
Le vie del medioevo, I Convegni di Parma, I, Atti del Convegno internazionale di
studi (Parma, 28 settembre-1 ottobre 1998), a cura di A.C. Quintavalle, Milano
2000, p. 242, fig. 12.
( 80 ) F. ACETO, “Dalla leggenda al testo figurativo: l’iconografia dell’arcangelo
Michele a Monte Sant’Angelo e l’“enigma” del San Giovanni in tumba”, in Medioevo:
immagine e racconto, I convegni di Parma, 3, Atti del Convegno internazionale
di studi (Parma, 27-30 settembre 2000), a cura di A.C. Quintavalle, Milano
2003, p. 171.

I capitelli binati dell’abbazia della Santissima Trinità di Saccargia
no al sepolcro con i tre circoli. Su quest’ultimo che, in posizione elevata,
è affiancato da due colonne, sono tre anfore o lampade ( 81 ). Per
Alessia Trivellone, che suggerisce una lettura di tipo liturgico-eucaristica
dei rilievi, le anfore alludono al Miracolo di Cana e i clipei all’ostia
( 82 ). Stefania Mola, che interpreta la scena sulla destra in relazione
alle sacre rappresentazioni, pensa che il sepolcro potesse essere
posto sotto un baldacchino, laddove la lastra è erosa ( 83 ). Francesco
Aceto ritiene ugualmente che la cassa si trovasse sotto un baldacchino
a colonne e che a sormontarla siano tre lampade che da questo
pendevano, come appare in molte rappresentazioni pittoriche e scultoree
coeve, probabilmente con riferimento al Santo Sepolcro ( 84 ).
Nella Santissima Trinità di Saccargia, il sarcofago sistemato sotto un
ciborio, rilevato anche nelle formelle di Bonanno, è raffigurato, ma
privo di circoli, nella scena della Deposizione nella Tomba delle pitture
absidali ( 85 ). Secondo Pina Belli D’Elia, i rilievi del San Giovanni in
Tumba, raffiguranti personaggi dai visi inespressivi e con indosso pesanti
vesti segnate da pieghe cordonate, potrebbero essere opera di un
lapicida locale che ha lavorato nella Francia meridionale ( 86 ). Nel
1998 la studiosa, ribadendo le assonanze di queste sculture con la
plastica del XII secolo fra la Spagna e la Francia meridionale, evidenzia
come la posizione di Monte Sant’Angelo sulla via dei pellegrinaggi
e delle crociate abbia reso possibile il soggiorno di scultori
itineranti e l’importazione e l’acquisizione di modelli e disegni, prodotti
da artisti locali con esperienza diretta in cantieri lontani ( 87 ).
Per Aceto, che esclude i collegamenti con la scultura borgognona,
( 81 ) S. MOLA, “Monte Sant’Angelo. Il battistero di San Giovanni in Tumba”,
in L’Angelo, la Montagna, il Pellegrino, Monte Sant’Angelo e il santuario di San Michele
del Gargano, Catalogo della Mostra documentaria (25 settembre-5 novembre
1999), a cura di P. BELLI D’ELIA, Foggia 1999, p. 97.
( 82 ) A. TRIVELLONE, “L’iconographie de deux bas-reliefs de Saint-Jean-in Tumba
à Monte Sant’Angelo (Pouilles). Narration de la Passion et liturgie de l’Eucharestie”,
in Cahiers de civilisation médiévale, 45, aprile-giugno 2002, pp. 157-159.
( 83 ) S. MOLA, “Monte Sant’Angelo”, cit., p. 97.
( 84 ) F. ACETO, “Dalla leggenda al testo figurativo”, cit., n. 20 a p. 183.
( 85 ) Per la scena, dove compaiono anche due donne con i contenitori degli unguenti,
cfr. S. SEDDA, “Per una rilettura degli affreschi della Santissima Trinità di
Saccargia”, in Biblioteca Francescana Sarda, a. X, Oristano 2002, pp. 198-199, fig. 5.
( 86 ) La studiosa ha sostenuto spesso questa tesi, cfr. P. BELLI D’ELIA, La Puglia
= Italia romanica, Milano 1986, pp. 400-401, fig. 139; P. BELLI D’ELIA, Puglia romanica
= Patrimonio artistico italiano, Milano 2003, p. 54, figg. 27-28.
( 87 ) P. BELLI D’ELIA, “I grandi santuari”, cit., p. 242.
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STEFANIA MELE
addotti da studi precedenti per il simile trattamento delle pieghe, le
sculture sono collocabili fra il 1120 e il 1130 ( 88 ).
Come nel capitello di Saulieu, ma diversamente rispetto agli altri
brani esaminati, nella lastra superiore di Monte Sant’Angelo è rilevabile
il Cristo risorto. Nel Nuovo Testamento non è descritto il momento
in cui Cristo esce dal sepolcro e l’iconografia tradizionale,
fino al XIV secolo compreso, attenendosi al suo dettato, mostra solo
la scena con le Marie che, giunte al sepolcro, lo trovano vuoto ( 89 ).
Sempre in Puglia, presenta analogie con il sarcofago dell’architrave
del San Giovanni in Tumba quello raffigurato in una fontana lustrale
proveniente dall’abbazia di Santa Maria di Pulsano, sita anch’essa
nel territorio di Monte Sant’Angelo, e custodita nel Museo
Lapidario della basilica di San Michele. Dall’inizio del XII secolo
l’abbazia acquistò importanza con la fondazione, ad opera di San
Giovanni da Matera, della Congregazione Pulsanese, che ebbe il suo
periodo di massimo splendore sotto l’abate Gioele (1145-77) ( 90 ). A
questo periodo risale la fontana, opera di maestranze locali o comunque
attive a Monte Sant’Angelo nel XII-XIII secolo ( 91 ). Nel
cantiere pulsanese dovevano essere presenti scultori aquitanici o reduci
da esperienze lavorative tra la Francia meridionale e la Terra
Santa ( 92 ). Nel manufatto (h. cm 221, ø cm 83) ( 93 ) è la scena delle
Marie al sepolcro ( 94 ), dove la tomba presenta delle arcatelle cieche.
Ancora in Puglia, a Monopoli, nella sagrestia della nuova cattedrale,
edificata nel 1742, laddove nel 1107 era stata eretta la vecchia,
( 88 ) F. ACETO, “L’Exultet della Biblioteca Casanatense (Cas. 724 B I 13,3) e la
scultura tra Puglia e Campania nella prima età normanna”, in Le vie del medioevo,
cit., p. 255, n. 42 a p. 257, fig. 15.
( 89 ) S. SETTIS, “Iconografia”, cit., p. 204.
( 90 ) M. MILELLA LOVECCHIO, “S. Maria di Pulsano, Monte S. Angelo”, in Insediamenti
benedettini in Puglia, Per una storia dell’arte dall’XI al XVIII secolo, Catalogo
della Mostra (Bari, Castello Svevo, novembre 1980-gennaio 1981), a cura di
M.S. Calò Mariani, vol. II, tomo I, Galatina 1981, pp. 51, 53.
( 91 ) M. MILELLA LOVECCHIO, “S. Maria di Pulsano”, cit., pp. 60-61, fig. 90.
( 92 ) P. BELLI D’ELIA, Puglia, pp. 258-259.
( 93 ) G. BERTELLI, S. MOLA, “Pulsano. L’abbazia di Santa Maria”, in L’Angelo,
cit., p. 124, sch. 24.
( 94 ) Per l’immagine, cfr. M. FUIANO, “Una comunità monastica femminile in
Capitanata nel secolo XII”, in Insediamenti benedettini in Puglia, Per una storia
dell’arte dall’XI al XVIII secolo, Catalogo della Mostra (Bari, Castello Svevo, novembre
1980-gennaio 1981), a cura di M.S. Calò Mariani, vol. I, Galatina 1980,
fig. 90.

I capitelli binati dell’abbazia della Santissima Trinità di Saccargia
sono custoditi i frammenti del portale di quest’ultima, distrutto durante
i lavori di rinnovamento della chiesa, tra i quali si trova un sottile
architrave con episodi del Nuovo Testamento, in cui è la scena
della Visita al sepolcro delle pie donne ( 95 ). Tra l’angelo a sinistra e le
tre Marie a destra, è visibile un sarcofago con tre fori che nelle intenzioni
dell’artista sarebbe dovuto risultare sotto un ciborio, ma
che in effetti, per imperizia, si trova davanti ad una delle due colonne.
I due soldati sono seduti a terra, davanti al sepolcro rialzato.
In Sicilia, nel vasto repertorio dei capitelli a coppia del chiostro
di Monreale ( 96 ), uno dei più complessi è quello con le Marie al sepolcro
( 97 ), realizzato dal Maestro della Dedica ( 98 ), in cui la scena si
svolge liberamente, senza assecondare la forma del manufatto ed
evidenziarne la struttura ( 99 ). Le figure, sovrastanti giri di foglie,
sono disposte in due gruppi separati, costituiti uno dalle tre Marie e
l’altro dall’angelo che indica loro il sepolcro e da due soldati, in cotta
di maglia, addormentati. La tomba però non è resa come un sarcofago
con i fori, ma è scavata nella roccia; in essa è il sacro lino annodato.
Nell’arte romanica, fino al XII secolo, la tomba di Cristo è rappresentata
come un monumento a due piani che ricorda gli edifici
funerari dell’antichità, con un angelo seduto davanti alla porta del
sepolcro, sulla pietra rovesciata che lo chiudeva, che annuncia alle
pie donne la Resurrezione di Gesù, come appare, per esempio, nella
scena delle Pie donne al sepolcro di un capitello proveniente dall’abbazia
di Saint Pierre di Mozat (Puy-de-Dôme) ( 100 ), della prima
metà del XII secolo. Nella scheda dedicata a questa scultura in are-
( 95 ) C.A. WILLEMSEN, D. ODENTAL, Puglia, Roma-Bari 1990, p. 39, fig. 196 e
relative didascalie 195-196, 196, a p. 301.
( 96 ) Le sculture richiamano stilisticamente diverse correnti del Romanico: pugliese,
campano, lombardo, provenzale, borgognone e dell’Ile de France, cfr. G.
CASSATA, in La Sicilia, cit., p. 210.
( 97 ) G. CASSATA, in La Sicilia, cit., p. 210, fig. 94. In questa bina E 24 (secondo
la classificazione di Roberto Salvini) compaiono inoltre il Cristo al Limbo e il
Quo Vadis Domine, mentre uno dei lati brevi è decorato con un motivo fitomorfo,
cfr. R. SALVINI, Il Chiostro, cit., pp. 116, 119, fig. XV. Il capitello è opera di maestranze
locali, cfr. F. GANDOLFO, “Il chiostro di Monreale”, cit., p. 239.
( 98 ) Così chiamato dal soggetto di una delle bine che scolpì, Re Guglielmo II
che offre il tempio alla Vergine, cfr. R. SALVINI, Il Chiostro, cit., fig. IX.
( 99 ) R. BOSSAGLIA, Scultura italiana, dall’alto medioevo all’età romanica, Milano
1966, fig. 119.
( 100 )É. MÂLE, L’art religieux, cit., p. 127, fig. 107.
97

98
STEFANIA MELE
naria (cm 72 x 70 x 70, ø cm 55), Paola Mathis nota come la visita
delle Marie al sepolcro sia l’anticipazione del successivo fenomeno
del pellegrinaggio ( 101 ).
Durante il XII secolo cambia il modo di rappresentare la Resurrezione
e il sepolcro, che gli artisti iniziarono a rendere come un sarcofago;
questo, aperto o con un’apertura, lasciava di solito intravedere un
sudario ( 102 ). Anche per quest’iconografia gli scultori si rifecero al
dramma liturgico della Resurrezione, dove, al momento opportuno,
un figurante che interpretava Cristo usciva dalla tomba in cui era nascosto
( 103 ). È interessante l’iconografia del capitello di Saulieu, poiché
il suo sepolcro è l’unico di questo campionario ad ospitare delle
vere aperture, dalle quali fuoriescono due porzioni di lenzuolo. Questo
fatto avalla l’ipotesi che anche per i circoli delle altre arche si possa
effettivamente parlare di fori e non magari di dischi, come li definisce
Mario Salmi ( 104 ), o di alloggi per patere maiolicate (eccetto però per
le formelle di Bonanno). Forse la cassa che sulla scena del dramma sacro
simulava il sepolcro presentava realmente dei fori, verosimilmente
per permettere all’attore di respirare agevolmente e per mostrare il
“sacro lino”, e gli artisti ebbero così l’idea del sarcofago con i fori.
Gli scultori adottarono l’iconografia della tomba con i fori anche
per raffigurare sepolcri avulsi dalla storia di Cristo, come nel rilievo
della facciata di Saint-Trophime con i Patriarchi psicofori, in cui si
rappresenta un episodio dell’Antico Testamento.
Al novero dei confronti pertinenti il capitello di Saccargia si deve
aggiungere un particolare scultoreo rilevato nella già citata chiesa di
Sant’Antioco di Bisarcio. Nell’arcata sinistra del portico d’ingresso è
un angelo turiferario con le ali aperte, vestito con una tunica con le
maniche corte e recante nella mano destra un incensiere lavorato col
trapano. Fernanda Poli data la plastica degli archivolti alla seconda
metà del XII secolo ( 105 ).
La rappresentazione della Resurrezione occupa nel capitello di
Saccargia l’altro lato lungo. Nelle Scritture manca una puntuale de-
( 101 )P. MATHIS, “Capitello con pie donne al Sepolcro”, in Romei e Giubilei, Il
pellegrinaggio medioevale a San Pietro (350-1350), catalogo della mostra (Roma, Palazzo
Venezia, 29 ottobre 1999-26 febbraio 2000), a cura di M. D’Onofrio, Milano
1999, sch. 179 a p. 387. L’immagine che correda la scheda è in controparte.
( 102 )É. MÂLE, L’art religieux, cit., p. 127.
( 103 ) M. THOUMIEU, Dizionario d’iconografia romanica, cit., p. 334.
( 104 ) M. SALMI, La scultura, cit., p. 93, n. 19.
( 105 ) F. POLI, “La decorazione scultorea del Sant’Antioco di Bisarcio. Nuovi
dati per vecchie attribuzioni”, in Sacer, n. 6, 1999, pp. 183-185, figg. 4-6.

I capitelli binati dell’abbazia della Santissima Trinità di Saccargia
scrizione di quest’episodio della storia di Gesù, che viene liberamente
interpretato dagli artisti ( 106 ); infatti la disposizione e il numero
degli armigeri sono variabili. Di solito i soldati che devono sorvegliare
il sepolcro, affinché il corpo di Cristo non venga portato via
dai discepoli, sono quattro e addormentati, abbigliati come armigeri
medievali piuttosto che come soldati romani. È così anche nel pannello
del Pergamo di Guglielmo, dove però uno dei quattro soldati
viene rivoltato quasi a testa in giù da un piccolo diavolo nudo e con
le ali aperte che, come quello di Saccargia, ha un’enorme bocca spalancata.
La guardia all’estrema destra, con la mano sinistra poggiata
su uno scudo, è ora acefala, ma si può immaginare anch’essa dormiente.
Anche nel capitello compaiono quattro soldati e il diavolo,
ma questo, di dimensioni maggiori, non agisce contro di loro; qui
gli armati sono peraltro svegli e quello che solleva il pugnale sembra
essere all’attacco. Le due guardie del lato breve sono divise da una
lancia, elemento di separazione anche nella lastra dell’ambone fra il
soldato che dorme con la testa appoggiata alla mano e quello che
precipita e tra i due che poggiano sui propri scudi. In entrambe le
opere custodite nell’isola le guardie indossano l’armatura e l’elmo
conico.
Sullo sfondo del capitello è il motivo decorativo delle rosette,
presente in diverse lastre del pergamo, con varie tipologie. Le rosette
di Saccargia non ricordano quelle appiattite e fitte sullo sfondo della
lastra con le Marie al sepolcro e la Resurrezione, ma piuttosto quelle
carnose e aggettanti della lastra con l’Adorazione dei Magi nel registro
superiore e il Ritorno dei Magi in quello inferiore ( 107 ).
L’autore dei capitelli binati ha poi ripreso in uno di essi le fiere stilofore
su cui basava il pergamo ( 108 ), prima che fosse smontato e collocato
nella controfacciata del duomo. Se il pergamo è giunto in Sardegna
quando ormai si era diffuso il gotico, non potendo quindi diventare
un modello locale ( 109 ), ai quattro leoni sistemati dal XVII secolo
nel presbiterio hanno invece guardato architetti e scultori in mol-
( 106 ) S. ZUFFI, Episodi e personaggi del Vangelo, Milano 2002, p. 338.
( 107 ) Nella scena con il Ritorno dei Magi compaiono però anche rosette dalla
doppia corolla.
( 108 ) Sui leoni non sono presenti tracce di basi per il sostegno delle colonne, cfr.
A. MILONE, G. TIGLER, “Catalogo dei pulpiti romanici toscani”, in Pulpiti medievali
toscani, Storia e restauri di micro-architettura, Atti della Giornata di Studio (Firenze,
Accademia delle Arti del Disegno, 21 giugno 1996), a cura di D. Lamberini, Firenze
1999, p. 164 (sch. 15 di A. MILONE).
( 109 ) C. MALTESE, Arte in Sardegna, cit., p. 14.
99

100
STEFANIA MELE
te chiese dell’isola ( 110 ), giungendo a esiti decisamente inferiori. Tra le
fiere del pergamo, quelle di Saccargia ricordano in particolare il leone
con il cavaliere e il cerbiatto, ed anche il leone del leggio con il Tetramorfo.
Il leone, frequentemente rappresentato dagli artisti romanici, non
faceva parte della fauna locale e probabilmente gli scultori lo riprendevano
dai tessuti orientali. È un motivo iconografico molto antico
e ricco di valenze semantiche, anche contradditorie ( 111 ). Nella simbologia
medioevale, dove ricopre un posto rilevante, indica la Resurrezione.
I leoni disposti in coppie significano anche l’atteggiamento
del Cristo «benigno coi buoni, implacabile coi malvagi», secondo
San Girolamo ( 112 ).
L’organizzazione delle coppie in simmetria antitetica, come nel
capitello sardo, è una disposizione tipica dell’arte orientale, frequentemente
adoperata, che gli scultori romanici hanno mutuato soprattutto
dai modelli offerti dai tessuti e forse anche dalle fibule ( 113 ).
Come nelle composizioni orientali, centrate da un asse mediano, i
leoni retrospicienti sono divisi dalla grossa linea costituita, sullo
sfondo, dall’intreccio delle code e, su un piano più rilevato, dall’unione
delle zampe anteriori.
Un capitello (cm 29 x 37 x 33) che mostra in ogni lato due leoni
con i corpi affrontati e le teste retrospicienti che formano le volute angolari,
lacunoso soprattutto nell’abaco, proviene dalla chiesa matildica
di Sant’Apollonio Canossa, in provincia di Reggio Emilia, ed è custodito
nel Museo Campanini. La scultura, citata dal Campanini già
nel 1894, è assegnata da Arturo Calzona al primo decennio del XII
secolo ( 114 ).
Nel chiostro dell’abbazia di Cava dei Tirreni, l’unico capitello binato
figurato ( 115 ) mostra in uno dei lati brevi due leoni affrontati,
però per le terga, con le estremità delle code che si uniscono in alto,
( 110 ) C. MALTESE, R. SERRA, “Episodi di una civiltà anticlassica”, [1969], in
Arte in Sardegna, Milano 1986, p. 179.
( 111 ) M.G. CHIAPPORI, voce “Leone”, in EAM, vol. VII, Roma 1996, p. 635.
( 112 ) O. BEIGBEDER, Lessico dei simboli medievali, Milano 1989, pp. 176-177.
( 113 ) H. FOCILLON, Scultura e pittura, cit., p. 85.
( 114 ) A. CALZONA, in A.C. QUINTAVALLE, Wiligelmo e Matilde, L’officina romanica,
catalogo della mostra (Mantova, Fruttiere di Palazzo Te, 15 giugno-30 settembre
1991), Milano 1991, p. 431, sch. 38b.
( 115 ) F. GANDOLFO, La scultura normanno-sveva in Campania, Bari 1999, p. 45,
fig. 57.

I capitelli binati dell’abbazia della Santissima Trinità di Saccargia
sotto l’abaco, al centro della faccia del capitello, e le teste e le zampe
anteriori che segnano gli angoli.
In Spagna, un capitello con due leoni raffigurati come a Saccargia
proviene dal secondo chiostro, risalente alla seconda metà del XII secolo,
del monastero di Sant Pere de Rodes, il cui primo chiostro fu
costruito poco dopo la chiesa, alla fine del X o all’inizio dell’XI secolo
( 116 ). Il capitello, ritrovato nel 1978 a Llança e conservato nella collezione
J. Barrachina di Barcellona, in pietra calcarea (cm 35 x 28 x [28],
ora 18), presenta una lacuna nella zona dove è la testa del leone di
destra ( 117 ). Le fiere sono retrospicienti e con le zampe anteriori
combacianti che però, diversamente da quelle di Saccargia, terminano
nella bocca di una testa umana sistemata al centro della composizione;
le code corrono lungo le loro schiene, fino ad arrivare alla testa.
Anche in questo caso, le teste girate sono sistemate laddove si sarebbero
altrimenti trovate le volute di un capitello corinzio.
Dal monastero di Sant Pere de Rodes proviene anche un capitello
( 118 ), conservato al Museo di Cluny, con le Marie che acquistano i
profumi e le Marie al sepolcro, che va ad aggiungersi agli esemplari
scultorei già esaminati istoriati con entrambe le scene del dramma liturgico
pasquale.
3. Conclusioni. – I confronti addotti per i capitelli binati di Saccargia
riconducono, per via diretta o indiretta, alla Francia, soprattutto
alla Provenza, e alla Spagna. La ricerca condotta sul filo rosso dei sarcofaghi
con i fori ha portato inizialmente al Pergamo di Guglielmo,
modello certo per i capitelli, considerando che finora il particolare
della cassa con i due piccoli angeli non è stato riscontrato altrove. Gli
studiosi hanno posto l’accento sulle affinità di Guglielmo con gli scultori
provenzali, soprattutto quelli attivi a Saint-Gilles-du-Gard, Beaucaire
e Saint-Trophime ad Arles. Secondo Corrado Maltese, sebbene
siano indubbi i contatti tra l’arte romanica provenzale e quella toscana,
la personalità di Guglielmo non dipese dalla cultura provenzale,
ma si sviluppò nell’alveo di quella pisana in modo autonomo ( 119 ). Il
101
( 116 ) I. LORÉS I OTZET, in Catalunya romanica, visió de síntesi, restauraciones i
noves traballes, bibliografia, index generals, Enciclopèdia catalana, XXVII, Barcelona
1998, p. 157.
( 117 ) J. BARRACHINA I NAVARRO, in Catalunya romanica, cit., p. 159, fig. a p. 159.
( 118 ) I. LORÈS I OTZET, in Catalunya romanica, cit., p. 158, fig. a p. 158.
( 119 ) C. MALTESE, Arte in Sardegna, cit., pp. 200-201.

102
STEFANIA MELE
capitello del Maestro dei Giudici, custodito nel Museo Civico di
Modena, ha rivelato la dipendenza iconografica da sculture appartenenti
agli stessi grandi complessi provenzali chiamati in causa per il
Pergamo di Guglielmo. Questo capitello appartiene ad un ambone un
tempo posto nella pieve matildica di Carpiteti nel Reggiano, territorio
dove è anche la chiesa da cui proviene il capitello con i leoni
retrospicienti custodito nel Museo Campanini. Le formelle di Bonanno
denunciano una ripresa dei modi propri di Guglielmo, riscontrabile
sia nel sarcofago con i circoli sia nel motivo decorativo delle rosette.
Per le sculture dell’architrave del San Giovanni in Tumba, Pina
Belli D’Elia pensa ad assonanze con opere realizzate fra la Spagna e la
Francia meridionale e ad un artista locale che abbia fatto esperienza
diretta nei cantieri di quelle regioni. Il capitello con l’unico sarcofago
in cui i fori sono veramente tali, con l’aggiunta del particolare dei
lembi di lenzuolo che fuoriescono, è a Saulieu, in Borgogna, da dove
l’architettura e la scultura si diffusero anche in Provenza, come proprio
la chiesa di Saint-Gilles-du-Gard dichiara.
Alla Spagna riportano, oltre i vari capitelli binati fogliacei, il capitello
di Sant Pere de Rodes con i leoni affrontati e le teste rivolte all’indietro
e quello che diventa il quinto nella serie di sculture che
mostrano sia le Marie al sepolcro sia le Marie dal mercante.
Sulla base dei confronti apportati in questo studio, i capitelli a
coppia della Santissima Trinità si possono collocare nella seconda
metà del XII secolo, torno di tempo pertinente anche alla seconda
fase edilizia della chiesa, riguardante, oltre l’ampliamento dell’edificio,
anche parte delle strutture monastiche.
Infatti, se nel Medioevo i capitelli binati venivano sistemati sia nei
chiostri sia nei campanili, ma non solo, e Saccargia offre la duplice
possibilità di collocazione, è preferibile scartare l’ipotesi che i capitelli
fossero posti sulle bifore e trifore del suo campanile dalle dimensioni
spropositate, sulla base di due considerazioni. La prima riguarda il fatto
che non esistono documenti che possano fugare il dubbio che il
campanile, demolito fino al davanzale delle bifore nel 1903-06 ( 120 ),
sia frutto di invenzione moderna; la seconda la difficoltà di immaginare
tanto in alto dei capitelli minuziosamente lavorati, soprattutto i due
con decorazione zoomorfa e scene evangeliche, che non si sarebbero
potuti osservare nei dettagli. È probabile quindi che fossero su colonne
binate appartenenti ad uno o a entrambi i chiostri del monastero.
È solo dal XII secolo che i chiostri furono ricoperti dall’ornamentazione
plastica; la facilità con cui le sculture potevano essere portate
( 120 ) R. DELOGU, L’architettura, cit., p. 155, n. 39 a p. 175.

I capitelli binati dell’abbazia della Santissima Trinità di Saccargia
via ha fatto sì che, a partire dal XIX secolo, spesso fossero spogliati
per arricchire il patrimonio dei collezionisti ( 121 ). Un altro motivo
per il quale di molti manufatti non esiste più traccia è che potrebbero
essere stati sciolti per farne calce. Non è dato sapere che sorte sia toccata
ai perduti capitelli di Saccargia. Per quanto solo raramente una
serie di capitelli sia scolpita e collocata seguendo un compiuto programma
iconografico, ma di solito un singolo manufatto o un piccolo
insieme costituisce una “citazione” di una storia biblica ( 122 ), è possibile
che i capitelli della Santissima Trinità ospitassero le restanti scene
raffigurate nel Pergamo di Guglielmo con le Storie di Maria, dei
Magi e di Cristo, oppure che fra essi fosse anche la scena con le mirrofore
che acquistano i profumi.
La decorazione con i cespi di uno dei capitelli binati ricorda una
cornice dell’atrio del Sant’Antioco di Bisarcio, risalente alla seconda
metà del XII secolo. Studi precedenti hanno rilevato come alcuni ornati
di questo portico siano simili a quelli scolpiti da Guglielmo e
aiuti nel duomo pisano, in particolare al Fregio delle cacce ( 123 ), realizzato
entro il 1159 ( 124 ).
Se il motivo del sarcofago con i fori è presente anche nei considerati
monumenti in Italia e Francia, i capitelli della Santissima Trinità
condividono il particolare con la cassa sollevata dalle piccole figure
alate solo con il Pergamo di Guglielmo. Analizzando dal punto di
vista stilistico e formale la lastra della cattedrale e il capitello di Saccargia
con le scene neotestamentarie, così come le fiere stilofore e il
capitello con i leoni affrontati, si avverte molto di più tra le opere di
una semplice ripresa di motivi iconografici. Non sottovalutando il
differente stato di conservazione in cui esse si trovano, le sculture di
Saccargia sono erose e in certi tratti lacunose, si rilevano sicuramente
delle differenze nella resa che portano ad escludere una stessa
mano, ma anche delle affinità che lasciano pensare che anche i capitelli
binati possano essere della stessa taglia di Guglielmo.
( 121 ) X. BARRAL I ALTET, “L’arte romanica”, cit., p. 56.
( 122 ) S. SETTIS, “Iconografia”, cit., p. 205.
( 123 ) A. MILONE, “Il Duomo e la sua facciata”, in Il Duomo di Pisa, cit., pp. 191-
206; A. MILONE, in Il Duomo di Pisa, cit., pp. 353-355, sch. 137-179.
( 124 ) R. CORONEO, Architettura, cit., pp. 90-93, sch. 19, con bibliografia precedente
a p. 317; F. POLI, “La decorazione”, cit., pp. 167-195.
103

104
STEFANIA MELE
Fig. 1. Santissima Trinità di Saccargia, capitello con fogliame (foto Giuseppe Ungari).
Fig. 2. Santissima Trinità di Saccargia, capitello con cespi (foto Giuseppe Ungari).

I capitelli binati dell’abbazia della Santissima Trinità di Saccargia
Fig. 3. Santissima Trinità di Saccargia, capitello con scene neotestamentarie (foto
Giuseppe Ungari).
Fig. 4. Santissima Trinità di Saccargia, capitello con scene neotestamentarie (foto
Giuseppe Ungari).
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STEFANIA MELE
Fig. 5. Santissima Trinità di Saccargia, capitello con scene neotestamentarie (foto
Giuseppe Ungari).
Fig. 6. Santissima Trinità di Saccargia, capitello con scene neotestamentarie (foto
Giuseppe Ungari).

I capitelli binati dell’abbazia della Santissima Trinità di Saccargia
Fig. 7. Santissima Trinità di Saccargia, capitello con leoni, fronte (foto Giuseppe
Ungari).
Fig. 8. Santissima Trinità di Saccargia, capitello con leoni, fianco (foto Giuseppe
Ungari).
107

ROBERTO CORONEO
IL PECCATO E L’ETERNA LOTTA FRA IL BENE E IL MALE
UN PERCORSO ICONOGRAFICO
NELLA SCULTURA ROMANICA DELLA CORSICA
L’architettura del XIII secolo non ha lasciato in Corsica monumenti
di particolare rilevanza qualitativa. Il declino della potenza pisana
favorisce l’attività di maestranze locali, con risultati tecnicamente
modesti. Fa eccezione il battistero di San Giovanni, annesso
alla chiesa romanica di Santa Maria di Rescamone. I ruderi della
chiesa, pieve di Rostino, e del battistero, dedicato a San Giovanni
battista, sorgono su un pianoro montano nel commune di Valle di
Rostino. Nel Medioevo la pieve di Rostino era compresa nella diocesi
d’Accia. La chiesa dell’XI-XII secolo, mononavata, fu costruita a
nord di una chiesa più antica, che doveva avere all’incirca la stessa
larghezza (variabile fra 7,30 e 7,70 metri), ma era a tre navate con
abside a est e con mosaico pavimentale. Quest’ultima era affiancata
a sud da una seconda aula, mononavata e ugualmente orientata, che
ospitava un fonte battesimale cruciforme, databile al V-VI secolo ( 1 ).
Nei primi decenni del XIII secolo, accanto alla chiesa romanica sorse
un battistero monumentale, a pianta ottagonale con tetto in legno di
grandi dimensioni. Quest’ultimo poggiava al centro su una singolare
struttura a forma di torre, basata sul fonte battesimale, della quale si ha
memoria in un disegno del 1771 ( 2 ). Le monofore sono a doppio strom-
( 1 ) G. MORACCHINI-MAZEL, Les Églises Romanes de Corse, I-II, Paris 1967, pp. 50-
53, 292-293; G. MORACCHINI-MAZEL, Corse romane, La Pierre-qui-vire 1972, pp. 55-
58; Les églises piévanes de Corse de l’époque romaine au Moyen Age, XI – La piévanie
de Rescamone = Cahiers Corse, 98-99, 1982; PH. PERGOLA, “La christianisation du
monde rural dans la Corse vandale et byzantine”, in L’Africa romana. Atti del XII
convegno di studio, II, Sassari 1998, pp. 815-824; G. MORACCHINI-MAZEL, Corsica
Sacra, I, IVe-Xe siècles, Portovecchio 2004, pp. 207-209.
( 2 ) G. MORACCHINI-MAZEL, Les Églises Romanes, cit., pp. 123-125.

110
ROBERTO CORONEO
bo con centina ogivale. I muri sono in conci squadrati di pietra scistosa.
Uno smottamento del terreno ha causato il crollo della copertura, della
quale non sussiste più alcuna traccia, e lo slittamento di parte dei muri
verso valle. Nell’area della pieve furono ritrovati diversi elementi scultorei:
un’acquasantiera con figure umane, oggi spezzata in due e adagiata
all’interno della chiesa, e due lunette di portale, oggi murate nel battistero,
dove dovevano comunque trovarsi anche in origine.
La pianta ottagonale è presente in Corsica anche nei ruderi di
battisteri intitolati a San Giacomo o a San Leonardo, individuati in
siti montani a Col di Tenda (Sorio) ( 3 ), a Pied’Orezza e a Perelli
d’Alesani ( 4 ). Essa riflette il prototipo della rotonda del Santo Sepolcro
a Gerusalemme, largamente ripreso fra l’XI e il XIII secolo in
una serie di edifici che ne reinterpretano – in modi assai variati e originali,
lontani dalla moderna accezione di “copia” – la configurazione
a pianta centrale con grandiosa copertura provvista di opaion ( 5 ). Nel
caso degli edifici corsi, il modello più prossimo va individuato a
Pisa, nella cappella di Sant’Agata, attestata per la prima volta nel
1132 ( 6 ), o nella chiesa del Santo Sepolcro, attestata per la prima
volta nel 1138 ( 7 ) e tradizionalmente ascritta a Deotisalvi ( 8 ), l’architetto
che nel 1152 gettò le fondamenta del battistero del duomo. In
particolare, proprio dalla soluzione a doppio involucro adottata in
quest’ultima potrebbe derivare il suggerimento per l’invenzione del
singolare pilastro-lanterna, che nel battistero di Rescamone assolveva
alla duplice funzione di appoggio delle falde del tetto prismatico
e di illuminazione centrale dell’interno.
Nei portali del battistero e non nella pieve di Rescamone dovevano
esser collocate le due lunette scultoree oggi murate a terra per preservarle
da rotture o furto. La prima (fig. 1) rappresenta in modo assai
( 3 ) G. MORACCHINI-MAZEL, Les Églises Romanes, cit., pp. 125-127, 256.
( 4 )G. MORACCHINI-MAZEL, Corsica Sacra, cit., pp. 253-255.
( 5 ) R. KRAUTHEIMER, “Introduzione a un’iconografia dell’architettura sacra
medievale”, in Architettura sacra paleocristiana e medievale, e altri saggi su Rinascimento
e barocco, Torino 1993, pp. 98-150.
( 6 ) P. SANPAOLESI, Il Duomo di Pisa e l’architettura romanica toscana delle origini,
Pisa 1975, p. 234; F. REDI, Pisa com’era: archeologia, urbanistica e strutture materiali
(secoli V-XIV), Napoli 1991, p. 364.
( 7 ) P. SANPAOLESI, Il Duomo di Pisa, cit., p. 234; I. MORETTI, R. STOPANI, La
Toscana = Italia romanica, 5, Milano 1982, pp. 350-351.
( 8 ) P. PIEROTTI, L. BENASSI, Deotisalvi. L’architetto pisano del secolo d’oro, Pisa
2001.

Il Peccato e l’eterna lotta fra il Bene e il Male
sommario Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre, ai lati dell’albero del
peccato; l’altra il serpente (fig. 2). Entrambe sono state ascritte al X secolo
( 9 ), ma l’arcaicità è solo apparente, in quanto semplicemente riflette
basse capacità di esecuzione tecnica. Se ne ha la prova nel ricorrere
di rilievi analoghi quanto alle scelte iconografiche e all’impaginazione,
sebbene di qualità plastica più elevata, nelle lunette dei portali
della chiesa di San Quilico a Cambia, correttamente ascritte alla prima
metà del XIII secolo ( 10 ). San Quilico ( 11 ) si trova nel bosco a breve distanza
dall’abitato di Cambia e dalla chiesa di Santa Maria di Corsoli
( 12 ), con murature lisce caratterizzate da un taglio regolare della pietra,
però prive di decorazioni scultoree. Alle due chiese si lega una curiosa
tradizione orale, raccolta da Geneviève Moracchini-Mazel ( 13 ).
Secondo la memoria locale, San Quilico sarebbe opera della stessa famiglia
di costruttori di Santa Maria: uno sarebbe stato il padre e l’altro
il figlio. Il primo lavorava a San Quilico e l’altro a Santa Maria. Il padre
si sarebbe fermato a tratti, per giudicare dal solo rumore degli arnesi
sulla pietra se il figlio stesse procedendo nel modo corretto; in caso
contrario, data la vicinanza, gli avrebbe gridato le istruzioni per farlo.
Nel Medioevo Cambia era compresa nella pieve di Vallerustie e
nella diocesi di Aleria. La chiesa di San Quilico fu costruita nei primi
decenni del XIII secolo e restaurata nel 1596. La pianta è a navata
unica, coperta in legno, con abside a est. I muri, in conci squadrati
di scisto, sono lisci, privi di lesene e persino di paraste d’angolo. I
tetti esterni sono in lastre di scisto. Lungo i terminali corrono archetti
impostati su peducci decorati con motivi geometrici, fitomorfi,
zoomorfi o antropomorfi. Le monofore sono a doppio strombo
con centina ogivale. I portali sono del tipo architravato e lunettato.
Nella lunetta del portale della facciata (fig. 3) sono scolpite ad altorilievo
le figure di Adamo ed Eva ai lati del serpente attorcigliato all’albero
del Peccato, nell’atto di porgere ad Adamo il frutto proibito,
che tiene nella bocca. Nella lunetta del portale nel fianco sud (fig. 4)
un uomo impugna con la mano destra una spada con la quale si appresta
a uccidere il serpente, che tiene fermo con l’altra mano. En-
( 9 ) G. MORACCHINI-MAZEL, Les Églises Romanes, cit., p. 52.
( 10 ) G. MORACCHINI-MAZEL, Les Églises Romanes, cit., p. 153.
( 11 ) G. MORACCHINI-MAZEL, Les Églises Romanes, cit., pp. 153-155, 324; G.
MORACCHINI-MAZEL, Corse romane, cit., pp. 227-229.
( 12 ) G. MORACCHINI-MAZEL, Les Églises Romanes, cit., pp. 155-156, 323-324;
G. MORACCHINI-MAZEL, Corse romane, cit., p. 229.
( 13 ) G. MORACCHINI-MAZEL, Les Églises Romanes, cit., p. 324.
111

112
ROBERTO CORONEO
trambe le figurazioni simboleggiano la lotta del credente contro il
Male e la promessa di salvezza per chi varchi la soglia della chiesa.
Oltre che a Rescamone e a Cambia, la tradizione iconografica
persiste anche nelle lunette del portale sud della chiesa di San Cipriano
a Quercitello ( 14 ) e del portale della facciata di Santa Reparata
a Morosaglia ( 15 ). Entrambe raffigurano due serpenti intrecciati,
intenti a mordersi la coda, e ripropongono non uno scarto di datazione,
bensì lo stesso dislivello tecnico: la lunetta di Quercitello è a
rilievo piatto e sommario, come quelle di Rescamone, mentre quella
di Morosaglia è definita in senso plastico, come quelle di Cambia.
Altra lunetta con rilievo similmente ridotto ai minimi termini proviene
dalle rovine di Sant’Andrea a Oletta ( 16 ) e raffigura il tema cristologico
dell’uomo che si accosta alla vite, promessa di salvezza. Variamente
declinato in più versioni iconografiche, il tema della lotta
fra il Bene e il Male sembra costituire il filo rosso che lega gli episodi
salienti della scultura dell’XI-XII secolo in Corsica.
Nella facciata della chiesa dei Santi Pietro e Paolo, pieve di Lumio
( 17 ), compresa nella diocesi di Sagone (poi di Aleria) ed eretta
nella seconda metà dell’XI secolo, sono inseriti ai lati del portale due
leoni dalle fauci spalancate (fig. 5). La loro posizione originaria poteva
essere alla base delle colonne di un ipotetico portico, già esistente
nel fianco sud oppure in facciata stessa. Non è neanche escluso
che stessero ai lati del portale, posti a reggerne l’arco di scarico
della lunetta. Nell’antichità classica e preclassica il leone esprimeva
dignità, forza, coraggio ed era collocato nelle porte delle città o dei
templi per proteggerne l’ingresso, in quanto si credeva che dormisse
a occhi aperti ( 18 ). Nel Medioevo il leone mantiene la sua funzione
apotropaica ma è anche simbolo di Cristo, della sua funzione protettiva
contro il Male e del suo messaggio di salvezza ( 19 ).
( 14 ) G. MORACCHINI-MAZEL, Les Églises Romanes, cit., pp. 156-157, 289.
( 15 ) G. MORACCHINI-MAZEL, Les Églises Romanes, cit., pp. 293-294.
( 16 ) G. MORACCHINI-MAZEL, Les Églises Romanes, cit., p. 252.
( 17 ) G. MORACCHINI-MAZEL, Les Églises Romanes, cit., pp. 72-74, 281; G. MO-
RACCHINI-MAZEL, Corse romane, cit., pp. 111-113; G. MORACCHINI-MAZEL, Corsica
Sacra, cit., pp. 234-235.
( 18 ) M.G. CHIAPPORI, “Il leone”, in La seta e la sua via, catalogo della mostra,
Roma 1994, pp. 143-145.
( 19 ) C. BARACCHINI, M.T. FILIERI, “De ore leonis libera me domine”, in Niveo
de marmore. L’uso artistico del marmo di Carrara dall’XI al XV secolo, catalogo della
mostra, Genova 1992, pp. 126-129.

Il Peccato e l’eterna lotta fra il Bene e il Male
Dal punto di vista tecnico-formale i due leoni di Lumio posseggono
elementi di stretto contatto con la coppia di leoni un tempo
collocati all’esterno della chiesa di San Giorgio a Sorbano del Giudice
(Lucca), già ritenuti di età romana ma ricondotti all’orizzonte del
XII secolo, in base al confronto con la coppia degli stessi animali
nella collezione Borelli Baroni a Lucca ( 20 ). Per la verità questi ultimi
sono di fattura decisamente più raffinata, oltreché diversi iconograficamente
(sovrastano potenziali vittime, laddove quelli di Sorbano
del Giudice sono semplicemente acquattati), per cui i primi potrebbero
in realtà anticiparsi alla seconda metà dell’XI secolo e istituire
così un parallelismo anche cronologico con quelli di Lumio,
caratterizzati come sono dallo stesso atteggiamento, dalle fauci semiaperte
e ghignanti e dagli occhi ovoidali fortemente contornati da
un cordoncino. Analoghi dettagli in un doccione a protome leonina
appartenente alla decorazione scultorea della cattedrale di San Lorenzo
a Genova (fine dell’XI-inizi del XII secolo) ( 21 ).
Nel fianco sud della chiesa corsa di San Parteo di Mariana (Lucciana),
ricostruita nel primo quarto del XII secolo su un’aula più antica,
in un’area funeraria che comprende sepolture del V-VI secolo ( 22 ), il
portale ha un architrave a timpano rialzato, decorato con leoni affrontati
all’albero della vita (fig. 6). Il rilievo è caratterizzato dalla
resa corposamente plastica. Due sono gli elementi utili alla definizione
formale: il taglio e l’iconografia dell’architrave. Il tipo di portale
a timpano rialzato rappresenta una soluzione alternativa al tipo
lunettato, più frequente ed ugualmente strutturato per la risoluzione
ottimale del problema generato dal carico della struttura muraria,
massimo al centro dell’architrave. Sia l’arco di scarico sia il timpano
rialzato convogliano infatti le spinte sui piedritti, evitando la fessurazione
mediana dell’architrave.
Portali con architrave a timpano rialzato non sono rari nell’architettura
sarda e pisana del XII secolo, dove coesistono con portali con
architrave lunettato, come del resto accade in Corsica nel fianco sud
113
( 20 ) G. DALLI REGOLI, Dai maestri senza nome all’impresa dei Guidi. Contributi
per lo studio della scultura medievale a Lucca, Lucca, 1986, pp. 41-42, figg. 37, 39
(Sorbano del Giudice), figg. 38, 40 (coll. Borelli Baroni).
( 21 ) A. DAGNINO, in Niveo de marmore, cit., p. 107, sch. 9; A. DAGNINO, “Il
passaggio al romanico”, in Christiana signa, testimonianze figurative a Genova tra
IV e XI secolo, catalogo della mostra, Genova 1998, pp. 28-29.
( 22 ) G. MORACCHINI-MAZEL, Les Églises Romanes, cit., pp. 60-62, 94, 218; G.
MORACCHINI-MAZEL, Corse romane, cit., pp. 79-82; G. MORACCHINI-MAZEL, Corsica
Sacra, cit., pp. 281-285.

114
ROBERTO CORONEO
della Canonica di Mariana, che ha due portali di cui uno di un tipo e
uno dell’altro. Hanno inoltre architravi a timpano rialzato le chiese di
San Quilico a Bisinchi (documentata dal 1154) ( 23 ), San Pietro, pieve
di Caccia, a Canavaggia ( 24 ), San Giovanni battista, pieve di Sisco ( 25 ).
In Sardegna architravi dello stesso tipo sono utilizzati nei portali
dell’abbazia di Santa Maria a Tergu (ante 1122) ( 26 ), della cattedrale
di Santa Giusta (ante 1144), delle chiese di San Leonardo a Martis
(prima metà del XII secolo) ( 27 ) e di San Paolo a Milis (metà del XII
secolo) ( 28 ), dell’abbazia della Santissima Trinità di Saccargia a Codrongianos
(seconda metà del XII secolo) ( 29 ), della chiesa di San
Leonardo a Masullas (prima metà del XIII secolo) ( 30 ). Il ricorrere
dello stesso taglio negli architravi dei due portali laterali della facciata
della pieve di Santa Maria e San Giovanni a Vicopisano, costruita
entro la metà del XII secolo ( 31 ), consente di escludere l’ipotesi, che
pure è stata avanzata, di individuare nell’architrave di San Parteo un
elemento di reimpiego, restituendolo invece all’orizzonte cronologico
del primo quarto del XII secolo.
Tutti gli architravi a timpano rialzato fin qui segnalati sono lisci. La
peculiarità di quello di San Parteo è la figurazione a rilievo. La stessa
robusta definizione plastica delle forme scultoree caratterizza altri due
( 23 ) G. MORACCHINI-MAZEL, Les Églises Romanes, cit., pp. 23-24, 295-296,
434-435.
( 24 ) G. MORACCHINI-MAZEL, Les Églises Romanes, cit., pp. 222-223; G. MO-
RACCHINI-MAZEL, Corsica Sacra, cit., p. 233.
( 25 ) G. MORACCHINI-MAZEL, Les Églises Romanes, cit., pp. 243-244.
( 26 ) R. CORONEO, Architettura romanica dalla metà del Mille al primo ’300 =
Storia dell’arte in Sardegna, Nuoro 1993, pp. 122-123, sch. 34; G. DORE, “Santa
Maria di Tergu (Sassari). La Vergine intercedente”, in Bollettino di Archeologia del
Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, 13-15, gennaio-giugno 1992, pp. 249-
250; G. DORE, Tergu (SS). S. Maria di Tergu. La decorazione architettonica, Milano
1994; R. CORONEO, R. SERRA, Sardegna preromanica e romanica = Patrimonio
artistico italiano, Milano 2004, pp. 17-28, pp. 77-314, pp. 280-282 (R. Serra).
( 27 ) R. CORONEO, Architettura romanica, cit., p. 187, sch. 80.
( 28 ) R. CORONEO, Architettura romanica, cit., p. 218, sch. 98.
( 29 ) R. CORONEO, Architettura romanica, cit., pp. 138-139, sch. 46; R. CORO-
NEO, R. SERRA, Sardegna, cit., pp. 181-191 (R. Serra).
( 30 ) R. CORONEO, Architettura romanica, cit., p. 104, sch. 224.
( 31 ) I. MORETTI, R. STOPANI, La Toscana, cit., pp. 365-366; S. RENZONI, in
Chiese di Pisa 2. Guida alla conoscenza del patrimonio artistico. Chiese suburbane,
vicaritati del Piano di Pisa I e II, del Lungomonte I e di Pontedera, a cura di M.L.
Ceccarelli Lemut, S. Renzoni e S. Sodi, Pisa 2001, pp. 56-119.

Il Peccato e l’eterna lotta fra il Bene e il Male
architravi corsi a timpano rialzato, figurati, anch’essi del primo quarto
del XII secolo, uno reimpiegato nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo a
Piana ( 32 ), con due quadrupedi affrontati; l’altro proveniente dalla chiesa
di San Giovanni battista, pieve di Giussani a Olmi-Cappella ( 33 ), con
uomo che allunga la mano verso un leone, mentre in basso un serpente
distende le sue spire. In altri casi l’architrave a timpano rialzato appartiene
a portali di chiese di datazione più tarda, forse della prima
metà del XIII secolo. È decorato con due quadrupedi affrontati alla
croce quello di San Pietro a Piazzole d’Orezza ( 34 ), con semplice croce
quello di San Quilico, pieve di Alesani, a Pietricaggio ( 35 ), con croce
clipeata e altre figure quello dell’abbazia di San Giovanni evangelista
di Pietrapola, antica pieve di Cursa, a Prunelli di Fiumorbo ( 36 ).
L’iconografia dei leoni affrontati all’albero della vita è di antichissima
origine mesopotamica, passata all’arte cristiana e poi a quella islamica
e da queste trasmessa all’arte occidentale dell’XI-XIII secolo.
L’albero, lignum crucis, è simbolo di vita e di rigenerazione dell’anima
del credente attraverso il sacramento del battesimo e l’ingresso nella
comunità della Chiesa ( 37 ). I leoni mansueti alludono alla necessità di
abbandonare il Male e di procedere sulla via del Bene, per guadagnare
la salvezza promessa dal messaggio di Cristo. La genericità dello schema
rende difficile precisare un canale anziché un altro per le fonti iconografiche
utilizzate dallo scultore di Mariana. La ricerca di parallelismi
in terra toscana non conduce a risultati apprezzabili.
In Sardegna il motivo dei leoni affrontati, con le teste di profilo, si
osserva nell’architrave del portale del fianco nord della cattedrale di
Santa Maria a Tratalias, costruita fra il 1213 e il 1282 ( 38 ). La persi-
115
( 32 ) G. MORACCHINI-MAZEL, Les Églises Romanes, cit., pp. 63-64, 271.
( 33 ) G. MORACCHINI-MAZEL, Les Églises Romanes, cit., pp. 52-53, 239; G. MO-
RACCHINI-MAZEL, Corsica Sacra, cit., p. 229.
( 34 ) G. MORACCHINI-MAZEL, Les Églises Romanes, cit., pp. 46, 317; G. MORAC-
CHINI-MAZEL, Corsica Sacra, cit., p. 313.
( 35 ) G. MORACCHINI-MAZEL, Les Églises Romanes, cit., pp. 64-65, 341; G. MO-
RACCHINI-MAZEL, Corsica Sacra, cit., p. 240.
( 36 ) G. MORACCHINI-MAZEL, Les Églises Romanes, cit., pp. 16-18, 337; G. Moracchini-Mazel,
Corse romane, cit., pp. 43-44; G. MORACCHINI-MAZEL, Corsica Sacra,
cit., pp. 300-301.
( 37 ) A. IACOBINI, “L’albero della vita nell’immaginario medievale: Bisanzio e
l’Occidente”, in L’architettura medievale in Sicilia: la cattedrale di Palermo, Roma
1994, pp. 241-290.
( 38 ) R. CORONEO, Architettura romanica, cit., p. 199, sch. 93.

116
ROBERTO CORONEO
stenza si spiega agevolmente con il possibile modello locale, rappresentato
dai plutei marmorei dei primi decenni dell’XI secolo nel santuario
martiriale di Sant’Antioco ( 39 ), che della diocesi di Sulcis era
stato la sede, prima che questa fosse traslata a Tratalias. Nel caso di
San Parteo l’assenza di qualunque prova concreta circa l’esistenza di
analoghi modelli in Corsica rende però impossibile avanzare un’ipotesi
analoga. La forte definizione plastica delle figure leonine potrebbe
semmai suggerire l’adattamento sul piano dell’architrave di modelli a
tutto tondo, come quelli validi per la coppia di leoni, similmente ghignanti,
della chiesa dei Santi Pietro e Paolo a Lumio ( 40 ), della seconda
metà dell’XI secolo.
La coerenza della figurazione araldica porta però a escluderne
l’occasionalità e a delineare un’altra ipotesi, che si tratti cioè d’una
variazione sul tema dei leoni affrontati, da porre in parallelo con altre
documentate tra la fine dell’XI e gli inizi del XII secolo in Liguria
e in Sardegna, prive però dell’albero della vita. Alla decorazione
scultorea della cattedrale di San Lorenzo a Genova, documentata
dall’878 e ricostruita fra il 1097 (ascesa di Airaldo al soglio episcopale)
e il 1118 (consacrazione alla presenza di papa Gelasio II) ( 41 ).
apparteneva un architrave con leoni affrontati ( 42 ), caratterizzati dalla
coda passante e ripiegata all’indietro, come si vede nell’architrave
di San Parteo. A differenza di questo, dove i leoni sono entrambi di
profilo, nell’architrave di Genova quello di sinistra volge la testa con
scatto repentino e si presenta frontale.
Fissano entrambi lo spettatore i due leoni che trattengono vitelli
fra le zampe in un pluteo ( 43 ) della cattedrale di Santa Maria assunta
a Oristano, appartenente al recinto presbiteriale coevo alla fase d’impianto
da collocare entro il 1131, anno della più antica attestazione
( 39 ) R. CORONEO, Scultura mediobizantina in Sardegna, Nuoro 2000, pp. 86-
101.
( 40 ) G. MORACCHINI-MAZEL, Les Églises Romanes, cit., pp. 72-74, 281; G. MO-
RACCHINI-MAZEL, Corse romane, cit., pp. 111-113; G. MORACCHINI-MAZEL, Corsica
Sacra, cit., pp. 234-235.
( 41 )F. CERVINI, La Liguria = Patrimonio artistico italiano, Milano 2002, pp. 81-
96.
( 42 ) A. DAGNINO, in Niveo de marmore, cit., p. 107, sch. 8; A. DAGNINO, “Il
passaggio al romanico”, cit., pp. 28-29.
( 43 ) R. SERRA, Pittura e scultura dall’età romanica alla fine del ’500 = Storia dell’arte
in Sardegna, Nuoro 1990, p. 17, sch. 1; A. PILLITTU, Chiese e arte sacra in
Sardegna, V, Arcidiocesi di Oristano, Cagliari 2003, pp. 24-25; R. CORONEO, R.
SERRA, Sardegna, cit., pp. 299-303 (R. Serra).

Il Peccato e l’eterna lotta fra il Bene e il Male
documentaria ( 44 ). I quadrupedi adunghiati dai leoni sono stati fin
qui identificati come cerbiatti, ma se il riferimento è al libro di Isaia
(XI, 6), allora deve trattarsi piuttosto di vitelli: vitulus et leo et ovis simul
morabuntur. Nell’architrave del portale della facciata di Santa
Giusta (ante 1144) è il leone di destra a presentarsi frontalmente, affrontandosi
per le terga a una leonessa ( 45 ). Entrambi adunghiano
cervi, senza però sbranarli: anche qui il tema è quello della pace del
Signore, presente a Mariana nel pavimento musivo della cattedrale
del V-VI secolo ( 46 ).
Nella zona presbiteriale della basilica l’altare maggiore era sopraelevato
da un podio, affiancato a livello dell’aula da due fasce di pannelli
musivi con cornice a intreccio e campo a disegni geometrici. Sul podio
si stendeva un grande pannello a mosaico, anch’esso riquadrato da cornice
a intreccio e internamente tripartito in orizzontale. Il settore più vasto,
quadrato, ha un decoro a cerchi che si raccordano a intreccio con cerchi
più piccoli, creando orbicoli circolari o pseudoromboidali nei quali erano
inseriti motivi vegetali e animali (un delfino). Il settore intermedio
conserva pannelli laterali con uccello bezzicante e con un elemento vegetale.
Il settore più prossimo all’altare mostra un leone e un bue che si cibano
alla medesima mangiatoia, di forma parallelepipeda, accompagnati
dall’iscrizione: (Leo et bos simul p)aleas manduc(abunt). Il tema della
pace del Signore è rappresentato secondo la formula dell’iscrizione nelle
versioni o citazioni della Bibbia diverse ma analoghe alla Vulgata, che
riporta invece: et leo quasi bos comedet paleas (Isaia, XI, 7), reiterato
come leo et bos comedent paleas (Isaia, LXV, 25).
A esso sembra fare eco il fulcro iconografico del ciclo scultoreo
nel portale della cattedrale romanica di Santa Maria assunta, detta
“La Canonica”, ricostruita entro il 1119 ( 47 ). Il portale è riccamente
117
( 44 ) R. CORONEO, Architettura romanica, cit., pp. 214-215, sch. 214; A. PILLIT-
TU, Chiese, cit., pp. 85-141.
( 45 ) R. SERRA, Pittura, cit., p. 19, sch. 2.
( 46 )PH. PERGOLA, “Considérations nouvelles sur les mosaïques et les sculptures
du complexe paléochrétien de Mariana (Corsica)”, in Actes du Xe Congrès international
d’Archéologie Chrétienne, II, Communications, Città del Vaticano 1984, pp. 397-
408; PH. PERGOLA, “Observations sur la chronologie des mosaïques de la basilique et
du baptistère de Mariana (Corsica)”, in III Colloquio internazionale sul mosaico antico,
Ravenna 1984, pp. 401-404; PH. PERGOLA, “Corse, Histoire et archéologie d’une
société insulaire”, in Le paysage monumental de la France autour de l’an Mil, s.l.,
1987, pp. 324-326.
( 47 ) G. MORACCHINI-MAZEL, Les Églises Romanes, cit., pp. 84-94, 217-218; G.
MORACCHINI-MAZEL, Les Corse romane, cit., pp. 83-110; G. MORACCHINI-MAZEL,
Corsica Sacra, cit., pp. 183-201.

118
ROBERTO CORONEO
decorato nell’architrave con motivo fitomorfo, nell’arco di scarico della
lunetta con intreccio geometrico a cerchi intrecciati e nella ghiera
soprastante con figure zoomorfe (fig. 7). A sinistra si dispongono un
leone, una coppia di grifi affrontati, l’Agnello mistico affrontato al
lupo, un cervo incalzato da un cane, una coppia di senmurv affrontati.
L’Agnello crucifero è simbolo di Cristo e del Bene, che lotta e trionfa
sul lupo e sulle bestie simbolo del Male, cui il credente deve rinunciare
nel momento in cui varca la soglia d’ingresso alla chiesa. Allo stesso
tempo richiama il tema della pace del Signore, sempre in relazione al
libro d’Isaia – Habitabit lupus cum agnus (11, 6), reiterata come:
Lupus et agnus pascentur simul – già citato a Mariana nel pavimento
musivo della cattedrale del V-VI secolo. Un rilievo con l’Agnello mistico,
probabilmente coevo alle sculture del portale di Mariana, proviene
dalla chiesa il cui titolo è sconosciuto, denominata “della Cursa”
a Prunelli di Fiumorbo, forse da identificare con la pieve di Cursa ( 48 ).
Le sculture sono molto simili a quelle di uno o due analoghi portali
dei primi decenni del XII secolo, i cui conci vennero reimpiegati nel
campanile di Piedicorte di Gaggio ( 49 ). Il campanile di Santa Maria
assunta venne costruito nel 1821. I conci scolpiti provenivano da una
chiesa ubicata in altura, descritta nel 1589 e in seguito distrutta. Si
tratta in particolare di un architrave a decoro fitomorfo (un nastro che
si intreccia e descrive girali che includono trifogli appaiati) e di una
ghiera a figure animali affrontate: una coppia di leoni a sinistra e un
grifo e un senmurv a destra (fig. 8). Se apparteneva a un portale, l’architrave
doveva disporsi in senso opposto, con la punta dei trifogli rivolta
verso destra, come in quello, pressoché identico anche dimensionalmente,
nel portale della facciata della Canonica di Mariana. In
ogni caso la sua lunghezza è sproporzionata rispetto al diametro della
lunetta, per cui la ghiera a decoro zoomorfo doveva appartenere a un
altro portale, più piccolo. L’ipotesi più verosimile è che il primo si
aprisse nella facciata, l’altro nel fianco della chiesa distrutta. Come a
Mariana, l’intaglio secco del motivo fitomorfo contrasta con la resa
robustamente plastica delle figure animali. La coppia di leoni ricorda
quella nell’architrave di San Parteo, mentre due senmurv si affrontano
anche nel portale della Canonica. Il grifo (o grifone) è l’animale immaginario,
raffigurato con corpo alato di leone o altro quadrupede e
( 48 ) G. MORACCHINI-MAZEL, Les Églises Romanes, cit., pp. 55, 337-338; Les églises
piévanes de Corse de l’époque romaine au Moyen Age, IV – La piévanie de Cursa, V –
La piévanie de Venaco = Cahiers Corse, 44, 1974; G. MORACCHINI-MAZEL, Corsica
Sacra, cit., pp. 225-226.
( 49 ) G. MORACCHINI-MAZEL, Les Églises Romanes, cit., pp. 333-334.

Il Peccato e l’eterna lotta fra il Bene e il Male
testa di aquila o di altro uccello ( 50 ), passato dalle antiche mitologie
orientali a quella greco-romana ( 51 ). Il senmurv (o simurg) è l’animale
immaginario della mitologia iranica, raffigurato con coda di pesce, ali
d’uccello, zampe artigliate e testa canina ( 52 ). Entrambe le coppie
esprimono l’eterna lotta fra il Bene e il Male, cui il credente deve rinunciare
nel momento in cui varca la soglia d’ingresso alla chiesa.
Attorno alla metà del XII secolo, due sono le chiese della Corsica che
ripropongono variazioni sul medesimo tema iconografico del Peccato e
della conseguente eterna lotta fra il Bene e il Male. Nella facciata della
Santissima Trinità e San Giovanni battista, pieve di Aregno ( 53 ), compresa
nella diocesi di Aleria, ai lati dell’arco di scarico della lunetta del
portale, stanno le figure a tutto tondo di Adamo ed Eva (fig. 9). I progenitori
si collocano alla base di un triangolo ideale, che ha il suo vertice
nella figura dello spinario (fig. 10), posta in alto e al centro degli
spioventi del frontone. Il riferimento è a una celebre statua di età romana.
Raffigura un giovane che solleva e piega la gamba, poggiando il
piede sul ginocchio dell’altra, per estrarre la spina che vi si è conficcata,
mostrando così i genitali. Esposto in piazza a Roma per tutti i secoli
del Medioevo, lo spinario venne assunto come simbolo di lussuria e
delle tentazioni della carne. Associato ad Adamo ed Eva, nella facciata
di Aregno rafforza e completa il messaggio cristiano di salvezza. Il credente
viene messo in guardia contro il Peccato ed esortato ad abbandonare
il Male prima di entrare nel luogo sacro della chiesa.
Adamo ed Eva si collocano anche ai lati della facciata della chiesa
di San Michele arcangelo, pieve di Bevinco ( 54 ), compresa nella diocesi
del Nebbio e isolata in un pianoro all’ingresso del paese di Murato.
Interessano le centine delle monofore: nel fianco nord, una è
decorata con Adamo che protende la mano verso il serpente le cui
spire si avvolgono ai rami dell’albero del Peccato; nel fianco sud,
un’altra è decorata con due serpenti che si intrecciano e minacciano
due pavoni, simboli dell’anima cristiana immortale.
( 50 ) S. BATTAGLIA, “Grifo, Grifone”, in Grande Dizionario della Lingua italiana,
VII, Torino 1972, pp. 45-46.
( 51 ) M.R. D’AGOSTINO, “Il grifone”, in La seta, cit., pp. 155-157.
( 52 ) M.C. ROMANO, “Il Senmurv”, in La seta, cit., pp. 135-137.
( 53 ) G. MORACCHINI-MAZEL, Les Églises Romanes, cit., pp. 127-132, 342-343;
G. MORACCHINI-MAZEL, Corse romane, cit., pp. 173-177.
( 54 ) G. MORACCHINI-MAZEL, Les Églises Romanes, cit., pp. 132-140, 260; G.
MORACCHINI-MAZEL, Corse romane, cit., pp. 167-172; G. MORACCHINI-MAZEL,
Corsica Sacra, cit., p. 247.
119

120
ROBERTO CORONEO
Fig. 1. Valle di Rostino, lunetta murata nel battistero, con Adamo ed Eva (foto R.
Coroneo).
Fig. 2. Valle di Rostino, lunetta murata nel battistero, con il Serpente (foto R. Coroneo).

Il Peccato e l’eterna lotta fra il Bene e il Male
Fig. 3. Cambia, chiesa di San Quilico, lunetta con Adamo ed Eva (foto R. Coroneo).
Fig. 4. Cambia, chiesa di San Quilico, lunetta con il Serpente (foto R. Coroneo).
121

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ROBERTO CORONEO
Fig. 5. Lumio, chiesa dei Santi Pietro e Paolo, leoni murati in facciata (foto R. Coroneo).
Fig. 6. Lucciana, chiesa di San Parteo di Mariana, architrave con leoni affrontati
all’albero della vita (foto R. Coroneo).

Il Peccato e l’eterna lotta fra il Bene e il Male
Fig. 7. Lucciana, cattedrale di Santa Maria assunta di Mariana (ante 1119), sculture
del portale (foto R. Coroneo).
Fig. 8. Piedicorte di Gaggio, sculture reimpiegate nel campanile di Santa Maria assunta
(foto R. Coroneo).
123

124
9. Aregno, chiesa della Trinità, Adamo ed Eva (foto R. Coroneo).
10. Aregno, chiesa della Trinità, lo spinario (foto R. Coroneo).
ROBERTO CORONEO

BIANCA FADDA
UN NUOVO DOCUMENTO SU BENEDETTA, MARCHESA
DI MASSA E DEL GIUDICATO DI CAGLIARI
Fra le carte della Sezione “Archivi di famiglie e di persone”, all’interno
del fondo “Alliata” ( 1 ) conservato presso l’Archivio di Stato
di Pisa, si trova un interessante documento pergamenaceo ( 2 ), datato
26 settembre 1227 riguardante Benedetta, giudicessa di Cagliari e
marchesa di Massa, rimasto finora inedito. La pergamena era stata
infatti riutilizzata come coperta e, successivamente, conservata insieme
ad una serie di carte sciolte datate tra il XVI e il XIX secolo.
Il documento, di cui è data trascrizione integrale in Appendice,
offre l’occasione per alcune considerazioni utili alla puntualizzazione
di un momento critico della storia del giudicato di Cagliari ( 3 ): la
( 1 ) Guida Generale degli Archivi di Stato Italiani, Archivio di Stato di Pisa,
Roma 1981, vol. II, p. 704. Sullo stato di conservazione delle carte conservate nell’Archivio
Alliata cfr. L. PAGLIAI, Le carte dei Conti Alliata depositate nell’archivio
di Pisa, in «Gli Archivi Italiani», IV (1917), pp. 179-185. Il Pagliai afferma di essere
stato vivamente colpito dal deplorevole stato in cui si trovava un importante e
ricco Archivio, quello della famiglia Alliata, il quale, ancora nel 1913, risultava
inaccessibile agli studiosi e si trovava depositato in un magazzino freddo e umido.
( 2 ) ASP, Archivio Alliata, Busta 1289, carte sciolte.
( 3 ) Per la storia del giudicato di Cagliari cfr. E. BESTA, La Sardegna Medioevale,
Palermo 1908-1909, 2 voll.; ID, Per la storia del giudicato di Cagliari, in «Studi
Sassaresi», sez. 1, fasc. 1 (1901), pp. 60-71 e 154-163; A. SOLMI, Studi storici sulle
istituzioni della Sardegna medioevale, Cagliari 1917; A. BOSCOLO, Chiano di Massa,
Guglielmo Cepolla, Genova e la caduta del giudicato di Cagliari (1254-1258), in
Sardegna, Pisa e Genova nel Medioevo, Genova 1978, pp. 51-69; ID, Una nota su
Guglielmo I di Massa giudice di Cagliari e sulla Compagnia della Samarra, in Sardegna,
Pisa e Genova nel Medioevo, Genova 1978, pp. 39-43; J. DAY, La Sardegna e i
suoi dominatori dal secolo XI al secolo XIV, in La Sardegna medioevale e moderna, Torino
1984, pp. 3-187; S. PETRUCCI, Re in Sardegna, a Pisa cittadini, Bologna 1988.

126
BIANCA FADDA
penetrazione dei Visconti ( 4 ) nel regnum Calari e il loro insediamento
nella sede giudicale di Santa Igia.
Nel documento, redatto a Massa il 26 settembre 1227 dal notaio
apostolico Amorus, Benedetta, donnicella Dei gratia domina et iudicissa
Callari ac marchionissa Massa, confessa di dover restituire a Ranieri
Bocci del fu Gherardo Cortevecchia la somma di 3.500 libbre e
6 soldi di denari genovini minori; al fine di saldare tale debito, lo autorizza
a capere, tenere, vendere, alii pignorare tantum de bonis regni
mei Callari ubicumque de eis inveneritis […] quod plene possitis vobis
satisfacere de pecunia prenominata; la giudicessa aggiunge che, in quel
momento, il regno di Cagliari era nelle mani di Ubaldo Visconti.
Benedetta non esclude peraltro la possibilità cum Deo opitulante di
rientrare in possesso del suo trono giudicale e in tal caso promette a
Ranieri di restituire la suddetta somma entro un anno.
Figlia di Guglielmo, giudice di Cagliari e marchese di Massa ( 5 ), e
di Adelasia Malaspina, Benedetta, alla morte del padre, agli inizi del
1214, ereditò il titolo giudicale. La nuova giudicessa, dopo essersi
unita in matrimonio con Barisone, figlio di Pietro giudice d’Arborea,
prestò, nel novembre del 1215 ( 6 ), giuramento di fedeltà al pontefice
nelle mani dell’arcivescovo di Cagliari. La successione al trono
della primogenita di Guglielmo, donna, per dirla con il Besta, “debole
ed incapace a proseguire la politica del padre” ( 7 ), aprì nuove
possibilità di penetrazione nel giudicato di Cagliari ai Visconti, in-
( 4 ) Sulla famiglia Visconti vedi: E. CRISTIANI, Nobiltà e popolo nel Comune di
Pisa, Napoli 1962, pp. 337 e 437-438; M. PRATESI, I Visconti, in Pisa nei secoli XI
e XII: formazione e carattere di una classe di governo, in Pisa nei secoli XI e XII: formazione
e caratteri di una classe di governo, Pisa 1979, pp. 1-62. Per la politica dei
Visconti in Sardegna cfr. G. VOLPE, Studi sulle istituzioni comunali a Pisa, Firenze
1970, pp. 346-350; S. PETRUCCI, Re in Sardegna, cit., pp. 22-42.
( 5 ) L’arrivo dei marchesi di Massa in Sardegna risale alla fine del secolo XII.
Nel 1187 il marchese di Massa, Oberto, e suo figlio, Guglielmo intrapresero l’occupazione
del giudicato di Cagliari, a capo del quale era allora Pietro, secondogenito
del giudice di Torres e genero del giudice di Cagliari, Costantino, morto negli
anni ’60 del secolo. Probabilmente Oberto aveva sposato la secondogenita del
giudice Costantino, Giorgia, e poteva presentarsi come diretto concorrente di Pietro
sui diritti del giudicato. Dopo una breve campagna militare, Oberto e Guglielmo
costrinsero Pietro a fuggire e a rifugiarsi nel Logudoro, mentre Guglielmo divenne
giudice e iniziò una politica di supremazia pisana su tutto il territorio; cfr. E.
BESTA, La Sardegna, cit. pp. 151-179; S. PETRUCCI, Re in Sardegna, cit., pp. 13-22.
( 6 ) D. SCANO, Codice diplomatico delle relazioni fra la Santa Sede e la Sardegna,
Cagliari 1940, I, doc. XLVIII.
( 7 ) E. BESTA, La Sardegna, cit., p. 181.

Un nuovo documento su Benedetta, marchesa di Massa e del giiudicato ...
tenzionati a ripercorrere in Sardegna la strada già segnata dai marchesi
di Massa.
Come è noto, dal 1216 al 1230 si svolse una vasta iniziativa dei
Visconti nel Cagliaritano. Nel 1217 la giudicessa Benedetta di Massa
inviava una drammatica lettera ad Onorio III nella quale raccontava
al pontefice che, alla morte del giudice Guglielmo suo padre, era
stata confermata dai sudditi nella successione al trono che per diritto
ereditario le spettava e che, in una solenne adunata del clero, dei nobili
e del popolo, aveva ricevuto dall’arcivescovo cagliaritano il baculum
regale, quod regnum caralitanum non alienaret neque minueret
et castellum alicui aliquo titulo non donarem; che, poco tempo dopo,
costrettavi con promesse e lusinghe, con minacce e violenze, dal console
pisano giunto nell’isola cum multis sibi sequacibus nobilibus, aveva
giurato fedeltà al Comune dell’Arno, senza chiedere consiglio ai
maggiorenti del regno e, dimentica del precedente giuramento, aveva
donato quendam collem cum suis pertinentiis memoratis pisanis in quo,
postea, ipsi edificaverunt sibi munitissimum castrum in damnum et occupationem
non solum terre ipsius sed totius Sardinie; aggiungeva che,
dopo di ciò, era stato il podestà di Pisa, Ubaldo Visconti, figlio di Eldizio
cum maximo exercitu ad entrare in Sardegna, rivendicando per sé
le entrate del porto di Cagliari, facendo arrestare i maggiorenti del giudicato,
usurpando il potere pubblico, comportandosi come se fosse signore
e giudice del Cagliaritano e, invece della promessa protezione,
ella, il marito Barisone e i sudditi avevano ricevuto e patito solo violenze,
oppressioni e prigionia; supplicava pertanto umilmente il papa
di scioglierla dal giuramento di fedeltà prestato al Comune pisano e di
autorizzarla ad allearsi con il giudice di Torres e con Genova; pregava
infine il pontefice di inviare un suo legato nell’Isola per fare indagini e
riportare la situazione allo stato precedente ( 8 ).
Da questo momento l’azione di Onorio III in Sardegna è contrassegnata
dalla sua opposizione alle mire ambiziose dei Visconti e
dalla difesa degli interessi di Benedetta. Il 9 marzo 1217 ordinò al
cardinale Ugolino, vescovo di Ostia e suo legato, di fare in modo
( 8 ) La lettera è stata pubblicata in Codex Diplomaticus Sardiniae, a cura di P.
TOLA, Torino 1881, I, sec. XIII, doc. n. XXXV. Per la storia di Cagliari pisana
cfr.: A. SOLMI, Cagliari pisana, Cagliari 1904; ID., Sul periodo della legislazione pisana
in Sardegna, in «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano» n. 25 (1904), pp. 5-26;
D. SCANO, Forma Kalaris, Cagliari 1923; F. LODDO CANEPA, Note sulle condizioni
economiche e giuridiche degli abitanti di Cagliari tra l’XI e il XIX sec., in «Studi Sardi»,
a. X-XI (1952), pp. 228-336; E. PUTZULU, Il problema delle origini del Castellum Castri
de Kallari, in «Archivio Storico Sardo», vol. XXX (1976), pp. 91-146; I. PRIN-
CIPE, Cagliari, Roma-Bari 1981.
127

128
BIANCA FADDA
che il podestà e il popolo pisani, i quali avevano giurato di attenersi
alle disposizioni della Chiesa per quanto si riferiva alla Sardegna, restituissero
le terre usurpate a Benedetta e demolissero il Castello di
Castro o, qualora non intendessero distruggerlo, lo dessero in custodia
per conto della Santa Sede ( 9 ). Alcuni mesi dopo, il 1° dicembre
1217, per volontà del papa, si incontrarono a Roma ambasciatori pisani
e genovesi per trattare la pace: i primi avrebbero dovuto consegnare
Castello di Castro, i secondi il castello di Bonifacio ( 10 ). A
questi accordi seguì immediatamente l’incarico, dato da Onorio III
all’arcivescovo pisano, di assolvere coloro che erano incorsi nella
scomunica per aver fatto parte della spedizione contro Benedetta e
che abitavano nel Castello di Cagliari ( 11 ).
Ma questi interventi non sortirono effetti concreti. I Visconti si
erano ormai impossessati del cagliaritano ( 12 ), relegando la giudicessa
con il marito Barisone nella villa di Santa Igia, sede del potere
giudicale. Il 19 agosto 1218 il pontefice ingiunse allora all’arcivescovo
e ai consoli pisani di far desistere Ubaldo dall’occupazione delle
terre di Benedetta, pena la scomunica per i consoli e l’interdetto per
la città, e, alcuni giorni dopo, diede mandato ai suoi legati Ugone e
Orlando di liberare Benedetta, vedova di Barisone, dalla promessa,
estortale con la forza, di sposare Ubaldo Visconti ( 13 ).
Poco tempo dopo un altro Visconti, Lamberto, vedovo di Elena di
Gallura, costrinse Benedetta a unirsi a lui in matrimonio. Le nozze
vennero celebrate prima del 18 settembre 1219; a questa data risale
infatti la pace di Noracalbo che pose fine alle ostilità tra lo stesso Lamberto
e il giudice Mariano II di Torres: nell’atto il Visconti aveva, oltre
il titolo di giudice di Gallura, quello di giudice di Cagliari ( 14 ).
( 9 ) D. SCANO, Codice diplomatico, cit., doc. LI.
( 10 ) Ibidem, docc. LIII e LIV.
( 11 ) Ibidem, doc. LV.
( 12 ) Secondo la lettera di Benedetta, nell’occupazione del giudicato di Cagliari
si intrecciarono l’iniziativa del Comune dell’Arno, rappresentato dal console, e gli
interessi dei Visconti, sostenuti da Ubaldo. In realtà, fa notare Sandro Petrucci, la
posizione istituzionale occupata da Ubaldo, il quale fu podestà dal 1215 al 1218,
non permette un’accentuata differenziazione di obiettivi e interessi tra il Comune
e la famiglia Visconti. Cfr. S. PETRUCCI, Re in Sardegna, cit., p. 31.
( 13 ) D. SCANO, Codice diplomatico, cit., docc. LXIII, LXVI.
( 14 ) Il documento, conservato nell’Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico San
Frediano in Cestello, 18 settembre 1220, è edito in C. PIRAS, Le pergamene relative
alla Sardegna nel Diplomatico San Frediano in Cestello dell’Archivio di Stato di Firenze,
Tesi di Laurea A.A. 2004-2005, relatore prof.ssa Luisa D’Arienzo, doc. I.

Un nuovo documento su Benedetta, marchesa di Massa e del giiudicato ...
Questa iniziativa colse di sorpresa il pontefice che solo nell’aprile del
1220 scrisse al vescovo di Luni e al canonico pisano Gallo ordinando
loro di annullare il matrimonio tra Benedetta e Lamberto ( 15 ).
Nello stesso mese di aprile esortò i vescovi di Firenze e di Massa a
fare in modo che il Comune pisano non fosse gravato dai debiti che
Ubaldo Visconti aveva con chi finanziava le sue imprese militari in
Sardegna ( 16 ); ancora nel dicembre del 1221 intervenne presso il vescovo
di Massa affinché i debiti del Visconti fossero soddisfatti con i
beni dello stesso Ubaldo ( 17 ). Ma anche i ripetuti tentativi di mettere
in difficoltà finanziarie i Visconti non approdarono a risultati
concreti e nel gennaio del 1222, Onorio III rinnovò la scomunica e
l’interdetto nei confronti di Ubaldo e del fratello Lamberto ( 18 ).
Negli anni seguenti Ubaldo fu a Pisa dove rioccupò la carica di
podestà: nel 1223 insieme a Guelfo di Ermanno di Paganello Porcari
e ad Ildebrando di Ugo di Sigerio Gualandi, e negli anni 1226-
1228 da solo ( 19 ).
Durante la permanenza di Ubaldo a Pisa Benedetta nutrì la speranza
di poter rientrare in possesso del suo regno e Onorio III, dal
canto suo, pensò di riottenerne il controllo. Nel dicembre 1224 Benedetta,
da sola, alla presenza del legato apostolico Goffredo, poté
rinnovare il giuramento di fedeltà alla Santa Sede ( 20 ). Degno di
nota il fatto che alle solite clausole ne vennero aggiunte delle altre
suggerite dai recenti avvenimenti. Benedetta, infatti, non soltanto si
impegnò al versamento annuo di 20 libbre d’argento al pontefice,
ma promise che, in futuro, nessun giudice avrebbe potuto sposarsi
senza il consenso del papa, a cui, nel caso fosse morto senza eredi legittimi,
avrebbe lasciato tutta la terra, eccetto un terzo dei beni mobili.
A questo tentativo di restaurare il potere giudicale, i Visconti risposero
con un’azione di forza, e nella primavera del 1226 imprigionarono
la giudicessa e il suo nuovo presunto marito, Enrico di Ceole ( 21 ).
Non sappiamo come si giunse a questo legame, ma il matrimonio,
( 15 ) D. SCANO, Codice diplomatico, cit., doc. LXXII.
( 16 ) Ibidem, doc. LXXIII.
( 17 ) Ibidem, doc. LXXXIII.
( 18 ) Ibidem, doc. LXXXIV.
( 19 ) S. PETRUCCI, Re in Sardegna, cit., p. 37.
( 20 ) Codex Diplomaticus Sardiniae, cit., sec. XIII, doc. XLV.
( 21 ) D. SCANO, Codice diplomatico, cit., doc. XCII.
129

130
BIANCA FADDA
che era stato celebrato senza l’autorizzazione papale, venne approvato
da Onorio III il 12 giugno 1226 ( 22 ).
Nella primavera del 1227 Benedetta era ancora prigioniera dei
Visconti. Il 17 marzo ( 23 ) il nuovo pontefice, Gregorio IX, scrisse al
podestà e al popolo pisani per la liberazione di Enrico di Ceole e
della giudicessa, la quale avrebbe dovuto ritirarsi nel castello di Massa
quod a Romana ecclesia tenet in feudum. Curiosamente nella lettera
lo sfortunato Enrico non è indicato come marito, ma come vir de
Ceule qui se maritum donnicelle Benedicte proponit, tanto più che si
era presentato anche un nuovo pretendente alla mano di Benedetta,
il pisano Rinaldo Gualandi, che fu dal pontefice invitato a presentare
un procuratore per discutere del possibile matrimonio ( 24 ).
Nel corso del 1227 Benedetta venne liberata e poté trasferirsi nel Castello
di Massa, feudo della Santa Sede; qui il 26 settembre 1227 ( 25 ) si
riconobbe debitrice di Ranieri Bocci del fu Gherardo Cortevecchia ( 26 )
dei Gualandi ( 27 ) e concesse a lui e ai suoi discendenti plenam et libe-
( 22 ) Ibidem, doc. XCIII.
( 23 ) Ibidem, docc. XCIV, XCVI, XCVIII.
( 24 ) Ibidem, doc. XCV. Non è semplice, in mancanza di ulteriore documentazione,
ricostruire più dettagliatamente le vicende relative a questa curiosa lite matrimoniale,
ma è assai probabile che si risolse positivamente per il Gualandi: il 13
aprile 1230 donnicella Benedicta marchesana Masse et domina iudicatus callaretani
filia domini marchionis Guillelmi et Rainaldus eius vir similiter marchio Masse et iudex
calaritanus fecero una donazione a favore del monastero di San Jacopo d’Acquaviva,
cfr E. BESTA, La Sardegna, cit., I, p. 193.
( 25 ) Cfr. doc. in Appendice.
( 26 ) Gherardo Cortevecchia era stato nel 1206 uno dei primi podestà pisani:
cfr. E. CRISTIANI, Nobiltà e popolo, cit., p. 332.
( 27 )I Bocci e i Cortevecchia erano i rami più importanti della consorteria dei
Gualandi ed ebbero incarichi di rilievo in campo politico. I Bocci erano il ramo discendente
da Ranieri Bottaccio, figlio di Bernardo di Sicherio vissuto nella prima
metà del XII secolo: cfr. M.L. CECCARELLI LEMUT, Medioevo pisano: chiesa, famiglie,
territorio, Pisa 2005, pp. 199-200. Sui Gualandi Bocci vedi anche E. CRISTIANI, Nobiltà
e popolo, cit., pp. 129-130, 331-332, 340, 357, 364, 400-403. Il 5 aprile 1237
Gherardo e Guido del fu Ranieri Bocci appaiono tra gli esponenti della casa dei
Gualandi nel lodo della pace tra il comune pisano e Ranieri di Bolgheri Gherardesca,
da una parte, e i Visconti dall’altra, con i rispettivi “confederati”. Molti dei partecipanti
all’atto erano stati protagonisti delle vicende politiche della Sardegna. Tra i
fautori dei Visconti figuravano i tutori del figlio minorenne di Ubaldo I, e cioè Monaco
Visconti, Rodolfo di Capraia e Lamberto Solfa, i Quintavalle, i Sighelmi, i
Porcari. Nello schieramento del Comune e del conte Ranieri vi erano i sopraccitati
Gualandi, i Sismondi, i conti palatini di Toscana Guido, Tegrimo e Aghinolfo,
Pietro II giudice d’Arborea. Il documento relativo, conservato nell’A.S.Fi, Diplo-

Un nuovo documento su Benedetta, marchesa di Massa e del giiudicato ...
ram potestatem di pignorare le sue proprietà nel Cagliaritano fino al
completo risanamento del debito; ma dal momento che, in quel momento,
nel regno di Cagliari dominava Ubaldo Visconti, la debitrice
insolvente, in accordo col pontefice, sotto la cui protezione si trovava
( 28 ), concedeva al creditore una sorta di licentia invadendi nel giudicato
di Cagliari contro l’usurpatore.
È lecito ipotizzare che Benedetta avesse ereditato i debiti dal primo
marito, Barisone II d’Arborea. I legami tra i Bocci Gualandi e i
giudici d’Arborea sono attestati fin dalla fine del secolo XII.
Il 6 dicembre 1184 Ranuccio Bocci dichiarava di essere creditore
del giudice d’Arborea Barisone I della somma di 207 libbre di moneta
pisana, e del vescovo di Santa Giusta di 28 libbre della stessa
moneta; dichiarava inoltre di dover pagare pro domino meo Barisone
rege Arboree a Cortevecchino 70 libbre e a Lanfranco Bocci, suo fratello,
20 libbre ( 29 ). Nel 1185 Pietro I giudice d’Arborea confessava
di essere debitore di 207 libbre di denari pisani nei confronti dei figli
di Ranuccio Bocci ( 30 ). Ancora nel settembre dell’anno successivo
Lanfranco Bocci ( 31 ) è presente, in qualità di testimone, alla donazione
che il giudice d’Arborea Pietro fa all’Opera di Santa Maria di
Pisa ( 32 ).
I rapporti tra la famiglia Bocci e l’Arborea s’intensificarono nel
XIII secolo. Il 30 ottobre 1206 Simone Bocci fu uno dei sei nobilis
de sa civitadi de Pisas che assistettero, in qualità di testimoni, all’atto
matico San Frediano in Cestello, 5 aprile 1238, è pubblicato in E. CRISTIANI, Nobiltà
e popolo, cit., pp. 493-499 e in C. PIRAS, Le pergamene, cit., doc. VI. Sul ramo
dei Cortevecchia vedi E. CRISTIANI, Nobiltà e popolo, cit., pp. 135, 152, 158, 161,
332, 357, 364.
( 28 ) Non a caso, fu un notaio Sancte Romane ecclesie, Amorus, a rogare l’atto.
( 29 ) ASP, Diplomatico Roncioni, 6 dicembre 1185, edito in F. ARTIZZU, Documenti
inediti relativi ai rapporti economici tra la Sardegna e Pisa nel Medioevo, I,
Padova 1961, doc. 1.
( 30 ) ASP, Diplomatico Roncioni, 15 maggio 1186, edito in F. ARTIZZU, Documenti
inediti, cit., I, doc. 2.
( 31 ) Lo stesso Lanfranco Bocci è uno dei consoli pisani che, il 29 marzo 1195,
promisero a Sardo del fu Barile, rappresentante del giudice Costantino di Torres,
di inviare in Sardegna una rappresentanza pisana per indurre Guglielmo di Massa,
giudice di Cagliari, a trovare un accordo con il giudice logudorese. Il documento è
conservato in ASP, Diplomatico Roncioni, 29 marzo 1196, edito in F. ARTIZZU,
Documenti inediti, cit., I, doc. 3.
( 32 ) ASP, Diplomatico Primaziale, 1187, edito in B. FADDA, Le pergamene relative
alla Sardegna nel Diplomatico della Primaziale dell’Archivio di Stato di Pisa, in
«Archivio Storico Sardo», vol. XLI (2001), pp. 9-354, doc. XIV.
131

132
BIANCA FADDA
in cui Guglielmo di Massa, giudice di Cagliari, insieme alla moglie
Guisiana e alle figlie Benedetta e Agnese, da una parte, e Ugo visconte
de Bas e giudice d’Arborea, dall’altra, stabilirono i confini tra
i loro regni ( 33 ). Nel 1239 Gherardo del fu Ranieri Bocci figura tra i
fideles del giudice d’Arborea Pietro II de Bas in un atto rogato a Pisa
il 3 gennaio ( 34 ).
D’altra parte si nasconde dietro la licentia invadendi accordata al
Gualandi da Benedetta il fermo proposito del pontefice di dare una
soluzione alla situazione di vuoto di potere giudicale nel Cagliaritano,
ancora nelle mani di Ubaldo Visconti ( 35 ). A tale scopo intendeva
raccogliere e legare a sé, in posizione antiviscontea, alcune tra le
più importanti famiglie nobili pisane, in primo luogo la domus Gualandorum,
che proprio in quegli anni puntava con Rinaldo al trono
giudicale cagliaritano.
Due anni dopo, il 9 marzo 1229 il pontefice, in virtù dei precedenti
accordi tra Benedetta e Ranieri, si rivolse proprio ai nobilibus
viris de domo Curtisvecle civibus pisanis, che già in passato avevano
offerto il loro aiuto per il recupero delle terre sarde usurpate da
Ubaldo, affinché impedissero una nuova spedizione del Visconti in
Sardegna e li mise in contatto con il vescovo di Massa, dove per l’appunto
si era rifugiata la giudicessa spodestata, per organizzare da lì la
riconquista del Cagliaritano.
I Gualandi, forti dell’appoggio del papa e intenzionati a recuperare
i crediti che vantavano nei confronti di Benedetta, riuscirono a
mettere le mani sui beni del giudicato di Cagliari: della seconda
( 33 ) A. SOLMI, Un documento per la storia di Guglielmo di Cagliari e dell’Arborea,
in «Archivio storico sardo», vol. IV (1908), pp. 193-212. Guglielmo riconosceva
Ugo de Bas quale giudice d’Arborea estromettendo il figlio di Pietro, Barisone,
che in seguito diventò marito di Benedetta; cfr. S. PETRUCCI, Re in Sardegna,
cit., p. 24.
( 34 ) ASP, Diplomatico Deposito Bonaini, 3 gennaio 1239. Gherardo del fu Ranieri
Bocci, ascoltato il consiglio dei fidelium regis domini iudicis Petri et domini
donnicelli Guillelmi comitis et Guantini de Serra, dichiara che gli amici di Bartolomeo
del fu Ranuccio Benedetto si erano impegnati a far sì che questi non avrebbe
sposato nessuna donna senza la loro autorizzazione; mentre, al contrario, Bartolomeo
aveva giurato, all’insaputa del giudice, che si sarebbe unito ad Agnese e aveva
accettato la dote stabilita dallo stesso Gherardo, in un primo tempo favorevole alle
nozze, ma ora contrario, e da Bandino Lancia.
( 35 ) Ricordiamo che soltanto tre giorni prima, il 23 settembre 1227, Gregorio IX
aveva concesso l’assoluzione a coloro che erano entrati in Sardegna al seguito di Ubaldo
Visconti, a patto che prestassero giuramento di fedeltà alla Santa Sede e si impegnassero
a non unirsi più col Visconti con il quale le trattative non erano approdate
a una soluzione positiva; cfr. ASP, Diplomatico Roncioni, 23 settembre 1227.

Un nuovo documento su Benedetta, marchesa di Massa e del giiudicato ...
metà del secolo è il ricordo delle loro proprietà nel Cagliaritano; il
26 marzo 1260, Guglielmo del fu Gherardo Cortevecchia dava disposizioni
relative alle sue proprietà di greggi nella villa dicta Lena
presso Cagliari ( 36 ).
Ma il progetto di riconquista del Cagliaritano fallì e nell’agosto
del 1229 il papa fu costretto a rinnovare la scomunica nei confronti
di Ubaldo, il quale hostiliter intravit Sardiniam ad Romanam ecclesiam
pertinentem et partem ipsius terre (il giudicato cagliaritano) violenter
detinet occupatam ( 37 ).
Nel 1231 Ubaldo Visconti è ancora a Cagliari: il 26 gennaio, infatti,
dettò il suo testamento a Santa Igia, in palatio Regni Kallari ( 38 ). I
Visconti controllarono la sede giudicale almeno fino al 1233, anno
in cui Ubaldo II Visconti, figlio del fu Lamberto, iudex gallurensis et
rector kallaritanus, promise di pagare entro il 15 agosto 50 libbre di
moneta genovese a Rodolfo conte di Capraia, in un atto rogato a
Santa Igia nel palazzo del regno ( 39 ).
Ma è questo l’ultimo documento attestante la presenza dei Visconti
nella sede giudicale cagliaritana.
Tra il 1234 e il 1235 il matrimonio tra Agnese di Massa, sorella
di Benedetta, morta nel 1232 ( 40 ), salita al trono giudicale come tutrice
del nipote Guglielmo, e Ranieri di Bolgheri Gherardesca fissò il
predominio dei Gherardesca ( 41 ) nel giudicato di Cagliari e il conseguente
allontanamento dei Visconti. L’esempio dei marchesi di
Massa, prima, e dei Visconti, poi, aveva trovato nel cagliaritano dei
nuovi imitatori.
133
( 36 ) ASP, Diplomatico Rosselmini Gualandi, 26 marzo 1261; il documento è citato
in E. CRISTIANI, Nobiltà e popolo, cit., p. 357.
( 37 ) D. SCANO, Codice diplomatico, cit., docc. C, CI e CII.
( 38 ) Il documento relativo si trova in A.S.Fi, Diplomatico San Frediano in Cestello,
27 gennaio 1238, edito in T. CASINI, Scritti danteschi: con due facsimili e con
documenti inediti, Citta di Castello 1913, p. 126; C. PIRAS, Le pergamene, cit.,
doc. II.
( 39 ) Il documento relativo è in A.S.Fi, Diplomatico San Frediano in Cestello, 22
luglio 1234, edito in T. CASINI, Scritti danteschi, cit., p. 127; C. PIRAS, Le pergamene,
cit, doc. III. Cfr. anche S. PETRUCCI, Re in Sardegna, cit., p. 40.
( 40 ) E. BESTA, La Sardegna, cit., p. 194.
( 41 ) Sul ruolo svolto dai conti Gherardesca nella vita politica pisana e in Sardegna
tra la metà del XII e la metà del XIII secolo vedi M. L. CECCARELLI LEMUT, Medioevo,
cit., pp. 163-257.

134
1227 settembre 26, Massa
APPENDICE DOCUMENTARIA
BIANCA FADDA
Benedetta, giudicessa di Cagliari e marchesa di Massa, confessa di
dover restituire a Ranieri Bocci del fu Gherardo Cortevecchia la
somma di 3.500 libbre e 6 soldi di denari genovini minori; al fine di
saldare tale debito lo autorizza a pignorare le sue proprietà site nel
giudicato cagliaritano, in cui allora dominava l’usurpatore Ubaldo
Visconti. La giudicessa non esclude peraltro la possibilità di rientrare
in possesso del suo trono giudicale e, in tal caso, promette a Ranieri
di restituire la suddetta somma entro un anno.
Archivio di Stato di Pisa, Archivio Alliata, Busta 1289, carte sciolte.
[B] Copia autentica, coeva redatta dai notai imperiali Saracenus quondam
Torscii, Bartholomeus filius Rustichelli Fabri de Sancto Martino in Guatholungo,
Ildebrandus quondam Viviani, in latino; pergam., mm. 220x410.
Inchiostro marrone scuro. Stato di conservazione: la pergamena presenta
un taglio lungo il margine inferiore, in corrispondenza della terza sottoscrizione
notarile, che si presenta lacunosa.
Rigatura a secco. La scrittura corre parallela al lato minore della pergamena.
Per la datatio chronica è usato lo stile della Natività, associato all’indicazione
dell’anno di pontificato di Gregorio IX computato dal giorno della consacrazione
del pontefice, avvenuta a Roma il 21 marzo 1227. L’anno 1227,
confermato dall’indizione prima, non deve essere rettificato.
Exemplar
In nomine Domini. Anno dominice nativitatis .MCCXXVII.
pontificatus domini Gregorii VIIII pape anno vero eius | primo, indictione
prima, mensis septembris die .XXVI. Ego quidem Benedicta
donnicella Dei gratia domina et iudicissa Callari | ac marchionissa
Masse hac die presenti bona mea et spontanea voluntate in

Un nuovo documento su Benedetta, marchesa di Massa e del giiudicato ...
presentia notarii et testium subscriptorum ad hoc spe|cialiter rogatorum,
confiteor me debitricem et pagatricem fore et debere dare tibi
Rainerio Boccii filio quondam Gerardi Curtevec|chie tuisque heredibus
et successoribus cui dare seu concedere volueris dum debitum
duraverit, ideo est libre .MMM. quinquaginta | ianuinorum monete
minoris et soldi .VI. scilicet pro dampnis et expensis et usuris a te
factis, solutis et habitis pro debito et occasione debiti | predictarum
librarum ianuinorum, pro cuius pecunie quantitate do tibi tuisque
heredibus et successoribus liberam et plenam potestatem sine curie
reclama|tione et vestri iuris lesione, modo, mandato vestraque
auctoritate capere, tenere, vendere alii pignorare tantum de bonis regni
mei | Callari ubicumque de eis inveneritis, dum Hubaldus Vicecomes
predictum regnum meum Callari dominabitur a quod plene
possitis vobis satisfacere | de pecunia prenominata pro sorte etiam
dapnis b et expensis et si de prefata pecunie quantitate, dum ipse
prenominatus Hubaldus | terram dominabitur predictam vobis plene
satisfactum fuerit, vocabis te inde bene quietum et renuntiabis
omnem exceptionem non solute et non numerate | pecunie aliquo
tempore non opponere. Sin autem cum Deo opitulante terram
meam predictam recuperabo promitto tam pro me quam pro meis
heredibus | et successoribus tibi tuisque heredibus et successoribus si
quidem deerit vobis totum vel partem deinde ad annum unum dare
et persolvere, quod si non fecerimus | liceat vobis in omnibus bonis
meis intrare, capere, vendere alii pignorare tantum quod plene possitis
vos inde satisfacere. Pro quibus debitis | suprascriptis obligo me
tibi meosque heredes et successores et omnia mea bona mobilia et
immobilia in se moventia tuisque heredibus et suc|cessoribus dum
debitum duraverit, renuntiando in hoc omni iuri, auxilio et consilio
legum et iudicum et adiutori velleani senatus consulti et epistulam |
divi Adriani, constitutionibus et legibus quibus me tueri possim et si
dictum debitum in dictis terminibus vobis solutum fuerit hec
cartu|la vacua sit et nullius valoris et incisa ad me revertatur. Et promitto
tam pro me quam pro meis heredibus et successoribus tibi tuisque
heredibus et successoribus | omnia prout suprascripta sunt observare
et plenissime adimplere et contra non venire, sed ab omni
persona si necesse fuerit defendere. | Alioquin composituri promittimus
vobis daturi nomine pene pecunie duple et soluta pena hec cartula
firma permaneat. Quam | scribere rogavi Amorum Sancte Ro-
a dominabitur in calce al documento.
b In luogo di dampnis.
135

136
BIANCA FADDA
mane ecclesie notarium mense et indictione suprascripta prima. Actum
in Massa marchionum de Lunisciana | scilicet in camera palatii
dicte donicelle, presentibus hiis subscriptis testibus ad hec rogatis.|
Rubeus de Castello testis.|
Veltrus quondam Truffe testis.|
Paganellus quondam Truffe testis.|
(SN) Ego Amorus Sancte Romane ecclesie notarius scripsi atque firmavi.|
(SN) Ego Saracenus quondam Torscii domini Frederici Dei gratia
illustrissimi romanorum imperatoris notarius | auctenticum huius
vidi et legi ideoque ipsum fideliter exemplavi.|
(SN) Ego Bartholomeus filius Rustichelli Fabri de Sancto Martino
in Guatholungo domini Fre|derici Dei gratia romanorum imperatoris
et incliti regis Sicilie notarius auctenticum huius vidi et legi ideoque
huic subscripsi.|
(SN) Ego Ildebrandus quondam Viviani iudicis et notarii domini
Frederici Dei gratia excellentissimi romanorum | imperatoris notarius
auctenticum huius […] c .|
c lacuna per taglio nella pergamena.

MATTEO VINTI
I CANTI DI STAZIO
(Pg. XX 124-XXII 117)
SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Prologo. Il monte trema. – 3. Atto I. “Che me
relega ne l’etterno essilio”. – 4. Atto II. “Assentirei un sole… al mio uscir
di bando”. – 5. Atto III. “Amore, acceso di virtù, sempre altro accese”. – 6.
Atto IV. “Per che non reggi tu…”. – 7. Atto V. “Per te poeta fui, per te
cristiano”. – 8. Epilogo. Ricordo del Limbo. – 9. Retrospettive.
1. Introduzione. – L’episodio della Commedia nel quale Dante e
Virgilio incontrano il poeta latino Stazio ha suscitato, nella critica
dantesca, un notevole interesse, dovuto soprattutto al fatto che il nuovo
personaggio non risulta essere una delle numerose comparse che,
canto dopo canto, affollano il poema. La sua presenza si estende per
ben tredici canti, dal XXI al XXXIII del Purgatorio, quarta per numero
di canti dopo Dante, Virgilio e Beatrice. La centralità della sua figura,
come anche il fatto che a lui sia delegata un’importante lezione
di filosofia in Pg. XXV, ha addirittura indotto parte dei dantisti a ritenerlo
una sorta di guida di passaggio tra il magistero virgiliano e quello
di Beatrice e ad attribuirgli svariati significati allegorici ( 1 ).
“L’episodio – scrive Mario Apollonio ( 2 ) – è assai ricco: benché,
letteratissimo, a comprenderlo occorra forse troppo di gusto e d’abitudine
riflessiva”. La lectura Dantis qui sviluppata, pur tenendo nel dovuto
conto le esegesi filologiche e storicistiche del testo in esame – elementi
certo imprescindibili per un’adeguata comprensione delle pagine
del poema –, si propone di rivolgere l’attenzione principalmente al
( 1 ) Pietro Alighieri attribuisce a Stazio il significato allegorico di filosofia morale,
in contrapposizione con Virgilio come filosofia razionale. L. FILOMUSI GUELFI,
Nuovi studi su Dante, Città di Castello 1911, pp. 63-68, vi vede invece la scienza
speculativa. Altri parlano di ragione perfezionata dal sapere cristiano o di teologia
morale.
( 2 ) Dante. Storia della “Commedia”, Vallardi: Milano 1951, II, p. 734.

138
MATTEO VINTI
contesto ideologico, filosofico e teologico nel quale Dante fa muovere
i protagonisti della fabula, all’orizzonte concettuale, così diverso dall’odierno,
all’interno del quale è venuto in qualche modo spontaneo al
poeta strutturare un episodio così denso per eventi e significato.
La scelta di trattare l’incontro con Stazio non è casuale. Non è
difficile scorgere nell’incontro tra i poeti pellegrini e Stazio un episodio
paradigmatico per la comprensione di tanti temi cari a Dante, e
affollanti le pagine della Commedia: la concezione che Dante aveva
di se stesso e del proprio rapporto con Virgilio e la classicità in genere;
la buona letteratura e il metodo di lettura per accostarsi ad essa;
una trattazione figurale del fenomeno della conversione; un exemplum
di rapporto impostato su una dottrina dell’amore capace di superare
le aporie della fin’amor nelle sue varianti, dai provenzali a
Guinizzelli e Cavalcanti; una teoria della conoscenza che muova anche
l’affettività dell’uomo; e altre tematiche ancora, magari sfiorate
solo per cenni. La densità stessa dei centri di interesse e la sapiente
ricchezza del loro impasto, possono forse consentire al lettore di pervenire
a un ulteriore approfondimento della complessa impostazione
intellettuale e affettiva dell’uomo Dante.
L’incontro con Stazio può essere letto, sotto certi riguardi, come
un’opera drammatica: ha un suo prologo, il terremoto, che serve a
suscitare nel lettore un moto di curiosità per quanto sta per avvenire;
c’è l’entrata in scena del protagonista, Stazio, e la sua sorpresa di
trovarsi di fronte a un uomo vivo e a un abitante del Limbo; c’è l’autopresentazione
di Stazio, e il suo incontenibile desiderio di aver conosciuto
Virgilio; c’è il momento dell’agnizione, con il tentativo del
“fan” di abbracciare il proprio “idolo”; e in crescendo, ci sono i motivi
di questa adorazione: la gratitudine a Virgilio per averlo corretto
dal vizio della prodigalità e, soprattutto, per avergli inconsapevolmente
suggerito la conversione al cristianesimo; infine, si ha un malinconico
epilogo nella rimembranza del Limbo. La nostra lectura
dell’episodio ricalca tale struttura narrativa.
2. Prologo. Il monte trema. – L’incipit dell’episodio (Pg. XX 124-
151) è significativamente sottolineato da un evidente “campanello
d’allarme” ( 3 ). Dante e Virgilio si trovano nella quarta cornice della
( 3 ) L’utilizzo di tale espediente narrativo non è raro nella Commedia. Dello
stesso genere è l’avvio dell’episodio di Ugolino (If. XXXII 124-139), su cui spenderemo
qualche parola più avanti; l’esordio di If. XXXIV (sul sentimento di aspet-

I canti di Stazio
montagna del Purgatorio, dove viene purificata la tendenza all’avarizia
e alla prodigalità. È ben noto il ribrezzo dantesco per l’eccessivo
attaccamento al denaro e per i deleteri risvolti politici e sociali che
esso determina se ne sono preda le gerarchie ecclesiastiche e civili. I
canti XIX e XX della seconda cantica vibrano, infatti, nei colloqui
con Ugo Capeto e papa Adriano V, di fremente sdegno, che pochi
eguali conosce nell’intero poema.
Alla fine del canto XX, però, la giusta ira si è ormai placata, e lascia
il posto al tranquillo ma imperterrito zelo di riprendere, per
quanto possibile, il cammino. È in questo quadro che, improvvisamente,
si verifica un evento inconsueto: un terremoto scuote il
monte, terrorizzando Dante:
Noi eravam partiti già da esso,
e brigavam di soverchiar la strada
tanto quanto al poder n’era permesso,
quand’io senti’, come cosa che cada,
tremar lo monte; onde mi prese un gelo
qual prender suol colui ch’a morte vada.
Certo non si scotea sì forte Delo,
pria che Latona in lei facesse ‘l nido
a parturir li due occhi del cielo.
(Pg. XX 124-132)
Il carattere violento del cataclisma, e quindi l’attenzione che dovrebbe
destare nel lettore, è sottolineato da molteplici indizi. Il verso
124, “Noi eravam partiti già da esso”, anzitutto, richiama alla memoria
del lettore attento If. XXXII 124, “Noi eravam partiti già da
ello”, da cui prende avvio il celebre episodio del conte Ugolino, e av-
tativa e di attesa che suscita questo passo cfr. C.S. SINGLETON, Dante Studies 1 –
Elements of Structure, Harvard University Press: Cambridge Mass. 1954; tr. it. di
G. Prampolini: La poesia della Divina Commedia, Il Mulino: Bologna 1999
(1978 1 ), pp. 58-61); ancora, ci sono i brani in cui Dante si protesta superiore a
Lucano e Ovidio nel canto dei ladri (If. XXV 94-102). Si tratta di espedienti tesi a
suscitare l’attenzione del lettore e a risvegliarne le facoltà interpretative. Nel poema
se ne contano a decine. Oltre alla funzione di avviso al lettore, tali esordi ne
hanno però una seconda, non meno importante: dettano il clima dell’episodio, ne
propongono l’ottica interpretativa, suggeriscono la prospettiva di lettura. Nel caso
di Ugolino si tratta di un episodio altamente drammatico, a tinte fosche; la comparsa
di Lucifero va letta come antitetica alla divinità; la sfida lanciata a Lucano e
Ovidio disegna un momento immaginifico e “magico”; così anche la terzina di avvertimento
che Dante rivolge ai lettori quando i due poeti giungono sotto le mura
di Dite presenta un episodio di denso significato allegorico (If. IX 61-63).
139

140
MATTEO VINTI
verte che anche la presente narrazione va letta con occhio vigile. Persino
la disposizione dei due episodi all’interno della suddivisione in
canti del poema è esattamente sovrapponibile: la narrazione prende
le mosse dal verso 124 in ambedue i casi, e in entrambi prosegue nel
canto successivo ( 4 ). Ed è possibile che sia significativo il parallelo rifarsi
al mito per illustrare la scena (il terremoto di Delo nel presente
caso, Tideo e Melanippo in quello infernale) ( 5 ). E proprio il riferimento
mitico ai sommovimenti dell’isola di Delo, di cui si racconta
che anteriormente alla gravidanza di Latona fosse un’isola vagante
preda di tempeste e correnti marine ( 6 ), può forse essere considerata
una nota suggestiva tale da destare la curiosità, come spesso avviene
nel corso della Commedia. Risulta, infine, di notevole interesse la
notazione psicologica, soggettiva, secondo cui Dante dichiara di essere
stato preso da “un gelo / qual prender suol colui ch’a morte
vada”, con iperbole funzionale a suscitare l’attenzione del lettore.
Ma è l’avvenimento successivo, ancor più sorprendente e inatteso,
ad incrementare esponenzialmente l’intensità della curiosità, dell’attesa,
perché nell’istante immediatamente seguente l’inizio del terremoto
i due poeti odono un Gloria innalzarsi all’unisono dalle anime
purganti:
Poi cominciò da tutte parti un grido
tal, che ‘l maestro inverso me si feo,
dicendo: «Non dubbiar, mentr’io ti guido».
«Gloria in excelsis» tutti «Deo»
( 4 ) Sull’importanza della simbologia numerologica nella Commedia è utile
quanto osserva C.S. SINGLETON, La poesia della Divina Commedia, pp. 451-462.
Naturalmente, è sempre possibile incorrere in risibili esagerazioni, così bene ridicolizzate
da É. GILSON, Dante et la Philosophie, Vrin: Paris 1972 (19391 ); tr. it. di
S. Cristaldi: Dante e la filosofia, Jaca Book: Milano 1987, pp. 26-30. Si sa che il gusto
di Dante, come quello di tutto il suo tempo, del resto, spesso indulge con compiacimento
su siffatti espedienti; e se è vero che non tutto può esser letto secondo
chiavi numerologiche, in questo caso le coincidenze hanno l’aria d’essere troppo
stringenti, e legittimano il sospetto che vi sia una precisa volontà dell’autore.
( 5 ) Probabilmente casuale, ma comunque degno di nota il fatto che l’episodio
di Tideo e Melanippo sia ripreso proprio da Stazio, Theb. VIII 751-762, come dimostra
anche la forma dantesca “Menalippo”, con metatesi consonantica, che è la
stessa lezione dei codici staziani: cfr. E. PARATORE, s.v. “Stazio”, ED V, p. 424a.
( 6 ) Cfr. C. KRAUS, s.v. “Delo”, ED II, p. 362b. Le fonti di Dante sono Verg.
Aen. III 73-77 e Ov. Met. VI 188-191, ma entrambi i passi contengono solo brevissimi
cenni all’isola, e nessuno ai terremoti. Parla di terremoti, invece, Servio, ad
Aen. III 73, p. 351 Th.; è possibile che l’esegeta virgiliano sia la fonte dantesca circa
Delo come isola dei terremoti.

I canti di Stazio
dicean, per quel ch’io da’ vicin compresi,
onde intender lo grido si poteo.
(Pg. XX 133-138)
Il primo gesto, quasi istintivo, di Virgilio, è rassicurare Dante dal
dubbio e dalla sorpresa che lo hanno attanagliato. È naturale che i due
poeti si dispongano ora ad attendere un avvenimento o un personaggio
esplicativo di quanto è loro accaduto. Ma è il Gloria stesso a connotare
il tipo di attesa dei due pellegrini e nostro. Si tratta del canto
intonato dagli angeli la notte in cui nacque Gesù ( 7 ), e ciò permette di
assimilare Dante e Virgilio ai pastori che lo udirono per primi:
No’ istavamo immobili e sospesi
come i pastor che prima udir quel canto,
fin che ‘l tremar cessò ed el compiési.
Poi ripigliammo nostro cammin santo,
guardando l’ombre che giacean per terra,
tornate già in su l’usato pianto.
Nulla ignoranza mai con tanta guerra
mi fé desideroso di sapere,
se la memoria mia in ciò non erra,
quanta pareami allor, pensando, avere,
né per la fretta dimandare er’oso,
né per me lì potea cosa vedere:
così m’andava timido e pensoso.
(Pg. XX 139-151)
Come i pastori di Betlemme, anche i due poeti rimangono trepidanti,
“immobili e sospesi”, ansiosi di comprendere il significato del
terremoto e del canto, che si sono simultaneamente acquietati. Il riferimento
ai “pastor che prima udir quel grido” chiarisce come l’attesa
che permea l’animo dantesco debba essere considerata analoga
all’attesa messianica. L’avvenimento prossimo è in qualche misura
( 7 ) Lc. 2, 8-14: “Et pastores erant in regionem eadem vigilantes et custodientes
vigilias noctis supra gregem suum. Et angelus Domini stetit iuxta illos, et claritas
Dei circumfulsit illos, et timuerunt timore magno. Et dixit illis angelus: ‘Nolite
temere: ecce enim evangelizo vobis gaudium magnum, quod erit omni populo:
quia natus est vobis hodie Salvator, qui est Christus Dominus, in civitate David.
Et hoc vobis signum: invenietis infantem pannis involutum, et positum in praesepio’.
Et subito facta est cum angelo multitudo militiae caelestis laudantium
Deum, et dicentium: ‘Gloria in altissimis Deo, et super terram pax hominibus bonae
voluntatis’”.
141

142
MATTEO VINTI
simile alla nascita di Cristo. Il clima generale dell’episodio riveste i
panni del tempo liturgico dell’Avvento, il clima dell’attesa che il Redentore
si faccia carne.
Il contrasto tra “immobilità, sospensione” e “fretta, cammino” è
sensibile. Il narratore ci informa che, come le anime della quinta
cornice tornano “in su l’usato pianto”, alla penitenza che è loro data,
così anche Dante e Virgilio riprendono il “cammin santo”, e lo zelo
è tale che “per la fretta” Dante non osa chiedere spiegazioni al suo
maestro ( 8 ); d’altra parte, l’attesa, l’immobilità, la sospensione, il desiderio
di sapere non trovano requie, e sono incrementati in sommo
grado, tanto che il poeta confessa che, a memoria sua, “nulla ignoranza”
lo rese mai “desideroso di sapere” con simile tormento.
L’evidente rimando al celeberrimo esordio della Metafisica aristotelica,
già citato all’inizio del Convivio – “tutti li uomini naturalmente
desiderano di sapere” ( 9 ) –, permette di evidenziare la dialettica
tra due esigenze originarie dell’animo umano, il desiderio di conoscere
la verità e quello di essere felici, cioè, nell’allegoria del poema,
di giungere quanto prima alla cima del Purgatorio, ove è posto
il Paradiso terrestre. Di fatto, le due aspirazioni coincidono: “acciò
che la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta
la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo
subietti”, prosegue il citato passo del Convivio. Ma al momento l’inquietudine
del desiderio di sapere pare costretta al silenzio, quasi preferisca
piegarsi all’altrettanto sacro dovere del pellegrino penitente.
Attesa e movimento, in realtà, sono diverse metafore di una stessa
disposizione del cuore dell’uomo, il bisogno di sapere, di significato.
Il contrasto tra i due atteggiamenti, pur evidente a livello letterario,
risponde alla necessità, per il poeta, di rappresentare la complessità
dell’attività umana nei confronti della verità: da un lato tensione alla
scoperta, dell’altro stupita attenzione alla possibilità dell’autorivelazione
del vero. “L’intero mondo – spiega Romano Guardini ( 10 ) – è
teso in silenzioso anelito verso Dio, e quest’anelito si scioglie nel
passo di Dante, dell’uomo, che cammina. L’‘aspettazione delle creature’
si scioglie nel passo e nell’anima di chi sale nella fede, ed è
( 8 )E qui la memoria torna alla “briga” di “soverchiar la strada / tanto quanto
al poder n’era permesso” dei vv. 125-126.
( 9 ) Cv. I i 1.
( 10 ) “Die Ordnung des Seins und der Bewegung”, in Unterscheidung des Christlichen,
Grünewalg: Mainz 1934; tr. it. di M.L. Maraschini e A. Sacchi Balestrieri:
R. GUARDINI, “L’ordine dell’essere e del movimento”, in Dante, Morcelliana:
Brescia 1967, pp. 171-205. La citazione è tratta dalla p. 193.

I canti di Stazio
come se il mondo che egli percorre lo seguisse. C’è un momento in
cui tutto ciò si fa lampante: quando tutto il monte si scuote perché
un’anima ha portato a fine la sua purificazione, e Stazio si accompagna
improvvisamente a Dante e Virgilio”. Nel quotidiano agire dell’uomo,
non si dà domanda senza ricerca né ricerca senza domanda.
L’immagine dantesca illustra e conferisce corpo a tale dialettica, nella
quale l’uno dei due fattori può, a seconda delle circostanze, essere
prevalente sull’altro, ma mai obliterarlo.
Su questa condizione conflittuale nell’unità trova la sua chiusa il
canto: “m’andava timido e pensoso”, dice Dante, pieno d’attesa,
pensieroso, desideroso di chiedere e di conoscere, ma incerto, timoroso
di farlo, mentre il cammino prosegue imperterrito. La scena del
terremoto, che costituisce il prologo dell’episodio di Stazio, prepara
il clima dell’episodio stesso, si configura – s’è detto – come un
“campanello d’allarme”. E la suggestione principale è appunto quest’attesa.
Un’attesa che mostra una duplicità di sfumature: attesa intellettuale,
desiderio di sapere, di conoscere la causa del terremoto e
del Gloria – attesa anche narrativa, perché il lettore è preso da analoga
suspence – da un lato; dall’altro attesa messianica, che conferisce
un alone numinoso, di mistero, all’evento, e condiziona profondamente
lo sviluppo drammatico del poema.
3. Atto I. “Che me relega ne l’etterno essilio”. – Col canto successivo,
il XXI del Purgatorio, si entra nel vivo dell’episodio. Ma il clima
determinato dalla chiusa del canto XX non è dimenticato, e sull’onda
di quest’attesa messianica si apre ancora la narrazione:
La sete natural che mai non sazia
se non con l’acqua onde la femminetta
samaritana domandò la grazia,
mi travagliava, e pungeami la fretta
per la ‘mpacciata via dietro al mio duca,
e condoleami a la giusta vendetta.
(Pg. XXI 1-6)
La metafora della sete del sapere ( 11 ), così frequente in Dante,
trova qui uno dei suoi momenti più felici e pregnanti. L’immagine
è, ovviamente, di origine biblica. I Salmi e i profeti identificano l’ac-
( 11 ) Per molto di quanto qui riportiamo siamo debitori alle importanti indicazioni
di F. TOLLEMACHE, s.v. “sete”, ED V, pp. 197a-198a.
143

144
MATTEO VINTI
qua con Dio, l’unico in grado di placare la sete dell’uomo ( 12 ). Sarà
poi Gesù a riprendere la metafora della sete e dell’acqua e a riferirla
a se stesso ( 13 ). Dante riprende l’immagine scritturale, e le conferisce
nuova vita e nuovi significati. Si tratta di una delle metafore più usate
dal poeta fiorentino per indicare il desiderio di conoscere, e sovente
anche la relativa soddisfazione ( 14 ).
In particolare, in questo passo si tiene ben presente l’orizzonte
evangelico. Il riferimento all’incontro di Cristo con la Samaritana ( 15 )
ricorda uno degli episodi più significativi nei quali l’immagine viene
utilizzata. Dante espande ulteriormente il già ampio significato che
la sete e l’acqua avevano nel racconto giovanneo, valorizzando sincreticamente
la riflessione filosofica aristotelica. La “sete natural”,
nel contesto biblico, rappresenta il complesso di esigenze e di desi-
( 12 ) Cfr. Ps. 22, 2; 35, 9-10; 41, 2-3; 62, 2; Prv. 10, 11; 13, 14; 14, 27; 9, 1-5; Is.
12, 3; 44, 2-3; 55, 1; 58, 11; Ier. 2, 13; 17, 13; Ez. 47, 1-12; Il. 4, 18; Zach. 14, 8.
( 13 ) Io. 7, 37-38: “Si quis sitit, veniat ad me et bibat, qui credit in me. Sicut
dicit Scriptura, flumina de ventre eius fluent aquae vivae”; cfr. anche Mt. 5, 6; Io.
6, 35; Apc. 7, 16-17; 21, 6; 22, 1-7. L’affermazione di Gesù secondo cui egli è
l’acqua che estingue la sete dell’uomo, e quindi Dio stesso, è esemplificativa della
modalità con la quale il rabbì di Nazareth si identifica con Jahvé).
( 14 ) Cfr. If. I 79-80; Pg. XVIII 4; XX 2-3; XXI 1-4, 37-39 e 73-74 (il canto
qui in esame, nel poema il canto in cui la metafora è più usata); XXVIII 134-135;
XXXI 127-129; Pd. I 31-33; II 19-20; X 88-89 e 121-123 (ambedue le volte a
parlare è Tommaso d’Aquino, che utilizza l’identica metafora nel noto inno Adoro
te devote); XI 100; XIX 121. È notevole osservare che la metafora presenta uno
slittamento semantico tra le occorrenze infernali e dei primi canti del Purgatorio e
quelle del resto del Purgatorio e del Paradiso, e il momento del cambiamento di
significato coincide appunto col canto XXI della seconda cantica. Il primo significato
è riferito al sapere che l’uomo può conseguire naturalmente, il secondo al desiderio
di sapere che l’uomo può soddisfare solo per grazia divina.
( 15 ) Io. 4, 4-42; in particolare 4, 6-15: “Erat autem ibi fons Iacob. Iesus ergo
fatigatus ex itinere sedebat sic supra fontem. Hora erat quasi sexta. Venit mulier
de Samaria haurire aquam. Dicit ei Iesus: ‘Da mihi bibere’; discipuli enim eius
abierant in civitatem ut cibos emerent. Dicit ergo ei mulier illa Samaritana: ‘Quomodo
tu Iudaeus cum sis, bibere a me poscis, quae sum mulier Samaritana?’. Non
enim coutuntur Iudaei Samaritanis. Respondit Iesus et dixit ei: ‘Si scires donum
Dei, et quis est qui dicit tibi: Da mihi bibere, tu forsitan petisses ab eo, et dedisset
tibi aquam vivam’. Dicit ei mulier: ‘Domine, neque in quo haurias habes, et puteus
altus est: unde ergo habes aquam vivam? Numquid tu maior es patre nostro
Iacob, qui dedit nobis puteum, et ipse ex eo bibit et filii eius et pecora eius’. Respondit
Iesus, et dixit ei: ‘Omnis qui bibit ex aqua hac, sitiet iterum: qui autem
biberit ex aqua quam ego dabo ei, non sitiet in aeternum: sed aqua quam ego
dabo ei, fiet in eo fons aquae salientis in vitam aeternam’. Dicit ad eum mulier:
‘Domine, da mihi hanc aquam ut non sitiam, neque veniam huc haurire’”. L’episodio
della Samaritana è anche ricordato in Cv. IV, 12, 11.

I canti di Stazio
derio propriamente umano, il suo bisogno di infinito, di divino; e
l’acqua che è Dio stesso è l’unica possibilità di colmare questo desiderio
abissale. Ma questa sete è anche sete di verità, perché Cristo è
la Verità stessa. E giacché, come abbiamo sopra rammentato, “tutti
li uomini naturalmente desiderano di sapere” ( 16 ), la sete della Samaritana
è anche sete di conoscenza, di verità. L’analogia che Dante
istituisce tra la propria sete di verità e quella della Samaritana chiarisce
come il compimento di tale desiderio, l’acqua “onde la femminetta
/ samaritana domandò la grazia”, è Cristo stesso. L’attesa dantesca
continua a configurarsi come attesa messianica.
Il clima evangelico, quasi “da comparsa di Cristo”, del canto, è
ulteriormente sottolineato da un secondo riferimento scritturale all’episodio
dei viandanti di Emmaus:
Ed ecco, sì come ne scrive Luca
che Cristo apparve a’ due ch’erano in via,
già surto fuor de la sepulcral buca,
ci apparve un’ombra, e dietro a noi venìa,
dal piè guardando la turba che giace;
né ci addemmo di lei, sì parlò pria,
dicendo: «O frati miei, Dio vi dea pace».
Noi ci volgemmo sùbiti, e Virgilio
rendéli ‘l cenno ch’a ciò si conface.
(Pg. XXI 7-15)
L’attesa quasi messianica preannunciata nella conclusione di Pg.
XX e amplificata dal riferimento evangelico all’episodio della Samaritana
trova un momento di soddisfazione al momento dell’incontro
con l’anima di Stazio. La struttura dell’incontro ricalca il racconto di
come Cleofa e il suo compagno, discepoli di Gesù in cammino verso
Emmaus ( 17 ), si imbattono in Cristo risorto. Lo stilema evangelico
“ed ecco” ( 18 ), traduzione letterale di “et ecce” del testo scritturale; il
145
( 16 ) Cv. I i 1 da Arist. Metaph. A 1, 980a.
( 17 ) Lc. 24, 13-35; in particolare 24, 13-15: “Et ecce duo ex illis ibant ipsa die in
castellum, quod erat in spatio stadiorum sexaginta ab Ierusalem nomine Emmaus, et
ipsi loquebantur ad invicem de his omnibus quae acciderant. Et factum est, dum fabularentur
et secum quaererent: et ipse Iesus appropinquans ibat cum illis”.
( 18 ) Cfr. E. AUERBACH, Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen
Literatur, Francke: Bern 1946; tr. it. di A. Romagnoli e H. Hinterhauser:
Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi: Torino 1964, I, pp. 186-
187; V. VALENTE, s.v. “ecco”, ED II, p. 627a-b.

146
MATTEO VINTI
preciso rinvio al vangelo di Luca; la dinamica identica delle circostanze
secondo cui sia Gesù che Stazio si aggiungono al cammino dei
viandanti senza farsi notare ( 19 ), e rivelano la loro presenza solo quando
iniziano a parlare; la frase di saluto, parimenti identica: “O frati
miei, Dio vi dea pace”: sono tutti indizi probanti dell’analogia tra Cristo
e Stazio. Il poeta latino è, in qualche misura, figura Christi ( 20 ).
Fin dall’inizio, nel primo dialogo tra il nuovo arrivato e Virgilio, è
possibile ravvisare i primi segnali di un’affinità, e insieme di un’irriducibilità
tra i due poeti latini. Entrambi salutano augurandosi la pace,
l’augurio più importante che ci si possa scambiare nel Purgatorio, ma
anche segno di contraddizione e differenza tra i loro destini. Il termine
“pace” assume, in Dante, un significato tecnico-religioso distinto dal
pur frequente valore di “assenza di guerra tra nazioni”: la “p(ace) sovrannaturale
consiste nella visione di Dio […] e nel perfetto adeguamento
della volontà personale alla volontà del Padre […], adeguamento
che è tutt’uno con la perfetta beatitudine” ( 21 ). Il Purgatorio, in particolare,
è la cantica più intrisa della speranza del conseguimento della
pace ( 22 ). Le anime penitenti vivono della sicurezza di potersi trovare,
prima o poi, di fronte a Dio, “ben de l’intelletto” e loro beatitudine.
Il saluto di Stazio è dunque semplice, sicuro della certezza della
beatitudine propria e dei pellegrini che incontra: egli conosce la speranza
della pace e sta per conoscere la pienezza della pace. Virgilio,
( 19 ) Al verso 10, “ci apparve un’ombra”, la particella “ci” quasi sicuramente
non rappresenta la particella pronominale che equivale ad “a noi” – ciò che avrebbe
comportato un’incongruenza nel racconto: se Stazio fosse apparso alla vista di
Dante e Virgilio, se ne sarebbero accorti prima che lui parlasse; e, del resto, “dietro
a noi venìa” – ma significa “qui”.
( 20 ) Un esame più approfondito di tale significato figurale deve essere rimandato
alle conclusioni del presente lavoro.
( 21 ) Così D. CONSOLI, s.v. “pace”, ED IV, pp. 241b-244a; citazione a p. 243a.
Spiega ancora l’estensore della voce che, come “effetto dell’atto speculativo rivolto
alla verità”, la nozione di pace “può anch’essa arricchirsi di una connotazione religiosa
se si considera che la filosofia è primamente in Dio e secondariamente nelle
intelligenze create” (p. 242b; cfr. anche Mn. III xv 7; Cv. III xiii 7). A questa visione
teologica va accostata la concezione di pace che Dante ricava dalle Sacre
Scritture, e in particolare dal Vangelo: “Al di sopra della ‘beatitudine de lo intelletto’
[…] e della quiete dell’animo nell’assoluzione sacramentale […], in ogni
caso motivi di p(ace) temporanea e insidiata da mille pericoli, splende agli uomini
la pienezza della p(ace) celeste, punto culminante cui tende l’itinerario ascetico
dantesco come già l’Itinerarium bonaventuriano […]” (p. 243a).
( 22 ) Oltre ai luoghi qui in esame, si vedano Pg. III 74; V 61; XI 7; XV 131;
XVI 17; XXIV 141; XXVI 54; XXVIII 93.

I canti di Stazio
al contrario, desidera la pace, per sé come per coloro che incontra,
ma sa che non gli è riservata:
Poi cominciò: «Nel beato concilio
ti ponga in pace la verace corte,
che me relega ne l’etterno essilio».
«Come!», diss’elli, e parte andavam forte:
«se voi siete ombre che Dio sù non degni,
chi v’ha per la sua scala tanto scorte?»
E ‘l dottor mio: «Se tu riguardi a’ segni
che questi porta e che l’angel profila,
ben vedrai che coi buon convien ch’e’ regni.
Ma perché lei che dì e notte fila
non li avea tratta ancora la conocchia
che Cloto impone a ciascuno e compila,
l’anima sua, ch’è tua e mia serocchia,
venendo sù, non potea venir sola,
però ch’al nostro modo non adocchia.
Ond’io fui tratto fuor de l’ampia gola
d’inferno per mostrarli, e mosterolli
oltre quanto ‘l potrà menar mia scola.»
(Pg. XXI 16-33)
Stazio è l’anima prossima alla santità, Virgilio il pagano virtuoso destinato
al perenne rimpianto del Limbo. Nella replica di quest’ultimo
al saluto del primo v’è tutta la tristezza e la nostalgia di Dio dell’antichità
classica: “Nel beato concilio / ti ponga in pace la verace corte, /
che me relega ne l’etterno essilio” ( 23 ). La dicotomia tra i due opposti
destini, il “beato concilio” e “l’etterno essilio”, significativamente posti
in rima tra loro, è il sottofondo tragico in cui si muove tutto l’episodio,
nel suo inizio come nella sua conclusione. Il “beato concilio”, la
“pace”, rappresentano lo scopo stesso dell’uomo, il fine ultimo cui ogni
individuo è chiamato, la dimora, la patria, la Gerusalemme celeste. Per
contrasto, “l’etterno essilio” esprime “il concetto della lontananza dalla
superna patria, la vera patria celeste” ( 24 ). E non è importante se il significato
della metafora sia l’Inferno (come in If. XXIII 126), il Limbo
(come nel luogo in esame), o persino la vita terrena (come in Pd. X 129
147
( 23 ) Così M. APOLLONIO, Dante. Storia della “Commedia”, II, p. 735: “Il compianto
della sua sorte, il rammarico del suo destino mancato, trema appena, dietro
le parole formali”.
( 24 ) E. MALATO, s.v. “essilio”, ED II, p. 744a-b.

148
MATTEO VINTI
e XXVI 116) ( 25 ), in quanto “essilio” è tutto ciò che è estraneo, straniero,
al “concilio”, cioè al destino ultimo dell’uomo. Virgilio soffre di
questa condizione, per la quale la sua umanità non è realizzata pienamente,
non è compiuta. Stazio, invece, pur così simile al poeta augusteo
per epoca storica, per cultura, per mestiere, e persino privo del genio
artistico del cantore d’Enea, ha conosciuto la grazia di un avvenimento
che placa e pacifica completamente il desiderio del suo cuore.
Tale opposizione è sottolineata dalla ripresa di Stazio delle parole
di Virgilio: nella domanda “Se voi siete ombre che Dio sù non degni,
/ chi v’ha per la sua scala tanto scorte?” c’è tutta la sorpresa di
un quasi beato per l’inconsueto incontro con delle anime non destinate
al Paradiso. Una sorpresa segnalata dal “come” esclamativo-dubitativo,
posto in posizione forte all’inizio del verso, e già utilizzato
nell’episodio di Cavalcante Cavalcanti (If. X 67). La domanda di
Stazio, come già quella di Catone (Pg. I 40-45), si concentra sulla funzione
di guida necessaria per intraprendere la scalata al Paradiso: “chi
v’ha guidati?”, chiedeva l’Uticense; “chi v’ha per la sua scala tanto
scorte?”, insiste Stazio. Il presupposto sta nel fatto che senza guida
non si può pervenire al Regno dei Cieli, e tale sottolineatura è fondamentale
per comprendere Virgilio come guida, “duca”, tanto di Dante
nel mondo ultraterreno quanto di Stazio nel mondo terreno ( 26 ).
La risposta di Virgilio al dubbio di Stazio appare più preoccupata
di giustificare pienamente la presenza di Dante, anima predestinata
alla salvezza, e quindi degna di scalare il monte, e il fatto che egli
non sia ancora morto. La necessità della presenza di Virgilio stesso,
invece, è posta, con umiltà, in secondo piano, limitata a un servizio
da svolgere con prontezza e senza vanità ( 27 ). Egli scala il monte perché
serve, come guida, alla salvezza di un uomo, appunto, ancora
vivo, e quindi impossibilitato a percorrere da solo il mondo ultraterreno,
ma a lui stesso la salvezza non è concessa. Tanta la sua umiltà,
( 25 )È forse significativo notare che in tre dei passi cui si fa qui riferimento (If.
XXIII 122-126; Pg. XXI 14-18; Pd. XXVI 116-120) la terna di rime è costituita
dalle parole “essilio” – “Virgilio” – “concilio”, e il valore semantico di “essilio” e
di “concilio” è sempre quello da noi qui dibattuto, ad esclusione del caso di If.
XXIII 122, in cui “concilio” rappresenta il Sinedrio ebraico che condannò Gesù.
( 26 ) Sulla necessità di una guida per il cammino oltremondano si veda il contributo
di John FRECCERO, Dante. The Poetics of Conversion, Harvard University
Press: Cambridge Mass. 1986; tr. it. di C. Calenda: Dante. La poetica della conversione,
Il Mulino: Bologna 1989, pp. 37-90.
( 27 ) Si ricordino la semplice prontezza con cui Virgilio risponde alla richiesta
di Beatrice (If. II 76-81), e più ancora il suo silenzioso e discreto dileguarsi al termine
della sua missione (Pg. XXX 40-54).

I canti di Stazio
che non solo non si presenta, ma nemmeno specifica esplicitamente
di venire dal Limbo: la parafrasi “fui tratto fuor de l’ampia gola d’inferno”,
benché indichi probabilmente il primo e più ampio dei cerchi
infernali, evita di dichiarare chiaramente l’esatta condizione in
cui il Mantovano versa. Virgilio mostra sempre nei confronti delle
anime del Purgatorio, penitenti sì, ma comunque già salve, una deferenza
rarissimamente riscontrabile nell’Inferno. Egli sente come
uno iato, un dislivello tra la loro situazione e la propria, ma la sua
malinconia è sempre rispettosa della felicità altrui.
4. Atto II. “Assentirei un sole… al mio uscir di bando”. – L’anima
di Stazio prosegue spiegando che significato abbiano il terremoto e il
Gloria, avvenimenti causati dalla felicità che prende le anime penitenti
quando una di esse ultima il tempo di purificazione e le è permesso
recarsi in Paradiso. Di tale esposizione è utile soffermarsi su
due cenni significativi per il contesto dell’episodio.
Il primo riguarda una interessante nota psicologica sul placarsi
della sete di sapere di Dante al solo domandare di Virgilio:
«Ma dimmi, se tu sai, perché tai crolli
diè dianzi ‘l monte, e perché tutto ad una
parve gridare infino a’ suoi piè molli?».
Sì mi diè, dimandando, per la cruna
del mio disio, che pur con la speranza
si fece la mia sete men digiuna.
(Pg. XXI 34-39)
Virgilio chiede a Stazio di spiegare da cosa fossero causati il terremoto
e il canto delle anime del Purgatorio; esplicita, insomma, la domanda
che ha travagliato l’animo di Dante tra la fine del canto precedente e
l’inizio del presente. E torna, significativamente, la metafora della sete.
La novità della nota è nel rapporto tra la sete, il desiderio, e la speranza.
Alla concezione dantesca è sconosciuto il concetto di desiderio fine a
se stesso, la cui dignità consiste per l’appunto nell’essere privo di soddisfazione.
Al contrario, nell’universo concettuale classico-medievale il
desiderio ha bisogno di una soddisfazione adeguata, e la trova solo
nell’imbattersi con l’oggetto corrispondente a quanto brama ( 28 ). In
( 28 ) Il Dante del Convivio (III xv 8-10; IV xiii 8) riteneva addirittura che il desiderio
umano (nella fattispecie il desiderio di sapere) fosse commisurato in terra
alla nostra concreta possibilità di ottenerne piena e completa soddisfazione. Tale
149

150
MATTEO VINTI
senso proprio, quindi, non può essere la speranza della soddisfazione a
placare pienamente la sete umana, e nemmeno a renderla “men digiuna”.
Quanto Dante afferma, dunque, getta luce sulla comprensione
del valore della parola “speranza” ( 29 ). Lungi dall’essere un vago auspicio,
la speranza di cui qui si fa menzione si avvicina al significato
di “certezza che il desiderio sarà realizzato”, significato, del resto,
che assume la speranza intesa come virtù teologale ( 30 ).
Già in Paolo, infatti, “espressione della speranza è la certezza della
salvezza, nonostante l’attesa che ancora essa comporta”, e “nonostante
le tribolazioni che attualmente mettono alla prova la costanza
e la pazienza, in fin dei conti la fede stessa dei cristiani” ( 31 ). Di qui
la sintetica affermazione di Pietro Lombardo, secondo cui “est enim
spes certa expectatio futurae beatitudinis, veniens ex Dei gratia et
meritis praecedentibus” ( 32 ), che costituirà il nucleo dottrinario dell’illustrazione
che Dante stesso farà quando sarà interrogato da Giacomo
sulla seconda virtù teologale ( 33 ):
«Spene», diss’io, «è uno attender certo
de la gloria futura, il qual produce
grazia divina e precedente merto».
(Pd. XXV 67-69)
Il fatto che la speranza sia trattata come attesa certa implica che
essa abbia un valore in qualche misura gnoseologico, perché la cer-
posizione estrema sarà poi mitigata nella Commedia, oltre che nel passo qui in esame,
in If. IV 42 e in Pg. III 40-48. Il pensiero dantesco si adegua così a quello di
Tommaso d’Aquino, che in Contra Gent. III 48 scarta con decisione l’ipotesi che
l’uomo possa essere totalmente felice sulla terra.
( 29 ) Cfr. V. TRUIJEN, s.v. “speranza”, ED V, pp. 376a-378a.
( 30 ) Cfr. G. ANGELINI, s.v. “speranza”, in G. BARBAGLIO-S. DIANICH (curr.),
Nuovo dizionario di teologia, pp. 1508-1533; in particolare pp. 1518-1519.
( 31 ) G. ANGELINI, s.v. “speranza”, p. 1515. Angelini rimanda a Rom. 5, 1-11;
8, 18-39; 12, 12; 15, 3-4. La prima importante definizione della speranza si deve
ad Agostino, Enchiridion de fide, spe et caritate, PL 40, 235: “spes […] non nisi
bonarum rerum est, nec nisi futurarum, et ad eum pertinentium qui earum spem
gerere perhibetur”; la speranza viene così legata a una concezione morale eudaimonistica
(“ad eum pertinentium”) cui in Agostino sono accostate le categorie di
amor, delectatio e caritas.
( 32 ) Sent. III 26. La definizione di Pietro Lombardo proviene dalla scuola di
Laon. Sulla virtù della speranza come attesa certa si veda anche Thom. Summa
theol. IIa IIae , qq. 17-18; in particolare q. 18, a. 4.
( 33 ) L’intero dialogo sulla speranza abbraccia Pd. XXV 28-99.

I canti di Stazio
tezza pertiene all’ambito del conoscere. La speranza è un sapere-già,
e insieme un sapere-non-ancora. Ma è il sapere-già, cioè la certezza
che si saprà, il sapere che si saprà, che inizia a rendere “men digiuna”
la sete umana di conoscenza ( 34 ).
Il secondo luogo riguarda la modalità secondo la quale le anime
sentono di essersi purificate e perciò di poter accedere al Paradiso.
Stazio ha illustrato, per rispondere alla richiesta di Virgilio, il fatto
che la montagna del Purgatorio, al di sopra dei tre gradini nei quali
siede l’angelo confessore, non soffre di alcun fenomeno atmosferico
o sismico, e che il terremoto, così come il canto, sono causati dalla
gioia del monte e delle anime purganti perché una di loro ha finito il
suo periodo di penitenza e può ascendere al cielo. Resta da spiegare
come le anime si rendano conto di poter andare in Paradiso:
«De la mondizia sol voler fa prova,
che, tutto libero a mutar convento,
l’alma sorprende, e di voler le giova.
Prima vuol ben, ma non lascia il talento,
che divina giustizia, contra voglia,
come fu al peccar, pone al tormento.
E io, che son giaciuto a questa doglia
cinquecent’anni e più, pur mo sentii
libera volontà di miglior soglia:
però sentisti il tremoto e li pii
spiriti per lo monte render lode
a quel Segnor, che tosto su li ‘nvii».
Così ne disse; e però ch’el si gode
tanto del ber quant’è grande la sete,
non saprei dir quant’el mi fee prode.
(Pg. XXI 61-75)
( 34 ) Il problema della pertinenza di certezza e speranza è posto da Tommaso
d’Aquino nel succitato passo di Summa theol. II a II ae , q. 18, a. 4: all’obiezione secondo
la quale “spes enim est in voluntate sicut in subiecto. Sed certitudo non pertinet ad
voluntatem, sed ad intellectum. Ergo spes non habet certitudo”, l’Aquinate risponde
“dicendum quod certitudo invenitur in aliquo dupliciter: scilicet essentialiter, et partecipative.
Essentialiter quidem invenitur in vi cognoscitiva: partecipative autem in
omni eo quod a vi cognoscitiva movetur infallibiliter ad finem suum; secundum
quem modum dicitur quod natura certitudinaliter operatur, tamquam mota ab intellectu
divino certitudinaliter movente unumquodque ad suum finem. Et per hunc
etiam modum virtutes morales certius arte dicuntur operari, inquantum per modum
naturae moventur a ratione ad suos actus. Et sic etiam spes certitudinaliter tendit in
suum finem, quasi partecipans certitudinem a fide, quae est in vi cognoscitiva”.
151

152
MATTEO VINTI
Tutta la dottrina della permanenza delle anime in Purgatorio si basa
sul rapporto di contrapposizione tra “voglia, volere” e “talento”. Spiega
Alessandro Niccoli: “È comunemente accettata nel Medioevo (cfr. ad
es. Tommaso d’Aquino Sum. theol. III Suppl. Append. I 4e) la distinzione
fra una volontà assoluta e una volontà condizionata. Con immediato
riferimento al testo tomistico, questa distinzione è applicata alle pene
del Purgatorio, per affermare che, in rapporto alla volontà assoluta (o
voglia) nessuna pena è volontaria, e quindi le anime, in senso assoluto,
desiderano che la pena abbia fine; invece, in rapporto alla volontà relativa
(o talento), i penitenti vogliono espiare la colpa con il martirio, in
quanto con la pena acquistano il bene della visione di Dio” ( 35 ). La dicotomia
“talento”/“voglia” può anche essere estesa a triade “talento”/
“voglia”/“libera volontà”, dove per “talento” si intende “appetito che
previene la deliberazione della ragione”, per “voglia” “appetito naturale
precedente ogni deliberazione” e per “libera volontà” “appetizione deliberata
rispetto al bene del liberum de voluntate iudicium” ( 36 ).
La distinzione tra le diverse specie di volontà riveste particolare
interesse se si tiene presente che la parola “talento” era già occorsa
nella Commedia nel noto verso di If. V 39, ove si presentano i peccatori
carnali come coloro “che la ragion sommettono al talento” ( 37 ).
I due utilizzi di “talento” sono antitetici: nell’occorrenza infernale è
evidente il significato negativo, per il quale il talento è, nella sostanza,
l’adesione della volontà al puro appetito istintivo, non controllato
dalla facoltà della ragione; nel presente passo, invece, il talento
del purgante è posto dalla “divina giustizia” in precisa contrapposizione
col talento del peccatore. L’essenza del peccato – e non solo
del peccato carnale – consiste proprio in un uso scorretto del talento,
e quindi della volontà. La dottrina dell’amore esposta in Pg.
XVII illustra appunto l’erronea risposta della volontà umana nei
confronti dell’attrattiva che la realtà, bene in sé, suscita ( 38 ).
( 35 ) A. NICCOLI, s.v. “voglia”, ED V, p. 1114a. La trattazione della voce occupa
pp. 1113b-1115a. Identico concetto è espresso nella voce “volere”, p. 1126b,
sempre curata da Niccoli, e in G. FAVATI, s.v. “talento”, ED V, p. 512a-b.
( 36 ) G. STABILE, s.v. “volontà”, ED V, p. 1139b.
( 37 ) Utili osservazioni in E. MALATO, “Dottrina e poesia nel canto di Francesca.
Lettura del canto V dell’Inferno”, in Lo fedele consiglio de la ragione. Studi e ricerche
di letteratura italiana, Salerno: Roma 1989, pp. 66-125, e “Amore cortese e
amor cristiano da Andrea Cappellano a Dante”, in Lo fedele consiglio de la ragione,
pp. 126-227. Il termine “talento” ricorre anche in If. II 81 e in If. X 55, dove non
riveste però un valore altrettanto pregnante.
( 38 ) Fondamentale, per analogia di posizione, il confronto con Thom. Summa
theol. I a II ae , qq. 18-21, e con De malo, q. 2.

I canti di Stazio
La sete di Dante, di fronte alla piena risposta di Stazio, si è placata.
Rimane ancora insoddisfatta, tuttavia, un’altra curiosità, e un altro
enigma occorre ancora svelare. L’anima ormai beata per la quale
il monte tutto è esploso nel suo giubilo è proprio quella che discorre
attualmente con Dante e Virgilio. Ma il lettore ancora non conosce
la sua identità. Stazio ha finora mancato di presentarsi. La lacuna è
colmata da una precisa richiesta di Virgilio, cui Stazio risponde tracciando
di sé un’autobiografia significativamente paragonabile, per
dovizia di informazioni e struttura, soltanto alla biografia virgiliana
di If. I 67-75 ( 39 ):
E ‘l savio duca: «Omai veggio la rete
che qui v’impiglia e come si scalappia,
perché ci trema e di che congaudete.
Ora chi fosti, piacciati ch’io sappia,
e perché tanti secoli giaciuto
qui se’, ne le parole tue mi cappia».
«Nel tempo che ‘l buon Tito, con l’aiuto
del sommo rege, vendicò le fora
ond’uscì ‘l sangue per Giuda venduto,
col nome che più dura e più onora
er’io di là», rispuose quello spirto,
«famoso assai, ma non con fede ancora.
Tanto fu dolce mio vocale spirto,
che, tolosano, a sé mi trasse Roma,
dove mertai le tempie ornar di mirto.
Stazio la gente ancor di là mi noma:
cantai di Tebe, e poi del grande Achille;
ma caddi in via con la seconda soma.
(Pg. XXI 76-93)
La maggior parte delle informazioni che noi oggi possediamo su
Publio Papinio Stazio ci vengono fornite dal poeta stesso in alcuni
componimenti delle Silvae, opera, questa, ignota al Medioevo. Ai
due poemi epici, la Tebaide e l’Achilleide, è limitata, in genere, la conoscenza
che il Medioevo ha dell’opera staziana, e Dante non fa eccezione.
La confusione del poeta fiorentino riguardo l’effettivo luo-
( 39 ) E. PARATORE, s.v. “Stazio”, ED V, p. 420b, parla addirittura della biografia
staziana come di “un unicum nel poema, in cui di solito non ci si attarda sui particolari
geografici dei personaggi incontrati”. Il confronto tra le biografie dei due
poeti sarà affrontato nelle pagine che seguono.
153

154
MATTEO VINTI
go di nascita di Stazio conferma la sua ignoranza delle Silvae ( 40 ).
La struttura della biografia dantesca è di tipo alessandrino, lo
stesso genere seguito da Svetonio e Gerolamo ( 41 ). Il percorso delle
rubriche è il seguente: acmé, mestiere, luogo di nascita e di attività,
opere. Un confronto sistematico tra l’autobiografia staziana e quella
virgiliana può risultare utile per comprendere l’arte biografica di
Dante ( 42 ). Le rubriche, nei due casi, seguono un ordine differente,
ma per il resto sono molto simili anche testualmente. Si veda il caso
della collocazione cronologica dei due poeti: Virgilio – di cui si specifica
anche la nascita, “sub Iulio” – vive “sotto ‘l buono Augusto”,
Stazio “nel tempo che ‘l buon Tito”. L’aggettivo “buono”, riferito
agli imperatori sotto cui vivono i due poeti, sottolinea l’analoga condizione
politica, ma esalta così la contrapposta situazione religiosa:
mentre Virgilio vive “nel tempo de li dèi falsi e bugiardi”, Stazio assiste
alla vendetta perpetrata da Tito de “le fora / ond’uscì ‘l sangue
per Giuda venduto”, vendetta compiuta “con l’aiuto / del sommo
( 40 ) Dante, come abbiam visto, lo dice tolosano, ma in realtà è di Napoli. Stazio
si dichiara infatti napoletano in Silv. III v, un componimento indirizzato alla
moglie, e si dilunga sulla scuola partenopea diretta dal padre in Silv. V iii. La notizia
secondo cui Stazio sarebbe originario di Tolosa deriva da Girolamo (Chron.
Ol. 209) e dall’Expositio super Thebaidem attribuita a Fulgenzio e contenuta nel
Parisinus Lat. 3012 del sec. XI (cfr. G. BRUGNOLI, s.v. “Stazio Ursulo, Lucio”, ED
V, p. 425b), che confondono il poeta Publio Papinio Stazio con il contemporaneo
retore Lucio Stazio Ursulo. Sull’argomento si veda anche E. PARATORE, s.v. “Stazio”,
ED V, p. 419b.
( 41 ) La biografia “alessandrina” – la definizione risale a F. Leo – procede per
rubriche, in contrapposizione alla biografia “peripatetica”, che segue un ordine
cronologico ed è la più diffusa per quanto riguarda personaggi politici.
( 42 ) La biografia virgiliana in Dante dipende pesantemente dalle vite virgiliane
antiche, e in particolare da quelle di Donato e di Servio: “[…] Inf. 1.68-69 rinvia,
come si sa da tempo, alla vita di Donato […]. La biografia virgiliana di Dante
sembra dunque sorretta da una fonte ben raccomandabile, lontanissima dalle fantasie
cui è talora ridotta la memoria di Virgilio, più complessa di quella sbrigativa
e scolastica di Servio che avremmo potuto supporre nelle mani di Dante, assieme
al commento all’opera virgiliana che il poeta dovrebbe aver conosciuto” (G.C.
ALESSIO e C. VILLA, “Per Inferno I.67-87”, in A.A. IANNUCCI (cur.), Dante e la
“bella scola” della poesia, Longo: Ravenna 1993, pp. 45-46). È noto che la biografia
virgiliana di Donato deriva, nelle sue linee essenziali – le stesse poi riprese da
Dante – dal De poetis di Svetonio. Quanto a Stazio, non sono pervenute fino a noi
biografie antiche, per cui – vista anche l’ignoranza dantesca circa le Silvae, nostra
principale fonte di informazioni sulla vita del poeta napoletano – è plausibile ritenere
che il poeta fiorentino abbia tratto le sue notizie unicamente da Giovenale
(Sat. VII), dal Chronicon di Gerolamo e da qualcuno degli scholia staziani o virgiliani.

I canti di Stazio
rege”, cioè di un Dio potente e vero, il negativo degli “dèi falsi e bugiardi”
di Virgilio ( 43 ).
Sul luogo di nascita e di attività, Stazio offre solo un rapidissimo
cenno: “tolosano, a sé mi trasse Roma”; indugia di più Virgilio: “li
parenti miei furon lombardi, / mantoani per patria ambedui”, e ancora:
“vissi a Roma”. Situazione ribaltata per quanto concerne il mestiere
poetico: Virgilio si contenta di un “poeta fui”, Stazio, più retorico,
ricorda che visse “col nome che più dura e più onora”, e vanta
la dolcezza del suo “vocale spirto” ( 44 ).
Differenze più significative riguardano, da una parte, l’autonominarsi:
mentre Stazio dice come si chiama, Virgilio è nominato solo
da Dante; del resto, nella Commedia Virgilio non dichiara mai il
proprio nome. Ancora e soprattutto, diversi sono i tempi di autopresentazione:
l’autobiografia virgiliana viene pronunciata non solo ex
abrupto, ma addirittura in incongrua replica alla richiesta d’aiuto di
un Dante che fugge dalle fiere; Stazio, al contrario, svela la propria
identità solo in risposta alla specifica domanda di Virgilio, ben sessantanove
versi dopo aver pronunciato le prime parole ( 45 ).
Infine, le opere. Anche qui quanto riportato dai due poeti è analogo:
al “cantai di Tebe, e poi del grande Achille” di Stazio, risponde il
“cantai di quel giusto / figliuol d’Anchise che venne da Troia, / poi che
‘l superbo Ilïón fu combusto” di Virgilio. Ma alla semplice enumerazione
delle opere si accompagna, nell’un caso come nell’altro, un elogio
della qualità della loro poesia: in Stazio è un autoelogio – “tanto fu dolce
mio vocale spirto, / che, tolosano, a sé mi trasse Roma, / dove mertai
le tempie ornar di mirto” ( 46 ) –, per Virgilio è Dante a parlare:
( 43 ) Così Teodolinda BAROLINI, Dante’s Poets. Textuality and Truth in the “Comedy”,
Princeton University Press: Princeton 1984; tr. it. di P. Barlera: Il miglior
fabbro. Dante e i poeti della Commedia, Bollati Boringhieri: Torino 1993, p. 209:
“La presentazione dei due imperatori anticipa dunque la differenza sostanziale tra
i due poeti, una differenza ulteriormente rispecchiata dal netto contrasto fra le
due sole occorrenze dell’aggettivo ‘famoso’ nel poema: da un lato Virgilio, ‘famoso
saggio’ (Inf. I 89), e dall’altro Stazio, ‘famoso assai, ma non con fede ancora’
(Purg. XXI 87)”. Se l’irriducibilità tra i due poeti, in particolare a causa della conversione
di Stazio, valga, come sostiene ancora la Barolini, come limitazione di
Virgilio, sarà da noi discusso più avanti.
( 44 ) Giovanni GETTO, Aspetti della poesia di Dante, Sansoni: Firenze 1966, p. 172,
parla di “sentimento della nobiltà incomparabile della genialità poetica”, e del v. 85
come di “stupita scansione che indica la condizione di vita del poeta”.
( 45 ) Cfr. T. BAROLINI, Il miglior fabbro. Dante e i poeti della Commedia, p. 208.
( 46 ) La notizia dell’incoronazione poetica di Stazio deriva, come ben vide Scevola
Mariotti, da Achill. I 8-10. Non può invece derivare dalla più precisa indicazione
di Silv. III v 28-31, fonte, lo ricordiamo, ignota a Dante.
155

156
«Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sí largo fiume?»
rispuos’io lui con vergognosa fronte.
«O de li altri poeti onore e lume
vagliami ‘l lungo studio e ‘l grande amore
che m’ha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore;
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ha fatto onore.»
(If. I 79-87)
MATTEO VINTI
L’elogio della poesia virgiliana è naturalmente molto più pesante,
sia perché quello di Stazio è, appunto, un autoelogio, ed è buona
norma retorica non parlare troppo di sé ( 47 ), sia perché Virgilio è,
per Dante, l’“altissimo poeta”, “onore e lume” degli altri poeti.
La vita di Stazio è dunque incentrata sul suo valore poetico, degno
di “le tempie ornar di mirto”. Per Dante, come per la cultura
medievale in genere, Stazio è nel ristretto novero dei grandi poeti latini
( 48 ). L’aggettivo “dolce”, già utilizzato in riferimento a Stazio
nel Convivio (IV xxv 6), e più adatto alle sconosciute Silvae che ai
noti poemi epici, deriva a Dante quasi certamente da Giovenale ( 49 ).
Per Dante Stazio è un autore epico, e sono qui ricordati i suoi due
capolavori in questo genere, la Tebaide e l’incompiuta Achilleide ( 50 ).
A questo punto Dante fa sì che sia Stazio stesso ad esporre in che
modo e grazie a chi egli è divenuto un grande autore epico:
( 47 ) Cfr. Cv. I ii 3: “Non si concede per li retorici alcuno di sé medesimo senza
necessaria cagione parlare, e da ciò è l’uomo rimosso, perché parlare d’alcuno non
si può che ‘l parladore non lodi o non biasimi quelli di cui elli parla”; anche se
“peggio sta biasimare che lodare” (Cv. I ii 4), e “dispregiar se medesimo è per sé
biasimevole” (Cv. I ii 5), il che, in parte, giustifica il vanto di Stazio. La stessa norma
porta Dante a giustificarsi quando è costretto ad “registrare” il proprio nome
in Pg. XXX 54-66.
( 48 ) In VE II vi 7 è nominato insieme a Virgilio, Ovidio e Lucano. Nella “bella
scola” di If. IV – cui la parte conclusiva dell’episodio staziano, come vedremo, fa
in certo modo da péndant – si aggiunge il nome del greco Omero, e Stazio è sostituito
da Orazio.
( 49 ) VII 82-86.
( 50 ) Come è evidente, nonostante le erronee giustificazioni di Benvenuto,
Dante ha perfetta cognizione dell’incompiutezza dell’Achilleide: una lettera di
Nelli a Petrarca ci informa che Forese Donati, un dei migliori amici di Dante,
aveva difeso la tesi dell’incompiutezza del secondo poema staziano.

I canti di Stazio
Al mio ardor fuor seme le faville,
che mi scaldar, de la divina fiamma
onde sono allumati più di mille;
de l’Eneida dico, la qual mamma
fummi, e fummi nutrice, poetando:
sanz’essa non fermai peso di dramma.
E per esser vivuto di là quando
visse Virgilio, assentirei un sole
più che non deggio al mio uscir di bando».
(Pg. XXI 94-102)
Virgilio e l’Eneide, dunque, sono al principio dell’arte di Stazio.
Nelle parole del poeta napoletano si avverte il “trascolorare ultimo
della poesia verso gli accordi profondi dell’entusiasmo riconoscente
per il proprio ‘testo’ poetico, il proprio ‘autore’, sentito nei termini
di un affetto filiale” ( 51 ).
Pare quasi che l’insistenza sulla figura e la personalità poetica di
Stazio non abbiano altro scopo se non un tributo all’Eneide. E, in effetti,
Stazio è indubbiamente l’autore latino più indicato per il ruolo
che Dante gli riserva. Considerato dagli storici della letteratura latina
come il principale epigono dell’epica virgiliana, Stazio non mostra
esitazione alcuna nel dichiarare l’Eneide suo modello artistico: la
Tebaide, oltre a riprendere con manieristica frequenza stilemi e episodi
virgiliani, ricalca quasi ossessivamente la struttura del modello,
dalla composizione in dodici libri alla suddivisione tra una prima
metà odissiaca e una seconda iliadica. Inoltre – ciò che più conta –
alle riprese letterarie si aggiungono gli espliciti elogi che Stazio dedica
a Virgilio; e se quelli delle Silvae sono sconosciuti a Dante, questi
non può ignorare la pericope di commiato al lettore posta a conclusione
della Tebaide:
Durabisne procul dominoque legere superstes,
o mihi bissenos multum vigilata per annos
Thebai? Iam certe praesens tibi Fama benignum
stravit iter coepitque novam monstrare futuris.
Iam te magnanimus dignatur noscere Caesar,
Itala iam studio discit memoratque iuventus.
Vive, precor; nec tu divinam Aeneida tempta,
sed longe sequere et vestigia semper adora.
( 51 ) G. GETTO, Aspetti della poesia di Dante, p. 173.
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Mox, tibi si quis adhuc praetendit nubila livor,
occidet, et meriti post me referentur honores. ( 52 )
(Theb. XII 810-819)
MATTEO VINTI
“La chiusa della Tebaide – commenta Teodolinda Barolini ( 53 ) –
sembra quasi fornire a Dante una licenza prolettica a trattarne l’autore
come figura secondaria rispetto all’autore dell’Eneide, e a eseguire, in
questo spirito, ogni alterazione storica o biografica che si renda necessaria
per mettere il personaggio di Virgilio in maggior rilievo”. In vita,
Stazio fu realmente un entusiastico ammiratore di Virgilio. Il ritratto
che Dante traccia è incentrato su tale caratteristica, sviluppandola ai
limiti dell’eterodossia nell’affermazione secondo cui Stazio, pur di conoscere
Virgilio, avrebbe trascorso volentieri un altro anno in Purgatorio
– iperbole particolarmente paradossale, in quanto posta sulle
labbra di un’anima che si accinge ad unirsi ai cori dei beati ( 54 ).
Non c’è dubbio che la scelta di uno Stazio così dipinto – anche
nel suo esser cristiano e ormai beato – risponda all’esigenza di tributare
il massimo di onore possibile a Virgilio. “La poesia di S(tazio) –
scrive Paratore ( 55 ) – appare a D(ante) così profondamente nutrita
dall’esempio di Virgilio da assurgere a valore di exemplum sul piano
morale e da adombrare quindi un altro passo in avanti della più alta
poesia latina verso la conquista dei valori comunicati dalla fede”.
Sulla scelta di Stazio pesa anche la percezione che Dante ebbe di lui
quasi come di un’anima gemella, nella quale, come nella propria,
trovavano insieme ricetto l’ammirazione per Virgilio, il valore poetico
e la tensione morale.
L’amore per Virgilio diventa, dunque, il centro emotivo e concettuale
dell’episodio. Un amore che muove, come ogni amore, al cambiamento;
ma cambia secondo una gradualità, una climax dotata di
( 52 ) “Ma tu, mia Tebaide, avrai lunga vita e sarai ancora letta dopo la morte
del tuo signore, tu che mi sei costata dodici lunghi anni di veglie? Certo la Fama
presente t’ha aperto un’agevole via, mostrandoti, giovane ancora, ai secoli futuri.
Già Cesare magnanimo si degna di conoscerti, la gioventù italica studia con ardore
e ripete i tuoi versi. Possa la tua vita essere lunga! Non cercare però di gareggiare
con l’Eneide divina, ma seguila da lontano, e venera sempre le sue orme. Se ancora
l’invidia ti offusca col suo velo, presto avrà fine, e dopo la mia morte ti saranno
resi gli onori che meriti”. Il testo latino e la versione italiana di G. Aricò sono
tratti da P. PAPINIO STAZIO, Opere, a cura di A. Traglia e G. Aricò.
( 53 ) Il miglior fabbro. Dante e i poeti della Commedia, p. 208.
( 54 ) Cfr. M. PORENA, ad loc.
( 55 ) S.v. “Stazio”, ED V, p. 422a.

I canti di Stazio
proprio rigore e forza, nella quale all’innegabile debito di dipendenza
poetica – caratteristica certamente nobile, per Dante, ma ancora
legata alla gloria terrena – si sovrappongono complementarmente la
conversione morale e religiosa. In tal senso, bellezza, giustizia e verità
– oggetto dell’estetica, della morale e della religione – hanno una
coincidenza ultima nella conversione a Dio.
5. Atto III. “Amore, acceso di virtù, sempre altro accese”. – L’amore
tra Virgilio e Stazio rappresenta, dunque, il punto focale dell’episodio,
determinando tutta la complessa struttura della conversione del
poeta napoletano. Questo momento culminante si spezza, a sua volta,
in due aspetti, l’uno di ordine pratico, l’altro di ordine teoretico,
disposti il primo – la scena del riconoscimento di Virgilio – alla fine
di Pg. XXI, il secondo – l’illustrazione di quale sia la reale dinamica
amorosa – all’inizio del canto XXII.
Il racconto dell’agnizione è forse uno dei più belli del poema, per
la naturalità della costruzione narrativa, per la precisione delle reazioni
psicologiche, per la qualità estetica e musicale dei versi. Nella
situazione nella quale siamo rimasti, tutti hanno consapevolezza che
quel Virgilio che Stazio ha tanto ammirato e amato, e per il quale ritarderebbe
di un anno il suo ingresso in Paradiso, è lì presente. Ne
hanno consapevolezza, evidentemente, Virgilio stesso e Dante; ma
ne ha consapevolezza anche il lettore. E tale consapevolezza invita ad
un moto di simpatia. Il sorriso cui il lettore è invitato, poi, viene
espresso, in maniera quasi metaletteraria, da Dante personaggio stesso,
il cui sentimento traspare tutto nella sincerità del suo viso:
Volser Virgilio a me queste parole
con viso che, tacendo, disse: «Taci»;
ma non può tutto la virtù che vuole,
ché riso e pianto son tanto seguaci
a la passion di che ciascun si spicca,
che men seguon voler ne’ più veraci.
Io pur sorrisi come l’uom ch’ammicca;
per che l’ombra si tacque, e riguardommi
ne li occhi, ove ‘l sembiante più si ficca;
e «Se tanto labore in bene assommi»,
disse, «perché la tua faccia testeso
un lampeggiar di riso dimostrommi?».
(Pg. XXI 103-114)
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160
MATTEO VINTI
Colpisce subito l’umiltà quasi sdegnosa di Virgilio, in certa misura
imbarazzato dall’elogio tributatogli dall’inconsapevole Stazio. Il
suo ordine di tacere, ancorché muto, non è per questo meno perentorio;
e non possiamo non stimare questo grandissimo poeta che le
antiche biografie ci dipingono timido e schivo in massimo grado a
ogni sorta di tributi di lode ( 56 ), e che altrettanto umile appare in
questo ritratto dantesco ( 57 ). Ma ancor più noi siamo vicini al sorriso
di Dante, così carico di simpatia tanto per Virgilio, il maestro
tanto amato, quanto per Stazio, già poeta stimato e prediletto, ora
compagno nell’amore a Virgilio.
La notazione secondo la quale il riso e il pianto, in un animo sincero,
manifestano i sentimenti che si provano, è una finissima excusatio
per giustificare un gesto che il lettore stesso non può fare a meno di
aspettare. Ancora una volta occorre però soffermarsi sull’insistenza
con la quale Dante riprende a parlare di volontà: dopo avere a lungo
insistito, qualche verso prima, a illustrarci la differenza tra “talento”,
“voglia” e “libera volontà”, ora si sofferma ancora sulla questione, sebbene
solo come notazione psicologia per giustificare la propria reazione.
È notevole, comunque, che il poeta non possa fare a meno di introdurre
una spiegazione scientifico-filosofica (“riso e pianto son tanto
seguaci / a la passion di che ciascun si spicca, / che men seguon voler
ne’ più veraci”) che ha precisi riferimenti in Aristotele ( 58 ).
Dante si ritrova, a causa d’un fugace sorriso, preso da due fuochi:
Or son io d’una parte e d’altra preso;
l’una mi fa tacer, l’altra scongiura
ch’io dica; ond’io sospiro, e sono inteso
dal mio maestro, e «Non aver paura»,
mi dice, «di parlar; ma parla e digli
quel ch’e’ dimanda con cotanta cura».
Ond’io: «Forse che tu ti meravigli,
( 56 ) Donato, nella sua biografia virgiliana, racconta due aneddoti assai indicativi
della timidezza del poeta mantovano: “Si quando Romae, quo rarissime commeabat,
viseretur in publico, sectantis demonstrantisque se subterfugeret in proximum
tectum”; e ancora: “Nam et in sermone tardissimum ac paene indocto fuisse
Melissus tradidit” (Vita Donati, in C. HARDIE, Vitae Vergilianae antiquae, Clarendon
Press: Oxonii 1957, p. 5).
( 57 ) Naturalmente, non sempre è così lungo il poema: in If. IV 91-93, ad
esempio, Virgilio ritiene giusta e dovuta l’accoglienza ossequiosa riservatagli dalla
“bella scola” del “segnor de l’altissimo canto”.
( 58 ) EN II 3, 1104b 14-15; 5, 1105b 23. Cfr. A. LANCI, s.v. “passione”, ED
IV, pp. 342a-344b; in particolare 343b.

I canti di Stazio
antico spirto, del rider ch’io fei;
ma più d’ammirazion vo’ che ti pigli.
Questi che guida in alto li occhi mei,
è quel Virgilio dal qual tu togliesti
forza a cantar de li uomini e d’i dei.
Se cagion altra al mio rider credesti,
lasciala per non vera, ed esser credi
quelle parole che di lui dicesti».
(Pg. XXI 115-129)
La scena dell’agnizione, elemento comico per eccellenza, si svolge
in un clima, appunto, da commedia. Lasciamo alle parole di Massimo
Bontempelli il compito di precisare le analogie tra l’arte comica
e la scena dantesca: “L’intonazione comica creata da più elementi; il
parlare che Stazio fa di Virgilio a lui stesso senza conoscerlo (situazione
comunissima nelle commedie); la controscena di Virgilio, il
cenno involontario di Dante che tradisce, ma solo in piccola parte e
oscuramente, un pensiero celato; l’improvvisa diffidenza di Stazio,
che incalza Dante perché si spieghi; l’irresolutezza impacciata in cui
Dante viene a trovarsi, pur intendendo già che non sarà poi cosa
grave accontentare Stazio e disubbidire al Maestro; l’intonazione comica,
dicevo, prodotta da tutti questi elementi raggiunge il colmo
della espressione con quel sospiro di Dante. È un sospiro che non può
esser doloroso: perciò è comico al più alto grado: egli non sa se tacere
o parlare, il sospiro gli serve insieme di parola e di silenzio” ( 59 ).
Il conflitto in cui Dante si trova coinvolto è tra l’obbedienza che si
deve al maestro e la carità ( 60 ) nei confronti del prossimo: due categorie,
due virtù ugualmente necessarie per una personalità cristiana. Il
fatto che sia l’autorità stessa, Virgilio, a togliere Dante dalla contraddizione
di sentimenti in cui egli stesso si è cacciato, a riconciliare l’obbedienza
alla richiesta di tacere e l’ardore di carità nel rispondere alla
domanda mossagli da Stazio, è esplicativo del fatto che, nell’universo
cristiano, reale contraddizione tra le due virtù non esiste: l’una è funzionale
e complementare all’altra. È un finto conflitto, che proprio la
comicità del sospiro sdrammatizza e mostra per quello che è.
( 59 ) “Il canto XXI del Purgatorio”, in G. GETTO (cur.), Letture dantesche, Sansoni:
Firenze 1964 2 (1955 1 ), pp. 1106-1107 (di seguito citato come Lett. dant.); la
lectura è del 1910.
( 60 )È noto come la carità sia il sentimento naturale sia delle anime penitenti
sia, e ancor più, dei beati del Paradiso. Che la carità inizi a contagiare, quasi per
osmosi, anche Dante, è segno evidente della sua purificazione.
161

162
MATTEO VINTI
La giustificazione del proprio sorriso che Dante indirizza a Stazio
risponde a perfetti criteri retorico-giudiziari: nel prologo concede limitativamente
(“forse”) una certa meraviglia a Stazio, ma solo per
affermare che essa deve cedere il passo ad uno stupore assoluto nei
confronti di quanto più si desidera e meno si può avere (“è quel Virgilio”,
dove il dimostrativo assume il significato particolarmente
pregrante che si ritrova nel corrispettivo latino ille; e si noti anche
l’elevatezza del dettato, quasi da peroratio: “togliesti / forza a cantar de
li uomini e d’i dei”); ed è proprio tale evento che può giustificare il gesto
dantesco e “assolvere” l’imputato quasi “per legittima difesa”.
È ancora Bontempelli a illustrarci quello che è forse un altro motivo
per il quale Dante si concede una risposta così ben strutturata: “Ora è la
volta di Dante di pigliarsi una piccola rivincita. La prolunga bene, la risposta;
la cinge e la attarda di allettamenti retorici: vuol che sia Stazio,
ora, a sospirare un istante d’impazienza” ( 61 ). Si verifica ancora una volta,
nell’episodio, il fenomeno di una sete, di un desiderio che vuol essere
placato. E con la stessa dinamica della scoperta del significato del terremoto
e del canto: avvenimento – stupore – domanda – soddisfazione
( 62 ). Dal punto di vista della persona, la dinamica del conoscere qui
sopra accennata è completata dalla risposta che il soggetto conoscente e
domandante avvia a livello amoroso. Di qui la reazione di Stazio:
Già s’inchinava ad abbracciar li piedi
al mio dottor, ma el li disse: «Frate,
non far, ché tu se’ ombra e ombra vedi».
Ed ei surgendo: «Or puoi la quantitate
comprender de l’amor ch’a te mi scalda,
quand’io dismento nostra vanitate,
trattando l’ombre come cosa salda».
(Pg. XXI 130-136)
È il gesto, colto in tutta la sua carnale presenzialità, nella vitalità
irrefrenabile dell’amore, che il poeta adocchia nel suo tentativo di
descrivere la portata soggettiva della scoperta dell’amato. Ora non è
( 61 ) “Il canto XXI del Purgatorio”, p. 1107.
( 62 ) Simile dinamica gnoseologica, per cui la conoscenza non può partire se non
dall’incontro tra un evento reale e lo stupore che esso suscita nell’uomo, trova antiche
e canoniche teorizzazioni già in Platone (Tht. 155d) e in Aristotele (Metaph. A
2, 982 b 12). Sulla funzione dello stupore nella concezione dantesca del processo conoscitivo
cfr. P. BOYDE, Dante Philomythes and Philosopher. Man in the Cosmos,
Cambridge University Press: Cambridge 1981; tr. it. di E. Graziosi: L’uomo nel cosmo.
Filosofia della natura e poesia in Dante, Il Mulino: Bologna 1984, pp. 86-98.

I canti di Stazio
più il tempo di soffermarsi sul viso, sugli occhi sgranati, sulla reattività
delle espressioni facciali, manifestazione in certo modo controllata
del senso interno. A Dante è concesso un bagliore di riso come
indizio esterno della “passion di che ciascun si spicca”. A Stazio questo
non basta: urge tutta la pulsione di un affetto inarrestabile, che
spinge quasi all’adorazione.
Chi prima era oggetto di stupore ora diviene soggetto, in un’inversione
patetica che è insieme aprosdóketon e déjà-vu. La richiesta di
Virgilio a Dante di tacere circa la sua identità trova la propria ragion
d’essere nel desiderio di evitare un’eccessiva reazione da parte di Stazio,
ma non preludeva a quanto si è effettivamente verificato. Tanto
che l’umiltà del poeta mantovano è costretta a frenare il caldo amore
dell’epigono non con ragioni di ordine morale o teologico, ma di ordine
fisico: l’abbraccio è impossibile per chi è anima senza corpo.
Dante, sottolineando tutta la “quantitate” dell’amore che “scalda”
Stazio a Virgilio, vuol mostrare, mediante un’applicazione esemplare
della propria dottrina amorosa. Ora occorre attraversare la fabula per
addentrarsi nella comprensione concettuale di tale sentimento.
Il canto XXII si apre con una ripresa dell’immagine della sete. La
critica nota come tutto il rituale di assoluzione della quinta cornice
non merita, a differenza che in altri giri, più di due terzine:
Già era l’angel dietro a noi rimaso,
l’angel che n’avea vòlti al sesto giro,
avendomi dal viso un colpo raso;
e quei ch’hanno a giustizia lor disiro
detti n’avea beati, e le sue voci
con sitiunt, sanz’altro, ciò forniro.
(Pg. XXII 1-6)
Può risultare interessante notare che, pur all’interno di quei brevissimi
cenni, Dante trova modo di soffermare ancora l’attenzione
sul sitiunt, sul “beati coloro che hanno sete”, sulla stessa sete con cui
abbiamo visto aprirsi il canto precedente e che costituisce uno dei
Leitmotiv dell’episodio staziano. Si tratta, insomma, di un promemoria,
di un invito del poeta al lettore affinché questi si ricordi che
egli stesso, nel leggere quei versi, deve aver sete, deve disporsi all’apertura
incondizionata del proprio desiderio umano.
Chiusa la parentesi sulla sete, il discorso riparte da dove si era interrotto
nel canto precedente. Abbiamo ammirato l’amore dell’epi-
163

164
MATTEO VINTI
gono per il maestro, ora Dante ci presenta l’amore del maestro per
l’epigono. Si tratta di pochi, ma decisivi versi, nei quali la reciprocità
dell’affetto tra Virgilio e Stazio spinge ad una comprensione più
verace della realtà dell’amore, del suo statuto ontologico, e pare voler
correggere le aporie in cui è incorsa l’intera teorica amorosa da
Andrea Cappellano a Guido Cavalcanti:
E io più lieve che per l’altre foci
m’andava, sì che sanz’alcun labore
seguiva in sù li spiriti veloci;
quando Virgilio incominciò: «Amore,
acceso di virtù, sempre altro accese,
pur che la fiamma sua paresse fore;
onde da l’ora che tra noi discese
nel limbo de lo ‘nferno Giovenale,
che la tua affezion mi fé palese,
mia benvoglienza inverso te fu quale
più strinse mai di non vista persona,
sì ch’or mi parran corte queste scale.
(Pg. XXII 7-18)
“Dante – scrive Enrico Malato ( 63 ) – ha intenzionalmente costruito
tutta la scena dell’incontro tra i due poeti latini sul tema dell’amore”.
Se è la tematica amorosa a dettare il clima dell’episodio
staziano, essa stessa trova il culmine della sua espressione nella pericope
appena riportata. Naturalmente, non è questo il luogo né per
sviluppare un’indagine circa la complessa trama entro la quale il poeta
fiorentino articola la propria concezione dell’amore, né, tantomeno,
per sintetizzare la teoria amorosa quale si sviluppa dai provenzali
sino a lui ( 64 ). Interessa qui a noi cercare invece di comprendere la
perentoria e sicura affermazione di Virgilio: “Amore, / acceso di virtù,
sempre altro accese, / pur che la fiamma sua paresse fore”, con la
quale il Mantovano esprime il proprio affetto per Stazio di fronte all’appassionata
dichiarazione dell’epigono.
Da un punto di vista testuale l’episodio staziano richiama senza
dubbio l’orizzonte della lirica cortese: dalla necessità dell’amato a ri-
( 63 ) “Amore cortese e amor cristiano da Andrea Cappellano a Dante”, p. 219.
( 64 ) Tale ufficio è stato svolto con mirabile perizia e competenza, benché con
esiti non sempre concordi, da Bruno NARDI, “Filosofia dell’amore nei rimatori italiani
del Duecento e in Dante”, in Dante e la cultura medievale, Laterza: Roma-
Bari 1985 (1942 1 , 1948 2 ), pp. 7-79; e da Enrico MALATO, “Amore cortese e amor
cristiano da Andrea Cappellano a Dante”, pp. 126-227.

I canti di Stazio
cambiare l’amante, alla scoperta allusione all’amor de lonh di un Jaufre
Rudel nell’exemplum di un Virgilio che ama Stazio senza averlo mai
conosciuto, se non mediatamente sulla base della testimonianza di
Giovenale. In particolare, il raffronto testuale più evidente si ha con il
rinvio interno all’episodio di Paolo e Francesca, richiamato antiteticamente
per mezzo di una messe di segnali, tra i quali Malato individua
il saluto di pace, impossibile alla dannata riminese ma possibile all’ormai
beato Stazio, e l’utilizzo del termine “talento”, già ricordato, con
accezioni opposte nel canto infernale e in quello purgatoriale ( 65 ).
Proprio con l’“Amor, ch’a nullo amato amar perdona”, è utile
raffrontare la massima virgiliana. “Amore… sempre altro accese” è
nozione semplice, accettata pacificamente da pressoché tutta la teorica
cortese ( 66 ). Tale concezione presenta qui due limitazioni: in
primo luogo l’amore, per essere ricambiato, deve essere “acceso di
virtù”; secondariamente, l’amore accende l’altro “pur che la fiamma
sua paresse fore”. Su queste due limitazioni si basa la novità della teoria
amorosa dantesca, che strutturalmente non differisce rispetto all’amore
della tradizione cortese, ma nel merito lo corregge.
“Acceso di virtù” è espressione equivoca. La preposizione “di”, nell’interpretazione
più diffusa, introduce qui un complemento di causa
efficiente, ma dal contesto non potremmo ancora evincere se la virtù
che accende l’amore sia quella dell’amato o quella dell’amante. Nel
primo caso, secondo cui è l’amore suscitato (“acceso”) dalla virtù dell’amato
nell’amante a far innamorare di quest’ultimo l’amato stesso, ci
si presenta una difficoltà intrinseca: pare infatti poco plausibile l’idea
che l’amato riami non tanto l’amante in sé, quanto la capacità di quest’ultimo
di amarlo per la sua virtù; quantunque nel contesto in questione
anche quest’idea potrebbe risultare sostenibile, se si intende che
Virgilio ricambia l’amore di Stazio non semplicemente perché questi
nutre amore per lui, ma perché l’amore di Stazio è indirizzato a quanto
di più virtuoso pertiene a Virgilio stesso. La seconda interpretazione,
per la quale la virtù è quella dell’amante, ci appare istintivamente
più verosimile, ma dovremmo ancora chiarire la modalità per la quale
la virtù dell’amante accenderebbe l’amore dell’amato. Esiste però an-
( 65 ) “Amore cortese e amor cristiano da Andrea Cappellano a Dante”, pp. 216-
219.
( 66 ) Il riferimento principe è al De amore di Andrea Cappellano, che alla regola
XXVI afferma che “amor nil posset amori denegare” (testo stabilito da E. Trojel,
Eidos: München 1964 2 , p. 311). L’attuazione di detti principi si ha nei noti romanzi
di Tristano e Isotta e, soprattutto, di Lancillotto e Ginevra, che Dante, non
a caso, elegge “libro galeotto” della vicenda di Paolo e Francesca.
165

166
MATTEO VINTI
che la possibilità che l’espressione “di virtù” abbia qui un valore modale
o limitativo (“secondo virtù”), nel qual caso occorrerebbe riferire
la virtù all’amore stesso, intendendo che l’amore sarebbe alimentato
secondo la dinamica inerente alla “virtù” sua propria.
Tutt’e tre le interpretazioni sono possibili, almeno a priori. Per scegliere
l’interpretazione più corretta, ci pare necessario soffermare la riflessione
nel tentativo di comprendere cosa intenda ora il poeta per
“virtù”, termine estremamente polisemico nell’opera dantesca ( 67 ). Il
vocabolo, nel suo significato più generale, traduce, conformemente
all’uso medievale di virtus, il termine tecnico della filosofia aristotelica
duvnami~, e designa il passaggio dalla potenza all’atto di un determinato
ente secondo la natura propria dell’ente stesso ( 68 ), ma
anche il principio agente di tale passaggio, la “‘tendenza naturale’ di
ogni essenza creata ad attuare la propria natura entro l’ordine universale”
( 69 ). Da tale accezione discendono le altre: la virtù come habitus,
che indica l’acquisizione permanente della tendenza naturale;
e la virtù morale nel senso comunemente inteso del termine.
Naturalmente le diverse accezioni non si escludono reciprocamente,
anzi si intersecano e contemperano nell’unitarietà dell’agire
umano. A nostro giudizio, potrebbe essere proficuo per una comprensione
migliore accostare il passo in esame alla luce di quanto
espresso tra il canto XVII e il XVIII del Purgatorio, appena qualche
pagina prima di quella che andiamo leggendo.
In Pg. XVII 91-105 Dante, dopo aver proclamato che l’amore è
strutturalmente inerente all’essere (“né creator né creatura mai / …
fu sanza amore”, vv. 91-92), distingue fra un amore naturale, “innato”,
e quindi infallibile, e un amore “d’animo”, d’elezione, deliberato
dalla ragione e dalla volontà, e dunque proprio delle intelligenze,
uomini ed angeli ( 70 ). Solo all’amore d’animo è possibile errare, ma
anche acquisire merito ( 71 ):
( 67 ) In queste righe seguiremo la trattazione del vocabolo esposta da Philippe
DELHAYE e Giorgio STABILE, s.v. “virtù”, ED V, pp. 1050a-1059b.
( 68 ) Per Ph. DELHAYE-G. STABILE, s.v. “virtù”, ED V, p. 1050a, il termine “indica
fondamentalmente una ‘capacità naturale a operare’, sia nel senso di ‘disposizione’
o ‘idoneità’ a esplicare un’azione, sia in quello di ‘potenza’ o ‘energia’ esplicata”;
cfr. Cv. IV xvi 7 da Arist. Phys. VII 3, 246a 13ss.
( 69 ) Ph. DELHAYE-G. STABILE, s.v. “virtù”, ED V, p. 1050b.
( 70 ) Per la distinzione tra i due amori cfr. Thom. Summa theol. I, q. LX, aa. 1-3.
( 71 ) Difficile accostare, al termine “virtù” di Pg. XXII 11, il significato di “virtute”
di Pg. XVII 104: il parallelo con “ogne operazion che merta pene” mostra

I canti di Stazio
Quinci comprender puoi ch’esser convene
amor sementa in voi d’ogne virtute
e d’ogne operazion che merta pene.
(Pg. XVII 103-105)
A Pg. XVIII 19-39 spetta invece il compito di chiarire la natura
dell’amore, proprio in merito al passaggio dall’amore in potenza
(“creato ad amar presto”, v. 19), per mezzo della “cosa… che piace”
(v. 20), all’amore in atto. La facoltà conoscitiva (“vostra apprensiva”,
v. 22) assume l’oggetto reale (“esser verace”, v. 22) come “intenzione”
(v. 23) ( 72 ) e la mostra all’animo; a questo punto è l’animo
che si rivolge ad essa, concependone desiderio: questo “moto spiritale”
(v. 32) dell’animo che prende a desiderare la cosa è l’amore. L’illustrazione
del processo amoroso si chiude però, così come s’era
aperta, con una polemica contro i “ciechi che si fanno duci” (v. 18):
Or ti puote apparer quant’ è nascosa
la veritate a la gente ch’avvera
ciascun amore in sé laudabil cosa;
però che forse appar la sua matera
sempre esser buona, ma non ciascun segno
è buono, ancor che buona sia la cera.
(Pg. XVIII 34-39)
Tutti i commentatori sono sostanzialmente concordi nell’identificare
l’obiettivo della polemica con i teorici e i seguaci della dottrina
dell’amor cortese in genere. Ma se fosse vero, come sostengono
Bruno Nardi ( 73 ) e, sulla sua scorta, Umberto Bosco ( 74 ), che nella
167
con chiarezza che “ogne virtute” vale qui “azione virtuosa, meritevole di premio”,
accezione che offrirebbe un senso ben strano in “amore, / acceso di virtù, sempre
altro accese”.
( 72 ) Per “intenzione” si intende l’intentio nel senso avicenniano e averroistico
prima, e scolastico poi, del termine, cioè la rappresentazione sensibile dell’oggetto
da amare: cfr. T. GREGORY, s.v. “intenzione”, ED III, pp. 480b-482a.
( 73 ) “Filosofia dell’amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante”, in
Dante e la cultura medievale, pp. 69-70: “In siffatta dottrina nulla v’è di nuovo e
di diverso da quello che abbiamo appreso da Iacopo da Lentini e da tutti i rimatori
successivi che trattarono della natura dell’amore. La bellezza esistente fuori di
noi imprime la sua immagine nella nostra facoltà conoscitiva, e questa per mezzo
della fantasia la spiega interiormente, sì che nell’anima sensitiva nasce quell’appetito
e desìo che è amore, e che non dà tregua all’innamorato, finché questi non ha
ottenuto la ricompensa delle sue pene, la mercede. Lo schema psicologico è esatta-

168
MATTEO VINTI
teoria del processo amoroso qui espressa non è contemplata alcuna
decisiva novità rispetto alla riflessione cortese, come potrebbe apparire
“quant’è nascosa / la veritate” ai “ciechi” con cui Dante polemizza?
O la polemica non è nei confronti della teorica amorosa di
Cappellano, ma anche della lirica italiana dai Siciliani allo Stil
Novo, oppure la loro dottrina non è identica a quella or ora espressa
per bocca di Virgilio: tertium non datur. Enrico Malato vi vede una
negazione, in particolare, della posizione di Guido Cavalcanti, visto
che Andrea Cappellano era già stato colpito, senza essere nominato,
nella sorte stessa destinata a Francesca da Rimini, seguace e vittima
delle sue dottrine: lo studioso, infatti, fa convenientemente notare
che la connotazione dell’amore come “moto spiritale” implica una
polemica contro l’amore-passione cavalcantiano: “laddove questo
[Cavalcanti] afferma che l’oggetto della passione occupa la mente e
prevarica la ragione (‘che la ‘ntenzione – per ragione – vale’: v. 33
[di Donna me prega]), Dante indica l’‘intenzione’ dell’‘esser verace’
come occasione determinante il processo amoroso, ma in sé priva di
qualsiasi implicazione fuorviante o peccaminosa” ( 75 ). Il che è certamente
condivisibile, ma occorre anche ammettere che l’amore-passione
cavalcantiano è conseguenza inevitabile delle premesse contenuta
in nuce già nell’impostazione degli autori anteriori. Lo scarto
che sussiste tra l’amore-passione di Cavalcanti e l’amore-moto spiritale
di Dante, infatti, sta in questo: l’amore-moto spiritale richiede,
a differenza dell’amore-passione, il movimento dell’animo umano
nella sua integralità, di volontà e di ragione, nei confronti della nascente
attrattiva della bellezza.
Tale passaggio sembrerebbe destinato a nascondersi nell’implicito,
se la successiva domanda di Dante non costringesse Virgilio ad
esplicitare la funzione del libero arbitrio nel fenomeno:
… S’amore è di fuori a noi offerto
e l’anima non va con altro piede,
se dritta o torta va, non è suo merto.
(Pg. XVIII 43-45)
mente lo stesso; di nuovo nell’esposizione di questa dottrina v’è soltanto l’armonia
del verso”.
( 74 ) Cfr. La Divina Commedia. Purgatorio, a cura di U. Bosco e G. Reggio, introduzione
ai canti XVII-XVIII.
( 75 ) “Amore cortese e amor cristiano da Andrea Cappellano a Dante”, in Lo fedele
consiglio de la ragione, p. 211.

I canti di Stazio
La risposta di Virgilio (Pg. XVIII 45-75) rende, appunto, esplicito
l’implicito. L’amore d’elezione non è una facoltà passiva, costretta
a desiderare il “piacere” necessariamente, ma è un forma di attività
conoscitiva, nella quale l’elezione, cioè il libero arbitrio, cioè la volontà
guidata dalla ragione, hanno un peso determinante. Ogni “forma
sustanzial” (v. 49) – spiega Virgilio, avendo evidentemente in
mente la forma sostanziale dell’uomo, cioè l’anima – ha una “specifica
vertute” (v. 50) – virtù specifiche della sostanza “uomo”, come
si vedrà, sono l’intelletto e l’affetto –, che dimostra la sua esistenza
in azione. L’intelletto e l’affetto si dirigono, per natura e infallibilmente,
rispettivamente verso le “prime notizie” (v. 56) – un complesso
di evidenze elementari, come la nozione di essere – ed i “primi
appetibili” (v. 57) – ultimamente Dio –, ma “questa prima voglia
/ merto di lode o di biasmo non cape” (vv. 59-60). A questo istintivo
tendere dell’intelletto alle “prime notizie” e dell’affetto ai “primi
appetibili” occorre conformare ogni altro desiderio. All’uopo, l’uomo
possiede la “virtù che consiglia” (v. 62) – la ragione –, che deve
assentire, cioè guidare la volontà ad aderire o meno alla voglia che
nasce (“or perché a questa ogn’altra si raccoglia, / innata v’è la virtù
che consiglia, / e de l’assenso de’ tener la soglia”, vv. 61-63). Di qui
la chiara e generale limitazione all’“Amor, ch’a nullo amato amar
perdona”:
Onde, poniam che di necessitate
surga ogne amor che dentro a voi s’accende,
di ritenerlo è in voi la podestate.
(Pg. XVIII 70-72)
Il libero arbitrio è dunque la “nobile virtù” (v. 73), la “nobile facoltà
della ragione regolatrice degli atti umani” ( 76 ), che rende l’uomo
capace di discernere, e quindi di aderire o rifiutare, il sentimento
d’amore che percepisce nascere in lui, a seconda che sia o meno conforme,
corrispondente, accordato alla primigenia tensione nei confronti
delle “prime notizie” e dei “primi appetibili”.
Proviamo ora a riandare, tenendo a mente questa trattazione, all’“amore,
/ acceso di virtù, sempre altro accese”. Se ammettiamo che
( 76 ) T. CASINI, ad loc., ove si rimanda, per tutto il passo in questione, a P. PA-
GANINI, “Di un luogo filosofico della Divina Commedia”, in Propugnatore, IV,
p. II (1871), pp. 176 ss.; e a G. DELLA VALLE, Interpretazione di un passo della Divina
Commedia che si trova in rapporto colla teoria dell’origine dell’idee di S. Tommaso,
Faenza 1874.
169

170
MATTEO VINTI
Dante racconta l’episodio staziano alla luce della dottrina testé rammentata
– e l’ipotesi, vuoi per la vicinanza dei canti, vuoi per le consonanze
d’ordine tematico e lessicale, si presenta, se non sicura,
estremamente verosimile –, l’aforisma virgiliano può essere interpretato
con una certa chiarezza. L’amore acquisisce la caratteristica d’essere
“acceso di virtù” quando il libero arbitrio del soggetto amante
sottomette il proprio sentimento al vaglio del “raccogliersi” o meno
alla “prima voglia”. Del resto, in negativo, Dante aveva già mostrato,
nel canto di Francesca, come i “peccator carnali” siano coloro
“che la ragion sommettono al talento” (If. V 38-39); e abbiamo già
osservato insieme come il poeta insista su un corretto uso della volontà.
Nel mondo concettuale dantesco, dunque, l’amore si presenta
come un’attrattiva giudicata e deliberata, e il rapporto d’amore, lungi
dall’esser percepito come entità assoluta, sciolta dal resto della realtà,
deve esser vissuto come elemento nel contesto dell’universo, cioè
in rapporto di tensione a Dio, fine ultimo di ogni cosa ( 77 ). Sempre
utilizzando l’exemplum di Francesca come illustrazione in negativo
di una stessa posizione del pensiero di Dante, è possibile osservare
che il peccato della Riminese, prima ancora che consistere in un’atto
positivo contradditorio rispetto ad un codice morale, si presenta
come conseguenza di una sorta di obnubilamento della ragione a favore
dell’attrazione istintiva nei confronti di un oggetto, in maniera
tale che ciò che è, nella realtà dei fatti, solo una parte nel tutto dell’universo,
viene vissuta come se fosse il tutto. Francesca visse il rapporto
con l’amato a prescindere dalla totalità del reale, dalla conformità
alla “prima voglia”, cioè, in ultima istanza, alla Divinità come
destino ultimo dell’intelletto e dell’affetto umano ( 78 ).
( 77 ) Cfr. Cv. IV xii 14-17: “Lo sommo desiderio di ciascuna cosa, e prima da
la natura dato, è lo ritornare a lo suo principio. E però che Dio è principio de le
nostre anime e fattore di quelle simili a sè […], essa anima massimamente desidera
di tornare a quello. […] L’anima nostra, incontanente che nel nuovo e mai non
fatto cammino di questa vita entra, dirizza li occhi al termine del suo sommo
bene, e però, qualunque cosa vede che paia in sè avere alcuno bene, crede che sia
esso. E perchè la sua conoscenza prima è imperfetta, per non essere esperta nè dottrinata,
piccioli beni le paiono grandi, e però da quelli comincia prima a desiderare.
[…] Per che vedere si può che l’uno desiderabile sta dinanzi a l’altro a li occhi
de la nostra anima per modo quasi piramidale, che ’l minimo li cuopre prima tutti,
ed è quasi punta de l’ultimo desiderabile, che è Dio, quasi base di tutti”.
( 78 ) In controluce, si può utilizzare la dottrina dell’amore in queste pagine
esposta per analizzare l’amore di Dante stesso per Beatrice come egli lo racconta.
La differenza rispetto alla storia d’amore dei cognati riminesi è d’orizzonte: nel

I canti di Stazio
In che senso l’amore di Stazio per Virgilio è “acceso di virtù”?
Nel senso che tratta l’autore latino, il testo dell’Eneide come quello
delle Bucoliche, per il significato ultimo che ha, di essere cioè profezia
del Cristianesimo. L’opera virgiliana è esaminata – con intento
interpretativo certo ben diverso dal criterio filologico-storicistico
della metodologia umanistica – alla luce del dopo teologico, invece
che del prima filologico. Si tratta dello stesso metodo del processo figurale,
per cui il significato ultimo di una persona, di un avvenimento
o di un oggetto (in questo caso, di un libro) viene scoperto,
riletto, a partire dall’evento da loro parzialmente, oscuramente, profeticamente
ma realmente adombrato ( 79 ). Agli occhi di Dante, Virgilio
è inconsapevolmente profeta del Cristianesimo – e vedremo in
seguito i testi virgiliani cui Stazio attribuisce il merito della propria
salvezza – perché esprime, quantunque confusamente, una sorta di
sentimento di attesa dell’umanità intera circa l’imminenza di una redenzione
definitiva, cui la Provvidenza avrebbe dato seguito, di lì a
non molto tempo, con l’avvento di Gesù Cristo. All’interno della
medesima concezione provvidenziale della storia rientra, com’è
noto, anche l’assoggettamento del mondo sotto l’unico scettro pacificatore
dell’Impero Romano ( 80 ), del quale Virgilio – e Dante non
171
caso dei due dannati, l’orizzonte ristretto della propria reciproca attrazione; nel
caso dantesco, l’orizzonte della salvezza di Beatrice e quindi della conversione di
Dante medesimo. In Pg. XXX, infatti, il primo incontro di Dante con Beatrice si
svolge sotto l’egida del compimento della conversione, cioè della penitenza.
( 79 ) Alberto BRASIOLI, La Commedia di Dante, Atlas: Bergamo 2000, p. 284,
spiega così questo tipico movimento del pensiero dantesco: “Il dopo […] è in grado
di modificare non il prima, ma il senso e il destino del prima. Dante non può
impedire né che l’altro sia stato quel che è stato, né che abbia scritto quel che ha
scritto, ma può intervenire – e interviene – sul modo in cui saranno lette la sua
vita e la sua opera. Si tratta di una condizione strutturale per lo svolgimento della
cultura. Su un piano più generale Dante sa – per esempio – che coloro che affrontarono
la cultura classica (i Romani) a partire da quel che è venuto cronologicamente
dopo è anche in grado di riportare il prima alle sue reali origini, alla fonte stessa
della propria ispirazione. È quel che la Commedia sta facendo con l’Eneide”. E ancora:
“Quello appena indicato – il movimento per cui il dopo spiega il prima e non
viceversa – è, per Dante, nella natura stessa delle cose. Del tempo come della letteratura”
(p. 285). Corsivi nel testo.
( 80 ) L’espressione più notevole di tale idea si ha nel celebre discorso di Giustiniano
in Pd. VI, in particolare ai vv. 82-90. Il concetto secondo cui l’evento cristiano
si verificò, quasi secondo una pedagogia di Dio, al culmine del cammino di
preparazione e di attesa tanto del popolo di Israele quanto del mondo pagano, è
già presente nell’affermazione paolina per cui l’incarnazione di Cristo avvenne in
dispensatione plenitudinis temporum, “nella pienezza dei tempi” (Eph. 1, 10; cfr.
anche Gal. 6, 4: “At ubi venit plenitudo temporis, misit Deus filium suum, factum

172
MATTEO VINTI
poté certo considerarlo un caso – fu il massimo cantore nella sua
Eneide.
Nel contesto della rinnovata dottrina dell’amore qui proposta, infine,
va letta anche la seconda, fondamentale limitazione, secondo la
quale l’amore accende amore “pur che la fiamma sua paresse fore”. Il
verso traduce il concetto evangelico per il quale il cristiano, lucerna
del mondo, non può nascondersi, ma collocare la propria luce sopra
il lucerniere ( 81 ). L’immagine del fuoco d’amore, da sempre una delle
metafore più inflazionate del lessico erotico, acquisisce alla luce
del testo evangelico nuovo significato. L’amore “acceso di virtù”,
cioè l’amore che tutto vaglia in rapporto al destino ultimo, a Dio,
deve mostrarsi pubblicamente. Referente polemico dell’annotazione
è sempre la fin’amor, concepito fin qui come “segreto” – di qui tutti
gli espedienti elaborati dalla tradizione cortese, dal senhal per nascondere
il nome dell’amata alle “donne dello schermo” della Vita
nuova dantesca.
L’indizio fenomenologico del fatto che l’affetto di Stazio per Virgilio
è virtuoso consiste proprio nel cambiamento di Stazio o, per
usare un termine più tecnico e più preciso, nella sua conversione. Appunto
alla narrazione della conversione del poeta partenopeo sono
dedicati i successivi versi del XXII canto.
6. Atto IV. “Per che non reggi tu…”. – Abbiamo affermato che il
debito di gratitudine e di riconoscenza di Stazio nei confronti di
Virgilio procede in climax. Il secondo momento dialettico di tale
crescendo è la visione dell’Eneide come guida morale. Dopo il tributo
al valore poetico dell’opera virgiliana, arriva il plauso al suo valore
morale, necessaria preparazione alla sua apertura profetica. Interpretare
l’Eneide come summa di comportamenti eticamente corretti dipende
da una modalità di accostarsi al poema seconda rispetto alla
già presupposta lettura estetica. Quando si legge un’opera di qualità
artistica eccezionale, si impone con forza la tentazione di rintracciar-
ex muliere”; il testo greco dà eij~ oijkonomivan tou` plhrwvmato~ tw`n kairw`n,
espressione ancora più forte perché nel termine kairov~ vi è più l’idea di “momento
opportuno” che, ad esempio, nel termine crovno~).
( 81 ) Mt. 5, 14-16: “Vos estis lux mundi. Non potest civitas abscondi supra
montem posita; neque accedunt lucernam et ponunt eam sub modio, sed super
candelabrum, ut luceat omnibus, qui in domo sunt. Sic luceat lux vestra coram
hominibus, ut videant vestra bona opera et glorificent Patrem vestrum, qui in caelis
est”. Identico concetto è ribadito con parole simili negli altri sinottici: Mc. 4,
21-23; Lc. 8, 16-18 e 11, 33.

I canti di Stazio
ne sovrasensi – a prescindere dal fatto che fosse realmente intenzione
dell’autore inserirli, perché egli potrebbe, come vedremo, avere agito
inconsciamente.
Nel caso dell’Eneide, questo processo di interpretazione è avvenuto
con grande evidenza anche storicamente: a una fase in cui è stata
letta anzitutto come altissima opera d’arte e come massimo poema
nazionale, è subentrata gradualmente una lettura morale e quindi allegorica
( 82 ). Come Omero per i Greci, come la Legge e i Profeti per
Israele, così anche il poema virgiliano diviene, in qualche modo, l’enciclopedia
del sapere di un’intera epoca, il Tardo Antico, che non esita
a vedervi una messe di insegnamenti filosofici e morali ( 83 ). Già sotto
gli Antonini prese piede la consuetudine di utilizzare le opere virgiliane
come strumento per sapere come comportarsi. Si tratta delle
cosiddette sortes Vergilianae. Si aprivano a caso gli scritti virgiliani
(in particolare l’Eneide) e si leggeva il primo verso che capitava
sott’occhio; poi si cercava di interpretarlo per capire come agire ( 84 ).
Il Medioevo eredita quindi una visione di Virgilio come “mar di tutto
‘l senno”, maestro di poesia e di dottrina.
Quanto dalla tradizione scolastica le è trasmesso, l’arte poetica dantesca
non ha difficoltà a ricrearlo, a plasmarlo in nuove forme, più
profonde; e ci offre così un saggio di quanto Virgilio, la buona letteratura
per eccellenza, possa essere scoperto dal lettore attento (cioè desideroso,
assetato) come un tesoro prezioso, come la lucerna nella notte.
Sia detto, anche se di sfuggita: senza dubbio, la lezione che si ricava
dall’episodio è un invito ad interpretare secondo tale metodo il testo
dantesco stesso. È come se Dante chiedesse al lettore di porsi nei confronti
del suo poema come Stazio si poneva di fronte all’Eneide.
173
( 82 ) Non è qui il luogo di scendere nei dettagli. Basti ricordare che l’interpretazione
allegorica degli scritti virgiliani si impone, a partire dal IV secolo, ad opera
di Elio Donato, Servio e Macrobio, che nel Medioevo saranno tra le più seguite
autorità culturali. Per quanto riguarda la fortuna di Virgilio dall’età augustea a
Dante si veda il noto, eruditissimo testo di Domenico COMPARETTI, Virgilio nel
Medioevo, a cura di G. Pasquali, 2 voll., La Nuova Italia: Firenze 1937n.e. (18962 ).
( 83 ) In Macrobio le letture allegoriche di stampo neoplatonico risuonano a
ogni pié sospinto nei dialoghi dei Saturnalia. Servio, di formazione più grammaticale
che filosofica, legge dal canto suo il libro VI dell’Eneide come un’allegoria
della vita dell’anima (si veda, al riguardo, Aldo SETAIOLI, La vicenda dell’anima nel
commento di Servio a Virgilio, Lang: Frankfurt am Mein 1995). Tiberio Claudio
Donato, addirittura, compone delle Interpretationes Vergilianae nelle quali il testo
poetico è inserito all’interno del fluire della spiegazione allegorica. Cfr. D. COM-
PARETTI, Virgilio nel Medioevo, passim.
( 84 ) Cfr. D. COMPARETTI, Virgilio nel Medioevo, pp. 58-59.

174
MATTEO VINTI
Si parte sempre dallo stupore, se si vuol conoscere. E c’è una circostanza
che suscita in Virgilio un moto di stupore, aprendo così la
strada alla domanda: la presenza di Stazio nella cornice in cui fan
penitenza gli avari. La poesia è un’arte nobile, per Dante, la più nobile
delle arti; e niente egli trova più ignobile dell’avidità di denaro e
dell’avarizia. All’interno dello sterminato numero di pagine della critica
che esprimono tale peculiarità della concezione morale dantesca,
non è possibile scordarsi di queste parole di Massimo Bontempelli,
vecchie ormai quasi d’un secolo: “L’avarizia non è peccato o colpa
con cui Dante transiga. Non c’è pericolo che l’avaro porti, laggiù
nell’Inferno o qua sul pavimento del quinto giro, la sua colpa fatta
simpatica o la sua personalità rimasta prepotente; com’è avvenuto, ad
esempio, dei peccati d’eresia, di negligenza, d’amore” ( 85 ). Un’anima
nobile avara, è per Dante una contraddizione in termini, e non si può
non chiederne ragione a Stazio:
Ma dimmi, e come amico mi perdona
se troppa securtà m’allarga il freno,
e come amico omai meco ragiona:
come poté trovar dentro al tuo seno
loco avarizia, tra cotanto senno
di quanto per tua cura fosti pieno?».
(Pg. XXII 19-24)
La domanda di Virgilio, a mezzo tra lo stupore e il disappunto, è
espressione di tale radicata concezione morale dantesca. Dante non ha
bisogno di fondarla: la dichiara. E come egli stesso la professa senza ritenere
necessaria alcuna discussione al riguardo, così la professano anche
i più nobili dei personaggi ritratti dalla Commedia; tra questi, appunto
Virgilio e Stazio. All’addolorato stupore del maestro, Stazio risponde
come si conviene, con un sorriso che ripristina il vero:
Queste parole Stazio mover fenno
un poco a riso pria; poscia rispuose:
«Ogne tuo dir d’amor m’è caro cenno.
Veramente più volte appaion cose
che danno a dubitar falsa matera
per le vere cagion che son nascose.
La tua dimanda tuo creder m’avvera
esser ch’i’ fossi avaro in l’altra vita,
( 85 ) “Il canto XXI del ‘Purgatorio’”, p. 1097.

I canti di Stazio
forse per quella cerchia dov’io era.
Or sappi ch’avarizie fu partita
troppo da me, e questa dismisura
migliaia di lunari hanno punita.
(Pg. XXII 25-36)
Come Virgilio rimane stupito dalla presenza di un’anima nobile
nella cornice degli avari, così Stazio si affretta a correggere l’errore in
cui è incorso il Mantovano, e spiega come la sua colpa non fu l’avarizia,
ma l’eccessivo disprezzo del denaro, la prodigalità ( 86 ). Dante
non manifesta, per la prodigalità, un’antipatia o un’avversione simili
a quelle che ha per l’avarizia. Benché nel suo rigore morale non possa
scordare che sempre di peccato si tratta, il poeta concede al prodigo
una qualche simpatia, forse per influsso dell’analogo disprezzo
del soldo che la prodigalità condivide con la liberalità tanto elogiata
nelle pagine cortesi, da un lato, e – sebbene qui vi siano ben altre finalità,
ben altra coscienza – con il movimento francescano ( 87 ), dal-
( 86 ) La presenza di avari e prodighi nella stessa cornice in Purgatorio, così
come nello stesso cerchio infernale, è un portato della teoria aristotelica del giusto
mezzo, che disapprova gli eccessi sia in un senso che nell’altro.
( 87 ) Ettore BONORA, s.v. “avari e prodighi”, ED I, pp. 462b-463a, afferma:
“Non risulta di qui un esplicito riconoscimento della minore gravità della prodigalità
rispetto all’avarizia, o l’accettazione di tesi che si trovano svolte da s. Tommaso
(Sum. theol. II II 119) e che hanno, per alcuni aspetti, precedenti nell’Ethic.
nic. IV 1 (‘il prodigo sembra molto migliore dell’illiberale’). Secondo s. Tommaso
infatti i prodighi sono quasi dei liberali che non sanno riconoscere il giusto oggetto
delle loro largizioni, ed egli conclude il suo esame, notevole più per acume psicologico
che per rigore dialettico, affermando che la prodigalità considerata in sé è
colpa meno pericolosa dell’avarizia, non solo in quanto essa somiglia a liberalità
male spesa, ma perché il prodigo può trovare alla fine nella povertà in cui si riduce
una medicina al suo vizio, e perché la vecchiaia, che aggrava il peccato dell’avarizia,
è invece per sé stessa capace di moderare i prodighi”. Se è vero, sempre con
Bonora, che “nulla può provare che D(ante) fosse arrivato ad accogliere il parere
di s. Tommaso”, non si può nemmeno dimostrare che la trattazione tomista venga
qui rifiutata. Lo stesso Bonora non può fare a meno di rendersi conto che “la parte
di dialogo di Pg. XXII tra Virgilio e Stazio implica sicuramente una diversa disposizione
del poeta verso gli avari e verso i prodighi”, perché solo “nei primi si
danno completa aridità morale e assenza totale di spirito di carità” (p. 463a). La
dimostrazione dell’Aquinate sulla minor gravità della prodigalità, inoltre, verte
non tanto sulle osservazioni accessorie ricordate da Bonora, quanto sulla differente
distanza dalla virtù corrispondente, cioè la liberalità. La liberalità è un uso ragionevole
del denaro; avarizia e prodigalità sono usi non ragionevoli, ma la prodigalità
si scosta dalla liberalità meno di quanto se ne discosti l’avarizia – peccato, sia
detto tra parentesi, che si oppone anche alla virtù della giustizia, virtù superiore
alla liberalità (cfr. Thom. Summa theol. II a II ae , q. 118). Nella filosofia morale che
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176
MATTEO VINTI
l’altro. Rimane assodato, comunque, che né Dante né Virgilio hanno
per il peccato in cui è incorso Stazio le aspre parole di biasimo o
le invettive che il poema tributa, con studiata frequenza, all’avarizia
e all’avidità di denaro.
Ciò non toglie che anche la prodigalità sia un peccato, un atteggiamento
immorale, nel senso – come abbiamo visto poche pagine
addietro – che l’amore (in sé buono) alle cose – il denaro, in questo
caso – non è vissuto conformemente allo scopo ultimo delle cose
stesse. La moralità è l’adeguazione del proprio affetto, del proprio
amore, della propria modalità di rapporto con la realtà alla verità
della realtà stessa più che alla propria arbitraria istintività. Per istinto,
per “talento”, è possibile ritenere lodevole il totale disprezzo del
denaro, ma in effetti il medesimo gesto – ad esempio, il rigettare i
propri averi senza curarsene – acquista significati differenti a seconda
che a compierlo sia un prodigo come Stazio, un santo come Francesco
o un campione di liberalità come il Natan di boccaccesca memoria
( 88 ). Se il denaro è un ente il cui scopo è di essere speso per vivere,
altro è darlo ai poveri – che è un amplificarne lo scopo: non
semplicemente vivere, ma far vivere –, altro gettarlo via, sperperarlo,
vale a dire privarlo del proprio scopo, e quindi nullificarlo, sottraendolo
alla sua funzione nell’ordine universale.
Il peccato, anche quello di prodigalità, deriva spesso da un’erronea
concezione della vita. A parte l’eresia e l’incredulità in genere,
peccati di natura eminentemente teoretica ( 89 ), gli altri peccati derivano
tutti, ora in maggiore, ora in minor misura, da una capacità affettiva
depravata, che preferisce orientare la propria azione sottomettendo
al “talento”, all’appetito irrazionale, la ragione, cioè il fattore
che permette di accorgersi, di sapere la verità delle cose, vuoi per un
presiede al poema, almeno quale risulta da Pg. XVII, nulla osta alla possibile, benché
non esplicita, adesione dantesca all’argomentazione tomista.
( 88 ) Sia chiaro che qui il termine “liberalità” non è esattamente sovrapponibile all’accezione
con cui è usato da Tommaso d’Aquino in Summa theol. II a II ae , q. 117. La
liberalità di Tommaso è una virtù nel senso proprio del termine, perché il comportamento
è indirizzato a un fine totalmente buono. La liberalità di cui parliamo noi è un
atto in sé indifferente, perché uno può essere liberale per amore di potere o di fama. Il
fine, scolasticamente parlando, influisce sempre sulla determinazione della bontà o
della malizia delle azioni umane (cfr. Thom. Summa theol. I a II ae , q. 18, a. 4).
( 89 )È probabile sia questa la ragione per la quale né gli eretici, né gli increduli
del Limbo, trovano posto nella tripartizione proposta da Virgilio in If. XI. Sulla natura
teoretica del peccato di incredulità si veda Thom. Summa theol. II a II ae , q. 10,
a. 2, che mostra come l’incredulità (e le sue sottospecie, cioè l’eresia e l’apostasia),
peccato contrario alla fede, faccia riferimento alla stessa facoltà della virtù di cui è
il contrario. Pertiene però alla volontà l’assenso all’errore teoretico.

I canti di Stazio
non sapere comunque colpevole, vuoi per un rinnegamento di ciò
che pure si riconosce come bene (e non c’è esempio più evidente di
quello di Guido da Montefeltro).
Il caso di Stazio è quello di un individuo che, pur avendo la possibilità
di rendersi conto che la prodigalità è un male, lo ignora, e
conseguentemente non è in grado di adeguare virtuosamente il proprio
agire. All’Eneide il nuovo beato è debitore proprio di una corretta
prospettiva teoretica, e vedremo come alcuni termini segnalino
adeguatamente la conversione intellettuale, quindi morale, di Stazio:
E se non fosse ch’io drizzai mia cura,
quand’io intesi là dove tu chiame,
crucciato quasi a l’umana natura:
“Per che non reggi tu, o sacra fame
de l’oro, l’appetito de’ mortali?”,
voltando sentirei le giostre grame.
Allor m’accorsi che troppo aprir l’ali
potean le mani a spendere, e pente’mi
così di quel come de li altri mali.
Quanti risorgeran coi crini scemi
per ignoranza, che di questa pecca
toglie ‘l penter vivendo e ne li stremi!
E sappie che la colpa che rimbecca
per dritta opposizione alcun peccato,
con esso insieme qui suo verde secca;
però, s’io son tra quella gente stato
che piange l’avarizia, per purgarmi,
per lo contrario suo m’è incontrato».
(Pg. XXII 37-54)
Stazio scopre l’erroneità dell’atteggiamento della prodigalità leggendo
due versi dell’Eneide, che così suonano nell’originale:
… Quid non mortalia pectora cogis,
auri sacra fames!
(Aen. III 56-57)
Si discute da secoli se la traduzione propostaci da Dante sia o
meno corretta. Nella versione di Luca Canali ( 90 ) – una delle più ri-
( 90 )VIRGILIO, Eneide, a cura di E. Paratore, tr. it. di L. Canali, 6 voll., Fond.
Valla-Mondadori: Milano 1978-1983.
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MATTEO VINTI
spettose del senso letterale tra le più recenti traduzioni italiane del
poema virgiliano – il passo è reso così: “A cosa non spingi i cuori mortali,
o esecrabile fame dell’oro?”. La versione dantesca è ambigua, e
può dar adito a due diverse interpretazioni. Una prima, proposta da
Natalino Sapegno ( 91 ) e accolta da Giorgio Petrocchi nell’edizione critica
della Commedia secondo l’antica vulgata, considera esatta la traduzione
dantesca, almeno dal punto di vista del senso generale. Per Sapegno,
infatti, è “inverosimile” che “un lettore come Dante” non abbia
compreso il passo virgiliano “in un contesto così chiaro”; e se “si ritiene
invece voluto [il fraintendimento], appare strano e inopportuno”.
L’auri sacra fames, dunque, sarebbe un’imprecazione indirizzata,
“in un senso estensivo o generico”, “contro quello che è il principio
e la causa comune di entrambi gli eccessi”: “intenderemo dunque
la parafrasi dantesca così: ‘per quali opere, a quali malvagità,
non conduci tu, o esecranda fame de l’oro, l’appetito dei mortali?’”.
L’interpretazione largamente maggioritaria, invece, rimonta nella
sua prima formulazione a Francesco da Buti: “li autori usano l’altrui
autoritadi arrecarle a lor sentenzia, quando commodamente vi si possono
arrecare, non ostante che colui che l’à ditta abbia posta in altra
sentenzia; e così fa ora lo nostro autore” ( 92 ); Dante, dunque, avrebbe
consapevolmente adattato il testo virgiliano ad un nuovo significato,
estraneo all’intenzione del Mantovano, ma non per questo meno valido.
Gli “errori” interpretativi, a questo punto, sarebbero tre: il “quid”
di Virgilio, invece di indicare l’oggetto del “cogis”, diventerebbe un
“perché” (e così infatti recitano le edizioni di tutti quei commentatori
che, non accettando la soluzione proposta da Sapegno, rinnegano anche
la lezione “per che” accolta da Petrocchi); “cogis” stesso varrebbe
qui “freni”, “guidi”; il termine “sacra”, di accezione negativa nelle intenzioni
del poeta mantovano (“esecrabile”), assumerebbe nel testo
dantesco un significato positivo, così traducibile: “ristretta entro i limiti
posti per divino decreto”, o “giusta secondo i dettami morali”.
Per dirla sempre col Buti, “O sacra fame de l’oro, cioè o santo desiderio
dell’oro: allora è santo lo desiderio dell’oro, quando sta nel mezzo e
non passa ne l’estremi, perché non reggi; nel mezzo, l’appetito de’ mortali;
sicché non s’allarghi a volerne troppo, ch’è avarizia; e non si ristringa
a non volerlo punto e gittarlo, che è prodigalità” ( 93 ). Un mot-
( 91 ) Ad loc.
( 92 ) F. DA BUTI, Commento sopra la Divina Comedia, a cura di C. Giannini, II,
Nistri: Pisa 1860, p. 526.
( 93 ) F. DA BUTI, Commento sopra la Divina Comedia, II, p. 526.

I canti di Stazio
to diretto contro l’avarizia si trasformerebbe così anche in un invito ad
abbandonare l’eccessiva prodigalità.
Comunque, qualunque fosse l’intenzione dantesca nel parafrasare
il passo virgiliano, non è ultimamente importante stabilire se la traduzione
sia o meno scorretta. Quello che importa è che il testo virgiliano
può essere in ogni caso interpretato come un’imprecazione
contro la prodigalità. È esattamente quanto si ripeterà più tardi per
il testo della quarta egloga. Ciò che conta non è quanto l’autore ha
scritto, ma quello che il lettore può interpretare, cioè comprendere a
proprio vantaggio. In questo senso l’osservazione di Francesco da
Buti già rammentata, secondo la quale “li autori usano l’altrui autoritadi
arrecarle a lor sentenzia, quando commodamente vi si possono
arrecare, non ostante che colui che l’à ditta abbia posta in altra sentenzia”,
coglie la libertà di rapporto con gli auctores propria dei lettori
medievali. In questo caso, Dante ci mostra uno Stazio capace di
interpretare i versi dell’Eneide come un invito a correggere i propri
eccessi di prodigalità, secondo il metodo sopra ricordato delle sortes
Vergilianae: prendere un passo del testo virgiliano e interpretarlo
come precetto morale.
Si noti che l’Eneide assurge ad auctoritas etica fondamentale non
soltanto in quanto ricettacolo di exempla morali, ma piuttosto – come
si diceva – per la capacità di far sapere, di togliere il lettore dall’ignoranza.
Stazio insiste su termini connessi al campo semantico della conoscenza
per spiegare la sua conversione etica: “intesi” (v. 38), verbo
nel quale è espressa l’improvvisa folgorazione che avviene in Stazio nel
momento in cui penetra il significato più profondo dell’ammonimento
virgiliano; “m’accorsi” (v. 43), dove si fa evidente che la verità dell’azione
morale non s’incarna nell’uomo attraverso il moralismo legalista,
ma nel riconoscimento della realtà; e l’“ignoranza” (v. 47), ritratta,
quasi con malinconia, come condizione usuale dell’esistenza, e
come causa inconsapevole – soprattutto in un peccato così difficile,
appunto, da riconoscere quale è la prodigalità – di dannazione eterna.
7. Atto V. “Per te poeta fui, per te cristiano”. – Il debito più grande
che però Stazio ha contratto nei confronti di Virgilio è la sua stessa
conversione al Cristianesimo. Non c’è possibilità di salvezza fuori della
fede in Cristo, e quand’anche Stazio si fosse svestito dai panni dei
suoi vizi, e dalla prodigalità soprattutto, sarebbe al massimo finito nel
Limbo. Naturale che la curiosità di Virgilio si indirizzi ora su questo
punto, ed egli chieda esplicitamente a Stazio come è divenuto cristiano:
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«Or quando tu cantasti le crude armi
de la doppia trestizia di Giocasta»,
disse ‘l cantor de’ buccolici carmi,
«per quello che Cliò teco lì tasta,
non par che ti facesse ancor fedele
la fede, sanza qual ben far non basta.
Se così è, qual sole o quai candele
ti stenebraron sì, che tu drizzasti
poscia di retro al pescator le vele?»
(Pg. XXII 55-63)
MATTEO VINTI
Accantonando, per il momento, la questione circa l’invenzione
dantesca del Cristianesimo di Stazio, calamitiamo la nostra attenzione
sulla fabula, cioè sul racconto nel quale il personaggio spiega
come si è operata la propria conversione. Non è qui possibile negare
che la presenza di Stazio nella Commedia assuma un peso così rilevante
per l’economia del poema in quanto funzionale alla possibilità
di rendere, in qualche modo, onore alla figura di Virgilio ( 94 ). Al
mantovano, infatti, Stazio deve non tanto la fama di poeta, non solo
la rettitudine morale, ma soprattutto la conversione:
Ed elli a lui: «Tu prima m’inviasti
verso Parnaso a ber ne le sue grotte,
e prima appresso Dio m’alluminasti.
Facesti come quei che va di notte,
che porta ‘l lume dietro e sé non giova,
ma dopo sé fa le persone dotte,
quando dicesti: “Secol si rinova;
torna giustizia e primo tempo umano,
e progenie scende da ciel nova”.
Per te poeta fui, per te cristiano:
ma perché veggi mei ciò ch’io disegno,
a colorare stenderò la mano.
(Pg. XXII 64-75)
( 94 ) Così E. PARATORE, s.v. “Stazio”, ED V, p. 421b: “Nell’ignoranza in cui ci
troviamo delle fonti di D(ante) riguardo al cristianesimo di S(tazio), non riusciamo
a valutare quanto il poeta abbia tratto da leggende preesistenti e quanto egli
abbia architettato da sé, organizzando il caso limite di una formazione poetica e
spirituale modellato da Virgilio nel più alto senso della tradizione latina, ma che
dal più fondo dell’intima esperienza virgiliana trae lo slancio per assurgere alla rivelazione
del verbo di Cristo, trasfigurando in un senso nuovo i motivi etici popolanti
la nuova creazione epica”.

I canti di Stazio
Abbiamo visto come l’Eneide si sia dimostrata una fonte di precetti
morali. Ora l’opera virgiliana si trasfigura addirittura in fattore
di conversione a Cristo, o almeno in testo inconsapevolmente profetico
della paganità. La prima terzina gratifica Virgilio proprio in
quest’ottica: per primo egli conduce Stazio ad abbeverarsi alle sacre
fonti delle Muse, per primo lo illumina al Cristianesimo. Il parallelo
è chiarissimo, quale che sia il significato da attribuire alla locuzione
“appresso Dio”: Umberto Bosco ( 95 ) esclude si possa intendere “verso
Dio”, sia per ragioni linguistiche (nella tradizione italiana “appresso”
non assume mai l’accezione di “verso”) che teologiche (chi
illumina alla fede, in primo luogo, è Dio stesso per grazia), e propende
per il significato limitativo “dopo Dio”; a noi, veramente,
sembrerebbe possibile che “appresso Dio” valga qui “presso Dio” –
accezione pure attestata con una certa frequenza in Dante ( 96 ) (si
veda, e.g., Cv. IV xxviii 5: “già essendo a Dio renduta e astrattasi da
le mondane cose e cogitazioni, vedere le pare coloro che appresso di
Dio crede che siano”, dove l’opposizione “mondane cose e cogitazioni”
versus “coloro che appresso di Dio crede che siano” suggerisce la
possibilità di un lieve traslato, dalla vicinanza spaziale a Dio, senso
certo preponderante, ad un più lato “concernere la divinità”) –, e
quindi “nei confronti di Dio”, “riguardo Dio”; quanto alla difficoltà
teologica addotta da Bosco, è impertinente, perché la grazia divina
passa normalmente attraverso la natura, e i fattori umani in particolare,
senza annichilirli: Dio, primo “sole” ontologicamente, dona la
sua grazia attraverso le “candele” dell’umano.
Virgilio, comunque, appare inconsapevole profeta del Cristianesimo.
La posizione dantesca nei confronti di Virgilio non si discosta
dalla vulgata medievale. Fin dal VI secolo, infatti, Fulgenzio si preoccupa
di imporre e trasmettere la lettura di un Virgilio quasi cristiano
( 97 ). Il brano citato è tratto non dall’Eneide, ma dalle Bucoli-
( 95 ) Ad loc.
( 96 ) Cfr. A. DURO, s.v. “appresso”, ED I, p. 333a-b. L’estensore della voce intende
però l’“appresso Dio” in esame come “dopo Dio”.
( 97 ) Si veda il giudizio del Comparetti su Fulgenzio, che riesce a cogliere, pur
all’interno di una concezione ormai inaccettabile del Medioevo come di un periodo
buio e barbarico, il peso che l’esegeta ha avuto per la lettura virgiliana nei secoli
a lui successivi: “Senza nulla di violento, ma per una via naturale e continua che
aveva il suo principio nella stessa tradizione classica, il Virgilio di Fulgenzio, ossia
il Virgilio della barbarie cristiana, viene ad avere in sé delle cause di simpatia, che
diminuiscono notevolmente le incompatibilità fra lo scrittore pagano e i seguaci
di Cristo. Questo tipo nel quale domina già l’idea medievale che, in mezzo alle
cause d’errore, la ragione umana fosse arrivata, per quanto poteva senza miracolo e
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MATTEO VINTI
che; e forse l’inusuale epiteto di Virgilio che abbiamo letto in questo
stesso canto (“cantor de’ buccolici carmi”) non è casuale, ma preannuncia
l’attimo culminante della citazione. Si tratta di un brano della
quarta egloga, sulla quale, fin dai primi secoli dell’era cristiana, si
era sviluppato un notevole dibattito circa una possibile interpretazione
del testo stesso come di inconsapevole profezia dell’Incarnazione
( 98 ). Il passo virgiliano recita:
Ultima Cymaei venit iam carminis aetas,
magnus ab integro saeclorum nascitur ordo;
iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna,
iam nova progenies caelo demittitur alto.
(Ecl. IV 4-7)
La concisa parafrasi con cui Dante rende il complesso passo virgiliano
non presenta, almeno in apparenza, dubbi di scorrettezza o
fraintendimento quanto alla resa del significato letterale:
… “Secol si rinova;
torna giustizia e primo tempo umano,
e progenie scende da ciel nova”.
(Pg. XXII 70-72)
L’interpretazione che Dante imprime al passo virgiliano, stavolta,
non passa attraverso dei versi di evidente ambiguità, ma non per
questo, come ha ben visto Edoardo Fumagalli ( 99 ), la lectura dantesca
è neutra. Oggi si illustrano i versi dell’egloga spiegando che il
magnus ordo saeclorum indica la serie delle età del mondo (dell’oro,
dell’argento, del bronzo, del ferro) prossima a ripartire dal principio,
mentre la Virgo, ben lungi dal riferirsi a Maria, come spesso si intendeva
nel Medioevo, indica Astrea, dea della giustizia; e Dante,
del resto, fedele a un’esegesi storica, traduce direttamente “Virgo”
con “giustizia”. Non legge Maria nella Virgo virgiliana, neppure in-
senza rivelazione, a principî omogenei anche ad anime cristiane, non è che un rozzo
precursore di quello che troveremo raffinato e sublimato nella poesia dantesca”
(Virgilio nel Medioevo, I, p. 142).
( 98 ) Su tale dibattito si può utilmente leggere il saggio di Stephen BANKO,
“Vergil’s Fourth Eclogue in Christian Interpretation”, in AA.VV., Aufstieg und
Niedergang der römischen Welt, vol. 31.1, de Gruyter: Berlin 1980, pp. 646-705.
( 99 ) “Dante e Virgilio”, in GHISALBERTI Alessandro (cur.), Il pensiero filosofico e
teologico di Dante Alighieri, pp. 79-92. Sul passo in questione cfr. pp. 83-86.

I canti di Stazio
tende, almeno esplicitamente, la nova progenies come Cristo, sebbene
qui avesse addirittura il supporto scritturale di Is. 45, 8 ( 100 ):
Rorate, caeli, desuper, et nubes pluant Iustum.
L’identità dell’immagine suggerirebbe facilmente l’assimilazione
della nova progenies che alto demittitur caelo al Iustum di cui si chiede
ai caeli: rorate desuper. Ancora più sensibile il parallelo con il Credo,
dove si dice del Figlio che “propter nos homines et propter nostram
salutem descendit de caelis”. Dante vuole apparire filologicamente
corretto nella resa del testo virgiliano. Solo che, quantunque Virgilio
aspettasse, consapevolmente, una nuova età dell’oro dagli avvenimenti
politici a lui contemporanei, e finalmente un periodo di prosperità
dopo i magri anni delle guerre civili, veramente un’età del ferro; quantunque
le sue speranze di tranquillità e di pace fossero riposte in Pollione
e in Augusto; nonostante tutto questo, egli, secondo Dante,
aspettava e profetizzava, inconsciamente, un evento incommensurabilmente
più grande: l’avvento di Cristo. È ancora Edoardo Fumagalli a
spiegare tale passaggio: “il massimo dell’adesione, così platealmente
esibita, nasconde in realtà il massimo dello scarto: […] il verbo scelto
da Dante, ‘scende’, è del tutto diverso dal demittitur di Virgilio”: il
passaggio “da un passivo ad un attivo, con uno scarto che, trattandosi
dell’Incarnazione, non può essere teologicamente neutro” ( 101 ), svela
anche un’intenzione di adeguamento al citato testo del Credo.
Dante avrebbe potuto, attribuendo un minimo di consapevolezza
alle parole virgiliane, inserire Virgilio tra i credenti in Cristo venturo,
ma non l’ha fatto. Non ha fatto dire a Virgilio più di quanto egli
abbia realmente detto: ci ha solo fatto capire, e ha immaginato che
Stazio capisse, che Virgilio scriveva, e non sapeva nemmeno lui di
cosa effettivamente scriveva: dell’Incarnazione, l’avvenimento più
impressionante e più decisivo della storia, la definitiva rivelazione di
Dio nel mondo ( 102 ).
( 100 ) Il versetto di Isaia costituisce poi l’incipit di uno dei più noti e più bei
canti gregoriani che si recitano in tempo d’Avvento.
( 101 ) “Dante e Virgilio”, p. 84.
( 102 ) Lo stesso Fumagalli, nel citato articolo, p. 86, ne deduce che l’inconsapevolezza
di Virgilio mentre profetizza lo rende in certo modo “colpevole”, negandogli
quella salvezza da credente in Cristo venturo che nel poema dantesco è riservata
a Rifeo: “Virgilio aveva avuto la presunzione – dalla quale derivano tanti
aspetti della sua personalità e del suo comportamento nella Commedia – di costringere
quel messaggio nella gabbia angusta di ciò che egli ne aveva capito”.
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MATTEO VINTI
Che questa fosse, effettivamente, l’interpretazione di Dante è dimostrato
dal fatto che Stazio è convertito da quell’inconsapevole
profezia. Se Stazio può, nella fictio dantesca, aver scorto nei versi virgiliani
un annunzio del Cristianesimo e un invito alla propria conversione,
questo vuol dire che Dante stesso leggeva in tal modo il testo
della quarta egloga.
L’attestato di gratitudine totale che Virgilio riceve da Stazio (“per
te poeta fui, per te cristiano”) è quanto di più alto pertiene alla figura
del poeta mantovano tracciata da Dante nella Commedia. Siamo
qui al culmine dell’amore dantesco per il suo maestro. Per il poeta
pagano, relegato per sempre nel Limbo dei sospiri perché non ebbe
la fede, essere egli stesso strumento della grazia di Dio e di conversione
per altri uomini, è l’elogio più grande. Si noti, poi, l’analogia
tra la situazione di Stazio e quella di Dante; perché, come Virgilio fu
la guida alla salvezza per l’autore della Tebaide, così ora guida alla
salvezza il poeta fiorentino. Il tributo che Stazio concede a Virgilio è
il tributo stesso di Dante personaggio, oltre che, ovviamente, del
Dante autore che tale episodio ha immaginato.
Rimane ancora una difficoltà da ovviare, per quanto concerne il
tema della conversione di Stazio al Cristianesimo: la totale assenza di
riferimenti cristiani nell’opera, o almeno di riferimenti espliciti.
Dante ritrae uno Stazio cristiano; ma lo Stazio storico non solo non
lo è, ma non lo appare punto. Se si tratti di mera invenzione dantesca,
o se il poeta fiorentino si sia avvalso di fonti a noi ignote, esplicite
o indiziarie, è questione ancora dibattuta dagli esegeti.
L’invenzione dantesca di uno Stazio cristiano può, secondo alcuni,
derivare dall’interpretazione allegorica di alcuni passi della Tebaide ( 103 ),
o da leggende come quella narrata da Vincenzo di Beauvais ( 104 ),
L’ipotesi è certamente interessante e suggestiva, ma non ci pare riesca del tutto
convincente.
( 103 ) Secondo G. PADOAN, “Il mito di Teseo e il cristianesimo di Stazio”, Lettere
italiane XI (1959), pp. 432-457, Teseo, intervenuto contro Creonte nell’ultima
parte della Tebaide, potrebbe essere stato interpretato da Dante come figura Christi
(come farà poi Guido da Pisa). S. MARIOTTI, “Il cristianesimo di Stazio in Dante
secondo il Poliziano”, in Letteratura e critica. Studi in onore di N. Sapegno,
Roma 1975, pp. 149-161, ritiene invece, sulla scorta di una nota di Poliziano, che
Dante abbia trovato in Theb. IV 514-517 un coperto riferimento al Dio cristiano.
Ancora, C.S. LEWIS, “Dante’s Statius”, in Studies in Medieval and Renaissance Literatur,
Cambridge University Press: Cambridge 1966, pp. 94-102, rilegge l’opera
staziana e ne mostra le molteplici consonanze con la visione cristiana del mondo.
( 104 ) Spec. hist. XII 50.

I canti di Stazio
“secondo cui Secundiano, Marcellino e Verriano si sarebbero convertiti
alla fede cristiana dopo aver letto la quarta egloga di Virgilio” ( 105 ).
Altri, dal canto loro, negano che Dante abbia potuto prendere spunto
da qualche fonte e ritengono l’episodio staziano elaborato unicamente
ad maiorem Vergilii gloriam ( 106 ). Non si vede come le due
opinioni debbano necessariamente entrare in conflitto. È possibile,
benché non dimostrato, che Dante abbia potuto elaborare il suo ritratto
di uno Stazio cristiano “in base ad accessus e a leggende indubbiamente
circolanti” ( 107 ) prima di lui ( 108 ); ferma restando, comunque,
la certezza che l’episodio staziano viene piegato alla glorificazione
di Virgilio.
Nonostante la liceità e la validità di ricerche tese a mostrare possibili
antecedenti e ragioni per il Cristianesimo di Stazio, il testo di
Dante nega indirettamente il riferimento a fonti note al suo tempo.
La pericope che ci accingiamo ad esaminare, infatti, si configura
come excusatio non petita nei confronti dell’attesa obiezione secondo
cui nelle opere staziane non sia possibile rintracciare indizi del Cristianesimo
dell’autore:
Già era ‘l mondo tutto quanto pregno
de la vera credenza, seminata
per li messaggi de l’etterno regno;
e la parola tua sopra toccata
si consonava a’ nuovi predicanti;
ond’io a visitarli presi usata.
Vennermi poi parendo tanto santi,
che, quando Domizian li perseguette,
sanza mio lagrimar non fur lor pianti;
e mentre che di là per me si stette,
io li sovvenni, e i lor dritti costumi
fer dispregiare a me tutte altre sette.
E pria ch’io conducesse i Greci a’ fiumi
( 105 ) E. PARATORE, s.v. “Stazio”, ED V, p. 420b.
( 106 ) Cfr. A. RONCONI, “L’incontro di Stazio e Virgilio”, Cultura e Scuola 13-
14 (1965), pp. 293-305.
( 107 ) E. PARATORE, s.v. “Stazio”, ED V, p. 421a.
( 108 )E questo anche nonostante l’assenza di Stazio dal De viris illustribus di
Gerolamo, assenza pesante perché l’opera, contenente quasi esclusivamente vite di
letterati cristiani, include Seneca (cui è ascritto un falso epistolario con san Paolo),
e Gerolamo non avrebbe mancato di inserire Stazio nelle sue biografie, se avesse
avuto anche solo il sospetto che potesse essersi fatto cristiano.
185

186
di Tebe poetando, ebb’io battesmo;
ma per paura chiuso cristian fu’mi
lungamente mostrando paganesmo;
e questa tepidezza ‘l quarto cerchio
cerchiar mi fé più che ‘l quarto centesmo».
(Pg. XXII 76-93)
MATTEO VINTI
Dante giustifica l’assenza di riferimenti cristiani all’epica staziana
adducendo a motivo la tiepidezza, l’“accidia” del poeta napoletano;
ma, per ciò stesso, ammette che dalla Tebaide e dall’Achilleide non è
in alcun modo possibile indovinare la conversione al Cristianesimo
del loro autore.
Il racconto che Stazio fa della propria conversione si incentra su
due fattori: la “consonanza” tra la “parola” di Virgilio ed il Verbo
predicato dai “messaggi de l’etterno regno”; e la santità morale dei
cristiani stessi, anche di fronte alla persecuzione domizianea.
Per quanto riguarda il primo aspetto, v’è chi vede nei vv. 79-81 la
celebrazione del valore conoscitivo della “parola” virgiliana, e quindi
della poesia; sostenuto, in questo, dall’epilogo dell’episodio, che si
svolge, come vedremo, nel segno dei poeti del Limbo ( 109 ). Sarebbe,
dunque, la poesia ad orientare Stazio verso il Cristianesimo, non i
“predicanti” della “vera credenza”. In realtà, tale esegesi coglie solo
una parte della sostanza del dettato dantesco. La “parola”, infatti,
senza i “nuovi predicanti”, non avrebbe avuto alcunché cui consonarsi.
Virgilio può illuminare la strada verso la fede, ma se la fede
non fosse incontrabile attraverso persone che la vivono e la proclamano,
non sarebbe possibile aderirvi. In secondo luogo, il ricordo
del Limbo – del resto non limitato ai poeti – celebra sì, in parte, la
poesia, ma non fa cenno alcuno al suo valore conoscitivo. Non tutti
i poeti indirizzano alla fede. Virgilio sì, ed è un merito che gli è luminosamente
riconosciuto, ma la sua lettura, senza l’incontro con i
cristiani, non avrebbe punto convertito Stazio. L’avrebbe reso un
grande poeta, magari anche un uomo virtuoso, ma ancora al di qua
della fede.
Non a caso Dante ha premura di sottolineare anche il fattore dell’umanità
dei cristiani. Preso da curiosità e desiderio per la singolare
“consonanza” del testo virgiliano e della fede cristiana, Stazio viene
spinto alle lacrime, alla frequentazione, all’aiuto materiale, e infine
( 109 ) Per una lettura in questo senso, si veda A. GALLETTI, “Il canto XXII del
Purgatorio”, in Lett. dant., pp. 1113-1129.

I canti di Stazio
al battesimo, dalla vita stessa di quei cristiani, disposti a morire per
ciò che predicavano sotto i colpi dell’Imperatore, così come si mostravano
pieni di “dritti costumi”, superiori a quelli di qualsiasi altra
setta, nella vita quotidiana.
È qui il caso di aggiungere due parole anche sulla tiepidezza di
Stazio. Fatta salva la ragione dell’aver attribuito a Stazio la colpa dell’accidia,
in quanto evidentemente funzionale all’ideazione di una
conversione nascosta del poeta latino al Cristianesimo, restano da
approfondire le linee secondo le quali tale tendenza peccaminosa determina
la personalità di un individuo, e del personaggio in questione
in particolare.
La definizione dantesca di accidia parla di “amor del bene, scemo
/ del suo dover” ( 110 ). Si può confrontare l’espressione dantesca –
che adopera anche l’immagine di “mal tardato remo” ( 111 ), e nell’Inferno
presenta i dannati che giacciono nel fondo della palude stigia
come “tristi” ( 112 ) – con la locuzione tomista: “Acedia […] est quaedam
tristitia, qua homo redditur tardus ad spirituales actus propter
corporalem laborem” ( 113 ), certamente più precisa, ma non distante
come significato. Nella morale scolastica l’accidia “si riconduce all’ambito
della tristizia, in quanto forma di stato peccaminoso, cioè
di un atteggiamento spirituale di colpa per difetto d’intelligenza e di
volontà, promossa e caratterizzata dal concorso di varie componenti,
quali l’indolenza, la negligenza e la tiepidezza d’animo, che la condizionano
e la individuano sotto l’aspetto categoriale di peccato” ( 114 ).
Se una mancanza sussiste nella definizione dantesca, consiste nell’aver
trascurato di rammentare la causa di questo “amor del bene,
scemo / del suo dover”. L’accidia si configura come una sorta di non
amore verso il bene supremo – infatti la tristitia che la contraddistingue
è il contrario della delectatio che si prova quando si ama un
bene –, ma non è un atteggiamento insensato o innaturale come
187
( 110 ) Pg. XVII 85-86.
( 111 ) Pg. XVII 87.
( 112 ) If. VII 121.
( 113 ) Summa theol. I, q. 63, a. 2. All’accidia è dedicata appositamente Summa
theol. IIa IIae , q. 35, nella quale il peccato è definito in opposizione al gaudium caritatis
per difetto di carità nei confronti del bonum divinum, anche se le trattazioni
a nostro avviso più complete si possono ritrovare nel De malo, q. 8, a. 1 (sulla differente
natura dei diversi peccati capitali) e q. 11.
( 114 ) A. CIOTTI, s.v. “accidia e accidiosi”, ED I, p. 26a.

188
MATTEO VINTI
sembrerebbe essere il rifiuto di amare un bene: il peccatore cerca
così di evitare una sofferenza o una fatica al proprio corpo (il “corporalem
laborem” tomistico), perché si ritiene che il “bonum spirituale
impedit quietem vel delectationem corporalem” ( 115 ).
Quanto mancava alla trattazione teorica di Pg. XVII e, in effetti,
anche alla raffigurazione che si poteva trarre dagli exempla degli accidiosi
della quarta balza del monte, è un caso cosciente di rifiuto di
una piena adesione affettiva a Dio non per negligenza o pigrizia – è
il caso dell’Abate di San Zeno – ma per paura della persecuzione o
della sofferenza fisica. L’esempio staziano assolve anche a tale difetto:
il poeta latino si finge pagano perché terrorizzato dallo spettacolo
delle persecuzioni di Domiziano.
Si noti che dal peccato d’accidia Stazio non è corretto in alcun
modo dalla lezione virgiliana; anzi, essendo un peccato non d’ignoranza
come la prodigalità, agli occhi della morale esso appare – anche in
quanto successivo alla conversione e, in parte, avverso ad essa – assai
più grave. È chiaro che, nella narrazione dantesca, non poteva essere
altrimenti, essendo necessario giustificare in tal modo l’invenzione di
una conversione di cui non ci resta alcuna traccia storica.
Si può osservare anche una certa dissonanza – certo necessaria, ma
forse comunque voluta – tra il non amore qui descritto e il traboccare
affettivo che informa di sé l’episodio. Proprio Stazio, che ci è stato
presentato come una sorta di simbolo della nuova dottrina amorosa
proposta da Dante, ora racconta di non aver mostrato pubblicamente
la fiamma del proprio amore alla religione che ha voluto abbracciare
perché colpito non appena dalla virtù e dai costumi dei cristiani, ma
più ancora dal loro coraggio nel donare la vita pur di non rinnegare
Cristo. Ed è proprio questo strano e inatteso scemare della tensione
affettiva che riporta l’episodio alla triste atmosfera del Limbo.
8. Epilogo. Ricordo del Limbo. – L’episodio si chiude nel segno
della poesia e nel ricordo degli “spiriti magni” del Limbo. Raggiunta
l’acme della gloria di Virgilio nella triplice dichiarazione di gratitudine
per la poesia, la moralità e la fede, si torna alla drammaticità
del suo status di non-cristiano:
«Tu dunque, che levato hai il coperchio
che m’ascondeva quanto bene io dico,
mentre che del salire avem coverchio,
( 115 ) Thom. De malo, q. 8, a. 1.

I canti di Stazio
dimmi dov’è Terrenzio nostro antico,
Cecilio e Plauto e Varro, se lo sai:
dimmi se son dannati, ed in qual vico».
«Costoro e Persio e io e altri assai»,
rispuose il duca mio, «Siam con quel greco
che le Muse lattar più ch’altri mai,
nel primo cinghio del carcere cieco;
spesse fiate ragioniam del monte
che sempre ha le nutrice nostre seco.
Euripide v’è nosco e Antifonte,
Simonide, Agatone e altri piùe
greci che già di lauro ornar la fronte.
Quivi si veggion de le genti tue
Antigone, Deifilè e Argia,
e Ismene sì trista come fue.
Vedeisi quella che mostrò Langia;
evvi la figlia di Tiresia e Teti
e con le suore sue Deidamia».
Tacevansi amendue già li poeti
di novo attenti a riguardar dintorno,
liberi da saliri e da pareti.
(Pg. XXII 94-117)
I commentatori notano unanimi come i nomi delle anime del
Limbo costituiscano una sorta di secondo “catalogo dei poeti”, destinato
a coprire le assenze di Inferno IV. Nel canto infernale, inoltre,
larga attenzione è destinata ai filosofi, e non ci si dimentica di
grandi generali e statisti, come Giulio Cesare o il Saladino. Qui i
personaggi rammentati pertengono a due sole categorie, i poeti (di
cui moltissimi greci, quasi completamente trascurati in If. IV) e i
protagonisti (o meglio, le protagoniste) cantati dallo Stazio epico:
evidente parallelo nei confronti dei personaggi dell’Eneide elencati
nel canto del Limbo, magnifico tributo alla personalità poetica di
Stazio, da Dante molto apprezzata.
Nelle terzine con cui Virgilio traccia un ricordo del Limbo dal
quale viene e al quale, fra non molto, tornerà, vibra tutta l’atmosfera
insieme orgogliosa e malinconica della grande poesia pagana. È noto
come, da questi canti alla fine dell’ascesa al paradiso terrestre, la
Commedia non tema di presentare assai sovente, come ospiti privilegiati,
dei poeti: Bonagiunta Orbicciani, nel dialogo col quale Dante
esprimerà retrospettivamente il suo giudizio critico sulla poesia in
volgare italiano a lui precedenti; Guido Guinizzelli, il padre del Dol-
189

190
MATTEO VINTI
ce Stil Novo; infine, il “miglior fabbro del parlar materno”, il trovatore
provenzale Arnaut Daniel. Il nuovo catalogo di poeti latini e
greci serve probabilmente anche ad accostare significativamente la
grande arte classica alla nascente e promettente poesia volgare.
Benché la nostra lettura non riesca, come già detto, a condividere
l’opinione, così parziale, di quanti vedono nell’episodio staziano un
“valore essenzialmente fantastico e poetico”, per Dante l’ultima occasione,
prima di entrare nel Paradiso, di “essere solamente poeta e
celebra[re] la potenza liberatrice e benefica della poesia” ( 116 ), non vi
è dubbio che l’onore poetico sia posto decisamente in primo piano
in questi versi.
A nostro modo di vedere, lungi dall’essere la poesia il tema unico
dell’episodio, quanto più conta è il ritorno circolare alla situazione
di attesa già osservata nel prologo. L’episodio era iniziato con un’attesa
messianica destata dal terremoto e dal Gloria; si chiude ora, quasi
in Ringkomposition, con una panoramica di nostalgia messianica.
La struttura dell’episodio vaga tra questi due poli, il poeta-profeta,
missionario inconsapevole, destinato perché pagano alla nostalgia
eterna, e il poeta convertito, che tutto deve al maestro pagano, ormai
prossimo alla beatitudine del Paradiso. Eppure, anche in questa
contrapposizione creata dalla dinamica di una salvezza che è pura
grazia, noi scopriamo un’unità impressionante tra Virgilio e Stazio,
che non è legata soltanto alla particolarità del loro rapporto e del
loro vicendevole amore, ma va guardata tenendo presente, in prospettiva,
proprio l’avvenimento cristiano. Perché è questo che ultimamente
si presenta come minimo comun denominatore e a Stazio
e a Virgilio: nell’uno, l’atto semplice ma grandioso della conversione;
nel secondo, la qualità profetica e la nostalgia piena di nobiltà di
Cristo.
9. Retrospettive. – Dopo aver esaminato quasi passo per passo i
canti che narrano l’incontro con Stazio, è giunto il momento di tirare
le somme, di ripercorrere i nuclei tematici presenti nell’episodio,
per giungere al motivo per il quale Dante ha introdotto e dedicato
tanto spazio alla figura del poeta latino.
Centro dell’episodio staziano è il momento della conversione. Attorno
a tale fenomeno ruotano tutti gli altri spunti, quasi fossero,
insieme, ad esso ancillari e necessari. Non poteva mancare, nella vi-
( 116 ) A. GALLETTI, “Il canto XXII del Purgatorio”, p. 1114.

I canti di Stazio
sione dantesca dei regni oltremondani, l’esperienza del coronamento
dell’umano desiderio, cioè il momento nel quale l’anima perviene
alla condizione definitiva della salvezza, al compimento del destino
supremo per il quale l’uomo è stato creato.
In questo senso, Stazio è figura Dantis, cioè figura hominis. Il
cammino verso la salvazione che Dante intraprende per grazia lungo
tutto il viaggio ultraterreno è compendiato nei canti del poeta napoletano.
L’homo viator che, da vivo, perviene dalla condizione amara
del peccato alla beatifica visione della pienezza dell’Essere in Dio
trova, in Stazio, la sintesi del proprio percorso. Stazio si configura,
insomma, secondo la proposta di lettura qui sviluppata, come un alter
ego, un doppio di Dante. Tutto il cammino dantesco è un passaggio
dal mondo del divenire – il mondo terreno, nel quale si affrontano
ogni istante nulla ed essere, peccato e grazia: Mors et Vita
duello conflixere mirando ( 117 ); ma anche il Purgatorio, regno dinamico
sui generis, dove le anime sostano transitoriamente nell’attesa
certa dello status beato – all’universo dell’essere, al Paradiso nel quale
l’umanità è nella pienezza. In Stazio si attua questo passaggio, la
potenza diviene atto, il divenire e l’apparente essere, il nulla è finalmente
riempito dall’essere.
Abbiamo affermato, senza approfondire i termini della questione,
che l’incontro con l’anima di Stazio possiede i tratti dell’incontro
con Cristo. Ecco, Stazio è figura Christi come espressione dell’uomo
risorto. La resurrezione di Cristo, centro del cosmo e della storia, è il
momento supremo del definitivo trionfo della vita sulla morte, dell’Essere
sul nulla, della grazia sul peccato. Per l’uomo, la resurrezione
coincide propriamente con l’entrata definitiva nel regno dell’Essere,
in Paradiso; che è quanto a Stazio avviene: una specie di resurrezione.
Tutta l’attesa messianica che invade il cuore di Dante nel
prologo dell’episodio, così ben assimilata alla storia dei due discepoli
di Emmaus, dimostra che si sta facendo esperienza di una resurrezione.
Il personaggio di Stazio riveste, dunque, un ruolo apparentemente
complesso ed equivoco. A lui abbiamo dovuto attribuire il valore
figurale sia di Dante, cioè dell’uomo, sia di Cristo. Ma per l’interpretazione
figurale del Medioevo ciò non avrebbe costituito scandalo.
Stazio è, infatti, l’uomo che perviene alla salvezza, l’uomo perfettamente
uomo – il che è, appunto, il fine ultimo di Dante nel suo
viaggio, ma anche la missione di Gesù, vero Dio ma vero uomo, anzi
estremo esempio di Figlio dell’Uomo.
( 117 ) Così la sequenza di Pasqua Victimae Paschali.
191

192
MATTEO VINTI
Perché l’adempimento di tale alto offizio è delegato proprio a
Stazio? Non è possibile che la scelta dantesca rivesta i caratteri di un
puro arbitrio. Se si esamina la fisionomia di Stazio, appare chiaro
che egli è anzitutto un poeta – il “nome che più dura e più onora”.
Un poeta, esattamente come Dante. E un poeta, l’abbiamo visto, nel
quale l’ammirazione per Virgilio è pari solo a quella che Dante stesso
nutre. In tutto ciò, Stazio appare un Dante ante litteram, un’anima
gemella.
Ma Stazio, come Dante, ci appare anche come un alter Vergilius.
Entrambi traggono dell’Eneide “lo bello stilo” che fa loro onore.
Così “D(ante) – scrive Ettore Paratore ( 118 ) – ha sentito l’opera di
S(tazio) proprio come il vertice di quella lenta ascesa della spiritualità
latina, maturata dalla sua stessa missione d’inverare i voleri della
Provvidenza, verso l’intuizione delle verità cristiane. Perciò si giustifica
il suo aver fatto di S(tazio) un cristiano nascosto, e l’averlo giudicato
un secondo Virgilio, un poeta sofov~. E si comprende come i
poemi staziani gli siano serviti come prontuario di exempla morali e
modello di agghiaccianti colpi di sonda nell’umana perversione alla
luce della superiore eticità del messaggio cristiano”.
Per questo motivo, ci appare assai poco condivisibile l’opinione,
avanzata da Teodolinda Barolini ( 119 ) e da Kevin Brownlee ( 120 ), secondo
la quale Dante oppone Stazio a Virgilio a discredito del secondo
( 121 ). È ben vero che Virgilio non è cristiano, e dunque non
conosce la salvezza, e che Stazio, da questo punto di vista, padroneggi
un sapere e si appresti a godere di una letizia infinitamente supe-
( 118 ) S.v. “Stazio”, ED V, p. 425a.
( 119 ) Il miglior fabbro. Dante e i poeti della Commedia, pp. 204-213.
( 120 ) “Dante and the Classical Poets”, in R. JACOFF (ed.), The Cambridge Companion
to Dante, Cambridge University Press: Cambridge 1993, pp. 106-109.
( 121 ) Così esordisce BROWNLEE, “Dante and the Classical Poets”, p. 106, nel
capitolo che dedica a Stazio: “Within the overall mimetic strategy of the Commedia,
Statius the character and the text of the Thebaid are presented in terms of –
and in contradistinction to – Virgil the character and the text of the Aeneid”. Rincara
la dose Teodolinda BAROLINI, Il miglior fabbro. Dante e i poeti della Commedia,
pp. 205-206: “Dante ha bisogno di creare un contrappeso a Virgilio, un ruolo
per il quale il cristianizzato Stazio è fatto su misura, come personaggio che è nella
miglior posizione per mettere in rilievo la situazione ambivalente di Virgilio: mentre
lo Stazio poeta epico è inferiore a Virgilio, è suo discepolo, lo Stazio che diventa
cristiano gli è superiore, è suo maestro”. E anche il supremo tributo conferito al
poeta mantovano è ambiguo: “tutto ciò che nel poema dantesco lavora a vantaggio
di Virgilio allo stesso tempo lavora a suo danno, ed è così che la presenza di Stazio
vale sia a glorificare sia a sovvertire Virgilio” (p. 208).

I canti di Stazio
riori a quelli del poeta mantovano; ma il testo dantesco ci sembra inviti
ad un affetto e ad una stima non diminuiti per Virgilio. La grandezza
del Virgilio dantesco, anzi, è proprio nell’essere un maestro
per i posteri, quasi un Giovanni Battista pagano che prepari con arte
inconsapevolmente profetica le vie al Messia, e additi la strada della
salvezza a chi sappia guardare con attenzione. Senza Virgilio, Stazio
non sarebbe divenuto né un poeta, né un giusto, né un cristiano. Il
lampadoforo, magari, non trae giovamento dalla luce che porta, ma
i suoi meriti non sono annullati. E Dante, in questi canti, gli concede
la giusta gloria.
Rileggere il Virgilio dantesco insistendo su dietrologie alquanto
distanti dal testo significa precludersi un’adeguata comprensione del
metodo col quale Dante fa rivivere i personaggi del suo poema.
Dante coglie l’umanità storica di un individuo nella sua essenzialità,
nelle sue caratteristiche più peculiari, ed è questa essenzialità che risalta
quando l’individuo è traslato dalla condizione mortale alla definitività
dello stato post mortem. L’esaltazione dell’essenziale non annulla
la complessità che rende mai totalmente classificabile una persona,
ma la sposta sullo sfondo, la mette in secondo piano. La concezione
figurale dantesca tratta la realtà storica di un personaggio cogliendola
per essentiam, e l’essenza di quel personaggio, prefigurata in vita,
e tuttavia attenuata dalla molteplicità degli accidentia ( 122 ), risplende
come realizzazione compiuta nell’orizzonte della vita eterna ( 123 ). È a
( 122 )I termini essentia ed accidens qui utilizzati vanno intesi in senso metaforico,
non nell’accezione tecnica che rivestono nella filosofia aristotelica e scolastica.
L’essentia di un essere umano, infatti, consiste appunto nell’essere, come substantia,
un homo; e allora non ci sarebbe differenza tra un’anima e l’altra nella resa artistica
dantesca. Propriamente parlando, il tratto peculiare dell’individuo che
Dante coglie e valorizza nei suoi ritratti sub specie aeternitatis pertiene alla categoria
aristotelica della relazione.
( 123 ) Il concetto del rapporto tra i personaggi storici e il simbolismo che Dante
conferisce loro nel suo poema è espresso con chiarezza da Étienne GILSON, Dante e
la filosofia, p. 243: “Invece di procedere per fredde allegorie e presentarci personificazioni
astratte, quali sarebbero state Cupidigia, Giustizia, Fede, Teologia, Filosofia,
Dante procede per simboli, cioè per personaggi rappresentativi: Beatrice,
Tommaso d’Aquino, Sigieri di Brabante, Bernardo da Chiaravalle. Era una prodigiosa
trovata artistica, un puro colpo di genio: popolare il poema di una folla di
esseri viventi, portatori di significati spirituali concreti e viventi come coloro che li
portano”. Due le “regole interpretative” proposte dal filosofo francese: “un personaggio
della Divina Commedia conserva della sua realtà storica solo quel che è richiesto
dalla funzione rappresentativa assegnatagli da Dante” e “la realtà storica dei personaggi
di Dante non ha diritto di intervenire nella loro interpretazione se non in
quanto è richiesta dalla funzione rappresentativa che Dante assegna loro e per la quale
li ha scelti” (corsivo nel testo).
193

194
MATTEO VINTI
tale umanità compiuta che Dante attacca il senso allegorico, così che
il significato secondo non può essere disgiunto dalla persona concreta
che l’incarna.
Così, Virgilio, il più grande poeta latino, rappresenta nella Commedia
la grande poesia pagana, ammirevole per la sua saggezza e le
sue capacità retoriche, ma pur sempre insufficiente al conseguimento
della redenzione – benché, in quanto aspetto nobile dell’umano,
all’Incarnazione essa predisponga e attenda. E Stazio rappresenta,
appunto, l’incontro tra l’arte classica e l’evento cristiano, e mostra
l’assoluta convergenza tra i due universi ( 124 ).
Stazio, insomma, è per Dante il personaggio più adatto per illustrare
il fenomeno della conversione in tutte le sue caratteristiche. Non
possiamo dimenticare che la conversione staziana al Cristianesimo è
sostanzialmente invenzione di Dante, che ha avuto per questo l’occasione
di descrivere quei fattori che egli riteneva fondamentali perché
tale fenomeno avvenisse. Proviamo a ripercorrerli sistematicamente.
Attesa e nostalgia: l’episodio si apre e si chiude su questi due sentimenti.
Espressione comune ad entrambi è il senso di mancanza, di
assenza. Oggetto di tale mancanza è la salvezza, la redenzione. Propriamente,
nel caso dell’attesa, abbiamo osservato che essa si configura
come desiderio di sapere – l’insistenza sulla metafora della sete
– e quindi della verità, secondo forme che rimandano ad un’attesa
messianica grazie alle allusioni ad episodi evangelici – i pastori di
Betlemme, la Samaritana, i discepoli di Emmaus. Stazio appare sulla
scena come figura di Cristo, del Redentore, del Risorto, come l’acqua
che estingue la sete di sapere del pellegrino, ma anche come
simbolo – lui, che si accinge ad entrare in Paradiso – della salvezza
eterna cui è destinato l’uomo.
La nostalgia dei magnanimi non cristiani del Limbo, propone, in
maniera speculare all’attesa, la medesima attenzione per l’evento della
salvazione, osservandolo però non con gli occhi di chi, per grazia,
ne è stato oggetto, ma con lo sguardo di coloro cui tale dono non è
stato riservato. La malinconia degli “spiriti magni” rende, in tal modo,
( 124 ) Ancora Ettore PARATORE, s.v. “Stazio”, ED V, p. 422a, trova l’occasione
di affermare: “A ogni modo il fatto stesso che sia Virgilio a invitare S(tazio) a sostituirlo
nell’addottrinare D(ante) finisce per compiere il rapporto ideale fra i due
poeti quale si è configurato nei canti XXI-XXII, mostrando il riconoscimento da
parte di Virgilio della maturazione che la sua poesia ha prodotto nello spirito di
S(tazio), sì che egli può sovrapporsi, come meglio profondato di lui nei misteri
della fede, alle sue abituali spiegazioni, basate essenzialmente sui puri dettami della
filosofia aristotelica”.

I canti di Stazio
più struggente il desiderio e la domanda di quella salvezza che costituisce
il fine ultimo eminente dell’uomo.
Emblema di tale traboccante attesa è la figura di Virgilio. Egli, che
partecipa dei sospiri dei pagani virtuosi, si è però fatto inconsapevole
portavoce, nella sua arte, dell’attesa dell’umanità; e il suo genio, esprimendo
adeguatamente e profondamente il desiderio del cuore dell’uomo,
ha permesso ad altri di aderire all’evento della redenzione. La dissonanza
tra la sorte post mortem del poeta di Mantova e dell’allievo Stazio,
evidente fin dal saluto che i due si scambiano al loro primo imbattersi,
sottolinea per contrasto l’imperscrutabile unità che l’uomo di
ogni tempo vive col proprio simile quanto più l’uno e l’altro si dispongono
seriamente di fronte al mistero del fine ultimo cui son chiamati.
La conversione di Stazio passa attraverso una progressiva profondità
nell’affrontare la lettura delle opere virgiliane. Il primo impatto
è di ordine estetico. Il limpido ma possente dettato dei versi di Virgilio
suscita in Stazio un’attrattiva, un gusto per la bellezza, un invito
a seguire, sia pure da lontano, le orme della grande poesia. La “divina
fiamma” dell’Eneide incendia il cuore di Stazio, che può così, a
sua volta, creare la Tebaide e l’Achilleide e meritare l’alloro poetico.
Si compie in tal modo la conversione al bello.
Ma non basta. Leggendo con maggiore attenzione, andando più
in profondità della mera bellezza, Stazio trascende l’ordine estetico e
scopre l’ordine etico. L’Eneide non è solo il capolavoro della latinità,
è anche un’enciclopedia nella quale chi sa leggere può ritrovare precisi
consigli morali che correggano i suoi più gravi vizi. È sufficiente
un verso o due a risvegliare la coscienza di Stazio, a fargli scoprire
che la prodigalità è un atteggiamento erroneo quanto l’avarizia, ad
insegnargli una medietas nell’uso del denaro. Si perviene alla conversione
al giusto.
L’ultimo passo, ancora più in profondità. Da capolavoro artistico,
a manuale di morale, a testo sacro e profetico: l’opera virgiliana
dischiude l’anima di Stazio alla conversione religiosa. L’attesa di
Virgilio lo predispone ad identificare la redenzione annunziata nella
quarta delle Bucoliche con quella testimoniata dai virtuosi martiri
cristiani. Stazio si fa battezzare, debitore a Virgilio persino dell’estrema
metavnoia. “Per te poeta fui, per te cristiano”: la gratitudine affiora
in queste parole come spontaneo riconoscimento. È la conversione
al vero e al bene.
Alla conversione non si perviene senza implicare l’impegno della
libertà umana. Per tale ragione Dante, nell’episodio staziano, ha vo-
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MATTEO VINTI
luto mostrare anche i fattori che permettono all’uomo di acconsentire
alla Grazia. La fede è un percorso di conoscenza e di amore, perché
tutto l’umano ne è protagonista, e l’uomo si differenzia dall’infraumano
precisamente per i fattori della ragione e dell’affezione.
Nella narrazione che Stazio compie delle proprie progressive conversioni
gli elementi gnoseologici ed affettivi si intersecano e si sovrappongono,
nella distinzione interna ad una dinamica che tuttavia
ci appare profondamente unitaria. Si conosce solo ciò che si ama, e
si ama quanto più si conosce, in un circolo virtuoso inerente alla
struttura stessa dell’essere, perché “la realtà invece è Cristo” ( 125 ), e
l’Essere divino si rivela nell’abisso del suo mistero come pienezza
traboccante di amore: “Dio è amore” ( 126 ). Per dirla in termini agostiniani,
“il Bene non è perfettamente conosciuto, se non alla condizione
di essere perfettamente amato” ( 127 ).
L’attrattiva che l’opera virgiliana suscita in Stazio esplode con un
amore ardente, insofferente a trattenersi se non davanti all’impossibilità
fisica di un abbraccio tra spiriti incorporei. D’altronde, tale
moto affettivo spinge l’intelletto ad una comprensione più adeguata
di quanto dalla bellezza traspare senza esaurirsi in essa: cioè la verità,
tanto nella morale (Stazio “si accorge” che di prodigalità si pecca
“per ignoranza”) quanto in ambito religioso (il riconoscimento che
la fede cristiana si “consonava” alle parole di Virgilio è un giudizio,
cioè un atto eminentemente razionale). A sua volta, la ragione è la
virtù che ravviva il fuoco amoroso e lo rende stabile, pronto ad infiammare
l’oggetto dell’amore, in un processo infinito nel quale
l’uomo riscopre la definitività del proprio essere e insieme dell’essere
del prossimo che gli sta accanto: “Amore, / acceso di virtù, sempre
altro accese”.
( 125 ) Col. 2, 17.
( 126 )I Io. 4, 8. Tutto il contesto dell’epistola di Giovanni (“il discepolo che
Gesù ama”, dice di sé nel proprio Vangelo) propone esplicitamente il concetto qui
rammentato come fondamento della concezione della realtà del Cristianesimo,
cioè il reciproco intrecciarsi della conoscenza e dell’amore: “Carissimi, diligamus
invicem, quoniam caritas ex Deo est, et omnis, qui diligit, ex Deus natus est et cognoscit
Deum. Qui non diligit, non cognovit Deum, quoniam Deus caritas est” (I
Io. 4, 7-8).
( 127 ) Augustin. De diversis quaestionibus LXXXIII, q. 35, PL 40, 24: “nullumque
bonum perfecte noscitur, quod non perfecte amatur”. Cfr. anche De civ. Dei XVI
xxv. La teorizzazione agostiniana informerà di sé tutta la teologia monastica: cfr.
Jean LECLERCQ, L’amour des lettres et le désir de Dieu, Les Éditions du Cerf: Paris
1957; tr. it. del “Centro di documentazione”, Istituto per le scienze religiose, Bologna:
Cultura umanistica e desiderio di Dio, Sansoni: Milano 2002, pp. 247-301.

SARA CHIRRA
NOTIZIE SUI FRATI DOMENICANI IN SARDEGNA
ATTRAVERSO UNA CRONACA CINQUECENTESCA
DELLA PROVINCIA D’ARAGONA
Nella sezione dei manoscritti rari della Biblioteca de Catalunya di
Barcellona è custodita un’interessante e autorevole cinquecentina,
relativa alla cronistoria dell’Ordine dei frati Predicatori nella Corona
d’Aragona, dal momento della creazione dell’Ordine, ad opera del
frate castigliano Domenico Guzmán nel 1218, sino a tutto il secolo
XVI, con una particolare attenzione all’istituzione della Provincia
d’Aragona, sotto la cui giurisdizione ecclesiastica dipendevano numerosi
conventi dall’inizio del XIV secolo e sino al XVIII, tra cui
quelli sardi.
L’opera, frutto di una lunga e complessa elaborazione di dati,
porta il titolo di Historia de la Provincia de Aragón de la Orden de
Predicadores, desde fu origen y principio hasta el año de mil y seyscientos.
Divisa in due libri, la Historia fu realizzata da Francisco Diago,
storico aragonese, uomo di alta statura culturale e religiosa, appartenente
all’Ordine domenicano, su volere del Generale dell’Ordine, il
maestro fra’ Hieronymo Baptista de la Nunzia provinciale della Provincia
d’Aragona, sotto la direzione del ‘reverendissimo’ maestro
dell’Ordine, fra’ Hyppolito Maria Beccaria de Monte Regali. La cinquecentina
venne stampata da Sebastian de Cormellas nel convento
di Santa Caterina martire di Barcellona nell’anno 1599.
Dall’indice, piuttosto ricco di riferimenti storici, s’intuisce chiaramente
che l’opera intendeva costituire un repertorio organico di
notizie sistematiche sulla storia, i personaggi e gli insediamenti conventuali
dell’Ordine in Spagna, Francia e Italia.
L’abilità dell’Autore traspare dalla ripartizione dei diversi argomenti
che affronta: l’intenzione era quella di proporre ai lettori una

198
SARA CHIRRA
serie di notizie ordinata, omogenea e completa sull’istituzione domenicana,
che superasse i limiti delle fonti all’epoca disponibili -
storiche, geografiche, etnografiche, culturali, diplomatiche e religiose
- le quali, soffermandosi principalmente su singoli aspetti, fornivano
dati parziali e frammentari.
L’opera è, quindi, il risultato della consultazione e dell’assemblaggio
di una versatile varietà di fonti bibliografiche, talvolta individuabili
esplicitamente o deducibili dai riferimenti che lo stesso
cronista fa. Di particolare interesse sono due codici membranacei
trecenteschi, opera di Niccolò Rossell, anch’egli frate predicatore,
priore provinciale, inquisitore e cardinale del XIV secolo, autore di
diverse raccolte storiche sull’Ordine domenicano, andate perdute, di
cui la memoria non ha lasciato neppure titoli precisi. La fonte, che
utilizza Diago, è una raccolta miscellanea composta a partire dal
1357, che riporta cronache, cataloghi, privilegi pontifici, raccolti per
ordine del cardinale, da adoperare come repertorio storico-giuridico
nelle sue relazioni e missioni relative alla casa domenicana, e soprattutto
alla Provincia aragonese. Sono prevalentemente documenti
storico-giuridici, riguardanti l’Ordine, la sua istituzione e la storia
politico-ecclesiastica, con in appendice un Bullarium, in cui si riportano
i più importanti privilegi papali concessi ai frati Predicatori
dalla loro nascita sino alla metà del XIV secolo ( 1 ).
La seconda fonte, cui si rifà Diago, è di paternità di Giacomo Domenech,
cronista domenicano, inquisitore e priore provinciale, contemporaneo
e vicino al Rossell, probabilmente lo storiografo di cui si è
servito lo stesso cardinale. Il Diago ci ha tramandato una descrizione
sommaria della sua cronaca, relativa ad opere domenicane con contenuto
piuttosto ampio: e cioè una raccolta di privilegi papali, di trattati
sul modo di far le elezioni, di celebrare capitoli, di ricevere il maestro
dell’Ordine, il provinciale, il priore, sugli ordinamenti giudiziari, un
elenco delle province dell’Ordine, nonché dei conventi, dei frati e delle
suore domenicane ( 2 ). Anche questa cronaca, come i due codici
membranacei di Rossell, abbraccia un arco di tempo che non supera la
metà del XIV secolo; nonostante ciò entrambe sono le fonti medioevali
basilari per la storia della Provincia d’Aragona del Diago.
Infine, per quel che concerne la documentazione pontificia, Diago
attinge dai fondi vaticani, oltre che da quelli custoditi presso l’Archi-
( 1 ) T. KÄPPELI, Cronache domenicane di Giacomo Domenech o.p. in una raccolta
miscellanea del card. Niccolò Rossell, in «Archivium Fratrum Predicatorum», vol.
XIV, 1944, pp. 5-42.
( 2 ) Ibidem, p. 32.

Notizie sui frati domenicani in Sardegna attraverso una cronaca cinquecentesca ...
vio della Corona d’Aragona, fornitore prevalentemente di diplomi
regi, a quell’epoca del tutto inediti ( 3 ).
Tornando alla nostra Historia, restò per quasi un secolo un testo
istituzionale e informativo fondamentale di larghissima diffusione e,
per questo motivo, ampiamente ripreso nei secoli successivi.
L’opera apre con l’approvazione delle diverse personalità domenicane,
tra cui il maestro dell’Ordine frà Ippolito Beccaria de Monte
Regali, il quale vanta il puntiglioso lavoro dell’Autore, che ha ricostruito
con diligenza e scrupolo la storia dell’Ordine, coinvolgendo
il più possibile il lettore su tutto quello che di curioso e di peculiare
è accaduto nella Provincia dal momento della sua fondazione, e cioè
dal XIII secolo:
Licencia y mandato del maestro de la Orden
Por tenor de las presentes, nos fray Hippolito Maria Beccaria de Monte
Regali, Maestro de la Orden de Predicatores, attento que el año passado
de 1597, mandamos con nuestras patentes todos los provinciales de todas
las Provincias de la Orden, que cada qual tuviesse particular cuydado
de hazer recoger las cosas insignes de su Provincia, y a quien yo tengo
encomendada la prosecución de la Historia general de la Orden: y que el
padre Provincial de la Provincia de Aragón el Maestro Fray Hieronimo
Baptista de la Nuza, llegando a Valencia, me presentó lo que en la dicha
Provincia ha recogido el padre Presentado fray Francisco Diago,
yendo por los Conventos, y que esso es mucho y de grande provecho para
los Religiosos de la Provincia y de toda la Orden por aver en ello vidas
de muchos Sanctos, y exemplos muy notables que moverana a los Religiosos
a vida reglar y letras: somos de parecer que no solo sea todo ello
imbiado al padre Maestro fray Augustin Davila, sino que sa saque a luz
y se imprima a parte en la dicha Provincia, de manera que se haga Historia
particular de Aragón, por fer ello assí que en la Historia general
de la Orden no pueden entrar todas las cosas que en la Provincia se han
hallado y tambien porque en ella no se pueden poner con el Orden y
concierto que en Historia particular de la Provincia. Y por tanto el padre
presentado fray Francisco Diago és el que ha recogido las dichas cosas
con muco trabajo y diligencia y esta muy enterado de todo lo que en
la Provincia ha acontescido desde fu origen y principio hasta gloria,
queremos y mandamos que el proprio tome a su cargo concertar, com po-
( 3 ) Si veda B. DE HEREDIA, Documentos pontificios inéditos acerca de la reforma
domenicana en la Provincia de Aragón, in «Archivium Fratrum Predicatorum», voll.
27-28 (1957-1958), pp. 263-273, e la ricca appendice documentaria, pp. 74-297.
199

200
SARA CHIRRA
ner y sacar a luz la dicha Historia de la Provincia de Aragón. Y para
que en ello mas pueda merescer se lo mandamos en virtud del Espiritu
Sancto, y de la sancta obediencia, y con precepto formal en nombre del
Padre y del Hijo y del Espiritu Santo. Amen.
Encargandole mucho que con la diligencia y presteza possible saque a luz y
imprima la dicha Historia en la Ciudad donde mejor le paresciere y con
mayor comodidad pudiere. Dandole para ello la licencia de que necessitare.
En fé de lo qual hize hazer las presentes y de mi propria mano las firme en
nuestro convento de Predicatores de Valencia. II de Agosto de 1598.
Fray Hipolitus Maria qui supra manu propria ( 4 ).
Seguono: i benestare del maestro frà Geronimo Battista, quello
del reverendissimo frà Augustin Davilla, del maestro fra’ Pablo Ginoves,
priore del convento de Santa Caterina martire di Barcellona,
del maestro fra’ Juan Vincente, cattedratico di scrittura e di lingua
dell’Università di Barcellona, del maestro fra’ Raphael Rifos, esponente
del santo ufficio dell’Inquisizione, e la licenza dell’ordinario di
Barcellona, Monserratus Roquer, canonico della Santa Chiesa di
Barcellona, nonché vicario generale dell’Ordine, per quel che concerne
l’autorizzazione alla stampa. Chiude queste prime pagine solenni
del volume la dedica dello stesso Diago al succitato maestro
dell’Ordine dei Predicatori fra’ Hyppolito Maria Beccaria ( 5 ).
Il prologo è rivolto al discreto lector, al quale Diago spiega la volontà
di compilare una cronaca dedicata all’Ordine cui apparteneva, per
“rimuoverlo dall’oblio” e fare luce su un’istituzione religiosa e storica
di interesse così vasto e, allo stesso tempo, ancora poco conosciuto.
L’Autore sottolinea, inoltre, che la sua è stata un’impresa ostica,
resa ancor più difficoltosa a causa della carenza di fonti edite e inedite,
che lo ha costretto a girovagare per tutti i conventi iberici, francesi
e italiani appartenenti alla Provincia d’Aragona, col fine di rivoltare
di carta in carta i fondi degli archivi adiacenti agli edifici religiosi
e a quelli delle città e dei centri nei quali poteva esserci traccia di
insediamenti domenicani:
Al discreto Lector
Quien sabe (discreto lector) que Dios quando con el fuego de su gracia
enciende alguna vela en esta Iglesia militante, ques lo mismo que darle
( 4 ) F. DIAGO, Historia de la Provincia de Aragón de la Orden de Predicadores,
desde fu origen y principio hasta el año de mil y seyscientos, I, f. 3.
( 5 ) Ibidem, I, ff. 4-10.

Notizie sui frati domenicani in Sardegna attraverso una cronaca cinquecentesca ...
algun varón sancto, no la pone en lugar escondido, sino encima de van
levantado candelero paraque los que entraren vean la luz del buen
exemplo que tanto puede para con los hombres, no puede dexar de concederme
que los Historiadores de vidas de sanctos hazien cosa de mucho
gusto para Dios, pues la Historia que compren no sirve sino de sacar del
rincón del olvido las esclarecida y resplandescienes vidas de los que fueron
viviendo velas encendidas por la misma manos de Dios, para alumbrar
con la luz del buen exemplo a los que van por el mundo como ciegos,
y de sacarla a la laça de todo el mundo, reduziendolas a la memoria
de los fieles. Esta consideración sola me ha hecho emprender la Historia
ecclesiastica de la Provincia de Aragón de la Orden de Predicadores, en
la qua ha avido muchissimo sanctos y varones illustrissimos, especialmente
viendo que estavan tan sepultados sus gloriosos hechos y maravillos
hazañas. Descuydaronse mucho los antiguos en lo que toca a darnos
razón de tanta virtud y exemplo, y lo poco que escrivieron se ha ydo poco
a poco perdiendo, o alomenos escudiendo de tal manera que a penas se
halla nada. Esto hazia dificultosa la empressa de la Historia. Aunque
no por la dificultad se ha de despreciar. Porque la que avia se ha allanado
yendo yo en persona por todos los conventos de la Provincia, y rebolviendo
de pape en papelto dos los archivos dellos, y viendo aunque no
tan de assiento los de las ciutades y de las Iglesias Cathedrales. Que assí
me lo mando nuestro Padre provincial, el Maestro Fray Hieronimo
Baptista de la Nuza, para dar as cumplimiento a lo que mandando tenia
a qualquier Provincial de toda la Religión el Reverendissimo Maestro
della fray Hipolito Maria Beccaria de Monte Regali, que con muchas
veras se recogiesse todo lo importante para la Historia de la Orden,
que estaen encomandada al dolcissimo y eloquentismo padre maestro
fray Augusin Davila Padilla, a quien la magestat del Catholico y christianismo
rey don Philipe, tercero desten nombre, ha hecho predicador
suyo, y después estan en Valencia por la Quaresma deste año de 1599,
para recebir a su nueva esposa la Reyna doña Margarita de Austria, y
celebrar las bodas, lo ha nombrado Arçobispo de la Isla de sancto Domingo
e nel Nuevo Mundo. Deve muchissimo la Provicia a tan quidados
provincial, por fer ello assí que trastornando por su orden y mandamiento
toda la Provincia, y rebolviendo los Archivios della he hallado
no una sola Margarita preciosa, sino casi infinitas que ya las tenia perdidas
y las dava por tales, y juntamente he visto todo lo que escrivo en
esta Historia, ques lo bueno que ella tiene para hazer que el Lector perdone
mil faltas que de mi parte tiene. Va dividida en dos libros. E nel
primero trato de la Provincia en común, de sus privilegios, de sus prelados
assí Provinciales como la Inquisición que largos años ha tenido a su
cargo. Y nel segundo doy razón de la Provincia en particular, de las
201

202
SARA CHIRRA
fundaciones de los Conventos, y de los Religiosos dellos, Sanctos, Letrados,
Cardenales, Arçobispos, Obispos, Confessores del Rey, Maestro del
Palacio sacro, y finalmente de todas aquellos que de qualquier manera
han honrado y illustrado la orden. Y pues de todo ello podras (discreto
lector) sacar provecho para tu alma, pidote en premio de los trabajos
que me cuesta que ruegues a Dios por el de la mia ( 6 ).
La scarsità delle fonti del periodo bassomedioevale, riguardanti
l’Ordine domenicano, è una lacuna comune soprattutto ai territori
appartenenti alla Corona d’Aragona, compreso quello sardo. La mancanza
di monografie, saggi e contributi di vario genere si lamenta tutt’oggi,
a causa dell’esiguità di fonti archivistiche locali ed estere attualmente
consultabili, rendendo l’argomento ancor più affascinante e
misterioso. Per questo motivo, il nostro interesse si concentra sui capitoli
che scorrono lungo l’imponente volume e che, via via, riguardano
più concretamente gli insediamenti domenicani in Sardegna.
Il primo tomo, più strettamente storico e storiografico, delinea
nel dettaglio la storia della Provincia d’Aragona, dal momento della
sua fondazione alla separazione dalla Provincia di Spagna, e la nascita
dell’Ordine domenicano ad opera di Domenico Guzmán che,
grazie all’approvazione di papa Onorio III, riuscì ad ottenere la conferma
nell’anno 1216 con la Bolla “Religiosam vitam”, da cui nacque
l’Ordine dei Predicatori. La vocazione dell’Ordine aveva un triplice
obiettivo, spiega Diago: estinguere le eresie, bandire i vizi e
promuovere i buoni costumi. Dopo pochi anni, l’Ordine possedeva
numerosi conventi in Spagna, Francia, Germania, Inghilterra, Provenza
e, soprattutto, Italia. Nel Capitolo Generale che fu indetto a
Bologna nel 1221, si cercò di dare una disciplina giuridica ed ecclesiastica,
accorpando i circa sessanta conventi europei sotto la giurisdizione
di 8 province: Spagna – dalla cui costola successivamente
nacque la Provincia d’Aragona –, Tolosa, Francia, Lombardia,
Roma, Provenza, Germania, Inghilterra, ciascuna delle quali retta da
un priore provinciale; ogni convento era regolato da uno statuto che
doveva avere l’approvazione del Capitolo generale e doveva esser
reso pubblico a tutti gli altri conventi ( 7 ). L’Autore riferisce, ancora,
( 6 ) Ibidem, I, f. 11.
( 7 ) Nel capitolo primo, “De como y quando fue desmembrada la Provincia de
Aragón de la Espana, y del estado que los Conventos della tenian en aquel tiempo”,
l’Autore riporta il testo latino della divisione: Confirmamus hanc quod Provintia
Hispaniae dividatur, ex dividimus eam in duas, ita quod Castella, Leion, Gallicia,
y Portugalia, sint una provintia Hispaniae, ex teneat primum locum a dextris:

Notizie sui frati domenicani in Sardegna attraverso una cronaca cinquecentesca ...
che annualmente si teneva il Capitolo Generale durante il periodo
della Pasqua di Risurrezione.
Segue una descrizione sullo stato in cui versavano i conventi al
momento della divisione, sui privilegi dei prelati, dei provinciali, dei
vicari generali e delle congregazioni. Molto interessanti risultano i
capitoli sull’Inquisizione ( 8 ). Nel XIII secolo, periodo di maggior
espansione dell’Ordine, con numerosi novizi e fondazioni conventuali
in tutta Europa, un posto considerevole viene dedicato alla figura
di San Raimondo de Penyafort, la personalità più rilevante, che
si proietta nella vita della Chiesa attraverso i buoni rapporti con i
Papi e attraverso la vita politica della Corona catalano-aragonese
mediante la sua relazione con Giacomo I il Conquistatore ( 9 ).
Infine, il primo libro conclude con un lungo memoriale dedicato
alla congregazione monastica gemella dei frati minori Francescani,
con i quali sin dai primi decenni del XIV secolo i Domenicani condivisero
le stesse sorti giuridico-ecclesiatiche, oltre la predilezione
per gli insediamenti a contatto con i centri urbani. Degno di nota a
questo proposito per la sua solennità è il capitolo relativo alla vita di
San Francesco d’Assisi, fondatore dell’Ordine francescano ( 10 ).
Nel secondo tomo si parla della Provincia d’Aragona nei suoi
aspetti più spirituali ed ecclesiastici, in particolare della fondazione
dei conventi, dei religiosi, dei santi, dei letterati, dei cardinali, degli
arcivescovi, dei vescovi, dei confessori del re, dei maestri di palazzo
regio e, infine, di tutti quelli che in qualche maniera hanno onorato
e reso illustre l’Ordine. È l’Autore stesso a spiegarci la struttura dell’imponente
volume:
203
Aragonia vero, Cathalonie, ex Navarre sint alia, ex vocetur provintia Aragonie , ex teneat
locum in sinistro post provintiam Gretiae. Et hec habet tria capitula…, F. DIA-
GO, Historia, I, cit., I, f. 4.
( 8 )“Del origen y principio del oficio de la sancta Inquisición en la Corona de
Aragón, Ibidem, I, cap. III, f. 5.
( 9 ) Una tradizione, degna di credito, ci presenta Ramon de Penyafort (1180-
1275) come un giovane pieno di qualità, di sensibilità e di dedizione allo studio.
Fu consigliere e confessore di Giacomo I il Conquistatore, tanto da ispirare la crociata
concernente la presa di Maiorca e la conquista di Valenza. Fu il successore di
Domenico Guzmán nella guida dell’Ordine a partire dal 1238, e da questi ereditò
lo spirito missionario non trascurando però le necessità della Corona d’Aragona,
che continuò a proteggere propagando la predicazione evangelica fra i mori e gli
ebrei insediatisi nei territori catalani. Per conoscere la vita del Santo si veda L.
GALMÉS, Catalogo hagiográfico de la Provincia de Aragón de la Orden Predicadores,
in “Escritos del vedat”, Anuario vol. X, 1980, pp. 187-189.
( 10 )F. DIAGO, Historia, I, cit., ff. 30; 32; 57.

204
División de la historia
SARA CHIRRA
La historia de la Provincia de Aragón, de la orden de Predicadores, desde
fu origen y principio hasta el año de mil y seyscientos contiene dos libros.
En el primero se trata de la Provincia en común, de sus privilegios,
de sus prelados, assí provinciales, como vicarios generales, de sus capitulos
y congregaciones, y finalmente de la Inquisición, que largos años ha
tenido a su cargo.
En el segundo se da razón de la Provincia en particular de las fundaciones
del los conventos, y de los religiosos, dellos sanctos, letrados, cardenales,
arçobispos, obispos, confessores de Reyes, maestros del Palacio sacro, y
finalmente de todos aquellos que de qualquier manera han honrado, y
illustrado la orden, que son los que estan en el tratado de los indices, y
otro muchos ( 11 ).
A proposito del convento di Cagliari il Diago dice:
El convento de Predicadores de la ciudad de Caller de la Isla y Reyno de
Cerdeña, se sigue luego después deste quanto a la fundación. Porque a
diez y ocho del mes de Mayo del año mil y dozientos y ochenta y quatro,
tomaron la possessión del con licencia del Arçobispo de aquella ciudad
llamado Gallus, en la Iglesia de Santa Anna en el Apendicio o arraval
de Vilanova, fray Raynerio de Petriis, y fray Ugolino de Rapida del convento
de Santa Caterina, como Procuradores que eran de fray Benedicto
de Sigismundis, prior del dicho convento de Santa Caterina, no del de
Barcelona (como podria pensarlo alguno), sino de la ciudad de Pisa en
la Toscana. Que de aquella señorya, que entonces estava en la cumbre
de la rueda de fortuna, era a la fazón la Isla de Cerdeña. Y no ser vano
este pensamiento, fé prueva con lo que és mas que cierto que el convento
de Caller en su origen y principio no era desta Provincia de Aragón sino
de la Romana, a la qual pertenece el de Pisa en la Toscana. Que da
aquella señorya, que entonces estava en la cumbre de la rueda de fortuna,
era a la fazón la Isla de Cerdeña. Y no fé vano este pensamiento, fé
preva con lo que és mas que cierto que el convento de Caller en su origen
y principio no era desta Provincia de Aragón, sino de la Romana, a la
qual pertenece el de Pisa. Y lo fue muchos años hasta que por Bulla del
Papa fue traslado a esta de Aragón cerca del año de 1330, como lo he
visto en el libro M.S. de Coblliure. Fuele muchos años después de grande
importancia la elección de Arçobispo de aquella ciudad de Caller qué
fé hizo en la persona de fray Baltsar de Heredia, religioso desta Provin-
( 11 ) Ibidem, I, f. 13.

Notizie sui frati domenicani in Sardegna attraverso una cronaca cinquecentesca ...
cia de Aragón. En la qual instituyo la fiesta del Doctor de la Yglesia
Santo Thomas de Aquino en el tiempo deste monaster, dexando renta
para que cada año baxe en processión todo el cabido a festejarla en el
con mucha solemnidad regozijo. Murió yendo a Roma en el convento de
Santo Domingo de Genova cerca del año del 1560. Bien perdiera yo alargar
a qui la pluma si siendo Prior y lector de Theologia deste monasterio y
vicario general, y visitador de toda aquesta isla los años mil y quinientos y
noventa y quatre, huviera rebuelto los papeles de los Archivos del monastero
y del cabildo, y de la ciudad, y no pudiera dexar de topar con cosas de
estima, las quales callo por no hablar de coro y sin fundamento, que seria
monstruosidad en historia en historia tan fundada ( 12 ).
Segue il racconto della fondazione dei conventi cinquecenteschi
di Oristano e Busachi:
La casa de San Martin de la ciudad de Oristan de la Isla y Reyno de Cerdeña
fu fundada antes del año de 1570, en la Yglesia y Abadia del Santo
deste nombre por el maestro fray Pedro Ivan Porcel, hombre muy letrado,
hijo de habito del convento de Caller. Y fue acceptada en el capitulo que
fue celebrado a Orihuela el ano 1570. Huvo algunas contradicciones, aun
que luego las allano el Papa Pio quinto de buena memoria ( 13 ).
La de S. Hieronymo de la villa de Busaqui de la misma Isla y Reyno de
Cerdeña se fundó por el mismo tiempo, y fue acceptada en el proprio capitulo
celebrado en Orihuela el año de 1570. Fundola el Conde de Sedilo
don Hieronymo de Torrosano en un sitio mediano, y después a instancia
del Obispo de Ampurias don Ivan Sanna la traslado al muy regalado
y apazible que oy tiene en lo mas alto de la villa, labrando allí
un Dormitorio y paño de claustro qual de tan aficionado cavallero se
podia esperar. Todo ello se hizo en tiempo del Vicario general fray
Francisco Mexia Prior de Caller ( 14 ).
Nella tavola dei vescovi Diago fa un elenco delle personalità che
hanno conseguito un ruolo fondamentale nella storia dell’Ordine:
Tratado de los indices de todas las personas illustres de la Provincia de
Aragón, de la Orden de Predicadores, contenidas en los libros desta Historia:
( 12 ) Ibidem, II, f. 70.
( 13 ) Ibidem, II, f. 290v.
( 14 ) Ibidem.
205

206
SARA CHIRRA
Martyres, Sanctos Confessores, Beatos confessores, Insignes en santidad,
Religiosas y monjas de santa vida, Cardenales, Arçobispos: Fray Pedro
de Portillo, Arçobispo de Sacer (f. 163), fray Ivan de Passaviis, Arçobispo
de Sacer año 1392, Fray Balthasar de Heredia, arçobispo de Caller
(f. 271).
Obispos, Fray Sebastian, obispo de Galtellí (f. 219), Obispos que siendolo
tomaron el habito, Generales de la Orden, Provinciales de toda
España, Provinciales de la Provincia de Aragón, Vicarios generales de la
congregación, Inquisidores generales, de la Corona de Aragón, Inquisidores
particulares, Maestros del Palacio sacro, Auditores del Palacio sacro,
Capellanes de Papas, Penitenciarios de Papas, Lectores del Palacio
sacro, Confessores del reies, Chancilleres de reies, Executores, y albaceas e
testamentos de personas reales, Lectores de iglesias cathedrales, Escriptores,
o authores de libros ( 15 ).
Tra gli altri, quindi, il nostro Autore ricorda don Antonio arcivescovo
di Cagliari, don Ivan vescovo sulcitano, e don Pietro vescovo
di Terralba, riportando due lettere patenti, datate 1411 e 1412.
Soffermiamoci però su ciò che dice a proposito di don Pedro de
Portillo, confessore del re e arcivescovo di Sassari:
Luego después de la muerte de bendito varón frà Iuan de Puigventos,
tomo el habito de la orden y se hizo religioso el Obispo de Valencia don
Raymundo de Ponte varón señaladissimo e letras y santidad, cuya vida
queda largament escrita en el capitulo octavo del primer libro. Murió el
año de mil y trezientos y doze. En este año vivia en este convento con titulo
de Doctor frà Pedro de Portillo. A quien por ser religioso de prendas
hizo confessor fuyo el Rey don Jaime el segundo. Y lo era en el ano de
mil y trezientos y catorze, y tan tenido en mucho de la Reyna doña
Blanca, hermana carnal de san Luiys obispo de Tolosa de la orden del
serafico padre san Francisco, que en su testamento lo dexo albacea suyo
en compana de Gonzalo Garcia y de Vital de Villanueva. Que entrambos
los dos titulos le da el proprio rey en un instrumento publico, que
esta e nel archivo de Predicadores de Xativa, en el qual muerta ya la
Reyna, ordenó en Valencia por Abril de mil y trezientos y quatorze de
parecer de frà Pedro y de los otros dos albaceas que las dozintas libras
que la Reyna avia dexado para vestuaria de los frailes que en Predicadores
de Xativa estudiavan las lenguas Hebrea y Arabiga fé entregassen a
frà Guillermo de Mosquerolis, prior de las monjas de santa Maddalena
de Valencia, por no leerse ya aquellas lenguas en el dicho convento. Que
( 15 ) Ibidem, II, f. 15.

Notizie sui frati domenicani in Sardegna attraverso una cronaca cinquecentesca ...
en tal caso assí lo avia dispuesto la Reyna. Algunos años después llego frà
Pedro a ser arçobispo de Saçer en la isla y Reyno de Cerdeña cerca del
ano de mil y trezientos y veinte y siete ( 16 ).
Infine, l’ultimo convento sardo fondato nel XVI secolo è quello di
Sassari, del quale Diago ci dà notizia ultimando così la sua fatica:
La de San Sebastian y S. Pedro martyr de la ciudad de Saçer en Cerdeña
se fundó a 8 de Deziembre de 1595 por F. Iulio de Piziguinto
Cremones con el favor del Inquisitor de la Isla Alonso Peña, que aora lo
es de Logroño. Y con esta postrera casa de la Provincia doy fin a la Historia
della, sujetandola en todo y por todo a la censura de la Santa
Yglesia Romana, oy a 18 de Deziembre de MDXCIX a gloria de Dios, y
honra de sus siervos los Santos frayles Predicadores desta Corona de Aragón.
Deo gratias ( 17 ).
( 16 ) Ibidem, II, f. 163.
( 17 ) Ibidem, II, f. 292.
207

FRANCESCO CARBONI
SIGISMONDO ARQUER E DON GASPARE CENTELLES
NELLA BUFERA POLITICA DEL XVI SECOLO
SOMMARIO: 1. I protagonisti. Le fonti. – 2.a . Lo scacchiere politico sardo a metà
del 1500: lo scontro tra funzionari regi e ceti privilegiati (feudatari ed ecclesiastici).
– 2.b. I protocolli notarili: utili coordinate della società del
tempo. – 2.c. La vita culturale nella Sardegna del ’500: biblioteche e stampatori.
La circolazione delle opere di Lorenzo Valla, Erasmo da Rotterdam,
Petrarca, Ariosto, Bembo ed altri. – 3. La corrispondenza di Gaspare Centelles
con Sigismondo Arquer: 8 lettere. – 4. La sentenza dell’Inquisizione
contro Centelles. – 5. Sigismondo Arquer nel Regio Consiglio di Sardegna:
fortuna ed emarginazione e liquidazione dell’Avvocato Fiscale Regio. – 6.
La tortura e l’esecuzione di Sigismondo Arquer.
1. I protagonisti. Le fonti. – Marcello Cocco in Sigismondo Arquer
dagli studi giovanili all’autodafè (Cagliari 1987) ed in Fatti e
misfatti nella Sardegna del ’500. La Relazione Clavero-La Maison
(Cagliari 1991-1992) e Dionigi Scano in Sigismondo Arquer (Cagliari
1935) sono gli studiosi che hanno studiato con attenzione le
vicende di Sigismondo Arquer e, in particolare, il Cocco, le traversie
di Don Gaspare Centelles. Una valida sintesi delle tempeste dei decenni
centrali del XVI secolo si ritrova in Bruno Anatra (La Sardegna
dall’unificazione aragonese ai Savoia, Torino 1987). Agostino
Borromeo in Inquisizione e “conversos” nella Sardegna Spagnola (in
“L’Inquisizione e gli ebrei in Italia”, a cura di Michele Luzzati, Bari
1994) studia il criptogiudaismo, in particolare cinque casi: Gaspar
Maduxer (1572), Simon Bonfill (1578), Steve Meli di Isili, Gaspar
Pomar (1592), Antonio Angelo Carcassona (1592). Per il numero di
cause conosciute dal tribunale dell’Inquisizione si oscilla da 816 casi
(secondo Jaime Contreras, in “Algunas consideraciones sobre las relaciones
de causas de Sicilia y Cerdena”, nel 1985) a 767, secondo J.

210
FRANCESCO CARBONI
Contreras e G. Henningsen (nel 1986). Il caso di Sigismondo Arquer
ha richiamato fortemente l’interesse degli storici per la sanguinosa
e drammatica fine di questo alto funzionario regio che, per
portare avanti i processi contro gli abusi dei nobili, cade nell’accusa
di luteranesimo, ma il motivo di fondo è senz’altro politico: l’aver
proceduto come Avvocato Fiscale Regio a fulminare i processi contro
lo strapotere e la violenza dei nobili in Sardegna. Don Gaspare
Centelles y de Montcada era figlio di Eimerich de Centelles, barone
di Pedralba e divenne Castellano dei Castelli di Sassari e di Castello
Aragonese (cfr. F. Carboni, Gli officiali regi nelle Città della Sardegna
nei secoli XV-XVII, in “Annali della Facoltà di Scienze della Formazione”,
Università di Cagliari 1999). Nel 1552, per un diverbio
col giovane Duca di Gandia fu allontanato dalla Corte e relegato a
Pedralba, presso il fratello Miguel. Il suo “destierro” era ammorbidito
dalle lettere di Sigismondo Arquer e del prete valenzano Jeroni
Conques. Accusato di luteranesimo fu arrestato nel 1563 e bruciato a
Valenza il 17 settembre 1564. Don Gaspare stimava la cultura umanistica
italiana, come appare dalla relazione epistolare con Antonio
Minturno prelato italiano (se ne occupa anche Benedetto Croce). La
corrispondenza con Jeroni Conques consta di 15 lettere. Il Conques
viene arrestato dall’Inquisizione di Valenza nel marzo 1563. Alcuni
passi sono oggetto di discussione. Secondo il racconto di Conques per
il passo “acquae quae super coelos sunt laudent nomen Domini”, Gaspar
Centelles nega la presenza di acque sopra i cieli, secondo l’interpretazione
di Agostino Eugubino; un altro passo di discussione in forma
“cattolica” è “sinite mortuos sepelire mortuos suos” e “anima mea
in membris meis semper”. Il Conques informa il Centelles: “nella cattedrale
di Valenza si parla di Dio che balla e di San Giuseppe vergine
che lotta con la morte”; e mette in ridicolo il clero ignorante che viene
ascoltato e lodato da un pubblico ancor più ignorante e superstizioso
al quale tutto sembra oro colato. Le lettere, che dovevano essere lacerate
dal Centelles, secondo la preghiera di Conques, furono in seguito
causa della cattura del canonico valenzano. Il Centelles a Pedralba raccoglieva
in scambio culturale Sigismondo Arquer, Miguel Perez (studente
“riconciliato” nel 1567), Pedro Luis Verga “relaxado” nel 1579
e Conques. Quest’ultimo è uomo di grande cultura (legge anche l’Ecclesiaste
di Erasmo), traduce in lingua volgare il Libro di Giobbe (era
proibita dal 1560 la traduzione della Bibbia), critica l’ignoranza dei
predicatori e dell’alto clero valenzano (“el Consilio de los satrapos,
nuestros concionadores, baladrones infrutuosos”). L’atteggiamento
“nicodemita” del Conques, aiutato dal grecista Lorenzo Palmireno e
da Jaime Ferrus, professore a Valenza, gli permette di salvarsi e poi

Sigismondo Arquer e Don Gaspare Centelles nella bufera politica del XVI secolo
collabora con l’Inquisizione costituendo l’ariete per la condanna di Sigismondo
Arquer. Don Gaspare nel 1563 dichiara di aver incominciato
ad occuparsi di studi teologici nel 1548, quando inizia la sua amicizia
con Sigismondo.
2.a . Lo scacchiere politico sardo a metà del 1500: lo scontro tra funzionari
regi e ceti privilegiati (feudatari ed ecclesiastici). – L’Avvocato
Fiscale Regio Sigismondo Arquer lasciò la vita nell’auto da fé tenuto
a Toledo nel secondo giorno della Pasqua di Pentecoste del 1571.
Sigismondo Arquer studia a Pisa e diventa dottore in leggi e in teologia
(quando Don Giacomo Aymerich vi entra per iniziare i corsi di
diritto); egli insegna pandette a Siena. La sorella Petronilla si sposa
con Gerolamo Ram, nipote dell’Arcivescovo di Sassari. Lo scrivente
ha trovato nell’Archivio di Stato di Cagliari l’inventario dei suoi
beni, in data 30 giugno 1594; il 20 luglio si elencano i quadri, cioè
“un quadro de tela guarnide de fust ab la Image de nostra Senora y
son fill molt usat, un altre quadret de pulto de llenya de nostra Senora
ab lo fill en los brassos molt usat, un quadret xiquet de taula ab
la image de nostra Senora molt usat, una nostra senora ab son fill en
los brassos de bulto de paper de Napols, un quadret de taula de nostra
Senora dela llet dolza molt vell, un quadret de vidre veneçia dela
Anuntiatio de nostra Senora vell, un quadro de taula en lo qual es
pintado nostra Senora de daurat vell y affumat, altre quadro de taula
daurat dela Nativitat de nostre Senor poch usat, altre quadret de tres
reys molt antich y affumat, altre quadro de llenya qual era daurat
dela Invocatio de nostra Senora dela llet dolsa molt vell, un quadro
de tela sens guarnir en lo qual hies pinta lo Christo ab nostra Senora
y Sant Juan als costats”; vi sono diversi “devant de altar”, due “crucifixos
de llenya romputs en algunas parts, lo hu gran y laltre xich”,
diverse scritture di censi, di carte processuali (che sarebbe lungo
enumerare), il testamento del 10 giugno 1592 dela quondam “senora
Joana Arquera (sic) y Tarragona mare de dita defuncta”, l’inventario
della eredità “de dita Arquer y Tarrago a xxvi de juliol 1592 rebut”
da un notaio di Cagliari, un “acte de transactio y concordia entre
ditas senoras Joana Arquer y Tarrago, lo senor Pere Joan Arquer
y dita senora Patronilla Arquer y Ram “; non manca qualche libro
come “un llibre en espanyol de cavalleria molt vell y romput, un llibre
del saltiri de David y tres de fra Lluis de Granada vells, un volum
descripts destudiant volatichs, lletra diploma de altaria de una
ma de cosa de philosofia y logica de poca importantia”; il curatore
dell’eredità è Don Jacobus Ram.
211

212
FRANCESCO CARBONI
Il fratello Pietro Giovanni diventa Maestro Razionale e pubblica i
“Capitols de cort del Stament militar de Sardenya”.
I registri parrocchiali (Archivio Arcivescovile di Cagliari, Quinque
libri, Castello, vol. 1) riportano la nascita della figlia Monserrata:
in data 12 settembre 1575 si battezza la figlia di “mossen Pere
Joan Arquer y de senora Beatriu Terre, lan posat per nom Monserrada,
padri mossen Alfonzo, padrina la senora Arquera mara de dit
mossen Pere, ministre mossen Brugita”. Scorre il tempo e Pietro
Giovanni Arquer si colloca in matrimonio con “la noble dona Marquesia
Aymerich”. Il protocollo del notaio Orda, in data 22 dicembre
1593, riporta che “dona Marquesia Arquer y Aymerich com a tenint
poder per a estes y altres coses del senor Pere Joan Arquer arrendador
dels stats de Portugal y Massa, en lo dit nom, arrenda al
senor Steve Satta y Quensa y a mossen Marti Feressino de Sasser los
drets del port de Longosardo y Terranova de entrada y de exide de
totes y qualsevol robes y mercaderies pertenynts deguts y acostumats
pagar “; l’appalto decorre per tre anni, dal primo gennaio 1594, per
il prezzo di lire 1260, di cui 420 lire per ogni anno (lire 270 per il
porto di Longosardo e lire 150 per il porto di Terranova). Lo stesso
notaio il 28 marzo 1594 roga: “la illustre senora dona Marquesia Arquer
y Aymerich muller del illustre senor Pere Juan Arquer absent
del present regne y procuradora general ab libera y general administraccio
de dit son marit rendador del Estat de Portugal, tenint poder
… en dit nom confessa y en veritat regoneix al magnifich senor
Pere Santus olim receptor del Estat de Portugal per la Real Audientia
elegit, que li ha donades y pagades en lo modo contengut en los
contes … totes aquelles quatorze mil sis centes noranta dos lliures y
quinze sous y sis dines que dit Santus ha cobrades de les rendes del
Stat de Portugal”.
Il fratello Antonio è Coadiutore dei Maestro Razionale.
L’auto da fé fu il tragico epilogo delle lotte che dilaniarono Cagliari
e la Sardegna dal 1535: la pretesa propaganda luterana fu il
pretesto per la fazione nobiliare, prepotente ed avida di potere e di
facile arricchimento, per dare fuoco alle polveri ed eliminare uno
scomodo avversario politico. Nel memoriale difensivo che S. Arquer
scrisse nel carcere di Toledo fa riferimento ai nemici della sua famiglia:
gli Aymerich, gli Aragall, i De Sena, i Zapata, i Torrellas, i Fagondo,
i Carrillo, i Comprat, i Nin, i Manca, i Bellit, i Gualbes, i
Pastor, i Zatrillas, esponenti della nobiltà. Sono ostili anche i Campfullos,
i Fabra, i Bonfill, i Serra, i Peiron, i Cebrian, gli Atzeni, i
Llunell, uomini di diritto, notai, mercanti. Alcuni potenti canonici
completano le forze in campo contro il partito degli Officiali Regi;

Sigismondo Arquer e Don Gaspare Centelles nella bufera politica del XVI secolo
sono i canonici delle cattedrali sarde: Zapata, Aymerich, Montells,
Ruger, Corbu, Manca, Cariga.
La posizione dei Viceré e degli Arcivescovi assume una connotazione
particolare nei vari momenti del conflitto.
L’istruttoria del processo del Santo Ufficio contro Sigismondo
Arquer durò otto anni; egli era un esperto di diritto ed in dottrine
teologiche, avendo conseguito il titolo di dottore nello Studio di
Pisa ed avendo insegnato la disciplina nello studio di Siena. Scrive lo
Scano (pp. 10-11) che il suo sistema è abile, “si difende assaltando:
afferma che il Viceré Don Alvaro de Madrigal si è volto contro di lui
abbagliato dall’offa di due convenienti partiti matrimoniali, uno per
sé e l’altro per sua figlia; il Reggente la Reale Cancelleria Campfullos,
il Procuratore Reale Fabra e gli aiuti Gabriele Nin e Campos
non sono che prevaricatori; l’Azore Zapata uomo malvagio ed iniquo,
avvelenatore del Maestro Razionale Francesco Ram; il Canonico
Zapata uomo ignorante, che acquistò il decanato per 40 scudi,
complice di suo fratello Azore ed istigatore delle ribellioni del clero
contro il suo Arcivescovo; Francesco Zapata non degenere figlio di
Azore, che sposa, contro le leggi di Dio e degli uomini, Donna
Francesca Carrillo, già moglie di Francesco Ram, essendo questi ancora
in vita; i fratelli Montells gente rozza e pregiudicata; il Canonico
Ruger che per uno scudo e per una misura di grano tradì la fiducia
del suo Arcivescovo; il dottore Bonfill che non perdonò all’Arquer
l’avergli rifiutato la mano della sorella; Tomaso Aleu un sicario
di cui l’Azore Zapata si serve per impaurire i suoi creditori; gli Aymerich,
uomini di mala vita e facinorosi che non si peritarono di far
bastonare il consigliere terzo Bartolomeo Selles, di trucidarne il fratello
e di assaltare il Convento di san Domenico; i Torrellas violenti
ed esportatori fraudolenti di grano, insieme agli Aymerich ed ai Fagondo,
contro i privilegi delle città; il Canonico Aymerich e Corbu,
prelati turbolenti, che fecero affiggere ingiuriosi monitori contro il
loro Arcivescovo; Don Gerolamo de Aragall, Governatore di Cagliari
che, per realizzare i suoi ambiziosi sogni, venderebbe l’anima al
diavolo; Don Antioco Bellit orditore, col congiunto fra Arcangelo
Bellit, di infami tranelli a danno dell’Arquer; Don Andrea Manca
scostumato e linguacciuto; i canonici Manca e Cariga che, per sordido
interesse, sollevarono disgustose agitazioni contro l’Arcivescovo
Alepus, servendosi di un chierico scostumato; Don Gaspare Cariga
che mise mano alla spada contro lo stesso prelato; Don Pietro Vaguer
che, per l’ambizione della Presidenza del Regno gettò freddamente
il dottore Giovanni Antonio Arquer (padre di Sigismondo)
nelle carceri dell’Inquisizione ed accusò il Vicerè e la di lui consorte
213

214
FRANCESCO CARBONI
di pratiche diaboliche; ed infine Don Salvatore Aymerich, capo ed
animatore instancabile di quest’accolta di malvagi, uomo violento,
facinoroso e falsario, che avvelenò il suo patrigno, che fece bastonare
il Bartolomeo Selles ed ucciderne il fratello, che organizzò l’assalto
del Convento di San Domenico e che infine si rese complice di una
mala femmina per sopprimere l’Arquer, prima col veleno e poscia
con le calunnie”.
Per meglio comprendere le lotte che si scatenarono occorre tenere
presenti le istituzioni in campo: il Viceré, il Reggente la Reale Cancelleria,
il Parlamento, il Regio Consiglio (presieduto dal Viceré e
composto dal Reggente la Reale Cancelleria, dall’Avvocato Fiscale
Patrimoniale, da un Giudice della Regia Curia, dal Procuratore Reale,
dal Maestro Razionale), i Governatori di Cagliari e di Sassari (che
avevano funzioni politiche, giudiziarie ed amministrative). La carica
di Governatore di Cagliari e di Gallura, per oltre un secolo fu in
mano alla famiglia Aragall; la carica di Alcaide del Castello di Cagliari
fu occupata nel corso del ’500, dai Zapata, prima Azore, poi il
figlio Francesco, e quindi, il nipote Giuseppe (cfr. F. Carboni, Gli
officiali regi, cit.).
Don Antonio de Cardona diventa Viceré con patente del 16 gennaio
1534; era cugino del Re Ferdinando (il padre Don Giovanni
Raimondo Fola, primo Duca di Cardona, aveva sposato Aldina Enriquez,
sorella della Regina Giovanna). Sigismondo Arquer lo considera
cognato di Carlo V. Il donzello Azore Zapata, Alcaide del Castello
di Cagliari aveva stretti rapporti di parentela con gli Aragall,
gli Aymerich, i Sena, i Manca, i Cariga, i Cedrelles, i Castelvì.
Don Salvatore Aymerich era signore di Mara e di Gesturi; nel 1542
con atto notarile rogato in Valenza presso il notaio Pietro Sabato acquista
da Antonio de Erill i villaggi di Gesico, di Goni, di Asuni
(che l’anno dopo rivende a Pietro Sanna), ed i villaggi di Samassi,
Samatzai ed Ussana che nel 1543 rivende a Mattia Cervellon, a Filippo
Cervellon ed a Bonfil. La sua influenza era consolidata dal fatto
che le casate Massa Carroz dei Principi di Salerno e dei Conti di
Oliva gli avevano affidato l’amministrazione dei feudi, circa la metà
della Sardegna. Carlo V, con diploma del 20 dicembre 1535 lo aveva
fregiato del titolo nobiliare, col diritto di inserire il suo scudo di
famiglia sull’aquila imperiale.
Il Viceré Antonio de Cardona entra in dissidio con le casate dei
nobili Aymerich, Zapata, Sena. Nel 1539-1540 Don Salvatore Aymerich,
Don Francesco De Sena, Governatore di Sassari, e l’Alcaide
Azore Zapata si recano a Madrid, o per sfuggire al Viceré o per tramare.
Nei primi sei anni del Viceregno Cardona emerge la malversa-

Sigismondo Arquer e Don Gaspare Centelles nella bufera politica del XVI secolo
zione del Procuratore Reale Alfonso Carrillo. Il Procuratore Reale,
competente per la gestione del Patrimonio e dei diritti Regi (come le
saline, le miniere, le tonnare, gli arrendamenti, i naufragi, le prede, i
diritti ab intestato, e così via), non poteva esercitare l’attività economica
privata. Carrillo, con i guadagni illeciti, acquista i feudi di Costa
de Vals e del Meilogu, dalle nobili sorelle Francesca ed Elvira
Enriquez figlie di Enrico Enriquez, suocero e zio di re Ferdinando.
Il Carrillo, che aveva sostituito il cognato Fabra nella carica di Procuratore
Reale, per questa sua attività abusiva, fu rimosso dal posto e
sostituito da Don Antonio Ravaneda; in seguito, forte degli appoggi
politici e con la corruzione, riacquista il suo officio. Il Cardona risolleva
poi la questione dei rendiconti, per la difesa dei diritti regi:
sia Carrillo che l’Alcaide Azore Zapata considerano una grave offesa
l’inizio degli atti per il rendiconto e per la rivendicazione dei feudi
di Costa de Vals e del Meilogu. Altri cavalieri vengono accusati di
aver falsificato registri e documenti processuali: Don Ranieri Bellit
(del ceppo Aragall) e Don Salvatore Aymerích (che pretendeva il villaggio
di Gesturi contro i Dedoni, come parte del feudo di Villamar
acquistato dal nonno Pietro Aymerich nel 1480, per 8810 lire alfonsine).
Questi provvedimenti accendono la miccia delle famiglie lese
dall’azione del Vicerè e di coloro che avevano legami di parentela ed
economici:
• nel Capo di Cagliari, gli Aymerich, gli Aragall, i Zapata;
• nel Capo di Sassari i De Sena, i Bellit, i Manca, i Sella Gambella,
i Virde, i Marongiu di Sassari.
Don Blasco di Alagon, Conte di Villasor, parteggia per il Viceré e
ne sposa la figlia Anna. In queste difficoltà il Vicerè volle come consigliere
Giovanni Antonio Arquer, energico difensore degli interessi
e dell’autorità della Corona. Egli aveva quattro figli: Sigismondo,
Pietro Giovanni, Antonio e Petronilla (sposata a Gerolamo Ram).
Azore Zapata e Don Francesco de Sena, per denigrare il Viceré ed
il Consigliere, si recano a Madrid, facendo poi presentare un memoriale
a Carlo V, dove chiedevano l’allontanamento del Viceré e dei
suoi ministri.
L’Arquer procede nelle sue istruttorie, aiutato dal Maestro Razionale
Giovanni Ram. Per l’affare Carrillo, dopo l’ordine regio che gli
commissiona l’inchiesta, assieme al Viceré ed all’Arcivescovo di Cagliari,
lo spagnolo Domenico Pastorello, fu comandato al Carrillo di
recarsi a Sassari per presenziare all’esame dei conti affidato ad Arquer,
al Maestro Razionale e ai periti Pietro Mora ed Andrea Orrù.
Il Carrillo viene condannato in primo luogo alla restituzione delle
somme percepite indebitamente ed, in secondo luogo, i feudi di Co-
215

216
FRANCESCO CARBONI
sta de Vals e di Meilogu sono rivendicati a favore del Patrimonio
Regio. Don Salvatore Aymerich mobilita le amicizie potenti di Don
Pietro Massa Carroz, di Donna Brianda Massa e della Principessa di
Salerno, per influenzare la regina.
Il Viceré, pur lasciando il governo nelle mani dell’infido Don Gerolamo
de Aragall, si reca in Spagna e sventa gli intrighi ed a metà
del 1541 recupera prestigio politico. Nel 1542 la salute dell’Arcivescovo
comincia a vacillare. Il vecchio Carrillo si spegne, lasciando
eredi i figli, Michele ed Isabella (che si sposa con Galcerano Cedrelles,
dai quali nacque poi una figlia che andò sposa a Don Andrea
Manca di Sassari). Michele Carrillo morì precocemente ed i suoi
due figli, Sebastiano e Francesca, sono ammessi sotto la tutela di
Azore Zapata, che si giovò del patrimonio dei pupilli: il figlio Francesco
sposa donna Francesca, anche se era già sposata con don Francesco
Ram, Maestro Razionale, nipote dell’Arcivescovo di Sassari
Alepus, ma il decano Zapata, fratello di Azore fa istanza per l’annullamento;
la figliola di Azore Zapata sposa Don Sebastiano. Ram intenta
diversi processi per i feudi Costa de Vals e Meilogu; il feudo di
Las Plassas, comprato da Azore Zapata, sembra sia stato acquistato
da Don Pietro Rupebertino con la dote della nipote di Don Alfonso
Carrillo, Donna Isabella Cedrelles. Nel 1550 muore Donna Violante,
moglie di Don Salvatore Aymerich; questi si risposa con Donna
Maria Margens, figlia di Bernardo Margens, Signore di Parte Valenza
e di Parte Barigadu.
Il patrimonio di Azore Zapata era limitato alle risorse dell’Alcaidia
del Castello di Cagliari ed ai proventi della Scrivania della Procurazione
Reale. La rivendicazione delle somme stornate da Alfonso
Carrillo mette in allarme gli interessi dei Cedrelles, dei Manca e di
Azore Zapata, che si lanciano contro gli Arquer. Un altro motivo di
attrito consiste nella lite delle famiglie Manca e Cariga contro il Maestro
Razionale Don Antonio Ravaneda (col patrocinio dell’Arquer)
in merito ai villaggi di Tiesi, Bessude e Cheremule. La forza dell’Arquer
controbilancia la potenza di Don Andrea Manca e del Decano
Don Giovanni Manca e dell’arciprete Cariga. Le famiglie nobili Sassaresi
Manca e Cariga, sostenute dai Bellit e dai De Sena, aiutano il
Capitolo della Cattedrale contro l’Arcivescovo, assorbito dagli impegni
nel Concilio di Trento. Il chierico Cosma Pastor fa arrestare per
eresia il medico Tommaso Rocca di Sassari, che aveva inibito il Pastor
di frequentare la sua casa perché attentava all’onore di una sua
sorella.
Un terzo motivo di odio di questi due prelati Manca e Cariga
contro gli Arquer consiste nell’aiuto fornito dagli Arquer all’Arcive-

Sigismondo Arquer e Don Gaspare Centelles nella bufera politica del XVI secolo
scovo di Torres Don Salvatore Alepus, che volle elevare alla dignità
di decanato un canonicato di Sorres, con le prebende di Bessude e di
Cossoine, dal 1532 godute da Don Giovanni Manca.
Occorre tenere presente che le famiglie Arquer ed Alepus avevano
rapporti di affinità: una figlia di Arquer, Petronilla, era sposata con
Giovanni Ram, nipote dell’Arcivescovo (eminente figura del clero
sardo). La costante dell’antagonismo fra i vescovi e i capitoli si sprigiona
con una violenza inusitata: dentro la Cattedrale di Sassari l’arciprete
Cariga oltraggia il prelato, mentre Don Gaspare Cariga pone
mano alla spada. Un chierico, prezzolato dai canonici, Cosma Pastor
intenta all’Alepus diversi processi, accusandolo di appropriazioni indebite.
Il Consiglio Supremo per sistemare le cose in Sardegna incarica
Don Pietro Vaguer, Vescovo di Alghero, come visitatore del regno,
col potere di inquisire tutti i pubblici officiali, escluso il Viceré. Don
Salvatore Aymerich, che nel 1541 era in Castiglia, con cavalli e servi,
nel 1542 si trova a Valenza dove, informato della nomina del Visitatore,
si affretta a rientrare nell’isola.
Il 7 aprile 1543 si aprono le Corti Sarde, presiedute dal Viceré,
ma dirette dal Vaguer, Visitatore e anche Commissario Generale del
Cardinale, Inquisitore Generale. Nello stamento militare domina
l’Aymerich, specialmente per la rappresentanza del Conte d’Oliva e
dei Massa Carroz, possessori dei più vasti feudi: Don Pietro Massa
aveva 3787 fuochi, il Conte di Quirra 3151 fuochi. il Conte di Oliva
2466 fuochi e la principessa di Salerno 771 fuochi, Don Michele
Carrillo 900); nello stamento Reale, la prima voce è Giovanni Antonio
Arquer, consigliere capo della Città di Cagliari (contro le aspirazioni
di Don Cristoforo Aymerich, congiunto di Don Salvatore).
Nel 1548 a Cagliari il nuovo arcivescovo Don Baldassarre de Heredia,
dell’ordine dei Predicatori, riceve l’accoglienza ostile del capitolo
(dove dominano i canonici Zapata ed Aymerich): l’arcivescovo
mette mano ai benefici ecclesiastici parrocchiali, divisi tra i canonici
più influenti, che per la cura delle anime, inviavano come sostituti
preti ignoranti ed incapaci
Il 18 marzo 1550 viene nominato Viceré di Sardegna Don Lorenzo
de Heredia, contro le aspettative di Don Gerolamo d’Aragall, che si
schiera cogli Aymerich e coi Zapata contro gli Arquer. Il 20 agosto
1551 viene nominato il Reggente la Reale Cancelleria Don Giacomo
Montanans. In questo periodo Bartolomeo Selles, nel palazzo Viceregio,
biasima gli Aymerich e i soci per le esportazioni di grano, lamentando
che nelle carestie gli uomini diventino ladri e le donne prostitute.
Don Salvatore Aymerich, Don Cristoforo Aymerich, i fratelli Mel-
217

218
FRANCESCO CARBONI
chiorre e Filippo Torrellas, i fratelli Giovanni e Francesco Limona,
Don Vincenzo Fagondo sono parenti, amici, soci per commerciare
in larga scala, contro i privilegi di Cagliari ed ostacolano la formazione
della riserva, come appare dalla relazione del Visitatore Clavero.
Il 13 aprile 1552 il consigliere terzo della Città di Cagliari viene
percosso con un nerbo di bue (pochi giorni prima nel Consiglio di
Cagliari vi erano state ingiurie tra Don Melchiorre Torrellas e Bartolomeo
Selles). Ad istanza dei Consiglieri di Cagliari, i fratelli Melchiorre
e Filippo Torrellas sono arrestati.
L’Arquer, isolato dai suoi amici consiglieri, per contrastare i capitoli
dello Stamento Militare, presenta un contromemoriale teso ad
ostacolare la vendita e l’esportazione del grano, richiesti dai feudatari.
Il Viceré per le bastonate a Selles (secondo il privilegio di Re Alfonso
V, del 5 maggio 1441, con cui si prescrivono pene rigorose
per chi ingiuria o maltratta i Consiglieri della Città) emette un pregone
in data 13 aprile 1552: premio di 100 ducati per chi arresta i
colpevoli; pena di morte per chi li aiuta. Vengono poi arrestati i fratelli
Torrellas, Don Salvatore Aymerich, Don Bartolomeo Selles. Si
richiede la tortura contro Don Melchiorre Torrellas, che, a sua volta,
si appella al Capitolo di Corte del 26 maggio 1484 (esenta dai
tormenti i nobili ed i cavalieri, quando non fossero accusati di speciali
delitti). Nel Regio Consiglio, in data 17 dicembre 1552 si chiede
che Torrellas fosse esentato dalla tortura richiesta dal Fisco. Don
Pietro Aymerich (nipote di Don Salvatore Aymerich, perchè figlio
di Don Cristoforo Aymerich) viene dalla Gallura con una banda di
30 vassalli a cavallo ed armati, entra di notte nel Convento di San
Domenico, dove si era rifugiato Gerolamo Selles, che viene trucidato.
Da Madrid il Principe Reggente doveva provvedere a questi problemi:
Don Salvatore Aymerich agli arresti domiciliari (come mandante
dei delitti Selles); i Zapata, godono di ricchezze accumulate a
danno del Patrimonio Regio; coalizione di interessi contro l’Arcivescovo
di Sassari; Viceré esautorato e dominato dal Governatore Don
Gerolamo d’Aragall; assalto al Convento di San Domenico. In questa
situazione avvelenata l’invio di Sigismondo Arquer, quale Avvocato
Fiscale Regio mira a dissolvere la turbolenza. L’Arquer si appoggia
al Viceré ed ai più alti prelati della Sardegna. L’Aymerich ed i
suoi aderenti procedono a: fare rimostranze al Re, tramite Federico
Riccardi, contro la nomina di Arquer; a mobilitare i canonici di Cagliari
e di Sassari. Sigismondo Arquer deve fare l’inchiesta per la
questione Bartolomeo Selles e per l’eccidio nel Convento di San Domenico;
procede all’arresto di Don Salvatore Aymerich (signore di
Mara), di Don Giacomo Aymerich, di Don Vincenzo Fagondo e di

Sigismondo Arquer e Don Gaspare Centelles nella bufera politica del XVI secolo
altri, mentre Don Pietro Aymerich fugge a Roma. In difesa di Don
Salvatore Aymerich intervengono: Antonio de Aiatzo, di Mamoiada,
che raccoglie testimoni in Gallura; Don Pietro e Donna Brianda
Massa Carroz, che tramano a Corte. Il decano Pietro Sanna, Conservatore
Apostolico, fa istanza di scarcerazione per Don Salvatore Aymerich,
presentando i privilegi dei Cavalieri dell’abito di San Giacomo
(il Viceré non accoglie le richieste); nomina Vincenzo Fagondo
Familiare dei Santo Uffizio, per sottrarlo alla giurisdizione secolare;
intriga coi canonici della cattedrale ed ottiene dall’Arcivescovo de
Heredia una solenne esortazione al chierico Rigini perché desista
dall’accusa contro Aymerich e Fagondo. Questi tentativi vanno a
vuoto; le famiglie raccolgono 10 mila ducati che offrono al Fisco,
come garanzia per la scarcerazione di Don Salvatore, ma Sigismondo
Arquer nega la garanzia.
Don Pietro Aymerich a Roma (dove era fuggito dopo aver organizzato
l’omicidio Selles, nel convento di San Domentico), con le
credenziali dei Canonici Aymerich, Zapata e Sanna ottiene il condono
della Penitenzieria della Santa Sede. Col condono del principale
colpevole vengono a cadere le istruttorie contro i complici. Il Viceré
non accoglie il condono ed i Canonici Aymerich e Corbu, dietro parere
del legale Nicola Serra, con l’intervento del notaio Sgrecho, scomunicano
il Viceré ed il Regio Consiglio, affiggono manifesti monitori
nelle chiese ed in altri luoghi sacri; dichiarano che col condono
della Santa Sede doveva cessare ogni azione contro gli autori e l’uccisione
di Gerolamo Selles.
L’Avvocato Fiscale Sigismondo Arquer chiede che il Viceré convochi
un consiglio straordinario con la presenza degli Arcivescovi di
Cagliari e di Oristano (questi Inquisitore Apostolico); espone i pericoli
dell’agitazione dei due canonici e la gravità dell’oltraggio ai rappresentanti
del Re coi libelli di scomunica; afferma che il condono a
Don Pietro Aymerich doveva ritenersi giuridicamente e teologicamente
inefficace, perché ottenuto colla formula “subreptitie et ob
reptitie”, cioè colla condizione della esattezza dei fatti esposti dall’instante
Don Pietro Aymerich. Egli propone di mantenere gli arresti
fatti e di procedere contro i promotori e gli esecutori dei libelli. Il
Regio Consiglio fa incarcerare Serra e Del Sgrecho nelle carceri di
San Pancrazio e poi li fa imbarcare per la Spagna. Alla fine del 1555
i due Canonici ed i due legati sono in Spagna dove trovano mal disposti
il Principe ed il Supremo Consiglio: il canonico Aymerich è
rinchiuso in una segreta di Valladolid (Don Pietro Massa offre la garanzia);
il dottor Serra e Don Giacomo Aymerich sono rinchiusi nelle
carceri di Barcellona. Il Canonico Corbu si lamenta con la Santa
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FRANCESCO CARBONI
Sede e dichiara di aver di nuovo scomunicato il Viceré ed il Regio
Consiglio.
L’Alcaide Zapata viene fatto arrestare dal Viceré. Un accordo tra
Visitatore e l’Aymerich attua il rovesciamento della situazione: l’Arquer
è gettato in carcere (accusato di appropriazione indebita a danno
del Patrimonio Regio), sono arrestati l’Avvocato Fiscale Mercet
(sostituito da Don Gerolamo Olives) ed il Maestro Razionale Ram
(sostituito da Salvatore Aleu). Don Salvatore Aymerich fiancheggia
l’azione del Vaguer mettendo in movimento i suoi amici a Corte:
Dea Lobera, di Barcellona, Ritardi, Poca, di Madrid, Soriano di Valladolid,
Raimondo di San Martino, di Maiorca, Alessio Fontana,
uno dei Segretari di Carlo V; quest’ultimo per acquistare una scrivania
da un certo Pietro Ximenes, ebbe da Don Salvatore Aymerich,
nel 1544, la somma di 55 ducati.
L’Arquer appella dalla sentenza: i reati imputatigli sono qui d’indole
patrimoniale e non criminale. La reggenza dell’ufficio di Avvocato
Fiscale viene poi data a Giovanni Atzeni, avvocato dell’Aymerich.
Questi induce il Vaguer ad avvalersi della facoltà, incontrollabile,
di Commissario del Grande Inquisitore per far rinchiudere l’Arquer
nelle carceri del S. Officio, tagliandogli ogni possibilità di difesa.
Don Pietro Vaguer, come rappresentante del S. Officio, inizia un
processo in materia religiosa contro il Viceré Cardona, la consorte
Donna Maria ed altri familiari, accusati di eresia, di esorcismo e di
adorare il diavolo. Cardona è richiamato a Corte per discolparsi: il
Reggente Principe Filippo, il Supremo Consiglio d’Aragona e l’Inquisitore
Generale (che segretamente aveva inviato Don Girolamo
Zurita, segretario del S. Ufficio per fare un’inchiesta) comprendono
che le accuse sono insussistenti e derivano dall’odio dei nobili sardi e
dall’ambizione del Vescovo di Alghero. Il fronte dello scontro viene
riequilibrato: il Viceré è reintegrato; Don Pietro Vaguer è rinviato
alla sua Diocesi (rimosso dal posto di Reggente nel Supremo Consiglio
d’Aragona); l’Atzeni viene destituito; l’Alguazile Pietro Alfonso
Despues incarcerato e poi espulso; Simon e Giovanni Sanna del S.
Officio sono privati delle loro cariche; i testimoni falsi, in parte incarcerati,
ed in parte bruciati. Dopo 13 mesi e 16 giorni di prigionia
l’Arquer viene liberato, ma Don Pietro Vaguer, da Alghero gli proibisce
di esercitare l’avvocatura. L’Arquer in Spagna ottiene di essere
reintegrato negli offici ed nel titolo di cavaliere trasmissibile ai discendenti.
In precedenza, gli anni dal 1547 al 1549, sono per il Viceré
Cardona apparentemente tranquilli; Giovanni Antonio Arquer,
a Madrid è patrocinante di molte ricche famiglie, di fronte alla Corte
ed al Supremo Consiglio d’Aragona. La famiglia Massa Carroz

Sigismondo Arquer e Don Gaspare Centelles nella bufera politica del XVI secolo
(Donna Brianda e Don Pietro Massa) gli affida diverse cause, diminuendo
così il potere di Don Salvatore Aymerich che era loro amministratore.
Una lettera di Giovanni Antonio Arquer, nel luglio 1549,
invita Don Salvatore Aymerich ad affidare il patrocinio, fino a quel
momento dato a Giovanni Atzeni, anche a suo figlio Sigismondo,
dividendo i salari in due parti uguali, e concedendo a Sigismondo la
capitania della Curadoria Seurgus, con diritto di sostituzione in favore
di Michele Campillo.
Il 30 maggio 1549 il Cardona viene richiamato, pur con l’assegnazione
di mille ducati annui da prelevarsi dal Marchesato di Oristano
e dalla Contea del Goceano: si apre la vacanza e viene nominato
Presidente del Regno Don Girolamo d’Aragall. La situazione diventa
incandescente. L’intervento di Sigismondo Arquer aveva portato
all’arresto di potenti persone del partito Aymerich. Rimaneva libero
Azore Zapata; l’improvvisa morte del Maestro Razionale Francesco
Ram lo coinvolge in pieno nelle richieste in corso. Francesco
Ram nel 1550 aveva sostituito nella carica il padre Giovanni, divenuto
cieco; aveva poi contratto matrimonio con Donna Francesca
Carrillo, nipote di Don Alfonso Carrillo, ma il matrimonio non fu
riconosciuto dal tutore Zapata, che aveva intrigato per le nuove nozze
col figlio Don Francesco; mentre si disputava per diverse liti di
competenza dei due fori, civile ed ecclesiastico, Francesco Ram moriva
repentinamente con indizi di avvelenamento. Poiché la madre
dell’ucciso deponeva contro Zapata, questi è sottoposto a processo.
Don Salvatore Aymerich, per uscire dalla difficile situazione, organizza
la desistenza dall’accusa dei parenti dell’ucciso Selles: la vedova
è circuita e la figlia di Girolamo Selles, Anna, viene fatta sposare
con Giacomo, figlio bastardo di Don Salvatore, che si era addottorato
nello studio di Pisa. Alla figlia dell’ucciso Girolamo Selles veniva
costituita la dote coi seguenti censi: lire 200 da Don Vincenzo
Fagondo, lire 900 dalla consorte di Don Pietro Aymerich, lire 300
dalla consorte di Don Giacomo Aymerich, lire 800 dal suocero Don
Salvatore, scudi 200 da Don Michele Torrellas, implicati o mandanti
dell’omicidio.
Alla fine del 1555 muore il Viceré De Heredia, sostegno di Sigismondo
Arquer; la reggenza viene data a Don Girolamo d’Aragall,
Governatore di Cagliari e di Gallura. L’Aragall, appena insediato,
sostituisce i membri del Regio Consiglio (viene inserito Antioco
Porcell cugino di Don Salvatore): l’Arquer si trova come una pecora
tra i lupi: “e io pobretillo quede como oveja entre los lobos triste y
solo”. Zapata in pubblica udienza del Regio Consiglio, ingiuria l’Arquer
e passa a vie di fatto, senza che l’Aragall batta ciglio; l’Arquer
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FRANCESCO CARBONI
intenta il relativo processo, ma Zapata dichiara il giudice come sospetto
a suo riguardo. Arquer informa il Re con dettagliato memoriale.
Don Giacomo Aymerich ottiene la libertà, il fratello Canonico
Giovanni ed il Corbu, il Serra e il Del Sgrecho sono inviati a domicilio
coatto a Valladolid.
Nel 1556 si verificano alcuni avvenimenti decisivi: il 22 febbraio
Don Salvatore Aymerich, in carcere da due anni, inoltra ad Aragall
un ricorso contro l’Avvocato Fiscale Regio Sigismondo Arquer, definito
sospetto nei suoi riguardi; a metà anno l’Arquer è tratto in arresto
e, poi, in data 15 settembre, il dottor Antioco Porcell è incaricato
di reggere l’officio di Avvocato Fiscale Regio, durante l’impedimento
di Arquer; in seguito alla morte di Francesco Ram, Maestro
Razionale, ai primi di ottobre viene nominato Alessio Fontana, amico
di Don Salvatore; il 7 ottobre 1556 Don Salvatore Aymerich è
dichiarato assolto. Gli Aymerich organizzano un intrigo tramite una
donna malfamata, Aldonsa Bombuya: questa ospita Sibilla Moya
(che era difesa in una causa dal padre di S. Arquer e accedeva facilmente
in casa Arquer) e la convince ad avvelenare Sigismondo; il
tentativo non viene portato a termine, anzi la Moya espone il fatto a
S. Arquer, che, d’accordo col padre, informa l’Arcivescovo De Heredia.
L’Arcivescovo chiede consiglio al Canonico Ruger legato al decano
Zapata da vincoli di interesse, ed avversario di Arquer, nonostante
una riconciliazione in occasione del Giubileo. Gli Aymerich
sono informati dal Ruger sulla scoperta dell’intrigo. Ancora il Ruger
imbastisce una serie di prove per dimostrare che l’Arquer, con relazioni
illecite, aveva subornato la donna contro i suoi avversari. Il Reggente
Aragall ed il Regio Consiglio accolgono le accuse e fanno arrestare
l’Avvocato Fiscale Regio Sigismondo Arquer. Il 3 aprile 1558 la Principessa
Giovanna, sentito il Supremo Consiglio d’Aragona, libera ed
assolve l’Arquer dalle accuse infamanti della Bombuia, orchestrate da
Don Salvatore Aymerich e da Azore Zapata (sono decisive le testimonianze
del Veghiere e dell’Assessore, presenti, in modo discreto, ad alcuni
colloqui imputati all’Arquer dai suoi nemici); intanto l’Aragall
perde la Reggenza per la nomina (in data 26 agosto 1556) di un nuovo
Viceré da parte del Re: Don Alvaro de Madrigal.
2.b. I protocolli notarili: utili coordinate della società del tempo. –
Negli atti notarili è possibile recuperare momenti di vita economica
e sociale che possono servire per una maggiore comprensione dello
scontro politico in atto e sono comunque utili per valutare la com-

Sigismondo Arquer e Don Gaspare Centelles nella bufera politica del XVI secolo
plessità dei fenomeni. In questo lavoro forniamo alcune informazioni
che sono anticipazioni di un lavoro più ampio, che è in itinere.
Il giorno 7 ottobre 1536 Giovanni Antonio Arquer riceve lire 3857
dalle rendite del Marchesato di Oristano (A.S.C., Atti legati, vol. 885,
notaio Antonio Olivar). Nel 1553 Giovanna Arquer, moglie di Antonio
Giovanni Arquer e madre di Sigismondo, vende l’Officialia della
Incontrada della Curadoria Seurgus a mossen Miguel Campillo
(A.S.C., Atti legati, vol. 621, f.58); nel 1560 l’Officiale della Curadoria
Seurgus è Giovanni Adceni, che risiede a Gergei (A.S.C., Atti legati,
vol. 626, f.6). Nel 1578 la Reale Udienza fa una “intima passaggi”
per Gesico e Mandas, da Giovanni Peiro, Proc. di Tiberio Sanna, a
Pietro Giovanni Arquer (A.S.C., Atti sciolti, vol. 886). Il 12 novembre
1546 Caterina Cervero, vedova di Bonifacio Cervero vende alcuni
beni (A.S.C., Atti legati, vol. 617). Baldassarre Cerveron, secondo il
Visitatore Cravero, è parente degli Arquer. Nel 1546 Don Blas di Alagon,
Geronimo Comelles e Pietro Moro, da una parte e Matias Cavaller
e Simone Parascosso, dall’altra, fanno un contratto notarile per un
“creditum sive litteram crediti” di 400 scudi, che deve ricevere Don
Gomez Xuarez de Figueroa ambasciatore di Spagna che sta a Genova
(A.S.C., Atti legati, Cagliari, vol. 677).
Nel 1555, Hieroni Comelles è “receptor” del Marchesato di Oristano
e contratta un censo di lire mille con Tiberio Sanna (A.S.C.,
Atti sciolti, Cagliari, vol. 255).
Non bisogna prescindere dalla matrice schiavistica della società del
tempo che trovava nuova linfa nella lotta contro il turco, nella guerra
di corsa, nel diritto di preda, nei traffici lucrosi di mercanti spregiudicati
che giocavano in contemporanea su tavoli tra loro nemici.
Nel 1557 un liberto, Ali del Governador e la moglie, Fatima di
mossen Hieroni Comelles, ricevono da mossen Antoni Calabres 15
scudi per pagare il resto del riscatto di Fatima. Alì farà i seguenti servizi
per Calabres: tagliare la legna per la casa, portare tutta l’acqua
necessaria per bere, “penyar la cavalcadura, netejar la mundicia, donar
recapte al formaje ala primera sal” (A.S.C., Atti legati, Cagliari,
vol. 625).
Nel 1546 mossen Francesco Sarroch di Stampace fa una procura
a Joani Meli di Sedilo per 100 ducati d’oro, della lettera di mossen
Marco Cavaller: i ducati devono essere consegnati a mossen Miguel
Vilasclars (A.S.C., Atti legati, Cagliari, vol. 677). Nel 1571 Antoni
de Quenza e Jacobo Sarroch contrattano l’arrendamento delle “carnisserias”
(A.S.C., Atti sciolti, Cagliari, vol. 886).
Nel 1561, in data 11 luglio Hamet di mossen Fagondo riceve da
mossen Gaspar Angel Llunell una somma in ducati per pagare il ri-
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FRANCESCO CARBONI
scatto di sua moglie Barca; promette di pagare la somma, ma, a richiesta,
durante il tempo del prestito, governerà il cavallo, portando
l’acqua “graciosament” (A.S.C., Atti sciolti, Cagliari, vol. 256). Nel
1570, vi è l’inventario dei beni di Bernardo Fagondo, mercante di
Genova (A.S.C., Atti Legati, Cagliari, vol. 1560).
Nell’anno 1538 Geronimo Selles vende pezze di stoffa a Villasor
(A.S.C., Atti legati, vol. 618).
Nel 1547 Giovanni Selles è secondo consigliere di Cagliari e fa un
contratto con Giovanni Guio (A.S.C., Atti legati, vol. 618). Nel 1553
un contratto per 250 scudi è firmato da Giovanni Selles, mercante di
Alassio (ibidem, Atti legati, vol. 621); lo stesso tratta 207 ducati con
Antonio Fortesa e con Vincenzo Bacallar (Ibidem). Nel 1555 (22 giugno)
Giovanni Selles vende al magnifico Geronimo Terre un censo di
lire mille con la pensione di lire 80 (Ibidem, vol. 623).
Beatrice Mombuy, nel 1547 è presente ad un atto notarile per
vendere una casa (A.S.C., Atti legati, vol. 618, f.62.). Nello stesso
periodo (A.S.C., Atti legati, vol. 617) compare un Francesco Mele
alias Mombuy di Santa Vendres.
Nel 1547 Damia de Campos, “sot veguer” di Cagliari, acquista
un patio (A.S.C., Atti legati, vol. 618).
Il 21 febbraio 1559 Joan Navarro contratta con “mestre” Antoni
Gallus, “pintor” di Villanova: “un retaule pintat ab oli “con la Madonna
del Pilar ed a fianco S. Jaume e tre “pelegrins”, a fianco 4 “pelegrins
e armas de dit Navarro” (A.S.C., Atti legati, vol. 624). In data
22 gennaio 1547 un Petrus Gallus “tunditor pannorum” compra da
Jacobo Guilarza “olitor” (A.S.C., Atti legati, Cagliari, vol. 618).
Il giorno 5 gennaio 1561 è intentata una lite per la Scrivania della
Baronia di Pula e della Baronia di S. Michele: Nicolao Pascual
chiama in causa Rafell Asensi per la Baronia di Pula. Ad Asensi, il
Conte di Quirra ha fatto grazia della Scrivania della Baronia di S.
Michele: secondo il costume degli antecessori gli spetta anche Pula,
con il potere di “posar” “capitans, officials, escrivans” ed altri officiali
della Baronia. La lite viene cancellata e la transazione è terminata
da Martino de Portillo, Capitano: Nicolao Pasqual durante la vita
di Angelo Asensi (figlio di Raffaele), può servire con potere di sostituire;
Pascual rinuncia ad altri diritti sulla grazia e si accontenta della
grazia semplice; finita la vita di Angelo Asensi, Pascual ed i suoi
successori possono liberamente “posar escriva” e non muoveranno
causa (A.S.C., Atti legati, vol. 627).
Per la famiglia Cola vi sono alcune informazioni. Il 17 aprile
1546 Andreu Cola, mercante di Stampace vende una vigna (A.S.C.,
Atti legati, vol. 617).

Sigismondo Arquer e Don Gaspare Centelles nella bufera politica del XVI secolo
Nel 1557 Nicolas Cola, dottore in entrambe le leggi e Advocatus Fisci
vende al fratello Salvatore la vigna che possiede “en lo pla de Sant
Miguel” di Cagliari (A.S.C., Atti legati, vol. 625). In data 27 gennaio
1561 la vedova di mossen Andreu Cola fa procura al figlio Nicolau
Cola, J.u.d., Jure utroque doctor (A.S.C., Atti legati, vol. 627, f.43).
Il 15 luglio 1539 si stipula un compromesso fra Giovanni Adceni
e donna Angela de Madrigal abatessa di S. Lucia di Cagliari (A.S.C.,
Atti legati, vol. 885). Il 18 novembre 1561 Don Alvaro de Madrigal
L.T. Generale riconosce al suo maggiordomo Jacobo Monello il
conto legale della amministrazione della casa (A.S.C. Atti sciolti,
vol. 256).
In data 18 gennaio 1561 il reverendo Joan Beltran Dailon, canonico
di Cagliari, arrenda per 5 anni il canonicato di Ullastre a mossen
Miguel, mercante, di Cagliari (trattasi dei villaggi di Baunei,
Triei, Girasole, Lotzorai), per il prezzo di 500 ducati, cioè 100 ducati
all’anno.
Il 22 ottobre 1561 Giovanni e Francesco Limona sono procuratori
di mossen Nicolau Boy, canonico d’Arborea, residente nella curia
romana; essi prendono in arrendamento dal venerabile Jaume
Dessì, per tre anni, dal primo novembre, le rendite e decime del canonicato
di Gonnostramatza, per il prezzo di 180 ducati, a 60 ducati
all’anno (A.S.C., Atti sciolti, vol. 256).
Nel 1575 il testamento del “prevere Lorenso de Serra” di Sassari,
in favore del figlio Nicolau de Serra, è impugnato da Nicola Tavera,
Luogotenente di Procuratore Reale (Atti legati, Cagliari, vol. 1536).
Nel 1573 un facoltoso uomo di affari come Giovanni Sixto (già
impegnato nell’attività di commerciante di grano per varie decine di
migliaia di starelli) assieme a Salvatore Sixto, a Thomas Mostellino
ed a Salvatore Ortu compra “coreos bovinos et arretinos, moltonines”
per lire 6636 dal macello di Cagliari.
È interessante prendere visione dell’inventario dell’eredità di Petronilla
Arquer e Ram, stilato nel 1594. Nello “escriptori de noguer
pintat molt vell” si trovano in un cassetto le seguenti carte: un atto
di censo di proprietà di 200 lire (pensione annua lire 14) che “mossen
Salvador Sarroch y sa muller responian ala dicta defuncta” (con
atto del notaio Antoni Scarxoni del 18 agosto 1586); un censo di
proprietà lire 200 (pensione lire 14) venduto dai nobili coniugi Hieroni
de Cervello y dona Hieronyma dovuto a Petronilla come curatrice
della eredità dei beni del marito defunto (atto del notaio Pere
Sabater in data 21 novembre 1573); atto di “obligatio” fatto dalla
senora Anna Meloni in favore di Petronilla per pagarle il censo di
lire 200 (pensione annua lire 17) “que es obligada sobre la vinya que
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FRANCESCO CARBONI
era del quondam Francisco Vila”; atto di “censal mort” di proprietà
di 275 lire (pensione annua lire 22) fatto dal magnifico Joan Francisco
Ram in favore di Petronilla Ram y Arquer “sovre la vinya y ort
de Nanni Serra y Antonia Fadda” (atto del notaio Gaspar Valmanya
in data 11 settembre 1578); la Città di Cagliari, secondo Don Jayme
Ram, è obbligata verso la Arquer a pagare un censal di 200 lire di
proprietà (pensione di lire 14); Don Jayme Ram ha ottenuto un prestito
di lire 100 dalla eredità di Petronilla nel mese di marzo 1594;
atto di consegna di lire 93.6.8, fatta dal magnifico Joan Francisco
Ram alla” senora Petronilla, sobre la regia cort per la terça”. Nel
“corredor de dita casa” di don Jayme Ram si è trovata una cassa con
questi documenti: “un proces actitat entre los germans Rams y lo
quondam Llorens Benapres y apres ab don Hierony Aymerich ab
sentensia donada per la Real Audientia en favor del dit Rams sobre
la casa y bens dela quondam Antonia Maltes muller del dit Benapres,
qual casa vuy posseheix dita heretat de dita defuncta; los capitols
matrimonials entre dit quondam misser Hieroni Ram y dita defuncta,
rebuts per mossen Jaume Boy quondam notary a 16 de mars
1559”; “lo testament de dit misser Hieroni Ram rebut per mossen
Pere Sabater notari (in data 14 marzo 1578); lo inventari dels bens
de dit Ram per mossen Gaspar Valmanya notari (9 giugno 1578); lo
testament dela quondam senora Joana Arquera y Tarragona mare de
dita defuncta rebut per mossen Hieroni Seleze notari a 10 de juny
1592; lo inventary de dita heretat de dita Arquer y Tarrago a 26 de
juliol 1592 rebut per dit Seleze not.; un acte de transactio y concordia
entre ditas senora Joana Arquer y Tarrago, lo senor Pere Joan
Arquer y dita senora Petronilla Arquer y Ram y altres (ricevuto dal
notaio Horda il 22 di settembre 1573); lo acte de absolutio del Jurament
del sobredit acte de concordia obtesa en favor de ditas senoras
Joana y Patronilla mare y filla ab acte per mossen Augusti Sabater
notari y secretari dela mense Archiepiscopal de Caller a 15 de abril
del any 1577 y lo acte dela relatio dela empara feta alas senoras Llimonas
que no se desistian de tots lo lloguers dela casa que dehuen y
dehuran a mossen Pere Joan Arquer, continuada per mossen Hieroni
Ulbo notari al primer de juliol delany 1592; item un proces de un
plet que vertia contra la dita senora Patronilla y misser Antiogo Fortesa
en la Real Audientia, lo qual no es ancara averiguat; item un
acte de donatio feta per lo magnifich senor Joan Francisco Ram al
dit quondam misser Hieroni Ram son germa dela part o portio a ell
sguardants en cas heretats delas senoras Cathalina Scamado y Antonia
Maltes y mossen Llorens Benapres, rebut per lo magnifich y discret
mossen Pere Sabater notari a 21 de juliol delany 1572; item al-

Sigismondo Arquer e Don Gaspare Centelles nella bufera politica del XVI secolo
tre acte de insolutum datio y consigna feta per lo dit magnific Joan
Francisco Ram al dit misser Hieroni Ram son germa y ab ell hereu
dela senora llur mare de setcentes sinquanta lliures de proprietat de
aquelles mil y sinch centes liures que dita senora llur mare tenia sobre
los nobles don Augusti Gualbes y sa muller del censal de quatre
milia lliure li havian venut y consentiment ques rettenga les altres
750 lliures per altres tantes se li devian per dita senora llur mare a
compliment de 1500 llires que li havia dat per contemplatio de son
matrimoni rebut per dit mossen Pere Sabater notari a 21 de agost
any 1567”. Altri atti concernono la divisione dei censi di Agostino
Ram operata fra Hieroni e Francisco Ram, fratelli, in data 11 luglio
1572; una polizza di indennità fatta da Joan Francisco Ram a Hieroni
Ram suo fratello “sobre los dines prengue del deposit “delle lire
800 di Antonio Ledda, in data 9 aprile 1573; un atto di concordia
tra i fratelli Joan Francisco y Hierony Ram, da una parte ed i fratelli
Oriols e Jaume Pascual, ricevuto da mossen Monserrat Cabitzudo in
data 16 giugno 1572” ab lo decret del tunc veguer lo magnifich Pere
Selles”, in data 25 novembre 1562; pagamenti fatti dal defunto misser
Ram per parte di mossen Jaume Pascual, pagamenti ai fratelli
Oriols e ad altri; pagamenti fatti da senora Patronilla Ram e Arquer
a diverse persone; atto di concordia fra Joan Francisco Rams e misser
Hieroni Ram (rebut dal notaio Pere Sabater); diversi libri di entrate
ed uscite; “una polissa del noble Don Jayme Manca ab la qual
confessa deure al dit quondam Hierony Ram 72 lliures y dotze sous;
item una taxa y compartiment de cent lliures fet per lo stament Militar,
fermat per los nobles Don Joan de Castelvy, Don Guillem de
Cervello y Don Anton Barbara y referendat per lo notari Horda a
pagar a dita defuncta com a usufructuaria de misser Ram son marit,
per altres tantes seli devia del temps de advocat de dit Stament Militar
den del primer de octubre 1574 fins als 24 de mars 1578”, nel
quale vi sono “32 partidas feta la creu a cada una dellas”, che denotano
essere già pagate alla defunta, per un totale di lire 42. 8 soldi e
4 denari; altre partite come quella dell’Arcivescovo di Cagliari non
sono pagate, per un totale di lire 45.11.8.
Nell’anno 1571 Pietro Giovanni Arquer è impegnato, come
“conservador” del S. Monte della Pietà, nella “fabrica” della Cappella,
nel Castello di Cagliari; nello stesso periodo il padre Giovanni
Antonio Arquer vende a Joan Porcu “olitor” negli orti di Villanova
la sua “mullam, pili castani” con gli ornamenti.
Nel 1577 (8 gennaio) Petrus Selles si impegna a consegnare lire
130 a Joana Arquer (vedova di Antonio Giovanni Arquer) per l’uso
della casa in “vico de mariners”, nel Castello di Cagliari. In data 12
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FRANCESCO CARBONI
settembre 1587 Don Gabriel Manca e dona Magdalena Arquer, coniugi,
domiciliati a Cagliari, cedono alcuni beni, tra cui un
“viridarium”al magnifico Giovannangelo Quessa, mercante.
Nel 1592 “mossen Perot Xico studiant”, di Stampace, si obbliga
verso lo “studiant mossen Julia Pani”, di S. Gavino, residente a Cagliari,
per imparare a suonare le campane: “a estes coses present y acceptant
que li amostrara ab tota diligentia possible a sonar de tecla
molt be fins tant que sapia tocar missa y vespres y ell dit mossen
Pani acceptant dites coses conve y ab bona fe promet al dit mossen
Perot Xico que en paga y satisfactio de sos treballs y destentos li dara
tretze starells de forment posat en casa dit mossen Xico a despeses de
dit mossen Pani en esta manera ço es sis starells y mig per tot lo mes
de agost primer vinent y los restants sis starells y mig acabat que haia
de mostrar a tocar la missa y vespres” (A.S.C., Atti legati, Cagliari,
vol. 1527).
Ben altri cupi rintocchi presenta la desistenza di Brigida Pipinelli
e di Anna Selles, moglie e figlia dell’’ucciso Don Hieronimo Selles:
gli assassini Don Pietro Aymerich ed altri sono perdonati, mentre il
notaio scrive con molta fretta e con molte cancellature (A.S.C., Tappa
di Cagliari, atti sciolti, vol. 886).
Il XVI secolo, drammatico, ma ricco di suggestioni e chiaroscuri,
potrà essere meglio illuminato con un profondo studio della vita
quotidiana, sostrato della politica e della economia.
2.c. La vita culturale-nella Sardegna del ’500: biblioteche e stampatori.
La circolazione delle opere di Lorenzo Valla, Erasmo da Rotterdam,
Petrarca, Ariosto, Bembo ed altri. – La vita culturale della Sardegna
di quegli anni ha lasciato traccia nelle varie biblioteche appartenenti
a: nobili, alti funzionari regi, uomini di diritto, medici, mercanti.
È utile leggere il lavoro di R. Di Tucci (Librai e tipografi in
Sardegna nel Cinquecento e sui principi dei Seicento, in “Archivio Storico
Sardo”, vol. XXIV, Cagliari 1954), dove, dopo un paziente esame
delle fonti notarili riesce ad individuare una nutrita colonia ligure
(fra gli altri l’avvocato Federico Riccardi, genovese, acquista fama
in processi famosi, come quello per il villaggio di Mara tra i nobili
Dedoni e Don Salvatore Aymerich), dedita al commercio di granaglie,
di salumi, pellami, formaggi, vini; importa sete, lini, cotone,
tessuti; pratica la pesca del corallo. Un’altra presenza interessante
sono i napoletani (commercianti ed artisti), bresciani e milanesi (armaioli
e “spasers”, spadai, fabbri), piemontesi (mercanti), toscani
(negozianti), pisani e lucchesi (mercanti). La pratica economica di

Sigismondo Arquer e Don Gaspare Centelles nella bufera politica del XVI secolo
questi immigrati ha introdotto in Sardegna un commercio di prodotti
ed uno scambio culturale che necessitano ulteriori studi.
Il Di Tucci fa un elenco dei libri della biblioteca di Don Agostino
Gualbes (secondo l’inventario del 1576): classici latini, umanisti
come Valla, Pontano, Bembo, Giovio, Dante, Petrarca, Machiavelli,
Castiglione, Priorato, Gelli, Sabellico.
Il lavoro di Angelo Rundine, Inquisizione spagnola, censura e libri
proibiti in Sardegna nel ’500 e ’600 (Sassari 1995) fornisce un
quadro specifico di grande spessore in merito alla diffusione dei libri,
non coincidenti con la visione liberticida della S. Inquisizione.
Le nostre ricerche negli atti notarili permettono un approfondimento
di conoscenze sul patrimonio librario in circolazione. Nell’inventarlo
fatto preparare dalla vedova Donna Elena Bellit, la biblioteca
di Don Agostino Gualbes, nel 1584, possiede: Las quatrocientos
preguntas del admirante; libre de mostras; la deca de Cesar
(sic); De privados y delos inventores del marcar; Cronica del Rey
Rodrigo; Cronica General despanya; Morales de Plutarco; Flos sanctorum;
Copilacio dels obras de Joan de Men ...; El Dante en lengua
castellana; Prima e seconda parte dele medalle dei più illustri e fulgeniti
homi et donne; Alziato; libre de guizades, menjares y potajes;
Josepho De bello Judaico (A.S.C, Atti notarili di Hieronimo Horda).
È importante segnalare la presenza di alcuni librai (citati dal Di
Tucci): Hieronimus Luchadello (lombardo), che nel settembre 1554
fornisce, a credito, molti libri a Giovanni Corrado, che aveva una
scuola nella casa di Gerolamo d’Aragall, Governatore dei Capo di
Cagliari e Gallura; Stefano Prato (1561), Antonio Bizioyero (1569),
Stefano Moretto, Vincenzo Sambenino (1567, di Salò)e Giovanni
Maria Galcerin (di Edolo), entrambi sudditi della Repubblica di Venezia
(dove la” tolleranza religiosa e la relativa libertà politica avevano
aperto le porte a pensatori, editori, librai e perseguitati”), Antonio
Garnier (di Lione) Della Gatta. Un fabbricante di carta è Sartorio
Prato di Modena (1591). Lo stabilimento tipografico di Nicolò
Canyelles, nativo di Iglesias, canonico prebendato, arricchisce la presenza
dei libri nelle biblioteche dei sardi di agiata condizione.
Il lavoro di B. Anatra (Editoria e pubblico in Sardegna tra Cinquecento
e Seicento, in “Insula Christianorum”, Cagliari 1997), esamina
l’attività tipografica del Canelles (stampa del Catechismo o summa
dela religion christiana del gesuita francese Auger; De arte retorica
del Suarez, nel 1579; De institutione grammaticae latinae, dell’Alvarez,
1587; De la imitacion de Jesu Christo e menosprecio del mundo
di Tomàs de Kempis, attribuito a Jean Gerson, 1567; carmina di
229

230
FRANCESCO CARBONI
Venanzio Fortunato, 1574; Ia produzione didascalica di Giovenco,
Sedulio, Aratore e Prudenzio, 1573-1574; Epistole di Cicerone; Metamorfosi
di Ovidio; De institutione feminae chistiane, del Vives; Decada
dela passion, del Viceré Juan Coloma; Canones et decreta conciliari,
1567 e 1578; esercizi spirituali del gesuita Loarte, 1567 e 1574;
manuale per confessori del Polanco, 1567; Ordo baptizandi 1587).
Sempre B. Anatra fa un quadro della provenienza dei libri dell’Arcivescovo
Parraguez: su 450 titoli (l’inventario è del 1573), la metà vengono
da Venezia e da Basilea, 28% da Parigi e da Lione, 4% da Roma,
da Colonia 5%, da Anversa circa 4%, dalla Spagna 1,5%.
Il Canelles aveva 3 mila volumi, Monserrato Rossellò 5 mila,
G.F. Fara 1100 volumi.
Può essere utile vedere i titoli dei libri di alcune biblioteche, che
abbiamo, per fortuna, trovato nell’immenso mare delle carte notarili
dell’Archivio di Stato di Cagliari. Nel 1591 la biblioteca del defunto
Don Joan de Madrigal (si ricordi che il Viceré Don Alvaro de Madrigal
lascia i suoi beni prima del 24 ottobre 1569)presenta i seguenti
libri: “Flos sanctorum, Instructio deles Verges; Plutarco, Las morales
de sant Gregorio; De los nombres de Christo (di Fray Luis de
Leon); De retractos dels emperadores”.
Nello stesso periodo sono inventariati i libri di Cosma Tola
“Consultor del S. Officio”, sposato il 3 aprile 1575 con Joana Roqueta.
I servi, “criats”, della casa dormono nello studio, gli schiavi,
“sclaus” dormono in cantina, al fresco; lo scrittorio è “desugellat”
dal S. Officio per opera di mossen Cristoforo Gessa. In due “parestajes
de tenir llibres de taula, un gra y laltre xich en los quals si trobaré
los llibres seguents: los tests civils (5 volumi); texts canonichs
(tre volumi); los Bartols (10 volumi), los Paulos de Castro (7 volumi);
los especulladors (tre volumi); comunes oppiniones (tre volumi);
los Bertachins (4 volumi); Marçi de Mantua comentaria; Decius
in civile; Suma Azonis; Joannis Francisci Aripa; Cons. Alex. (4
volumi); Joannes Faber S. Inst. (un volume); Joannes de Platea S.
Inst. (un volume); Joannes Franciscus Otzeri; Christophorus Porcus
S. Inst. (un volume); Angelus Aretinus S. Inst.; Bartholomeus Socinus
S. Corpore juris civilis; Marianus Socinus super decretales;
Franciscus Curtius junior in vetus; repetitiones diversorum in jiure
civili; cardinalis Alexandrini S. distinctionibus; Philippus Francus S.
Sexto libro decretalium; Dominicus de Sancto Geminiano in canonico;
Les obres de Baldo; Opera Jasonis (9 volumi); Opera Alex. (5
volumi); Opera Aberici de Rosate (8 volumi); Opera Abatis (9 volumi);
Repetitiones diversorum doctorum in jure canonico, Detius In
civile; Andreas de Yserna super usibus feudorum (un volume); De-

Sigismondo Arquer e Don Gaspare Centelles nella bufera politica del XVI secolo
cius De regulis Juris; Baldi Perusini In usus feudorum (un volume);
Jacobus Aluanatus Super feudis; Tractatus et cauthelarum Bartholomei
Capola; Opera Felini; Sebastianus Vantius De nullitatibus; Angeli
De Gambelionibus De Testamenti; Tractatus Mariany Socciny
In Materia successionum; Lanselloti Politi Super lege filium quem
habentem et familie hersiscunde; Digestum inforciatum; Guilhelmus
Benedictus De testamenti; Stephanus Audifredius De parlament
(en un volum xich); Tercium volumen Tractaticum diversorum
doctorum; Dels Consells de Philippo Decio, corpus canonicum;
Corpus civile (en quatre volums in quarto folio dels antichs y
se fa nota que falta lo Infortiato); dos llibres en part scrits de ma que
son abecedaris y repertoris; Llibre dels Usajes y Constitutions de cathelunya;
Tractatus Pauli Grillandi De hereticis et sortilegis (en un
volum); Practica Ruberti Marante; Decisiones ratae; decisiones Afflicti;
decisiones Tolosanae; Tractatus De sindicatu variorum auctorum;
Andrea Alciati Tractatus de presumptionibus; Tractatus diversorum
super maleficiis (un volum xich); Ypoliti Reminaldi super Institutionibus;
Jason De actio; Tractatus et cauthelae Bartholomeia
Zapola; Decisiones Guidonis; Vocabolarii utriusque; J., Negutzatius
De pignoribus et Ypothecis; Tractatus feudorum Francisquini Ursi;
Singularla plurimorum doctorum; Decius De regulis juris; Angelus
de Aretinus De maleficiis; Rotae Bononiensis; Tractatus Substitutionum
Lancelloti Puliti; Flores ultimarum voluntatum Rolandini Bononiensis
(un volum xich); Familiares questiones Augustini Beroy;
Decisiones Rote (en un volum en quart) ».
Nel 1591 vi è l’inventario della eredità dei nobili Dedoni (intervengono
donna Caterina Dedoni e Mora, vedova di Don Ferdinando
Dedoni, signore utile di Gesturí e donna Teodora Blancafort, vedova
di Don Guido Dedoni). La biblioteca descritta è interessante: “Epistulas
famillares de Don Antonio de Guevara en lengua spanyola; la
segunda parte dela Historia general delas Indias; Historya del invicto
cavagliere Lator en lengua Ytaliana; Dealogues de Francisco de Avyla
en lengua castellana ...; deli cose Aetiopice en lengua Ytaliana; Delos
tiempos de fray Ambrosio; Comensa el tratado del serafico doctor san
Bonaventura en la contemplacion dela vida de nuestro senor Jesu
Christo; Historia dela cosas de Aetiopia en lengua spanyola; Marci
Tulli Ciceronis epistulae familiares; Hieronimo Dedo secretario dela
Illustre Repubblica veneciana de diversos caracteres de letres;
Aprehension de republica y spejo delalma; De albeytaria; Pigmalione
figliolo dell’imperatore palnadino (?); Historia de Florambello di Lucca;
Cavagliere Palmerino de Inglaterra a Floriano suo fratello; Palmeryno
de Ingalterra figliolo del Re Don Duardo; Lopere magnanime
231

232
FRANCESCO CARBONI
dei due ... cavaglieri dela tavola rotonda; Le transformacioni de ms
Ludovico Dolce; Rime del comendatore Anibal Caro; Mambryano,
La historya delos nobles cavalieres Oliveros de Castilla; Astolfo furioso;
Orlando furioso; Testament novi editio Vulgata; Calandra comedia
di messer Bernardo Divicio (?); La Diana de Jorge Demonte; Marco
Aurelio; Orlando Furioso; Epistulae beati Hieronimi; Diurnal
Roma xich del offici vell; libret del Petrarca sens principi; Dichos y
hechos notables del Rey Don Alonso; Reglas militares Antonio Cornazano
en castella; ... Corpis et reliquie et ... di Roma; Innamoramento
di Rinaldo; Comentarios de Cayo Julio Cesar; Josepho De bello Judaico;
Guyone dele guerre de Roma; Sumarya y verdadera relacion del
viage quel justissimo principe dela Spanya Don Phelipe ... Inglaterra;
... y romances que tratan del nascimento de nro Senor Jesu Christo;
Alphabetum Graecum; Repertorio de cuetas (?); Los dichos ... delos
siete sabios de Grecia; Martchy Valerii Martialis Epigramata; Opere
del’arte del malscalcio de Lorenso Russio; Serafino Opera delo elegantissimo
poeta Serafino; Terencii Aphry Comedie; Les Dechades de
Tito Livio; ... glosa sobre los cobles de Jorge Manriquez; Castigos y
exemplos de Caton; ... quatuor passiones domini nri Jesu Christi; Minerva
Aragonie Assis ... de any super putacio ...; Valerii Maximi dictorum
factorum et memorabillum exempla; Nova selva de varie lectioni
di Gaudensio Merula; vocabulario delas dos lenguas toscana y castellana;
La cronica delos nobles Cavalleros tablante de Rycamo ... us; Apologo
delas ciosida y el trabajo; Le Amadigi de sant Bernardo; Ovidii
Nasonis Metamorphoses; De letradura la cronyca troyana; Los dotze
triumphos delos dotze Apostoles fechos por el cartuxano professo en
sancta Maria delas cuevas de Sevilla; Tractado dela bermosura y del
amor; Les obras de Xenophon; libro dela verdad; capitols de cort del
Stament militar de Sardenya; Cronyco del Excelentissimo principe
don Florizel de Niguea; Dela Sylva de varya lectio; La cronyca del Rey
Don Rodrigo con la destructio despanya; libros del muy noble y valerosisimo
cavaliero Felix Magno; Cronyca del muy alto principe y sforsado
cavaliero Valerya de Ungria; Decadas de Tito Livio; Los sinch libros
dela prymera parte delos Anales dela Corona de Arago; Llibre de
agricultura (en castella); llibre de Carta de lloch; Pragmatica dels lladres
stampada; un lunari vell”.
Nel 1591 viene inventariata la biblioteca di Jacobi Boy, a cura
della vedova Violante Boy e Fortesa: “un missal nou de tot full; sinch
calepens ab la interpretatio de llengua italiana; Thesaurus ciceronianus
de Mario Nitzolio; Martirologio Roma; una Biblia; un Breviari
daurat en octavo fuli; la part yemmal del breviari; laltra part del
breviari estival; Deles meditations y vida y lloors de nra Senora;

Sigismondo Arquer e Don Gaspare Centelles nella bufera politica del XVI secolo
Dela rectorica ad Erennium; Tractat de Fabio Albergati del modo de
arridare a patxe le inimicitie private; Deles meditations sobre lo misteri
dela passio y resurrectio de nre S.r en llengua Ytaliana; Los officis
de Cicero; Relatione del assedio di Parichi (sic); Dela rajon di stato
di Gioan Botero; lo ordinari del offici major; Delle cose notabili
dele cita di Venecia; Aeliani de militaribus ordinibus instituendis;
Del governo di regni; Malleus maleficarum; Cicero De oratore; De
Oracio Flaco; deles meditations dela Passio de nre Senor, en llati; altre
Ilibret en llati dela vida de sant Ignacio fundador dela Companya
de Jesus; libre de March Antoni Moreti; Deles professies del abat Joachim;
llibre dela meditacione sopra li principali misteri de tuta la
vita di Christo; Gli artificiosi et curiosi moti spiritali di Gerrone
(sic); Institutiones in graecam lineam; Vita del patre Ignacio Loyola;
La historia deles Indies de Joan Pere Maffei en llati ab la vida dei
pare Ignacio fundador dela companya de Jesus; Petri Joanis Perpiniani
Valentini e Societate Jesu orationes; Dels fruits del abre dela
Sanctissima Creu de fra Lluys de Granada en llengua Ytaliana; Hieronimi
Plati ex societate Jesu de bono status religiosi; Thesaurus Ciceronis
Maritzoli; altre calepi dela matexa manera dels dalt inventariats;
Dela auctoritat dela Ciutat de Venecia; Dela vida de Ignacio
Loyola fundador dela Companya de Jesus en llati; La Bucolica de ...
Mantuano; Llibre de archiprete Fara de rebus sardois; llibre de Valerio
Maximo; la Ulixea (sic) de Omero; deles obres de March Hieronimo
Vida; La Hierusaleme liberata de Torcato Tasso; deles obres
de Angel Policiano; llibre intitulat Ordine di cavalcare e di conoxer
le nature deli cavalli; llibre en espanyol de reglas dela cavalleria dela
briga; Llibre deles obres de Joan de Mena”.
Nel 1572 (2 aprile) la vedova Antiocha Cabitsudo per l’eredità di
Giovanni Francesco Cabitsudo, fa eseguire l’inventario. La biblioteca
consta di questi libri: “doze papers pintats de diverses ymatges de
diverse colors; un llibret intitulat las Yglesias et indulgentias de
Roma y una gramatica de sanct Pere molt vella; Ilibre del rosari
compost per mossen Mexia (?); Dictionariolum juris civilis; Seduli
pascale cum comento; libre intitulat Edagia Erasmi; unes hores molt
usades; llibret libelli duo de morbo gallico; llibre ho grammatica de
Donat; Il Raverat dialogo di mossen Jusepe Detusi; De geometria;
De medecines de Valerio Corda; catechisme ho sumari dela religion
christiana molt vell”.
I libri della biblioteca di Jacobus Blancafort sono così intitolati:
“Lo quart de cartuxa; Recopilacio de todas las obras que ha scryto
fray Alonso de Oroseo; lo segon del cartuxa; Los set sa… en vulgar;
libro de guisades, ... y potages; Confesional; Instructio de mercade-
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234
FRANCESCO CARBONI
ries; re ... delos temps; un llibre gran de Apiano Alessandrino deles
istories romanes, altre libre dela mateixa forma de Pontano de Bello
neapolitano et de sermone; Dionisi Alexandri Alicarnacen Antiquitatum;
De Cornelio Tacito; altre llibre dela mateixa forma de Pompeo
Me Del siti del mo ...; llibre in octavo folio deles Ystories venecianes
de Marco Antonio Sabelico; de Marcho Guazzo; En Ytalia del
Bispe de Nocera Paulo ... iomo; de Gavi Sambigujo sart; Dela pesta
del doctor Porcell; gramatica grega y llatina; compendi contra pestilentia;
del Aretino ques diu abbatimento poetico; altre llibre intitulat
Laurencio Valla De lingue latine et de gau…i; Pretarca; De Pere Vitory
castigacione in conservacione; llibre de Marco Guazzo de tots los
fets dignes de memoria; Quintiliano Gripho; ga ... mores leges scritus;
llibre grech ques la segona part de Luciano Samossatenso; altre llibre
grech ques la primera part del matex; altre llibret de Christophol Longolli
de dos oracions per deffensa de lesa magestat; llibret de Vicencio
Obsopo; Expositio sobre Orlando Furioso de m.co Juanio Fornaro;
llibret del poeta Serafino Aquilano; del Cortegano; Prose di monsignor
Bembo, discorso sopra il principio di tuti li canty Orlando furioso
del aura terrahina; llibre grech que son les oracions y epistules de
Ysocrates; Les Ystories de Marcho Guazzo; les epistules de Cicero en
lengua italiana; Les obres de Luciano; llibret de Machobrio In sonnum
Scipionis; Lexico grech y lati; llibret en italia del bispe Paulo
Giovio de Nocera; la doctrina christiana en cathala; la ... rse el gelo
florentino; De Vicencio Calyneta poeta; dos llibrets la ques … a Petrarca
y laltre les Comedies de Terencyi; la Comedia de Calandra; de
Valerio Maximo; Los Comentaris de Cesar; Les epistules de Cicero ad
Atticum; primera part delas dechas de Tito Livo (sic); de Cicero Dela
philosophia thomus primus; De Silii Ytalici de bello punico; Teocryto
Siracusano; de Quinto Cursio de gestis Alexandri magni; Dela retorica
de Cicero (segon thomo); Suetonio Aquatico; de Marcial; Tito Lucretio
Caro de rerum natura; De Lucano de bello civili, Stacio Papirio;
dele tragedies de Seneca; Dechas de Tito Livio (III, IV, V); de Cathulo
Tibulo; de Cladio poeta; altre llibret ques lo Dante; llibret de Homero
Ylliaco en vers llaty; dela philosophia de Cicero (segon thomo);
un flos sanctorum molt vel y faltan molt fulls y squinzat”.
Nello stesso periodo Giovanni de Ruecas, curatore di Francesca de
Ruecas (figlia di Alfonso de Ruecas), erede di Monserrato de Ruecas
(già Reggente la Generale Tesoreria), fa procedere all’inventario del
patrimonio. I libri della biblioteca sono i seguenti: “Les dechas de
Tito Livyo; Legendario dele vite de tuti santi; Manual de confessores y
penitentes; il XXXV libro dela persona de Pau Longo; la prima parte
de Monte Calavario; Guia de pecadores; lmagen dela vida christiana;

Sigismondo Arquer e Don Gaspare Centelles nella bufera politica del XVI secolo
Sylva de varia lectio; Imagen dela vida christiana; Faretra del divino
amore; Gratyos combite delas gracias del sancto Sacramento del altar;
Juan Gerson dela Imitatio de Jesu Christo; Il Petrarcha; Aritmetica
per Antich Roca de Giron ...; Dela oratio y meditatio; Dele letere di
mossen Claudio Tolomei; Essercicio dela vita Christiana; Catechismo
o suma dela religio Christiana; Del spejo de consolacio (5 libres); Orlando
furioso; Dechada dela passio de nro Redentor; Breviari Del
Cardenal Sciacius (?); Institutio para bene confessar”.
Le Istruzioni di S. Ignazio di Loyola circa il modo di procedere
contro gli eretici del suo tempo (cfr. Monumenta Ignatiana, Monumenta
Constitutionum Epp. VII, 398-404; XII, 259-262; X, 689-
690, 1-4.15) permettono di capire la temperie di quegli anni (13 agosto
1554). Alcuni documenti indirizzati a P. Canisio, trattano dei
mezzi per estirpare l’eresia e per consolidare la religione cattolica, oltre
allo zelo per la salvezza delle anime, la preghiera, la celebrazione delle
Messe, il buon esempio dei missionari, la conversazione spirituale, gli
Esercizi, l’occuparsi delle opere di misericordia. Tra i rimedi umani il
fondatore dei Gesuiti propone: il re Ferdinando I dovrebbe dichiararsi
acerrimo e pubblico nemico di tutti gli eretici e non dovrebbe sopportare
che alcun eretico faccia parte del consiglio del re; gioverebbe inoltre,
non permettere che i vari posti di governo siano occupati da persone
contaminate dall’eresia; quando uno è conosciuto come eretico o
è fortemente sospettato di esserlo, non gli si dovrebbero assegnare
onori o ricchezze, anzi dovrebbe esserne privato; se poi si usassero, con
alcuni, dei castighi esemplari, come la perdita dei beni, l’esilio o la
morte, ci si renderebbe conto che ci si vuole occupare seriamente del
problema religioso; sembrerebbe bene che tutti i docenti e coloro che
hanno posti di responsabilità nelle università e nei collegi, e che sono
sospettati di eresia, vengano privati del loro ufficio, così si eviterà di
corrompere la gioventù da parte di coloro che dovrebbero formarla
alla pietà; sarebbe utile che tutti i libri eretici fossero bruciati o portati
fuori dai territori dipendenti dal re Ferdinando I; similmente sarebbe
opportuno non servirsi dei libri scritti da eretici, anche se non sono
tali nel contenuto; e questo a motivo degli autori; così pure gioverebbe
proibire sotto gravi pene, la stampa di libri scritti o commentati da
eretici, come anche introdurli dall’estero.
3. La corrispondenza di Gaspare Centelles con Sigismondo Arquer: 8
lettere. – La corrispondenza di Don Gaspar Centelles (cfr. Cocco,
pp. 59 ss.) è costituita da otto lettere (conservate nella Biblioteca
dell’Università di Halle). Sigismondo, conclusi gli studi, resta alcuni
235

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FRANCESCO CARBONI
mesi a Siena e poi ritorna in Sardegna alla fine del 1547. In data 2
aprile 1548 il Vescovo di Lugo, Commissario Generale alla Crociata,
gli conferisce l’incarico di assessore, a Cagliari (nel mese di luglio).
In questo periodo inizia la relazione epistolare con Gaspar
Centelles: otto lettere (di cui la prima è del 28 luglio 1548). Nella
prima lettera è dominante il tema della morte della madre di Don
Gaspar Centelles: la madre morta per il mondo è viva in cielo.
L’idea chiave è l’imitazione di Cristo - esempio - redentore - salvatore
nostro alla cui volontà dobbiamo uniformarci. La Sardegna appare
all’Arquer “triste y desventurada”: la rinuncia agli studi amati, alle
dotte disquisizioni teologiche e l’adesione agli intrighi politici ed
economici, alle beghe locali a fianco d’incolti nobilotti avidi solo di
potere e ricchezze. Alcune citazioni scritturali della prima lettera
(nove su 15), figurano nella Institutio di Calvino. Le idee Paoline
del Beneficio di Cristo ricorrono fra gli “Spirituali” italiani, come
Marcantonio Flaminio. Nella seconda lettera traspare il desiderio di
non prendere parte agli intrighi politici nei quali è coinvolta anche
la sua famiglia: egli aspira all’animo quieto degli studi. Si comunica
l’arrivo a Sassari di Joan Batista, fratello del fisico Tomas Roca (arrestato
dalla Inquisizione), amico di Sigismondo Arquer. In questa lettera
riprende i motivi di Petrarca: la stanchezza, la fuggevolezza del
tempo, la morte, il colloquio con la propria anima; egli preferisce i
Trionfi alle Rime. Nella terza lettera, scritta da Bruxelles il 12 novembre
1549, Sigismondo fa presente il desiderio di abbandonare la
sua terra, ma è trattenuto dall’amor di patria e dall’amore per la madre
e di altri parenti. Egli dimora a Basilea dove scrive la “Sardiniae
brevis historia” e conosce Sebastiano Munster (scrittore della “Cosmographia
universalis”, dedicata a Carlo V). Tutta questa lettera è
giudicata compromettente dall’Inquisizione. Durante il processo Sigismondo
dimostra di ritenere la simulazione lecita ed indispensabile,
in quanto unica forma di difesa in tempi difficili; egli si definisce
un “sabio prudente”. Nella quarta lettera, sul finire del 1550, Sigismondo
definisce la sua ideologia religiosa e, per questo, sarà giudicato
eretico e condannato. L’Arquer arriva alla corte del principe Filippo,
dove Costantino Ponce de la Fuente diffonde il luteranesimo,
assieme ad altri due dotti; vi sono in questa predicazione, tre componenti
della religione di Valdes (la fede viva, l’impossibilità dell’uomo
di salvarsi coi meriti, l’imitazione di Cristo), e due scoperte
di Erasmo (l’opposizione tra carne e spirito, il cristiano che ha gustato
il Vangelo è incorporato in Cristo). Ne consegue che l’unica verità
risiede nelle Scritture, che si incentrano in Cristo. Rispetto ad
Erasmo, Sigismondo rivendica per sé un ruolo didattico, bisogna es-

Sigismondo Arquer e Don Gaspare Centelles nella bufera politica del XVI secolo
sere colti per diventare santi. In primo luogo c’è l’illuminazione dello
spirito, poi quella delle scritture; Sigismondo diventa la guida spirituale
di don Gaspar, contro gli avversari (mondo, carne, satana).
Le idee chiavi sono: la sacra Scrittura occupa il primo posto nella gerarchia
dei testi sacri poiché è parola di Dio; gli espositori servono
solo nel caso in cui non si riesca ad interpretare il testo sacro; leggere
tutti i commenti è una perdita di tempo; le scritture sono facili per
colui che si affida allo Spirito; Cristo ama le sue pecorelle e si manifesta
attraverso la parola. Sigismondo chiama esperienza questa sicurezza
nella osservazione diretta e riflessiva per la conoscenza religiosa.
Sigismondo stabilisce una gerarchia tra i libri sacri, senza un biblismo
stretto ed integrale, per un cristianesimo fondamentale, in
primo luogo il Pentateuco, le lettere di Paolo. La vera conoscenza
nasce dalla verifica personale e si basa sulla esperienza, fuori da ogni
controversia che avvilisca la Scrittura; il culto di Dio è un culto spirituale.
La misericordia di Dio e la giustificazione per fede sono i pilastri
per la salvezza, non le buone opere. La predestinazione e l’esiguità
dei numero degli eletti sono concetti che si affiancano all’uso
delle Scritture, come guida non solo morale ma anche politica e
comportamentale. Nei Numeri, Sigismondo coglie il mistero del
serpente di bronzo di Mosé nel deserto, metafora di Cristo - salvezza.
Un altro amico di S. Arquer è Pompeo Colonna, valdesano (coppiere
del Re e fratello di Camillo Colonna), che fu giustiziato nel
1566 a Roma, per eresia (come scrive il Tiepolo, ambasciatore di
Venezia a Roma). Questo stretto parente dei cardinale Colonna fu
bruciato il 4 luglio 1566, con questa spesa, pagata a Fabio cancelliere
o del Bargello: “scudi tre per comprare legna et fascine per brusare
il signor Don Pompeo delli Monti Napolitano”. Tutta la legge, per
Sigismondo si riduce al culto spirituale di Dio ed alla carità verso il
prossimo, mentre le opere sono secondarie. Il vero cristiano deve obbedire
a Dio in piena libertà, diffidando delle proprie forze e fiducioso
in Cristo. La legge “fa la piaga e l’evangelio la sana, la legge
mortifica e l’evangelio vivifica”. La quinta lettera, dopo quattro anni
(nel frattempo è diventato amico della famiglia Centelles, di Gaspar,
del fratello Miguel, a Pedralba), informa Gaspar Centelles sulla sua
carriera e la sua attività culturale: frequenza del mercato librario di
Valenza (più ricco di quello di Barcellona, per gli studi biblici), Sigismondo
è nominato Avvocato Fiscale Regio in Sardegna dove rientra
in data 11 luglio 1555. In questa lettera il fiscale dell’Inquisizione
annota la pratica luterana di fermarsi sul nuovo e vecchio Testamento
senza utilizzare l’esposizione della Chiesa. Per Sigismondo e
per Valdes la lettura delle scritture viene prima dell’orazione: l’ascol-
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FRANCESCO CARBONI
tare è più conveniente che il parlare, di conseguenza la lettura, che è
ascoltare Dio che parla, è più importante di parlare con Lui, cioè della
preghiera. Per Arquer la salvezza dell’uomo è in stretta correlazione
con la scienza; per questo esorta Don Gaspar a leggere almeno per
un’ora al giorno. Egli dichiara di essere risoluto in tre cose, cioé con
Dio, con il mondo, con sé medesimo, secondo l’Apocalisse: “exi de
illa popule meus ne forte eficiaris particeps scelerum eius”. La sessione
quarta dell’otto aprile 1546 del Concilio di Trento aveva sancito che
solo la Vulgata era l’unico testo permesso della Bibbia. L’Inquisizione
mette in evidenza con un “ojo” l’acquisto di vari libri: il nuovo testamento
greco e le “concordancia” greche del nuovo testamento greco, e
le concordanze latine della Bibbia, vocabolari e grammatiche greci, il
salterio ebraico, caldeo, greco, latino ed arabo. Nella sesta lettera, del
28 novembre 1555, da Cagliari, Sigismondo fa riferimento ai Blancaforts,
mercanti sardi che stanno a Valenza; diffida dal consegnare una
lettera all’infido Antioco Virde; il triplice “funiculus”, consiste nell’amore
in Dio, nella stessa fede e nell’amicizia; le tribolazioni, volute
da Dio, sono giuste. Sigismondo funge da Luogotenente di Don Gaspare
in Sardegna e lo informa sulle misure per fortificare Castello
Aragonese. La settima lettera è scritta da Sassari, il 28 gennaio 1556:
egli si dichiara pentito della sua venuta in Sardegna (parla di ignominie
e persecuzioni “che fanno i falsi cristiani a tutti coloro che vogliono
vivere pienamente in Cristo”). In Sardegna è assorbito dagli impegni
politici e familiari e non può studiare. Consiglia a Don Gaspare
l’esempio di Davide, per sconfiggere i nemici. L’ottava lettera porta la
data del 15 agosto 1557: sono avvenuti fatti importanti: Sigismondo
ha portato avanti i processi difficili, nella sua carica di Avvocato Fiscale
Regio; dopo la morte del Viceré De Heredia, si ritrova senza appoggio,
perché Girolamo d’Aragall, incaricato della Reggenza, è parente
degli Aymerich. Sigismondo viene arrestato; solo il nuovo Viceré Don
Alvaro de Madrigal gli consente di recarsi a corte per discolparsi davanti
al re. Il principe Filippo lo reintegra nel suo incarico e gli permette
di soggiornare a corte. Sigismondo parla di un lupo ipocrita
(lobo hipocrita) sardo, e di lupi rapaci, di gente “sin letras ni cognition
de Dios, todos carnales y mundanos que no se les da nada de decir
o hacer una maldad por sallir con su intento aunque sepan que
aquello es contra Dios y contra iustitia”. Sigismondo esulta perché
Don Salvatore Aymerich “el peor de todos”, si trova “desterrado” nel
luogo peggiore in luoghi “ubi exalat opaca mephitis”, e sia quasi in fin
di vita dopo un naufragio ad Oristano; Zapata, l’ideatore di tutto, è
costretto a domicilio coatto. La Sardegna è diventata una Babilonia e
Sigismondo è contento di averla abbandonata.

Sigismondo Arquer e Don Gaspare Centelles nella bufera politica del XVI secolo
4. La sentenza dell’Inquisizione contro Centelles. – La sentenza
contro Don Gaspare Centelles è richiesta dall’Inquisizione di Toledo
in data 12 luglio 1566 e pronunciata dal sant’Uffizio di Valenza
e viene letta a Sigismondo Arquer, che è interessato al tempo “en
que fue hereje el dicho Don Gaspar”. La prima parte del documento
è il sunto del processo (letto all’imputato in data 17 settembre 1564)
nella piazza della cattedrale di Valenza (detta de los Apostoles). A richiesta
dei licenciado Oviedo, Promotore Fiscale, Bernardino de
Aguilera, inquisitore, rende pubblica la sentenza: l’arresto è causato
da certe “Informaciones” presenti nel S. Offizio su alcune proposizioni
eretiche dette e profferite da Gaspar Centelles contro “nuestra
fe catholica”. Nella prima udienza il Centelles aveva dichiarato che
nei sette anni in cui “tuvo bandos” non si confessò, né comunicò per
l’odio contro “a su enemigo”. L’inquisitore gli comunica che su di
lui pende una indagine triennale e lo invita a parlare degli amici, dei
libri. Egli dichiara che la frase di Paolo che termina “hic salvus erit
sit quasi per ignem” non era da intendersi per il purgatorio ma per le
tribolazioni di questo mondo. In risposta alla domanda sul motivo
dell’arresto, espone che “può essere stato a causa della sua abitudine
ad esprimersi liberamente contro frati e predicatori ignoranti, i predicatori
ambiziosi che fanno sfoggio di eloquenza in quanto todo lo
ponen en mirar por su provecho y se descuydan delas animas”. Scrive
Guglielmo Mollat, alla voce “Inquisizione” dell’Enciclopedia
Cattolica (Città del Vaticano 1951) che “esistevano vari mezzi per
costringere l’imputato a confessare: il regime della prigione stretta,
che comportava il digiuno, la privazione del sonno, la prigionia nelle
segrete, i ceppi ai piedi e le catene ai polsi e tormenti anche più crudeli.
Se recalcitrava, il detenuto era sottoposto alla tortura, ossia al
cavalletto, alla corda, ai carboni ardenti od al supplizio dello stivaletto.
Tuttavia bisognava evitare sempre la mutilazione e il pericolo di
morte”. Ancora lo stesso spiega le persecuzioni ai valdesi, che, perseguitati
dovunque emigrarono nelle Alpi del Delfinato, poi, scacciati
dai loro rifugi, passarono nel Piemonte, dove esistono tuttora. Nel
secoli XIV e XV gli Inquisitori perseguirono gli pseudo-apostoli, discepoli
di fra Dolcino e gli amanti degeneri della povertà francescana,
conosciuti sotto il nome di beghini, spirituali e fraticelli. Dinanzi
a loro comparivano anche gli Ebrei convertiti che apostavano, i
bestemmiatori, gli scomunicati, dopo un anno di insordescenza, i
colpevoli di stregoneria, di divinazione, di sortilegi, di fatture, di invocazione
del demonio, di delitti contro natura, di adulterio, di incesto,
di concubinato, di usura e, infine, i violatori dei riposo domenicale”.
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240
FRANCESCO CARBONI
È importante la spiegazione: “se l’eretico si ostinava a rifiutare la ritrattazione
o se ricadeva dopo averli abiurati (nel qual caso era giudicato
recidivo) l’inquisitore lo abbandonava (relinquimus) – appositamente
non adoperava il verbo tradimus – al braccio secolare, pregandolo
di risparmiare al colpevole la mutilazione e la morte. In pratica
però questa raccomandazione non aveva effetto; solo preservava il giudice
dall’irregolarità in cui sarebbe incorso con il partecipare a una
sentenza capitale. Se la corte laica di giustizia non avesse dato alle
fiamme l’impenitente o il recidivo, sarebbe stata passibile di scomunica,
in quanto favoriva l’eresia” (C. Douais, Practica Inquisitionis heretice
pravitatis, auctore Bernardo Guidonis, Parigi 1886, pp. 88 e 127).
Un giorno Centelles chiede udienza e dice di aver trascorso una
notte insonne e aguzzando la sua”flaca memoria” ricorda di aver
parlato contro alcuni riti dei morti, poiché secondo lui bastava un
cero per illuminare la croce; disapprova l’uso di seppellire i morti
nelle chiese invece che nei cimiteri comuni, la vendita delle sepolture,
l’obolo richiesto dai preti per amministrare i sacramenti a gente
povera che pagava abbondantemente le decime, il fatto che alcune
chiese avessero l’incarico di celebrare migliaia di messe di suffragio e
non ripartissero le somme incassate con le chiese più povere. Confessa
di aver anche censurato molti predicatori che, invece del Vangelo,
predicavano “rondallas e invenciones de su cabeza”. Egli afferma
di essere stato spinto dal desiderio che i sacerdoti spagnoli fossero
buoni come quelli di altri paesi. Il Fiscale presenta l’accusa coi seguenti
punti: le opere non sono necessarie per la giustificazione, bastava
solo la passione di Cristo; Dio perdonava la colpa e la pena e
che non c’era purgatorio “y que si la yglesia lo predicava era por no
perder el provecho que de los difuntos les viene por parte delas exequias
y capillanias”; la confessione non era approvata perché era una
“cerimonia del confessar y no precepto obligatorio”; aveva nascosto
il libro”del eresiarca Echolampadio” e lo commentava pubblicamente;
era dubbioso “en la libertad del libre de alvedrio”; aveva negato e
scherzato sugli “habitos infusos” e sulla distinzione dei dottori tra
grazia”preveniente y la operante del merito y del condigno y congruo”;
era a disagio con la dottrina di San Tommaso e di Scoto e degli
altri dottori scolastici chiamati “por scornio teologastros”; cercava
adepti al luteranesimo; aveva indotto al crimine nefasto alcuni
“muchachos” che per questo motivo stavano fuggendo da casa; aveva
detto che non potevano parlare coloro che si sentivano ed
erano”Paulista, por que luego los quemarian y que a los hereges no
los havian de quemar y que dexasen que cada uno hablase”; la sacra
scrittura si doveva dichiarare come lo spirito lo “dictava a cada uno”

Sigismondo Arquer e Don Gaspare Centelles nella bufera politica del XVI secolo
e non per tradizione ecclesiastica; diceva che le indulgenze non erano
“de tanto pinto” come si credeva, perché tutto “era por dinero” e
che i preti passavano il tempo nel recarsi “ala banca de los santos”;
che Dio era morto ed aveva preso la passione per i soli predestinati;
che Gesù Cristo non morì per il Turco che sta in Turchia e che se ne
va all’inferno e non si salva; possiede un libro stampato da Munster,
proibito dal Santo Officio; che gli Inquisitori prendono soldi “de lo
que los libros reprovados cuestan”. La discussione pubblica su queste
idee, secondo il Fiscale, rendeva obbligatoria la tortura e la condanna
al massimo della pena: relaxacion, confisca dei beni, interdizione
dagli uffici pubblici ed ecclesiastici per i suoi discendenti. Don
Gaspare nega le accuse e dichiara che le sue discussioni erano disputative
e non afirmative”. Don Gaspare, difendendosi non fa nomi di
maestri ed espone il suo dubbio sul purgatorio: gli sembra verosimile
che Dio, perdonando la pena eterna “tambien perdonaria la temporal”;
che gli uomini debbano ricorrere a Dio e non contare sulle sole
loro forze; rispetto alla “sufesteria” degli scolastici era meglio leggere
le lettere di San Cipriano e di altri santi dottori antichi e moderni.
L’avvocato difensore di Don Gaspar consiglia all’accusato di confessare
tutto e di rimettersi alla clemenza della corte; questi si dichiara
disposto all’ammenda. Il fiscale ripropone poi le accuse di 35 testimoni,
ma, secondo l’accusa, ricade in eresia: il pensare di salvarsi
senza l’aiuto di Dio era atto di grande superbia. Don Gaspare ricorda
ai giudici che i dottori della chiesa primitiva non avevano mai
consentito “que se matasen los hereges, sino que se les apremiasen y
se ensenasen para que se convertiesen”; disapprova le Bolle, perché il
volgo erra quando pensa che comprando”la bulla, se ayrian al cielo”,
senza entrare nel merito del frutto prodotto dalle bolle; non riesce a
spiegarsi perché il papa ed i vescovo si riservassero dei casi particolari
di assoluzione di peccato ed arrivassero a punire i confessori che avevano
concesso assoluzioni, considerate illegali dagli alti prelati. L’avvocato
gli prepara “abonos” come questo: egli riconosce la Chiesa
cattolica romana e l’autorità del sommo pontefice in quanto capo di
essa. Don Gaspare, “con animo danado”, pervaso dal maligno, afferma
che non vuole presentare testimoni a sua difesa e che egli non
pretende la condanna di nessuno di loro, che l’unico capo è Gesù
Cristo; che non si debbono seguire gli ordine dei prelati, senza aiuto
della Santa Scrittura; la verità deve essere confessata apertamente
senza simulazioni né finzioni. L’avvocato, per l’opinione eretica di
non riconoscere il pontefice come capo della Chiesa, lo abbandona.
Gli inquisitori fanno leva sul sentimento familiare, sulla cattolicità
della sua famiglia, sul disonore alla sua parentela, ma Don Gaspare
241

242
FRANCESCO CARBONI
conclude: non tiene conto di parenti, né di amici, né del patrimonio
“sino que persiste en esta opinion aunque sobr’ello le quemen”. La
sentenza conclusiva pronuncia che Centelles è un eretico abominevole,
pertinace, ostinato e coriaceo e che venga rilasciato alla giustizia
e braccio secolare come un membro putrido, infetto, pestifero e
nocivo; i beni devono essere confiscati alla camera ed al fisco regio, i
figli, le figlie, le nipoti, i nipoti, discendenti per linea maschile in secondo
grado e per linea femminile nel primo grado, devono essere
privati di ogni dignità, beneficio ed officio ecclesiastico e secolare,
che siano pubblici e di onore e che loro tengono e posseggono, e devono
essere inabili ed incapaci per impetrare, tenere e possedere altri
nuovamente; non possono essere “justicias, iurados”, chierici, notai,
né reggere altri offici pubblici di onore; non possono trarre su di sé,
né nella loro persona oro, argento, perle, pietre preziose, “seda grana,
chamelote”, né panno fine, armi, né cavalcare a cavallo, né trarre
altre cose proibite dal S. Officio.
Il notaio Michele Bellot verbalizza che la sentenza viene eseguita
il 17 settembre 1564, presenti Don Ramon Puiadas e Don Pedro
Mascòn ed altri cavalieri abitanti di Valenza. La famiglia non accetta
la sentenza e chiede la riabilitazione per non perdere i beni e chiede
la revisione del processo.
5. Sigismondo Arquer nel Regio Consiglio di Sardegna: fortuna ed
emarginazione e liquidazione dell’Avvocato Fiscale Regio. – La presenza
dell’Avvocato Fiscale Regio Sigismondo Arquer nelle riunioni del
Regio Consiglio permette di cogliere alcuni momenti della dinamica
dello scontro in atto. Il Regio Consiglio è un crivello istituzionale
che setaccia le cause penali, decide le composizioni, indirizza gli affari
politici, in particolare affronta l’approvvigionamento di formaggio,
di grano, d’orzo, organizza la difesa (nel periodo dell’Arquer si
decide su armi, su difesa dai Turchi, sull’affare Corsica), si verifica
l’esigenza di lavori negli interessi della Corona. Sono anche presenti
problemi degli officiali regi come il purgar taula, questioni dei Consigli
delle Città regie, di processi dei nobili, del divieto per gli officiali
regi di avere bestiame, di abusi dei Governatori e degli esecutori
di giustizia, di arrendamenti, di revisione dei conti e di altri problemi
che sarebbe lungo enumerare (cfr di F. Carboni, Le cause penali
nel Regio Consiglio della Sardegna ai tempi di Sigismondo Arquer, in
“Annali della Fac. di Scienze della Formazione”, Cagliari 2003).
Per il problema dei rapporti Corona-Chiesa, Sigismondo Arquer
espone con fermezza le sue scelte.

Sigismondo Arquer e Don Gaspare Centelles nella bufera politica del XVI secolo
Il 23 giugno 1556 Sigismondo Arquer definisce il suo parere sulla
restituzione di Don Ludovico Roca al giudice Apostolico, il reverendo
Geronimo Miro.
In data 14 luglio l’abate di Saccargia offende l’Avvocato Fiscale
Regio. Si veda a questo proposito il lavoro dello scrivente dal titolo
L’Avvocato Fiscale Sigismondo Arquer e il patronato regio dell’abbazia
di Saccargia (in “Annali della facoltà di Scienze della Formazione”,
Cagliari 2005): La causa beneficiaria verte anche sul patronato
del Priorato di S. Maria De Scalas, delle prebende di S. Michele
e di S. Lorenzo (Bannari), della chiesa di S. Pietro di Scano
(1556-1559). Il sardo è utlizzato negli atti giuridici e si scopre un
inedito Condaghe di Saccargia (non presente nel Codex diplomathicus
Sardiniae di P.Tola). In questa causa Sigismondo difende gli interessi
regi anche contro il suo primo testimone d’accusa, il canonico
Cosma Pastor.
Il giorno 20 ottobre 1556 si tratta di una rissa che vede coinvolto
un “alunno” del Vescovo di Alghero. Il 23 ottobre 1556 si discute
sulla pretesa evasione di Pietro Maiolo, strappato dalle mani della
santa Inquisizione. Nel 1557 si sottopone ad attenzione la sentenza
del Governatore del Logudoro in merito all’aiuto da prestare al Giudice
Delegato apostolico contro l’Arcivescovo. Nel 1558, il primo
febbraio, si agita una contesa tra il Commissario Apostolico contro
il Vicario Generale della sede di Cagliari. In data primo dicembre vi
è un conflitto tra il Capitolo di Cagliari e Geronimo Broto. Il 29 ottobre
si deve decidere sull’appartenenza degli scudi trovati addosso
ad un defunto sulla spiaggia di Alghero; il Vescovo pretende che i
beni del”pellegrino” debbano essere a lui aggiudicati e non alla Corona.
Nel 1564 si deve sentenziare sulla richiesta di aiuto del Vescovo
di Ales, Giudice Apostolico, contro Ludovico di Sancto Paulo
Commissario Apostolico del Papa per una causa matrimoniale.
È in data 23 giugno 1556 l’inedito intervento di Sigismondo Arquer
nel Regio Consiglio (che riportiamo quasi per intero) circa la
restituzione di Don Ludovico Roca al Giudice Apostolico, il Rev.
Geronimo Miro (canonico di Cagliari e Commissario Apostolico):
poiché dai meriti del processo appare e consta del delitto di “iniuriantis”
atrocemente verso Gaspare Marongiu “ad Comissia seu Curias”,
per il qual delitto, come è contenuto nella sentenza regia, secondo
il voto del Supremo Consiglio d’Aragona, fu ed è lesa la dignità
e la giurisdizione regia ed è lecito rivendicare verso qualsiasi
persona l’autorità e la propria giurisdizione e colpire il discolo delinquente
o sedizioso, quando sia congrua che sia pronta la rovina per
l’officio “presidiali” ed anche è presente l’esempio di Salomone nei
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244
FRANCESCO CARBONI
libri “arcentis et relegantis” il sacerdote Inanatot; e poiché il duce Re
è signore del suolo, “habitacionis et temporalitatum” del suo regno,
tanto che nessuno si può intromettere nelle stesse questioni temporali
e può portare via la “habitacionem” di qualsiasi delinquente nel
suo regno, da cui può espellere e cacciare via qualsiasi persona e poiché
il re ha dichiarato e sentenziato che detto Don Ludovico Roca
sia espulso e cacciato dal regno e secondo i suoi demeriti serva per
un biennio nella rocca della Goletta di Tunisi e per altri quattro
anni non possa entrare nel presente regno, poiché deve essere esiliato
per detto tempo; e nel caso in cui contravvenisse deve essere duplicato
il servizio ed il tempo di esclusione dal presente regno, da cui per
detto tempo fu strappato il territorio ed interdetta la abitazione; e
poiché il re è giudice, sia per diritto divino che umano, nel suo territorio,
per l’osservanza dei regi mandati e avuta diligente considerazione
delle lettere emanate dalla Curia Romana, per cui deve aversi
la dovuta riverenza, come si deve avere di diritto perché difettano
col vizio anche “surreptionum et obrepcionum”, come appare dai
processi di questo negozio, perciò e per altro è del voto e dell’opinione
che detto Ludovico Roca sia escluso e si estragga dal presente
regno con la prima nave che parta, dal presente porto di Cagliari,
verso la Goletta, Napoli, o Sicilia, se non si trovassero più presto
navi che trasportino, notificandogli i mandati regi; e che dal regno
tale persona si espella, attesa la sua qualità, poiché altrimenti ne può
conseguire un grande inconveniente e scandalo, perché i mandati
regi nelle cose temporali e negli affari “soli” non sono eseguiti ed anche
che l’uomo delinquente e sedizioso, come è noto, contro i mandati
regi, abiti nel suolo regio; e così molti vedendo che Don Ludovico,
per vie ricercate, “exquisitas”, sia esente dalla sentenza regia e o
senza pena o con lieve pena abiti in città, sarebbe un esempio deteriore
per il popolo e molti commetteranno altri e peggiori delitti,
considerando che anch’essi possono evadere nello stesso modo in cui
evase Don Ludovico e perciò “invicto” abita nel suo regno e poiché
serva a prevedere una maggiore cautela sui predetti (da Sua Santità e
Sua Maestà e sua “Celsitudo”), anche escluso detto Don Ludovico
dal regno potranno sua Santità e sua Maestà provvedere a ciò che
sarà da loro ben visto. Il magnifico Pere Fortesa, Reggente la Recettoria
del Riservato è di parere “per esser cosa important al servey de
Sa Magestat y a Sa Real preheminencia, se remet al parer y vot dei
magnifich y egregi Regent la Canceleria”. Il nobile Don Joan Fabra,
Procuratore Reale, è di voto e parere di rimettersi al parere e voto
del Reggente la Reale Cancelleria. Il Maestro Razionale Francisco
Ram dice che la sentenza del re, per cui Don Luis Roca dovesse an-

Sigismondo Arquer e Don Gaspare Centelles nella bufera politica del XVI secolo
dare alla Goletta, non si è effettuata fino a quel momento per “falta
de passatge”; poiché consta che Roca è un “coronat” ed è arrivato il
mandato apostolico con cui il papa ordina di portarlo in sua presenza
per “poderlo castigar” e poiché il re ha sempre comandato ai propri
officiali che “sia obeida la fede Apostolica” verso i “Coronats que
li pertanye”, è del voto e parere che Don Luis Roca sia restituito al
Giudice Apostolico con “cominacio” che metta in esecuzione ciò
che il papa ordina a “estes passages” che sono nel porto di Cagliari.
Il voto del Reggente la Reale Cancelleria è il seguente: nei fatti di
“repetitionis” fatto dal giudice e Commissario Apostolico della persona
di Don Ludovico Roca, chierico coniugato (come consta dalle
lettere apostoliche esibite) e poiché consta della potestà del giudice e
commissario apostolico che prevede e comanda al “domino presidi”
e Capitano generale del regno che detto chierico gli si restituisca per
tradurlo alla curia romana per “excessibus” pretesi contro di lui e per
cui gli era stato ordinato di andare e trasferirsi nella fortezza della
Goletta di Tunisi (per sentenza proferta dal Re “Celsitudinem” e dal
suo Sacro Regio Supremo Consiglio); la qual cosa per impedimenti
dell’esecuzione non fu domandata; e poiché consta del titolo “clericali”
del chierico, secondo gli statuti dei sacri canoni, pertiene quello
al foro e giudizio del giudice ecclesiastico. Il Reggente la Reale Cancelleria
pronuncia: per questo e per le lettere apostoliche provvedute
per mezzo della sede apostolica, nel caso in cui “sua celsitudo” ed il
suo Regio e Supremo Consiglio avessero avuto notizia od avessero e
fossero entrati nell’esecuzione della sentenza, anzi avessero rimesso il
caso piuttosto a Sua Santità come del suo foro e giurisdizione, perciò
Francesco Campfullos, Reggente la Regia Cancelleria nel Regno, è
di voto e di opinione che detto chierico sia restituito al giudice e
commissario apostolico all’effetto di tradurlo subito alla Santità “domini
nostri Pape” o all’Auditore Generale della Camera Apostolica,
secondo la serie e tenore delle lettere apostoliche a cui non vuole
contravvenire (“quibus metu censurarum in eis apositarum contra
venire nequeo”). Il Viceré (sua dominatio), Presidente generale, conclude
col magnifico Reggente la Cancelleria e con la maggior parte
degli officiali regi. Sigismondo Arquer, Avvocato Fiscale è per la restituzione
di don Ludovico Roca al detto giudice e commissario
apostolico; mentre è presente nel Regio Consiglio dice che stava e
perseverava nel suo voto e che era un grande inconveniente che “in
restitucionem eius et actorum sententia annullando” e che almeno si
portasse via (auferetur) il territorio a Ludovico Roca e fosse espulso
dal regno “juxta tempus sententie cum dominus Rex sit dominus
territori”.
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FRANCESCO CARBONI
In data 14 luglio 1556 Giovanni Biquisao, abate di Saccargia dell’ordine
Camaldolese, per le parole insolenti pronunciate contro
l’Avvocato Fiscale, viene condannato ad essere condotto e rimesso
nelle mani dell’Arcivescovo di Cagliari, poiché egli non ha prelatura
oppure superiore del suo ordine nel regno di Sardegna; l’Arcivescovo
lo deve custodire come un qualsiasi altro giudice a cui spetti la conoscenza
del reato di ingiuria. Il 20 ottobre 1556 il Regio Consiglio (è
Avvocato Fiscale Regio il Porcell) esamina la rissa (brega) avvenuta
tra Pietro Caxa, da una parte ed un tale Geronimo, alunno del Vescovo
di Alghero. Andrea Sanna, figlio di Baingio Sanna, aveva inseguito
Pietro Caxa, per offenderlo con altri, fino a casa del mastro
Biagio Meloni. Si vede l’istromento di pace firmato tra Baingio Sanna
per sé e per il figlio, i cognati e gli amici, da una parte, e Giovanni
Serra per sé, figli ed amici, dall’altra. L’insulto fatto contro Caxa,
secondo i capitoli di pace, considera la pace violata e Baingio Sanna
incide nella pena di “ingiunctio” di pace. Viene considerata la benignità
del tempo in cui detta pace fu firmata (il maggio scorso), mentre
il Viceré si era recato ad Alghero, a loro istanza, affinché la pace
firmata facesse recedere i dissensi ed i bandi (bandositatibus) che vi
erano tra di loro, per cui lo stato (res publica) massimamente viene
leso e conseguentemente la recente violazione della pace, subito
dopo averla firmata, deve essere punita acremente sia per essi che per
altri. Il Regio Consiglio conclude; che si scriva al Regio Vicario di
Alghero affinché rafforzi di più il processo per la rissa ed, in caso di
“repetitionis”, si traduca la persona di Andrea Sanna; il Vicario del
Vicario del Vescovo di Alghero opponga ed alleghi la concordia del
governo di Eleonora e del Cardinale Comengie e faccia la contenzione
con l’elezione di arbitri, come è solito fare; ed ugualmente si scriva
al Governatore del Capo del Logudoro affinché faccia catturare
Baingio Sanna, che firmò la pace per sé, per i suoi figli e per altri;
una volta preso, lo traduca in maniera sicura dal Viceré, affinché
questi, visto il processo e la sua fortificazione, possa provvedere per
la buona amministrazione della giustizia. Il giorno 23 ottobre 1556
il R.C. prende in esame il caso di Pietro Mayolo, che, si dice, fu portato
via da alcuni in strada reale, mentre era nelle mani della famiglia
del Vescovo di Alghero, per il cui provvedimento ed ordine fu
preso e veniva condotto ad Alghero. Ad istanza e richiesta del Vescovo,
Mayolo fu preso a Cagliari dal Viceré e detenuto nelle regie carceri;
vista l’informazione del Viceré, poichè consta che Mayolo non
fu portato via, come alcuni pretendevano, ma piuttosto fuggì per
l’incuria e la negligenza di coloro che lo conducevano; vista la deposizione
di Giovanni Salines Alguazile dell’Officio della Santa Inqui-

Sigismondo Arquer e Don Gaspare Centelles nella bufera politica del XVI secolo
sizione, e dei suoi compagni che deposero come Mayolo fu violentemente
strappato dalle loro mani, mentre appare che essi hanno detto
un mendacio per scusare la loro negligenza; poiché il Vescovo di Alghero
deve conoscere sulle colpe di Salines e soci (essendo suoi officiali),
e poiché sembrano aver delinquito nell’officio a loro affidato,
il R.C. conclude: che la supplica di Salines e compagni sia spedita
con il giuramento ed omaggio al Vescovo di Alghero con l’impegno
a presentarsi entro dodici giorni, contando dal giorno di recesso da
Cagliari. Il 3 novembre 1556 Pietro Mayolo, detenuto nelle Regie
Carceri, che si diceva strappato dalle mani e dalla potestà della famiglia
del Vescovo di Alghero, mentre si conduceva prigioniero in strada
reale, per alcuni eccessi pretesi contro di lui e pertinenti all’officio
della Santa Inquisizione, dopo il ricevimento della informazione
sulla evasione, poichè consta che Mayolo non fu violentemente
strappato da alcuni dalle mani della Famiglia, ma piuttosto, per l’incuria
e la negligenza era fuggito, il R.C. conclude: che Mayolo venga
liberato dalla violenta evasione pretesa contro di lui e che venga rimesso
al Vescovo di Alghero come ordinario, affinché egli conosca
sui pretesi eccessi, dando tempo a Mayolo di dieci giorni per presentarsi
di fronte al Vescovo, col giuramento e l’omaggio e la pena di
100 ducati in caso di contravvenzione.
Nel 1557 la Chiesa adisce al Regio Consiglio in merito alla sentenza
del Governatore del Logudoro sull’aiuto all’Arcivescovo; la
sentenza è dichiarata male giudicata (27 novembre), ma in seguito
viene confermata la sentenza del Governatore (23 dicembre).
Il 23 dicembre 1557 nella causa d’appello fra Don Jacobo Manca
e l’Arcivescovo Turritano, dove si appella dalla sentenza del Governatore
del Capo del Logudoro sull’aiuto, da prestare al Reverendo
giudice Delegato Apostolico Matteo Casada contro l’Arcivescovo o
il suo Procuratore, in “Regia Audentia” è concluso che la sentenza
del Governatore (di doversi prestare aiuto) si debba confermare. In
data 1 febbraio 1558, nella contesa tra il Reverendo Giovanni Antonio
Brundo, Commissario Apostolico, contro il reverendo Giovanni
Dessì vice gerente del Vicario Generale della sede di Cagliari e contro
Geronimo Comprat, Canonico di Cagliari, il R.C. conclude:
“cassatis et annullatis et irritatis actis et censuris hinc inde cominatis
et fulminatis” del Vicario e Commissario, “se ad invicem absolvant”
e, per dichiarazione ed interpretazione “Brevium Apostolicorum, remittatur
Sedi Apostolice et Suae Sanctitati”.
Un’altra contesa è tra il Reverendo Capitolo di Cagliari contro
Geronimo Broto, male appellato dalla sentenza del Regio Vicario in
data 1 dicembre (é presente anche Sigismondo Arquer). Il R.C. lo
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FRANCESCO CARBONI
stesso giorno discute per il possesso dei villaggi di Tiesi, di Bessude e
di Montes. In data 29 ottobre 1558 vi è la questione dei 15 scudi
trovati addosso ad un morto nella spiaggia di Alghero, e sorge il conflitto
di competenza tra la Corona ed il Vescovo. Il 29 ottobre 1558
il Vescovo di Alghero scrive: il Luogotenente del procuratore reale
ha richiesto molte volte 15 scudi che alcuni “frayles” trovarono addosso
a un uomo nella spiaggia vicino al Monastero della Pietà; anzi
la somma era di 17 scudi in oro e di questi ne presero 15 i frati della
Pietà e gli altri li riscosse Angelet Carcassona da un laico. La richiesta
dei 15 scudi non è stata accolta perché non si devono dare “por
que no pertenecia esto a S.R.M.” né ad altro Officiale Regio, perché,
secondo il diritto, quando uno muore ab intestato, il “prelado”
prende tutto ciò che si trova di quest’uomo ed ordina di seppellirlo e
fare ciò che sembra opportuno per la sepoltura; nel caso in cui sopraggiungano
i parenti, come padre, madre o figli a questi gli si affida
tutto ciò che il defunto aveva e questo é opera e competenza del
prelato per un anno ed un giorno, secondo costume; trascorso il
tempo e non trovandosi eredi o successori nei beni, il prelato, come
“pater animarum”, dispone di questi beni in favore delle Cause Pie
per l’anima dei defunto; e questo è il diritto che si osserva e di costume,
quando si offrono simili casi per chi muore “ab intestato o supitaneamente”
e non ha potuto disporre, né lasciare per la sua anima;
il diritto dispose che il prelato agisse nella suddetta maniera. Nel
caso in oggetto, il Vescovo dichiara di aver ordinato di seppellire il
defunto e questa è una opera pia di cui spetta l’esercizio al prelato
ed, in ciò che spetta all’anima, il Re non deve intromettersi: “al anyma
no se entromete Su Magestad ny sus Officiales sino el Perlado
tanto por costumbre antiquissima en todas partes y de derecho comun,
com podia V.M. comunicarlo oy con letrados y les dira que
vean el autentico de statu, … totam de sucessionibus y en otras muchas
partes y el Perlado no lleva desto un quatryn y una blanca, sino
que se ha de disponer, como dicho es, por la anyma del defunto y
para este effecto V.M. mande a su Tenyente que buelva los dos escudos
que ha Ilevado per este caso no pertenere ny al Rey ny a V.M.
en su nombre ... comunicalo V.M. con el S. Visitador, que es hombre
docto, y con los que mas mandare que le dican lo que en este
caso se debe guardar, aunque como diga la Consuetut es esta que dicho
... que tienen en su casa sepultado al dicho defuncto, tienen por
cierto queste dinero todo o parte han de rebar ellos por tener lo
cuerpo en su cassa y haver dicho missa y echo sacra sea es por el y
V.M. sea que me tengo por tan bien servidor de Su magestad que no
le quitare nada de lo que yo conosiere que le pertenece ny consenti-

Sigismondo Arquer e Don Gaspare Centelles nella bufera politica del XVI secolo
ria que otros lo hiziessen. V.M. se informara bien de estas cosas y
vera lo que ha de pedir y tambien me tengo ... tan servida a V.M.
que si alcansasse que ... pertenia esto yo llamara su Teniente y le
dixiera lo que havia de hazer…
De L’Alguer a XXVIIII de octobre 1558. Essas cartas que conesa
el senor Vísitador mandara dar luego es de V. Merced muy cierto
servidor que sus mano besa Episcopus Algaren”.
Il 4 novembre 1558 nel Regio Consiglio (presenti Pietro Fortesa
Reggente delRiservato, Joannes Fabra Procuratore Reale, Boy L.T.
di Maestro Razionale, Campfullos (Reggente la Reale Cancelleria),
in merito ai 15 scudi trovati “in quodam homine mortuo et reperto
in littore maris Civitatis Algarensis et receptorum” dal Vescovo di
Alghero col pretesto che gli spettino di diritto, poiche i beni dei pellegrini
(“bona peregrinorum), secondo il disposto, sono di quel vescovo
del luogo in cui si ritrovano, se non compaiono gli eredi; poiché
non consta che l’uomo nella spiaggia fosse straniero o sardo; nel
caso in cui apparisse che fosse straniero, non risulterebbe che fu pellegrino”
qui devotionis causa peregrinaretur ad sanctum Sepulcrum
Romam, sanctum Jacobum vel ad quem libet alium locum donatum”,
nel qual caso si comprende che si restituisca l’“auctentica”. Il
Regio Consiglio conclude: i 12 scudi riscossi dal Vescovo devono restituirsi
al Procuratore Reale, perché pertinenti al Fisco ed erario regio;
se compariranno gli eredi del defunto, la Curia regia farà “quod
iuris est et assuetum”. Come si vede la Bulla in Coena Domini per i
“romipetentes” trova in Sardegna una peculiare interpretazione.
In data 14 settembre 1564 vi è la causa per la richiesta di aiuto
(petitionis auxilii), chiesta dal Vescovo di Ales contro il frate Ludovico
di Sancto Paulo, Commissario Apostolico del Papa nella causa
matrimoniale tra Francesco Bose ed Antonia Gracet. È presente il
magnifico Giovanni Antonio Arquer, Proavvocato Fiscale, che esprime
il voto seguente: si deve prestare aiuto al Vescovo di Usellus contro
il frate Ludovico di Sancto Paulo, che ha commesso eccessi e
comminazioni contro la forma della Commissione papale, ossia giudice
di Rota; deve essere ammonito, per rimuovere subito l’ostacolo
ed il popolo non sopporti il danno e per evitare il pericolo imminente
di omicidi ed altro. Il magnifico Geronimo May, giudice della
Regia Curia, in merito alla dichiarazione fatta dall’Arcivescovo di
Cagliari e dal Vescovo di Ales, è dello stesso voto di Giovanni de
Ruecas, Reggente la Tesoreria, per cui dichiara che ciò procede bene
ed è di voto e parere che si dia l’aiuto. Vincenzo Bacallar assieme a
Ruecas si sottoscrivono. Ludovico di Sancto Paulo, in virtù di due
lettere apostoliche citatorie ed inibitorie, emanate da Pomponio
249

250
FRANCESCO CARBONI
Cata (Uditore della Sacra Rota), riceveva l’ordine (sibi precipiebatur)
di citare le parti ed inibire al Vescovo di Ales, sotto pena di scomunica
(in caso di mancata esecuzione entro sei giorni) affinchè le parti obbedissero
ai mandati apostolici; egli aveva avuto la funzione d’ufficio di
poter costringere (compelli) alla cessazione e desistenza e doveva agire
di concerto con il superiore, l’Uditore della Rota. Il Reggente la Reale
Cancelleria è del voto seguente in merito all’aiuto da impartire al Vescovo
di Ales: chiedere ad altri “letrados” del Consiglio Regio se fra
Luigi di Sancto Paulo, conforme alla commissione ricevuta, avesse ben
proceduto nello scomunicare il Vescovo di Ales. Poiché i “letrados”
certificano che non bastava la commissione per scomunicare il vescovo
e per essere cosa scandalosa e conculcatrice contro un prelato del
Consiglio del Re, vista anche la dichiarazione dell’Arcivescovo di Cagliari,
come ordinario, il Vicerè conclude col voto dell’Avvocato Fiscale
Arquer e di Geronimo May, giudice di corte, di Joan de Ruecas
Reggente la Tesoreria, di Vincenzo Bacallar Reggente l’officio di L.T.
di Maestro Razionale, esortando che si “quite “il detto “entredicho”.
Il Regio Consiglio provvede anche a dichiarare le composizioni
per reati sia penali che di contrabbando. Le composizioni per cause
criminali, compreso l’omicidio e la violenza su donne, avvenivano
anche nei vari feudi e villaggi (cfr. F. Carboni, La giustizia nella Barbagia
di Seulo del secolo XVII: il “desistiment” dal “clam criminal” per
omicidio, in “Annali della fac. di Magistero”, Cagliari 1991-1992).
Nella Barbagia di Belvì, un omicidio perpetrato dal prete Basily
Cuy, ad Aritzo, nella prima metà del ’600 è composto secondo il costume:
il prete omicida si impegna a far sposare il nipote orfano con
la sorella dell’ucciso, della famiglia Garau, mettendo il suo patrimonio
a disposizione del matrimonio.
La penale per le composizioni è in genere “franca” dei capisoldi.
Nel 1556 vi sono le seguenti composizioni per reati contro l’ordine
pubblico:
• composizioni abusive ad Alghero (arresto del Veghiere Bernardino
Omede e del suo Assessore;
• Giovanni Padria (22 ottobre);
• uccisione casuale a Sassari, dopo la desistenza della parte vulnerata
ed il pagamento di 4 ducati e dopo otto anni di esilio volontario
dal regno (3 novembre);
• pace per rissa ad Alghero (20 ottobre);
• Sassari (3 novembre);
• ferite a “porter”, 10 scudi (23 dicembre).
Altre composizioni per contravvenzioni alle leggi sul commercio
sono pronunciate nel 1556:

Sigismondo Arquer e Don Gaspare Centelles nella bufera politica del XVI secolo
• vendita di grano al prezzo superiore a quello dell’’afforo, composizione
di 10-15 ducati (23 dicembre);
• trasporto di grano di nottetempo ad Orosei.
Nel 1557 le composizioni ammesse sono: al Potestà di Terranova,
permesso di contrabbando, composizione di 40 scudi (5 gennaio). I
commercianti Limona si impegnano a pagare 500 ducati se contravvenissero
all’esportazione diretta a Livorno (23 luglio e 15 settembre).
Nel 1558 le composizioni trattano:
• rivolta in Ogliastra (28 gennaio); licenza di stare a Cagliari (12
marzo);
• errori nel servizio di 4 persone a Tempio, 300 scudi (28 giugno);
• Antonio Puzonina di Sassari (8 luglio);
• omicidio ad Oristano, lire 50 attesa la remissione (17 marzo);
• vendita di generi a prezzo maggiore dell’’afforo (2 settembre);
• Antonio Cano di Sassari, 6 scudi (25 ottobre);
• per bastonate (25 ottobre):
• rissa ad Uta, 10 scudi (8 novembre);
Le composizioni, presente Sigismondo Arquer, sono per la mancata
diligenza del Maggiore di Giustizia di Serri nel trasporto della
lettera del Vicerè, lire 100 (22 ottobre); 10 scudi da Antonio Mannino
di Settimo che ha dato un “buffet” durante una rissa (4 novembre);
altre due sono in data 26 novembre. È indubbio che l’Avvocato
Fiscale Regio Sigismondo Arquer conoscesse e padroneggiasse la lingua
sarda, base essenziale della sua attività investigativa, come appare
anche nella sua veste di difensore del giuspatronato.
6. La tortura e l’esecuzione di Sigismondo Arquer. – Il 23 dicembre
1570 i membri della Suprema vogliono, prima della tortura, interrogare
Sigismondo Arquer su Pompeo Colonna (che appare nell’ottava
lettera a Centelles). L’inquisitore Velarde pone la domanda a bruciapelo
su Pompeo Colonna, che sembra aver avuto rapporti col Carnesecchi;
Sigismondo dice di aver conosciuto Pompeo Colonna alla
corte, per una normale conoscenza. Velarde obietta che è chiaro un
particolare legame fra Sigismondo e Colonna perché diversamente”
no havia color para que este escriviesse a Don Gaspar Centelles ereje
pertinaz”. Il giorno seguente Sigismondo racconta a Velarde che
Pompeo “era criado del Principe Nuestro Senor, el que agora es Rey
y cree que la servì de la boca”. Il 15 gennaio la Suprema invia all’Inquisizione
di Toledo la deposizione rilasciata da Geronimo Conques
(il 20 marzo 1563) all’inquisitore Alonso de Soto mayor a Valenza,
251

252
FRANCESCO CARBONI
nella quale si accusa Sigismondo di non credere nella transustanziazione,
deposizione ratificata il 14 dicembre 1570. Nei primi cinque
mesi del 1571 Sigismondo è imprigionato, trascurato dall’Inquisizione,
ma il 21 maggio viene nuovamente interrogato sulle persone
con cui aveva parlato di luteranesimo; gli viene poi comunicato che
“sea puesto a quistion de tormento para que declare con què personas
los a tratado (los errores y heregìas de Lutero) y comunicado y
què personas con el”; Sigismondo allega la nullità perché il processo
non ha rispettato l’ordine del “Consejo”, per cui gli inquisitori dovevano
informare Sigismondo sulle decisioni che si sarebbero prese
dopo aver esaminato l’incartamento. Le sue proteste non vengono
ascoltate e viene formulata la sentenza con cui si condanna Sigismondo
Arquer “a que sea puesto a quistion de tormento de agua y
cordeles in caput alienum”, in cui dovrà dichiarare con quali persone
ha avuto comunicazione sugli errori di Lutero e ciò “por el tiempo
que nuestra voluntad fuere”; gli inquisitori protestano che se morisse
o venisse mutilato la colpa è solo del torturato (“si en el muriere
o sele quebrarà algun miembro, sea a su culpa y cargo y no a la
nuestra”). La sentenza è firmata dai licenciados Beltran, Velarde,
Vaca e Vèlez e viene letta a Sigismondo, che persevera, inutilmente,
nell’appellarsi allo alguazile che lo conduce nella camera di tortura,
dove si esegue subito la sentenza. Entrati nella camera della tortura,
“torment”, gli inquisitori e gli “hordinarios” chiesero all’Arquer di
dire la verità, “decir la verdad”; viene poi denudato e sistemato nel
banchetto, nudo, “sentado en le banquillo, desnudo”; poi gli
furono”atados los braços con un cordel y dado bueltas”; Sigismondo
comincia ad urlare, “a dar bozes” invocando Dio Redentore; vengono
poi dati due giri “al cordel delas munecas” e si ripete l’operazione
per altre volte; dopo viene messo “en el potro y, tendido, le fueron
atados a los braços en cada uno un cordel” e “dixo que el chorrea
sangra y ha estado muy malo de un lado en las espaldas, despues se a
sentido muy malo y luego le fueron puestos unos cordeles en los
muslos y dado dos bueltas y en las piernas baxo delas rodillas, en
cada una la suya” vengono dati altri giri con un “garrote”; quando
l’Arquer è esausto (enfermo), viene sospesa la tortura e viene gonfiato
di acqua, “sele comencò el tormento del agua y por estar fatigado
se suspendìo”. Il giorno dopo, il 22 maggio, l’Arquer, ricondotto in
udienza, ribadisce che egli non ha commesso i peccati di cui viene
accusato, lamenta che non si siano voluti incriminare i testimon, che
egli accusa di falso; chiede che venga nominato un altro difensore;
chiede lettura degli atti di tortura e, dopo, dichiara che essi sono
prova della sua innocenza. Il primo giugno gli inquisitori fanno un

Sigismondo Arquer e Don Gaspare Centelles nella bufera politica del XVI secolo
ultimo tentativo per strappare la confessione degli errori; sono chiamati
i domenicani teologi Vicente Varron e Gaspar de los Reyes. II
4 giugno 1571, nell’autodafè che si celebra nella piazza di Zocodover
di Toledo, Sigismondo Arquer è condannato come eretico ribelle:
“fue condenado a relaxacion, y aunque se le predicò mucho, permanecio
impenitente, titulandose martir e insultando a los sacerdotes
auxiliantes, por lo cual se le puso mordaza en la boca, que tuvo
en el auto de fe y despues, hasta que se le hatò al palo para morir”.
Gli alabardieri vedendo che egli “se aprobiaba” l’onore del martire,
“clavarons en su cuerpo las alabardas”, mentre gli “ejecutores dela
justicia incendiano la “hoguera”, in modo che il “doctor Sigismundo
muriò a hierro y fuego”. Nel “memorial del aucto de Inquisicion”
deil 4 giugno 1571 si verbalizza che Sigismondo Arquer, nativo di
Cagliari, “Iuterano muy famoso y negativo y despues pertinaz, relaxado
ala justicia y braço seglar en forma con coroça y sambenito y
confiscacion de bienes”; si aggiunge che “era grandissimo letrado,
doctor in utroque, habilissimo aun que para lo que le convenia a su
salbacion fue muy torpe y tuvo el demonio en el mucho poder”. Il
Re aveva ordinato che “no se debìa asaetar ni justiciar hombre vivo
sino que abìa de ser primero’ahogado, quiso que le ahogasen”; gli inquisitori,
vedendo che per gli spettatori era “tan pertinaz y que tan
hereje moria, porfiaban en le quemar bivo y sobre esto ovo allì en el
brasero una escarapela. Y ovo alguno y algunos que con una labarda
y otras armas le dieron algunas heridas y d’esta manera, medio bivo
ni muerto, en fin le pegaron fuego y murio el malaventurado en su
heregìa y pertinacia”.
253

SIMONA BANDE
I CODICI TEATRALI
NELLA COMEDIA DEL DESENCLAUAMIENTO
DI ANTONIO MARIA DA ESTERZILI
L’opera seicentesca di A. Maria da Esterzili ( 1 ), la Comedia del
Desenclauamiento ( 2 ), analizzata attraverso i codici teatrali, presenta
un’orditura drammatica assai interessante. Ogni opera teatrale, infatti,
“è sempre un’occorrenza discorsiva complessa risultante dall’intreccio
di più materie espressive organizzate in codici e sottocodici che
nel loro insieme costituiscono la struttura testuale” ( 3 ). Sarà allora importante,
scoprire l’effetto combinatorio risultante dal testo in esame
funzionalmente ai codici della prossemica, cinesica, gestualità,
dei toni soprasegmentali, dell’illuminazione, dei costumi ecc.
Il Desenclauamiento o “Schiodamento” costituisce il terzo dei cinque
misteri ( 4 ) ciclici racchiusi e sviluppati nel corpus manoscritto ( 5 )
( 1 ) Per la biografia cfr. sempre S. BULLEGAS, La Spagna il teatro la Sardegna. Comedias
e frammenti drammatici di Antonio Maria da Esterzili, CUEC, 1996.
( 2 ) Il titolo completo è: Representacion de la comedia del Desenclauamiento de la
Cruz de Jesu Christo nuestro señor. S. BULLEGAS, op. cit. p. 19.
( 3 ) M. DE MARINIS, Semiotica del teatro: L’analisi testuale dello spettacolo, Bompiani,
Milano 1982.
( 4 ) In realtà i misteri drammatici contenuti nel manoscritto esterzilese sono quattro:
il Nacimiento de Christo, la Passion, il Desenclauamiento e l’Assumption. Tuttavia
fra queste due ultime comedias si trovano i Versos que se representan el dia de la Resurrection,
vero e proprio componimento in versi che, per il loro carattere accentuatamente
dialogico “non si devono semplicemente leggere o cantare ma representar”. Ciò significa
che si tratta di “versi che si devono recitare, cantandoli drammaticamente sulla melodia
dei gosos, all’indirizzo di gruppi statuari, che rappresentano i personaggi rievocati, in questo
caso, quelli di Maria addolorata e di Cristo risorto”. S. BULLEGAS, op. cit., p. 362.
( 5 ) Il manoscritto, titolato Libro de comedias escripto por Fray Antonio Maria da
Estercily, sacerdote capuchino, e datato En Sellury 9bre a 18 año 1688, contiene la
Conçueta del Nacimiento de Christo; la Comedia de la Passion de nuestro señor Jesu

256
SIMONA BANDE
del frate cappuccino Antonio Maria da Esterzili. Al contrario della
Passion e dell’Assumption, in cui propone la partitura in atti, in questo
dramma del dolore e della compassione, egli allestisce un’azione unica,
secondo la migliore tradizione della sacra rappresentazione, concepita
secondo una messinscena “scarna” ed essenziale. Il cadalso è ideato
come uno spazio vuoto dominato al centro dal Cristo crocifisso e
occupato lateralmente dalle sole mansions di Pilato e del sepolcro. È
attorno a questi tre fondamentali loci deputati che si snodano le scene
più o meno dinamiche di questa sacra rappresentazione agita da diciassette
personaggi che, a seconda delle esigenze sceniche, “obbediscono”
al criterio dell’entrata, permanenza ed uscita dal palco.
L’opera ha inizio con la comparsa in scena del Prologo; di lui l’autore
non offre nessun suggerimento in didascalia. È verosimile, infatti, che
anche questo personaggio, come già quello della Passion, passeandose ( 6 )
davanti agli spettatori, fosse uestido de largo con la cabessa y cara cubierta
con un paño negro ( 7 ) per declamare i versi che creano l’ideale continuazione
con la Passion e che preludono ai fatti luttuosi successivi alla morte
di Cristo. In questo suo recitativo, il Prologo esprime il dolore dell’universo,
ammonisce e più volte invita gli uomini al pentimento, fino
a che non esce di scena e fanno il loro ingresso sul cadalso, la Vergine, le
Pie Donne e San Giovanni che si dispongono accanto alla croce. L’azione
è statica, la prossemica si fa subito intima e la scena sale d’intensità
per il tenero ed accorato monologo che la Vergine Maria, “spezzando” il
silenzio, pronuncia alla vista del proprio figlio crocifisso. Il suo dolore è
profondo, straziante, delirante, eppur sempre composto; il suo personaggio,
lontano da qualunque connotazione divina e soprannaturale, è
reso nella sua dimensione umana come si coglie quando la Vergine, rivolgendosi
a Gesù, chiede col tono dolce ed affettuoso di una madre che
parli e racconti la causa della sua disavventura:
Nara, cali esti sa nui qui dadi obscuradu [?]
Fuedda a’ mama tua, ueru reposu. ( 8 )
Christo; la Representacion de la comedia del Desenclauamiento de la Cruz de Jesu Christo
nuestro señor; i Versos que se representan el Dia de la Resurrection ed un frammento
costituito dal Prologo e dall’incipit del primo atto della Comedia grande sobre la Assumption
de la Virgen Maria señora nuestra alos çielos. S. BULLEGAS, op. cit., p. 19.
( 6 ) «[…] passeggiando […]». S. BULLEGAS, op. cit., p. 183.
( 7 ) «[…] vestito con una veste ampia, con il capo e il volto coperti da un panno
nero […]». S. BULLEGAS, op. cit., p. 183.
( 8 ) «[…] Dimmi quale nube ti ha oscurato / parla a tua madre, tu vero Riposo
[…]». S. BULLEGAS, op. cit., p. 380.

I codici teatrali nella Comedia del Desenclauamiento di Antonio Maria da Esterzili
Ed ancora, quando, sopraffatta dal dolore di quel silenzio, è lei
stessa, creatura viva, a non riuscire a proferire più parola:
Hay me qui non potzu fueddari [!]
po qui seu unu mari de agonia. ( 9 )
Ed infine quando, colta dall’atroce pensiero della sua sorte, sentendosi
afflitta, triste e abbandonata, spera di non essere sola nel dolore
e rivolgendosi alle madri chiede che piangano con lei:
Mamas, qui cun amori e’ cun istentu
eis a’ fillus bostus arregaladu
conçideradi si mai turmentu
simili ai gustu sest agatadu [!]
Fedi totus cun megus hoy lamentu:
prangedi custu casu desdichadu;
e’ miradi si tenju poena forti e’ dolu
biendu ay gustu fillu unicu e’ solu. ( 10 )
Dunque Maria è madre fra le madri, e la sua apostrofe dal punto
di vista tecnico è “pretesto” che “muove” alla compassione e alla pietà
i fedeli spettatori.
Ma, come già si è avuto modo di dire, Maria, non è da sola sulla
scena, San Giovanni e Maddalena “stazionano” con lei ai piedi della
croce. Giovanni, discepolo di Gesù, le rivolge parole di conforto,
fino a che non viene sopraffatto dal dolore; a sua volta Maddalena,
peccatrice redenta, in preda allo sconforto, sollecita e quasi incalza le
ultime battute di Giovanni. Entrambi hanno lo scopo di consolare
la Vergine ed aumentare la commozione dei fedeli spettatori. Ma,
mentre S. Giovanni è “personaggio reso secondo moduli comportamentali
ridondantemente dolorosi” ( 11 ), Maddalena, invece, è creatura che ha
vissuto la duplice esperienza del peccato e della redenzione, e le sue
parole a tratti tradiscono la concitazione di chi ha la lucida consapevolezza
di questo percorso e di chi sa di aver meritato la morte desa-
257
( 9 ) «Ahimè, che non riesco più a parlare! / poiché sono un mare di agonia:
[…]». S. BULLEGAS, op. cit., p. 380.
( 10 )«O madri, che con amore e con fatica, / vi siete donate ai vostri figli, / considerate
un simile dolore / se mai si sia trovato a questo eguale! / Fate tutte con me
oggi lamento! / Piangete questo caso disgraziato! / E guardate se a ragione pianga e
soffra / vedendo questo Figlio unico e solo». S. BULLEGAS, op. cit., p. 381.
( 11 )S. BULLEGAS, op. cit., p. 351.

258
SIMONA BANDE
strada del suo maestro. E di fronte all’empietà commessa dagli uomini
verso il proprio creatore, la Maddalena conclude il suo intervento
invocando la venuta sulla terra dei cori celestiali. Ed infatti, la
didascalia suggerisce l’entrata in scena di due Angeli che devono avvicinarsi
alla croce. Essi rappresentano l’anello di congiunzione fra il
cielo e la terra ed il loro intervento nell’economia del dramma costituisce
uno di quei momenti canonici ed edificanti della sacra rappresentazione,
finalizzato ad esortare al pentimento i fedeli spettatori.
La scena ancora una volta è statica ma, riceve enfasi per le apostrofi
toccanti che i due angeli recitano; l’uno riprendendo i versi dell’Ecce
homo della Passion ( 12 ), e l’altro riproponendo quelli declamati dal
Prologo all’inizio dell’opera, secondo un motivo ridondante che
chiude “ad anello” questa parte della rappresentazione.
Fino ad ora, dunque, il Desenclauamiento è una sacra rappresentazione
poco agita: prossemica, cinesica, gestualità sono codici che
vengono appena accennati e per lo più risolti in minimi movimenti
e in semplici gesti che lasciano largo margine all’intensità drammatica
prodotta dalla parola.
Il dolore, il lamento ed il lutto sono, quindi, vissuti, mostrati e
suscitati dalla Vergine, dal discepolo Giovanni e dalla peccatrice
Maddalena, secondo una perfetta “orchestrazione” che l’autore “dirige”
proprio manipolando e modellando la parola.
A questo punto, però, l’“immobilismo” scenico ed il pathos raggiunti
si smorzano, e l’attenzione degli spettatori, ancora emotivamente
coinvolti per il lamento di San Giovanni e delle Pie Donne, è
catturata ora dall’ingresso in scena di due giudei. L’azione resa dinamica
dal loro dialogare e schernire Gesù crocifisso, diviene più intensa
anche nella gestualità quando uno dei giudei guardando la croce
dice all’altro:
( 12 )Cfr. S. BULLEGAS, op. cit., p. 352.
Alça is ogus e’ mira in altu:
forçis qui estimo ligiri
e’ darimi a’ sentiri
su cadi iscriptu Pilatu? ( 13 )
[…]
Cussu iscriptu qui bieis
narat qui cussu est messia
( 13 )«Solleva gli occhi in alto e guarda, / mi sapresti forse leggere e riferire /
quello che ha scritto Pilato?». S. BULLEGAS, op. cit., p. 390.

I codici teatrali nella Comedia del Desenclauamiento di Antonio Maria da Esterzili
e’ declarat totu via
qui est [Rey] de is Judeus. ( 14 )
I due personaggi si muovono sulla scena, accomunati da un forte
rapporto di complicità, ed ora, che si sentono offesi per il titolo di re
dei giudei dato a Cristo, non contentandosi più di beffeggiarlo, decidono
di presentare un reclamo a Pilato perché faccia rimuovere
quella scritta. Nel frattempo, però, sul cadalso sono ancora presenti
la Vergine, S. Giovanni e Maddalena. Essi, infatti, secondo l’espediente
scenotecnico cui ricorre l’autore, permangono sulla scena dall’inizio
alla fine del dramma, a formare ai piedi della croce, un gruppo
statuario che per ogni sequenza della rappresentazione si erge a
simbolo e monito del dolore e della compassione ( 15 ). Proprio come
sta accadendo in questo momento in cui all’umanità dolorante della
Vergine va inevitabilmente contrapponendosi, secondo verità storica
e religiosa, la spietata crudeltà dei giudei.
Tuttavia, prima che i giudei si rechino da Pilato, la scena si fa
particolarmente movimentata con l’entrata e l’uscita dei personaggi
dal palco: escono momentaneamente i due giudei; intanto, la Vergine
ha “spazio” per un breve monologo finalizzato a commuovere e
catalizzare l’attenzione degli spettatori mentre sul cadalso entra Pilato
che, secondo il suggerimento cinesico della didascalia, compie un
minimo movimento sedendosi.
A questo punto la scena è “pronta” e riprende il suo naturale svolgimento
con i due giudei che, di nuovo sul palco, secondo le convenzioni
previste dall’ufficialità, rivolgono a Pilato un lungo ed ossequioso
saluto, teso anche ad ottenere il suo favore. La prossemica pubblica
di questa scena, dunque, rispetta pienamente il rapporto di distanza
tra autorità e popolo anche se, i giudei, ora, parlano a Pilato in quintillas
dal tono deciso:
Innoxi benidu seu
po remediari unu mali,
a’ nosu perjudiciali
y a’ totu su Regnu hebreu
e’ corona jmperiali. ( 16 )
( 14 )S. BULLEGAS, op. cit., p. 390. (Quella scritta che vedi / dice che costui è
messia / e tuttavia dichiara che è re dei giudei). La traduzione è nostra.
( 15 )Cfr. S. BULLEGAS, op. cit., p. 356.
( 16 )S. BULLEGAS, op. cit., p. 392. (Siamo venuti qui / per rimediare una mancanza,
/ che reca pregiudizio a noi / a tutto il popolo ebreo / e alla corona imperiale).
La traduzione è nostra.
259

260
SIMONA BANDE
Ma Pilato è sempre la figura umana, giusta, sentenziosa, e a tratti
quasi cristiana che agisce nella Passion e, bene intuendo le cattive intenzioni
che animano i giudei, esclama:
Causa ancora de mali,
qui podidi essiri ancora in su Regnu [?]
Ymo’ no est su Nazarenu
qui iddu tenestis po’ tali
predicandu senza frenu. ( 17 )
A nulla, valgono i reiterati tentativi dei giudei perché Pilato rimuova
la scritta dalla croce e ammetta il suo errore; egli è irremovibile
e con tono fermo e sentenzioso, in latino, per due volte esclama:
Quod scripsi, scripsi. ( 18 )
E poi:
[…]
È noddu ollu isburrari.
In aeternu ada arrestari,
po sempiri in infinitu,
finsa su mundu acabari. ( 19 )
Considerando il suo atteggiamento un affronto al popolo ebreo, i
giudei lo avvertono delle conseguenze a cui potrà andare incontro.
Allora Pilato preso il ricorso e guardatolo, lo getta a terra e dice:
O’ genti indiaulada
Prena de rabia e de furori [!]
Ancu os durada su rancori,
genti que perda indurada
senza nixunu timori [?] ( 20 )
( 17 )«Che causa ancora di male / può esserci nel Regno? / Ora non è più il malvagio
Nazzareno / che riteneste tale / poiché predicava senza freno». S. BULLEGAS,
op. cit., p. 392.
( 18 )«Ciò che ho scritto, ho scritto». S. BULLEGAS, op. cit., p. 395.
( 19 )S. BULLEGAS, op. cit., p. 395. ([…] e non voglio cancellarlo. / In eterno rimarrà,
/ per sempre e all’infinito / fino alla fine del mondo). La traduzione è nostra.
( 20 )«O gente indemoniata, / piena di rabbia e di furore! / Ancora vi possiede
l’odio, / gente dura qual pietra, / senza alcun timore?». S. BULLEGAS, op. cit., p. 396.

I codici teatrali nella Comedia del Desenclauamiento di Antonio Maria da Esterzili
Ed ancora:
Essedi mindi de ananti,
y andadi in totus diaulus [!]
Hominis peruersus malus
prus durus que diamanti [!]
Prenus de ingannu e’ falçus [!] ( 21 )
La lunga gestazione dinamica della scena e l’alta tensione venutasi a
creare, giungono ora al culmine con lo scatto d’ira di Pilato per poi
decrescere lentamente e concludersi con il gesto del giudeo che raccoglie
il ricorso e che prima di uscire di scena, pone termine con le minacce
al tono di crudeltà che ha segnato l’intera sequenza drammatica:
Subitu, in custu momentu,
andaus poda acusari
forçis qui idanda a’ priuari
de jugi e’ de regimentu
e’ disgustu ideus a’ dari. ( 22 )
Pilato, dunque, dopo Gesù Cristo, sembra essere un’altra vittima
della spietata crudeltà dei giudei.
Usciti i due giudei, la dinamica scenica subisce un rallentamento;
a questo punto fa il suo ingresso in scena Giuseppe che, compie il
gesto di inginocchiarsi davanti alla croce, prima di recitare due quartine
che fungono quasi da nota introduttiva al suo personaggio:
Eccu tempus, maistu miu, di andari,
tenendumi sa paura sepultadu.
Eccumi animosu ingenugadu
ais peis de custa santa Ruxi. ( 23 )
Perdonu deu dimandu humilimenti
si errori deu apu fattu in gusta dij:
261
( 21 )«Toglietevi dalla mia vista / e andate con tutti i diavoli! / Uomini malvagi e iniqui,
/ più duri del diamante! / Pieni di inganni e falsi!». S. BULLEGAS, op. cit., p. 396.
( 22 )S. BULLEGAS, op. cit., p. 397. (Subito, in questo stesso momento, / andiamo
ad accusarti / così che forse ti priveranno / della carica di giudice e di governatore
/ e fastidi ti procureremo). La traduzione è nostra.
( 23 )S. BULLEGAS, op. cit., p. 397. (Ecco, Maestro mio, era finalmente tempo
che io venissi, / tenendo nascosta la paura. / Eccomi coraggioso inginocchiato / ai
piedi di questa santa Croce). La traduzione è nostra.

262
podendu innantis de hoy mostarimi
e’, bisonjandu, morri puntamenti. ( 24 )
SIMONA BANDE
Giuseppe è un “servo” umile che, trattenuta sa paura finalmente,
è giunto animosu al Calvario. Egli è tratteggiato con profonda umanità
e delicata sensibilità che conferisce alla scena particolare intensità
soprattutto quando poco dopo, dialoga con la Vergine.
Maria:
Giuseppe:
Comenti in tanti tristura,
hoy imas abandonadu
ay custu fillu amadu
qui at patidu morti dura,
in custa ruxi inclauadu [?] ( 25 )
I[xi]piais, Senora,
qui de Christus seu istadu
discipulu señaladu;
pero, finça ay gusta hora,
no mi seu declaradu. ( 26 )
Po qui biendu is Judeus
cun tanti crudelidadi
is os naru, in ueridadi,
qui is discipulus timideus
de nosi manifestari. ( 27 )
Ma Giuseppe, ora, è pronto ad eseguire con amore tutto ciò che
gli verrà ordinato; ed in effetti, la Vergine ha una richiesta:
( 24 )«Perdono io chiedo umilmente / se errore io abbia commesso in questo
giorno, / poiché avrei potuto prima di oggi farmi vedere / e, se ci fosse stato il bisogno,
morire insieme a voi». S. BULLEGAS, op. cit., p. 397.
( 25 )S. BULLEGAS, op. cit., p. 398. (Come in tanta tristezza, / oggi hai potuto lasciarmi
sola / con questo figlio amato che / ha patito una morte dura / inchiodato
com’è a questa croce?). La traduzione è nostra.
( 26 )S. BULLEGAS, op. cit., p. 398. (Sappiate, Signora / che di Gesù Cristo sono
stato discepolo prediletto; / però, fino a questo momento / non l’ho mostrato). La
traduzione è nostra.
( 27 )S. BULLEGAS, op. cit., p. 398. (Poiché vedendo i giudei / animati da tanta
crudeltà / vi dico in verità, / che, noi discepoli, abbiamo avuto paura / di farci vedere).
La traduzione è nostra.

I codici teatrali nella Comedia del Desenclauamiento di Antonio Maria da Esterzili
Su qui os pregu si oleis,
di andari a’ undest Pilatu
ey su corpus sacro sanctu
de fillu miu dimandeis
po non darimi prus prantu. ( 28 )
E mentre Giuseppe sta per recarsi da Pilato (ancora in scena),
ecco che incontra Nicodemo che sale sul palco.
Un incontro impensato quello con Nicodemo, dice Giuseppe, sicuramente
voluto dal cielo in una circostanza tanto triste, e proprio
per questo, egli sottolinea, ancora più gradito.
E Nicodemo ribatte:
Ita ocurridi po os serbiri,
[…]
po qui sa presençia mia
disijais tanti biri
ey incontrari totu uia[?] ( 29 )
Allora Giuseppe in sette quintillas, che recita commuovendosi, ripercorre
e ricorda la morte e passione di Gesù attraverso una descrizione
toccante e piena di sentimento che ha il duplice scopo di impietosire
Nicodemo e gli spettatori:
Esti in sa ruxi inclauadu,
cun tanti crudelidadi,
qui mouidi a’ pietadi
a’ su prus coru induradu
qui si potzat agatari. ( 30 )
Is amigus e’ parentis
Iddanti desamparadu,
263
( 28 )S. BULLEGAS, op. cit., p. 399. (Quello di cui vi prego, se volete, / è che andiate
da Pilato / e il corpo sacro santo / di mio figlio richiediate / per non darmi
più pianto). La traduzione è nostra.
( 29 )S. BULLEGAS, op. cit., p. 400. (Cosa occorre, per servirvi), ([…] dal momento
che la mia presenza / vi rende tanto felice di vedermi / ed incontrarmi?) La traduzione
è nostra.
( 30 )S. BULLEGAS, op. cit., p. 401. (È inchiodato alla croce / con tanta crudeltà, /
che muove a compassione anche il cuore più duro / che si possa trovare). La traduzione
è nostra.

264
totus iddanti abandonadu,
discipulus e’ connoxentis
e’ solu iddanti lassadu. ( 31 )
SIMONA BANDE
Ed a questo punto Giuseppe chiede a Nicodemo che gli faccia
compagnia e non lo lasci andare da solo da Pilato.
La prossemica che regola il rapporto fra i due personaggi è intima:
essi si muovono ed agiscono sulla scena con grande complicità;
è l’affetto che entrambi sentono per il Signore ad accomunarli. Così
Nicodemo, uomo buono e giusto non si sottrae alla giusta e pietosa richiesta
di Giuseppe. Anzi, Nicodemo diviene figura parallela a quella
di Giuseppe: anch’egli, infatti, come afferma, è stato discepolo di
Gesù, ma in segreto, per timore dei giudei; inoltre, nel sinedrio, ha
votato perché Gesù non venisse condannato. Ma ora che è stato crocifisso,
è giusto ed opportuno che si chieda a Pilato di poterlo schiodare
perché seppure il Signore ha subito una morte ingiusta, si cerchi, almeno
di dargli una degna ed onorevole sepoltura. Quindi rivolgendosi
a Giuseppe, in poche battute, Nicodemo descrive l’atteggiamento
che sarà più conveniente tenere davanti a Pilato:
A prinçipiu, dimandeus
cortesamenti sa graçia;
ma si tenit contumaçia
est bisonju qui fueddeus
cun grandissima audaçia. ( 32 )
Benché, Pilato sia ancora sul palco e sarebbe, dunque, naturale
che Giuseppe e Nicodemo si rivolgessero a lui, la scena ha uno sviluppo
differente; l’intensità drammatica raggiunta fino ad ora per il
dialogo di Giuseppe con la Vergine e con Nicodemo, viene “sfruttata”
per quello che è il momento clou di ogni sacra rappresentazione,
ovvero, la conversione di un non credente che, in questo caso, ha
come protagonista il centurione.
I due discepoli sono appena usciti di scena e l’azione riprende,
quando, salito sul palco, il centurione rivolto alla turba dei soldati,
improvvisamente si pente:
( 31 )S. BULLEGAS, op. cit., p. 401. (Gli amici ed i parenti / l’hanno abbandonato,
/ tutti l’hanno abbandonato / discepoli e conoscenti / e solo l’hanno lasciato).
La traduzione è nostra.
( 32 )«Da principio, domandiamo / cortesemente la grazia, / ma se poi mostra titubanza
/ sarà opportuno che parliamo / con grandissima audacia». S. BULLEGAS,
op. cit., p. 403.

I codici teatrali nella Comedia del Desenclauamiento di Antonio Maria da Esterzili
Dus fueddus bollu narri,
ma iscurtadiddus a’ tentu,
po qui su coru mi sentu
de pentimentu crepari:
vere’ hic homo justus erat. ( 33 )
Quell’uomo crocifisso ingiustamente, prima di morire, mai ha
pronunciato parole d’ira e di vendetta; vere’ hic homo justus erat, ribadisce
il centurione cadenzando le sue battute con questa formula
latina che conferisce sentenziosità ed autorevolezza alle sue parole.
Egli ha visto oscurarsi il cielo e sconvolgersi gli elementi per la
morte di quell’uomo perché è vero Dio:
[…]
Olla, aduncas cumpanjus itta feus [?]
Dimandeus perdonu si eus erradu. ( 34 )
E sulla scorta di questa edificante esortazione del centurione l’azione
si movimenta con il gesto di due giudei che pentiti si inginocchiano
e chiedono misericordia. Poi il centurione riconoscendosi complice
della morte inferta al Signore, de mei in bona parti ministrada, chiede
perdono perché ha su coru jay lançadu, e messosi in ginocchio dice:
Mi pentu y arrepentu in custu instanti,
dimandandu miserigordia cun perdonu
a’ bosu sendu Deus, justu e’ bonu,
e’ renunçiu custu oficiu de moy iñanti. ( 35 )
Lassu custa gineta a’ una parti,
murrioni de ferru e’ pectorali,
ispada juntamenti cum pugnali:
armas qui prus que mali imanti fattu. ( 36 )
265
( 33 )«Due parole voglio dire, / ma ascoltatele attentamente / perché mi sento il cuore
/ spaccarsi dal rimorso: / quest’uomo era giusto veramente». S. BULLEGAS, op. cit., p. 405.
( 34 )«[…] Olà, dunque compagni che facciamo? / domandiamo perdono se abbiamo
sbagliato». S. BULLEGAS, op. cit., p. 407.
( 35 )«Mi pento e ancor mi pento in quest’istante, / domandando misericordia e
perdono / a voi che siete Dio giusto e buono, / e rinuncio d’ora in poi a questo grado».
S. BULLEGAS, op. cit., p. 408.
( 36 )«Lascio questa lancia da una parte, / l’elmo di ferro e la corazza, / la spada insieme
col pugnale: / armi che m’han procurato tanto male». S. BULLEGAS, op. cit., p. 408.

266
SIMONA BANDE
La scena è particolarmente intensa e riceve enfasi sia dall’accentuata
gestualità del centurione nell’inginocchiarsi per “accompagnare”
il suo pentimento, sia dalle espressioni toccanti che egli utilizza
per pentirsi: mi pentu y arrepentu.
Il centurione, in una sorta di contrapasso che funge da esempio
per i fedeli spettatori, ora, depone le armi simbolo della sua carica.
Poi rialzatosi in piedi, rivolto alla turba annuncia di non voler essere
più capitano e tanto meno giudeo ma di voler diventare cristiano,
quindi, chiede che le sue armi vengano riconsegnate a Pilato ed esce
di scena insieme alla turba.
Raggiunto con la scena del centurione il massimo momento catartico
della rappresentazione, il dramma prosegue nel suo svolgimento
con Giuseppe e Nicodemo che, di nuovo sul palco, si recano
da Pilato per chiedergli il permesso di poter schiodare Gesù.
Giuseppe personaggio che ormai ha acquisito sicurezza ed audacia,
animosu, si rivolge per primo a Pilato:
O’ inclitu presidenti,
una graçia dimandaus
qui nos deis graciosamenti
su corpus de cuddu sanctu
qui teneis in sa ruxi
noddu naru senza spantu
cun lagrimas e’ cun pran[tu]
po quest Christus uia e’ luxi. ( 37 )
Il breve saluto d’ossequio di Giuseppe e l’immediatezza con la quale
egli chiede il permesso di poter schiodare Gesù, danno la dimensione
della risolutezza e determinatezza del suo atteggiamento. A ciò si
aggiunge l’intervento ancora più duro pronunciato da Nicodemo:
Solu po inuidia e’ rancori
iddanti a’ tortu acusadu
e’ bosu sentenciadu
contra a’ justu mi señori,
a’ morri Christus crucificadu. ( 38 )
( 37 )«O glorioso presidente, / una grazia domandiamo: / che ci dia benevolmente / il
corpo di quel santo / che tenete appeso in croce. / Non lo dico senza timore stupefatto,
/ con lacrime e con pianto / perché Cristo è via e luce». S. BULLEGAS, op. cit., p. 410.
( 38 )S. BULLEGAS, op. cit., p. 410. (Solo per invidia e per rancore / lo hanno accusato
ingiustamente / e voi l’avete condannato / contro giustizia mio signore, / a morire crocifisso).
La traduzione è nostra.

I codici teatrali nella Comedia del Desenclauamiento di Antonio Maria da Esterzili
I essendu jay mortu
pensa jay qui totu cantus
eis essiri satisfactus
segundu fatu apu su contu
et, imprimis tui Pilatus. ( 39 )
Come si vede i due personaggi pur osservando il rispetto minimo delle
convenzioni, dinanzi a Pilato agiscono con sfrontatezza. E Pilato, anziché
imporsi alla loro audacia, apprendendo dalle parole di Nicodemo
che Gesù è già spirato, incredulo a questa notizia, chiama il centurione
per sincerarsene; poi, assunto l’atteggiamento remissivo di chi prova la
colpa delle accuse che gli vengono rivolte, davanti ai due discepoli, si discolpa
e giustifica il suo operato pronunciando parole di pentimento:
Su coru no est traitori:
ca beni middu reprendiada
de non fairi tanti errori
tenendiddu po seductori,
a’ qui mali non faiada. ( 40 )
E candu middu portedi
cussu populu obstinadu
cun minaças mi forçedi
e’ cun gridus mi naredi
qui deu iddairi cundennadu. ( 41 )
Noddu bolia condennari,
conoxendu sa jnnocentia.
Manti forsadu addu fairi
po paura de ma acusari,
pero’ contra conçientia. ( 42 )
( 39 )S. BULLEGAS, op. cit., p. 410. (Ed essendo già morto / penso che ormai tutti
quanti / sarete soddisfatti / e per come la penso / in primo luogo, tu Pilato). La
traduzione è nostra.
( 40 )S. BULLEGAS, op. cit., p. 413. (Il cuore non tradisce: / ed a ragione mi rimproverava
/ di non fare il così grande errore / di ritenere malvagio, / chi non aveva
fatto [alcun] male). La traduzione è la nostra.
( 41 )S. BULLEGAS, op. cit., p. 413. (E quando me lo hanno portato / quel popolo
ostinato / mi ha costretto con minacce / e con le grida mi diceva / che io lo condannassi).
La traduzione è nostra.
( 42 )S. BULLEGAS, op. cit., p. 413. (Non volevo condannarlo, / conoscendo la
sua innocenza. / Mi hanno costretto a farlo / minacciando di accusarmi / ma contro
coscienza). La traduzione è nostra.
267

268
Po tanti, dau lisentia
a’ bosaterus qui andeis
e’ de sa Ruxi abaxeis,
cun acatu e’ reuerentia,
cussu corpus qui oleis. ( 43 )
SIMONA BANDE
Ed a questo punto anche il tono delle parole di Giuseppe si fa più
disteso:
Pilatus ringraciaus
de custa graçia e’ fauori
e’ ancu ti disijaus
titulu de prus honori. ( 44 )
Quindi Giuseppe e Nicodemo escono e di lì a poco, lasciata la
mansion, esce anche il personaggio di Pilato la cui presenza scenica
non è più necessaria ai fini dello svolgimento del dramma. La rappresentazione
si avvia ormai alla scena della deposizione; i due discepoli
risaliti sul palco, portano le scale per poter schiodare Gesù ma,
prima di appoggiarle alla croce chiedono il consenso alla Vergine
che, come già detto, è lì accanto. Sistemate le “escaleras”, la scena
trova sviluppo in una serie di quattro ridondanti sequenze in cui gli
oggetti della passione, nel lento e cadenzato passaggio da un personaggio
all’altro, vengono come portati in primo piano, assurgendo al
ruolo di veri e propri “protagonisti”. La cinesica, allora, si fa esasperatamente
rallentata, la prossemica diviene connotativa e la gestualità
enfatica ed iterata, fino a che l’azione non si focalizza sul corpo
deposto di Gesù, adagiato nel grembo di Maria ( 45 ). Sul cadalso domina,
ora, un “nuovo” gruppo statuario, appena rischiarato dalla
luce della candela accesa che San Giovanni porta alla Vergine perché
possa sincerarsi dell’identità di quel corpo che non appare più formosu
y agraciadu, biancu e’ rubicundu, ma sfigurato ed irriconoscibile
a causa delle ferite. L’intera sequenza, dunque, è in penombra; e la
fioca luce della candela scivolando radente e vibrante sui corpi, di-
( 43 )«Pertanto, do il permesso / a voi altri di andare, / e che dalla croce caliate, /
con delicatezza e devozione, / quel corpo che volete». S. BULLEGAS, op. cit., p. 413.
( 44 )S. BULLEGAS, op. cit., p. 414. (Pilato ringraziamo / di questa grazia e di questo
favore / e, inoltre, ti auguriamo titolo di più grande onore). La traduzione è
nostra.
( 45 )Cfr. S. BULLEGAS, Liturgia e spettacolo nella tragedia di G. Delogu Ibba, in
“Studi Sardi”, vol. XXIX, Sassari 1992, p. 457.

I codici teatrali nella Comedia del Desenclauamiento di Antonio Maria da Esterzili
viene chiara allusione alla luce di Cristo che tiene lontano il buio
delle tenebre. Si tratta dell’unico accenno nel testo al codice dell’illuminazione.
L’azione come quella iniziale, è ancora una volta statica,
la prossemica è intima e la scena sale d’intensità per il compianto
denso di umano dolore, che la Vergine pronuncia tenendo fra le
braccia il corpo senza vita del proprio figlio. E commovente è il lamento
di Giuseppe, di Giovanni e della Maddalena prima che Gesù
venga adagiato su una portantina e portato al sepolcro ( 46 ).
Una lunga didascalia, ora, segna la conclusione della rappresentazione
del Desenclauamiento, con la processione dei personaggi che
mentre accompagnano il Cristo morto all’entierro, devono intonare
una cançion.
Agora ponen a’ Christo en las andas, y lleuan a’ Christo al / sepulchro.
Los Judios lleuan las Andas. Siguen Joseph, / y Nicodemus, despues S.
Juan y las Marias, y cantan en / el camino la cançion siguiente asta llegar
al sepulcro. ( 47 )
Con una cinesica lenta, cadenzata dall’andamento triste e compunto
della processione e ritmata dalla mesta e malinconica melodia
cantata dagli attori, si conclude il Desenclauamiento di Antonio Maria
da Esterzili.
( 46 )Cfr. S. BULLEGAS, La Spagna…, op. cit., p. 348.
( 47 )«Ora mettono Cristo sulla portantina e lo trasportano al sepolcro. I Giudei
prendono la portantina. Seguono Giuseppe e Nicodemo, quindi S. Giovanni e le
Marie. Cantano, durante il tragitto la canzone seguente fino a che non siano arrivati
al sepolcro». S. BULLEGAS, op. cit., p. 431.
269

GIORGIO PUDDU
DIFFICOLTÀ INTERNAZIONALI E INSTABILITÀ INTERNA
DEL REGNO DI SARDEGNA TRA LA PACE DI AMIENS
E QUELLA DI PRESBURGO
Quando nel marzo del 1799, in occasione dell’arrivo del convoglio
navale che conduceva a Cagliari Carlo Emanuele IV e la sua famiglia
si concludeva una fase dell’attività politica a Torino, aveva
inizio per lo Stato sabaudo una diversa impostazione delle sue relazioni
internazionali che, al di là dei contenuti meramente politici,
dava vita ad una nuova articolazione dell’attività diplomatica, all’insegna
di un’estensione degli incarichi affidati anche ai consoli. Non
deve destare stupore questa operazione ampliata dell’attività consolare
per uno Stato che, ormai circoscritto alla Sardegna in conseguenza
delle sue disfatte militari, doveva, per cause di puro bilancio,
affidare la tutela dei suoi interessi ad un personale fiancheggiatore e
di sostegno rispetto a quello propriamente diplomatico di professione.
Era questa infatti la condizione di una potenza di secondo rango,
qual’era il regno di Sardegna, che, dopo l’occupazione di Susa, Cuneo
ed Alessandria, era stata costretta il 9 dicembre 1798, a Torino,
a firmare l’atto di resa alla presenza del generale Grouchy, a rinunciare
alla sovranità dei possedimenti continentali e a ridimensionare
la sua valenza politica ormai screditata, che non trovava alternativa e
legittimità se non nell’ultimo possesso di sovranità rimastogli, la
Sardegna appunto, lontana dai territori culla della dinastia, come dai
suoi stessi interessi ( 1 ).
( 1 ) Sulla situazione della monarchia sabauda nel momento dell’abbandono dei
territori continentali per trasferirsi in Sardegna, cfr. DEL PIANO, La Sardegna nell’Ottocento,
Sassari, 1984 pp. 7, 37; G SOTGIU, Storia della Sardegna sabauda,
Roma-Bari, 1984, pp. 235, 236; D. CARUTTI, Storia della corte di Savoia durante
la Rivoluzione francese, vol. II, Torino-Roma 1892, pp. 153, 158; F. Hayward,
Storia della Casa di Savoia, vol. II, Rocca di S. Casciano 1955, pp. 114, 117; N.
Bianchi, Storia della monarchia piemontese dal 1773 al 1861, vol. IV, Torino

272
GIORGIO PUDDU
Il confino nell’isola configurava pertanto l’ultima e ben più profonda
umiliazione per casa Savoia, dopo la perdita di Nizza e della
Savoia, la pace di Parigi (15 maggio 1796) e lo strano trattato di alleanza
con la Francia del 5 aprile 1797. Quest’ultimo accordo, concluso
prima che la campagna d’Italia si chiudesse con l’affronto di
Campoformio (17 ottobre 1797), aveva imposto al re di Sardegna
non solo la condizione di neutralità nei confronti dell’Inghilterra e
delle altre potenze in conflitto con la Francia, ma per di più aveva
sancito che le due contraenti avrebbero unito “insieme le loro forze
contro gli esterni nemici e interni ( 2 ). La dichiarazione, contenuta
espressamente nell’art. 3 del trattato, dava una chiara impostazione
alla politica che i rispettivi paesi, repubblica francese e regno di Sardegna,
avrebbero dovuto attuare per “non secondare i nemici interni”.
Da qui si può volgere brevemente l’angolo di osservazione verso la situazione
interna del regno sardo alla vigilia della partenza di Carlo
Emanuele IV per Cagliari, che coincide col momento in cui l’Austria,
lasciando libero il passo alle truppe russe nella Padana, si attirava la dichiarazione
di guerra del Direttorio, accendendo la II coalizione.
In Sardegna le velleità di apertura e di crescita sociale e politica,
dopo le spinte prodotte dalle agitazioni antifeudali precedenti i fatti
del ’93 e, quelle legate al movimento angioiano, erano praticamente
ridotte ad una condizione difensiva. Tuttavia, quel malcontento, che
aveva trovato sbocco nel movimento, incapace di tradursi in fatto rivoluzionario,
non si può dire fosse privo di reali radici, poiché i “nemici
interni”, anche dopo il tramonto dei programmi dell’Alternos
proseguiranno le loro agitazioni, le loro cospirazioni per oltre un decennio,
con le puntuali contropartite delle repressioni più spietate.
Le reazioni, che ponevano per la Sardegna le premesse della sua restaurazione,
venivano sostenute in parte proprio da quelle forze protagoniste
nella contrapposizione all’invasione francese del 92/93,
come nella cacciata dei piemontesi dell’aprile del ’94.
Quelle componenti sociali aspiranti al rinnovamento e all’autonomia
del Regnum avevano spinto al massimo il loro programma po-
1885, p. 381; A. SEGRE, Vittorio Emanuele I, (1759-1824), Torino 1928, p. 57; P.
MARTINI, Storia di Sardegna dall’anno 1799 al 1816, Cagliari 1852, p. 37; T.
ORRÙ, La Sardegna Stato a se nell’età napoleonica, in “Annali della Facoltà di
Scienze politiche”, vol. II, I serie, A.A. 1983/84, Cagliari 1984, p. 328.
( 2 ) Archivio di Stato di Cagliari (in seguito indicato A.S.C.), Atti governativi e
amministraivi, vol. IX, n. 1616, 1616 bis. Parigi 17 aprile 1797; F. BORLANDI, Relazioni
politico-economiche fra Inghilterra e Sardegna durante la Rivoluzione e l’Impero,
in “Rivista storica italiana”, IV, fasc. II, Torino 1933, p. 15.

Difficoltà internazionali e instabilità interna del regno di Sardegna ...
litico nell’avanzare a Vittorio Amedeo III la proposta delle famose
cinque domande, ma, al di là del fallimento della delegazione stamentaria
a Torino, più tardi, ogni cosa si era modificata, e si era
aperta la via ad un processo involutivo, in cui feudalità e fasce non
ristrette di borghesia cittadina da essa dipendenti, impaurite dalla
potenziale perdita del loro stato sociale e del loro prestigio, avevano
chiuso ogni apertura verso quelle spinte provenienti dal basso.
Gli sconfitti, ossia i ceti contadini emergenti, spinti da quelli più
poveri, unitamente alle fasce più sensibili e progressiste della borghesia,
costituiranno a partire dal 1796 i “nemici interni”. Quell’anno
segnerà propriamente per la Sardegna l’inizio della sua restaurazione;
i Savoia tre anni più tardi con la loro presenza ne procrastineranno
la continuità ( 3 ).
Per una situazione interna precaria e apertamente rivelatrice di
una instabilità difficilmente controllabile qual’era quella dei primi
mesi del ’99, la corrispondente condizione sul piano internazionale
non era certamente più incoraggiante, poiché la congiuntura politica
europea fin dal 92/93 aveva visto la Francia ergersi come potenza rivoluzionaria;
in tal veste, pur nella nuova prospettiva calata nella realtà
del Direttorio e, più tardi in quella napoleonica, le sue mire nella
ricerca della sicurezza sul piano internazionale erano assolute. Di
conseguenza, per una richiesta d’affermazione di sicurezza assoluta
in campo internazionale da parte di uno Stato corrisponde un’insicurezza
assoluta per gli altri, in particolare per quelli piccoli, com’era
il caso del regno di Sardegna. Quest’ultimo, nonostante le difficoltà
emergenti, da quel momento affiderà, come è stato già anticipato, la
tutela della sua sicurezza e, quindi, il concorso alla realizzazione della
sua politica estera ad un tipo di personale diplomatico che, sul
piano della resa, darà pienamente la misura delle proprie capacità
professionali. In un settore dell’alta burocrazia così esclusivo, personalità
come quelle di un Front, di un De Maistre, o più tardi di un
Rossi, o di un San Marzano rappresentavano propriamente le figure
più eminenti accreditate presso le sedi diplomatiche di maggior prestigio,
come Londra o Pietroburgo. Il bilancio di casa Savoia, in
ogni caso, non consentiva un impiego troppo disinvolto di denaro
da investire nel personale di professione all’estero. Di conseguenza,
una parte cospicua e, solo apparentemente marginale, degli incarichi
( 3 ) G. SIOTTO PINTOR, Storia civile dei popoli sardi dal 1798 al 1848, Torino
1877, p. 15; P. MARTINI, Storia di Sardegna, cit. p. 41; F. SULIS, Dei moti politici
dell’isola di Sardegna dal 1793 al 1821, Torino 1857, pp. 78, 83; G. SOTGIU, Storia
della Sardegna, cit., pp. 211, 215.
273

274
GIORGIO PUDDU
e delle responsabilità per l’attuazione della politica estera del regno
di Sardegna fu affidata ai consoli, i quali, pur tra notevoli difficoltà,
seppero portare a termine la loro missione.
Non deve sorprendere, ad ogni buon conto, l’impiego di personale
consolare investito di responsabilità in campo politico-diplomatico.
Anche altri Stati, travolti dalla congiuntura internazionale prodotta
dal complesso delle iniziative non solo belliche dell’età napoleonica fecero
più o meno largo ricorso a questo genere di incarichi – pur facendo
leva in gran misura su personale già strutturato nei quadri diplomatici
– ma per il piccolo potentato sabaudo una scelta di tale portata
finiva per rivelarsi sostanzialmente vitale.
I consoli sardi, non meno dei loro colleghi in Europa, sembra siano
stati al centro di una appassionata querelle fra gli esperti del diritto
pubblico europeo, relativa all’estensione dei privilegi e delle attribuzioni
dei rappresentanti diplomatici veri e propri agli esponenti
del corpo consolare. Nel 1802, un promemoria sul caso, recante la
firma di Joseph De Maistre, nega nettamente lo status di rappresentanti
dei sovrani all’estero ai consoli. Il savoiardo dichiara senza riserve
di sorta che “… le persone e case dei consoli non godono dei
privilegi dei pubblici rappresentanti …” e, più tardi “… questi consoli
non sono altro che meri protettori dei Negozianti delle loro rispettive
Nazioni, talvolta giudici ancora ed anzi Negozianti anche
essi, e non sono mai inviati dai loro Sovrani per venire rappresentati
presso di un altro, ma soltanto accioché difendano i sudditi di quel
Sovrano presso quelli delle loro residenze sugli affari di Commercio
…” ( 4 ). Paradossalmente, quelle attribuzioni professionali negate
dalla normativa, verranno imposte di fatto ai consoli, sotto la spinta
delle necessità prodotte dalla congiuntura internazionale, ma debitamente,
non confortate da un’adeguata retribuzione.
Sembra che gli impegni più gravosi per il personale diplomatico e
consolare si siano registrati soprattutto all’indomani del marzo
1799, allorché Carlo Emanuele IV, sulla scia dei successi del Souvaroff,
nel settembre dello stesso anno, si accingeva a ripartire dalla
Sardegna. Poco dopo, il colpo di stato del 18 brumaio, silenziosamente
architettato e sostenuto dal Seyès, artefice del complotto borghese,
e l’avvento al potere in piena regola di Bonaparte come primo
Console, dimostravano quanto fondato fosse il ricorso all’estensione
di quegli incarichi; a partire da quel momento infatti è possibile inquadrare
propriamente il complesso delle finalità politiche di Napo-
( 4 ) A.S.C., Segr. di Stato, II S., fasc. 15. Promemoria del conte J. De Maistre,
9 giugno 1802.

Difficoltà internazionali e instabilità interna del regno di Sardegna ...
leone che, separate dagli accordi di Amiens, erano rivolte alla messa
a punto di una sua egemonia politico-dinastica fino agli anni 1806/
1807. Più tardi tali finalità tenderanno a mutare, dando la prevalenza
al fatto nuovo prodotto dalle spinte del blocco continentale, strumento
fondamentale nella lotta con l’Inghilterra ( 5 ).
Da parte francese, in quel periodo, si era perfettamente a conoscenza
del fatto che S.M. sarda, dopo la perdita della sovranità territoriale
del Piemonte, rimpiangendola, brigasse per l’apertura di negoziati
con altre corti europee per riottenerla; in questo senso gli
ammiccamenti alla corte di Pietroburgo erano eloquenti ( 6 ). La speranza
nell’intercessione russa venne ulteriormente accresciuta alla
fine del marzo 1799, allorché il console dello zar Paolo I a Venezia,
Ludovico Bonamico, fece sapere a Cagliari che il suo sovrano avrebbe
rimesso sui loro troni S.M. siciliana e S.M. sarda. Il Bonamico
suffragava tale notizia, dichiarando d’aver discusso il caso con alti
ufficiali russi al seguito del Souvaroff e, in particolare, col barone di
Jhelen, aiutante generale austriaco presso il comando dello stesso
maresciallo russo ( 7 ). Come è noto il tutto rimase circoscritto ai puri
intenti e i fatti di Marengo (14 giugno 1800) e di Hohenlinden (3
dicembre 1800) ne mortificarono gli slanci. Per qualcosa di più concreto,
sul piano normativo, occorreva attendere il 1804, allorché
Russia e Inghilterra si accordarono per stabilire che il re di Sardegna,
dopo la sconfitta di Napoleone, sarebbe stato integrato nel possesso
del Piemonte e gratificato per di più da probabili accrescimenti territoriali
( 8 ).
Pertanto, il ripristino del casato sabaudo sugli antichi possedimenti
poteva essere sostenuto, in quel momento, solo dalla speranza
di un futuro successo alleato sulla Francia. In attesa, lo squilibrio
della situazione internazionale non alimentava alcuna sicura prospettiva
in merito.
Ad aggravare questo stato di cose si aggiungeva il problema ancora
in parte irrisolto della questione interna della Sardegna, pur in
275
( 5 )STUART J. WOOLF, Napoleone e la conquista dell’Europa, Roma-Bari 1990,
pp. 27, 28.
( 6 ) A.S.C., Archives diplomatiques. Affaires étrangeres. Paris (A.D.A.E.P.).
Corrispondence politique. Sardaigne, vol. 281, II. Rapporto sulle relazioni con la
Sardegna. 11 brumaio, anno 12, ff. 434 r., 434 v.
( 7 ) A.S.C., Segr. di Stato, II S., fasc. VI. Nota del console Bonamico a S.M.
sarda. Venezia, 25 marzo 1799, ff. 13 v., 14 r.
( 8 ) G. CANDELORO, Storia dell’Italia moderna, vol. I, Le origini del Risorgimento,
Milano 1961, p. 342.

276
GIORGIO PUDDU
parte “normalizzata” dopo i fatti angioiani e, ancora lontana dal garantire
ai Savoia in fuga la sicurezza tanto agognata. Poco più tardi, i
fatti del 1802 daranno la misura della presenza ancora operante di
fermenti minacciosi per la sicurezza della monarchia. Questa, è vero,
durante la presenza della corte a Cagliari verrà gratificata dalla disposizione
servile del 28 agosto 1799, con la quale gli Stamenti
“supplicarono il re che abbattesse l’opera stessa creata dalle loro
mani e ripigliasse il pieno potere assoluto” ( 9 ), ma all’interno della
società isolana, dissensi, come presenze attive di personalità coinvolte
nelle vicende del triennio 1793/1796, rappresentavano ancora fatti
di palpitante e minacciosa attualità. In proposito, la supplica che il
conte di S. Antioco rivolge alla Segreteria di Stato contro Giovanni
Battista De Quesada, vice console d’Inghilterra e di Svezia presso il
piccolo centro sulcitano e, a suo tempo responsabile di stretta collusione
con i francesi durante i mesi della loro permanenza nei fatti
militari 1793, sta a dimostrare ancora come gli stretti controlli e le
persecuzioni contro gli ex sostenitori filofrancesi fossero tutt’altro
che conclusi, tenendo conto per di più che il vice console godeva ancora
di ampi sostegni e consensi nell’ambiente locale ( 10 ).
Come si può rilevare da queste brevi note, l’ampia congiuntura
negativa imperava contro il casato sabaudo, i cui membri avevano
guadagnato il continente, immediatamente dopo l’arrivo dei francesi
in Toscana e l’occupazione di Livorno, da dove, puntualmente, il
console sardo Fiorentini seguiva ogni spostamento della corte ( 11 ).
La presenza delle armate francesi in Toscana intanto finirà per sottrarre
vitalità alla costituzione del regno d’Etruria (21 marzo 1801).
Sarà in buona misura proprio dal piccolo potentato d’Etruria e,
più specificatamente dal consolato sardo a Livorno, che verranno seguiti
con maggior scrupolo gli sviluppi delle guerre napoleoniche e
( 9 ) L. DEL PIANO, La Sardegna nell’Ottocento, cit., p. 24.
( 10 ) Le lamentele del feudatario di S. Antioco, esponente della famiglia Porcile,
si appuntavano sull’immeritato riconoscimento che era stato attribuito al De
Quesada, investito della carica di vice console. Il Porcile denunciava che il vice
consolato era stato offerto all’ex agitatore da Onorato Cortese, in concomitanza
con le esigenze scaturite dai fatti relativi al riscatto dei carolini tratti in schiavitù
nel settembre 1798. Le colpe del De Quesada, in ogni caso, erano imputabili ai
fatti del ’93, durante i quali sembrerebbe ipotizzabile la concessione della carica di
“maire” di S. Antioco a suo favore, in cambio di aiuti elargiti ai francesi. A.S.C.,
Segr. di Stato, II S., fasc. 16. Relazione del conte di S. Antioco alla Segreteria di
Stato. Cagliari, 22 novembre 1800, ff. 289 r., 289 v.
( 11 )A.S.C., Segr. di Stato, II S., fasc. 6. Lettera del console Fiorentini alla Segreteria
di Stato a Cagliari. Livorno, 10 dicembre 1800, ff. 31 r., 32 r.

Difficoltà internazionali e instabilità interna del regno di Sardegna ...
si forniranno le notizie più dettagliate utili al governo sardo ( 12 ). Soprattutto
da questa sede perverranno a Cagliari non solo le informazioni
relative alla famiglia reale, ma pure le novità sulle proposte di
nuovi compensi territoriali al casato. In proposito, la precarietà del
regno d’Etruria avrebbe suggerito il passaggio del suo signore in Piemonte,
mentre i Savoia avrebbero preso posto in Toscana, a cui sarebbero
stati aggiunti nuovi riconoscimenti territoriali ( 13 ). L’attendibilità
di queste notizie spesso provenienti da fonti ufficiali, così
come da ambienti commerciali, era limitata logicamente dalla difficoltà
di tradurre nella realtà simili proposte, constatato che per molte
di queste, l’interlocutore col quale intessere negoziati in proposito
era sempre Bonaparte, non troppo disponibile a soddisfare le esigenze
di casa Savoia.
La condizione di quest’ultima è caratterizzata da mutamenti che
segnano profondamente la gravità dei momenti vissuti: affidato il
governo della Sardegna a Carlo Felice, Carlo Emanuele IV abdica,
sulla scia di una congiuntura politica fragilissima, a favore del proprio
fratello Vittorio Emanuele (14 giugno 1802), che prosegue nella
sua inevitabile scelta itinerante tra Roma e Napoli. Ma, al tempo
stesso anche nell’isola si può misurare sicuramente lo stato di precarietà
del casato.
L’anno dell’abdicazione di Carlo Emanuele IV non é solo lo stesso
della sventurata impresa di Francesco Sanna - Corda in Gallura,
ma al tempo stesso, chiama ancora in causa la complicità del mondo
corso per l’irrisolto dilemma comune con la Sardegna: il contrabbando,
per sanare il quale Carlo Felice dovrà ricorrere a nuove misure
normative ( 14 ).
277
( 12 ) Il regno d’Etruria, costituito da Napoleone per gratificare la Spagna, alleata
della Francia fin dal 1796, ebbe un’esistenza effimera, dato che non resse nel
contesto politico degli Stati del tempo per più di sei anni. Affidato a Ludovico di
Borbone e, dopo la sua scomparsa, alla vedova Maria Luisa in qualità di reggente
del figlio Carlo Ludovico, espresse un governo con personalità di estrazione lorenese,
pur non riproducendo l’esperienza illuministico-riformatrice legata alla precedente
dinastia. Cfr. G. LEFEBVRE, Napoleone, Roma-Bari 1982, p. 110; G. CAN-
DELORO, Storia d’Italia, cit., p. 340.
( 13 ) A.S.C., Segr. di Stato, II S., fasc. 6. Lettera del console Carlo Fiorentini
alla Segreteria di Stato a Cagliari. Livorno, 4 giugno 1802, ff. 95 r., 96 v.
( 14 ) Dopo la pace di Parigi e, più tardi, in seguito al trattato di alleanza dell’aprile
1797, erano proseguite in Corsica le spinte da parte dei fuorusciti sardi per
attuare un colpo di mano nel nord Sardegna. Com’è noto, protagonista di questi
piani era il sacerdote Francesco Sanna-Corda, che si ritiene sia stato latore di una
delega recante la firma di Giovanni Maria Angioy e di una lettera di Letizia Ra-

278
GIORGIO PUDDU
Occorre precisare che più che le ripercussioni sul piano internazionale
delle agitazioni in Sardegna, in verità abbastanza contenute,
non mancava il persistere degli interessi della Francia sull’isola. Pur
in misura relativamente contenuta, nell’ottobre del 1802, da Livorno,
il console sardo Spagnolini avvertiva don Raimondo De Quesada,
titolare della Segreteria di Stato a Cagliari, informandolo della
nuova secondo la quale il corso Saliceti sembrava ancora disposto ad
attuare un piano teso a garantire alla Francia un colpo di mano in
Sardegna. Il corso era pronto a realizzare il suo progetto con ogni
mezzo, e il suo viaggio da Genova a Milano, dove avrebbe preso
contatti con Gioachino Murat, era volto ad allargare i consensi per
un intervento in forze nell’isola. Dal suo osservatorio privilegiato il
console manifestava qualche dubbio sull’attendibilità di questa fonte
d’informazione e, al tempo stesso, lamentava la sua condizione di
funzionario di S.M. sarda, assediato dai francesi che lo facevano responsabile
di appoggi ai militari profughi dal Piemonte e vogliosi di
imbarcarsi per la Sardegna. Tuttavia più che l’eventualità di un suo
molino, madre di Napoleone. Al parroco di Torralba, tra le personalità di spicco
patrocinanti l’impresa, si univa anche il notaio Cilloco, che vantava una attiva
partecipazione ai moti antibaronali del 1795/96. Cfr. L. TRUDU, L’impossibile rivoluzione
dei patrioti sardi nel 1802, in “Archivio sardo del movimento operaio
contadino e autonomistico”, vol. 29/31, Sardegna e Corsica negli anni della Rivoluzione,
1793-1796, Carrara 1990, pp. 136, 138; L. CARTA, Aspetti della biografia di
Francesco Sanna-Corda attraverso un fondo documentario dell’Archivio di Stato di
Torino, in “Studi e ricerche in onore di G. Sotgiu”, vol. I (1922), Cagliari 1993,
pp. 173, 176; S. POLA, I moti delle campagne di Sardegna dal 1793 al 1802, Sassari
1923, vol. II, pp. 110, 119; G. SOTGIU, La Sardegna tra Rivoluzione e Restaurazione,
in La Rivoluzione sulle bocche. Francesco Cilloco e Francesco Sanna Corda, giacobini
in Gallura (1802), a cura di M. Brigaglia e L. Carta, Cagliari 2003, pp. 68,
74; Sullo stesso volume cfr. pure F. FRANCIONI, Coscienza rivoluzionaria e ribellismo
antistatale: la militanza di Francesco Cilloco e Francesco Sanna Corda; P. MAR-
TINI, Storia di Sardegna, cit., p. 41.
I fatti legati all’annoso problema del contrabbando erano identificabili per una
frequenza talmente alta del fenomeno da costituire une delle cause più forti della
crisi insanabile delle finanze del regno. Naturalmente, elemento prevalente dell’intero
problema era il movimento clandestino per la Corsica di grano, legumi, bestiame
e formaggio provenienti dall’Anglona, dalla Nurra e dal Logudoro. Ad ingrossare
l’intensità del fenomeno concorreva anche l’attività degli abigeatari, sempre
pronti a convogliare nell’isola vicina il frutto dei loro furti perpetrati in particolare
nei territori del Goceano. Cfr. G. MURGIA, Contrabbando e ordine pubblico
nella Gallura tra blocco continentale e neutralità del regno di Sardegna 1800-1814),
in “Studi e ricerche in onore di G. SOTGIU, vol. II (1994), Cagliari 1993, pp. 10,
13; C. SOLE, Aspetti economici e politici del contrabbando tra la Sardegna e la Corsica
nel XVIII secolo, in “Studi sardi”, anno XIV, 1955-56, Sassari 1959, p. 19; e,
dello stesso autore, Politica economia e società in Sardegna nell’età moderna, Cagliari
1978, p. 121.

Difficoltà internazionali e instabilità interna del regno di Sardegna ...
arresto, lo Spagnolini paventava – questa volta su basi più veritiere –
per “qualche fermento fomentato dai francesi” ad Alghero. In proposito
suggeriva uno stretto controllo per “invigilare sopra li recenti
isolani giunti dalla terraferma” ( 15 ).
Le notizie circolanti sull’interesse della Francia per la Sardegna,
non diversamente da quello espresso da altre potenze, non sempre
erano sorrette, come si è potuto osservare, da un’adeguata fondatezza;
a ciò concorreva la divulgazione di informazioni tratte da fonti
giornalistiche, in alcuni casi lacunose o errate. Così era accaduto, attraverso
una non meglio identificata gazzetta, per la nuova appresa
dal sindaco di Bonifacio che, allarmato, informava il cittadino Talleyrand
sulle mire di cessione della Sardegna agli inglesi. Lo stesso
maire dubitava della veridicità di tale fonte, ma, in caso di conferma
da Parigi, supplicava affinché la Francia intervenisse almeno per la
presa di possesso dell’arcipelago della Maddalena, a suo dire: … partie
integrante de Bonifacio et du departement du Liamone ( 16 ).
L’insieme di queste voci si alternava ad altre ancora, che con frequenza
ribadivano l’ipotesi di nuovi compensi territoriali con cui
gratificare S.M. sarda. Nel breve periodo successivo alla fragile pace
di Amiens (25 maggio 1802), la diffusione di simili informazioni si
fa piuttosto frequente. Sempre da parte dello stesso Spagnolini viene
espressa la notizia di una probabile assegnazione di porzioni di Stato
che, a titolo di indennizzo, sarebbero stati concessi a casa Savoia a
carico di territori sottratti ancora al regno d’Etruria; di ciò parlava
persino il “Giornale di Milano” ( 17 ).
Dalle note del console si rileva pure quanto fosse precario il recente
equilibrio raggiunto tra Francia ed Inghilterra: la penisola italiana era
infatti percorsa incessantemente da truppe francesi in assetto di guerra,
pur nel riconoscimento della volontà dei gabinetti di Parigi e di
Londra di consolidare quella pace così faticosamente raggiunta.
279
( 15 ) A.S.C., Segr. di Stato, II S., fasc. 6. Lettera del console Spagnolini alla Segreteria
di Stato a Cagliari. Livorno, 27 ottobre 1802, ff. 53 r., 54 v.
( 16 ) A.S.C., Archives diplomatiques. Affaires étrangères. Paris (A.D.A.E.P.).
Correspondence diplomatique, Sardaigne. Lettera del maire di Bonifacio al cittadino
Talleyrand. Bonifacio, 29 nevoso, anno 11, f. 382.
( 17 ) Il console, più esattamente, specificava che a Vittorio Emanuele I erano stati
assegnati gli Stati di Siena e quello dei Presidi, il principato di Piombino e, secondo
alcune versioni, l’Umbria. Il nuovo Stato avrebbe avuto come capitale Siena, e il sovrano
d’Etruria, in conseguenza dell’amputazione dei suoi territori, il ducato di Parma
e Guastalla, mentre Piacenza avrebbe rinforzato la compagine della Repubblica
italiana. A.S.C., Segr. di Stato, II S., fasc. 6. Lettera del console Spagnolini alla Segreteria
di Stato a Cagliari. Livorno, 12 aprile 1803, ff. 67 r., 67 v.

280
GIORGIO PUDDU
Nel frangente del nuovo conflitto che si andava preparando, la
fondatezza di una notizia che realmente assicurasse, in termini di
compensazione, una ampliamento territoriale ad una monarchia in
pericolo, come quella sabauda, rappresentava senza dubbio una effettiva
boccata d’ossigeno. In questo lasso di tempo, la diplomazia e
lo stesso corpo consolare sardi sono più vigili e attenti che mai sulle
informazioni inerenti al conflitto e alle potenziali risultanze prodotte
dalla sua conclusione. Le speranze, in questo caso, per un’adeguata
gratificazione territoriale futura, che riconfermasse in linea di
massima gli antichi limiti territoriali dello Stato, sembravano esprimere
quasi una sorta di compensazione dell’immagine riduttiva della
condizione attuale del potentato sabaudo, la Sardegna, e delle sue risorse,
secondo l’opinione espressa non sempre a ragione da alcuni
esponenti del mondo diplomatico, come Joseph De Maistre ( 18 ).
Tuttavia, non sempre la frammentarietà o l’inaffidabilità delle informazioni
si accompagnavano alle notizie di fonte diplomatica e
consolare, pur in quel contesto di altissima tensione politica e nella
inevitabile constatazione della precarietà dei mezzi di cui disponeva
la burocrazia sabauda in quei frangenti. Eppure nell’aprile del 1802,
a conflitto ormai concluso, da Napoli, sede ospitante la corte, si informa
con certezza e con un anticipo di oltre un mese il vice console
Fiorentini a Livorno dell’avvenuto accordo tra Francia e Gran Bretagna.
Se sulla natura di tale fatto pattizio si era pienamente a conoscenza,
constatato che nella capitale partenopea pare fosse pervenuto
anche l’intero complesso degli articoli dell’accordo, tuttavia l’incertezza
sui reali contenuti del trattato permarrà ancora a lungo ( 19 ).
Non si trattava in questo caso della consapevolezza dei preliminari
degli accordi, bensì degli accordi stessi, poiché pochi giorni più
tardi una nota inoltrata al cardinale Consalvi presso la S. Sede, già
parlava espressamente della pace di Amiens. Ciò tenderebbe ancora
a dimostrare che – analogamente a quanto in parte avveniva presso
altre burocrazie europee – anche in quella di casa Savoia si era altrettanto
in grado di venire a conoscenza di notizie particolarmente riservate
ed importanti, ancor prima della loro divulgazione ufficiale.
( 18 ) In occasione della sua nomina ad ambasciatore a Pietroburgo, il diplomatico
savoiardo aveva rilasciato la seguente dichiarazione sull’impiego delle risorse
isolane: “Le roi ne peut rien faire de la Sardaigne; il n’a pas les moyens necessaires
pour cela; il n’y a qu’ une grande Puissance qui puisse les avoir. A.S.C., Archives diplomatiques.
Affaires ètrangeres. Paris (A.D.A.E.P.), Correspondence diplomatique,
Sardaigne, vol. 281, I, Napoli, 7 germinale, anno 11, ff. 391 r., 391 v.
( 19 ) A.S.T., Corrispondenza di S.M. e del ministro con i paesi esteri, serie M., vol.
IV. Nota inviata all’agente sardo Fiorentini a Livorno. Napoli, 13 aprile 1802.

Difficoltà internazionali e instabilità interna del regno di Sardegna ...
Di quegli accordi, a Napoli, l’attenzione da parte di alcuni esponenti
della piccola corte sabauda si soffermò in particolar modo, nonostante
la forte presenza di perplessità ed incertezze e la dominante interferenza
di “molte voci”, sulla creazione di un “nuovo Sistema”, che
avrebbe dovuto regolare l’assetto territoriale degli Stati italiani ( 20 ).
Il clima di dubbi e di insicurezza suscitato in seguito alla conoscenza
degli accordi appena raggiunti si espresse maggiormente in quei
giorni, nella capitale ospitante, dove S.M. sarda e la sua corte rimasero
congelati in attesa di precise conferme che avrebbero dovuto chiarire i
reali intenti di una temuta visita da parte di Gioachino Murat ( 21 ).
D’altra parte se la contraddittorietà sulla reale natura della missione
del Murat rimarrà priva di ulteriori notizie dirette a smentire o
a confermare le sue reali intenzioni, così anche le ultime novità sulla
pace di Amiens contraddicevano quelle sulla costituzione del “nuovo
Sistema” per l’assetto geo-politico italiano, anzi, addirittura, sembra
sostenessero l’inesistenza di alcuna citazione in merito ( 22 ).
In quei giorni semmai prendevano consistenza soltanto alcune
voci sulla sorte che avrebbe dovuto interessare il territorio della repubblica
di Genova e parte di quello del Piemonte ( 23 ).
D’altra parte, il clima di interesse espresso dagli accordi, ma anche
di insicurezza per i fatti politici di quei giorni compresi tra la
fine di aprile e i primi del maggio 1802, non è rivolto soltanto ai fat-
281
( 20 ) Il rimodellare la conformazione geo-politica dei potentati italiani suscitava negli
esponenti del casato sabaudo e in quelli dell’alta burocrazia nuovi entusiasmi e, al
tempo stesso, rinfocolava nuove speranze su potenziali concessioni che avrebbero gratificato
S.M. sarda. Va da se, in questo caso, che tali aspirazioni finissero per configurare
prevalentemente il riacquisto di quella sovranità sugli Stati di terraferma, perduta
nel dicembre del 1798. A.S.T., Corrispondenza di S.M. e del ministro con i paesi esteri,
serie M., vol. IV. Nota inviata al cardinal Consalvi a Roma. Napoli. 17 aprile 1802.
( 21 ) Correva voce in quella circostanza che la visita di Gioachino Murat fosse
stata dettata dalla necessità di riscuotere ingenti somme di denaro dalla “piazza di
Otranto”. I capitali eran dovuti sulla base di un precedente accordo tra la Francia
e il governo di Napoli, che sembra non abbia trovato applicazione, poiché con la
pace di Amiens, con la quale si garantiva l’integrità territoriale dello Stato borbonico,
era previsto anche lo sgombero delle truppe francesi. Nell’intento di favorirlo,
Murat era stato incaricato di vendere le artiglierie, il cui ricavato avrebbe dovuto
coprire le spese per il trasferimento dei reparti francesi in altri teatri d’operazione.
A.S.T., Corrispondenza di S.M. e del ministro con i paesi esteri, serie M., vol. IV.
Nota inviata all’agente Traves a Roma. Napoli, 24 aprile 1802.
( 22 ) A.S.T., Corrispondenza di S.M. e del ministro con i paesi esteri, serie M.,
vol. IV. Nota inviata all’abate Gandolfi a Civitavecchia. Napoli, 24 aprile 1802.
( 23 ) A.S.T., Corrispondenza di S.M. e del ministro con i paesi esteri, serie M.,
vol. IV. Nota inviata al cardinale Consalvi a Roma. Napoli, 4 maggio 1802.

282
GIORGIO PUDDU
ti di Amiens, ma anche alle voci corse sul concordato tra la Francia e
la S. Sede. Anche in questo caso, solo le congetture potevano avere
riscontro dominante, dato che i contenuti dell’atto non erano stati
ancora pubblicati a Parigi e tanto meno a Roma, come si rilevava
dalle note inoltrate all’agente sardo, abate Traves, accreditato presso
la sede apostolica ( 24 ). Su tale accordo, con rammarico misto a sorpresa,
l’unica notizia apparentemente attendibile, circolante nella
capitale partenopea si basava su un presunto riscontro di tale patto,
“… sorpreso in copia…in mani di qualche particolare …” nei giorni
della visita di Gioachino Murat. Il disappunto cresceva ancora, allorché
si constatava che la pubblicazione della stessa carta, promessa
nel giorno di Pasqua secondo alcune direttive emanate dalla S. Sede,
nella realtà non aveva avuto alcun seguito ( 25 ). Il clima di instabilità
e di insicurezza prodotto dai fatti di Amiens si manifestava per di
più per l’equilibrio dello scacchiere orientale del Mediterraneo, allorché
notizie quasi certe provenienti da Pietroburgo sembravano
confermare l’interesse russo di presidiare ulteriormente Corfù. L’intento
russo di perfezionare le nuove installazioni militari, affidate
alla perizia del generale Borodin, era giunto a Napoli presso la cancelleria
borbonica, si era tradotto in una messa in stato di all’erta dei
reparti russi ivi acquartierati e destinati alla piazza del basso Adriatico,
e altrettanta emergenza aveva suscitato presso la cancelleria sabauda,
vittima dello sgomento prodotto da tale notizia ( 26 ).
Unica nota gratificante in quel frangente era stata la notizia del
rinnovo dei sussidi che i governi di Londra e di Pietroburgo ancora
riconoscevano a casa Savoia ( 27 ).
( 24 ) A.S.T., Corrispondenza di S.M. e del ministro con i paesi esteri, serie M. vol. IV.
Note inviate all’agente sardo a Roma, Traves. Napoli, 27 aprile e 4 maggio 1802.
( 25 ) A.S.T., Corrispondenza di S.M. e del ministro con i paesi esteri, serie M.,
vol. IV. Nota inviata al cardinale Consalvi a Roma. Napoli, 4 maggio 1802.
( 26 ) La mobilitazione delle truppe di stanza a Napoli doveva essere ulteriormente
perfezionata attraverso l’imbarco sui vascelli all’ancora nel porto, configurando
ancora l’immagine di un conflitto che non sembrava ancora concluso e destando
pertanto l’attenta vigilanza da parte di casa Savoia. A.S.T., Corrispondenza
di S.M. e del ministro con i paesi esteri, serie M., vol. IV. Note inviate al cardinale
Consalvi e all’agente sardo Traves a Roma. Napoli, 4 maggio 1802; cfr. pure
STUART J. WOOLF, Il Risorgimento italiano. Dall’età delle riforme all’Italia napoleonica,
vol. I, Torino 1981, pp. 259, 260.
( 27 )I finanziamenti elargiti al casato, oltre che dall’Inghilterra, che inviava
12.000 sterline l’anno, provenivano anche dalla Russia. Lo zar Alessandro predisponeva
in proposito uno stanziamento di 785.000 l’anno, da destinare al re, alla
sua famiglia, a quella del duca del Chiablese e agli esponenti del corpo diplomati-

Difficoltà internazionali e instabilità interna del regno di Sardegna ...
In questo contesto, le notizie che con tanto zelo il console Spagnolini
aveva comunicato da Livorno, suffragate da quelle provenienti
da altre sedi diplomatiche e consolari, potevano decisamente
vantare piena affidabilità. Più tardi, in seguito alla morte dello zar
Paolo I, tra Russia e Francia ci si accordò non solo per lo sgombero
dei reparti francesi da Napoli, ma anche per i riconoscimenti da garantire
al re di Sardegna. In questa occasione, da Roma, il ministro
plenipotenziario francese Francois Cacault, in rapporti col conte di
Chialamberto, incaricato d’affari, dava conferma del progetto di ampliamenti
territoriali per il casato sabaudo che, dopo l’occupazione
francese del Piemonte (settembre 1802), avrebbe infatti goduto di
una porzione dei territori toscani. Dallo scambio di note tra il Cacault
e il conte di Chialamberto si evince che in conseguenza di un
totale silenzio del governo inglese, il progetto sull’accordo di ampliamento
territoriale era caldeggiato infatti dal patrocinio del Primo
Console e dello zar di Russia. Colui che in tutto ciò mostrava
fondata perplessità era proprio Vittorio Emanuele I, poco propenso
ad accettare la rinuncia formale del Piemonte contemplata in quel
disegno. Sulla vicenda lo stesso sovrano faceva rilevare, attraverso le
note del conte di Marcoff, rappresentante russo accreditato a Parigi,
che gli Stati sardi avrebbero dovuto incorporare anche Parma e Piacenza,
godere della piena indipendenza e della totale assenza di carichi
che, nell’ipotesi del passaggio di truppe straniere, avrebbero potuto
ledere la sovranità ( 28 ).
La nuova modifica dell’assetto geo-politico di quella porzione
della penisola italiana non poteva passare naturalmente inosservata,
e il governo di Madrid, nel chiamare in causa il proprio ambasciatore
a Parigi, il cavaliere d’Azara, non tardò a manifestare le sue rimostranze.
Da parte spagnola le osservazioni più marcate erano ovviamente
rivolte allo smembramento del regno d’Etruria, proposto a favore
del casato sabaudo, dopo la sua creazione avvenuta sotto patro-
co e consolare. Encomiabile nel giungere in soccorso del suo sovrano fu il duca di
San Pietro, che elargì una somma pari ad un milione di lire. Cfr. F. COGNASSO, I
Savoia, Varese 1971, p. 512; F. FRANCIONI, Gli inglesi e la Sardegna: conflitti e progetti
politici nella prospettiva del crollo dell’impero napoleonico, in “All’ombra dell’aquila
imperiale – Trasformazioni e continuità istituzionali nei territori sabaudi
in età napoleonica (1802-1814) – Atti del convegno, Torino, 15-18 ottobre 1990,
vol. I, Roma 1994, p. 241.
( 28 ) A.S.C., Archives diplomatiques. Affaires étrangéres. Paris (A.D.A.E.P.),
Corrispondence diplomatiques, Sardaigne, vol. 281, I. Note del console Cacault e
del conte di Marcoff. Roma, 19 germinale, anno XI, Parigi, 13 aprile 1803, ff.
395 r., 396 r, 397 r, 398 v.
283

284
GIORGIO PUDDU
cinio francese. In particolare, Madrid lamentava che il progetto
d’ampliamento territoriale fosse stato realizzato senza una sua preventiva
chiamata in causa, e chiedeva che nell’ipotesi di una sua piena
realizzazione, il Borbone di Toscana fosse adeguatamente indennizzato:
... aussi en consideration aux sacrifices si aunereux que son Pais
a souffert par la demeure des troupes francaises, ce qui a derrangè de
fond en comble ses finances ( 29 ).
La risposta di Parigi al governo di Madrid rientra nel contesto di
quelle formule liquidatorie con cui le grandi potenze spesso sacrificano
le aspettative di quelle più deboli. In questo caso, secondo
quanto si dichiarava per tranquillizzare la Spagna, Francia e Russia si
accordavano in apparenza lealmente per la tutela del sovrano d’Etruria,
ma, al tempo stesso, trattando con sufficienza gli interessi del casato
spagnolo ( 30 ). Per la Sardegna, diretta interessata a quel progetto,
base di un reale negoziato, in realtà non rimase nulla; la precarietà
prodotta dagli accordi di Amiens, l’assenteismo dell’Inghilterra,
l’immobilismo della corte di Pietroburgo non fecero dar seguito a
quei disegni. Scriveva in quelle settimane lo stesso Cacault: Dans la
position où est le Roi de Sardaigne d’attendre et de recevoir une indennité
de la France il est bien difficile qu’il passe la sottise d’entrer avec les
anglais dans la moindre négotiation. Il faudrait pour cela qu’il fut conseillé
par le cabinet de Russie: ce qui n’est pas possible aujourd’hui ( 31 ).
Alcuni mesi più tardi la ripresa delle ostilità, con la denuncia degli
accordi di Amiens, affidava ancora una volta i problemi dell’Europa
tutta e del suo assetto territoriale alla soluzione armata, mantenendo
sempre precaria la stabilità del regno di Sardegna. In mancanza
di un adeguato apparato militare che potesse garantire la sua sicu-
( 29 ) A.S.C., Archives diplomatiques. Affaires étrangéres. Paris (A.D.A.E.P.).
Corrispondence diplomatique, Sardaigne, vol. 281, I. Note del cavalire d’Azara, ambasciatore
spagnolo, al ministro degli esteri francese. Parigi, 18 aprile 1803, ff. 399 r.,
400 v.
( 30 ) Nel rispondere all’ambasciatore d’Azara, così si esprimeva il ministero degli
esteri francese: Le premier Consul ne s’est jamais ecarté des pricipes de la loyanté,
il y sera plus fèdele encore dans une circostance où ces principes s’accordent avec les sentiments
qui l’unissent à S.M.I., et concourent ègalement à lui recommander les interets
de S.M. leRoi d’Etrurie, auquel il s’honore d’avoir donné une Couronne … A.S.C.,
Archives diplomatiques. Affaires étrangéres. Paris (A.D.A.E.P.). Corrispondence diplomatiques,
Sardaigne, vol. 281, I. Nota del ministero degli esteri francese all’ambasciatore
spagnolo cavaliere d’Azara. 1 floreale, anno XI, f. 401 v.
( 31 ) A.S.C., Archives diplomatiques. Affaires étrangéres. Paris (A.D.A.E.P.).
Correspondence diplomatique, Sardaigne, vol. 281, I. Memoire del rappresentante
francese Francois Cacault. Roma, 19 germinale, anno XI, ff. 395 v., 396 r.

Difficoltà internazionali e instabilità interna del regno di Sardegna ...
rezza, questo optò per la neutralità perfetta (26 agosto 1803), disponendo
in particolare che le unità navali di Francia ed Inghilterra godessero
dello stesso trattamento. La scelta della neutralità, riproposta
dal pregone di Carlo Felice del 20 aprile 1804 e, più tardi richiamata
ed ampliata dall’editto del 31 dicembre 1807, fu foriera di problemi
notevoli per la Sardegna, e comportò notevoli difficoltà nel farla
rispettare.
La scelta della neutralità per l’isola rappresentava indubbiamente
soltanto il proseguimento di una prospettiva di sopravvivenza. Era
questa una condizione propria, in particolare, di quegli Stati italiani
che si identificavano per il comune rapporto col Mediterraneo, e costituiva
un effettivo riappello alle esperienze delle precedenti leghe
dei neutri, operanti tra il 1780 e il 1800. Scopo della neutralità era
quello di far riconoscere all’Inghilterra che il cosidetto contrabbando
di guerra era limitato solo al traffico delle armi e delle munizioni,
e non a quello delle vettovaglie, come si sosteneva da parte britannica
( 32 ).
Dal canto suo l’Inghilterra aveva sempre valutato in termini pericolosi
quell’opzione di astensione dai conflitti fin dal 1793, allo scopo
di evitare che il mancato impegno dei neutrali sul piano internazionale
finisse per favorire la Francia. Il suo atteggiamento si manifestò
inconfondibilmente e ripetutamente in funzione antineutrale e
non mutò in occasione del pregone di Carlo Felice del 1804. In
quella circostanza, ancora una volta, Londra non mancò di impedire
che la Francia e i suoi alleati trovassero nelle coste sarde approvvigionamenti
e regolari rapporti commerciali. L’ostinazione per una
difesa ad oltranza dei propri interessi commerciali rappresentava per
una potenza insulare come la Gran Bretagna un punto su cui non
cedere; dalla tutela dei suoi diritti navali dipendeva infatti il dominio
dei mari e quindi la possibilità di reggere il confronto con il colosso
napoleonico. Per tutto ciò non mancheranno ostacoli che ver-
( 32 ) Cfr. F. FRANCIONI, Gli inglesi e la Sardegna, cit., pp. 239, 240. In conformità
al tenore generale dei principi della neutralità si esprimeva naturalmente anche
la normativa contenuta nel pregone di Carlo Felice che, all’art. IV così recitava:
“Continua nel resto la libertà di commercio, e sono permesse in conseguenza
le importazioni, ed esportazioni ai porti appartenenti alle due Potenze in guerra
purché non si estendano agli articoli, che in stato di guerra sono considerati come
di contrabbando, quali sono le armi di ogni sorta, bocche da fuoco, pietre focaie,
micce, polvere di salnitro, e simili dei quali non dovrà per conseguenza trovarsi sul
bastimento neutrale più di quello, che è indispensabile pel proprio uso, e, per la
difesa del bastimento”. A.S.C., Atti governativi e amministrativi, vol. X, n. 743.
Cagliari, 20 aprile 1804.
285

286
GIORGIO PUDDU
ranno interposti agli Stati neutrali e, naturalmente, alla stessa Sardegna,
per la realizzazione e l’impegno profuso nella conduzione di
tale politica; in questo caso l’Inghilterra ancora dimostrava, brutalmente,
che la neutralità non era soltanto un atto di volontà, ma l’entità
delle forze necessarie per conservarla, forze che spesso i neutri
non possedevano affatto ( 33 ).
D’altra parte, la Francia non mancava anch’essa di creare, a causa
delle sue reiterate note di protesta, notevoli difficoltà al regno di
Sardegna. Prima ancora che la neutralità fosse ufficialmente proclamata,
il commissario francese per le relazioni commerciali a Cagliari,
Ornano, denunciava, non a torto, il ricorso a trattamenti privilegiati
che nei porti sardi veniva riservato agli inglesi. Tra l’altro, in alcuni
casi, secondo quanto egli sosteneva, l’avversione contro i francesi si
sarebbe addirittura espressa con manifesti provocatori affissi nelle
città sarde contro esponenti ufficiali della repubblica, come era accaduto
ad Alghero per il sottocommissario commerciale ( 34 ).
Le proteste dell’Ornano sulle responsabilità sarde non rimasero
senza effetto e, a Parigi, raggiunsero Bonaparte che, sulla natura di
quelle manifestazioni, in alcuni casi tanto irriverenti, chiese notizie
più dettagliate e la mediazione pontificia a Roma, sede che in quei
mesi ospitava la corte sabauda. Vittorio Emanuele I, preoccupato
per i pericoli che in quel momento correvano le buone relazioni tra
Francia e Sardegna, si appellò espressamente a sua volta all’intercessione
della S. Sede, affinché si prodigasse presso Bonaparte per confermare
le buone intenzioni e la fiducia del suo casato verso Parigi.
Al papa, il re dimostrò che in realtà il vero oggetto della contesa,
una presunta fornitura di grosse partite di grano alla flotta inglese,
era privo di sostanza: la Sardegna non era in grado di provvedere ad
alcuna forma di approvvigionamento, tant’è vero che quello conces-
( 33 ) La rigidità della Gran Bretagna sulla salvaguardia dei diritti navali rimase
costante per tutto il periodo delle guerra napoleoniche. L’intangibilità di tale argomento
era talmente data per scontata che nella fase preparatoria del Congresso
di Vienna, lord Castlereagh fece di tutto per evitare che comparisse nelle questioni
all’ordine del giorno, come base dei futuri negoziati.
Con questo atteggiamento, Londra dimostrava di non aver “ancora superato le
abitudini di un decennio di isolamento, non aveva, cioè, ancora compiuto il passaggio
da una politica insulare ad una politica europea”. H. KISSINGER, Diplomazia
della Restaurazione, Milano 1973, pp. 58, 61.
( 34 ) A.S.C., Archives diplomatiques. Affaires étrangères. Paris (A.D.A.E.P.). Correspondence
diplomatique, Sardaigne, vol. 281, II. Lettera del commissario generale
Ornano al viceré, marchese di S. Andrea. Cagliari, 1 fruttidoro, anno XI, ff. 458 r.,
458 v.

Difficoltà internazionali e instabilità interna del regno di Sardegna ...
so nell’autunno del 1802 all’agente Bois era stato ridotto per non lasciar
sguarnita l’isola del suo grano ( 35 ). Per dimostrare che la condizione
politica del suo Stato si sviluppava all’insegna della più assoluta
neutralità, S.M. sarda dichiarava, ad ulteriore garanzia, che avrebbe
inviato in Sardegna Carlo Felice col compito di controllare direttamente
il rispetto dei postulati della neutralità, sollevando in tal
caso dall’incarico di viceré il marchese di S. Andrea.
In Inghilterra, la caduta del gabinetto Addington e il richiamo al
potere di W. Pitt, il giovane, impressero un impulso più marcato
alle operazioni della marina inglese nel Mediterraneo. Queste erano
puntualmente registrate dal commissario Ornano a Cagliari che, ulteriormente
irritato, informava il ministro Talleyrand sugli spostamenti
delle squadre di re Giorgio, ora presenti per rifornimenti nel
golfo di Palmas, ora schierate di fronte ad altri litorali scarsamente
difendibili della Sardegna. Da parte francese si rilevava il pericolo
britannico che, a detta del commissario, sembrava tradursi nel tentativo
di uno sbarco. Si era a conoscenza però, attraverso l’attività della
fitta rete di informatori, che la Francia era pronta ad abbattere
l’influenza inglese nell’isola, all’interno della quale i partigiani della
repubblica non mancavano, accresciuti e rafforzati in conseguenza
del diffuso malessere sociale. Da Carlo Felice i sardi sembra che
s’aspettassero “… de l’argent de terre ferme et tout s’est borné aux ossements
d’un saint dont la cour de Rome lui a fait present ...” scriveva in
tono dissacratore l’Ornano ( 36 ). Per l’agente francese: … les motifs
… pour justifier une … expedition sont de toute justice … e, per essere
coronata dal successo, questa poteva contare sull’appoggio di parti-
( 35 ) Vittorio Emanuele I, nel chiedere la mediazione pontificia presso il primo
Console, faceva rilevare che gli inglesi in fatto di forniture di grano già disponevano
delle piazze di Malta e Gibilterra e, quindi, non avevano bisogno di prelevarne
dalla Sardegna. Sempre in tema di approvvigionamenti dichiarava che le richieste
del commissario Ornano per ottenere dei cavalli erano talmente elevate che il loro
soddisfacimento si sarebbe tradotto in una violazione della neutralità. A.S.C., Archives
diplomatiques. Affaires étrangéres. Paris (A.D.A.E.P). Correspondence diplomatique,
Sardaigne, vol. 281, II. Nota di Vittorio Emanuele I a Pio VII e al cardinal
legato a Parigi. Entrambi, Roma, 21 novembre 1803, ff. 444 r., 448 v., 439 r.,
440 v.
Sulla vicenda delle forniture alle squadre navali inglesi e sul diniego alle richieste
francesi, cfr. S. POLA, Francia, Corsica e Sardegna nell’ultimo periodo della Rivoluzione
(1799-1803), in “Studi sardi”, anno V, fasc. I, II, Cagliari 1941, pp. 100, 103.
( 36 ) A.S.C., Archives diplomatiques. Affaires étrangéres. Paris (A.D.A.E.P.).
Corrispondence diplomatique, Sardaigne, vol. 281, II. Nota del commissario generale
delle relazioni commerciali, Ornano, al ministro degli esteri francese. Cagliari,
13 nevoso, anno 12, ff. 477 r., 478 v.
287

288
GIORGIO PUDDU
giani del Capo di Sassari che avrebbero sostenuto i regolari francesi
partiti da Bonifacio. L’occupazione del nord della Sardegna avrebbe
facilitato, a questo punto, la marcia verso Cagliari, alimentando ancora
il consenso verso l’esercito invasore ( 37 ).
La paventata spedizione francese in Sardegna non ebbe luogo, e
l’isola in ogni caso, attraverso la sua neutralità riuscì a ritagliarsi una
porzione di relativa tranquillità per i suoi ridottissimi traffici commerciali,
sforzandosi di mantenere una posizione equidistante tra i
due grandi contendenti. La Francia, con l’apertura della sua avventura
imperiale, non mancò di approfittare della neutralità sarda,
inoltrando una nuova serie di richieste di forniture alle sue navi,
mentre l’Inghilterra dal canto suo, mantenne costante la sua presenza
alla Maddalena, non rinunciando all’esercizio del diritto di visita
sulle navi sospette di parteggiare per l’imperatore.
La fine della terza coalizione ed i relativi accordi di Presburgo (26
dicembre 1806) avevano intanto spinto Buonaparte a ridisegnare la
carta geo-politica dell’Europa. In questo contesto, il colpo di forza
francese nel regno di Napoli e la relativa cacciata dei Borboni, assediati
in Sicilia, richiamò pur nella diversità delle vicende, la sorte del
regno di Sardegna e del suo monarca. In proposito, il console Spagnolini,
da Livorno, rilevando che le truppe del generale Massena,
occupanti Napoli, sembravano disposte ad invadere anche la Sicilia,
dichiarava che pure la Sardegna rischiava di essere attaccata se non
avesse perfezionato la sua neutralità, dato che ancora una volta era
manifesta la sua parzialità a favore degli inglesi.
Nella sua nota inoltrata a Cagliari, il console manifestava tutta la
sua paura per la sorte della famiglia reale, a favore della quale egli
rinnovava la sua piena disponibilità nell’imminenza dell’imbarco per
la Sardegna ( 38 ). Era questo un momento estremamente difficile per
Vittorio Emanuele I e la sua piccola corte; eppure tutto ciò non impediva
ad alcuni suoi rappresentanti all’estero – e fra questi lo stesso
Spagnolini – di saper discernere fra le molteplici fonti d’informazione,
quelle maggiormente rispondenti ad un carattere di garantita
credibilità, per la salvezza di una monarchia messa letteralmente alle
corde. Pur con infinita cautela, infatti, si dubitava che reparti fran-
( 37 ) A.S.C., Archives diplomatiques. Affaires étrangéres. Paris (A.D.A.E.P.).
Corrispondence diplomatique, Sardaigne, vol. 281, II. Nota del commissario generale
delle relazioni commerciali, Ornano, al ministro degli esteri francese, Cagliari,
30 nevoso, anno 12, ff. 482 r., 484 v.
( 38 ) A.S.C., Segr. di Stato, II S., fasc. 6. Nota del console Spagnolini alla Segreteria
di Stato a Cagliari. Livorno, 20 gennaio 1806, ff. 186 r., 188 v.

Difficoltà internazionali e instabilità interna del regno di Sardegna ...
cesi fossero pronti ad imbarcarsi dai porti della Toscana per guadagnare
la Corsica e, da qui, invadere la Sardegna col sicuro appoggio
dei “partitanti” del Capo di Sassari. Per questa rinnovata minaccia,
riproducente ancora una volta un cliché forse troppo consueto, non
si presta troppa credibilità; eppure viene suggerito di non trascurare
nulla e, data la vicinanza della Corsica, si consiglia di approntare
una ulteriore rete di informatori che agiscano nella più rigorosa segretezza,
per la maggior tutela del sovrano ( 39 ).
Occorre ancora ribadire che per i consoli sardi impegnati all’estero,
la natura e la qualità delle fonti d’informazione era fondamentale,
vista la spinta forte e fuorviante della propaganda francese; ma, al
di là di tutto, anche la conoscenza reale delle intenzione del governo
sardo, dopo il trasferimento del re a Cagliari, risultava spesso densa
di notevoli difficoltà e, non sempre aperta alla comprensione. Lo
conferma infatti la divulgazione della notizia di un probabile sbarco
di truppe sarde nel regno di Napoli nell’autunno del 1806, proprio
nel momento in cui, montata la quarta coalizione (settembre 1806),
Bonaparte e Davout dissolvevano a Jena e ad Auerstadt l’esercito
prussiano ( 40 ). Le circostanze che gravavano quindi sul regno di Sardegna
erano tutt’altro che confortanti e volte alla certezza. All’instabilità
interna, che sul piano sociale si sviluppava all’insegna di un
dissenso che ancora affondava le sue radici nelle vicende degli ultimi
decenni del ’700, si sommavano i riflessi foschi di una condizione
economica determinata dal ricorrente stato di guerra, non propriamente
rischiarati dalle modeste aperture prodotte dalla neutralità.
Sul piano internazionale, la posizione era altrettanto difficile, tra
le pressioni di una potenza rivoluzionaria, la Francia, dalla quale
però si poteva sperare per il riconoscimento dei diritti sui possedimenti
di terraferma, e quelle di uno Stato, l’Inghilterra che, in ossequio
ai principi della sua talassocrazia, non si esimeva dal compiere
lesioni alla sovranità di S.M. sarda, pur nella garanzia del mantenimento
del suo regno.
( 39 ) A.S.C., Segr. di Stato, II S., fasc. 6. Nota del console Spagnolini alla Segreteria
di Stato a Cagliari. Livorno, 2 marzo 1806, ff. 220 r., 220 v.
( 40 ) A.S.C., Segr. di Stato, II S., fasc. 6. Nota del console Spagnolini alla Segreteria
di Stato a Cagliari. Livorno, 13 ottobre 1806, ff. 196 r., 196 v.
289

GÜNTER ZÖLLER
LA METAFISICA DOPO LA METAFISICA
LA CONCEZIONE LIMITATIVA DELLA
«FILOSOFIA PRIMA» IN KANT (*)
SOMMARIO: 1. Non plus ultra. – 2. «La metafisica della metafisica». – 3. La determinazione
dei limiti della ragion pura. – 4. La metafisica dopo la metafisica.
Da molto tempo penso che
la filosofia divorerà anche se stessa. –
La metafisica si è già in parte divorata ( 1 ).
1. Non plus ultra. – Per rispondere alla domanda se la nostra sia
un’epoca postmetafisica è necessario intendersi su quale sia l’epoca
in cui viviamo e su cosa si debba comprendere quando si parla di
«postmetafisico» in relazione ad essa. A tal fine non basta dunque
orientarsi in modo generale dal punto di vista storico, politico, sociale
o culturale, ma è necessario chiedersi più in particolare come
stiano temporalmente le cose in tema di «metafisica». La preposizione
«post» non deve perciò essere preliminarmente intesa in modo separativo,
come se si trattasse di stabilire se la nostra epoca abbia congedato
una volta per tutte il tema «metafisica» procedendo oltre. Ciò
che è parte integrante della questione intorno alla nostra epoca, forse
postmetafisica, è piuttosto la circostanza che la metafisica costituisce,
in ragione del suo concetto e del suo oggetto, qualcosa di insuperabile
e di insostituibile, un non plus ultra della nostra ricerca e
della nostra autocomprensione; si può sì rinunciare ad elaborarla,
ma non ci se ne può dispensare.
L’epoca di cui vogliamo stabilire il rapporto con la metafisica non
è però – come mostra l’appellativo «postmetafisica» – un’epoca che
( *) L’Autore ringrazia cordialmente Pierpaolo Ciccarelli e Chiara De Luzenberger
per il loro contributo alla versione italiana del testo.
( 1 )GEORGE CHRISTOPH LICHTENBERG, Schriften und Briefe, hg. von Wolfgang
Promies, Hanser, München 1998 6 , 1:742 (J 620).

292
GÜNTER ZÖLLER
abbia una relazione intatta con la più che bimillenaria storia della
metafisica. Essa è invece proprio un’epoca nella quale pare che la venerabile
tradizione metafisica sia giunta al termine, e in cui forse si
annuncia o si è già formata una nuova epoca del pensiero. Parlando
dal punto di vista storico e personale non siamo però di fronte ad un
tempo limitato all’età presente, quale sarebbe il tardo secolo XX e il
secolo XXI appena iniziato, ma ad un periodo relativamente esteso
che inizierebbe con la critica della tradizione propria dell’Illuminismo
europeo e continuerebbe nei suoi effetti fino ad oggi. Il vero e
proprio terminus post quem di questa lunga fine della metafisica – se
non di ogni metafisica, comunque di quella vecchio stile – è rappresentato
dall’opera di Immanuel Kant; né prima né dopo di lui, infatti,
si è mai filosoficamente riflettuto con la sua stessa radicalità e coerenza
intorno alla validità della metafisica del passato e alla possibilità
di una metafisica futura. Per quanto alcuni abbiano voluto dopo
Kant proseguire, rinnovare o abbandonare la metafisica – ritenendo
di superarlo –, resta però vero che sono stati tutti, che lo confessassero
più o meno apertamente, sotto la sua influenza; a malapena qualcuno
ha potuto seguire l’artificio kantiano di salvare la metafisica attraverso
la critica.
Al di qua di ogni sottigliezza dottrinale e di quisquilie da esperti
di filosofia, Kant ha legato la metafisica o la «filosofia pura» – quella
che «possiamo chiamare filosofia in senso vero e proprio» (B 878/
A 850) ( 2 ) – all’esigenza del suo carattere pubblico. Tale richiesta rivolta
alla metafisica non ha soltanto il significato esteriore e formale
di comunicare pensieri propri, senza il disturbo della censura, della
tutela o della pressione esercitata da tradizioni e pregiudizi, ma contiene
in sé essenzialmente la richiesta materiale di comprendere possibilmente
ogni ragionamento e di poter assentire, per principio universalmente,
a ciò che viene pensato in essi. In metafisica non devono
contare ragioni di natura soggettiva e contingente, ma solo motivazioni
che valgano in maniera universale e che siano in grado di ot-
( 2 )A indica la prima, B la seconda edizione della Critica della ragion pura (si
cita dall’edizione curata da Jens Timmermann per l’editore Felix Meiner, Hamburg
1998), P indica i Prolegomeni ad ogni futura metafisica in Kant’s gesammelte
Schriften, hg. von der Königlich Preussischen Akademie der Wissenschaften bzw.
der Preussischen Akademie der Wissenschaften (voll. 1-22), von der Deutschen
Akademie der Wissenschaften zu Berlin (vol. 23), und der Akademie der Wissenschaften
zu Göttingen (vol. 24 ss.), Reimer, poi de Gruyter, Berlin 1900 ss., vol.
4. Con la sigla AA si rimanda nelle note ad altri scritti kantiani della Akademie-
Ausgabe. La corrispondenza di Kant viene citata nella seconda edizione della Akademie-Ausgabe.

La metafisica dopo la metafisica.
tenere il consenso di ciascuno. L’insieme di tali norme per raggiungere
una possibile concordanza universale è in Kant la «ragione».
Alla metafisica viene rivolta la richiesta di affermare solo ciò che può
essere dimostrato con fondamenti razionali, in un modo che sia sufficientemente
motivato per tutti coloro che sono in grado di far uso
della ragione. Solo allora la metafisica è scienza, in caso contrario
essa rimane un’opinione ed è posta alla discrezione di individui e di
gruppi ( 3 ).
Il proton pseudos della metafisica del passato consiste per Kant
nell’aver confuso l’uso della ragione con le risorse, le supposizioni e
gli scopi prefissati in modo esterno alla ragione. Criticabili sono in
metafisica sia il richiamarsi a forme di evidenza che vanno al di là
della ragione, quali «visione», «sentimento» e «fede», sia il coinvolgere
preliminarmente la metafisica in interessi particolari di tipo religioso,
politico e sociale. La critica kantiana si rivolge però, in particolare,
alla metafisica costruita nel segno della ragione, per come
essa è elaborata agli occhi di Kant specialmente nella Schulphilosophie
leibniziano-wolffiana, con la sua pretesa illuministica di fondare
una metafisica della semplice ragione. Kant mostra che nei concetti,
nei giudizi e nei sillogismi dei moderni metafisici, che a loro
dire dovrebbero invece essere puramente razionali, si sono surrettiziamente
introdotti fattori e condizioni empiriche. Con la ragione
determinata empiricamente si può conseguire molto nel mondo dell’esperienza,
non si può però conseguire niente quando ne va della
trattazione di temi e di problemi non empirici, in particolare sovraempirici.
Il concetto illuministico-pubblico che Kant ha della metafisica
come scienza consegna la metafisica all’autocritica del suo organo
designato, la ragione. Meta e scopo del procedimento kantiano in
tema di metafisica – e di procedimento si tratta anche nel senso giuridico
del termine – è però non l’«oltrepassamento della metafisica
attraverso l’analisi della ragione», ma la rivendicazione di essa. Se la
metafisica deve essere in qualche modo possibile, allora deve essere
rivista, al fine di soddisfare per la prima volta le richieste scientifiche
in generale ovvero quelle della ragione. Dopo la metafisica e grazie alla
critica, tuttavia, deve darsi nuovamente e autenticamente, per la prima
volta, la metafisica. Questo programma è sorretto da una doppia con-
( 3 ) Sul carattere pubblico della filosofia in Kant si veda GÜNTER ZÖLLER,
«Kant, Fichte und die Aufklärung», in Fichte und die Aufklärung, hg. von Carla de
Pascale, Erich Fuchs, Marco Ivaldo und Günter Zöller, Olms, Hildesheim 2004,
pp. 35-52.
293

294
GÜNTER ZÖLLER
vinzione kantiana: del valore teoretico della metafisica, quale indice
della capacità della ragione, e del valore pratico della metafisica,
quale protezione nei confronti di una comprensione di sé e del mondo
di tipo riduzionistico, che defrauderebbe la ragione di ciò che le è
più proprio, vale a dire la sua differenza ed indipendenza dalla natura.
2. «La metafisica della metafisica». – Per giungere alla fondazione
della metafisica Kant deve risalire ad un piano fondativo che stia prima
della metafisica stessa. Egli non può, però, far ricorso ad un modello
teorico di riflessione principiale sulla metafisica già esistente.
Per Kant, infatti, i tentativi di fondare la conoscenza metafisica sviluppati
nell’ambito del razionalismo continentale (Malebranche,
Leibniz, Crusius) sono già gravati da ipoteche metafisiche non dimostrate
e rientrano nel tipo di metafisica della conoscenza conforme
alla metafisica in senso proprio, quella orientata verso l’oggetto.
La specifica pretesa della metafisica risulta invece neutralizzata, secondo
Kant, nell’impostazione psicologistica della riflessione gnoseologica
in generale e della riflessione sulla conoscenza metafisica in particolare,
propria di Locke, di Hume e di Tetens. I presupposti
empirici di questi ultimi escludono infatti, fin da principio, la metafisica
in senso proprio.
Confrontandosi criticamente con questi tentativi preliminari e
giudicandoli insufficienti, Kant giunge a quella determinazione del
problema metodico-sistematico della metafisica che risulta documentata
per la prima volta nella celebre lettera a Marcus Herz del 21
febbraio 1772: «… su quale fondamento riposi la relazione di ciò
che si chiama rappresentazione in noi con l’oggetto» ( 4 ).
Come risulta chiaramente dal contesto della lettera di cui fa parte
questo passo, Kant non si riferisce alla possibilità di rappresentazioni
empiriche di oggetti, cosa che per lui è facilmente spiegabile, e nemmeno
alla possibile relazione all’oggetto di rappresentazioni sensibili
( 4 ) AA, vol. 10, pp. 129-135, n. 70. Sul fondamentale problema kantiano della
relazione oggettuale delle rappresentazioni cfr. GÜNTER ZÖLLER, Theoretische
Gegenstandsbeziehung bei Kant. Zur systematischen Bedeutung der Termini «objektive
Realität» und «objektive Gültigkeit» in der «Kritik der reinen Vernunft» (Kant-
Studien Ergänzungshefte, Bd. 117), de Gruyter, Berlin/New York 1984, nonché
ID., Apriorische Gegenstandsbeziehung als Intentionalität in § 14 der ‘Kritik der reinen
Vernunft’, in Proceedings of the Sixth International Kant Congress, hg. von Gerhard
Funke und Thomas M. Seebohm, The Center for Advanced Research in
Phenomenology, Washington, D.C. 1989, Bd. II/1, pp. 421-429.

La metafisica dopo la metafisica.
pure, che egli aveva già fondato nella Dissertazione inaugurale (1770)
mediante la dottrina delle intuizioni pure (spazio e tempo), come
forme a priori di ogni intuizione empirica, non pura. Kant, invece,
si pone qui il problema specifico della validità oggettiva dei concetti
puri, domandandosi come sia possibile che concetti e principi metafisici
fondamentali, di cui noi disponiamo a priori, possano al contempo
essere determinazioni di oggetti, qualunque ne sia il modo ( 5 ). Si
tratta della questione che, formulata con i mezzi della più matura
dottrina del giudizio, suona: «come sono possibili i giudizi sintetici a
priori?». Una domanda che, tuttavia, soltanto dopo la prima edizione
della Critica della ragion pura (1781), con i Prolegomeni ad ogni
futura metafisica (1783), assurge a punto di partenza e luogo centrale
dell’esposizione della riflessione critica sulla metafisica (B 19) ( 6 ).
In tal modo, mentre la metafisica che si intende fondare può essere
ricondotta al tipo di teoria denominato «giudizio sintetico a priori
teorico discorsivo» ( 7 ), per l’operazione fondativa della riflessione
critica sulla metafisica Kant rivendica il predicato «trascendentale»,
che egli, rifacendosi alla tradizionale dottrina dei trascendentali,
adotta per designare il carattere trasversale, transcategoriale della riflessione
sulla metafisica. Senonché, l’identità logico-predicativa tra
i concetti, i giudizi e i sillogismi metafisici da verificare ed i teoremi
che nel filosofare trascendentale procurano loro fondazione, induce
a far rientrare anche la filosofia trascendentale nella metafisica. Ciò
dovrà però accadere tenendo costantemente presente la differenza
tra i giudizi metafisici sulle cose, che sono tanto fondativi quanto bisognosi
di fondazione, e i giudizi di riflessione sulla metafisica, i
quali, invece, sono autofondativi, ossia, non sono né suscettibili né
capaci di una fondazione a partire da altro. È lo stesso Kant, infatti,
295
( 5 ) Cfr., al proposito, anche AA, vol. 17, p. 564 (riflessione 4473, datata da
Adickes «1772 circa»): «Nella natura delle conoscenze in generale occorre cercare
come sia possibile una relazione e un collegamento, laddove sia dato soltanto uno
dei relata».
( 6 ) Sulla collocazione sistematica dei Prolegomeni tra la prima e la seconda edizione
della Critica della ragion pura si veda GÜNTER ZÖLLER, Editor’s Introduction,
in IMMANUEL KANT, Prolegomena to Any Future Metaphysics, ed. by Günter Zöller,
Oxford University Press, Oxford 2004.
( 7 ) Con «discorsivo» si indica qui l’esclusione dei giudizi sintetici a priori di
tipo matematico che si basano sull’intuizione; con «teoretico» si indica invece la
restrizione a giudizi sintetici a priori che riguardano ciò che è necessariamente e che
si differenziano dai possibili giudizi sintetici a priori di tipo pratico concernenti
ciò che deve essere necessariamente. Viene in tal modo esclusa l’etica concepita come
metafisica dei costumi.

296
GÜNTER ZÖLLER
in un abbozzo di lettera a Marcus Herz, databile 11 maggio 1781, a
caratterizzare le ricerche svolte nella Critica della ragion pura come
una «metafisica della metafisica» ( 8 ).
Il carattere metafisico della filosofia trascendentale apparirà ancor
più evidente se si pensa ad uno dei risultati degli sforzi kantiani di
fondare criticamente la metafisica, se si considera cioè il risultato
della teoria trascendentale dell’intelletto a prescindere dalla teoria
della ragione che le si unisce. Sembra allora che la metateoria della
teoria metafisica sia l’unica forma di metafisica che rimanga, o,
quantomeno, l’unica forma di metafisica intesa come scienza di ciò
che necessariamente è. Come è noto, infatti, per Kant i concetti degli
oggetti che hanno la propria origine nell’intelletto (categorie)
sottostanno a condizioni sensibili pure (schemi trascendentali),
esterne rispetto ad essi, che restringono il loro uso conoscitivo all’ambito
dell’esperienza. La restrizione dei predicati metafisici all’esperienza
possibile non implica, però, la loro riduzione a note di
regolarità ricavabili empiricamente. Le categorie fondate su rapporti
formali di tempo sono invece in grado di fornire principi universali
di determinazione oggettiva e, perciò, un sistema di conoscenze oggettive
a priori. Ma il possibile uso delle categorie al di fuori dell’esperienza
è pur sempre soltanto un uso che rende possibile l’esperienza,
tale che, pur non dipendendo dall’esperienza attuale, non
può servire a null’altro che a fornire i principi dell’esperienza possibile.
Kant stesso ha considerato la forma di metafisica implicata dalla
teoria trascendentale dell’intelletto come la versione criticamente
emendata, e perciò radicalmente modificata, della metafisica generale
(metaphysica generalis), vietandosi tuttavia di ricorrere, per designarla,
all’«orgoglioso nome di ontologia» (B 303/A 247). Se si considera
tutta la prima metà della Critica della ragion pura, o le prime
due domande principali dei Prolegomeni, si può pertanto parlare, a
buon diritto, di una «ontologia dei fenomeni» (Gottfried Martin) o
di una «metafisica dell’esperienza» (Herbert James Paton). E tenendo
presente l’ampiezza dell’intersezione o addirittura dell’identità
tra la metateoria della metafisica («metafisica della metafisica») e la
stessa metafisica che per essa (sia post che secundum) diviene possibile,
occorre rilevare che, già nella prima edizione e poi ancora, senza
modificazioni, nella seconda edizione della Critica della ragion pura,
Kant, in prima istanza, contrappone quest’ultima, in quanto «propedeutica»,
a quel «sistema della pura ragione» denominato «metafisi-
( 8 ) AA, vol. 10, p. 268 s., n. 166.

La metafisica dopo la metafisica.
ca» che «contiene in connessione sistematica l’intera conoscenza filosofica
(sia vera che apparente) proveniente dalla pura ragione», facendo
poi però rientrare nel significato più ampio del termine «metafisica»
anche la sua preparazione e fondazione critica (B 869/A
841). Ciò suggerisce una identità, quanto meno parziale, di fondazione
della metafisica e di metafisica fondata, che ben concorderebbe,
peraltro, con il nesso istituito dai Prolegomeni e nominato già nel
sottotitolo di questo scritto: «per ogni futura metafisica che voglia
comparire come scienza».
La differenza tra critica e metafisica coinciderebbe allora, da un
lato, con la differenza estensionale tra ‘progetto’, a suo modo completo,
ed ‘esecuzione’, anch’essa a suo modo completa, e, dall’altro
lato, con la differenza modale tra «trattato del metodo» e «sistema
della scienza stessa» (B XXII). Senonché, per stabilire questa massima
identificazione tra filosofia trascendentale e metafisica come
scienza è necessario separare la «morale pura» – che già nella Critica
della ragion pura Kant aveva previsto di concepire e realizzare come
«metafisica dei costumi» – da «ciò che si è soliti chiamare metafisica in
senso stretto», limitando quest’ultima alla «metafisica della ragione speculativa»
(B 869 s.). Il principale argomento adoperato da Kant per
escludere la metafisica dei costumi dalla metafisica in quanto «filosofia
pura» è l’implicita dipendenza della filosofia morale da concetti empirici
come piacere e inclinazione, sebbene questi non rientrino in
modo costitutivo nel concetto dell’obbligazione incondizionata, purarazionale
(B 29, ovvero A 15; cfr. inoltre le varianti della seconda edizione,
significative per lo sviluppo della filosofia morale kantiana).
La metafisica così emendata non è altro che il completamento
della Critica della ragion pura messo in programma da Kant già nella
Prefazione alla prima edizione con una «metafisica della natura, che,
per estensione non deve essere nemmeno la metà di questa critica,
ma che deve avere un contenuto incomparabilmente più ricco di
essa» (A XXI). Una tale metafisica in senso stretto Kant non l’ha mai
esibita. L’ha considerata un’impresa relativamente semplice («più
uno svago che un lavoro»; A XXI), nella quale si sarebbe soprattutto
trattato di completare i concetti e i principi originari della Critica
della ragion pura con tutti i concetti e principi metafisici derivati.
Kant ne ha dato un abbozzo nelle sue lezioni sulla metafisica degli
anni Ottanta e dei primi anni Novanta ( 9 ).
( 9 ) Vedi AA, voll. 28 e 29, nonché l’edizione antologica in lingua inglese: IM-
MANUEL KANT, Lectures on Metaphysics, translated and edited by Karl Ameriks and
Steve Naragon, Cambridge University Press, Cambridge 1997.
297

298
GÜNTER ZÖLLER
I Primi principi metafisici della scienza della natura, pubblicati da
Kant nel 1786, non possono essere in alcun modo considerati come
la realizzazione del progetto di una «metafisica della natura», vale a
dire del «sistema della ragion pura (speculativa)» (B XXI), giacché in
tale scritto non si parla di una metafisica in senso stretto, ma di una
dottrina metafisica dei principi della natura esterna che pone a fondamento
il concetto empirico della materia intesa come ciò che si
muove nello spazio, e che, come tale, non appartiene alla «filosofia
pura». Per giunta, ancora nella Prefazione alla seconda edizione della
Critica della ragion pura (1787), quindi dopo la pubblicazione dei
Primi principi metafisici della scienza della natura, Kant annuncia il
proprio «progetto di fornire sia la metafisica della natura che quella
dei costumi» (B XLIII).
Nel caso della «metafisica della natura» progettata da Kant, anziché
di una dottrina locale dei principi della natura si tratta invece di
una dottrina della natura di massima ampiezza, o di una «fisiologia
della ragion pura», che assume la «natura» come la «totalità degli oggetti
dati» e lascia perciò addirittura aperta la questione di come e in
che modo gli oggetti vengano conosciuti: «possano essi (sc.: gli oggetti)
essere dati ai sensi, o, se si vuole, ad un altro tipo di intuizione»
(B 873/A 845). Nella metafisica della natura fondata criticamente
viene quindi ad essere compresa sia la «considerazione della
natura» fisica che quella della natura iperfisica. La metafisica della
natura, intesa come «fisiologia immanente», comprende «fisica razionale»
e «psicologia»; intesa come «fisiologia trascendente», essa
contiene la «conoscenza trascendentale del mondo» e la «conoscenza
trascendentale di Dio» (B 873 s./A 845 s.). Così facendo, Kant trasferisce
nel proprio concetto di metafisica criticamente fondata il sistema
della metafisica proprio della filosofia leibniziano-wolffiana,
con la riserva, però, che essa contenga «la conoscenza filosofica sia
vera che apparente» (B 869/A 841) e dimostri e confuti quest’ultima
in quanto tale, conformemente alla scopo primario della Dialettica
trascendentale della Critica della ragion pura (B 88/A 63 s.).
Che Kant revochi la pretesa di essere scienza, avanzata dalla metafisica
trascendente della natura (metafisica specialis), è evidente già
dall’uso dell’espressione Naturbetrachtung, «considerazione della natura»,
al posto di Naturwissenschaft, «scienza della natura», per designare
le suddivisioni disciplinari della «fisiologia della ragion pura»
(B 873/ A 845). Come autentica scienza metafisica della natura potrebbe
valere soltanto quella metafisica della natura da realizzare nella
elaborazione sistematica della risposta alla seconda domanda principale
dei Prolegomeni – «Come è possibile una scienza pura della

La metafisica dopo la metafisica.
natura?» – e che corrisponde alla parte analitica della Logica trascendentale
della Critica della ragion pura. Ma, allora, occorrerà domandarsi
in che cos’altro può mai consistere la metafisica come scienza,
se non in una ontologia del fenomeno o metafisica dell’esperienza
comunque completata.
3. La determinazione dei limiti della ragion pura. – Che la metafisica
critica abbia un raggio d’azione che va oltre la possibilità dell’esperienza
è dovuto alla circostanza che la Critica della ragion pura
non soltanto fa valere la limitazione dell’intelletto per mezzo della
sensibilità, ma mostra anche la restrizione della sensibilità tramite
l’intelletto. È vero che l’intelletto non può mai estendere, nell’uso
conoscitivo, i propri concetti e principi ad oggetti che non possono
esserci dati in nessuna intuizione. Questo non giustifica però che le
condizioni della sensibilità vengano trattate come condizioni di tutte
le cose. Già il doppio carattere delle intuizioni pure di spazio e tempo
– per cui nell’Estetica trascendentale si dice (B 44/A 28, B 52/A 35)
che esse posseggono una «realtà empirica» e una «idealità trascendentale»
– implica che le forme pure sensibili abbiano una validità
limitata. La «realtà» universale o il carattere cosale di spazio e tempo
– che essi siano, oltre che forme di ogni intuire anche forme di ogni
cosa intuita – sono ristretti ab origine. Spazio e tempo non hanno
nessun significato, nessun valore, rispetto alla questione se le cose o
gli oggetti («Sachen»: B 43/A 27) possano darsi indipendentemente
dal nostro modo sensibile di comprenderli. Questo status negativo,
quanto a validità, delle forme dell’intuizione – in quanto considerate
indipendentemente dalla nostra sensibilità (cioè trascendentalmente)
– è indicato dal termine kantiano «idealità», da intendersi come
«nullità», pertanto in maniera del tutto contrapposta al successivo significato
di validità in positivo attribuitogli dal movimento neokantiano
( 10 ).
C’è bisogno tuttavia della riflessione critica per avere ben presente
l’universale validità condizionata delle determinazioni sensibili
dell’oggetto. La ragione umana è infatti sottoposta alla tentazione di
prendere le condizioni delle cose sensibili (fenomeni) per condizioni
delle cose tout court (cose in generale). Questo accade in particolare
quando l’intelletto si è convinto della non validità delle proprie prestazioni
in relazione ad oggetti non sensibili e ritiene perciò che non
esista nulla oltre alla realtà sensibile (come Kant ritiene di poter os-
( 10 ) Cfr. AA, vol. 17, p. 386 (riflessione 4013) e p. 646 (riflessione 6324).
299

300
GÜNTER ZÖLLER
servare in Hume). Tale procedimento surrettizio si verifica quando
costruendo metafisicamente una teoria si commette l’errore categoriale
di estendere le determinazioni oggettuali, valide per il mondo
sensibile, oltre il loro ambito di validità, utilizzandole rispetto agli
oggetti ultimi delle aspirazioni metafisiche (anima, mondo, Dio) –
come avviene nella metafisica razionale, in particolare nella cosmologia
razionale, che Kant ricostruisce e distrugge.
In opposizione alla non distinzione delle condizioni delle cose sensibili
dalle condizioni di tutte le cose Kant pone la «distinzione critica»
(B XXVIII) tra cosa in sé e fenomeno. Ci si deve però guardar bene
dal vedere qui una parte di metafisica positiva del soprasensibile, come
se Kant considerasse fin da subito certa l’esistenza di oggetti non sensibili.
Kant introduce soltanto la considerazione di come le cose possano
darsi indipendentemente dal modo in cui ci sono date. Nel contesto
della Critica della ragion pura è per lui innanzitutto importante
esprimere – nella concettualità della tradizione metafisica e attraverso
il pensiero delle cose in sé (più precisamente della distinzione di tutti
gli oggetti in generale in fenomeni e cose in sé: B 294 ss./ A 235 ss.) –
il tipo di validità contenuto nel concetto di «realtà empirica cum
idealità trascendentale», proprio delle condizioni oggettuali sensibili
e senza l’«ontological committment» caratteristico di quella tradizione.
Mettere in contrasto le cose in sé con i fenomeni significa ricordarsi
di ciò e far notare ad altri che la strutturazione spazio-temporale
degli oggetti sensibili è dovuta alle nostre forme dell’intuizione e
non può perciò essere semplicemente applicata ad altri tipi di relazione
oggettuale. Resta da vedere se sulla base di risorse differenti
possa avere successo un tale riferimento oggettivo, indipendentemente
dalla sensibilità in generale, e se pertanto si debba unire alla
critica della ragione speculativa una metafisica del soprasensibile.
In questo contesto risalta agli occhi ed è significativo che Kant
colleghi la tesi dell’idealità direttamente solo alle condizioni dell’intuire
sensibile. In nessun passo della Critica della ragion pura e neppure
in tutto l’intero corpus kantiano viene attribuita alle condizioni
del pensare una «realtà empirica» ovvero una «idealità trascendentale».
È vero che le categorie sono sottoposte alla limitazione del loro
uso conoscitivo rispetto ad intuizioni sensibili date o possibili. In
questo senso la limitazione dei principi sensibili (spazio e tempo) e
di ciò che è principiato di essi (i fenomeni) si applica all’utilizzo delle
categorie, limitando quest’ultimo alla determinazione di oggetti
empirici. Diversamente dal caso delle intuizioni pure, nelle categorie
l’aspetto dell’origine e quello dell’applicazione (o uso) divergono tra
di loro. Spazio e tempo appartengono alla sensibilità e valgono per

La metafisica dopo la metafisica.
ciò che è dato attraverso essa. Le categorie, invece, appartengono all’intelletto
e valgono, quali principi della conoscenza oggettuale, per
ciò che è dato mediante la sensibilità e in conformità alle forme di
essa. Questa discrepanza funzionale tra sensibilità e intelletto porta a
considerare un altro uso dell’intelletto, indipendentemente dalle
condizioni della sensibilità: certamente non l’uso dell’intelletto per
la conoscenza teoretica di oggetti, che in effetti è stato provato essere
ristretto ai fenomeni.
La versione oggettiva, per così dire cosmologicamente orientata,
della disanalogia tra ciò che la sensibilità e l’intelletto realizzano, dal
punto di vista dei principi, è rappresentata dalla concezione del
mondo intelligibile (mundus intelligibilis, noumeni) quale ordine
delle cose prodotto dall’intelletto indipendentemente dalla sensibilità.
Qui non si tratta di una metafisica positiva del soprasensibile, restituita
in maniera segreta, ma della presentificazione sistematica,
volta all’oggettuale, del fatto che il mondo sensibile, costruito anche
tramite l’uso empirico dell’intelletto puro, comprende soltanto ciò
che è per noi accessibile nella conoscenza teoretica (esperienza possibile).
Il limite così dato all’uso conoscitivo di sensibilità e intelletto
viene marcato dall’intelletto per il fatto che esso pensa il mondo sensibile
circondato da un mondo intelligibile, senza essere capace,
come intelletto teoretico, di una qualche conoscenza autentica di
tale mondo e di ciò che vi è contenuto.
Nei Prolegomeni Kant ha esposto la distinzione tra mondo sensibile
e mondo intelligibile avvalendosi di rapporti topografici: il mondo
sensibile viene da lui rappresentato come circondato dallo «spazio
vuoto» del mondo intelligibile, la linea di confine comune ad entrambi
i mondi viene descritta come ciò che noi possiamo conoscere in
estremo (P 350 ss.; §§ 57-59: «Conclusione. Della determinazione dei
limiti della ragion pura»). In sostanza viene così riproposto, in una
façon de parler di tipo cosmologico, quello che la Critica della ragion
pura dimostra quanto alla non impossibilità della libertà cosmologica,
nella soluzione della terza antinomia (B 563 ss./ A 535 ss.).
4. La metafisica dopo la metafisica. – Rispetto ad una possibile
metafisica post-metafisica e al di là della sua riduzione a filosofia trascendentale
va ora analizzato con quali strumenti e attraverso quali
percorsi Kant abbia considerato o attuato una occupazione del vuoto
spazio intelligibile. Nel far ciò bisogna operare una distinzione tra il
tentativo di occupazione intentato nel quadro della filosofia trascendentale,
e con le risorse dell’uso dell’intelletto teoretico, e quegli am-
301

302
GÜNTER ZÖLLER
pliamenti territoriali che si devono all’impiego di altre risorse e specialmente
al ricorso all’uso pratico della ragione che determina non
gli oggetti bensì la volontà. A questo riguardo si deve fare attenzione
se le osservazioni testuali su tale argomento, presenti nella Critica
della ragion pura, nei Prolegomeni o in altri testi kantiani di filosofia
teoretica, siano localizzabili nel corpus principale di queste opere o se
esse emergano in quelle parti iniziali o finali, dove lo sguardo viene
volto alle connessioni d’insieme e alle conseguenze che oltrepassano
sia il contesto teorico specifico di una «critica della ragion pura» sia
le operazioni ad essa equivalenti. Questo avviene in particolare nelle
Prefazioni e nella Dottrina trascendentale del metodo della Critica
della ragion pura, in cui l’uso pratico della ragione viene presupposto,
rilevato e indagato relativamente alle sue condizioni.
L’Appendice della Dialettica trascendentale intraprende l’occupazione
del libero spazio intelligibile della ragione con strumenti puramente
teoretici. Prima era stato provato che l’uso puro della ragione,
svincolato dall’esperienza, si poggia su inferenze illegittime quando
vuole determinare gli oggetti attraverso le tre idee trascendentali
(anima, mondo, Dio). Nell’Appendice viene ora attribuita alle idee
trascendentali non la presunta funzione di determinazione dell’oggetto
(costitutiva) nella conoscenza del soprannaturale, ma una funzione
di orientamento nella conoscenza (regolativa), in vista del
massimo ampliamento della conoscenza degli oggetti d’esperienza
nello spazio e nel tempo. Della vecchia metafisica resta in tal modo
poco più che l’impulso, posto nella ragione in quanto tale, ad oltrepassare
ogni esperienza particolare e ogni conoscenza empirica, per
quanto estesa, al fine di perseguire un sistema completo dell’esperienza
tanto massimamente unitario quanto massimamente differenziato.
Il completamento ideale dell’esperienza, che si vuole realizzare,
si commisura qui ai tre segni di orientamento fittizi («come se»;
B 699 ss./ A 671 ss.) – le tre idee della metafisica razionale – che
però ora non sono più oggetto di sforzi conoscitivi, ma premesse metodologiche
per l’organizzazione sistematica dell’esperienza. Così attraverso
la dottrina della funzione regolativa dei concetti della ragione
non si sconfina in realtà nel soprannaturale e tanto meno lo si determina
scientificamente, al massimo si esce una volta per tutte da quel
«circolo» che la ragione descrive ogni qualvolta si muove dall’esperienza
all’indeterminato e di nuovo verso l’esperienza (B 825, 832/ A 797,
A 804).
Nei Prolegomeni Kant integra il pensiero fittizio del soprasensibile
– nel quadro della funzione teoretico-regolativa dei concetti trascendentali
della ragione – con la concezione del pensiero analogico del

La metafisica dopo la metafisica.
soprasensibile, avvalendosi di mezzi provenienti dal mondo sensibile.
La rappresentazione dei limiti posti e custoditi dalla ragione intorno
al mondo sensibile viene proseguita da Kant con l’immagine
della sosta della metafisica del soprasensibile «al limite di tutti gli usi
della ragione consentiti» (P 356). A partire da questa posizione che
la metafisica occupa tra i mondi vengono considerati, con riferimento
alle qualità proprie del mondo sensibile, i tre tipi di ente intelligibile
(«ente immateriale», mondo intelligibile» e «l’ente supremo»)
nella loro relazione con il mondo sensibile. L’esposizione di Kant è
più precisa nel caso della dottrina filosofica di Dio, in cui quei predicati
che derivano dalla sfera dell’esperienza propria dell’uomo,
quali ad esempio «intelletto» e «volontà», vengono traslati per analogia
nell’ente infinito, considerando in particolare la sua relazione
con il mondo sensibile ( 11 ).
Nella determinazione indiretta degli enti intelligibili, compiuta
attraverso la ragione, non si tratta di conoscere «ciò che essi potrebbero
essere in se stessi» (P 355), ma semplicemente di supporre razionalmente
qualcosa sul rapporto tra le cose intelligibili e il mondo
sensibile. Kant chiama «antropomorfismo simbolico» la determinazione
per analogia, metodicamente riflettuta, di Dio, tramite qualità
umane, (P 357), distinguendola dall’«antropomorfismo dogmatico»
che in modo illegittimo traspone le qualità umane direttamente nell’ente
divino. In un senso più ampio, tutti i tentativi di determinazione
teoretica del soprasensibile devono essere valutati, in una metafisica
post-metafisica, come «antropomorfismo simbolico». In tutti i
casi si tratta di una estrapolazione, compiuta in modo mirato e controllata
metodicamente, a partire da quei rapporti del mondo sensibile
che ci sono familiari, per applicarli a materiali totalmente differenti,
senza pretendere di conoscere il soprasensibile in quanto tale.
Kant sembra tuttavia accordare quanto meno una consistenza minimale
al sapere del soprasensibile e con ciò alla metafisica in quanto
scienza, se è vero che egli, al termine dei Prolegomeni, sempre parlando
della «determinazione dei limiti della ragion pura», ritiene che le
tre idee trascendentali poste nella ragione – di anima, mondo e Dio
– escludano tre posizioni riduzionistiche ad esse correlate in filoso-
( 11 ) La trattazione kantiana della dottrina filosofica di Dio fa parte nei Prolegomeni
della discussione della critica della religione portata avanti da DAVID HUME
nei suoi Dialogues Concerning Natural Religion; Kant poté conoscere questi dialoghi,
usciti postumi nel 1779, al più tardi a partire dall’estate 1780 nell’abbozzo di
traduzione preparato da Hamann. Cfr. al riguardo GÜNTER GAWLICK e LOTHAR
KREIMENDAHL, Hume in der deutschen Aufklärung. Umrisse einer Rezenptionsgeschichte,
Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1987, pp. 35 s., 183.
303

304
GÜNTER ZÖLLER
fia. L’idea psicologica esclude il materialismo ovvero la dottrina della
natura meramente materiale di ciò che è spirituale; l’idea cosmologica
esclude il naturalismo ovvero la dottrina dell’autosufficienza della
natura nello spazio e nel tempo, in quanto non necessita di alcuna
fondazione esterna in qualcosa di soprannaturale; l’idea teologica,
infine, esclude il fatalismo ovvero la dottrina della cieca necessità naturale,
senza che vengano posti in modo soprannaturale degli scopi o
un preordinatore di fini soprannaturale (P 363). Qui pare che
l’ignoranza dinanzi al soprasensibile venga revocata fino al punto da
escludere definitivamente le posizioni suddette; sembra che sia così
possibile un sapere negativo di ciò che il soprasensibile non è.
Un’analisi più attenta dimostra però che il rifiuto kantiano del
materialismo psicologico, del naturalismo cosmologico e del fatalismo
teologico non rappresenta alcuna conquista dal punto di vista
conoscitivo, come se l’immaterialità dello spirito, la soprannaturalità
dell’intero mondo e la natura dell’intelletto e della volontà divina fossero
oggetto di una metafisica scientifica del soprasensibile. Escluso è
piuttosto solo l’errore categoriale di far penetrare concetti del mondo
sensibile come «materia» o «necessità naturale» nella concezione
di un mondo intellegibile e degli enti presenti in esso, e con ciò di
ledere la determinazione dei limiti della ragion pura. Con riguardo
al soprasensibile Kant sostiene un monismo trascendentale neutrale.
Nel caso del sostrato intelligibile di tutti i fenomeni del senso interno
ciò significa ad esempio che esso non è «né materia né un ente
pensante in se stesso, bensì un fondamento a noi sconosciuto di ogni
fenomeno» (A 379 s.), di cui non si può dare nessuna scienza.
Solo l’occupazione del libero spazio intelligibile con strumenti diversi
da quelli teoretici, e specialmente con l’impiego di risorse pratiche,
apre la prospettiva di una metafisica del soprasensibile. Poiché
la filosofia trascendentale e la metafisica che può forse seguire ad
essa vengono ristrette alla metafisica della ragione speculativa o alla
metafisica della natura, quando si ricorre all’uso pratico della ragione
non si afferma la dottrina di questo uso puro, che conduce certamente
ad una metafisica dei costumi. I relativi sforzi kantiani riguardano
piuttosto l’indagine sulle implicazioni teoretiche dell’uso puro
pratico della ragione, partendo dalla sua datità. Ciò conduce allo
sviluppo di una forma mista di conoscenza del soprasensibile, in cui
la certezza morale-pratica serve da fondamento delle condizioni teoretiche
per la realizzabilità principiale di ciò che deve essere compiuto
dal punto di vista morale.
Il Canone della ragion pura fornisce nella Critica della ragion
pura un primo approccio al riguardo con la domanda-guida «se ora

La metafisica dopo la metafisica.
faccio quel che devo fare, che cosa posso allora sperare?» (B 833 /
A805). Qui si stabilisce che l’immortalità dell’anima e l’esistenza di
Dio sono condizioni di possibilità della realizzazione del sommo
bene, nella misura in cui in quest’ultimo rientra, oltre alla moralità,
anche la felicità moralmente meritata. L’epistemologia elaborata per
la conoscenza mista (teorico-pratica) del soprasensibile fornisce
quindi, nella Critica della ragion pratica, i postulati della ragion pura
pratica. Un’importanza fondamentale riveste al riguardo la concezione
«del primato della ragion pura pratica nella sua relazione con
la ragione speculativa» ( 12 ). Segue qui il «completamento dell’impotenza
della ragione speculativa» ( 13 ) di determinare teoreticamente il
soprasensibile, nella modalità di supposizione e di premessa. Non siamo
in presenza di alcuna conoscenza diretta del soprasensibile, bensì
di una illazione di ciò che deve essere supposto sulla base di ciò che
noi possiamo comprendere, al fine di pensare ciò che è necessario
dal punto di vista pratico (ciò che è moralmente comandato in maniera
incondizionata) come qualcosa di possibile dal punto di vista
teoretico. Assieme al carattere di premessa dei postulati deve qui essere
messo in evidenza il carattere volitivo del pensiero che postula.
Postulare l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio per motivi
pratico-razionali significa seguire e volere liberamente un bisogno
costitutivo della nostra natura pratica fondamentale: «voglio che vi
sia un Dio, che io esista non solo in questo mondo, ma anche in un
mondo intelligibile, al di fuori della concatenazione naturale, voglio
infine che la mia durata sia infinita» ( 14 ).
Come già negli assunti teoretici per la determinazione oggettuale
del soprannaturale, anche nel corrispondente assunto pratico non si
giunge ad una determinazione degli enti intelligibili «per come essi
sono in se stessi» ( 15 ). Piuttosto, qui si verifica un ampliamento cognitivo
con una duplice limitazione: esso è possibile da un lato «solo
mediante la legge morale e anche solo in relazione ad essa», dall’altro
lato in dipendenza del fatto che la nostra ragione «trova» che la realizzazione
comandata del sommo bene «non sia pensabile diversamente»
( 16 ). Kant tiene conto di questa doppia limitazione del carattere
conoscitivo dei noumeni postulati allorché li espone come og-
( 12 ) AA, vol. 5, p. 119 s.
( 13 ) Ivi, p. 122.
( 14 ) Ivi, p. 143.
( 15 ) Ivi, p. 133.
( 16 ) Ivi, pp. 133, 126.
305

306
GÜNTER ZÖLLER
getti di una libera fede razionale, revocando in tal modo, dal livello
epistemico a quello dossico, la metafisica del soprasensibile fondata
dal punto di vista morale-pratico ( 17 ). Per la possibilità di una metafisica
che vada al di là di una sua reinterpretazione riduttiva come filosofia
trascendentale, Kant, nelle sue tarde riflessioni intorno al
progresso della metafisica, ha descritto questo risultato come un passaggio
dalla metafisica del soprasensibile ad una «dottrina della saggezza».
La metafisica in quanto «dottrina della scienza» resta limitata
alla filosofia trascendentale ( 18 ).
Kant però non comprende solo tardivamente l’impossibilità che
«qualsiasi futura metafisica possa presentarsi come scienza». Il sottotitolo
dei Prolegomeni non riflette una sorta di temporanea ingenuità
in relazione ad una metafisica dopo la metafisica; esso va invece inteso
come un condizionale: se in futuro dovrà esserci in generale una
metafisica scientifica del soprasensibile, ciò potrà avvenire solo tenendo
conto delle richieste esposte nei Prolegomeni e nella Critica
della ragion pura. Un condizionale è poi vero anche quando la sua
condizione si rivela irreale ad una considerazione più attenta.
La nostra epoca postkantiana è dunque un’epoca post-metafisica?
Sì e no. Sì, se per metafisica si intende una scienza del soprasensibile
che va oltre la metafisica della metafisica. Qui vale la tesi per cui
«Noumenorum non datur scientia» ( 19 ). No, se ancora con Kant diciamo
che essa «riferisce ogni cosa alla saggezza, ma sulla via della
scienza» (B 878/A 850). Il monito che Kant rivolge alla nostra epoca
è di non perseguire la saggezza filosofica indipendentemente dalla
scienza filosofica. Quando ciò non avviene, la saggezza degenera in
prudenza e la fede razionale in superstizione.
(traduzione di Faustino Fabbianelli)
( 17 ) Ivi, pp. 126, 146.
( 18 ) AA, vol. 20, p. 273. Le annotazioni di Kant, pubblicate postume da Friedrich
Theodor Rink nel 1804, riguardano il quesito del 1791 formulato dall’Accademia
Reale delle Scienze di Berlino: «Quali sono i reali progressi compiuti dalla
metafisica in Germania a partire dai tempi di Leibniz e Wolff?» I vasti elaborati di
Kant offrono un’ampia valutazione della sua posizione all’interno della metafisica
dell’epoca e contengono importanti integrazioni rispetto ai relativi testi pubblicati,
tra cui la ripresa della dottrina dei postulati e della fede razionale nel concetto
della «conoscenza pratico-dogmatica», messa esplicitamente in relazione con la
dottrina della saggezza e non con la dottrina della scienza.
( 19 ) Ivi, p. 277.

ELISABETTA PIREDDU
IL PAESAGGIO SONORO NEI ROMANZI
DI GRAZIA DELEDDA
Le valutazioni e i significati che l’Uomo attribuisce al proprio territorio
hanno condotto, in particolare la geografia di stampo umanistico,
a considerarlo come una struttura complessa, espressione del
sistema di valori, atteggiamenti culturali, sociali e politici di una società,
le cui dinamiche interessano peraltro il “paesaggio” inteso
come il risultato, o meglio, “l’espressione” di quella struttura, appunto
derivata dai modi specifici che ogni comunità ha di insediarsi
e di abitare. Condividendo appieno quanto in merito ha espresso
Eric Dardel, il paesaggio, oltreché «un contrappunto di dettagli pittoreschi,
[è] un insieme […] una convergenza, un momento vissuto»
(1986, p. 33) in cui confluiscono «l’aspetto geografico e quello estetico,
[quello naturale e culturale]; ancora, la funzione e il senso,
l’ecologico e il simbolico» (Bonesio, 1997, p. 14). Difatti esso, prima
di essere la somma di dati visibili, è anzitutto, la «manifestazione
di un’alleanza di Uomo e Terra, derivante a sua volta da una simbolizzazione
della [sua] collocazione» (Ibidem) nel Mondo e va, di conseguenza,
valutato travalicando la sua tradizionale funzione descrittiva
o valenza estetica, in base alle quali, a lungo, è stato visto come
qualcosa di statico da ricondurre al solo dato visivo, per abbracciare
invece l’idea che esso sia qualcosa di dinamico, in fieri e, come tale,
strutturato anche dal tempo.
Il superamento dell’approccio descrittivo ed estetico, oltreché evidenziare
la necessità di una valutazione complessiva del paesaggio
come “sintesi” di geografia, ecologia, economia, cultura, identità e
simbolicità, pone l’attenzione, anche sull’atteggiamento psicologico
del soggetto nei confronti della realtà a cui esso si rapporta, studiando
le modalità con le quali dapprima la percepisce, poi la rappresenta
e valuta. Il paesaggio ha dunque un valore espressivo e una dispo-

308
ELISABETTA PIREDDU
sizione spaziale complessiva, oltreché un contenuto di senso e una
identità simbolica in virtù della quale si qualifica sempre anche
come contesto intriso dei segni della presenza umana. A ben vedere
esso è dotato pure di uno stile, una tonalità emotiva e spirituale, che
presuppone «più di uno sguardo meramente estetico» (IVI, p. 27)
implicando, difatti, un’osservazione oltreché una partecipazione
sempre relative al coinvolgimento sensoriale dell’uomo.
L’importanza delle modalità soggettive di percezione e rappresentazione
della realtà nella costruzione del paesaggio, messa a fuoco in
particolare dalla geografia della percezione, consente di spostare l’attenzione
sul soggetto che lo percepisce ed organizza sempre secondo
direttive culturali, qualificando il momento percettivo come un atto
che consente non solo di esaltare i contenuti spirituali dell’incontro
tra uomini e luoghi, ma anche di puntualizzare come gli atteggiamenti
spaziali, frutto dei processi cognitivi alla base delle interazioni
dell’uomo con l’ambiente, sono la conseguenza della cultura di chi
percepisce. Stimoli interessanti relativi allo studio di tale paesaggio e
di una sua rappresentazione sono giunti alla geografia umanistica
dalla letteratura, valido strumento nella comprensione sia delle relazioni
che l’uomo intrattiene con i propri “luoghi”, sia della modalità
attraverso cui egli percepisce e costruisce il proprio paesaggio, fonte
di sentimenti, emozioni e ricordi che implicano la partecipazione
emotiva anche di chi lo trasmette attraverso la scrittura.
Difatti il paesaggio narrato, sempre vissuto e interiorizzato, è uno
spazio geografico sperimentato come “luogo”, che costituisce
un’esperienza emotiva profonda, attraverso cui chi scrive ha modo di
esprimere una propria concezione del Mondo. Perciò, da questo
punto di vista, esso va considerato come la massima espressione interpretativa
della cultura e società cui appartiene lo scrittore il quale,
proprio veicolando quell’insieme di valori di una collettività sedimentati
nel tempo, concorre sia alla formazione di una coscienza
territoriale, sia allo sviluppo del senso di appartenenza e identità.
Principalmente, il paesaggio letterario esprime appieno il rapporto
dialettico che l’autore ha intrattenuto con tutto ciò che gli sta intorno,
con “l’Altro da sé”. Egli, nel cogliere i sentimenti, le emozioni e
sensazioni derivate ai suoi personaggi dalla percezione sensoriale dello
spazio quotidiano, nonché dal loro raffronto dinamico con il
Mondo, suggerisce ai suoi lettori il profondo significato della realtà
che lo circonda, evidenziando peraltro come la produzione e percezione
del paesaggio, preceda sempre la necessità di cogliere quelle
simbologie, significati, valori ed invisibili legami che sottendono il
rapporto dell’uomo con l’ambiente circostante, il cui tentativo di ca-

Il paesaggio sonoro nei romanzi di Grazia Deledda
ricarli di senso e decifrarli appartiene pure ai personaggi della Deledda,
profondamente radicati in una società chiusa ed arcaica qual’era
quella della civiltà agro-pastorale barbaricina.
Precisando, l’ambiente che fa da sfondo alla narrativa della scrittrice
è quello storico-sociale della Sardegna di fine ’800-inizi ’900; il
Mondo umano e poetico di cui Ella ha, peraltro, profonda coscienza
e conoscenza, è invece quello pastorale e contadino del nuorese di
fine secolo, nel quale si possono già scorgere elementi di novità,
spinte dinamiche e apportatrici di cambiamenti minanti l’ordine costituito.
Appunto in questo microcosmo si snoda l’esistenza dei suoi
personaggi, profondamente influenzati dalla cultura tradizionale cui
fanno sempre riferimento, tesi al rispetto delle norme etico-sociali
della società in cui vivono, dominati da un fatalismo a cui, in alcun
modo, possono sottrarsi. In tale universo i personaggi deleddiani
“sentono” il Mondo in tutti i suoi aspetti, qualificandolo come un
contesto dove ogni atto percettivo implica sempre un giudizio per
cui vedere, sentire o toccare significa, in sostanza, assegnare un ordine
alle cose. Perciò sotto i loro occhi si compone un paesaggio “contemplato”
non da fuori, da outsider, ma da “dentro”, da insider, colto
attraverso la “vista”, ma non solo, giacché nel processo di conoscenza
che essi mettono in atto quando “guardano” il mondo, entrano
a pieno titolo anche gli altri sensi, non ultimo l’udito che, mettendoli
in ascolto costante con quanto li circonda, garantisce un collegamento
tra la realtà esterna e quella interiore. “Udire” però non è
solo l’atto percettivo attraverso cui i nostri personaggi entrano in
contatto con il Mondo ma anche l’attività, fondamentale, in una società
orale e partecipativa come quella sarda, dove riveste grande importanza
il suono della parola parlata e diviene difficile separare l’oggetto
dal soggetto della partecipazione. In tale contesto, come ben
evidenziano i romanzi della Nuorese, i suoni hanno ancora un grande
significato e la parola si fa, oltreché dispensatrice di senso, anche
fondatrice della realtà, poiché tramite la lingua parlata si procede ad
una modellizzazione ed interpretazione del Mondo. Infatti, nell’universo
deleddiano, dove solo la capacità sonora della voce può penetrare
in profondità l’animo umano, “udire” equivale a “comprendere”
arrivando a penetrare l’essenza delle cose, come ha peraltro
modo di sottolineare l’Efix morente di Canne al vento. Egli, appunto
riconoscendo che «le parole, senza suono [di Giacinto, erano prive
di significato come quelle] scritte» (CAV, p. 694), ribadisce la potenzialità
e la validità delle parole sfumate nel suono che sono le sole
ad arrivare, grazie all’inderteminatezza semantica a cui le sottopone
il suono stesso, fino al cuore. L’uomo può dunque comprendere il
309

310
ELISABETTA PIREDDU
senso della propria esistenza solo se impara ad ascoltare la “voce”
con la quale trova modo di esprimersi quanto lo circonda. Questo
sembra essere l’insegnamento del vecchio servo la cui esigenza di
riappropriarsi, seppure per un ultima volta, di tutte le cose formanti
il suo spazio di vita, avviene proprio attraverso le sonorità emanate
da tutto ciò che lo ha sempre circondato. Egli, immobile nel suo giaciglio
di morte, ha finalmente compreso che l’unica modalità tramite
la quale può ricostituire, prima di abbandonarlo definitivamente,
il proprio universo, è quella concessagli dal suono, in virtù del quale
può, non solo udire ma anche toccare, seppure a distanza, «la fisarmonica
[…] il molino [e] le canne» (CAV, p. 696).
Appunto l’udire e l’ascoltare hanno consentito ad Efix, come a
molti altri personaggi, di rinsaldare il vincolo che li radica alla Terra
instaurando con la Natura, madre di tutti gli uomini, un dialogo,
intimo e partecipato. In effetti, i personaggi deleddiani mostrano un
forte sentimento della natura che si manifesta, soprattutto, attraverso
una loro partecipazione ai suoi ritmi e cicli ; partecipazione che,
innanzitutto, trova rispondenza nella perfetta assimilazione delle
voci interne dei personaggi al sospiro della Terra, attraverso cui non
solo si evidenzia la loro “empatia” e il loro attaccamento ad essa ma
si realizza anche la loro penetrazione, comprensione e valutazione
del Mondo.Tale rispondenza si trova ben espressa, ad esempio, «dal
rumore del torrente [che] sembrava [al vecchio zio Pietro] il palpito
del suo sangue» (VEM, p. 97), oppure da quel «silenzio profondo
[dell’]immenso paesaggio [con cui] Anania [sente] di diventare una
stessa cosa» (CEN, p. 259). Il giovane, difatti, ha un contatto tale
con la natura che essa gli pare animarsi improvvisamente con la sua
presenza, esprimendosi con «il mormorìo degli ontani» (IVI, p. 305),
nutriti, per l’appunto, di sogni e speranze sue. Si tratta di una Natura
intesa sempre come presenza vitale e con la quale anche il Jorgj di Colombi
e sparvieri sente di essere un tutt’uno se le sue «considerazioni
[gli] parevano sussurrate dal lieve fruscìo delle macchie intorno […] e
la natura [gli] parlava con i suoi […] sussurri, la terra [stessa, gli pareva
dare premurosamente] avvertimenti e consigli» (IVI, p. 491).
I personaggi in questione sono, peraltro, i fruitori di un paesaggio
le cui voci e suoni, scendendo nella profondità della loro coscienza e
mescolandosi alle voci interiori, fanno sì che esso sia spesso anche
metafora di una condizione mentale. A tale riguardo, assai significativa
è la «tristezza [di Sarina che sembrava] estendersi [e] trasfondersi
tutta intorno, nel paesaggio. Quasi tutte le sere, [infatti, ella sentiva
i] violenti uragani […] un cupo libeccio [e il] mare [ululare, come
se] la natura [tutta, sensibile] al dolore» (SUS, p. 741) umano, voles-

Il paesaggio sonoro nei romanzi di Grazia Deledda
se parteciparvi. E difatti, sovente gli ansiti della terra, le voci degli
alberi o i mormorii del torrente accompagnano i vari momenti introspettivi,
di dialogo interiore, dei nostri personaggi; talvolta, poi, è
la natura intera a parlare, ad esempio comunicando con Efix che
raccoglie le voci delle canne del ciglione di cui egli, metaforicamente
trasformatosi in un canneto, sa esserne in un certo senso, una emanazione.
Esse, infatti, piegandosi per toccarlo «gli parlavano [e] una
gli pungeva l’orecchio perché sentisse [il loro] mormorìo misterioso»
(CAV, p. 693), la voce della Terra e della sua stessa anima; inoltre,
quasi animandosi ed esprimendosi attraverso una voce umana, quella
dell’Efix più intimo e nascosto, lo guidano in un viaggio il cui
scopo è la ricerca della verità. Perciò, riportandolo al passato, al suo
delitto e alla vita di espiazione che ne è derivata, pare gli sussurrino:
«Efix, rammenti? Sei andato, sei tornato, sei di nuovo in mezzo a noi
[ …] chi si piega e chi si spezza, chi resiste oggi ma si piegherà domani
[…] si spezzerà» (IVI, p. 689).
A tutti gli effetti la voce delle canne è la voce della Terra su cui
Efix ha camminato senza pace e che ora lo richiama a sé, annunciandogli
l’inizio di un’altra vita al di là del limite segnato dalle canne;
una vita, eterna come quella delle creature mitiche della sua terra,
delle quali, mentre sente avvicinarsi «la morte […] tacita» (Ibidem),
gli giungono gli echi. Tutto un passato mitico, legato a fate, spiriti
erranti, folletti, insieme a uno più recente, quello degli antichi baroni
di Galte e delle sue nobili padrone, viene così recuperato, stimolato
dai suoni che arrivano all’orecchio del servo; si tratta di un ritorno
alle origini riappropriandosi delle proprie radici, prima del definitivo
abbandono della dimensione sonora quotidiana, peraltro annunciatogli
dal «batter dei panni delle panas, [accompagnate dalla
voce delle canne mormorantigli:] addio […] addio» (Ibidem). Queste
ultime, come personaggi forti e virili, vigili sopra il ciglione, parlano
al vecchio servo con tutti i suoni e rumori della natura, riassumendo,
prima di trasformarsi in un lento preludio di morte, le voci
dell’intero universo sonoro del personaggio, a cui svelano il senso
più profondo della esistenza, sua e degli uomini in generale, deboli
appunto come fuscelli e, perciò, destinati a piegarsi e spezzarsi a causa
della sorte e del destino.
Dunque come ben attesta Canne al vento, il romanzo più rappresentativo
dal punto di vista della semantica del suono, la valenza sonora
qualifica il paesaggio deleddiano a tal punto da far sì che in
esso il momento visivo ceda spesso il passo a quelle uditivo, passando
così dalla metafora visiva a quella uditiva, oltretutto riconoscendo
al suo interno due sequenze non distinte e separate, ma l’una, at-
311

312
ELISABETTA PIREDDU
traverso cui lo sguardo del personaggio si distende sul paesaggio,
propedeutica all’altra che, invece, riassume l’interiorizzazione dell’immagine
paesaggistica nel soggetto percepente; entrambe tese a
sostenere che non esiste un paesaggio sonoro stricto sensu, poiché, se
è vero che nella fruizione del paesaggio si possono riconoscere vari
momenti, da quello visivo e uditivo fino a quello olfattivo, maggiormente
è vero che esso, qualificandosi sempre come una convergenza,
va definito e percepito dall’intero apparato dei sensi. Si può, semmai,
privilegiare una modalità sensoriale a discapito di un’altra, se la
si ritiene più adatta a sostenere la tesi che si intende dimostrare, non
dimenticando però che questa operazione va sempre ricondotta al
contesto del mezzo espressivo letterario il quale, appunto tramite la
mediazione del linguaggio, consente, in maniera sempre funzionale
alla ricerca, di riconoscere, concettualmente e simbolicamente, un
paesaggio “sonoro” e, al suo interno, sia un contesto dominato dalla
natura e definito da suoni prevalentemente naturali sia, in opposizione,
uno meno incisivo, definito come urbano o relativo alla città,
caratterizzato maggiormente da suoni artificiali. Un’attenta lettura
dei romanzi suggerisce che i suoni naturali, in modo più significativo
e ampio di quelli artificiali, permeano il paesaggio deleddiano caricandolo
di un preciso simbolismo, derivante dall’essere quelli suoni
con un valore e significato archetipo in grado di imprimersi nell’animo
dell’ascoltatore, in modo tale da considerarli una prosecuzione
di sé. Tutt’altra valenza hanno invece quelli artificiali che,
d’ora innanzi, si chiameranno suoni-segnali per distinguerli dai suoni-simbolo
naturali su cui in seguito ci si soffermerà maggiormente.
I suoni artificiali, infatti, recepiti sempre in qualità di eventi sonori
“esterni” e perciò captati consapevolmente, danno minor conto del
vincolo che lega l’ascoltatore al proprio paesaggio sonoro; ciò nonostante,
essi partecipano attivamente alla costruzione della dimensione
sonora dei nostri personaggi e perciò si darà menzione di quelli
che nel contesto narrativo ricorrono maggiormente. Si possono
senz’altro riconoscere e definire come artificiali tutti quei suoni prodotti
da campanacci di mandrie o greggi, da vari strumenti, musicali
o di lavoro, più o meno legati alle attività stagionali e, altresì, quelle
scansioni ritmiche derivate da orologi, pendole e campane. Ad esempio,
sono numerosi i passi dei romanzi in cui i personaggi hanno
modo di sentire spesso «i tintinnìi delle capre al pascolo [giungenti
loro] cristallini [o] argentini» (VEM, p. 29); nel caso, caricati di una
valenza positiva, spesso contrastante con lo stato d’animo di Melchiorre
il cui tormento pare appunto rimarcato da quel «tintinnìo
argentino» (IVI, p.3) che in altra circostanza diviene «malinconico,

Il paesaggio sonoro nei romanzi di Grazia Deledda
[alimentando] con un cupo ronzìo e acuti fischi dentro le orecchie»
il delirio di Elias Portolu (EPO, p. 151); o nostalgico e legato ai ricordi
di Anania il quale, «seduto sull’erba [di Monte Urpinu, viene]
assalito da un impeto di nostalgia» (CEN, p. 264) che lo riporta ai
boschi dell’Orthobene, a Margherita, a Zia Tatana e, infine, a sua
madre. Proprio «quel tintinnìo di greggie pascenti» (Ibidem), oltreché
rinsaldare il vincolo del giovane con i luoghi da cui si è allontanato,
dà pure modo di rimarcare come, pur trattandosi di sonorità
artificiali, esse sono comunque da considerare come presenze inamovibili,
anch’esse qualificanti un paesaggio partecipato, interiorizzato
dai personaggi e riaffiorante in loro quando si fa impellente la necessità
di riavvicinarsi a persone, luoghi e cose, verso le quali essi nutrono
un forte senso d’affezione. Si tratta, a tutti gli effetti, di suoni che
danno comunque conto di quel processo di fissazione culturale definito
come “radicamento” e di quell’insieme di valori e sentimenti
che riassunti nel “senso del luogo”, rendono lo spazio unico e sacro.
Oltre questi vanno pure menzionati quelli, meno ricorrenti, delle
«musiche lievi» (CHS, p. 982) o «pazze della fisarmonica» (Ibidem),
«di flauti [e] chitarre» (VEM, p. 31), accompagnanti canti e balli nei
quali si cimentano i nostri personaggi; i «gemiti balbettanti di [quel]
violino» (PAV, p. 885) che pare a Nina l’espressione del «lamento delle
cose […] degli alberi e del mare stesso» (PAV, p. 873), nonché la
voce, assai ricorrente, del «picchio del tagliapietre» (MDR, p. 827), simile,
secondo Gavina, al «lamento del granito [e degli] uomini, percossi
dal dolore» (SNC, p. 613) e, per finire, «quei segnali vulcanici
delle mine [che, arrivando fino all’animo di Maria Concezione] la
scuotevano tutta [minacciando] di spaccarle il cuore» (CHS, p. 975).
Dunque, come ben attestano i romanzi, il paesaggio in questione
viene pure determinato da tutti quei rumori legati alle attività lavorative,
stagionali o meno, caratterizzate da una voce cui si accompagna,
non di rado, quella umana che con canti, grida e risa, rimarca i
momenti lavorativi dei personaggi, come ben esemplificano quelle
vendemmiatrici che «ridevano e strillavano [mentre i giovani cominciavano]
a cantare senza smettere il lavoro» (VML, p. 30) e, più in
là, quei «gruppi di contadini e paesani [che] tornavano dalle vendemmie
chiacchierando [con] i guidatori [le cui voci], sempre più
sonore» (IVI, p. 31) lasciavano il posto dapprima alle grida «del pastore
[accompagnanti] il cadere della sera» (VEM, p. 70) e, successivamente,
a quelle «del mandriano» (IVI, p. 26), annuncianti a Melchiorre,
diretto al suo ovile, un «un mattino d’agosto […] purissimo,
[salutato da un indistinto vocìo], un riso di donne, preannuncio
di una nuova giornata di lavoro» (IVI, p. 24), terminata appunto
313

314
ELISABETTA PIREDDU
quando «quelle voci e risa, [sfumate nella] sonorità del paesaggio»
(IVI, p. 28), cedono il passo al crepuscolo. Si tratti di valenze sonore
rimarcanti i momenti lavorativi come quelli di svago o di partecipazione
collettiva, va detto che in ogni caso esse, ritmando la quotidianità
dei nostri personaggi, entrano in maniera così incisiva nella loro
esistenza da alimentarne un paesaggio, vissuto oltreché come spazio
anche come tempo, la cui considerazione consente oltretutto di premettere
che, da qualsiasi punto di vista si voglia valutare la variabile
temporale, essa rappresenta sempre per la geografia, un momento di
collegamento tra i gruppi e l’ambiente d’inserimento; infatti, che si
tratti di un tempo artificiale, misurabile oggettivamente, oppure ciclico,
entrambe le modalità permettono delle riflessioni sulla percezione
del tempo collegata anche ad eventi sonori. Si può indubbiamente
affermare che nei romanzi della Deledda la variabile temporale
è decisamente concepita come ciclica e, come tale affidata all’alternanza
di fasi lunari, stagioni, giorno e notte; di conseguenza, percepita,
non solo vista ma anche sentita, dai personaggi. In tal senso,
un ruolo essenziale svolgono le campane il cui suono, oltre ad essere
intimamente legato alla simbologia del cristianesimo in virtù della
quale appunto si carica di un significato religioso, assolve anche la
funzione di segnalare lo scorrere delle ore, non solo rimarcando i
momenti più importanti della giornata, ma rappresentando altresì il
ritmo e la scansione temporale della collettività. Nei romanzi in questione,
la voce delle campane è recepita dalla comunità come una
voce forte, con una portata acustica notevole che non si fa sovrastare
da altre sonorità e può suscitare diverse esperienze uditive. Trattandosi,
difatti, di un punto d’appoggio psichico con cui ciascuno dei personaggi
intrattiene un rapporto conoscitivo unico ed originale, il loro
suono può giungere, talvolta accompagnato da «oscillazioni musicali
come di danza [che paiono a Maria Concezione, accrescere] gioia e festa
alle cose innocenti» (CHS, p. 972), talaltra «come [proveniente] da
un paese che non esisteva se non nella [sua] fantasia [e simile ai] suoni
[prodotti dal] ronzìo delle orecchie malate» (IVI, p. 982); o ancora,
«purissimo [e spezzato] con vibrazioni metalliche [tali che] tutto un
paesaggio […] stendevasi» (NST, p. 395) sotto gli occhi malinconici
di Regina la quale improvvisamente rivedeva il villino sull’argine, i
pioppi nudi e il grande fiume paterno; e infine, «come un piccolo
nitrito metallico [che, vibrando] impaziente fuor della chiesa»
(VEM, p. 42) raggiunge il vecchio zio Pietro.
Al suono delle campane si affianca quello ritmico di orologi o
pendole quando si passa dalla scansione ciclica del villaggio a quella
lineare della città che vive, invece, secondo un ritmo temporale inte-

Il paesaggio sonoro nei romanzi di Grazia Deledda
so come cadenza caratterizzata da una progressione di stadi unici e
non ripetibili. Di conseguenza, la percezione del tempo in termini di
suono diviene qualcosa di esterno che coincide con un attimo o una
battuta, già sfumata prima che essa abbia la possibilità di essere catturata
dalla coscienza. Ciò nonostante, anch’essa va considerata
come un’esperienza che, oltre a sottolineare la storicità necessaria
nella vita dei nostri personaggi, concorre alla formazione della dimensione
sonora di ciascuno di essi; di Pietro che, arrivando a Nuoro
sente «l’orologio di Santa Maria [suonare] le ore con lunghe vibrazioni
tremolanti [annunciandogli] una notte invernale limpida e
fredda» (VML, p. 54); come di Cosima, a cui giunge appunto «il
rintocco delle ore e dei quarti d’ora suonati dall’orologio della cattedrale,
[rimarcanti l’inizio di una nuova giornata e il risveglio del vicinato,
oltreché l’arrivo] di un bambino nuovo» (COS, p. 960), o di
Gavina che mostra di non avere alcuna confidenza con quella «pendola»
(SNC, p. 573), cortesemente regolatale dal signor Zanche, e
tuttavia, assai significativa di un diverso modo di rapportarsi al tempo,
con il quale ella, ora che vive in una grande città come Roma,
intrattiene un confronto freddo, asettico, ben lontano da quello intimamente
partecipativo della sua Nuoro, dove l’esistenza veniva quotidianamente
scandita oltreché dallo squillo della campanella preannunciante
la prima messa, anche dai rintocchi di mezzogiorno o dal
mormorìo sonoro dei vespri serali.
Si tratta, come si diceva, di una dimensione contabilizzata del
tempo talvolta ritmata anche dal ticchettìo di «un piccolo orologio
d’oro, [come quello donato da Stefano ad Annarosa, rigorosamente
regolato al suo, di modo che loro vite] dovevano correre insieme,
minuto per minuto, meccanicamente» (INO, p. 670), caratterizzante
appieno un contesto temporale, ritagliato e definito dall’uomo e,
perciò, in assoluto contrasto con quella ritmicità ciclica a cui invece
rimandano ampiamente le voci e i suoni della natura, ritenuti più
validi a sostenere una serie di riflessioni sia sull’interazione e partecipazione
dell’uomo ai cicli della natura, sia sulla costruzione di un
proprio paesaggio sonoro, ossia di quell’universo uditivo che, interiorizzato
e stratificato dalla coscienza, riaffiora successivamente
come configurazione. Relativamente a questi ultimi, va subito precisato
che la loro prerogativa principale è quella di essere diretti e personali
per l’ascoltatore e di avere un significato referenziale in grado
di suscitare emozioni, ben oltre la meccanicità delle sensazioni o la
funzione di segnali da loro esercitata. Sono “voci” variamente articolate
le quali, costituendo la manifestazione sensibile della partecipazione
e comprensione umane dello spazio, si esprimono attraverso
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ELISABETTA PIREDDU
l’alternanza di toni ed impronte proprie: quelle dell’acqua e del vento,
del bosco o della montagna, di uccelli, insetti e animali, fino ad
arrivare al silenzio completo.
In Grazia Deledda effettivamente la natura viene riscoperta sotto
forma di paesaggio e diviene l’istante in cui, ricomponendosi la frattura
tra questa e l’uomo, si esprime pienamente l’identificazione con
il luogo, riconoscibile anche dal punto di vista sonoro. Perciò tutto
ciò che circonda i personaggi deleddiani si riassume in una grande
voce che qualifica una realtà partecipata, vista e sentita, nella quale
essi totalmente immersi, si riconoscono, giacché i suoni che la definiscono,
incarnandosi in coloro che la percepiscono, si trasformano
in ritmi interni, intimamente legati alla loro psiche. Così, quando è
l’acqua ad esprimersi, seppure genericamente, attraverso un «gorgoglìo»
(VEM, p. 26) o «mormorìo» (CAV, p. 624), sembra voler rimarcare
lo stato d’irrequietezza di Efix, non meno di quel «roteare
d’acque [simile al] cocchio della Dea della notte e della solitudine
[accompagnante il] lieve e inquieto» (VEM, p. 90) sonno di Basilio.
Se invece a dialogare è, nello specifico, il fiume, il personaggio coglie
le diverse sfumature e manifestazioni sonore che, di volta in volta,
gli consentono di recepire la sua voce «chiara» (CAV, p. 589) e «
palpitante» (IVI, p. 689) o «grossa» (IVI, p. 654) e minacciosa qual è
quella che accompagna le tristi riflessioni di Efix. Quando poi si tratta
di un torrente, le modalità attraverso cui si esprime sono caratterizzate
da un’intensità decrescente: dal «rombare» (VEM, p. 97), allo «scroscìo»
(IVI, p. 90), dal «mormorìo melanconico, [rassomigliante, secondo
Cosima, a] una voce poetica che pare raccontare il grande poema
del dolore umano» (COS, p. 999), alla «voce bassa e silenziosa»
(NFP, p. 326) del torrente attraversato da Giovanna; ancora, dall’«ansito
di quello [del Paese del vento che narra a Nina] il grido della
terra tormentata dagli elementi» (IVI, p. 874), alla «ninnananna»
(CHS, p. 959) attraverso cui si esprime, invece, la voce materna di
quello che pare placare le ansie del giovane Aroldo.
Va detto che le manifestazioni sonore del fiume o torrente sono
di qualità assai varia, ma sempre in relazione all’animo dei personaggi
e alla loro capacità di immaginare, sentire ed evocare la realtà,
sempre viva e vicina ai personaggi, diversamente dal mare che, invece,
fa sentire raramente la sua voce. Esso, alimentando l’opposizione
tra ciò che è “esterno e aperto”, e ciò che è “interno e chiuso”, divide
il territorio in due fasce, la costa e l’entroterra, ciascuna caratterizzata
da un proprio repertorio sonoro; un’opposizione nettamente percepita
dalla maggior parte dei personaggi deleddiani, nel cuore della
Barbagia, in cui il mare appare come una realtà lontana, difficilmen-

Il paesaggio sonoro nei romanzi di Grazia Deledda
te raggiungibile e, per ciò, sconosciuta con la quale, di conseguenza,
essi hanno modo di interagire solo quando capita che si trovino in
una città della costa come Cagliari dove, ad esempio, soggiorna a
lungo il giovane Anania il quale, abbandonando «le cerule montagne
della Barbagia natia» (CEN, p. 259), vive un’esperienza unica che,
se da un lato lo rende cosciente della propria insularità, dall’altra gli
consente, allargando il suo animo ed orizzonte, di travalicare i confini,
tornando magicamente ai “luoghi” della sua fanciullezza proprio
attraverso la voce del mare che, come un «muggito di mille tori cozzanti
[…] contro le scogliere, [lo riporta a quando sui] boschi dell’Orthobene
[…] il rumore del vento sugli elci gli aveva appunto
dato l’illusione del mare» (IVI, p. 262). Anche per Cosima, che lo
scopre da bambina come una realtà straordinaria e illimitata dinanzi
alla quale si sente «piccola» (COS, p. 986), costituisce, ora che si
trova in una città di mare, un punto di riferimento le cui sonorità e
ritmi si palesano, tuttavia, come differenti da quelle del pino sonoro
della sua vigna, a cui peraltro sempre la rimandano (IVI, p.1021).
Di qualità assai differente è, invece, la percezione acustica, oltreché,
tattile, del vento che si esprime in un numero infinito di variazioni
vocali, provocando nei personaggi numerose sensazioni. Forse,
fra tutti i suoni naturali è quello di cui l’uomo ha, tradizionalmente,
più diffidato o avuto paura, come si ha modo di constatare anche
nei romanzi in questione, dove appunto «il vento [urlante] sul tetto
[…] destava [in Anania] impeti di terrore» (CEN, p. 307), o il suo
«ansito, [non solo alimentava] l’angoscia agitata della madre» di Paulo
(MDR, p. 797) ma anche «una sorda inquietudine» (SUS, p. 742) in
Cristiano. Di volta in volta esso può assumere personalità, stati
d’animo e linguaggi differenti: se calmo può esprimersi con un «sussurro»
(VEM, p. 79) o «un mugolio» (CSP, p. 448), più di rado con
un «ronzìo» (CAV, p. 649); sconvolto dalla tempesta, poi, comincia
a «sibilare» (CHS, p. 453) crescendo in un «mugghìo sinistro»
(INO, p. 649) cui si succedono «grida e pianti» (COS, p. 1013) e,
infine, quell’urlo tonante che fa immaginare ad Oli «di essere in una
foresta sconvolta dall’uragano» (CEN, p. 207). Inoltre, con le sue
“movenze” crea diversi effetti acustici in virtù dei quali può, metaforicamente,
passare «ondulando […] le brughiere» (EPO, p. 124), e serpeggiare
«fra i sambuchi […] destandovi lunghi fruscìi» (IVI, p. 149),
stormire «nei boschi [simile a] una voce confusa» (IVI, p. 150), o
«scrosciare come una cascata» (VEM, p. 83); infine «risuonare
[come] l’oceano» (MAS, 714) o parlare con uno «sciabordìo» (MDR,
p. 830). In varie circostanze, poi, il vento tesse sonorità tenui e armoniose
somiglianti a quelle che, provocando «un tremolìo dolce agli al-
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ELISABETTA PIREDDU
beri del ciglione [arrivavano a Paulo come una ] musica lieve» (MDR,
p. 826), o a quelle il cui «fremito sonoro» (EPO, p. 169) accompagna
la comparsa della luna sulla tanca di Elias Portolu. Si tratta di una
musicalità che può, all’occorrenza, divenire «cupa e impetuosa,
[come quella che riporta] ad Annarosa il dolore e le lotte dell’inverno
fra i boschi» (INO, p. 649), rabbiosa e vendicativa, talvolta «supplichevole
e implorante» (CSP, p. 461), qual è quella a cui Jorgi affida
la narrazione della sua storia, triste e piena di solitudine.
Anche gli alberi, presenze inamovibili del paesaggio deleddiano,
quando non sono taciti e silenziosi (VEM, p. 31), si esprimono relazionandosi
ai personaggi. Alla loro voce, infatti, la scrittrice affida il
compito di manifestare quella più intima delle sue creature le quali,
spesso, fanno delle fronde i loro interlocutori privilegiati. Così la
voce del pino propone una serie di quesiti, «perché si combatte, si
soffre, ci si tormenta per nulla [giacché] tutto è vano e vuoto»? (COS,
p. 1013), ai quali Cosima sente però di non poter rispondere; è la
stessa voce da cui, spesso, la giovane riceve consigli materni (IVI,
p. 1016) e che con Gavina diviene, invece, ostile e accusatoria, tesa
com’è a rinfacciarle il proprio «passato» (SNC, p. 559). Sia che si
tratti di pioppi o di ontani, di querce, elci o pini, essi, come presenze
eterne, accompagnano i personaggi in quel viaggio misterioso che
è la vita, talvolta in modo discreto e appena accennato con un “mormorìo”,
come nel caso dei pini che costituiscono per Anania «un paesaggio
melanconico» (CEN, p. 256), o degli ontani che, in altra circostanza,
sembrano infondergli speranza (IVI, p. 305); talaltra con
un «sussurro» attraverso cui a zio Pietro sembra esprimersi la voce
canora e sonnolenta del bosco (VEM, p. 31), o, ancora, con il «fruscìo
[lamentoso di quei pioppi che, furiosi, poiché sbattuti dal] vento,
neri e sconvolti come mostri» (MDR, p. 797), narrano alla madre
di Paulo tutto il «dolore notturno [delle cose circostanti], sature
anche della sua angoscia» (IVI, 798). Altre volte, al loro fremito, simile
a un canto d’amore, si sostituisce «la pura melodia della quercia»,
che riporta a Gavina il pensiero di Priamo (SNC, p. 531), oppure
quel rombare cupo degli ulivi che ricorda a Juanniccu il «dolore
[…] la grande guerra degli elementi fra di loro» (INO, p. 649) e
le lotte dell’uomo. Parrebbe quasi che l’ondulare nervoso degli alberi,
accompagnato inoltre dal pianto della montagna e dal sogghigno
di sfida delle rocce, gli rammentino, secondo un antico ed ancestrale
dettato, che «tutto è destinato a passare, [si muore e le cose vanno
come devono andare senza che l’uomo possa, in alcun modo, modificarne
il corso]; bisogna solo stare fermi […] senza dare troppa importanza
[a ciò] che succede fuori di noi […] tranquilli, intendendo

Il paesaggio sonoro nei romanzi di Grazia Deledda
tutto» (Ibidem) e imparando a cogliere i messaggi che madre Natura
ci invia. Solo disponendoci all’ascolto delle cose circostanti, infatti,
possiamo entrare in sintonia con esse, comprendendo appieno il
senso del nostro vivere, del nostro “esserci” che, in relazione al corso
incessante della natura, rappresenta solo un momento. L’accettazione
di tale dettame non fa che rimarcare la consapevolezza della finitezza
dell’uomo dinanzi all’incommensurabilità della natura la quale,
spesso, si manifesta ai nostri personaggi anche sostituendo alla
“singola voce” quella “corale” del bosco che, da subito, si annuncia
«lamentosa e monotona» (VEM, p. 29) secondo zio Pietro, «canora
e sonnolenta» (IVI, p. 30) invece, per Melchiorre. Tutta una varietà
di modalità espressive la caratterizza, dallo «scroscio» (IVI, p. 69), al
«mormorìo confuso» (MAS, p. 709) al quale Marianna affida le sue
domande, fino «alla brusca protesta» che vede impegnati quei boschi
disturbati dall’imminente tempesta. (INO, p. 649). Anche la tanca
con i suoi fiori, «l’erba e l’asfodelo» (VML, p.108), si fa sentire sussurrando
a Maria in cerca di Francesco, una verità terribile. La sua voce,
senz’altro meno agitata di quella del monte che in Canne al vento «sussultava
per il rombo dei tuoni» (IVI, p. 676), può anche sfumare in
una «sconfinata solitudine» (EPO, p. 140) o in un «silenzio […] infinito»
(IVI, p. 147), «immenso» (CEN, p. 208) e quasi religioso, non di
rado, rotto «dal lieve fruscìo delle macchie intorno» (CSP, 491), o dal
tenue «respiro delle foglie» (MAS, 718) e dalla loro agitazione lamentosa
(IVI, p. 714) oltreché palpitante (COS, p. 1002).
In questo paesaggio, fatto di suoni, rumori e silenzi, anche gli
animali hanno timbri e gridi caratteristici, in grado di stimolare, nei
personaggi, riflessioni, immersioni nel passato ed emozioni forti.
Talvolta le loro “voci” sembrano sottolineare la perfetta corrispondenza
tra lo stato d’animo del personaggio e la realtà circostante,
come nel caso del giovane Anania il quale appunto sente «il cuculo
[riempire] di gridi palpitanti la solitudine della valle [ed] il suo cuore
[palpitare] in una solitudine infinita» (CEN, p. 241); o i loro timbri
preannunciare l’arrivo della sera a Efix che, avviandosi verso la
sua capanna, viene guidato dal «grido cadenzato del cuculo, [dal]
zirlìo dei grilli [e da] qualche gemito d’uccello (CAV, p. 589) ». Regolarmente,
poi, spezzano con le loro note rassicuranti, il silenzio
circostante è allora «solo il gorgheggio delle cingarelle» (IVI, p. 598)
e di «qualche gazza» (VEM, p. 101), o «lo strido di piacere di due nibbi»
(EDE, p. 488) anima il luogo, la cui serenità silenziosa viene oltretutto
compromessa dal « rumore del cavallo, [accompagnato dal] guaire
del cane [ e] dal rosicchiar della lepre» (VEM, p. 28), o dal «grugnire
dei porchetti» (IVI, p. 101). Ancora, per l’aria possono risuonare
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ELISABETTA PIREDDU
«un allegro cinguettìo di uccelli» (TES, p. 185) e «il trillo dell’allodola»
(EDE, p. 433), i «gridi dolci e lamentosi di» (CHS, p. 959) una
cornacchia insieme ai «canti [dei] galli» (NFP, p. 290) e «dell’usignolo»
(MAS, p. 785); tutte voci i cui ritmi sonori scandiscono, fra l’altro,
anche l’alternarsi delle stagioni. Esemplificando, mentre «il grido dei
corvi [pare annunciare a Cosima] l’inverno» (COS, p. 993), «il pigolìo
delle galline» sembra, a Maria Concezione, accompagnare la caduta
silenziosa dei fiocchi di neve (CHS, p. 954), così come «il canto del
fringuello» (IVI, p. 972) le suggerisce invece l’arrivo della primavera;
non diversamente da quel «trillare degli uccelli in amore» (VLM,
p.103) preannunciante, a Francesco e Maria, una dolce giornata di
maggio. Spesso nei romanzi deleddiani le voci degli animali e i canti
degli uccelli riportano il personaggio a momenti del proprio passato,
ad amori perduti o non ancora sbocciati, a speranze ed illusioni naufragate;
come nel caso di Nina che sentendo «il canto del cuculo, [ricorda
la sua] fanciullezza acerba [e] Gabriele» (PAV, p. 896), o di
Maria Concezione le cui «speranze di una vita […] tranquilla»
(CHS, p. 967) e felice con Aroldo vengono soffocate dal medesimo
canto e, per ultimo, di Cristiano al quale, «il latrato del cane» non fa
altro che riportare l’immagine di Sarina (SUS, p. 739).
Anche il silenzio contribuisce alla costruzione del paesaggio sonoro
consentendone una lettura in termini di “prospettiva”, assegnandogli,
cioè, un primo piano e uno sfondo. Esso, difatti, permette ai singoli
segnali di non perdersi nella sovrabbondanza sonora rendendo possibile
un ascolto a maggior distanza, ovvero una loro percezione netta e
definita, difficile ad esempio, in un contesto sonoro cittadino. I momenti
di silenzio e solitudine sono assai ricorrenti nei romanzi deleddiani
e non sono mai caratterizzati da un’assoluta mancanza di
suoni, rumori e voci, capitando infatti, di frequente, che tali momenti
vengano rotti «appena dal mormorìo di un torrente lontano»
(MAS, p. 784), o «dalla voce sonora del vento» (VLM, p. 88), e si
sostituiscano poi a queste voci quelle dei «grandi alberi sussurranti»
(CEN, p. 297) che accompagnano Anania nella sua ascesa al Gennargentu
o dei «grilli [e] usignoli, [i cui canti spezzano appunto] il silenzio
sonoro» (MAS, pp. 710-713) in cui è immersa Marianna. Esso
consente, oltretutto, una percezione più nitida dei passi di uomini e
animali, ben esemplificata in quei punti dei romanzi dove si ha modo
di leggere che «un silenzio infinito regnava [e] solo […] un trotto di
cavallo [risuonava] lontano» (CAV, p. 649), o «la pesante corsa del
bue […] i passi e le voci [degli] uomini» (VEM, p. 98) venivano amplificati
dall’eco della notte silenziosa. Ma il silenzio ha pure il potere
di ingannare il personaggio facendogli sembrare reali rumori che

Il paesaggio sonoro nei romanzi di Grazia Deledda
in realtà sono solo il prodotto della sua mente o echi della coscienza;
così il drappo silenzioso della notte suggestiona a tal punto Gavina
da farle rassomigliare «i palpiti del suo cuore ai passi di [Jorgj] nella
strada» (CSP, p. 545), mentre la solitudine della sera, rendendo
l’eco «degli scoppi [simili a] fucilate» (CHS, p.991), turba, seppure
diversamente dal quel «silenzio sereno della tanca [che, invece, in altra
circostanza fa immaginare a Marianna] di sentire un passo in
lontananza» (MAS, p. 710), la madre di Maria Concezione. Solo
quando il silenzio fa da scenario alla morte di qualcuno dei personaggi
diviene, privandosi delle sue voci, assenza totale ed eterna
come si ha modo di constatare nell’istante in cui «ombre e silenzio
circondavano la casa» (CAV, p. 644) delle dame Pintor, appunto in
lutto per la morte della loro sorella Ruth; oppure «ogni cosa taceva
in un silenzio ineffabile» (VEM, p. 103) mentre il vecchio Zio Pietro
esalava i suoi ultimi respiri; o, ancora, «solo il silenzio della morte
regnava nella camera» (EDE, p. 384) dove giaceva cadavere il vecchio
zio Zuà; un silenzio che avvolge con il suo manto ogni cosa e
attraverso cui la scrittrice pare voglia ribadire l’eternità della morte e
la sua vittoria sulla caducità delle cose umane.
Quando invece il silenzio caratterizza il contesto cittadino, allora
la voce della città arriva «come nella profondità del mare quello delle
onde agitate alla superficie» (DAC, p. 842), sfumata e quasi in sordina;
assolutamente diversa da quella che generalmente la caratterizza,
una voce complessa e poliedrica a tal punto, da rinviare ad un’altra
sede una sua trattazione più ampia ed esauriente. Per ora valgano
quelle poche considerazioni che una prima lettura ha suggerito. Che
si tratti di Cagliari o Roma, le uniche città menzionate nei romanzi,
la loro voce si fa sentire, divenendo oltretutto una modalità attraverso
cui cogliere la condizione di disagio, lo sradicamento o il sentimento
d’affezione che lega i personaggi a quel paesaggio. Inoltre, i
romanzi indicano come l’impatto con la città, sopratutto in termini
sonori, sia di natura assai diversa e sempre relativa al contesto di riferimento.
Sotto questo aspetto la città si classifica con un generico
boato, un caleidoscopio di rumori la cui percezione risulta assai difficile,
ad esempio, anche per Regina, il cui primo incontro con
Roma, avviene all’insegna di un rumoreggiare che le fa immaginare
la città pervasa da un uragano e da «tutto un rombo di vita affannosa
[destante in lei] un’impressione di tristezza indimenticabile» (NOS,
p. 394). Si tratta, in sostanza, di una voce che, se da una lato esprime
appieno il ritmo frenetico della città, dall’altra la qualifica come
un contesto spesso privo di sonorità familiari in grado di lenire quel
sentimento di nostalgia che aggredisce non solo Regina la quale vive
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ELISABETTA PIREDDU
appunto in tale città come «un cespuglio strappato dal luogo dov’è
nato» (IVI, p. 399), ma anche la non più giovane Maria Baldi, anch’essa
sentitasi «buttata» (DAC, p. 828) dalla vita in quella città, la
cui voce, perciò, è per lei, incomprensibile e simile ad un «ronzìo,
[accompagnato da un] mormorìo, [ da] un roteare incessante [di]
grida […] suoni di campane, fischi di sirene […]; [ancora], vibrazioni
d’incudini disperate insieme a [tutto] un rombo […] di fiume
umano, [a] un’orchestra fatta di mille strumenti [che] suonavano la
sinfonia del bene e del male, del dolore e della gioia » (IVI, p. 829).
Nel caso, un contesto dove rumori antichi come l’incudine o le campane
convivono accanto a quelli più recenti come le sirene, oltretutto
segnalanti il ritmo stesso del progresso industriale di quella città,
la cui voce delirante pare ricordare all’anziana signorina come gli uomini,
mossi da una potenza superiore e sempre sospesi tra la gioia e
il dolore, non siano altro che «pellegrini in viaggio verso il paese dell’eternità»
(Ibidem), accomunati da uno stesso identico destino. Di
qualità assai diversa è, invece, il rapporto, fin dalle prime righe positivo,
del giovane Anania con Cagliari; infatti egli, seppure accolto
davanti a quella che d’ora innanzi sarà la sua nuova casa, da «grida,
urli, strilli di donne e voci di uomini [pronuncianti] parole infami »
(CEN, p. 261), vede la città come un’oasi piacevole e accogliente
nella quale si sente perfettamente integrato, diversamente da quando
soggiorna a Roma dove, invece, viene spesso assalito da una « nostalgia
struggente » (IVI, p. 269) e da «una tristezza quasi morbosa »
(Ibidem). In tale città, Anania, si sente infatti «smarrito, [poiché tutto
è così grande, amplificato e persino]i rumori delle carrozze [o]
l’urlo delle automobili» (Ibidem) acquistano una nota rauca, ben accordantesi
con la sua disposizione d’animo che lo porta a vedere oltretutto
quella città come un luogo poco rassicurante anche dal punto
di vista sonoro. Essa, priva com’è per il giovane di punti di riferimento,
gli appare come «una foresta di pietra attraversata da fiumi
pericolosi [che gli incute] paura» (IVI, p. 272); a tutti gli effetti, un
contesto che gli rimane estraneo, non essendo riuscito ad intrattenere
con essa alcun rapporto conoscitivo in grado di coinvolgerlo emozionalmente
e dove tutto gli sembra troppo artificiale o esagerato;
persino «la primavera romana non lo» (IVI, p. 273) commuove, anzi,
non fa che stimolare in lui il ricordo di un’altra primavera, lontana e
selvaggia, quella delle tancas della sua terra dove anche i suoni più
striduli appaiono dolci «come l’anima sarda» (Ibidem).

Il paesaggio sonoro nei romanzi di Grazia Deledda
Avvertenza
Si segnala che l’edizione delle Opere di Grazia Deledda a cui si è fatto riferimento
per la ricerca è quella curata dalla casa editrice Newton di Roma, per la collana
“Grandi Tascabili Economici”; il primo volume, del 1993, è intitolato I grandi
romanzi e contempla Il vecchio della montagna (VEM), Elias Portolu (EPO), Cenere
(CEN), Edera (EDE), Colombi e sparvieri (CSP), Canne al vento (CAV), Marianna
Sirca (MAS), La madre (MDR), Annalena Bilsini (ANB) e Cosima (COS).
Mentre il secondo, edito nel 1994, è intitolato Dieci romanzi e contiene La via del
male (VML), Il tesoro (TES), Naufraghi in porto (NFP), Nostalgie (NOS), Sino al
confine (SNC), L’incendio nell’oliveto (INO), Il segreto dell’uomo solitario (SUS), La
danza della collana (DAC), Il paese del vento (PAV), La chiesa della solitudine
(CHS). Inoltre si segnala che i rimandi ai numeri di pagina, effettuati nel corpo
del testo, sono appunto riferiti a tali edizioni.
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MARZIA MARINO
GLI ARTISTI SARDI DEL NOVECENTO
NELLA COLLEZIONE PILONI
In via Università, i locali del settecentesco Palazzo Belgrano, l’ex
Seminario Tridentino, accanto al Rettorato, dal 24 novembre 1984
ospitano la Collezione Sarda Luigi Piloni. Una ricca raccolta, oltre
novecento pezzi, all’interno della quale, tra stampe, oggetti d’artigianato
(tappeti, mantas, coberibancus, bertulas, argenteria da abbigliamento)
e carte geografiche, si scopre un’intera sezione dedicata agli
artisti del Novecento. Si tratta di quarantatre opere, tutte figurative,
realizzate da pittori più o meno noti, solo alcuni non sardi, che ebbero
evidentemente in comune l’interesse e l’amore per la Sardegna,
per la sua gente, per i luoghi, gli usi, i costumi e le tradizioni di questa
antica terra. Rappresentano donne e uomini in costume o scorci
di paesaggi, ben conosciuti dal collezionista, opere che ci rivelano la
sua personalità, i suoi gusti, gli interessi, quella curiosità e quello
spirito che sono atteggiamenti propri dell’etnografo.
Grazie al numero delle opere e, soprattutto, grazie all’importanza
degli artisti rappresentati, alcuni dei quali da considerare tra i maggiori
protagonisti del panorama artistico isolano del secolo scorso, si
possono esaminare gli sviluppi che l’arte sarda ha avuto dal 1903,
data relativa al dipinto di Felice Melis Marini intitolato Ritratto di
Carlo Ruda, il più antico della Collezione, fino ai primi anni Settanta.
Nel complesso i dipinti della Collezione Piloni non esemplificano,
certo, in modo totalizzante la produzione artistica isolana del
Novecento, né sono sufficientemente rappresentativi degli ottimi livelli
raggiunti dai nostri maestri, alcuni dei quali, purtroppo, non
presenti con le loro opere. Tuttavia, un’accurata selezione delle opere
permette di rivelare la specificità dell’arte in Sardegna nell’arco
cronologico considerato, alla luce del particolare contesto storico e
culturale dell’Isola, delle analogie e delle profonde differenze esisten-

326
MARZIA MARINO
ti con i contemporanei esiti che la produzione figurative ebbe in ambito
nazionale ed internazionale.
Il cammino dell’arte moderna ha inizio in Sardegna tra l’ultimo decennio
dell’Ottocento e il primo del Novecento: è in questo momento
che alcuni “spiriti più avveduti”, persuasi della particolare identità della
cultura del popolo sardo, presero coscienza del valore della propria
opera anche rispetto ai risultati raggiunti negli altri paesi ( 1 ). È proprio
nel giro di questi venti anni che l’arte sarda cominciò ad acquisire
una sua specifica fisionomia e a rendere riconoscibili il modo di operare
e gli stilemi dei singoli artisti ( 2 ). Questi, emarginati per lungo tempo
a causa della mancanza di un vero mercato e di adeguati spazi
espositivi, vollero, innanzitutto, riappropriarsi del loro specifico ruolo
all’interno della società. Felice Melis Marini nel 1902 presentò a Cagliari
una vera mostra personale, allestita in uno spazio apposito, diverso
dalle solite vetrine dei negozi, unica risorsa, in quegli anni, per
pittori e scultori. Lo stesso Melis Marini, qualche anno più tardi, nel
1908, realizzando un progetto didattico che coinvolgeva anche il pittore
Giovanni Battista Rossino, aprì una scuola di pittura a Cagliari:
l’arte così diveniva la protagonista di quel processo di rinnovamento
che puntava, non solo alla formazione dei singoli, ma all’educazione
del gusto estetico del pubblico e di una possibile committenza ( 3 ).
Entro questa nuova dimensione i Sardi iniziarono ad emergere,
oltre Tirreno, nei luoghi istituzionalmente deputati alla promozione
artistica: nel 1907, Francesco Ciusa trionfò alla Biennale di Venezia
con la scultura in gesso La madre dell’ucciso; Antonio Ballero, nei limiti
della sua formazione autodidattica, iniziò ad esporre alle più
importanti mostre nazionali; il sassarese Giuseppe Biasi, tra il 1913
e il 1915, fu uno dei protagonisti delle Secessioni romane ( 4 ).
Il più anziano di questi artisti, presente con un’opera nella Collezione
Piloni è Antonio Ballero (Nuoro 1864-Sassari 1932) ( 5 ). Il suo
olio intitolato Festa paesana (Fig. 1), opera tra le più felici dell’arti-
( 1 ) M.L. FRONGIA, Un percorso dell’arte in Sardegna nel XX secolo, Catalogo della
Collezione MAN (Museo d’Arte Provincia di Nuoro, Nuoro 1998, p. 15.
( 2 ) M.L. FRONGIA, 1907-1908: gli inizi dell’arte moderna in Sardegna, in Scritti
e immagini in onore di Corrado Maltese, Roma 1997, p. 429 ss.
( 3 ) G. ALTEA, M. MAGNANI, Pittura e scultura del primo Novecento, Nuoro
1995, p. 21.
( 4 ) S. NAITZA, 1900-1970: tradizione e innovazione, in La Collezione Sarda,
1900-1970, Catalogo della Collezione, Cagliari 2003, p. 16 ss.
( 5 ) Per un approfondimento sull’artista vedi: S. NAITZA, M.G. SCANO, Antonio
Ballero, Nuoro 1986; M.G. SCANO, Antonio Ballero, Nuoro 2004.

Gli artisti sardi del Novecento nella collezione Piloni
sta, era stato datato dal collezionista 1928, ma i caratteri stilistici e le
sue piccole dimensioni (cm. 14 x 23) rendono più plausibile una collocazione
cronologica nel decennio precedente. Nel 1916, infatti, Ballero
partecipò, insieme a molti altri suoi colleghi, all’importante
esposizione che il comitato di mobilitazione civile organizzò a Sassari
a favore delle famiglie dei richiamati. La cronaca del periodo salutò
la Mostra Artistica Sarda, come la prima vera mostra sarda di pittura
la quale, per numero e qualità delle opere esposte, sanciva ufficialmente
la nascita di un’arte sarda. In questa occasione Ballero
espose un centinaio di nuovi lavori, tra cui settantacinque Impressioni
di Barbagia, piccoli scorci di paesaggi, racchiusi a gruppi entro
grandi cornici ( 6 ). Queste creazioni dovevano essere molto vicine per
dimensioni e tecnica all’opera di Ballero della Collezione Piloni ( 7 ).
Nonostante il rigoroso ordine compositivo, il dipinto si caratterizza
per grande libertà ed immediatezza. Appare applicata in pieno la poetica
del colore-luce che tende a raggiungere i valori più alti della luminosità
con l’accostamento dei complementari: spiccano il rosso e
l’amaranto degli abiti accanto al verde e al giallo dei fazzoletti, in un
miriade di vibrazioni che denota un’esperienza profonda della materia.
Ballero gioca con gli spessori del pigmento, con piccoli e rapidi
tocchi di spatola distribuisce il colore sulla superficie e la rende dinamica,
una tecnica che evidenzia il romantico sentimento che guidò
il pittore nella trasfigurazione lirica della realtà della sua terra.
Nel frattempo a Cagliari un episodio di capitale importanza dava
il via alla definizione del movimento figurativo isolano. Nel Palazzo
Civico, infatti, accanto alla decorazione plastica dell’esterno, affidata,
sin dal 1906, ad Andrea Valli, erano previsti anche interventi per
le sale interne. Fu un’occasione storica: per la prima volta un incarico
pubblico di tale prestigio venne affidato agli artisti della città.
Purtroppo, i terribili bombardamenti del 1943 non lasciano traccia
dei lavori compiuti da Francesco Ciusa nella Sala dei Consilieri e
della decorazione eseguita da Mario Delitala nel soffitto della Sala
del Museo. Si conservano integri, invece, gli interventi di Filippo Figari
che, tra il 1912 e il 1914, portò a compimento la decorazione del-
( 6 ) La Mostra Artistica Sarda inaugurò a Sassari il 24 settembre 1916. Vedi:
Mostra Artistica Sarda, in “La Nuova Sardegna”, 25-26, 26-27, 27-28 settembre
1916.
( 7 ) In mancanza di un confronto visivo si veda la descrizione fatta dalla cronaca
contemporanea: “Impressioni di Barbagia ... tanti piccoli quadretti inquadrati
da una grande cornice, studi all’aperto a piena luce e a forte impasto, dipinti a
spatola”, Mostra Artistica Sarda, in “La Nuova Sardegna”, 14-15 ottobre 1916.
327

328
MARZIA MARINO
la Sala dei Matrimoni e di Felice Melis Marini al quale vennero affidati
i lavori nel Gabinetto del Sindaco ( 8 ).
L’olio su tela della Collezione Piloni in cui è ritratto il Conte
Carlo Ruda (Fig. 2) fu dipinto, come abbiamo detto, nel 1903, da
Felice Melis Marini, pittore e incisore nato a Cagliari nel 1871 ( 9 ).
L’opera si distingue dalle altre della Collezione per l’abbigliamento
“borghese” del protagonista. Evidentemente Luigi Piloni la volle comunque
nella sua raccolta, perché ritraeva un personaggio ben noto
e di rilievo nella vita cagliaritana dell’inizio del secolo. Un ritratto
che prosegue una tradizione tutta tardo-ottocentesca che parte dal
Realismo e, attraverso gli esempi più celebri dell’Impressionismo,
giunge fino al Novecento. La luce, se da una parte non ha la forza
per suggerire la profondità dell’ambientazione e i valori plastici della
figura, affidati solo allo scorcio di tre quarti, dall’altra diventa principale
strumento indagatore del carattere del personaggio, si concentra
sul volto dell’uomo, ne vivifica gli occhi e ne mette a nudo l’animo.
L’olio testimonia, tra l’altro, il perfetto inserimento dell’artista
negli ambienti più abbienti della sua città.
Gìà abbiamo ricordato che Felice Melis Marini nel 1902, appena
rientrato a Cagliari, allestì la sua prima mostra personale nella sede
del Collegio degli Ingegneri ed Architetti, proprio in occasione del
X Congresso Nazionale dell’Associazione. Attento alle novità e in
continuo rapporto con i suoi colleghi, in quegli anni si mostrò uno
dei più attivi organizzatori della vita artistica cittadina. Molto intensa
fu la sua attività grafica con la realizzazione di cartoline, carnets da
ballo e pergamene commemorative, mentre un’assidua collaborazione
con lo scultore liberty Andrea Valli lo coinvolse nell’allestimento
di alcuni casotti, utilizzati per le vendite di beneficenza ( 10 ).
L’iniziativa di aprire a Cagliari una scuola di pittura vide emergere,
accanto a Melis Marini, Giovanni Battista Rossino (Cagliari
1872-1956) ( 11 ). In una lunga parete affollata di dipinti spicca per
freschezza e spontaneità, il suo bell’acquarello, intitolato Fanciulla
di Desulo (Fig. 3). L’opera, inedita e non datata, è collocabile verosimilmente
negli anni Venti e reca in basso a sinistra la sigla GR, con
( 8 ) Cfr. G. ALTEA, M. MAGNANI, op. cit., p. 99 ss.
( 9 ) Per un approfondimento sull’artista vedi: M.G. SCANO, Felice Melis Marini,
Nuoro 1993; M.G. SCANO, Felice Melis Marini, Nuoro 2004.
( 10 ) Cfr. M.G. SCANO, op. cit., p. 30 ss.
( 11 ) S. NAITZA, Romantico ma anche un po’ metafisico, in “Almanacco di Cagliari”,
1987.

Gli artisti sardi del Novecento nella collezione Piloni
cui spesso Giovanni Battista Rossino firmava le opere. Il dipinto è
lontano dalla sua produzione che in quel periodo lo vedeva impegnato
come ritrattista ufficiale della ricca borghesia cagliaritana. Eppure,
lo stesso soggetto venne affrontato da Rossino anche con tecniche
differenti, come dimostra il confronto con un piccolo olio di
collezione privata nel quale, probabilmente, la stessa giovane donna
desulese, sempre ritratta di schiena, attirata da un improvviso richiamo,
volta il viso verso l’osservatore che viene colpito dalla chiarezza
dei suoi occhi azzurri. Ma se nell’olio lo sfondo rimane indefinito,
nell’opera della Collezione Piloni il taglio più ampio e le squisite trasparenze
dell’acquarello suggeriscono un paesaggio nitido e luminoso
e non mancano di precisione nella descrizione dei colori smaglianti
del costume di Desulo.
A Cagliari la creazione della scuola di pittura testimonia il fatto
che nella capitale dell’isola l’ambiente culturale era fervido e pronto
a mettersi al passo con i tempi. La città si stava trasformando in senso
moderno e i suoi “figli”, per la prima volta, vennero chiamati a
compiere questo rinnovamento. Con delibera, approvata nel novembre
del 1911, il Consiglio Comunale di Cagliari decise di dare inizio
alla decorazione interna del nuovo Palazzo Civico ( 12 ). In quest’occasione
Felice Melis Marini ricorse all’amata pittura di paesaggio,
con tre panorami di Cagliari, visti da prospettive differenti: Cagliari
dalla campagna, Cagliari da Monte Urpinu, Cagliari dal Golfo. Lo
schema a trittico, molto diffuso agli inizi del secolo, sviluppa tre liriche
vedute con le quali l’artista, ormai indirizzato verso formule postimpressioniste,
con morbidezza di tocco e vividi colori complementari,
raggiunse il vertice della sua produzione.
Filippo Figari (Cagliari 1885-Roma 1974) ( 13 ) fece una scelta assai
differente: nella decorazione della Sala dei Matrimoni l’artista puntò
sulla rappresentazione della vita e del folklore locali. L’evento fu rilevante
per l’affermazione del movimento artistico isolano e per il raggiungimento
di una tradizione figurativa sarda. Figari elaborò un progetto
complesso e articolato che prevedeva, oltre alla decorazione pittorica,
la predisposizione di tutti gli elementi d’arredo. Il risultato fu
un ambiente in cui i mobili, gli infissi e le pitture rispondevano, secondo
l’orientamento modernista, ad un criterio estetico unitario ( 14 ).
( 12 ) “L’Unione Sarda”, 16 novembre 1911.
( 13 ) Per un approfondimento sull’artista vedi: G. MURTAS, Filippo Figari,
Nuoro 1996; G. MURTAS, Filippo Figari, Nuoro 2004.
( 14 ) Cfr. G. ALTEA, M. MAGNANI, op. cit., p. 106.
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MARZIA MARINO
L’opera di Figari presente nella Collezione Piloni è un bozzetto
per Il ballo (Fig. 4), una delle scene principali del ciclo L’Amore in
Sardegna, realizzato per la Sala dei Matrimoni ( 15 ). Già datato 1910,
è da collocare verosimilmente nel 1912, proprio in riferimento al
concorso bandito nell’agosto dello stesso anno. L’opera, efficace
come un quadro finito, è significativa in quanto riassuntiva delle varie
tappe formative dell’artista. A Roma Figari, a contatto con quella
schiera di artisti che considerava lo stile moderno come il più adatto
alla trasmissione dei messaggi etnici, maturò la sua “vocazione sardista”.
È in questo momento che individuò nella koinè secessionista il
linguaggio capace di universalizzare l’immagine delle tradizioni locali:
come nel ciclo decorativo, nel bozzetto la generale semplificazione
compositiva lascia spazio al linearismo modernista vivace e dinamico
e all’uso divisionista del colore, là dove, per la sua stessa natura di
studio, viene a mancare il descrittivismo fotografico e la grande efficacia
narrativa, favorita nella Sala dei Matrimoni dall’uso di una cornice
continua in cui le immagini diventano le sequenze del racconto
epico della vita del popolo sardo ( 16 ).
Il percorso iniziale di Filippo Figari per alcuni anni fu parallelo a
quello di un altro artista Giuseppe Biasi (Sassari 1885-Andorno
Micca 1945) ( 17 ). In Processione (Fig. 5), la grande tempera presente
in Collezione Piloni, non datata, ma collocabile ai primissimi anni
Venti, l’impalcatura grafica si è notevolmente alleggerita, per cui la
costruzione dell’immagine è ottenuta per mezzo del colore, un colore
più fluido che esorcizza l’idea di staticità e di rigidità che caratterizzavano
lo stile del sassarese. Un movimento che è fisico – quello
del mesto corteo che faticosamente avanza verso un villaggio addormentato
– ma anche psicologico: Biasi, certo influenzato dalla filosofia
di Bergson, sembra voler rappresentare il flusso della coscienza,
l’accumularsi delle immagini nella memoria. L’ambientazione serotina
e le scelte cromatiche di matrice espressionista, in cui prevale la
gamma dei bruni e dei viola, contribuiscono ad accentuare l’atmo-
( 15 ) Le varie fasi del concorso vennero ampiamente documentate dalla stampa
locale; a tal proposito vedi: L’esposizione dei bozzetti pel Palazzo Comunale, in
“L’Unione Sarda”, Cagliari 11 settembre 1912; Il concorso per le decorazioni del
Palazzo Comunale, in “L’Unione Sarda”, Cagliari 12 settembre 1912; C. MAZZA, I
bozzetti del Nuovo Palazzo Comunale, in “L’Unione Sarda”, Cagliari 13 settembre
1912.
( 16 ) Cfr. G. MURTAS, Filippo Figari ..., cit., p. 11 s.
( 17 ) Per un approfondimento sull’artista vedi: G. ALTEA, M. MAGNANI, Giuseppe
Biasi, Nuoro 1998; G. ALTEA, M. MAGNANI, Giuseppe Biasi, Nuoro 2004.

Gli artisti sardi del Novecento nella collezione Piloni
sfera nostalgica e malinconica della scena desolata, l’immagine di
una Sardegna triste e derelitta.
Sono caratteri questi che Biasi non abbandonerà più e che emergono
nell’altra opera dell’artista, presente in Collezione. Si tratta in
questo caso di un piccolo olio inedito, intitolato Il parroco (Fig. 6),
anche questo non datato, forse da collocare negli anni Trenta, certo
successivo al soggiorno africano (1924-1927). La vita popolare dell’Isola
ha ormai perso agli occhi del maestro l’aura fiabesca delle prime
prove: in uno scenario triste e desolato, l’immagine dei tre uomini
in primo piano pare un tentativo di presa sul reale che però scivola
nell’espressività grottesca della caricatura.
L’intervento in guerra segnò una cesura molto importante nella
storia della Sardegna. La guerra si rivelò la prima vera occasione per
l’integrazione dei sardi nel contesto nazionale. Pastori e contadini,
rimasti fino a quel momento ai margini dello scontro politico e sociale,
irruppero nella scena politica ( 18 ). Una rivoluzione sociale che
determinò inevitabilmente un profondo mutamento del gusto estetico.
Nell’immediato dopoguerra si registrò un generale rifiuto sia
dello sperimentalismo delle avanguardie che del decorativismo estetizzante.
E poiché in Sardegna le arti figurative furono particolarmente
legate all’esperienza secessionista, l’attenzione di molti artisti
si concentrò sulle arti applicate. Un fenomeno che, seppur favorito
da personaggi quali Giuseppe Biasi e soprattutto Francesco Ciusa,
che fondò la manifattura Spica prima e la Scuola d’Arte Applicata
poi, inevitabilmente polarizzò molti artisti. Il fine ultimo era quello
di rinnovare la produzione decorativa attraverso il riferimento puntuale
alle tradizioni etnografiche locali. Pittori e scultori finirono per
instaurare un intenso ed immediato rapporto stilistico ed iconografico
con la tradizione contadina, un mondo fatto di affetti e di intimità
domestica, la cui potenzialità ispiratrice pareva inesauribile. Una
fase che possiamo definire di “Déco rustico”, un fenomeno che si ricollegava
a quanto nell’ambiente romano fece Duilio Cambellotti con
la rivalutazione delle arti applicate e della cultura popolare ( 19 ). Cambellotti
influenzò non poco gli artisti isolani che gravitavano intorno a
lui, primo fra tutti Melkiorre Melis (Bosa 1889-Roma 1982) ( 20 ). A
( 18 ) M. BRIGAGLIA, La Sardegna. La geografia, la storia, l’arte e la letteratura,
vol. I, Cagliari 1982, p. 128 ss.
( 19 ) Cfr. G. ALTEA, M. MAGNANI, op. cit., p. 191 ss.
( 20 ) Per un approfondimento sull’artista vedi: A. CUCCU, Melkiorre Melis,
Nuoro 2004.
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332
MARZIA MARINO
testimonianza di ciò due tempere, entrambe intitolate Dama del Sulcis
(Figg. 7-8), ma distinguibili perché una seduta e l’altra in piedi.
Sono datate dall’artista 1921, anni in cui Melkiorre Melis, spinto
dall’interesse per la cultura popolare, per gli usi e i costumi della
Sardegna, esplorò l’isola in lungo e in largo: con lui vi erano anche
Mario Delitala e Carmelo Floris, con il quale, ancora studente, a
Roma aveva condiviso una mansarda. Si tratta chiaramente di due
studi dal vero sull’abito femminile di Iglesias, due tavole illustrative
che forse facevano parte di un repertorio etnografico. Le due modelle
indossano, infatti, caratteristici capi dell’abbigliamento della cittadina
del Sulcis a cominciare da sa pèrra, portata come coprispalle e
come copricapo ( 21 ), fino a su gipponi, il corto e aderente giacchino
che si usava nei giorni di festa, caratterizzato dalla manica a tre quarti,
terminante con un ricco volant applicato ( 22 ). Stilisticamente lontano
dagli schemi e dalle cadenze dell’arte popolare che in questo
momento sono già un continuo riferimento per tutta la produzione
dell’artista, le due tempere spiccano per l’asciutta stilizzazione delle
forme, taglienti e spigolose, indagate da una luce quasi fotografica. Il
tema, comunque, non tradisce la fase di Déco rustico attraversata da
Melis il quale, in quel momento caratterizzò gran parte della sua
produzione per il vivo cromatismo e il secco geometrismo delle forme.
Un filone folklorico venne portato avanti, a modo suo, anche da
Tarquinio Sini (Sassari 1891-Cagliari 1943) ( 23 ). Attento osservatore
del clima culturale dell’isola, egli si distinse, sin dagli esordi, per
la ricerca sagace e spregiudicata, rivolta a mettere in contrapposizione
la fiera tradizione paesana e le audaci abitudini cittadine. La tempera
presente in Collezione segnalata come Testa di vecchio (Fig. 9),
manifesta, infatti, la naturale propensione dell’artista alla caricatura,
già dimostrata nella serie dei Contrasti esposta nel 1927 nella Bottega
d’arte Cao di Cagliari: la deformazione del volto, incorniciato dai
consueti elementi del costume isolano, sa berrìtta e su muccadori, il
grande naso rosso, gli occhi infossati, le sottilissime labbra che a fati-
( 21 ) Si tratta di un fazzoletto di seta o di cotone, con o senza frange, di forma
triangolare o quadrata, caratteristico dell’abbigliamento quotidiano de sa massaia,
la contadina benestante, veniva usato come coprispalle o, ripiegandolo a turbante,
come originale copricapo. Vedi AA.VV., Costumi. Storia, linguaggio e prospettive del
vestire in Sardegna, Nuoro 2003, p. 122.
( 22 ) Cfr. AA.VV., op. cit., p. 178.
( 23 ) Per un approfondimento sull’artista vedi: P. PALLOTTINO, Tarquinio Sini,
Nuoro 1998; A. PAU, Tarquinio Sini, Nuoro 2004.

Gli artisti sardi del Novecento nella collezione Piloni
ca sorreggono un’oblunga “pipa della domenica”, tutto concorre a
farci pensare ai personaggi burberi e severi paesani, testimoni delle
austere abitudini isolane.
Un’immagine della Sardegna insolitamente priva di connotazioni
folkloriche è quella restituitaci da parte della produzione di Cesare
Cabras (Monserrato 1886-1968). Nel 1932 l’artista partecipò alla
Biennale di Venezia, esponendo un gruppo di quattordici opere,
tutte incentrate su un unico tema, le “Aie” del Campidano. Fu un
grande successo. Si trattava di una serie di immagini che visualizzavano
le varie fasi della mietitura, dal taglio degli steli, alla trebbiatura
del grano. Cabras raccontava la semplice e sana vita contadina
esaltando il lavoro campestre, la “ruralità” vista anche come antitesi
della “città” ( 24 ). Una scelta assolutamente coerente in quel momento
in cui il regime fascista promuoveva una serie di istituzioni atte
alla salvaguardia delle culture vernacolari.
Luigi Piloni volle evidentemente che nella sua collezione l’artista
fosse presente con un’opera, Sull’aia (Fig. 10), decisamente rappresentativa
della sua produzione. L’olio, non datato, può verosimilmente
essere collocato intorno al 1932. I colori sono chiari, intrisi di luminosità
ampia e diffusa che costruisce archittettonicamente i covoni e
lo spazio tutt’intorno: è la luce meridiana dell’estate capace di esaltare
la qualità dei bianchi e dei gialli che raggiungono le massime sonorità
timbriche. È il microcosmo conosciuto e vissuto dall’artista, fatto di
cose semplici che dovettero colpire la sua sensibilità come quelle “sabbie
d’oro” scoperte in Cirenaica nel 1934. Le figure senza volto, lontane
e senza alcuna notazione di costume, popolano uno spazio definito
con precisione prospettica, forme nitide e precise che lanciano un
messaggio semplice e di facile fruizione: l’esaltazione del frumento.
Certo gli anni Trenta furono anni difficili per chi tentò di reagire
al rischio di inquadramento cui sottoponeva il Sindacato Regionale
Fascista delle Belle Arti. Quando a Cagliari, nel 1929, nacque la Famiglia
Artistica Sarda, questa venne salutata proprio come il tentativo
da parte degli artisti e degli intellettuali sardi di sottrarsi alla burocratizzazione
e al rigido controllo sindacale. L’associazione ebbe
vita breve e in Sardegna, più che altrove, nel corso del decennio successivo,
si poté assistere alla totale centralizzazione e gerarchizzazione
delle forze artistiche ( 25 ).
( 24 ) S.A. DEMURO, Luce, tono, ruralità nella pittura di Cesare Cabras, Cagliari
1989, p. 13 ss.
( 25 ) Cfr. M.L. FRONGIA, op. cit., p. 42.
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334
MARZIA MARINO
Uno dei protagonisti del momento, che aderì ad entrambi gli organismi
fu Mario Delitala (Orani 1887-Sassari 1990) ( 26 ), presente
nella Collezione Piloni con La colazione del Pastore (Fig. 11), una
delle opere ancora inedite della Collezione Piloni. Si tratta di un dipinto
ad olio, firmato e datato dall’artista nel 1970. La datazione
tarda non impedisce un immediato confronto con la pittura praticata
negli anni precedenti. Mi riferisco in particolare agli anni siciliani,
durante i quali l’artista, pur dedicandosi alla decorazione degli
edifici pubblici, sperimentando fra l’altro con esiti positivi la tecnica
del mosaico, si dedicò spesso alla pittura da cavalletto. In questo periodo
tornò spesse volte in Sardegna, la qual cosa rende, talvolta, difficile
distinguere i soggetti siciliani da quelli sardi. In entrambi i casi
si riscontra un rinnovato interesse verso la natura, una nuova sensibilità
nei confronti della realtà per la rappresentazione della quale
non è necessario il rigore prospettico: visioni intime e soggettive giocate
su cromie accese e forme appiattite, che ricordano quelle dei
mosaici. Nel dipinto della Collezione il ricco impasto dei colori,
dato a colpi di spatola, è libero da qualsiasi costrizione lineare; tinte
forti, efficaci contraddittori cromatici descrivono il costume del pastore
e la natura tutt’intorno. È una pittura ricca di emozioni che
certo risente delle ricerche sul tonalismo portate avanti dalla Scuola
Romana e che per l’uso del colore, steso con fitti tratti di spatola
come materia viva, ci riporta a Giuseppe Migneco ( 27 ).
Il ventennio fascista segnò per la Sardegna l’ingresso nel sistema nazionale.
Il centralismo esasperato promosso dal governo riuscì, seppur
con qualche contraddizione, a tacitare le istanze regionaliste. L’integrazione
al costume nazionale si ebbe a caro prezzo: venne compressa la
cultura regionale, i modi di vita e di pensiero furono ridotti a puro fatto
di folklore. Ma è anche vero che nelle zone interne a prevalente economia
agropastorale il Fascismo non penetrò. Nei paesi, dopo che i
vecchi notabili vestirono la camicia nera e furono nominati podestà,
tutto rimase immutato. Al di là delle città e delle zone limitrofe, la silenziosa
campagna sarda restò lontana dal mondo moderno, ancora
profondamente legata alle sue concezioni tradizionali della vita ( 28 ).
L’artista che seppe proporre in termini schiettamente pittorici i
motivi folklorici che altri avevano rievocato senza farli propri fu
( 26 ) Per un approfondimento sull’artista vedi: M.L. FRONGIA, Mario Delitala,
Nuoro 1999; M.L. FRONGIA, Mario Delitala, Nuoro 2004.
( 27 ) M.L. FRONGIA, Mario Delitala, Nuoro 1999, p. 185 ss.
( 28 ) Cfr. M. BRIGAGLIA, op. cit., p. 132 ss.

Gli artisti sardi del Novecento nella collezione Piloni
Carmelo Floris (Bono 1891-Nuoro 1960) ( 29 ). Traendo ispirazione
dalla gente a dagli aspetti del paese dove visse tutta la vita, Olzai, divenne
il fedele e attento interprete di quel mondo dal quale non si
allontanò se non rarissime volte.
Il bellissimo dipinto della Collezione Piloni, intitolato Famiglia
di Ollolai (Fig. 12) è datato 1937. Carmelo Floris si dimostra un artista
ormai maturo. Il tono è solenne, il severo ritmo compositivo,
scandito dai personaggi che in primo piano sono esaltati dai netti
controluce, non lascia spazio alla divagazione paesaggistica sullo
sfondo: tutto è studiato affinché ad emergere siano i sentimenti delle
tre donne che avanzano incerte incontro al loro destino, piene di
aspettative, ansie e timori. Il solido impianto grafico, il robusto plasticismo
e la dettagliata descrizione dei costumi variopinti non inficiano
la capacità introspettiva dell’artista, attento interprete della realtà
psicologica femminile sin dai primi anni Trenta. Le sue donne in
costume, le mute prioresse, le spose, in posa frontale e ieratica, proprio
come la giovinetta del dipinto che fa parte della Collezione Piloni,
composte entro le fogge del loro abito, diventano il simbolo
della dignità delle donne sarde, centrali nell’ordine sociale isolano. Il
costume, quindi, lungi dall’essere la prova dell’interesse e della curiosità
di un etnografo, rappresenta parte sostanziale del personaggio
ritratto. Un’aderenza alle emozioni e all’umanità della sua gente che
sono costanti durante tutto il percorso artistico di Carmelo Floris. Il
dipinto, che fu proprietà della famiglia Cao, fonde insieme la tipologia
del ritratto di gruppo con il tema della sposa-idolo, immobile e sacralizzata,
tanto caro agli artisti della generazione di Carmelo Floris, e
ben rappresentato dall’abbagliante policromia della Sposa antica, una
terracotta invetriata realizzata da Federico Melis nel 1930 ( 30 ).
Nel 1930 Floris, aveva partecipato alla Prima Mostra Sindacale,
organizzata in Sardegna dal Sindacato Fascista Belle Arti, di cui fu
segretario per la provincia di Nuoro, rinnovando ogni anno la sua
partecipazione fino al 1938. La Prima Sindacale del 1930 riscosse un
grande successo. Dall’unanime trionfalismo della stampa emerse isolata
la voce di Raffaello Delogu, il solo ad essere seriamente preoccu-
( 29 ) Per un approfondimento sull’artista vedi: S. NAITZA, M.G. SCANO, Carmelo
Floris, Nuoro 1992; M. MARINO, Carmelo Floris, Nuoro 2004.
( 30 ) L’opera, realizzata con argilla bianca locale, cotta a gran fuoco, decorata
con fine policromia da Valerio Pisano, venne esposta da Federico Melis alla I
Quadriennale romana d’arte del 1931, destando l’ammirazione dei tecnici, degli
artisti e dei critici d’arte. Vedi: M. MARINI, M.L. FERRU, Federico Melis. Una vita
per la ceramica, Roma 1997, p. 45.
335

336
MARZIA MARINO
pato dell’arretratezza e del regionalismo dimostrato dai nostri artisti.
Il giovane critico notava la mancanza tra i sardi di novecentisti e di
pittori capaci di portare avanti quella tendenza costruttivista che in
quel momento caratterizzava l’arte ovunque. Delogu salvò solo la xilografia,
punto di forza dei sardi già dagli anni Venti, e tra i pittori,
Pietro Antonio Manca. In quell’occasione l’artista espose un numero
cospicuo di opere tra cui Espressione di vita sarda, un olio che fa parte
della Collezione Piloni. Sul retro del dipinto troviamo, infatti, apposta
la targhetta che testimonia l’esposizione alla “I Mostra Regionale
Fascista Belle Arti della Sardegna. Sassari 1930 (VIII)”. A proposito
di queste “visioni” di Sardegna Raffaello Delogu parlò di
“sentimenti colorati” ( 31 ). Se, infatti, il rapporto tra realismo e folklore
era stato risolto da Floris in una realtà elegiaca priva di retorica
ma ricca di pathos per la sua gente, Manca si fece interprete visionario
di quello stesso microcosmo paesano, un mondo trasfigurato da
una “fantasia orgiastica” che del realismo conserva unicamente i legami
di ordine psicologico ( 32 ). L’artista, nato a Sorso nel 1892, raccoglieva
in quel momento i primi frutti di una lunga e tormentata
formazione ( 33 ).
Espressione di vita sarda (Fig. 13), opera inedita facente parte della
Collezione Piloni, che può essere ricondotta alla I Mostra Regionale
del Sindacato Fascista di Belle Arti della Sardegna, deve, pertanto,
essere datata entro quello stesso 1930. Vi ritroviamo applicata
appieno la concezione del colore già teorizzata da Goethe, secondo
la quale i colori non hanno un’esistenza autonoma ma l’acquistano
dall’incontro tra la luce e l’oscurità ( 34 ). Le figure, prive dei dettagli
del volto e della consistenza fisica sembrano larve, fantasmi; sono figure
di forza emblematica, immagini cariche di colore, lucide, laccate,
quasi illuminate dall’interno. È il colore ad imprigionare la luce:
dominano i toni bruni sui quali spiccano i toni del rosso “non molto
lontani dai rossi papaveri delle nostre campagne”. L’opera che, a cominciare
dalla definizione spaziale, rivela ancora un debito nei confronti
di Giuseppe Biasi preannuncia, al tempo stesso, gli esiti futuri
( 31 ) R. DELOGU, La mostra d’arte, in “Il Lunedì dell’Unione”, Cagliari 19 maggio,
2 giugno 1930.
( 32 ) S. NAITZA, “Arte in Sardegna tra realismo e folklore” 1900-1935, Nuoro
1977, p. 46 s.
( 33 ) S.A. DEMURO, Pietro Antonio Manca, Firenze 1979, p. 14 s.
( 34 ) M.L. FRONGIA, Il mondo immaginario e la concezione dell’arte, in AA.VV.,
Pietro Antonio Manca, Catalogo della Mostra, Sassari 1983, p. 13 s.

Gli artisti sardi del Novecento nella collezione Piloni
della produzione dell’artista. Manca concepì la pittura come realtà
autonoma, fatto evocativo e non descrittivo, un atteggiamento che
con l’andare degli anni lo svincolò da qualsiasi impegno semantico e
da ogni costrizione di verosimiglianza: ispirato dalle più suggestive
scene della vita popolare, creerà “visioni” rutilanti di colore, accese
da bagliori improvvisi che, sfaldando forme e volumi, saranno capaci
di evocare gli aspetti più intimi e arcaici della sua terra.
Il 1932 segnò l’apice dell’attività in Sardegna del Sindacato. La
mostra, organizzata a Sassari nella sede del Circolo di Cultura Fascista
e del GUF nel palazzo dell’Università, attirò l’attenzione della
critica nazionale. Furono soprattutto gli incisori a riscuotere grandi
successi ( 35 ). E se Mario Delitala aveva raggiunto piena notorietà a
livello nazionale già nell’anno precedente, con la pubblicazione sul
quaderno 158 della rivista “L’Eroica” di dodici xilografie da legni
originali (una selezione fatta all’interno della sua migliore produzione),
tra i nomi di spicco della ormai riconosciuta “scuola sarda” di incisione
vi erano anche quelli di Remo Branca e di Stanis Dessy, il primo
dei quali rivestì presto il ruolo di guida e teorico del gruppo ( 36 ).
Remo Branca è presente nella Collezione Piloni con un’opera,
Veduta di Orgosolo (Fig. 14), che propone uno dei temi pittorici prediletti
dall’artista, il paesaggio. L’artista si dimostra sensibile agli
esempi di Carmelo Floris: una visione lirica che parte dalla concreta
osservazione della realtà, ma che diventa trasposizione del sentimento
dell’artista. Un senso di pace raggiunto grazie alle differenze tonali,
grazie ai tocchi vibranti di materia e, soprattutto, grazie alla forza
del segno che, memore del lavoro incisorio, delinea i profilo delle
montagne e la sagoma delle case.
All’interno della Collezione Piloni il paesaggio di Cagliari ricopre
un posto da protagonista. Il collezionista amava circondarsi dei panorami
e delle vedute di quei luoghi che ben conosceva: si va da
Giardino pubblico di Cagliari, un piccolo olio realizzato da Adolfo
Cao, a Veduta delle saline di Cagliari, un interessante dipinto di Raffaello
Delogu, passando attraverso un bellissimo brano paesaggistico
di Stanis Dessy (Arzana 1900-Sassari 1986) ( 37 ) intitolato Panorama
di Cagliari (Fig. 15). Si tratta di uno scorcio caro ai cittadini, certo
( 35 ) G. ALTEA, M. MAGNANI, Pittura e scultura dal 1930 ..., cit., p. 48.
( 36 ) M.G. SCANO, La Collezione Nicola Valle. Incisori sardi del Novecento, Cagliari
2000, p. 48 ss.
( 37 ) Per un approfondimento sull’artista vedi: G. ALTEA, M. MAGNANI, Stanis
Dessy, Nuoro 2002; G. ALTEA, M. MAGNANI, Stanis Dessy, Nuoro 2004.
337

338
MARZIA MARINO
conosciuto dal collezionista, visibile da più punti della città alta. In
particolare la prospettiva, che pone in primo piano Monte Urpinu e
porta ad intravedere sulla destra la Sella del Diavolo, lascia intuire
che il punto di vista sia quello del Belvedere, una terrazza panoramica
adiacente al Viale Buon Cammino. Il dipinto, datato 1969, testimonia
il fatto che il capoluogo isolano non aveva cessato di affascinare
l’artista ancora alla fine degli anni Sessanta. La città, rappresentata
magnifica agli inizi del secolo, con i velieri attraccati nel porto,
quasi spiata al tramonto dalla collina di Monte Urpinu, era cambiata
notevolmente alle soglie degli anni Settanta. Ma a cambiare fu soprattutto
lo stile di Dessy, attento a registrare anche le minime variazioni
tonali e chiaroscurali, a restituire le mille luci della città moderna,
il brulichio delle strade del centro, ormai affollate di automobili.
Ad analoghi risultati giunse un altro artista molto importante nel
panorama dell’arte sarda del Novecento: Giovanni Ciusa Romagna.
Nato a Nuoro, in quello stesso anno (1907) in cui lo zio Francesco
Ciusa trionfava alla Biennale di Venezia con la scultura La Madre
dell’ucciso, dimostrò una precocissima inclinazione alla pittura e al
disegno per educare e assecondare la quale sembrò opportuno al giovane
recarsi a Firenze e frequentare l’Accademia di Belle Arti dal
1922 al 1925. Qui ebbe maestri del calibro di Felice Carena ma, soprattutto,
ebbe la possibilità di avere un contatto diretto con i grandi
capolavori del Rinascimento e del Manierismo ( 38 ).
Vecchi alberi e vecchie case (Fig. 16), il dipinto inedito presente
nella Collezione Piloni, testimonia questo importante momento di
evoluzione stilistica. La tavolozza si è notevolmente schiarita e alle
superfici dense e ben definite si sostituiscono una leggerezza e un
tessuto pittorico vibrante e trasparente, che consentono a Ciusa Romagna
di raggiungere un’autentica libertà formale. E se il rigore geometrico
chiude ancora il colore nei sintetici cubi delle case, tributando,
così, quasi un omaggio alla pittura di Cézanne, il gesto diventa
rapido ed immediato nella descrizione delle foglie dei “vecchi” alberi
in primo piano: dominano i toni del verde e un tocco di bianco suggerisce
l’argento che il tremito delle foglie svela all’osservatore.
Quella offerta da Giovanni Ciusa Romagna è una visione del paesaggio
tradotto in dimensione umana e quotidiana, una dimensione
che l’artista andò a ricercare quando trattò altri soggetti come il
mondo del lavoro o degli umili, dimostrando un’inclinazione verso i
contenuti essenziali della condizione umana, liberata dai travesti-
( 38 ) M.L. FRONGIA, Giovanni Ciusa Romagna, Nuoro 2005, p. 7 ss.

Gli artisti sardi del Novecento nella collezione Piloni
menti esteriori di tipo folklorico. Bisogna tener presente che Ciusa
Romagna si trovò ad operare in un periodo critico per la pittura e la
cultura isolane. I disagi e i travagli patiti durante la Seconda Guerra
Mondiale avevano generato tra gli artisti un duplice atteggiamento
espressivo: da una parte ci fu chi diede sfogo alle proprie fantasie e
all’immaginazione, ricercando le verità profonde nel sogno e nel
mito, dall’altra chi si concentrò nella rappresentazione di una realtà
vissuta appassionatamente e venata di sfumature drammatiche ( 39 ).
Su Ciusa Romagna la guerra sembrò avere un effetto liberatorio: ormai
fuori dalla tetraggine delle iconografie regionaliste, la sua pittura
iniziò ad assumere notevoli tangenze con l’opera di Francesco
Menzio e Bernardino Palazzi (Nuoro 1907-Roma 1986) ( 40 ). Il bel dipinto
di Palazzi presente nella Collezione Piloni, Attitidu (Fig. 17), è
datato 1953. La scena descrive un momento fondamentale del pianto
funebre: spicca immediatamente la linea spigolosa e incisiva che,
molto vicina per vigore al segno xilografico, definisce le figure, quasi
che l’elemento classico si fondesse con l’espressività moderna. Il dichiarato
gusto teatrale, altamente coreografico, rivela, infatti, un’attenzione
per la tradizione veneta rinascimentale: gli atteggiamenti e,
soprattutto, la vertiginosa prospettiva diagonale, seppure con un effetto
di drammaticità molto più controllata, fanno tornare alle mente
le monumentali composizioni di Tintoretto, ammirate da Bernardino
Palazzi a Venezia. In particolare la composizione, incentrata sul
corpo giacente che, audacemente scorciato, catalizza l’attenzione
delle donne tutt’intorno, accentuando l’intensità dell’evento, fa pensare
al celebre Miracolo di San Marco, dipinto da Tintoretto per la
Scuola Grande di San Marco nel 1548. Bernardino Palazzi, pittore
certamente portato per il racconto, dimostra in questo dipinto un
enorme talento comunicativo. Un occhio attento, quello di Palazzi,
che ha guardato alla Sardegna da un’ottica privilegiata, proprio perché
esterna e distante da quel mondo. Egli inventò la sua Sardegna:
poco interessato ad un descrittivismo realistico, Palazzi portò a termine
un processo di trasfigurazione elegante e fascinosa degli aspetti
folklorici della sua terra d’origine.
Eppure erano anni in cui all’arte si chiedeva di assumere nuove
responsabilità sociali, un’arte che prestasse attenzione alle vicende
del popolo sardo, per la prima volta inteso non come etnia ma come
( 39 ) Cfr. G. ALTEA, M. MAGNANI, op. cit., p. 135.
( 40 ) Per un approfondimento sull’artista vedi: R. DE GRADA, Bernardino Palazzi,
Nuoro 1988; R. LADOGANA, Bernardino Palazzi, Nuoro 2004.
339

340
MARZIA MARINO
classe sociale. Le esigenze erano mutate perché nuovi erano i presupposti
politico-culturali. La neonata Regione sarda, tra la fine degli
anni Quaranta e i primissimi anni Cinquanta, dovette scontrarsi con
le grandi battaglie sociali portate avanti nelle campagne e nelle miniere,
aree cruciali dell’economia isolana. Alla crisi carbonifera seguì
immediatamente una nuova fase di occupazione delle terre. In sintonia
con quanto il Manifesto del realismo aveva predicato già dal
1946, agli artisti si chiese di parlare ad un pubblico più vasto, differente
da quello elitario delle gallerie ( 41 ). Si trattava di concedere i
muri ai pittori e dare spazio alle problematiche dei lavoratori. Agli
inizi degli anni Cinquanta Aligi Sassu (Milano 1912-Palma di Maiorca
2000), in accordo con le vicende del neorealismo italiano si avvicinò
nuovamente a quelle tematiche del lavoro che lo avevano già
interessato durante la sua stagione futurista ( 42 ); nel 1957 Mauro
Manca (Cagliai 1913-Sassari 1969) ( 43 ) vinse il premio Sardegna alla
I Biennale Nazionale di pittura di Nuoro con l’opera L’ombra del
mare sulla collina, scatenando sulla stampa locale un acceso dibattito
tra i sostenitori dell’arte figurativa e i fautori dell’astrattismo. Si trattò,
infatti, di uno spartiacque molto importante per la ricerca artistica
isolana: per la prima volta in Sardegna un riconoscimento ufficiale
veniva destinato ad un’opera non figurativa. La querelle, lungi dall’essere
un sintomo di isolamento e di arretratezza culturale dell’ambiente
artistico locale, rispecchiava semmai un’analoga situazione
nazionale. L’opera di Mauro Manca presente in Collezione Piloni è
Natura morta con fichi (Fig. 18), datata 1947, già pubblicata nell’approfondita
monografia sull’artista. Le campiture cromatiche si stagliano
piatte, delineate da una linea netta che ne costituisce la solida
ossatura: i toni dei viola, dei verdi, dei marrone, le ocre, creano una
smaltata tarsia che declina in modo raffinato le gamme di Braque, in
una completa compenetrazione dello spazio con le forme degli oggetti
e con le loro ombre. L’opera della Collezione Piloni, se già costituisce
un’eccezione per essere l’unica natura morta, è anche l’opera
più avanguardistica. Eppure si tratta di un’opera “classica” nel suo
genere. Gli oggetti, nonostante la scomposizione delle forme, non
hanno perso la loro riconoscibilità: la fruttiera, il bicchiere, l’im-
( 41 ) Il Manifesto del realismo venne pubblicato su: “Numero”, II, n. 2, febbraio
1946.
( 42 ) Vedi: A. NEGRI, Aligi Sassu, Nuoro 1995; S. CAMPUS, Aligi Sassu, Nuoro
2005.
( 43 ) Per un approfondimento sull’artista vedi: G. ALTEA, M. MAGNANI, Mauro
Manca, Nuoro 1994.

Gli artisti sardi del Novecento nella collezione Piloni
mancabile macinino, fanno da cornice ai fichi in primo piano, protagonisti
del dipinto come della tradizione alimentare isolana. Luigi
Piloni, collezionista attento, era certo consapevole dell’importante
ruolo svolto da Mauro Manca nel processo di svecchiamento dell’arte
sarda del Novecento e perciò nella sua collezione volle un’opera
rappresentativa di quest’artista il cui percorso lineare e coerente sarebbe
giunto all’astrattismo. Già alla fine del decennio precedente, il
sonnolento contesto cagliaritano, dominato ancora dal conservatorismo
di artisti come Felice Melis Marini e Cesare Cabras, era stato
destato dal polverone sollevato dalla mostra personale di Foiso Fois
(Iglesias 1916-Cagliari 1984) ( 44 ), organizzata presso la galleria Della
Maria nel febbraio del 1949. L’impatto della mostra di Fois fu
tale da fruttargli la fama di primo rappresentante dell’“avanguardia”
in Sardegna, l’esempio più trasgressivo del contesto figurativo locale.
Certo Foiso Fois e Mauro Manca condivisero l’identico progetto di
innovazione della stanca tradizione pittorica isolana.
La Collezione Piloni possiede un importantissimo dipinto di Foiso
Fois: il Ritratto di Raffaello Delogu (Fig. 19), realizzato dall’artista
nel 1949. Al di là dell’indubbio valore artistico dell’opera, è interessante
evidenziare come il ritratto costituisca un significativo nesso
tra l’artista e il collezionista Luigi Piloni. Raffaello Delogu, infatti,
storico dell’arte la cui notorietà varcò i confini dell’Isola, all’epoca
era Sovrintendente ai Monumenti e alle Gallerie della Sardegna. Già
abbiamo avuto modo di ricordare che Luigi Piloni e Raffaello Delogu
studiarono insieme per conseguire quella che per entrambi, già
laureati in Giurisprudenza, era la seconda laurea. È quindi presumibile
che a determinare la scelta del collezionista sia stata una motivazione
affettiva.
Il ritratto è tutto teso ad evidenziare, in modo empatico, la dimensione
psicologica dell’individuo, lo spessore morale di colui che
giovanissimo, alla fine degli anni Venti, aveva gettato le basi per una
critica d’arte moderna. A tal fine Fois utilizzò un linguaggio essenzialmente
espressionista: il ritratto è impostato sul contrasto di ampie
campiture di colori acidi, al limite dello sgradevole. Stridono il
blu, il giallo e il verde che cerchia profondamente gli occhi e ombreggia
il volto. L’immagine risulta totalmente bidimensionale, nonostante
la figura seduta appaia scorciata di tre quarti. L’assenza di
uno spazio autenticamente prospettico è uno degli aspetti più caratteristici
dell’opera di Fois, quasi che la superficie fosse l’unico stru-
( 44 ) Per un approfondimento sull’artista vedi: S. NAITZA, Foiso Fois, Nuoro
1989; G. MURTAS, Foiso Fois, Nuoro 2005.
341

342
MARZIA MARINO
mento per veicolare, attraverso luce e colori, l’emozione dell’artista.
Per Foiso Fois la realtà era il presupposto di fondo, il dato imprescindibile
di un messaggio che doveva passare necessariamente attraverso
l’emotività e l’intuizione.
Luigi Piloni, attraverso la sua raccolta, dichiarò apertamente una
sostanziale chiusura nei confronti dei nuovi linguaggi. Le opere della
sua collezione testimoniano una chiara opposizione nei confronti
degli sperimentalismi delle nuove generazioni. Le giovani leve, particolarmente
vivaci nel capoluogo isolano, tra la fine degli anni Cinquanta
e i primi anni Sessanta, iniziarono ad organizzarsi in associazioni
artistiche e culturali come “Studio 58” e “Gruppo di Iniziativa
Democratica”, in cui giovani e giovanissimi di varia estrazione regionale
e scolastica, spesso autodidatti, cercarono una lingua nuova per
esprimere il proprio dissenso nei confronti del conservatorismo del
sistema estetico allora esistente. Variamente ispirati alla cultura europea,
spesso eclettici, questi giovani artisti per creare le loro opere,
figurative o astratte, si rivolsero alla lezione delle avanguardie storiche:
il sogno visionario del surrealismo, l’acceso ed esasperato cromatismo
espressionista, liberamente reinterpretati, costituirono i codici
più efficaci per manifestare il loro dissenso e il desiderio di entrare
a pieno titolo nell’arte contemporanea.
Piloni, durante la sua lunga vita, rimase fedele al moderato conservatorismo
della “generazione di mezzo”. Nella tranquilla solitudine
della sua casa di Serdiana, egli volle circondarsi di quanto di più rassicurante
l’iconografia isolana poteva offrirgli: paesaggi, ritratti di uomini
e donne, di sardi, dipinti da un punto di vista ravvicinato, spesso
interiore, capace di tramutare in poesia la luce, i colori, i profumi di
quei luoghi, i sentimenti e le emozioni della fiera gente di Sardegna.
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345

RAFFAELA STRINA
DIALETTICA DELL’ILLUMINISMO E TEOLOGIA NEGATIVA
Nell’intervista pubblicata col titolo Die Sehnsucht nach dem ganz
Anderen ( 1 ), Horkheimer rilegge l’intero suo percorso filosofico alla
luce della teologia negativa, derivatagli dall’ebraismo: non una dogmatica
che cerca di conoscere positivamente il divino, ma l’espressione
di una “nostalgia” di “perfetta e consumata giustizia”, di un
“Altro” di fronte al quale il nostro mondo della storia, doloroso e ingiusto,
appare solo come fenomeno relativo. In queste dichiarazioni
più che un ultimo Horkheimer religioso e teologo, si palesa quel radicamento
del materialismo storico marxista nel retroterra teologico-culturale
ebraico, già presente in Dialektik der Aufklärung ( 2 ).
Nell’opera del ’44 la critica dello status quo contraddittorio e lacerato
colpisce alla radice l’apparato logico-concettuale che lo regge, volto
all’autoconservazione, fondato sulla commistione di ragione e potere.
Ma leggere Dialettica dell’illuminismo semplicemente come
smascheramento di una ragione che si trasforma in non-ragione,
non dà conto di questo ribaltamento, della colpa commessa dalla ragione
umana, che è il peccato più grave nella religione ebraica: idolatria.
Con il suo progresso continuo verso il totale dominio sulla natura
e l’emancipazione dai miti e dalla magia, la ragione si è creduta dio,
pretendendo di annullare ogni senso che possa trascenderla ( 3 ).
( 1 ) M. HORKHEIMER, Die Sehnsucht nach dem ganz Anderen. Ein Interview mit
Kommentar von Helmut Gumnior Hamburg, Furche-Verlag H. Rennebach KG,
1970. Ed. it. La nostalgia del totalmente Altro, Brescia, Editrice Queriniana, 1990.
( 2 ) M. HORKHEIMER, TH. W. ADORNO, Dialektik der Aufklärung. Philosophische
Fragmente. New York, Social Studies Ass. inc., 1944. Ed. it. Dialettica dell’illuminismo,
Torino, Giulio Einaudi editore, 1997. D’ora in poi sarà abbreviato DI.
( 3 ) Tanto nell’ultimo Horkheimer quanto nell’ultimo Adorno è evidente questo
riconoscimento di continuità tra materialismo storico e teologia negativa

348
RAFFAELA STRINA
Per capire in che modo queste influenze “teologiche”, più o
meno esplicitate ( 4 ), si inseriscano nel pensiero filosofico di Adorno
e Horkheimer, saldandosi alla matrice hegelo-marxista, passaggio
obbligato è Dialettica dell’illuminismo, non solo per le riflessioni ivi
svolte sull’antisemitismo, stimolate dal dramma dell’Olocausto che
andava compiendosi, ma soprattutto per la figura dell’ebreo tratteggiata
come emblema del carattere regressivo del progresso illuminista.
L’opera ci racconta, parallelamente al decorso della civiltà, anche
la “dialettica” del popolo ebraico che, primo illuminista per la sua
opera di disincantamento religioso ( 5 ), rimane vittima di quello stesso
processo che ha contribuito ad innescare.
Gli ebrei sono iniziatori della civiltà. Sin dalle prime pagine della
Dialektik, così come in alcuni passi di Eclipse of reason ( 6 ), gli autori
presentano l’universo religioso ebraico già profondamente pervaso
dall’idea del dominio, dalla preistoria edenica all’ingresso nella storia,
con la cacciata dell’uomo dal paradiso terrestre. Il Dio dell’Antico
Testamento è altero e superbo, crea l’universo e lo domina, “esige
ciò che gli spetta e aggiusta i conti con l’insolvente” e così “avviluppa
la sua creatura nella rete della colpa e del merito” ( 7 ). L’uomo,
creato a sua immagine e somiglianza, perpetua col suo sguardo padronale
il dominio divino.
Non solo il Genesi è uno dei primi documenti dell’illuminismo,
ma l’intero impianto della religione ebraica si fonda su un’opera di
razionalizzazione ed epurazione della fede da ogni mitologia. Laddove
gli dei mitici sono personificazioni di elementi naturali, di cui
perpetuano il corso destinale, il Dio-Soggetto giudaico interviene
sulla Natura-Oggetto, dominandola, ma senza poter mai essere circoscritto
in essa. Jahvé è soggetto astratto, né legato ad un luogo, né
riducibile ad evento naturale, spogliato di ogni carattere antropo-
ebraica. Cfr. M. HORKHEIMER, La nostalgia del totalmente Altro, cit., pp. 72-73;
Th. W. ADORNO, Negative Dialektik, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag,
1966. Ed. it. Dialettica negativa, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1975, p. 185.
( 4 ) M. JAY, The dialectical immagination, Boston e Toronto, 1973. Ed. it.
L’immaginazione dialettica, Torino, Einaudi, 1979, pp. 41-49.
( 5 ) Da questo punto di vista vi è piena sintonia con Weber. Cfr. M. WEBER,
Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie, Tübingen, J.C.B. Mohr, 1920. Ed. it.
Sociologia della religione, Milano, Edizioni di Comunità, 1982, in particolare vol.
II, parte III.
( 6 ) DI, cit., pp. 16-17; M. HORKHEIMER, Eclipse of Reason, New York 1947.
Ed. it. Eclissi della ragione, Milano, Sugar, 1962, pp. 79, 127-128.
( 7 ) DI, cit., p. 191.

Dialettica dell’illuminismo e teologia negativa
morfo, perciò demitologizzato. L’avversione ebraica per il mito scaturisce
da quello iato tra finito e infinito, che pone un veto su ogni
tentativo di racchiudere l’Assoluto, come ad esempio la parola del
racconto mitico. Nel testo biblico il mito non è, però, bandito totalmente,
come poi avverrà ad illuminismo compiuto; l’Antico Testamento
è ancora Erklären, cioè narrazione che spiega l’agire divino
nei termini di una umana comprensibilità. Tuttavia dall’Erklären biblico
viene espulsa la componente magica, di contaminazione mimetica
tra finito e infinito. È questa la sostanziale differenza tra i miti
delle religioni politeiste dai molti dei antropomorfi, “simbolici”, e la
mitologia biblica “non simbolica”. L’anima del simbolico, cioè la capacità
mimetica della parola che evoca i cicli naturali, è completamente
espulsa dal Genesi ( 8 ): la mitologia biblica non è simbolica
perché Jahvè non è più un dio del “mito”, un demone naturale, ma
è dio della storia e della civiltà disincantata, opposto, altro rispetto
alla natura ( 9 ).
Questa “a-naturalità” di Jahvè comporta il superamento dell’orizzonte
magico entro cui ancora si collocano i culti politeisti. Magia è
per Adorno e Horkheimer essenzialmente “mimesi”, assimilazione
primitiva dell’Io alla Natura. Il rifiuto ebraico della magia è la negazione
illuministica di ogni confusione di Soggetto e Oggetto. Lo
stregone che si mimetizza agli dei demoni, alle potenze naturali, nel
tentativo di placarne le ire, sparisce nella religione ebraica, perché
Jahvè è dio ab-solutus, l’Altro trascendente che pone un ferreo tabù
su ogni forma di incantesimo, primo fra tutti quello del nome: il dio
giudaico non ha nome, Jahvé è “colui che è”, non racchiudibile da
parola umana, né soggiogabile da alcun incantesimo.
Se nella civiltà ebraica Adorno e Horkheimer vedono, quindi,
l’alba dell’illuminismo, dall’altra parte l’ultimo capitolo della Dialettica
mostra il ribaltamento che rende questo popolo vittima par
excellence della ragione in continuo progresso, con l’antisemitismo,
la cui chiave interpretativa risiede nel distorto rapporto che la civiltà
illuminata ha con l’alterità. La società contemporanea è fondata su
una nuova e più potente mitologia rispetto alle epoche antiche: il
mito del “sempre uguale”, dell’omologazione quantificante ed incurante
del qualitativamente diverso. In questo tipo di società l’ebreo
( 8 ) DI, cit., p. 25.
( 9 ) Laddove il racconto biblico della creazione testimonia il progressivo distacco
Io - Natura, il mito simbolico, come quello greco del ratto di Persefone, portato
dai due autori, simboleggia l’adesione della parola alla natura, trasfigurando in
forma letteraria l’alternanza stagionale. Ivi, p. 35.
349

350
RAFFAELA STRINA
che è considerato “l’altro”, va eliminato perché la sua stessa esistenza
mette in pericolo il sistema di dominio e autodominio, consolidato
dopo secoli di repressione.
Quali i motivi di tale diversità? Come Adorno spiega in una sua
lettera ad Horkheimer del 1940 ( 10 ), agli occhi dei “civili” il primo
fattore di diversità e movente di ostilità è l’utopia, incarnata dagli
ebrei, di una comunità senza stato. La storia ebraica di migrazione,
dalla ricerca perenne della Terra Promessa sino all’esilio successivo
alla diaspora, le professioni tradizionalmente svolte dagli ebrei, pastori
o commercianti, ma sempre migratori, rendono questo popolo
un contestatore implicito del principio di stanzialità,“uno dei più
grandi sacrifici che la storia ha inflitto all’umanità” ( 11 ), demarcante
il passaggio dalla libera comunità senza classi all’organismo statale
gerarchizzante. Gli ebrei, primi illuministi, hanno voluto prolungare
la loro permanenza nell’Eden, non piegandosi mai al principio fondante
della civiltà, e perciò sono popolo “incivile”, fruitore d’illecita
felicità ( 12 ), invidiati e temuti. Rappresentano una minaccia perché
mettono in crisi l’impianto statale: le tante persecuzioni subite, il
loro atavico migrare, la dispersione e l’inserimento nei diversi contesti
nazionali, non hanno distrutto l’autoconsapevolezza di essere comunità,
con una propria storia, tradizioni, una comune fede. Non
rinunciando alle loro radici, sconvolgono i parametri di cittadinanza
degli stati nazionali, che proprio nella prima metà del XX secolo con
le ideologie nazionaliste mostrano l’incapacità di cementare i cittadini.
Per dirla con un’espressione hegeliana, gli ebrei rappresentano la
“negazione determinata” rispetto al “sistema” stato, l’utopia di essere
contemporaneamente parte di un popolo e cittadini del mondo.
La storia ebraica è però il luogo del non-luogo utopico anche per
un altro fattore: il benessere economico senza sottomissione al siste-
( 10 ) Lettera di Adorno a Horkheimer, 18 settembre 1940, in TH. W. ADORNO,
M. HORKHEIMER, Briefe und Briefwechsel, 1927-1962, Band 4. II: 1938-1944,
Frankfurt am Main Suhrkamp, 2004, pp. 98-103, tr. it. in R. WIGGERSHAUS, Die
Frankfurter Schule. Geschichte. Theoretische Entwicklung. Politische Bedeutung.
1986, Carl Hanser Verlag, München, Wien. Ed. it. La scuola di Francoforte: Storia.
Sviluppo teorico. Significato politico, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, p. 287.
( 11 ) Ivi.
( 12 ) Graves e Patai nel loro saggio sulla mitologia ebraica confermano la teoria
dell’invidia e del risentimento dei sedentari civili verso i popoli nomadi, reinterpretando
il racconto biblico del fratricidio commesso da Caino agricoltore a spese
di Abele pastore proprio come esemplificazione di tale rivalità. (R. GRAVES e R.
PATAI, Hebrew Myths. The Book of Genesis. 1963. Ed. it. I miti ebraici, Milano,
Longanesi, 1983, nota 6, p. 97; nota 2, p. 116).

Dialettica dell’illuminismo e teologia negativa
ma di sfruttamento, ovvero il mito dell’ebreo “parassita”, che, stratificato
nelle pieghe della cultura occidentale, risuonerà nelle pagine
del Mein Kampf. In una condizione economico-sociale di forte disparità,
come quella che caratterizza la storia moderna europea, gli
ebrei, esclusi dal possesso del grande capitale e perciò “rinchiusi”
nell’ambito dell’intermediazione finanziaria e commerciale, son stati
incolpati, in quanto anello più esposto della catena, delle contraddizioni
del sistema liberale, il quale era venuto meno alla promessa di
una felicità per tutti senza potere, avendo mantenuto un sistema di
classi, gerarchico. L’ebreo, che gode del benessere prodotto dal sistema
senza essere impigliato nella sua ragnatela, usufruisce di quella
felicità, di cui occorre cancellare ogni ricordo, perché riconduce ancora
una volta a stadi pre-civili, semi-naturali. Così la ricchezza del
mercante o del banchiere ebreo, identificato completamente con la
sua attività speculativa, suscita rabbia e invidia nei “mutilati” del dominio
( 13 ), rappresentandone il sogno inconscio.
La figura dell’ebreo diventa, dunque, paradigmatica proprio per
questo suo “incivilimento” a metà, che lo pone “in un rapporto instabile
con l’ordine dominante” ( 14 ), perché assume la funzione di
rammemorare la Natura oppressa, mai totalmente estirpata, come le
sirene nel mito omerico. In ciò gli ebrei sono avvicinati, non solo
nella Dialettica, ma in diversi altri scritti, a figure di sottomissione
ed estraneità: gli amanti, i pazzi, le donne.
L’accostamento ebrei-pazzi ritorna diverse volte negli scritti di
Horkheimer. In una lettera del ’41, il filosofo riconduce la percezione
dell’ebreo all’atteggiamento nei confronti dei malati mentali,
tema ripreso successivamente in Vernunft und Selsterhaltung ( 15 ). La
“pazzia” giudaica è quella “ridicola” e fastidiosa fede nell’unico Dio
inafferrabile che li ha sempre abbandonati, una teologia negativa
che, ponendo un limite al dominio umano, relativizza il sistema di
autoconservazione. Gli ebrei non possono credere in alcun assoluto
che non sia il loro Dio, il resto è relativo, caduco, e questo riconoscersi
nella propria storia di persecuzione è sprovvedutezza ambigua
e pericolosa.
( 13 ) DI, cit., p. 186.
( 14 ) DI, cit., p. 183.
( 15 ) Cfr. lettera di Horkheimer ad Adorno, 28 agosto 1941, TH. W. ADORNO,
M. HORKHEIMER, Briefe und Briefwechsel, 1927-1962, cit., pp. 206-218; tr. it. in
R. WIGGERSHAUS, La scuola di Francoforte, cit., p. 319; M. HORKHEIMER, Vernunft
und Selbsterhaltung, Frankfurt am Main, Fischer Verlag, 1970. Ed. it. Ragione e
autoconservazione, in Filosofia e teoria critica, Torino, Einaudi, 2003, p. 113.
351

352
RAFFAELA STRINA
Gli ebrei, come i pazzi, si pongono al di fuori della società, dei
suoi meccanismi coercitivi, perciò vanno ricondotti alla ragione
strumentale, al principio identificante ( 16 ). Strumento di questa forzata
inclusione nel sistema è, anche qui, come già nella lettera ad
Adorno, il dolore ( 17 ): la nuda sofferenza fisica, “archetipo” e “strumento”
del lavoro della società borghese, inflitta con furore dall’Inquisizione
sino agli odierni capi delle S.S., diventa nelle mani dei sistemi
totalitari il mezzo a cui ricorrere contro chi non si lascia omologare,
siano essi politici, ebrei, asociali, malati di mente. Il dolore
livella; nei lager una vita vale l’altra perché tutte sono ridotte a niente,
e gli ebrei nei campi di sterminio diventano solo “numeri” nel
piano di distruzione nazista.
Verso la fine di Ragione autoconservazione Horkheimer paragona
la condizione degli ebrei ancora ad un’altra figura estranea al dominio:
gli amanti che, emblematicamente rappresentati da Romeo e
Giulietta, sono l’opposto irriducibile rispetto alla ragione strumentale,
indifferenti al principio di autoconservazione. Questo non ha per
l’amante alcun significato, poiché ciò che conta è solo “l’altro,”
l’amato, a cui totalmente si dona nell’appuntamento illecito. Il suo
tenero abbandono rivendica uno spazio di libertà individuale che
sottrae tempo ed energie al mantenimento del “sistema”. Romeo e
Giulietta sono, dunque, “martiri” dell’illuminismo, in quanto negatori
del principio del dominio, perché decidono di morire nel corpo
per non morire nello spirito, nella loro libertà ed individualità. Allo
stesso modo gli ebrei, fedeli al loro Dio pur nel tormento come gli
innamorati al proprio sentimento, si pongono al di fuori dalla sfera
del dominio osando “sfidarlo” ( 18 ).
In Dialettica dell’illuminismo la figura di sottomissione rammemoratrice
della Natura, accostata al popolo giudaico, è quella della
donna, altra vittima dell’illuminismo, come emerge dalla lettura dell’opera
del Marchese de Sade ( 19 ). L’antisemitismo nazista è vicino al
sadismo: i bersagli di queste due forme di violenza, la donna e gli
ebrei, incarnano in modo diverso il richiamo della Natura, al cui
ascolto l’uomo incivilito, erede di Odisseo, si fa sordo.
( 16 ) Ivi, p. 116.
( 17 ) Ivi.
( 18 ) “Gli amanti non preservano e non proteggono né se stessi né la collettività.
(…) Romeo e Giulietta morirono contro la società per ciò che la società stessa
dichiarava. (…) Chi in Germania attenta alla purezza della razza è fedele a essi”.
(Ivi, cit., p. 113).
( 19 ) DI, cit., pp. 87-125.

Dialettica dell’illuminismo e teologia negativa
La donna è volto della Natura, innanzitutto perché richiamo al
piacere, il quale, secondo i due filosofi, paradossalmente è frutto dell’illuminismo.
Allo stadio di natura esiste solo il libero soddisfacimento
delle pulsioni, che, incanalato entro una fitta rete di tabù, viene
negato dalla civiltà, come pericolosa tentazione di fusione e smarrimento
preistorico nella natura. Questa però trova il modo di esercitare
la sua ironica vendetta, opponendo al dominio il principio del
piacere che, dall’obbligo del lavoro, dell’attaccamento ad una funzione
sociale determinata, catapulta l’uomo alla preistoria senza autorità
e disciplina ( 20 ). Il sadismo è un meccanismo di difesa contro questo
potenziale “anarchico” insito nel piacere sessuale, il cui “incantesimo“
è neutralizzato nel momento in cui la violenza, la sottomissione,
l’atto meccanizzato, lo riconducono alla logica strumentale.
Ma la “naturalità” della donna deriva anche dalla sua subordinazione
alla violenza maschile. Come altre categorie di “offesi” dalla civiltà
(gli ebrei, gli indigeni nelle colonie), le donne permangono in
vita, laddove il civilizzato avrebbe potuto da tempo annientarle ( 21 ).
L’ansia distruttiva del sadico, tanto contro la donna, quanto contro
l’ebreo, nasce proprio dal tabù stoico su ogni forma di espressione di
dolore: l’Io formatosi nell’indurimento, impassibile, nel vedere soffrire
le vittime delle sue torture può dar sfogo indirettamente alla
propria impotenza, nel loro urlo vi è il suo silenzioso urlo.
Nell’analisi multiprospettica che Adorno e Horkheimer in quegli
anni propongono dell’antisemitismo, il baricentro si sposta dall’uno
all’altro degli opposti dialettici, dall’ebreo alla civiltà. Vero problema
non è, infatti, la “diversità” dell’ebreo, ma l’incapacità della civiltà,
completamente avviluppata nel mito dell’universale e dell’uguale, di
fare i conti con il diverso ( 22 ). Tale incapacità è conseguenza del regresso
della ragione, la cui forma violenta, prima ancora di manifestarsi
fisicamente nello sterminio o nella tortura, si palesa nella forma
353
( 20 )I due filosofi condividono con Bachofen l’idea della civilizzazione come
passaggio dallo stadio matricentrico-naturale a quello patricentrico-civile. La conoscenza
di Bachofen da parte dei due francofortesi ci è testimoniata da una lettera
di Horkheimer a Marcuse, 14 ottobre 1941, in R. WIGGERHAUS, La scuola di
Francoforte, cit., p. 332. Cfr. J.J. BACHOFEN, Das Muterrecht, Stuttgart 1861. Ed.
it. Il matriarcato. Ricerca sulla ginecocrazia del mondo antico nei suoi aspetti religiosi
e giuridici, Torino, Einaudi, 1988.
( 21 ) Ivi, cit. pp. 117-118.
( 22 ) L’attenzione è centrata non sull’ebreo, ma sull’antisemita, non sul discriminato,
ma sul razzista. Adorno e Horkheimer non parleranno mai di “questione
antisemita”, ma invece di “questione della civiltà”, di cui l’antisemitismo è uno
dei volti più spaventosi.

354
RAFFAELA STRINA
mentale di un pensiero che, non ammettendo alcunché di estraneo,
possiede ed annette ciò che è diverso da sé, in un duplice movimento
dall’interno all’esterno e viceversa. Si tratta dei due meccanismi,
acutamente analizzati dagli autori, di “proiezione paranoica” (il Sé si
proietta al di fuori riflettendosi in tutto ciò che esiste) e di “cattiva
mimesi” (il Sé anziché ricercare un rapporto di affinità con l’altro,
mimetizza l’altro a sé, distruggendolo nella sua specificità).
Il problema dell’antisemitismo ci costringe, quindi, a spostarci
dal piano storico e politico al piano costitutivamente gnoseologicoontologico
dell’illuminismo, il quale nei suoi vari stadi, dalle prime
mitologie al positivismo del pensiero contemporaneo, cerca di espellere
tutto ciò che riconduce l’uomo alla primitiva confusione con la
Natura. Sia dal punto di vista ontologico che gnoseologico, l’illuminismo
concepisce la realtà dicotomicamente: da una parte vi è il
Soggetto-Spirito e dall’altra l’Oggetto-Natura. Ogni relazione, ogni
azione, ogni pensiero deve essere incanalato all’interno di questo sistema
duale e subordinativo, riservando al Soggetto il ruolo di unico
protagonista: è l’Io, lo spirito ordinatore, ad avere sia primato ontologico,
che gnoseologico, in quanto unico datore di senso. Per mantenere
questo sistema è necessario porre un ferreo tabù su ogni forma
di ritorno alla Natura. È qui che scattano i “meccanismi di difesa”
della civiltà, con cui gli impulsi mimetici, che spingono in modo
naturale all’assimilazione, all’imitazione della natura, sono repressi.
Al cuore delle argomentazioni di Adorno e Horkheimer vi è il concetto
di mimesi, componente centrale nel determinare i comportamenti,
sia a livello individuale (come è evidente nel bambino che acquisisce
il proprio modo di rapportarsi al mondo attraverso l’imitazione)
( 23 ), sia a livello di specie (come è evidente nelle prime fasi di
vita dell’umanità in cui il rapporto uomo-natura è essenzialmente
magico-mimetico). Mimesi è intesa come “oggettivazione del soggetto”,
il quale si adegua, si perde nell’altro-da-sé, rinunciando alla
propria autonomia, in vista dell’autoconservazione.
Ma proprio questa disposizione naturale che plasma il carattere di
individui e società viene storicamente repressa: il bambino la incanala
all’interno di forme di imitazione consapevole e di apprendimento
razionale, volte ad uno scopo preciso ( 24 ), mentre a livello sociale si
assiste all’inversione del mimetico nel netto distacco soggetto-oggetto
e nella conseguente contraria “soggettivazione dell’oggetto”. La
mimesi viene prima incanalata nel rituale magico codificato, poi so-
( 23 ) Cfr. M. HORKHEIMER, Eclissi della ragione, cit., pp. 139-140.
( 24 ) Ivi, p. 140.

Dialettica dell’illuminismo e teologia negativa
stituita dalla prassi del lavoro, attraverso cui l’oggetto cade completamente
sotto il potere manipolatorio del soggetto e perciò spogliato
del suo essere-in-sé e ridotto a mezzo-per-altro. La prassi del lavoro
sostituisce all’impulso incontrollato che s’impossessa dell’uomo, il
gesto efficiente, veloce, automatico, corrispettivo manuale del pensiero
identificante ( 25 ) che prende possesso della realtà: è questa la
cattiva mimesi. Quest’inversione, secondo il decorso dialettico dell’illuminismo,
si rivolge, infine, contro il soggetto stesso, alienato e
adeguato al freddo ritmo delle macchine.
L’uomo moderno incapace di prendere coscienza di tale ritorno
distorto della mimesi, riesce a coglierla solo in quei tratti colpiti da
tabù, ancora presenti nei suoi “avanzi isolati”, nei suoi “relitti vergognosi”,
non completamente adeguati. Gesti esprimenti emozioni immediate,
“inattuali” (come l’agitarsi, il commuoversi, la minaccia e
la lusinga, la preghiera), sono i sintomi scandalosi del ritorno primitivo
alla natura inerte. Negli zingari, nel mercante ebreo, nella debolezza
di chi si commuove e piange, si intravedono l’abbandono del
Sé, la schopenhaueriana fuoriuscita dal principium individuationis,
che il figlio della civiltà si è dovuto negare ( 26 ). Qui scatta la reazione
idiosincratica contro quegli “incivili” che si lasciano allettare dalla
promessa di piacere insita nell’abbandono alla Natura, e così mettono
in gioco la salvaguardia propria e del sistema.
L’antisemitismo è una delle forme di questa idiosincrasia verso
ogni forma di fusione con la Natura, intolleranza “allergica” che si
rivela però essa stessa mimesi, in quanto “idiosincrasia razionalizzata”
che permette di cedere al mimetico senza violare apertamente il
tabù che su di esso vige. I nazisti che odiano l’ebreo imitano con
sarcasmo ciò che per loro è “ebreo”: la funzione mimetica è così accettata
e malignamente assaporata a patto di essere palesemente, anche
se solo in apparenza, disprezzata ( 27 ). Da qui deriva l’incredibile
potenziale demagogico della campagna antisemita nazionalsocialista,
che fa del fascismo la “sintesi satanica di ragione e natura”, all’oppo-
355
( 25 ) DI, cit., p. 195.
( 26 ) “Ciò che ripugna come estraneo è fin troppo familiare. È la gesticolazione
contagiosa dell’immediatezza repressa e soffocata dalla civiltà (…). Ma la mimica
indisciplinata è il marchio dell’antica soggezione, impresso nella sostanza vivente
dei dominati e trasmesso per generazioni, grazie a un inconscio processo d’imitazione
attraverso ogni infanzia, dal rigattiere ebreo al grande banchiere. Quella mimica
suscita furore, poiché ostenta, nei nuovi rapporti di produzione, l’antica paura,
che si è dovuta dimenticare per vivere in essi”. (Ivi, p. 196)
( 27 ) Ivi, p. 199.

356
RAFFAELA STRINA
sto della “riconciliazione dei due principi opposti”, da sempre agognata
dalla filosofia ( 28 ). L’antisemitismo, in quanto mimesi atrofizzata
della mimesi, è uno “schema rituale della civiltà”, che fa degli ebrei
“l’altra razza”, da eliminare.
Questo meccanismo ha bisogno degli ebrei. La loro visibilità artificialmente
potenziata opera sul figlio legittimo della civiltà pagana come un campo
magnetico. (…) Così gli impulsi vietati, incompatibili col lavoro nel suo
ordinamento attuale, vengono tradotti in idiosincrasie conformistiche.
(…) Poco importa che gli ebrei come individui abbiano davvero ancora
quei tratti mimetici che provocano il contagio maligno, o che essi vengano
supposti arbitrariamente ( 29 ).
Quella della civiltà antisemita, che sotto l’apparente persecuzione si
identifica all’ebreo, è una mimesi cattiva sotto due aspetti. In primo
luogo è soggettivazione dell’oggetto, negato nella sua individualità: i
nazisti non odiano né imitano celatamente l’ebreo ma ciò che per essi è
ebreo, cioè natura, oggetto manipolato ed asservito, astraendo dal suo
essere prima di tutto “persona” ( 30 ). In secondo luogo si tratta di una
cattiva mimesi perché il ritorno alla natura non si attua all’insegna della
conciliazione, ma della distruzione. Vera mimesi sarebbe momento di
apertura all’oggetto, compenetrazione riconciliante di Natura e Spirito,
compimento del vero illuminismo. Al contrario la sua falsa versione
s’illude di poter eliminare la tensione dialettica tra i due poli semplicemente
eliminandone uno. Gli ebrei vanno annientati, non c’è possibilità
di un’apertura al loro essere diversi, un tentativo di comprensione
riflettente che implicherebbe anche il proprio mettersi in gioco.
Al vortice centripeto della cattiva mimesi, fa da contraltare il
moto centrifugo espansivo della falsa proiezione: il centro è ancora e
sempre il Sé, che anziché assimilare l’ambiente ai propri schemi si
dilata e proietta nella realtà, investendola completamente in ogni
aspetto, rendendola suo specchio.
“Proiezione” è termine di matrice freudiana ( 31 ), come gli stessi
( 28 ) Cfr. M. HORKHEIMER, Eclissi della ragione, cit., p. 149.
( 29 ) DI, cit., pp. 199-200.
( 30 ) “Quelli che hanno diffuso l’individualismo, il diritto astratto, il concetto
di persona, sono ora degradati a species (…) tornano a chiamarsi «l’ebreo», senza
altre distinzioni.” (DI, cit., pp. 189-190).
( 31 ) Cfr. S. FREUD, Psychoanalytische Bemerkungen über einen autobiographisch
beschriebenen Fall von Paranoia (1910), ed. it. Il presidente Schreber. Osservazioni
psicoanalitiche su un caso di paranoia (dementia paranoides) descritto autobiografica-

Dialettica dell’illuminismo e teologia negativa
autori riconoscono esplicitamente ( 32 ). Da questa radice essi ricavano
il concetto di proiezione paranoica come patologia dell’individuo
che “scarica” all’esterno gli istinti insopportabili all’interno, perché
rendendoseli estranei può annullarli, colpendoli negli altri. Tuttavia
il concetto di proiezione nei due francofortesi si amplia, passando
dal piano individuale alla patologia di massa.
Come per la mimesi anche qui Adorno e Horkheimer tornano indietro
agli albori dell’umanità, alla preistoria biologica animale in
cui la percezione degli oggetti è legata all’immediato proiettare su di
essi esperienze passate, per meglio orientarsi “ai fini della difesa e del
pasto” ( 33 ). Tale meccanismo diventa processo automatico, riflesso
istantaneo che costituisce il mondo oggettivo, non esistente nell’immediato
percepito, ma frutto dell’ordinamento della marea caotica
ed insensata dei “punti percettivi”. La proiezione, che ad un primo
livello si sviluppa immediata e spontanea, conosce nel corso della civiltà
un processo di affinamento, divenendo mediata e riflessa: il
rapporto tra dato percepito ed elementi proiettati non viene più direttamente
ed inconsciamente esperito, ma “pensato”, portando a
piena consapevolezza il reciproco riflettersi di soggettivo ed oggettivo
nella loro irriducibile eterogeneità. Se la mera sensibilità ci offre
un quadro frammentario e disordinato del mondo, spetta al soggetto
“creare il mondo fuori di sé in base alle tracce che esso lascia nei suoi
sensi” ( 34 ), colmando l’abisso tra interno ed esterno “a proprio rischio
e pericolo” ( 35 ). In tal modo l’uomo non solo costituisce l’universo
degli oggetti, ma si autocostituisce contemporaneamente come
Sé: proprio la “varietà e ricchezza di sfumature” del mondo che è
percepito come “esteriore” dà all’Io la consapevolezza della sua unità
ed identità, pur nel variare delle situazioni.
Fin qui la proiezione, intesa come attività riflessiva del pensiero
sulla reciprocità di soggetto ed oggetto, cioè come “proiezione consapevole”,
non comporta la reductio ad hominem dell’esistente. Il corso
dell’illuminismo l’ha però trasformata in “falsa proiezione”, cioè “pa-
357
mente, in S. FREUD, Ossessione Paranoia Perversione, Torino, Bollati Boringhieri
editore, 1997; S. FREUD, Über einige neurotische Mechanismen bei Eifersucht, Paranoia
und Homosexualität (1921), ed. it. Alcuni meccanismi nevrotici nella gelosia,
paranoia e omosessualità, in S. FREUD, Ossessione Paranoia Perversione, cit.
( 32 ) DI, cit., pp. 206-207.
( 33 ) Ivi., cit., p. 202.
( 34 ) Ivi, cit., p. 203.
( 35 ) Ivi.

358
RAFFAELA STRINA
ranoia”, con cui l’Io si dilata sino ad investire completamente il mondo.
Anziché costituirsi nella reciproca compenetrazione e nel dialogo
con l’oggetto, il soggetto “non è più in grado di restituire all’oggetto
ciò che ha ricevuto da esso” ( 36 ), e con ciò cessa di riflettere anche su
di sé, s’impoverisce. L’Io paranoico che attribuisce all’esterno ciò che
gli è interno “dilaga”, espandendosi fino a rendere il mondo una sua
proiezione, e al contempo “si atrofizza” perché ciò che proietta nel
mondo è un Io vuoto. Se ogni pensiero è giudizio che pretende di dire
qualcosa della realtà, il paranoide fissa ed assolutizza tale giudizio, che
finisce per non penetrare l’oggetto. Vera proiezione sarebbe riflessione
mediatrice, che “dialoga” e si apre all’altro-da-sé; quella falsa è chiusura
al mondo, impoverimento, estraniazione, infine sclerosi. La paranoia
della civiltà è riduzione della verità a mera proiezione soggettiva e
l’unica “medicina” è la riflessione, quel “lavoro autoconsapevole del
pensiero” ( 37 ) in grado di spezzare la fissità del giudizio particolare.
La riflessione sembra ormai sparita dall’orizzonte della civiltà, solcata
dalla profonda scissione tra soggetto e oggetto.L’Io paranoico è
l’individuo malato, che intraprende il distorto tentativo di una ricomposizione
mediante l’eliminazione dell’altro. Col fascismo questo Io
subisce un processo di massificazione, strumentalizzato politicamente.
Il prevalere delle fantasie soggettive nel singolo paranoico trova eco
nella collettività, di modo che esse acquisiscono l’oggettività di un
dato ( 38 ). I seguaci di Hitler, non riuscendo a reprimere i propri istinti
aggressivi, li proiettano sugli ebrei, trovando conferma in ciò nella paranoia
altrui. Diversamente dalla paranoia individuale in cui gli impulsi
sono proiettati sulla vittima potenziale secondo le “leggi della sua
malattia”, col fascismo l’oggetto proiettivo è determinato dall’opportunità
politica, secondo criteri “pratici” ( 39 ). Non conta qui tanto chi
siano gli ebrei, ma il processo proiettivo che li carica di valenze molteplici,
acuendone strumentalmente la “diversità” in vista del consenso
garante del potere. Uomini felici che non hanno dovuto “sporcarsi” le
mani nella politica e scendere a compromessi col dominio; “parassiti”
che non lavorano, non producono, e diventano ricchi sulla fatica altrui;
popolo senza stato che ha eletto il mondo intero a propria patria;
credenti in una religione che non ricade nella mitica immanenza dell’adorazione
del finito: gli ebrei rappresentano la segreta ed irraggiun-
( 36 ) Ivi, cit., p. 204.
( 37 ) DI, cit., p. 208.
( 38 ) Ivi, p. 212.
( 39 ) Ivi, cit., p. 201.

Dialettica dell’illuminismo e teologia negativa
gibile aspirazione dei dominati. Ma la morbosa proiezione antisemita
acquista un tratto peculiare rispetto alla semplice paranoia individuale
perché, nella distruzione dell’oggetto del proprio odio, gli antisemiti
paradossalmente arrivano a “possederlo”, ad “unirsi” all’ebreo ( 40 ): l’Io
nel distruggere il Tu ne fa una “cosa” che gli appartiene, in quanto ne
decide vita o morte. L’unione all’ebreo permette di soddisfare il desiderio
di “essere come l’ebreo”, proprio nel momento in cui ne è ancita
la morte.
* * *
Le due dialettiche, quella della civiltà e quella del popolo ebraico,
che corrono parallele lungo il filo della storia intrecciandosi sino all’esito
del genocidio, si possono definire concluse nella loro irrazionalità,
o vi è una speranza in una fuoriuscita da un progresso che sembra
condurre al baratro? Dialettica dell’illuminismo è stata contestata per
l’estremismo della sua prospettiva apocalittica, come se costituisse il
testamento di una civiltà ormai dissolventesi per propria mano. In
realtà Adorno e Horkheimer ci affidano oltre al messaggio critico, alla
pars destruens del loro discorso, anche l’esigenza di un’alternativa alla
logica strumentale. Proprio nelle parti dedicate all’antisemitismo ed al
meccanismo proiettivo quest’alternativa si scandisce nei due concetti
chiave di riflessione e conciliazione, la cui analisi ci riconduce alla tesi
iniziale di un’affinità tra teologia negativa di derivazione ebraica e
l’ideale di un pieno illuminismo al di là della sfera del dominio.
La patologia della civiltà, di cui è sintomo l’antisemitismo, è la ricaduta
nella mitologia del “sempre uguale”, nella coazione a ripetere,
che esclude ogni forma di relazione con la diversità. Adorno e
Horkheimer scrivono diverse volte che l’illuminismo è totalitario
proprio perché soffoca l’eterogeneo, lo straniero, il non adeguato.
L’unica via d’uscita da questa dittatura risiede nella riflessione avente
“luogo nel soggetto, che ha il mondo esterno nella propria co-
( 40 ) Il livello analitico si amplia rispetto a Freud: dal singolo paranoico, incapace
di dominare l’Es alla paranoia di massa, meccanismo di difesa del sistema,
che sceglie la propria vittima secondo la logica strumentale. “A prescindere da ciò
che gli ebrei possono essere in se stessi, la loro immagine (…) presenta tratti a cui
il dominio divenuto totalitario non può non essere mortalmente ostile: felicità
senza potere, compenso senza lavoro, patria senza confini, religione senza mito.
Questi tratti sono vietati dal dominio, poiché i dominati aspirano segretamente ad
essi. E quello può sussistere solo finché i dominati fanno, di ciò che bramano,
l’oggetto del loro odio. È ciò che permette loro la proiezione morbosa, poiché anche
l’odio porta all’unione con l’oggetto – nella distruzione”. (DI., cit., p. 214).
359

360
RAFFAELA STRINA
scienza e tuttavia lo riconosce come altro” ( 41 ). È quest’atto di riflettere
che consente all’uomo di fare i conti con l’alterità, di prendere
coscienza del proprio essere delimitato e con ciò anche determinato
dall’Oggetto. Io e Mondo si presuppongono vicendevolmente e,
anzi, la loro eterogeneità ne costituisce la correlazione: il Soggetto è
compenetrato dall’Oggetto, in quanto solo a partire da esso si autocostituisce
come Io che si relaziona al Mondo; l’Oggetto d’altra parte
è compenetrato dal Soggetto perché senza di esso rimarrebbe Natura
inerte ed indistinta, pura materia. Riflessione è mediazione tra
“il dato di per sé nullo dei sensi” e il “pensiero”: il primo spinge l’attività
produttiva del soggetto a dotarlo di senso; il secondo “si affida
senza riserve all’impressione che lo travolge” ( 42 ). Quest’ultima affermazione
è molto importante: nell’atto della riflessione il pensiero
deve avere il coraggio di rinunciare ai rassicuranti schemi concettuali
entro cui ingabbia la realtà, per lasciarsi travolgere dal dato, in un
rapporto che è di mimesi riflessa.
Il pensiero mediatore si costituisce, dunque, non solo come proiezione
consapevole ma anche come mimesi consapevole. Wulf ( 43 ) ha
messo acutamente in evidenza la distinzione tra mimesis e mimetismo.
Quest’ultimo è “assimilazione dell’uomo all’inorganico”, propria
anche di animali e piante, quale “primo seppure insufficiente
mezzo di autoconservazione” ( 44 ). La mimesis della natura subentra
in un secondo momento, quando l’essere umano impara a guidare
consciamente il mimetismo, in modo che l’adattamento sia una ricerca
di affinità, di somiglianza, che getti “un ponte dal soggetto
verso l’esterno” ( 45 ) in modo da ricucirne la spaccatura: “movimento,
che fuoriesce dal soggetto in direzione del mondo (…) un porsi al di
fuori di sé della ragione, un depotenziamento del soggetto” ( 46 ). La
mimesis riflessa media tra i poli dialettici, non annullandoli, ma fuoriuscendo
dalla razionalità strumentale ed identificante per ricercare
una “vicinanza sensibile”, “l’espressione immediata” dell’Altro ( 47 ).
( 41 ) Ivi, cit., p. 204.
( 42 ) Ivi.
( 43 ) C. WULF, Il ritorno della mimesis, in «Nuova corrente» XLV, 1998, pp. 115-
172.
( 44 ) Ivi, p. 156.
( 45 ) Ivi, p. 161.
( 46 ) Ivi, pp. 163-164.
( 47 ) Ivi, p. 161.

Dialettica dell’illuminismo e teologia negativa
Oltre alla consapevolezza della mimesi-proiezione, la riflessione
contiene anche un altro elemento: l’autodelimitazione della soggettività
che Adorno e Horkheimer riconducono alla negazione determinata
di matrice hegeliana. In Hegel essa rappresentava l’atteggiamento
che la ragione, superando l’intelletto, doveva mantenere nei
confronti del finito. Oggetto di negazione è l’atteggiamento intellettuale
che pretende di comprendere la realtà fermandosi al finito,
semplice momento dell’Assoluto. Coglimento della totalità è superamento
di tale parzialità che deve essere ricondotta all’Intiero, al movimento
dello Spirito. Pur nella loro “idiosincrasia” al Tutto, Adorno
e Horkheimer accolgono da Hegel l’idea di un’autonegazione del
pensiero, non assoluta (ciò condurrebbe ad un nichilismo che i due
filosofi rifiutano) ( 48 ) ma appunto determinata, cioè volta ad una
propria de-assolutizzazione:
361
La negazione determinata respinge le rappresentazioni imperfette dell’assoluto,
gli idoli (…). La dialettica rivela piuttosto ogni immagine come scrittura,
e insegna a leggere nei suoi caratteri l’ammissione della sua falsità, che
la priva del suo potere e lo appropria alla verità ( 49 ).
La riflessione mediatrice come riconoscimento dell’Altro ed autolimitazione
dell’Io, è l’esplicazione del principio della negazione determinata,
in quanto “nega” l’idolo di una soggettività scatenata che si
pone quale assoluto, mostrandone la falsità. Tale relativizzazione mette
in crisi il sistema di dominio, perché il riconoscimento che ad esso
sfugge qualcosa ne confuta l’autarchia e totalità: l’Io non è l’Assoluto
che costituisce e domina il Non-io, vi è “qualcosa” che gli sfugge e a
cui è chiamato ad aprirsi, con cui deve relazionarsi, se davvero vuol
fuoriuscire dalla mitologia e avviarsi ad un vero illuminismo.
L’ideale di questa apertura avviata dal pensiero riflettente è la
conciliazione, termine che ritorna insistentemente non solo in Dialettica
dell’illuminismo. Conciliazione è “dialogo” tra uomo e natura
nel pensiero, che mira allo smantellamento dell’impalcatura sopraffattoria
di un Soggetto padrone ed al riconoscimento dell’Altro (Natura,
Mondo, Tu) nel suo essere per sé, non sussumibile agli scopi
umani. Non c’è un Io che soggioga la Natura, non c’è una Natura
che soggioga l’Io ma vi è il reciproco relazionarsi, il mediarsi tra distanza
e affinità, tra differenza e compenetrazione.
( 48 ) Cfr. DI, cit., p. 31.
( 49 ) DI., cit., p. 32.

362
RAFFAELA STRINA
Riflessione e conciliazione sono, dunque, i due termini chiave entro
cui è scandita l’alternativa alla patologia della civiltà, termini che
rimandano al profondo sostrato teologico dell’ebraismo ( 50 ). La teologia
negativa ebraica come riconoscimento dell’assoluta alterità del
divino e conseguente divieto delle immagini e di ogni forma di idolatria
si traspone sul piano filosofico come rifiuto di assolutizzare la
ratio. Proprio per questo gli ebrei dovevano apparire i nemici più temibili
che l’apparato di dominio doveva assolutamente eliminare, in
quanto il principio della negazione determinata insito nella loro religione
risvegliava in loro la riflessione critica impedendo l’identificazione
col dominio. Ciò è espresso chiaramente da Horkheimer nella
conclusione del saggio Die Juden und Europa:
Gli ebrei una volta sono stati fieri di un astratto monoteismo, del rifiuto
nella fede delle immagini, del rifiuto di rendere il finito infinito. La loro
miseria li rimanda oggi di nuovo a ciò. La mancanza di rispetto per un esistente
che si proclama Dio è la religione di coloro che nell’Europa del tallone
di ferro non si stancano di impegnare la loro vita nella preparazione
del meglio ( 51 ).
L’invito al pensiero riflettente, alla capacità critica, alla negazione
determinata è, dunque, l’invito ad ereditare dall’ebraismo la diffidenza
verso l’esistente che vuole divinizzarsi, imparando a convivere
con la nostra finitezza e relatività, senza illusoriamente tentare di superarla.
Tale riconoscimento mette in gioco la soggettività, la pone in
relazione e con ciò la apre a ciò che è altro da sé. È questo il significato
più profondo della conciliazione che, come notano i due filosofi, è
“concetto supremo del giudaismo” il cui senso è l’attesa ( 52 ). Il dominio
non attende: è sopraffazione immediata, instaurazione coatta di
rapporti gerarchici, che subordinano e impongono.
Conciliazione e dominio sono i due poli opposti della civiltà. La
storia della riconciliazione è la vicenda sotterranea d’attesa silente della
terra promessa, dell’Eden perduto, di un’umanità che abolisce l’odio.
( 50 ) “Horkheimer e Adorno (…) potevano approdare a una cauta identificazione
con un ebraismo interpretato come figura storica della negazione determinata. Il lavoro
al progetto sulla dialettica, in effetti aveva portato a una formulazione unitaria
dei motivi teologici”. (R. WIGGERSHAUS, La scuola di Francoforte, cit., p. 352).
( 51 ) M. HORKHEIMER, Die Juden und Europa, «Zeitschrift für Sozialforschung»,
1939, VIII. Ed. it. Gli ebrei e l’Europa, in Crisi della ragione e trasformazione dello
stato. Tre saggi. Roma, Savelli, 1978, p. 59.
( 52 ) DI, cit., p. 214.

Dialettica dell’illuminismo e teologia negativa
Essa corre al di sotto della grande storia, di conquiste, potere, sottomissione,
e gli ebrei ne sono i rappresentanti con la loro perenne aspirazione
ad un bene che si ponga al di là della pura immanenza dei fatti.
Con ciò la storia del popolo ebraico non solo s’incrocia con la dialettica
dell’illuminismo, ma può rappresentarne la svolta cruciale.
Il popolo ebraico concluderebbe la triade dialettica della civiltà:
dopo averle dato inizio, per poi esserne stato schiacciato, la oltrepasserebbe
schiudendo le porte al vero illuminismo, fondato su un modello
di razionalità riflettente, aperta e dialogica ( 53 ). La razionalizzazione
e demitologizzazione su cui si fonda il credo giudaico non si
è risolta nella dicotomia Uomo-Natura. Certo Jahvè non è demone
naturale e dal suo culto è eliminata ogni forma di magia e mitologia,
ma tale razionalizzazione che distingue Soggetto-Oggetto non ha
implicato alcuna scissione lacerante, perché l’ebraismo ha conservato
la “memoria conciliatrice” del momento naturale, quel rapporto di
affinità mimetica riflessa. Ciò non avviene attraverso il simbolo, immagine
mitica, che è già falsa pretesa di “finitizzare l’assoluto”, ma
nel “dovere” del rito, purificatosi rispetto alla preistoria, nel “ritmo
consacrato della vita familiare e statale” ( 54 ). È proprio nel momento
rituale che l’ebraismo prescrive la totale adeguazione della vita individuale
e comunitaria alla volontà divina, operando così quella “mimesi
riflessa” che è l’ideale dei due pensatori: il fedele che segue la
divinità e si adatta alle sue prescrizioni al contempo ne riconosce
l’assoluta alterità e così il momento naturale-mimetico non è estirpato,
bensì hegelianamente “superato e conservato” ( 55 ). Insomma,
gli ebrei appaiono i veri illuministi perché non hanno mai tagliato i
363
( 53 ) “Il dilemma dell’ebreo consiste nell’essere identificato contemporaneamente
con l’illuminismo e con il suo opposto. La sua vera emancipazione in quanto
uomo poteva avvenire solo quando il dominio stesso – quello del capitalismo e,
ancor più dell’illuminismo nelle sue forme più strumentali e manipolatorie – fosse
finito. Solo quando nella sfera sociale fosse stata realizzata la riconciliazione, che,
ironicamente, era il più alto valore della fede ebraica, l’antisemitismo avrebbe potuto
finire”. M. JAY, L’immaginazione dialettica, cit., p. 368.
( 54 ) DI, cit., p. 192.
( 55 ) “La civiltà è la vittoria della società sulla natura che trasforma tutto in mera
natura. Anche gli ebrei hanno contribuito a ciò nei millenni, a forza di illuminismo
non meno che di cinismo. Gli ebrei – la forma più antica di patriarcato che si sia
conservata fino ad oggi, l’incarnazione del monoteismo – hanno trasformato i tabù
in massime di civiltà quando gli altri erano ancora alla magia. (…) Essi hanno, non
tanto estirpato, quanto piuttosto superato e conservato l’adeguazione alla natura nei
puri doveri del rito. Così le hanno serbato la memoria conciliatrice (…) Perciò figurano
agli occhi della civiltà avanzata, come arretrati e troppo avanti insieme, simili e
dissimili, furbi e sciocchi ad un tempo”. Ivi, pp. 200-201.

364
RAFFAELA STRINA
ponti con la natura, ma anzi proprio nel suo trascendimento l’hanno
incorporata nella mimesi rituale: fuori dalla preistorica sottomissione
alla Natura, non ricadendo nell’illusione di un dominio su di
essa, l’ebraismo ha preferito la via della conciliazione rammemorante,
della demitologizzazione che oltrepassa il limite implicito dell’illuminismo.
L’accoglimento dell’insegnamento ebraico potrebbe dunque aprire
la strada all’emergere di quella “storia sotterranea”, passo decisivo
“dalla società antisemita, che spinge l’ebreo come gli altri nella malattia,
alla società umana” in cui
l’umanità diventerebbe, dall’universale «altra razza», finalmente il genere
che, come natura, è tuttavia più che mera natura, poiché prende coscienza
della sua propria immagine ( 56 ).
Questo stato conciliato è quello in cui l’ebreo prima di essere bollato
come “ebreo” sarebbe prima di tutto uomo, in cui potrebbe placarsi
quella sete di perfetta e consumata giustizia, in cui messianesimo
ebraico e materialismo storico si realizzerebbero nella società
giusta. Di questa società Adorno e Horkheimer non possono tracciare
i confini nitidi, ma solo schizzare il profilo da lontano, in piena
atmosfera teologica, come la terra promessa che ha-da-venire, il cui
colore è quello della speranza e dell’attesa: non la passiva accettazione
di ciò che è aspettando ciò che sarà, ma la ribellione a ciò che è
come preparazione a ciò che sarà.
( 56 ) Ivi, cit., p. 214.

GIULIA MAZZARELLI
IL BOOM ECONOMICO E LA COMMEDIA ALL’ITALIANA
SOMMARIO: 1. “Castigat ridendo mores”: il cinema ironizza sulla società che cambia.
– 2. Il cinema di finzione come fonte storica. – 3. La corsa al denaro. –
4. I costumi sociali, la famiglia, la donna. – 5. L’italiano medio tra Storia e
politica. – 6. Segnali di crisi.
1. “Castigat ridendo mores”: il cinema ironizza sulla società che
cambia.
Alberto Nardi: “... ad un certo momento ognuno di noi si trova di fronte a
un bivio: [...] da una parte c’è la vita moderna del XX secolo
con la folle corsa al denaro, e dall’altra c’è la rinuncia,
solo la rinuncia; non c’è via di mezzo!”
Ragionier Stucchi: “Bravo! Lei ha scelto la rinuncia!”
Alberto Nardi: “Ma che dici? Ho scelto la corsa al denaro!”.
(dialogo tra il commendatore Nardi e il marchese-ragioniere Stucchi in Il
vedovo)
L’Alberto Nardi de Il vedovo non ha dubbi sulla strada da percorrere:
denaro e prestigio costituiscono l’orizzonte ultimo dei suoi desideri,
ed egli assurge a personaggio-simbolo di una generazione che
alla fine degli anni cinquanta si sente proiettata verso un futuro di
sicuro successo.
Il film di Risi interpretato da Alberto Sordi uscì nel 1959; l’anno
precedente, il 1958, segnò l’avvio del “miracolo economico” e contemporaneamente
di un nuovo, aureo filone cinematografico: la
commedia all’italiana. La coincidenza è solo apparente perché il legame
tra l’uno e l’altra è strettissimo, sotto più di un aspetto. Paese
prevalentemente agricolo, con sacche di miseria al di sopra della me-

366
GIULIA MAZZARELLI
dia europea, l’Italia entrò, in seguito alla creazione del Mercato Comune,
nella cerchia dei paesi più industrializzati del mondo. I processi
di cambiamento, non solo economici ma sociali e culturali, furono
rapidissimi e mutarono profondamente la mentalità collettiva:
l’improvvisa circolazione del denaro, “anche se scritto sulle cambiali,
piuttosto che corrispondente a ricchezze reali” ( 1 ), modificò in maniera
permanente abitudini e modi di pensare, contribuendo ad imporre
una nuova tipologia di italiano, arrivista e conformista, individualista
e corrotto. Il cinema registrò questa trasformazione sottolineando,
con straordinaria perspicacia, i segnali di crisi e i danni prodotti
da uno sviluppo tumultuoso e deregolato: “la divaricazione
della forbice economica, l’aumento del malessere comunicativo, le
alterazioni dell’ambiente, l’incremento della speculazione edilizia e
della corruzione politica, lo svilupparsi di una competitività di tipo
nuovo […] Ma anche un’aggressività data dall’eccessiva concentrazione
abitativa e da un incremento della conflittualità economica e
sociale, il regredire dei rapporti interindividuali a forme di sopraffazione
e lotta per la sopravvivenza” ( 2 ). Se a questi guasti sommiamo
gli squilibri prodotti dalla sopravvivenza di aspetti tradizionali, in
continuità non soltanto con la società precedente il boom, ma con la
stessa epoca fascista ( 3 ), non possiamo stupirci che registi e sceneggiatori
abbiano trovato nell’Italia di quegli anni un terreno fertile
per rappresentazioni cinematografiche a tratti corrosive. Se il cinema
d’autore descrisse la drammaticità dell’esperienza migratoria (Rocco e
i suoi fratelli, Visconti, 1960), mostrò lo squallore delle borgate (Accattone,
Pasolini, 1961), denunciò la crisi dei sentimenti e il black-out
comunicativo tra gli individui (L’avventura, Antonioni, 1960), rappresentò
il disgusto e il fascino della borghesia mondana e cinematografara
(La dolce vita, 1960), fu la commedia il luogo deputato a descrivere
le macrotrasformazioni in atto nella società e nell’individuo
e a denunciare i nuovi vizi dell’italiano medio. Secondo il parere di
( 1 ) G.P. BRUNETTA, Cent’anni di cinema italiano, Laterza, Bari 2000, vol. II.,
p. 182.
( 2 ) Ibidem.
( 3 ) Basti pensare a come alcuni apparati istituzionali permasero pressoché immutati
al cambio di regime (magistratura, burocrazia, pubblica amministrazione
ed esercito), grazie alla mancata riforma e al fallimento dei timidi tentativi di epurazione,
e a come molti italiani adattarono alla nuova epoca repubblicana atteggiamenti
e opinioni acquisiti in vent’anni di fascismo. Cfr. P. GINSBORG, Storia d’Italia
dal dopoguerra ad oggi. Società e politica (1943-1988), Einaudi, Torino 1991,
p. 120.

Il boom economico e la commedia all’italiana
alcuni protagonisti di quella fortunata stagione cinematografica “il
cosiddetto boom è stato tale in tutti i sensi. Produceva fenomeni e il
cinema se ne impadroniva traducendoli in idee di soggetti e sceneggiatura
per film” ( 4 ); e se da una parte “sono le società ricche e opulente
(o che si credono ricche e opulente) che possono concedersi il
lusso di coccolare autori irriverenti” ( 5 ), è anche vero che “quando si
sta bene, detto tra virgolette perché il boom era inteso come tale, è
più facile scorgere le cose misere che ci appartengono e quindi guardare
con indulgenza, in qualche caso, ma comunque con distacco ai
nostri difetti e giocare su questo tema. Quando l’aspetto della vita
diventa più pesante, più drammatico ecco che è più difficile riderci
sopra” ( 6 ).
Che si tratti dunque di maggiore elasticità delle commissioni di
censura, di disponibilità del pubblico ad accogliere un’immagine caricaturale
di se stesso, di abbondanza di stimoli e motivi d’ispirazione
in una società sottoposta a cambiamenti troppo rapidi e squilibrati,
il rapporto tra il boom e la commedia all’italiana è tutt’altro
che accidentale. Non è un caso se con la crisi del 1973, momento in
cui la fase di sviluppo iniziata alla fine degli anni Cinquanta si arrestò,
anche la commedia all’italiana sembrò aver perso ogni ragion
d’essere ( 7 ). Resta semmai da chiarire come mai in questi film l’osservazione
degli aspetti degenerativi della “grande trasformazione”
trovi piena cittadinanza, ma non si faccia alcun cenno alle pur rilevanti
riforme portate avanti nel corso degli anni Sessanta e alle nuove
forme di protagonismo sociale: dalla nazionalizzazione dell’industria
elettrica, che pose fine ai monopoli privati – senza peraltro eliminarne
l’influenza sull’economia italiana – all’istituzione della
scuola media unica, con l’innalzamento dell’obbligo sino ai quattordici
anni, alla ripresa delle lotte operaie, ai fermenti che animavano
in particolare le giovani generazioni. Furono, questi, aspetti della società
che la commedia all’italiana rinunciò più o meno consapevolmente
a rappresentare, forse in ragione di una sua maggiore disposizione
alla critica sociale, forse perché le realtà meno edificanti sono
( 4 ) Intervista ad AGE in P. PINTUS (a cura di), La commedia all’italiana: parlano
i protagonisti, Gangemi Editore, Roma 1985, p. 20.
( 5 ) Intervista a L. COMENCINI, ibid., p. 45.
( 6 ) Intervista a U. TOGNAZZI, ibid., p. 195.
( 7 ) Il film che, secondo la maggior parte dei critici, chiude questo filone cinematografico
è C’eravamo tanto amati (Scola, 1975), vero canto del cigno e magistrale
omaggio reso ai registi di quella gloriosa stagione da uno dei più acuti sceneggiatori
degli anni ’50 e ’60.
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GIULIA MAZZARELLI
da sempre quelle deputate a fornire i migliori spunti comici; quale
che sia la motivazione di questa omissione, si tratta di un aspetto di
cui è doveroso tener conto nel momento in cui si prendono in esame
questi film ai fini di una ricostruzione storica dell’epoca che li ha
prodotti.
Se è in ogni caso vero che la commedia all’italiana poté trovare
un terreno fertile nel rapido processo di trasformazione dei costumi
e della società che il boom economico rappresentò per l’Italia, non è
altrettanto condiviso il giudizio secondo il quale i film raccolti sotto
questa denominazione avessero un preciso intento di satira sociale;
lo stesso Risi, regista-cantore del “miracolo economico”, afferma:
“Erano tutti film di critica sociale e di costume quelli che abbiamo
fatto ma non con la consapevolezza, non con la premeditazione, con
l’idea di lanciare il famoso “messaggio”: anzi direi che una delle qualità
della commedia all’italiana fosse proprio quella di scartare il
messaggio premeditato, che era invece la grande preoccupazione di
autori più nobili… e più noiosi” ( 8 ).
Ad ogni modo, sia che fosse il risultato di una consapevole presa
di posizione, o che derivasse spontaneamente dalla descrizione di
certe realtà, sia che colpisse effettivamente il bersaglio, o che girasse
un po’ a vuoto come nella maggior parte della commedie minori, la
satira di costume sembra essere una qualità intrinseca ai film della
commedia all’italiana. “La commedia all’italiana, a differenza delle
altre commedie – inglesi o americane o francesi, sofisticate o d’azione
o sentimentali, ecc. – è un tipo di commedia che, attraverso personaggi
e situazioni prese dalla realtà, ha satireggiato il costume italiano.
È stata sempre molto pungente, talvolta persino feroce. Ha
denunciato – ridendo e scherzando, come dice Pulcinella – le verità.
[…] La commedia italiana è rimasta sempre con i piedi per terra e
ha fatto ridere proprio mostrando tutti i limiti e i difetti del nostro
Paese, e non solo di chi dirige, ma anche di noi stessi” ( 9 ). Se i protagonisti
di questa stagione non incorsero come altri registi ( 10 ) nelle
maglie della censura, argomento utilizzato dai detrattori per dimostrare
l’assoluta innocuità di questo genere di critica sociale, è pur
vero che la comicità è sempre stata un mezzo utilissimo per far pas-
( 8 ) Intervista a DINO RISI in P. PINTUS(a cura di), La commedia all’italiana:
parlano i protagonisti, cit., p. 161.
( 9 ) Intervista a M. MASTROIANNI, ibid., p. 140.
( 10 ) Basti pensare ai tentativi di boicottaggio che accompagnarono in quegli
anni l’uscita nelle sale di film come La dolce vita (Fellini, 1960) e Rocco e i suoi
fratelli (Visconti, 1960).

Il boom economico e la commedia all’italiana
sare, tra le righe, tematiche che sia il pubblico che gli organismi di
controllo avrebbero altrimenti rifiutato. Può essere interessante semmai
verificare se esista o meno quella complicità tra personaggi, spettatori
e registi denunciata, tra gli altri, da Italo Calvino: “La commedia
satirica e di costume degli anni ’60 è nella più parte detestabile
perché, quanto più la caricatura dei nostri comportamenti sociali vuol
essere spietata, tanto più si rivela compiaciuta e indulgente. La vitalità
italiana è giusto che incanti gli stranieri ma che lasci freddo me” ( 11 ).
A giudizio di molti, il fatto che i “mostri” rappresentati sullo schermo
riuscissero a suscitare nel pubblico, pur nella meschinità dei loro atti,
una certa simpatia e comprensione, ebbe l’effetto di vanificare la valenza
critica dei film, già sminuita per alcuni dalla presunta appartenenza
dei registi al medesimo universo sociale, economico e ideologico
dei personaggi rappresentati. A proposito de Il Boom (De Sica,
1963), Francesco Bolzoni scrisse su “Cineforum”: “Sembra che il regista
non sappia essere severo col gruppo sociale al quale ormai appartiene.
Non si può interpretare, per anni, i film del benessere e, poi, credere
di descrivere oggettivamente i loro consumatori” ( 12 ). Un giudizio
particolarmente pesante e forse ingiustificato, ma comunque prezioso
per ricostruire l’atmosfera culturale entro la quale erano accolti, o respinti,
i film della commedia all’italiana.
2. Il cinema di finzione come fonte storica. – L’esistenza di un forte
legame tra i film appartenenti a questo genere e il periodo storico che
li ha prodotti spinge a porsi una serie di interrogativi circa la possibilità
o meno di un loro utilizzo come fonti per la ricerca storica ( 13 ).
Il primo ostacolo da superare concerne la legittimità di un uso storico
dei film di finzione. L’attenzione degli studiosi si è rivolta spesso
all’analisi dei film storici e al modo in cui attraverso queste pellicole si
potesse guardare al passato, come se l’unico aspetto capace di elevare il
( 11 ) in P. PINTUS (a cura di), La commedia all’italiana: parlano i protagonisti,
cit., p. 24.
( 12 ) R. NAPOLITANO (a cura di), Commedia all’italiana: angolazioni e controcampi,
Gangemi Editore, Roma 1986, p. 190.
( 13 ) Per quanto riguarda il dibattito su cinema e storia e sull’utilizzo storico
degli audiovisivi in generale cfr. P. ORTOLEVA, Cinema e storia. Scene dal passato,
Loescher, Torino 1991; P. SORLIN, L’immagine e l’evento. L’uso storico delle immagini
audiovisive, Paravia, Torino 1999; G. DE LUNA, L’occhio e l’orecchio dello storico.
Le fonti audiovisive nella ricerca e nella didattica della storia, La Nuova Italia,
Firenze 1993.
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GIULIA MAZZARELLI
film di finzione a documento per la storia fosse il vertere della trama
su fatti realmente o verosimilmente accaduti. L’equivoco intorno al
concetto di fonte per la storia, sul quale ha fatto luce la scuola delle
“Annales” elevando al rango di documento storico i più diversi aspetti
dell’esistenza umana, ha impedito per lungo tempo di interrogare, sul
presente che li ha prodotti, film che apparentemente non hanno alcuna
pretesa di rappresentazione della realtà. L’ambito in cui tutt’ora la
ricerca storica dovrebbe concentrare l’attenzione è proprio quello dei
film di finzione che non trattano argomenti storici: le commedie, i
film drammatici, persino i b-movie sono portatori di messaggi storici
di un qualche rilievo. “Bisogna considerare i film di messa in scena
che non hanno rapporto diretto con un avvenimento storico come
una fonte per la storia in generale. […] Per capire il valore di una tale
testimonianza, immaginiamo che cosa rappresenterebbe per lo storico
contemporaneo il peggior film commerciale realizzato al tempo di
Amenofi IV, di Giulio Cesare, Lao-tsu, Federico Barbarossa, Maometto,
Ivan il terribile, Luigi XIV o Washington. Quale che sia il loro
genere, i film costituiscono per l’avvenire dei tesori incomparabili che
riguardano la storia in generale, ma anche quella dei costumi, del
modo di vestire, dei gesti, delle arti (tra cui il cinema), del linguaggio,
della tecnica” ( 14 ). Parafrasando Ortoleva, limitare la ricerca ai soli
film storici significa “rinunciare a inserire nel quadro delle fonti filmiche
proprio quelli che quasi tutte le società del XX secolo hanno considerato
“i film” per eccellenza, le storie fantastiche consumate quotidianamente
da milioni di persone” ( 15 ).
La scelta del film di finzione come fonte storica è connessa alla
molteplice rilevanza di questo tipo di documento e alla sua stratificazione
di significati: contenitore di dati sul passato, da sottoporre
ad un attento esame critico per la verifica dell’attendibilità; strumento
di autorappresentazione di una società, prezioso per ricostruire la
mentalità dell’epoca; mezzo di comunicazione di contenuti ideologici,
politici o esistenziali, ma anche risultato di compromessi tra esigenze
di natura diversa, laddove le finalità del produttore non coincidono
con quelle dello sceneggiatore o del regista. All’interno di
questo complicato meccanismo di significazione, è possibile con
un’attenta analisi portare alla luce informazioni utili per lo storico.
Non si tratta ovviamente di eleggere questi testi filmici ad unica fon-
( 14 ) G. SADOUL, Photographie et cinématographe, in L’histoire et ses méthodes, a
cura di Ch. Samaran, Paris, Gallimard, 1961, p. 778, cit., in P. SORLIN, La storia
nei film. Interpretazioni del passato, La Nuova Italia, Firenze 1984, p. XVIII.
( 15 ) P. ORTOLEVA, Cinema e storia. Scene dal passato, cit., p. 12.

Il boom economico e la commedia all’italiana
te di riferimento, quanto di farne il punto di partenza e di arrivo di
un percorso che passa attraverso l’utilizzo di testimonianze di natura
diversa, di leggerlo come “parte di una serie di testi che si conferiscono
senso a vicenda” ( 16 ).
De Luna in L’occhio e l’orecchio dello storico afferma: “[…] per lo
storico che studia i modi di vita e la mentalità, tutti i film sono
ugualmente significativi, indipendentemente dal loro successo commerciale,
dal fatto che la critica estetica li abbia o meno considerati
dei capolavori: l’unico vincolo nella scelta è la funzionalità al progetto
di ricerca. […] Come ricordava René Allio, anche i film “di mezza
tacca” racchiudono strutture informative utili per lo storico purché
attivate da domande opportune […]” ( 17 ).
Per quanto le commedie all’italiana siano tutt’altro che film di
mezza tacca o di scarso successo commerciale, non si può negare che
siano state a lungo disprezzate dalla critica ( 18 ), almeno fino alla loro
“scoperta” da parte dei francesi. La sufficienza con cui questi film
sono stati trattati sembra aver valicato i confini della critica estetica
per interessare la stessa ricerca storica: le sole pellicole elette a fonte
per la storia dell’Italia repubblicana sono quelle appartenenti al filone
neorealista.
Eppure queste commedie definite “di costume” rappresentano un
orizzonte di ricerca ricchissimo e pressoché inesplorato. Questo genere
cinematografico si presta particolarmente ad un approccio di tipo storico,
e consente di leggere, esplicitamente o in controluce, le trasformazioni
sociali e politiche che caratterizzarono il periodo a cavallo tra
anni Cinquanta e Sessanta, epoca d’oro della commedia all’italiana. I
film d’autore dello stesso periodo, pensiamo a Il grido di Antonioni
(1957) o a La dolce vita di Fellini (1960), capolavori assoluti del cinema
italiano, rappresentano anch’essi l’Italia del boom economico, ma
attraverso il filtro di una soggettività autoriale e artistica dalla quale
non si può prescindere. Parallelamente i film di serie B, tra cui i “pepla”,
le serie di Ercole e Maciste o i film con Totò, puntano tutto sulle
potenzialità spettacolari del mezzo cinematografico e indugiano un
po’ troppo sui gusti elementari del pubblico. La produzione medio
-alta, ossia i film della commedia all’italiana, offrono un spaccato ab-
( 16 ) Ibid., p. 99.
( 17 ) G. DE LUNA, L’occhio e l’orecchio dello storico, cit., pp. 25 e 37.
( 18 ) Cfr. C. CAMERINI, I critici e la commedia all’italiana: le occasioni perdute, in
R. NAPOLITANO (a cura di), La commedia all’italiana angolazioni e controcampi,
cit., pp. 179-192.
371

372
GIULIA MAZZARELLI
bastanza fedele, pur nella caricatura di certe tipologie umane e nella
parzialità del punto di vista ( 19 ), di un paese che cambia in maniera rapida
e profonda: pensiamo a come I mostri o Il sorpasso celebrano il
prepotente ingresso dell’automobile nell’orizzonte dei desideri degli
italiani, e a come questo fenomeno modifichi radicalmente il paesaggio
urbano; pensiamo a Il vedovo o a Il boom e alla esemplificazione
del potere di attrazione del denaro, in un periodo in cui questo circola
come non mai nelle tasche degli italiani (anche se non in tutte); pensiamo
ancora alla puntuale registrazione, da parte di film come Signore
e signori, del progressivo cambiamento dei costumi e del comportamento
sessuale. È un patrimonio di informazioni che conferma ed
amplia l’orizzonte delle conoscenze storiche sul periodo, perché rappresenta
per certi versi l’autocoscienza degli italiani del boom, se è
vero, come afferma De Luna, che “i fantasmi del successo e i miti della
modernità che attraversano i personaggi interpretati da Alberto Sordi,
smarriscono i propri contorni individuali per segnalare allo storico
aspirazioni, attese, pulsioni, identità del pubblico medio” ( 20 ).
3. La corsa al denaro. – La rappresentazione della società a cavallo
tra anni Cinquanta e Sessanta porta in primo piano gli effetti di uno
sviluppo economico senza precedenti. Diversamente dalle commedie
della metà degli anni Cinquanta, che rappresentavano per lo più i
ceti popolari o piccolo-borghesi (Pane, amore e fantasia o Poveri ma
belli), le commedie all’italiana focalizzano l’attenzione sulle categorie
sociali figlie del miracolo economico: nuove generazioni di ragionieri,
commendatori, industriali e imprenditori popolano il grande
schermo da protagonisti o come incarnazione delle aspirazioni di
ascesa sociale dei ceti medio – bassi. Sulle cause del rapido sviluppo
economico in atto i film della commedia all’italiana non si soffermano
( 21 ), ma sottolineano in più occasioni alcuni fenomeni speculati-
( 19 ) Abbiamo già accennato nel paragrafo precedente all’assenza in questi film
di qualunque riferimento alle positive riforme portate avanti dai governi di centrosinistra.
( 20 ) G. DE LUNA, L’occhio e l’orecchio dello storico, cit., p. 23.
( 21 ) “Ci sono pochi operai nel paesaggio del cinema italiano del dopoguerra,
per cui non si capisce con il cinema il prepotente sviluppo industriale del Nord,
né tanto meno del resto lo si capisce incontrando gli industriali dello schermo,
inetti, rimbambiti e incapaci di affrontare e risolvere qualsiasi problema”. G.P.
BRUNETTA, Il cinema legge la società italiana, in Storia dell’Italia repubblicana, Einaudi,
Torino 1995, vol. III, p. 800.

Il boom economico e la commedia all’italiana
vi, soprattutto nel settore dell’edilizia, che ebbero la loro parte nell’arricchimento
di non poche categorie professionali.
La scena iniziale de Il vedovo ( 22 ), il film da cui abbiamo tratto la
citazione posta all’inizio di questo saggio, si apre, dopo un breve
prologo prima dei titoli di testa, su un gigantesco edificio che inquadra
la vicenda geograficamente e storicamente: si tratta della torre
Velasca di Milano, città simbolo di quel miracolo economico che
comincia a modificare la fisionomia delle città e il costume dei suoi
abitanti. Il boom edilizio, fenomeno incontrollato che accompagna
la ricostruzione postbellica e l’ascesa di nuove leve di impresari e
speculatori, è prontamente registrato dal cinema che ne fa lo sfondo,
ma spesso anche il protagonista, di tanti suoi film ( 23 ). Centinaia di
nuovi cantieri edili in tutta Italia vengono incontro alla “fame di
case” di chi ha perso tutto sotto i bombardamenti ma anche alle esigenze
più sofisticate dei nuovi ceti emergenti.
È intorno alle speculazioni edilizie che si concentrano gli interessi
degli affaristi di questa prima Italia del benessere ( 24 ). Personaggi
spregevoli e incolti (C’eravamo tanto amati) si arricchiscono puntando
sul “mattone”, maneggiando contemporaneamente tra politica e
malaffare. Se l’Alberto Nardi de Il vedovo possiede una modesta fabbrica
di ascensori, Giovanni Alberti protagonista de Il boom (De
Sica, 1963) punta tutte le sue speranze di arricchimento su un affare
speculativo, con il miraggio di diventare un nuovo Bausetti, grande
costruttore edile nonché socio della finanziaria che rischia di strangolarlo.
I meccanismi speculativi, ricorrenti in molti film della commedia
all’italiana sono descritti in questo film in maniera particolarmente
dettagliata: il possesso di terreni di scarso valore può trasfor-
373
( 22 ) I soliti ignoti (Monicelli, 1958); Il vedovo (Risi, 1959); Il vigile (Zampa,
1961); Una via difficile (Risi, 1961); Divorzio all’italiana (Germi, 1962); Il sorpasso
(Risi, 1963); Il boom (De Sica, 1963); I mostri (Risi, 1963); Signore e signori
(Germi, 1964); La ragazza con la pistola (Minicelli, 1968); C’eravamo tanto amati
(Scola, 1975) sono i film ritenuti in questa sede maggiormente rappresentativi per
l’analisi storica della commedia all’italiana.
( 23 ) Già I soliti ignoti, opera di transizione, a cavallo tra le commedie rosa di
ambientazione urbana della metà degli anni Cinquanta e le vere e proprie commedie
all’italiana, segnala nel finale il ruolo chiave svolto dal settore edile nello sviluppo
del paese e nell’assorbire le sacche di disoccupazione del dopoguerra.
( 24 ) Nel 1956 L’Espresso pubblicò un’inchiesta giornalistica sulla speculazione
edilizia a Roma dal titolo significativo: “Capitale corrotta = nazione infetta”. La
devastazione della città raggiunse il culmine negli anni ’50 con il cosiddetto “sacco
di Roma”, compiuto dai grandi proprietari immobiliari con il consenso delle autorità
municipali e grazie alla mancata attuazione della legge urbanistica del 1942.

374
GIULIA MAZZARELLI
marsi in un grosso investimento purché si riesca ad ottenere che il
Comune si faccia carico delle infrastrutture indispensabili alla lievitazione
dei prezzi dei terreni, magari con uno stratagemma come la
donazione di una piccola parte della terra ai frati di un convento.
Politica e affari sono spesso intrecciati in un complesso intrico di
interessi e raggiri, con la complicità di avvocati, professionisti e faccendieri
che sanno muoversi abilmente tra le maglie larghe della legalità
e della burocrazia.
Fratello “all’amatriciana” del Commendator Bausetti, Romolo Catenacci
(C’eravamo tanto amati) è un altro personaggio esemplare. Arricchitosi
nella confusione della ricostruzione, più furbo e disonesto di altri,
questo affarista illetterato vive in un lusso sfrenato e un po’ kitsch
che testimonia la pochezza di una nuova borghesia qualunquista, ignorante
e vorace. L’imprenditore edile descritto nel film è insensibile ai
passaggi di regime e, pur continuando a chiamare podestà il sindaco di
Roma, trova la sua perfetta collocazione anche nella giovane repubblica.
Capostipite di un clan di obesi illetterati, pluri-indagato per “barcarotta
flautolenta”, cerca di irretire il giovane avvocato Gianni: “Negli onesti
c’è quella purezza, che se diventano dei mascalzoni, te tirano certe sole
che nemmeno te le immagini”. In Una vita difficile (Risi, 1961) viene
messo in scena il “prototipo del pescecane, dell’arricchito, dell’avido
protagonista di quella stagione di neocapitalismo rampante e rapace e di
fortune colossali: un vero vincente del ‘boom’. Un po’ palazzinaro, un
po’ produttore cinematografico, un po’ editore (qualche allusione al
vecchio Rizzoli?), ammanicato con le gerarchie ecclesiastiche e con i
partiti di governo, tenacemente ostile a sindacati e comunisti” ( 25 ). Anche
in questo caso l’immagine dell’impresario edile si combina con una
tendenza a delinquere che resta sempre impunita.
L’immagine corrotta di un’Italia divorata dal cemento non sfugge
alla feroce satira de I Mostri (Risi, 1963). Uno dei suoi episodi più
lunghi, “La giornata dell’Onorevole”, è incentrato sulla figura di un
Ministro che, ospite in un convento, compie ogni genere di acrobazie
per evitare che un onesto generale blocchi un piano di speculazione
edilizia. Qui, in modo piuttosto esplicito, è lo stesso partito al
potere a essere messo sotto accusa: la rappresentazione della doppiezza
dell’Onorevole, il quale gode della pace spirituale di un luogo
sacro senza trascurare gli interessi terreni, denuncia con sarcasmo i
legami che intercorrono tra la classe imprenditoriale, la Dc (eletta a
sostenere gli interessi del grande capitale dopo il ridimensionamento
del partito liberale) e la Chiesa.
( 25 ) P. D’AGOSTINI, Dino Risi, Il Castoro Cinema, 1995, p. 49.

Il boom economico e la commedia all’italiana
Il passaggio da un’economia tradizionale dominata dall’agricoltura
ad un nuovo modello economico che vede in rapida espansione i
settori dell’industria e della speculazione è ben sintetizzato ne Il vedovo
dal dialogo tra il Nardi e il fattore:
Alberto Nardi: “Io li venderei ‘sti bovini!”
Giordano (il fattore): “Ma vede, l’anno scorso abbiamo fatto 3 milioni
e 8 puliti senza il concime!”
Alberto Nardi: “Ma che ne sai tu che sei bifolco? Lasciatelo dire da me
che so’ industriale! Se noi trasformiamo questi bovini in liquidi e li
mettiamo negli ascensori guadagniamo dieci volte tanto! E non è che
sono cattivo, caro Giordano, è che io lottizzo il terreno, faccio le strade
e vendo alle case popolari.”
Si tratta di “un passaggio di fase economica importante, ma il cinema
non ne sottolinea certo la positività, né il nuovo senso di ottimismo
e fiducia che riprende a circolare nel paese dalla metà degli
anni Cinquanta, quanto piuttosto i pericoli, e la rappresenta per lo
più come una colpa o una variante di un atto truffaldino” ( 26 ).
Se nei film della commedia all’italiana abbondano i riferimenti al
settore edilizio, non possono passare inosservati alcuni brevi ma significativi
cenni alla grande industria ( 27 ): (Elvira Nardi: “Alberto si è messo
in testa di fregare la Montecatini! Ha comprato la solfatara!”). La Montecatini,
colosso dell’industria chimica, conobbe uno sviluppo straordinario
dalla seconda metà degli anni ’50; nel ‘66 si fuse con l’ex azienda
elettrica Edison ottenendo il controllo su circa l’80% dell’industria chimica
italiana e sul 15% del mercato europeo: solo uno sprovveduto
come il Nardi (stereotipo del romano inetto e privo del senso degli affari,
contrapposto all’industriale del Nord odioso ma abile imprenditore)
potrebbe pensare di mettersi contro un simile gigante!
Alla rappresentazione impietosa e sarcastica della nuova classe
imprenditoriale ( 28 ) fa eco un’altrettanto caustica descrizione del-
375
( 26 ) G.P. BRUNETTA, Il cinema legge la società italiana, in Storia dell’Italia repubblicana,
cit., p. 801.
( 27 ) Risulta invece del tutto assente, ma non solo nei film della commedia all’italiana,
il mondo operaio: “La fabbrica di fatto è un Moloch inquietante ed estraneo
alla cultura del cinema del dopoguerra. Solo alcuni documentaristi e più di tutti Ermanno
Olmi, dalla metà degli anni cinquanta, riusciranno a cogliere alcuni aspetti del
lavoro operaio e il senso di trasformazione antropologica in atto, da una civiltà contadina
ad una industriale.” G.P. BRUNETTA, Cent’anni di cinema italiano, cit., p. 42.
( 28 ) “Registi e sceneggiatori nutrono verso l’imprenditoria, la cultura industriale
e le ragioni dell’economia un ininterrotto e unanime senso di repulsione fisica,
prima che ideologica e morale”, G.P. BRUNETTA, “Il cinema legge la società italiana”,
in “Storia dell’Italia repubblicana”, cit., p. 800.

376
GIULIA MAZZARELLI
l’universo dei consumatori: gli italiani cominciano a gustare il piacere
di spendere e una smania di possesso li orienta verso beni sempre più
voluttuari (l’automobile, gli elettrodomestici, l’abbigliamento, l’arredamento),
veri status symbol prima che oggetti d’uso funzionali. Il
nuovo sistema economico costruisce intorno ai beni di consumo
un’aura di significato sociale che trascende l’oggetto e lo rende irrinunciabile.
Giovanni Alberti, protagonista de Il boom non riesce a sottrarsi
alle richieste insistenti della moglie; pur di mantenere quel tenore
di vita che è la chiave del successo sociale ma che è del tutto al di
sopra delle sue capacità economiche, il pover’uomo è letteralmente disposto
a vendere un occhio. In questo come in altri film della commedia
all’italiana sono registrati i profondi scompensi strutturali ai quali
il miracolo economico, inteso come processo spontaneo che lo Stato
ha rinunciato a controllare e dirigere, diede luogo: innanzi tutto la distorsione
dei consumi. “Il modello di sviluppo sottinteso dal boom
implicò una corsa al benessere tutta incentrata su scelte e strategie individuali
e familiari, ignorando invece le necessarie risposte pubbliche
ai bisogni collettivi quotidiani. [...] In assenza di pianificazione, di
educazione al senso civico, di servizi pubblici essenziali, la singola famiglia,
soprattutto quella dei ceti medi, cercò un’alternativa nella spesa
e nei consumi privati. [...] Il “miracolo” si rivelò così un fenomeno
squisitamente privato, riaffermando la tendenza storica di ogni famiglia
italiana a contare quasi esclusivamente su se stessa per il miglioramento
delle proprie condizioni di vita.” ( 29 ) Lo squilibrio tra consumi
privati e familiari e consumi pubblici è mostrato, nei film, dalla continua
esibizione di nuovi status symbol e dalla parallela assenza di ogni
riferimento a servizi pubblici essenziali come la scuola o la sanità.
Tra i sogni consumistici degli italiani l’automobile guadagna il primo
posto: Il sorpasso, film di Risi del 1963, fotografa con occhio lucido
la neonata tribù dei motorizzati; primo road movie del cinema italiano,
si svolge quasi interamente a bordo di un’auto. “Dal 1954 al
1962 le vetture in circolazione passano da 700000 a 3 milioni” ( 30 ) e
dopo il boom della Seicento e della Cinquecento il 1960 registra un
aumento della produzione e della vendita delle auto di una fascia più
alta (fino a 1200 cmc), grazie ad una riduzione dei prezzi voluta dalle
aziende produttrici per superare una fase dominata dalle vetture di
piccola cilindrata. C’è da immaginare che Bruno Cortona, il copro-
( 29 ) P. GINSBORG, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi. Società e politica
(1943-1988), cit., p. 326.
( 30 ) G. CRAINZ, Storia del miracolo economico: culture, identità, trasformazioni
fra anni Cinquanta e anni Sessanta, Donzelli, Roma 1996, p. 136.

Il boom economico e la commedia all’italiana
tagonista de Il sorpasso, abbia preso al volo questa occasione per accedere
ad una Lancia Aurelia e che, data la sua instabile condizione
economica, la mantenga a costo di qualche sacrificio; del resto questa
“febbre dell’auto” era abbastanza diffusa, perché nel 1963 la spesa
per autovetture è dieci volte maggiore di quella per consumi generali
( 31 ). Anche Vernissage, brevissimo episodio de I mostri testimonia
l’irresistibile fascino dell’automobile, acquistata a suon di cambiali e
subito inaugurata in compagnia di una “lucciola”; mentre una fiammante
Cadillac segnala al pubblico di Una vita difficile il cambiamento
di status sociale del protagonista, un giornalista appassionato
che, abbandonato ogni rigore morale, gode ora del benessere economico
a prezzo della dignità.
Mentre l’automobile consente un’inedita mobilità alle famiglie italiane,
rendendo più accessibili i luoghi di villeggiatura o le gite domenicali
fuori porta, è la televisione a catalizzare il tempo libero “infrasettimanale”,
sostituendosi progressivamente ai passatempi a carattere
collettivo e socializzante. In L’oppio dei popoli, episodio de I mostri, si
arriva alle estreme conseguenze della atomizzazione all’interno della
stessa famiglia: mentre il marito segue alla Tv il suo programma preferito,
la moglie accoglie in casa l’amante. Oltre alla funzione di mero
intrattenimento, la televisione assolve anche ad altri compiti, legati
alle esigenze di controllo sociale e di propaganda religiosa; non dobbiamo
dimenticare che essa “era controllata dalla Democrazia cristiana
e pesantemente influenzata dalla Chiesa. [...] Vi erano programmi regolari
di educazione religiosa ( 32 ) mentre le notizie e i servizi giornalistici
contenevano pregiudizi fortemente anticomunisti” ( 33 ).
Lo scarto tra consumi e bisogni reali è uno dei leit motiv della
commedia all’italiana, la marca distintiva di un cambiamento che si
accompagna al sempre più frequente ricorso alla cambiale. Ne Il
boom l’onnipresenza di questo strumento finanziario, che aumenta il
potere d’acquisto dei consumatori a prezzo di futuri sacrifici, delinea
un panorama economico tutt’altro che lusinghiero: la folla supplice
di fronte al responsabile di una finanziaria rivela una tendenza molto
diffusa ad ipotecare i propri beni, la casa, i mobili, per rispondere
in maniera adeguata alle sollecitazioni del mercato; lo spauracchio
del bollettino dei protesti, che pone fine all’esistenza “sociale”, oltre
che economica, dei “morosi”, conferma una generale tensione verso
( 31 ) Ibid., pp. 135-136.
( 32 ) Si veda a tal proposito Il testamento di Francesco, episodio de I mostri.
( 33 ) P. GINSBORG, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, cit., p. 326.
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GIULIA MAZZARELLI
l’apparire, laddove l’esibizione di determinati status-symbol apre le
porte di un’élite sociale alla quale pochi in realtà appartengono. La
corsa sfrenata agli acquisti determina poi la lievitazione dei prezzi,
anche su prodotti superflui come i pompelmi citati nel film; l’inflazione
comincia a crescere, ed è il risultato di un maggiore potere
d’acquisto gonfiato dal meccanismo del consumo ad ogni costo.
Se dal punto di vista delle risorse il sistema dell’indebitamento
progressivo sostiene l’economia del superfluo, da un punto di vista
psicologico comincia a farsi pervasivo il meccanismo di costruzione
del bisogno innescato dalla pubblicità, grande fabbrica dei sogni e
anima del commercio capitalistico. La reclame è un ingranaggio essenziale
del boom, e il film, con grande consapevolezza, le dedica
ampio spazio sia in apertura che in chiusura, attraverso lunghe sfilate
di insegne luminose e di veicoli “griffati” su cui campeggiano i
nomi e i primi “logo” dei principali prodotti industriali.
Alla rappresentazione di un’Italia trasformata dal benessere si accompagna,
in pochi ma significativi film, la constatazione del crescente
divario tra Nord e Sud del paese, frutto di scelte di politica
economica che, anche negli anni del “miracolo economico”, tesero a
favorire l’industrializzazione del Settentrione: la cittadina siciliana di
Agramonte, in cui si svolge la vicenda narrata da Divorzio all’italiana,
“con i suoi 18.000 abitanti, 4300 analfabeti, 1700 disoccupati
tra fissi e fluttuanti” diventa l’emblema del Sud negli anni del miracolo.
Miracolo che si ferma evidentemente più a Nord, perché nessun
segno di esso compare nel film; non nelle case, che non segnalano
l’ingresso di elettrodomestici, non per le strade, percorse da ben
poche automobili, non nelle modalità di socializzazione, dal momento
che il circolo per gli uomini non è ancora stato soppiantato
dalla televisione, mentre le donne continuano a concedersi al massimo
quattro chiacchiere in vicinato.
4. I costumi sociali, la famiglia, la donna. – Il rapido cambiamento
cui fu sottoposta l’Italia degli anni Sessanta incise in profondità non
solo sull’economia e sulle modalità di consumo, ma anche sul costume
degli italiani, sulla famiglia, sui modelli di comportamento sociale
e sulla scala di valori degli individui. Attraverso il filtro delle
commedie all’italiana scopriamo una società in fase di transizione e
densa di contraddizioni: pervasa da fermenti nuovi ma ancora legata
a codici tradizionali.
Una delle istituzioni sociali maggiormente bersagliate dagli autori
della commedia all’italiana fu senz’altro la famiglia. Rappresentata

Il boom economico e la commedia all’italiana
nei suoi aspetti più paradossali e nella pesante cappa di ipocrisia che
spesso l’avvolgeva, la famiglia offrì alla commedia di costume l’occasione
per una denuncia serrata della legislazione in materia, che rimase
in vigore sino al 1975. “La battaglia per modificare la legge era
stata iniziata da Pietro Nenni nel 1966, ma si era poi arenata in
commissione al Senato; e fu solo grazie al risultato del referendum
sul divorzio e alle pressioni del movimento delle donne che si riuscì
a sbloccare la situazione” ( 34 ). Con l’introduzione della parità tra i
coniugi, la tutela dei figli nati fuori dal matrimonio e l’obbligo per i
genitori di tener conto “delle capacità, dell’inclinazione naturale e
delle aspirazioni dei figli”, fu assestato un duro colpo alla tradizionale
concezione, patriarcale e autoritaria, della famiglia e della legislazione
che la tutelava, risalente al codice civile del 1942 e a quello penale
del 1930. Ovviamente non è difficile capire le ragioni di un
cambiamento così lento, data l’enorme influenza che la Chiesa e la
morale cattolica esercitavano in Italia. Proprio in considerazione del
tabù rappresentato dal tema del divorzio e da tutto ciò che metteva
in discussione la sacralità dell’istituto familiare, i film che negli anni
Sessanta presero di mira l’ipocrisia di una società apparentemente
votata al rispetto della morale cattolica ma in realtà attraversata da
segrete e insospettabili pulsioni, meritano una grande considerazione.
Sia Divorzio all’italiana che Signore e signori si muovono in questa
direzione, mostrando quanto le differenze regionali si annullino
di fronte a questioni legate ai sentimenti, al sesso, all’onore ( 35 ).
Divorzio all’italiana mette in scena un delitto d’onore sui generis,
in cui il disonorato diventa tale per sua volontà, desiderando sbarazzarsi
per vie “legali” della moglie. La “via legale” era allora offerta
dall’articolo 587 del Codice Rocco che prevedeva pene assai modeste
– da 3 a 7 anni – per chiunque “[...] cagioni la morte del coniuge,
della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopra la illegittima
relazione carnale [...]”; in tanti approfittavano di questa norma, se
ancora negli anni Sessanta si contavano 1600 delitti d’onore all’anno.
L’argomento del film era quindi attualissimo e piuttosto scottante;
puntava il dito, ridicolizzandoli, su un costume che “offendeva
la coscienza morale e civile” (Germi), e su una legge che lo consacrava.
( 34 ) Ibid., p. 499.
( 35 ) “Nel periodo del boom l’Italia continuava a essere una società piena di
tabù rispetto al sesso: le regole restrittive della morale ufficiale, che nel Nord si andavano
incrinando abbastanza rapidamente, nel Sud persistevano immutate e si
intrecciavano profondamente alle regole dell’onore”. P. GINSBORG, ibid., p. 332.
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GIULIA MAZZARELLI
In Signore e Signori (1965), film che chiude la trilogia di Germi
sulle questioni d’onore, sullo sfondo del cattolicissimo Veneto viene
messo in scena un teatrino popolato da discutibili personaggi di media
e alta estrazione sociale, quasi tutti professionisti, in un turbine di
menzogne e sotterfugi che ha come centro di gravità l’adulterio. Portare
“le corna” con dignità, ossia limitare al massimo la cerchia delle
persone al corrente del tradimento, appare la variante nordica del delitto
d’onore, meno cruenta ma altrettanto ipocrita. È interessante notare
come la costante presenza di religiosi sia assunta in questo film
come elemento folkloristico dell’ambiente veneto: testimoni compiacenti
delle bassezze private ma inflessibili censori degli scandali pubblici,
sacerdoti ed ecclesiastici assurgono a simbolo della doppia morale
dei personaggi. La smania di avventure extraconiugali, l’infedeltà e
l’ipocrisia all’interno del matrimonio, la crudeltà tra presunti amici
ma anche la maschile solidarietà tra donnaioli, sono i fili conduttori
dei tre episodi in cui si articola il film. Colpisce, in una regione che si
vorrebbe consacrata alla massima pudicizia, l’ossessione per il sesso,
che accomuna uomini e donne; e colpisce la relativa disinvoltura con
cui il film tratta argomenti cui il cinema aveva sino a quel momento
velatamente alluso, come ad esempio il tema dell’impotenza.
Cinque anni prima dell’uscita di Signore e signori, Bolognini realizzò
Il bell’Antonio: l’impotenza che affligge il protagonista non è
mai nominata in maniera esplicita e, lungi dal suscitare ilarità e sarcasmo,
dà al film un tono dolorosamente malinconico. Non si tratta
soltanto di una differenza stilistica: il rapido mutamento che negli
anni Sessanta ha investito l’Italia ha interessato anche il costume,
che nel giro di appena cinque anni si mostra, attraverso il cinema,
radicalmente cambiato; ne fa fede il proliferare di film di argomento
sessuale (Le bambole, Il magnifico cornuto, etc.) e la comparsa delle
prime “parolacce”. Il linguaggio qua e là gergale di Signore e signori
giustifica solo in parte le trivialità proferite dai personaggi; neanche
l’adozione del dialetto puro, pensiamo a La terra trema, aveva mai
legittimato il turpiloquio, che è quindi frutto, ancora acerbo, di un
progressivo abbassamento della soglia del pudore ( 36 ).
I costumi sessuali andavano dunque cambiando anche in Italia,
sebbene più lentamente di qualunque altra cosa: “Agli inizi degli
anni ’60 […] timide discussioni sul sesso prematrimoniale apparvero
( 36 ) In ogni caso il cinema spesso anticipa i mutamenti sociali, o meglio la loro
percezione, se è vero che al Festival di Cannes Signore e signori, palma d’oro ex aequo
con Un uomo, una donna di Lelouch, fu accolto da un boato di fischi e dalla
repentina raccolta di firme contro la premiazione di un film ritenuto volgare.

Il boom economico e la commedia all’italiana
su alcune riviste femminili, ‘Oggi’ compì un sondaggio sull’educazione
sessuale, ‘L’Espresso’ osò perfino pubblicare un’inchiesta sull’infedeltà
delle mogli italiane (quella dei mariti era data per scontata).
Le prime crepe nella morale ufficiale erano apparse, ma occorreva
ancora un decennio prima che le abitudini sessuali conoscessero
un mutamento rilevante a livello di massa” ( 37 ).
In Una vita difficile troviamo persino un raro riferimento all’aborto,
tema tabù per eccellenza; è interessante soprattutto notare
che a propugnarlo non è un personaggio spregevole o una donna disperata,
come nei pochi film che trattano l’argomento e che fanno
comunque trionfare la decisione finale di tenere il bambino (Il medico
e lo stregone di Monicelli o Guai ai vinti! di Matarazzo): in questo
caso a proporre l’aborto come soluzione di un disagio familiare è un
uomo tutto sommato giusto, coerente, che relativizza il divieto italiano
attraverso il confronto con altri paesi europei, sul cui grado di
civiltà nessuno discute. In ogni caso, a controbilanciare questa timida
apertura sopraggiunge la minacciosa risposta di Elena, in cui si
condensa lo sdegno e la condanna, di matrice cattolica, che domina
in quegli anni il comune sentire:
– Elena: “La vedi questa bottiglia? Se non la smetti con questi discorsi
te la rompo sulla testa!”
Se da una parte le trasformazioni sociali incisero sulla famiglia
“chiudendola” al mondo esterno con il rischio di una sorta di “familismo”
urbano come espressione allargata del crescente individualismo
( 38 ), i film della commedia all’italiana cominciano a registrare
quelle forze centrifughe che portano in alcuni casi, pur nel formale
rispetto del vincolo matrimoniale, alla disgregazione del tessuto familiare:
nuove forme di socialità, di relazione interpersonale, di gestione
del tempo libero e della sfera sessuale si sostituiscono alle precedenti
e modificano il tradizionale assetto della famiglia, cui l’influenza
della morale cattolica, in netto declino, è incapace di fornire
nuovo collante.
Nicola, l’intellettuale frustrato di C’eravamo tanto amati, è costretto
a scegliere tra la propria realizzazione professionale, impossibile nel
clima culturalmente asfittico di Nocera Inferiore, e una tranquilla e
incolore vita di provincia con moglie e figlio. Un analogo dilemma
( 37 ) P. GINSBORG, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, cit., p. 332.
( 38 ) “Certamente reale, e tuttavia difficilmente quantificabile, era il crescente
isolamento in cui l’urbanizzazione costringeva ogni famiglia. […] ogni nucleo familiare
tendeva a rinchiudersi in se stesso, ed era meno aperto a una vita comunitaria
o a forme di solidarietà intrafamiliare”. P. GINSBORG, ibid., p. 330.
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GIULIA MAZZARELLI
tormenta Silvio Magnozzi, protagonista di Una vita difficile, diviso
tra l’amore per Elena e la passione politica nell’impossibilità di condividere
con la compagna gli ideali che animano la sua attività giornalistica
(“Elena, vogliamo esaminare attentamente il nostro matrimonio?
Io e te chi siamo? Siamo parenti? No, non siamo parenti, siamo
due estranei. Ma come, io sono un giornalista e tu non leggi neanche il
giornale a fumetti! Io ti leggo un romanzo e tu che fai? Mi ti addormenti
a letto come una capra!). Anche Bruno (Il sorpasso) non vive più
con sua moglie: il matrimonio seguito ad una gravidanza imprevista
non regge all’incompatibilità di carattere dei due coniugi e al diverso
grado di responsabilità assunto nei confronti della famiglia (“Un
giorno m’ha piantato. Chi lo sa... forse non legavamo. Aò! non ti credere!
Le passo cinquantamila lire al mese! Mica una lira! Oddio, magari
adesso so’ sei anni che non mi faccio vivo...”).
In alcuni casi è il denaro a tenere insieme la coppia (Alberto Nardi:
“Io ti ho dato la mia intelligenza, il mio entusiasmo, ma tu, che cosa mi
hai dato?” Elvira: “Settanta milioni in cinque anni!”); in altri neanche
la nascita di figli può supplire all’assenza di affinità tra marito e moglie
e garantire la stabilità del rapporto (Silvio Magnozzi: “Per vivere insieme,
cara Elena, bisogna avere qualcosa in comune! Ma che cosa abbiamo
io e te in comune?” Elena: “Intanto abbiamo un figlio!” Silvio: “Ma lascia
stare il bambino! Io parlo delle idee!”). In Signore e signori la crisi
coniugale è sancita dal potente schiaffo con cui Osvaldo Bisigato scaraventa
a terra sua moglie e fa carta straccia del vecchio adagio secondo
il quale “la donna non si tocca neanche con un fiore” ( 39 ).
Le trasformazioni sociali in atto prepararono il terreno alla legge
sul divorzio, che dovette attendere ancora un decennio prima di vedere
la luce, ma che mostra sin d’ora, anche grazie al cinema, la sua
assoluta necessità ( 40 ).
( 39 ) Questa scena aprì le porte a certe commedie, molto gradite al pubblico, in
cui i sonori schiaffi alle donne (pensiamo a Travolti da un insolito destino nell’azzurro
mare d’agosto di Lina Wertmuller, del 1974) costituiscono il cuore del film e
il momento più esilarante per gli amanti del genere. Signore e signori non raggiunge
ancora questo livello, ma può essere considerato un film spartiacque tra le commedie
di costume, perché segna l’avvio di un tipo di comicità irriverente, dissacrante
e per certi versi anticonvenzionale.
( 40 ) Divorzio all’italiana era animato dall’indignazione e dalla volontà di denuncia,
e se anche non ha avuto il merito di accelerare il processo di modernizzazione
della magistratura (il famigerato articolo 587 del Codice Rocco è stato abolito solo
nel 1981!), a giudicare dall’enorme successo di pubblico che ha avuto, deve aver certamente
smosso le coscienze degli italiani, e forse preparato il terreno al referendum
sul divorzio; in occasione del quale, tra l’altro, il film fu riproposto nelle sale.

Il boom economico e la commedia all’italiana
Nel corso degli anni Sessanta il cinema registra un rapido cambiamento
nel rapporto tra i generi e nel ruolo sociale attribuito alla donna.
Il vedovo offre un catalogo quasi completo delle diverse tipologie
femminili della commedia all’italiana: la brava massaia bolognese (uno
stereotipo nello stereotipo), con tanto buon senso e tre figlie da sistemare;
la ragazza avvenente in cerca di marito (se non si perde per strada
diventerà la brava massaia); infine la donna in carriera, rappresentante
di una esigua minoranza nell’Italia di quegli anni, una rarità,
quasi un mostro da esorcizzare. È inevitabile notare come nei film della
commedia all’italiana la donna d’affari, capace e di forte temperamento,
non sia mai di bell’aspetto: le doti fisiche e le capacità intellettuali
e professionali mal si combinano nella stessa donna. Si tratta evidentemente
di uno stereotipo che, in un paese in cui cattolici e comunisti
( 41 ) si contendono, con le dovute differenze, il titolo di “campioni
della famiglia”, tende a punire la donna la cui vita non ruoti esclusivamente
intorno a marito e figli. Elvira Ammiragli (Il vedovo) appartiene
alla terza categoria. Non è avvenente (è interpretata dalla “non
bella ma brava” Franca Valeri), non ha figli nonostante sia sposata
(probabilmente è sterile), è algida (“È inutile che mi baci perché non
sento più niente!”), ha un rapporto strettissimo con la “mammetta”
(benché questa non compaia nel film è difficile non immaginarla
come la peggiore delle suocere) e ha un tale fiuto per gli affari da oscurare
totalmente il marito, il quale è costretto a subire l’umiliazione di
essere chiamato dagli amici industriali della moglie con il cognome di
lei! “I personaggi femminili rifiutano in misura crescente il ruolo di
angeli del focolare domestico o meglio di componenti mobili dell’arredo
e partono alla conquista della società usando come mezzo privilegiato
e arma il proprio corpo” ( 42 ). Ma se da una parte “l’esodo verso
le città diede indubbiamente alle donne maggiore libertà e autonomia
in una serie di occasioni, soprattutto alle giovani del Nord che erano
riuscite a trovare un impiego a tempo pieno, dall’altra l’idealizzazione
del ruolo di casalinga così tipico degli anni ’60 ebbe anche l’effetto di
segregare le donne all’interno della loro vita privata, allontanandole
ancor di più dalla vita politica e pubblica del paese” ( 43 ). Persiste in
ogni caso uno scarto abissale tra la condizione della donna nel Nord
383
( 41 ) “I comunisti […] esaltavano le virtù della famiglia sovietica, fondata sulla
monogamia, su di un rigido moralismo, sul sacrificio per il bene della collettività.
Nulla di tutto questo contrastava con le tradizionali immagini italiane della famiglia
[…]”. P. GINSBORG, op. cit., p. 264.
( 42 ) G.P. BRUNETTA, Il cinema legge la società italiana, cit., p. 805.
( 43 ) P. GINSBORG, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, cit., p. 332.

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GIULIA MAZZARELLI
e quella del Sud Italia. In Divorzio all’italiana, incentrato sull’arcaica
vita sociale del meridione, nessun cambiamento sembra aver lambito
le coste siciliane per quanto riguarda il rapporto tra i sessi: l’uomo
domina dentro e fuori le mura domestiche. Eppure le donne, indubbiamente
sottomesse, maltrattate e fatte oggetto di considerazione
maschile unicamente per i loro attributi fisici, rivelano una insospettata
capacità di autodeterminazione, come accade spesso, silenziosamente,
nelle società patriarcali: sanno aggirare la tutela maschile
e spesso sottrarsene, piegano le leggi d’onore anche a loro vantaggio,
e riguardo al sesso a volte sono molto più libere di quanto i loro
maschi possano immaginare. Questi però sono piccoli ritagli di libertà
che non hanno niente a che fare il cambiamento dei costumi,
che nel Sud tarda ancora a venire. Ne sono prova le convenzioni sociali
che fanno pagare a caro prezzo alle donne ogni piccola fuga dal
loro ruolo di mogli e madri esemplari.
In linea di massima la donna controbilancia, nelle commedie all’italiana,
la meschinità maschile (“Che vitaccia!” e “La nobile arte”
episodi de I mostri, Il sorpasso, La ragazza con la pistola), ma è destinata
a diventare un ingranaggio essenziale dell’economia di mercato
fondata sul consumo, e il crescente individualismo comincia a minare
alle basi anche la sua integrità morale (cognato di Otello Celletti
[Il vigile]: “Otello, ma lo sai chi è quello che v’ha invitato? È il più
grande costruttore della provincia! Quello c’ha sei miliardi, che ha fatto
con il nuovo Piano Regolatore in combutta con il sindaco! Adesso s’è accorto
che il sindaco forse perde le elezioni e che puoi diventà sindaco te,
allora te se vo’ comprà!” moglie di Otello: “Te se comprasse! Avvenisse
stò miracolo!”).
5. L’italiano medio tra Storia e politica. – Gli anni del “miracolo
economico” furono anche gli anni dell’apertura al centrosinistra. A
partire dalla metà degli anni Cinquanta e segnatamente dall’elezione
di Gronchi alla carica di Presidente della Repubblica, si fece strada
un orientamento politico, avversato dall’ala più reazionaria della Dc,
dalle gerarchie ecclesiastiche e dagli Stati Uniti – rappresentati in
Italia dall’agguerritissima ambasciatrice Clare Boothe Luce – favorevole
all’inserimento del Psi nell’area di governo. Le tappe di questo
progressivo e inedito avvicinamento scandirono il corso degli ultimi
anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta. Il primo governo di centro-sinistra,
con l’appoggio esterno dei socialisti, si sarebbe formato
nel 1962, ma già dalla fine degli anni Cinquanta l’Italia conobbe un
periodo di ammorbidimento delle contrapposizioni politiche e ideo-

Il boom economico e la commedia all’italiana
logiche, che si riflettè anche sul mondo del cinema. L’aspetto più rilevante
di questa nuova fase fu, a partire dal 1959, il succedersi di
film su fascismo, guerra e Resistenza, tematiche che per oltre un decennio
erano state messe al bando: la morsa della censura, che aveva
pesantemente condizionato nel corso degli anni cinquanta l’attività
di registi e sceneggiatori, si era finalmente allentata e il pubblico medio
era nuovamente disposto a ricevere prodotti di qualità: Il generale
Della Rovere (Rossellini, 1959), La grande guerra (Monicelli,
1959), Tutti a casa (Comencini, 1960), La lunga notte del ’43 (Vancini,
1960), Il gobbo (Lizzani, 1960), Un giorno da leoni (Loy,
1961), Tiro al piccione (Montaldo, 1961) Le quattro giornate di Napoli
(Loy, 1962), Il federale (Salce, 1961), La marcia su Roma (Risi,
1962), Anni Ruggenti (Zampa, 1962) riaprirono alcune tra le pagine
più dolorose della storia del ventesimo secolo – la prima guerra
mondiale e l’occupazione nazista nel 1943 – con modalità tutt’altro
che celebrative, dato il focalizzarsi dell’attenzione su personaggi per
lo più antieroici. Se è vero che “per avere un autentico rovesciamento
dell’ottica tradizionale si sarebbe dovuto aspettare ancora dieci
anni, con Uomini contro di Francesco Rosi” ( 44 ) non si può negare
che questi film rappresentassero una boccata d’ossigeno rispetto al
decennio precedente. Coniugando tematiche tradizionalmente improduttive
dal punto di vista commerciale a modalità di narrazione
accattivanti, seppero conquistarsi il favore del pubblico, soprattutto
laddove il registro drammatico era modulato da quello comico, e anche
le opere che allora ai critici più severi sembrarono indugiare nella
farsa (La grande guerra, La marcia su Roma, Il federale) rappresentarono
una manifestazione di impegno civile, per il tentativo di presentare
al grande pubblico, e soprattutto alle giovani generazioni,
un’immagine della “grande guerra”, del fascismo e della lotta di liberazione
meno falsata rispetto a quella che i testi scolastici, grondanti
di retorica patriottica, continuavano ancora ad accreditare.
Anche Una vita difficile appartiene a questo filone cinematografico:
è una sottile commedia di costume che segue i cedimenti morali
di “una generazione che voleva cambiare il mondo e si trova a dover
fare attenzione a non essere, essa, invece, cambiata dal mondo”, se-
( 44 ) “La storia è tollerata se presentata come celebrazione indolore, reliquiario
del passato da archiviare e poi dimenticare. […] La storia che chiarisca, dolorosamente
discrimini, incida nelle piaghe, frughi nelle rimozioni, risalga alle origini
remote, alle anticipazioni e ai campanelli d’allarme, appare sempre come pericolosa.
[…] La storia alonata, mitizzata, riverberata dagli impulsi umani e dalle debolezze
individualistiche, quella va sempre bene, non mette in forse l’oggi, non getta
ombre sul domani” P. PINTUS, Storia e film, Bulzoni Editore, Roma 1980, p. 49.
385

386
GIULIA MAZZARELLI
condo il commento di Risi. Appartiene in ogni caso alla stagione
della commedia all’italiana, di cui è un insolito ma riuscito esempio,
prezioso per chi voglia ricostruire “l’autocoscienza storica” degli italiani
in pieno miracolo.
Il punto di vista dal quale gli eventi sono osservati, oltre che vissuti
in prima persona, è quello di un uomo di sinistra, da sempre
impegnato nella politica e nel sociale; tipologia insolita per una
commedia all’italiana, che di solito metteva in scena personaggi mediocri
e conformisti. La ragione di questa scelta sta nel voler dare
voce a quella parte “sana” del paese che viveva con sempre maggiore
disagio l’evoluzione dell’Italia e del costume verso la corruzione, la
corsa al denaro, la mancanza di memoria storica; almeno per una
volta era offerta allo spettatore la possibilità di identificarsi senza
vergogna con il protagonista di una commedia all’italiana, che per
altro qualcosa concede, di tanto in tanto, alla tipologia classica dell’italiano
medio. Quest’uomo impegnato e idealista è Silvio Magnozzi,
uno studente universitario arruolato nell’esercito fascista e
divenuto partigiano l’otto settembre; una parabola comune a tanti,
ma che ha stentato a trovare eco nel cinema, almeno sino al 1960
quando Tutti a casa di Comencini contribuì a squarciare il velo di
censura e reticenza steso da quindici anni su di un capitolo di storia
con cui non si erano fatti i conti a sufficienza. Così come scarseggia
nel cinema di quegli anni qualunque riferimento alla Repubblica di
Salò, citata polemicamente nel film (Silvio: “La Resistenza non ha
valore? E allora che dovevo fare? Come hanno fatto tanti altri nel 1944,
vestire la divisa delle Brigate Nere, presentarmi agli esami armato, farmi
dare la laurea puntando la pistola sui professori?”): la netta condanna
del nazismo si accompagnava allora ad un alleggerimento nella
denuncia delle colpe nazionali di parte fascista. Se si esclude La lunga
notte del ’43 di Vancini, il cinema italiano non sembrava interessato
a rappresentare le rappresaglie e gli eccidi compiuti dai fascisti.
Questa rassicurante modalità di autorappresentazione rispondeva
alle esigenze della pacificazione nazionale e forse anche al bisogno di
sottrarsi al giudizio delle giovani generazioni, che pur si voleva con
questi film istruire. Alla luce di queste considerazioni il dialogo tra
Silvio Magnozzi e il Professore che lo interroga (Una vita difficile)
mostra di andare nella direzione opposta, nel ricordare la ferocia e la
mancanza di scrupoli di chi scelse, anche dopo l’armistizio, di combattere
al fianco dei nazisti. Eppure Silvio Magnozzi rappresenta una
minoranza: se la Resistenza ha rappresentato per lui una cesura epocale
nella storia d’Italia, uno spartiacque incancellabile, nella percezione
comune sembra prevalere il senso della continuità.

Il boom economico e la commedia all’italiana
Molti film della commedia all’italiana segnalano il prevalente bisogno
di rimozione; se nell’episodio Scenda l’oblio (I mostri) la visione
di un film sul nazismo suscita soltanto riflessioni sull’arredamento
della propria abitazione, se il sindaco de Il vigile vanta antenati di
grande spicco nella scena politica di ogni passato regime (“Mio nonno
è stato sindaco con Giolitti, mio padre podestà per vent’anni esatti in
un periodo che, si voglia o no, le strade, magari strette, sono state fatte!”),
è ne Il vedovo che troviamo meglio descritte le convinzioni politiche
della “maggioranza silenziosa”: alcune scene nel corso del film
autorizzano a definire Alberto Nardi ex fascista (Alberto: “partirei
oggi stesso volontario se si trattasse di combattere ancora contro di loro”,
Gioia: “ce l’hai ancora contro i portoghesi?”, Alberto: “gli inglesi, cara,
il canale di Suez è degli inglesi!” e ancora, parlando con la sorellina di
Gioia: “vedi Lolita per me sono stati tre i grandi uomini della storia,
Dante Alighieri, Napoleone Bonaparte e poi ci sarebbe stato il terzo che
malgrado i suoi collaboratori resta sempre un genio”, Lolita: “Chi è?”,
Alberto: “una volta lo si diceva, adesso purtroppo non si può più
dire!”), probabilmente ex repubblichino (Alberto con padre Agostino
dopo una settimana di ‘ritiro spirituale’: “quanto avevo bisogno di
una voce amica, di una parola di conforto! Lei mi ha sempre consigliato
bene padre Agostino, anche durante la guerra quando mi spinse a fare il
mio dovere”, padre Agostino: “ma senza esagerare, figliuolo, come hai
fatto tu!”) sicuramente convinto anticomunista (Alberto mentre legge
il Corriere della sera: “amichevole e franca conversazione tra Eisenhower
e Krusciov alla Casa Bianca. Siamo in buone mani! Presto
due russi andranno sulla luna. Bene! Due di meno!”). Verrebbe da
domandarsi in che modo questi mostri rappresentati dalla commedia
all’italiana abbiano attraversato fascismo, guerra e Resistenza e se
ad essi, come scriveva Croce, e come si domanda anche Luisa Mangoni,
il fascismo avesse davvero lasciato come sua unica eredità un
“vuoto di sapere, vuoto di passione, vuoto di volontà” ( 45 ). Alberto
Nardi e i suoi simili rappresentano gli italiani che aderirono con una
certa convinzione al fascismo, passarono indenni guerra e dopoguerra
e si adattarono, pur con qualche malinconica nostalgia, al nuovo
regime democratico, in grado di offrire ampie possibilità di ascesa
economica. Uomini disinteressati alla “cosa pubblica” e alla politica
se non per quel tanto che la politica offre ai suoi clienti.
Il film che meglio stigmatizza il rapporto dell’italiano medio con
le istituzioni è senz’altro Il vigile. Otello Celletti è uno scansafatiche
( 45 ) L. MANGONI, Civiltà della crisi. Gli intellettuali tra fascismo e antifascismo,
in Storia dell’Italia repubblicana, Einaudi, Torino 1994, vol. I, p. 617.
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GIULIA MAZZARELLI
dal dubbio senso civico, incapace di esercitare la funzione pubblica
affidatagli e di gestire i legami con il potere al di fuori dei suoi personali
e miserabili interessi. Un modo quanto mai personalistico di
gestire la cosa pubblica gli consente di vestire i panni del vigile in
motocicletta; emerge subito la tendenza ad un uso clientelare del potere
sia da parte del sindaco (Sindaco [rivolto ai suoi collaboratori]:
“È straripato il Tevere! Anche questa ci voleva! Prima la scarlattina, poi
lo scandalo del Piano Regolatore e adesso mi straripa il Tevere! E tutto
questo sotto le elezioni! […] Se il Tevere straripa il comunista gode!”),
sia da parte di chi mostra di non comprendere né l’importanza né le
prerogative della funzione pubblica assegnatagli (il padre di Otello:
“Otè, me devi fa’ un piacere, lo conosci l’Amilcare? So’ vent’anni che ci
soffro! Gli devi fa’ ‘na bella contravvenzione de ventimila lire!” moglie
di Otello: “Papà, non se po’ fa’! Allora io che ce n’ho quattro o cinque qui
sullo stomaco? Eh!” Otello: “Boni, boni! Ma che state a di’? Vabbè che
c’ho una divisa che mi dà autorità, ma non posso mica fare vendette! E
poi, se voi c’avete dei nemici, permettete, ci sono prima i miei che devo sistemare!”).
Lo zelo con cui Otello compie il suo dovere è pari solo alla
sua inabilità nello svolgere persino le mansioni più semplici. Impettito
nell’uniforme da motocicletta, assume i toni e i modi del “pedante
uomo delle istituzioni”, forte con i deboli e debole con i forti. Quando,
a causa di un equivoco con il sindaco, il vigile è trasferito al canile
municipale, la frustrazione per la perdita dell’autorevole mansione lo
porta per una volta a vestire i panni dell’onesto cittadino vittima della
corruzione politica. Il passaggio dalla deferenza verso l’autorità all’aperta
rimostranza non è però frutto di un ritrovato senso civico: la
sproporzione di forze con la controparte lo fa presto desistere dal portare
avanti qualunque seria azione legale e lo convince a indossare
nuovamente i panni di chi, pur in sella ad una motocicletta da vigile,
ha sempre praticato l’inveterata e scandalosa “arte di arrangiarsi”.
La sfera politica appare totalmente priva di quegli ideali di rinnovamento
che pure si riaffacciarono all’orizzonte con l’apertura al
centrosinistra; dopo un decennio di consolidato potere Dc nello Stato
e nella società, e sotto la recente egemonia dorotea, la politica
sembra ridursi ad un esercizio privato del potere pubblico. Da parte
sua la Chiesa si fa garante della continuità e si “arruola” nella battaglia
elettorale esortando i fedeli a votare “per un partito che sia popolare.
E cioè democratico. E quindi rispettoso della nostra fede cristiana.
Un partito, per concludere, che sia democratico e cristiano”, così recita
l’omelia del parroco di Agramonte (Divorzio all’italiana).
L’emergere di nuove élite, arroganti e ostili a qualunque ipotesi
di riformismo (“La mi scusi signora! Sa… alcolizzati … montati dal

Il boom economico e la commedia all’italiana
centrosinistra!” in Signore e signori), rappresentate politicamente dalla
Democrazia cristiana verso la quale si dirigono molti degli strali della
satira “all’italiana” (I mostri, Il vigile, Una vita difficile), si accompagna
al rapido declino della nobiltà. La presenza dei nobili nella
commedia all’italiana diventa quasi un topos: ne Il vedovo, in Una
vita difficile e l’anno dopo in Divorzio all’italiana la sopravvivenza,
ormai anacronistica ( 46 ), di questi grandi protagonisti delle epoche
passate viene sistematicamente ridicolizzata. Divorzio all’italiana
mostra l’inedia e la mollezza della nobiltà di provincia, ormai lontana
dagli antichi fasti, pressoché priva di possessi, persi spesso al gioco,
ma ancora circondata da un aura di rispetto e considerazione che
la fa essere, nel bene e nel male, protagonista delle vicende del paese.
Il film offre uno spaccato interessante di una Sicilia in trasformazione,
in cui le nuove élites si sostituiscono alla vecchie senza grandi
stravolgimenti sociali. La nobiltà cede il passo al potere democristiano
e alla mafia, con qualche colpo di coda soprattutto dopo la riforma
agraria, che decretò la fine del vecchio blocco di potere agrario:
“i notabili meridionali elevarono solenni e pubbliche proteste contro
il comportamento della DC, e molti di loro si rivolsero all’estrema
destra” dopo che “il partito su cui avevano riposto fiducia per recuperare
la perduta autorità li aveva, ai propri occhi, traditi” ( 47 ). Al
“primo stato” non resta ormai che un ruolo di rappresentanza, o al
più una rapida trasformazione e assimilazione ai nuovi ceti emergenti,
come registra puntualmente Una vita difficile mostrandoci il marchese
Caperoni ridotto a fare la comparsa in un film, nel ruolo per
altro rispettabilissimo di San Pietro, mentre il principe Rustichelli
cerca nuovo prestigio nell’accompagnarsi alla vincente ‘casta’ dei
‘cummenda’ e nel fare da specchietto per le allodole sui giornali di
gossip.
6. Segnali di crisi. – Il sorpasso, film che meglio rappresenta lo spirito
del tempo, uscì nel 1963, anno che convenzionalmente chiude il
quinquennio del “miracolo economico” (1958-1963). Dalla creazione
del Mercato Comune nel 1958, l’economia italiana si era sviluppata
in maniera esponenziale; la fiducia e l’ottimismo accompagnavano
una trasformazione che investiva anche la politica, con la crisi
del centrismo e l’apertura al centrosinistra, e la società, con l’imporsi
( 46 ) Il referendum del ’46 aveva dato il colpo di grazia ad una classe già in declino.
( 47 ) P. GINSBORG, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, cit., p. 186.
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GIULIA MAZZARELLI
di nuovi modelli culturali; il paese aveva ormai imboccato la strada
del progresso, e si accingeva a diventare una delle nazioni più industrializzate
dell’Occidente.
Perché allora un film così amaro, dalla comicità travolgente eppure
inquietante, quasi una metafora carica di presentimenti? Perché
il 1963 segna la prima battuta d’arresto in questo prodigioso sviluppo:
il meccanismo di crescita s’inceppa, e scatena una serie di reazioni
a catena che delineano un quadro di grande incertezza sia economica
sia politica. L’eccesso, in alcuni settori produttivi del Nord,
della domanda di forza-lavoro e l’aumento dei salari, con conseguente
aumento dei prezzi, fecero dell’inflazione, per la prima volta
dal 1940, un problema significativo; tra blocco degli investimenti
dei piccoli e medi imprenditori, fuga di capitali all’estero e clima di
incertezza fomentato dagli ex monopoli elettrici la fiducia negli affari
fu scossa. La conseguenza politica di questa situazione, che gli industriali
addebitavano al governo Fanfani, fu il blocco delle riforme.
Non dimentichiamo infine che nel luglio del 1962 gli scontri di
Piazza Statuto avevano segnato la ripresa dei conflitti sociali, ed evidenziato
l’emergere di un nuovo soggetto politico, l’operaio immigrato.
“Le battaglie sindacali del ’62 e i fatti di Piazza Statuto dimostrarono
che i sogni di uno sviluppo sociale armonioso prodotto dal
‘miracolo’ erano profondamente sbagliati. Se da una parte il boom
favoriva un maggior individualismo e facilitava l’assimilazione dei
valori dominanti, dall’altra era la causa dell’incontro dei giovani meridionali
con gli operai settentrionali e con la tradizione della Resistenza.
Tale incontro avrà conseguenze a dir poco esplosive, e mostrerà
come le spinte sovversive delle masse popolari italiane fossero
ben lungi dall’essere scomparse” ( 48 ).
Dopo un euforico quinquennio, cominciano ad emergere le prime
perplessità circa uno sviluppo che prometteva benessere e progresso,
e che rivela ora profondi squilibri. Il sorpasso raccoglie questo
turbamento e lo elabora a suo modo, utilizzando gli strumenti propri
della satira di costume. Il suo bersaglio, come per tutte le commedie
all’italiana, è l’individuo ‘deformato’ dai miti del capitalismo
consumistico; ma c’è qualcosa in più rispetto agli altri film coevi,
quasi una previsione di catastrofe, un’anticipazione della crisi che
investirà il paese alla fine del decennio. È questo aspetto che fa de Il
sorpasso la più riuscita rappresentazione dell’Italia del miracolo,
un’epoca talmente densa di contraddizioni da scatenare la furia sarcastica
di una nutrita squadra di sceneggiatori.
( 48 ) Ibid., p. 343.

Il boom economico e la commedia all’italiana
Vediamo nel dettaglio il contenuto del film – che merita una
trattazione speciale – analizzato con particolare attenzione agli elementi
che consentono una ricostruzione storica dell’atmosfera di
quegli anni.
L’Italia degli anni ’60 ha un’identità in via di definizione; “[…] il
benessere possibile, prima ancora di quello reale, innesca meccanismi
rilevanti di consenso al sistema nel suo insieme […]” ( 49 ). Eppure
una categoria di persone “vecchia maniera”, insensibile alle seduzioni
del cambiamento convive con la tipologia umana figlia del
boom. È il contrasto tra universi morali opposti a determinare la
scelta di due personaggi così diversi: da una parte Bruno, un atletico
quarantenne che vive un eterno presente alla ricerca del divertimento
e del facile affare; dall’altra Roberto, insicuro e coscienzioso studente
universitario, che alle spiagge affollate preferisce la solitudine
dei suoi studi.
L’incontro tra i due è casuale e, per certi versi, straordinario: nella
vita quotidiana si eviterebbero, ma è ferragosto e Bruno è arrivato
tardi all’appuntamento con gli amici; Roberto, affacciato alla finestra
del suo appartamento, è l’unica anima viva incrociata sino a
quel momento e Bruno ne approfitta subito per telefonare:
– Bruno: “Ma guarda ‘sta burina, è già uscita! Porco Giuda! ‘Sti cornuti!
L’appuntamento era alle undici e a mezzogiorno già so’ andati
via! (...) Mi sa che me tocca passare il ferragosto co’ mammà!”
Di fronte a questa sciagurata ipotesi, e non rassegnandosi all’idea
di perdere una giornata che si annunciava straordinaria, Bruno propone
al giovane di andare a prendere un aperitivo con lui. Così per
Roberto, tutt’altro che entusiasta all’idea di cambiare i suoi programmi,
comincia l’avventura, una full immersion nella più effimera
e inconsistente Italia del miracolo, l’occasione per una “educazione
sentimentale” sui generis.
Già dai titoli di testa Bruno compare a bordo della sua Lancia
Aurelia sport decapottabile, appendice meccanica in grado di potenziare
al massimo e soddisfare in parte la sua sete di successo; sportiva
e pretenziosa, qua e là riverniciata, segno di recenti ammaccature, è
lo specchio della sua anima. All’interno del veicolo, una splendida
Brigitte Bardot, profana vicaria della Madonna, ingentilisce il cruscotto
e raccomanda la prudenza; ma è la fortuna a vegliare sulle
scorribande automobilistiche di Bruno, se l’oggetto che questi ‘frequenta’
maggiormente è un cornetto rosso ciondolante al lato del
( 49 ) G. CRAINZ, Storia del miracolo economico italiano: culture, identità, trasformazioni
fra anni Cinquanta e Sessanta, cit., p. 134.
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GIULIA MAZZARELLI
volante; l’ultimo significativo orpello è un cartello “camera dei deputati”
posto sul parabrezza, fasullo ma efficace ad esorcizzare contravvenzioni
e polizia stradale (Il vigile docet).
Con queste credenziali, Bruno non può che rivelarsi uno dei tanti
‘mostri’ che popolavano allora l’Italia e il cinema; la sua guida ne è
una prova: continui sorpassi, uno più azzardato dell’altro, accompagnati
da un insopportabile scampanellio di clacson e alla velocità,
impressionante per quegli anni, di 120/140 chilometri all’ora.
– Bruno: “Io bene come in macchina non sto in nessun posto!”
Prima di incontrare Roberto, Bruno ha percorso in due ore e mezza
la strada tra Amalfi e Roma, e, insieme al suo nuovo amico, in due
soli giorni, raggiungerà Civitavecchia, Grosseto e Castiglioncello, con
meta finale Viareggio. È l’epoca delle vacanze di massa: “l’accresciuta
mobilità costituì probabilmente la novità più rilevante nell’utilizzazione
del tempo libero. [...] il regionalismo italiano, così forte e tenace,
cominciò a smorzarsi man mano che l’esercito motorizzato del ‘miracolo’
si riversava sulle nuove arterie della penisola” ( 50 ).
La strada, per Bruno, non è soltanto una via di collegamento, è
un universo da scoprire; ogni mezzo di trasporto, a due, tre, quattro
o dodici ruote, ha la sua dignità e merita di ricevere attenzione, con
un insulto, un gestaccio, nella migliore delle ipotesi una battuta:
– Bruno (sorpassando un sidecar con sopra due donne, un uomo e
un neonato): “E nonno? Non è voluto venì? L’avete lasciato a casa?
Le belle famiglie italiane! Buon viaggio!”
Se però alla guida di un’auto c’è una bella donna, la musica cambia:
indossati i panni del latin lover, Bruno passa all’attacco:
– Bruno: “Aò! A Robè! Guarda un po’ qua dietro! Le hai viste? Queste
due qua dietro a noi! Adesso me faccio superà così attacchiamo, ah?
Ehi, pupe! Deutschland, gagliardo! Le tedesche ci stanno subito!”
– Roberto: “Ma tu lo conosci il tedesco?”
– Bruno: “No, ma me l’immagino. Hallo darling!”
Il Belpaese, meta privilegiata dei turisti di mezza Europa, comincia
a popolarsi di splendide e biondissime straniere, protagoniste di
tante storie d’amore e di gelosia, nel cinema come nella realtà. Ma
non ogni donna suscita l’interesse di Bruno:
– una ragazza di colore (con un grande zaino sulle spalle): “Darmi
passaggio a Grosseto?”
– Bruno (mentendo spudoratamente): “No, mi dispiace! Noi andare
verso Roma. Voi altra direction. Mi dispiace! Sorry! (a bassa voce)
Vattene via, pallidona!”
( 50 ) P. GINSBORG, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, cit., p. 330.

Il boom economico e la commedia all’italiana
L’arte amatoria di questo provinciale don Giovanni si ferma alle
Colonne d’Ercole; devono ancora venire gli anni in cui Emanuelle
nera farà desiderare le esotiche bellezze africane!
Nell’inseguimento delle due tedesche Bruno e Roberto incappano
in un cimitero, scambiato per una lussuosa villa; resisi conto dell’abbaglio,
timidamente si ritirano. È il primo presagio di morte.
Il viaggio prosegue, e i due scambiano alcune battute d’argomento
culturale:
– Bruno (con voce altisonante): “E io me la portai al fiume credendo
che fosse ragazza, e invece aveva marito! La so a memoria! Ho messo
il disco di Foà da Terracina a Roma. È... come si chiama? La... la
sposa infedele, lì ...di coso... quello spagnolo, quello un po’... (si tocca
l’orecchio, traduzione gestuale dell’appellativo ‘ricchione’)
– Roberto: “Garcia Lorca.”
– Bruno: “Ah! Ce l’hai pure tu il disco?”
Proprio in quegli anni ebbe un grande successo la lettura di Arnoldo
Foà del Lamento per la morte di Ignazio di Garcìa Lorca, insieme
a quella di Albertazzi di alcuni brani dell’Idiota di Dostoevskij:
“per una brevissima stagione il disco sembra possibile veicolo della
cultura tradizionale” ( 51 ).
– Bruno: “Tié! Metti questo. È Modugno. Perché a me la poesia mica
mi convince tanto. Mi piace la musica. Questo per esempio, questo è
forte, è mistico, sa’? Te fa pensà. Eh, la musica! A me Modugno me
piace sempre. Quest’uomo in frac me fa impazzì. Perché sembra una
cosa da niente, invece c’è tutto, la solitudine, l’incomunicabilità e
quell’altra cosa, quella che va de moda adesso... la... l’alienazione!
Come nei film di Antonioni. Hai visto l’“Eclisse”?”
– Roberto: “Si, è un film...”
– Bruno: “Io sì! Ci ho dormito. Una bella pennichella! Bel regista Antonioni!
C’ha una Flaminia Zagato che una volta sulla fettuccia di
Terracina m’ha fatto allungà il collo!”
È difficile per Roberto avviare con Bruno una conversazione che non
verta su auto, donne o brandelli di argomenti culturali orecchiati in
chissà quale occasione. A proposito del giudizio sull’Eclisse di Antonioni,
è verosimile che Risi si sia preso in questo modo una piccola rivincita
nei confronti di registi da lui stesso definiti “più nobili… e più
noiosi” ( 52 ). In generale non correva buon sangue tra i registi della commedia
e gli “autori” riconosciuti come tali dalla critica; in particolare
( 51 ) G. CRAINZ, Storia del miracolo economico, cit., p. 143.
( 52 ) Intervista a D. RISI in P. PINTUS (a cura di), Commedia all’italiana: parlano
i protagonisti, cit., p. 162.
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GIULIA MAZZARELLI
una reciproca antipatia legava Risi e Antonioni, il quale disse una volta
al “cantore” del boom: “Avevi cominciato bene, poi ti sei buttato via!”
– Roberto: “Sai, qui vicino ci sono delle belle tombe etrusche.”
– Bruno: “A si? Be, io le tombe etrusche me le attacco ar ... Ah ah!”
e ancora, dopo alcune ore:
– Roberto: “Da qui si vede il monte Fumaiolo”
– Bruno: “Il monte Fumaiolo me l’attacco dalle stesse parti delle tombe
etrusche! Ah ah!”
All’improvviso Bruno è costretto a rallentare; la strada è bloccata
da un camion riverso su un lato, con il suo carico di frigoriferi sparpagliati
tutt’intorno. Bruno scende dalla macchina e parla con l’autista:
vuole ‘comprare l’incidente’ per poi rivendere i frigoriferi ammaccati;
qualche metro più in là giace un corpo coperto da un lenzuolo
bianco: è il secondo presagio di morte e per la prima volta
Bruno resta senza parole.
In un film che si svolge quasi interamente a bordo di un auto non
poteva mancare l’incidente: “(…) i morti sulle strade nel 1962 sono
poco meno di 10000: molti di più che negli anni Cinquanta, ovviamente,
ma molti di più, anche, che negli anni Ottanta (8500 nel
1980, 7200 nel 1985)” ( 53 ).
Diametralmente opposto a Bruno, riservato e attento a non ferire
il prossimo, Roberto appartiene a quella categoria di persone introverse
e sempre a disagio in mezzo agli altri. Negli anni del boom è
un disadattato, “un selvaggio”, come Bruno ama definirlo, non ancora
‘raggiunto’ dalla civiltà... dei consumi: non fuma, non guida e
con le ragazze non ci sa fare; è molto timido, e incapace di contraddire
chi gli sta di fronte:
– Roberto (pensando tra sé e sé, terrorizzato dalla guida di Bruno):
“Sono nelle mani di un pazzo!”
– Bruno: “Paura?”
– Roberto: “No no! Guida bene lei!”
e ancora, dopo una pennichella di Bruno a Civitavecchia:
– Bruno: “Senti un po’, la padrona della locanda m’ha detto dei parenti
tuoi. Ma non me potevi aspettà? Te c’accompagno io! N’do’
sta?”
– Roberto: “Vicino a Grosseto.”
– Bruno: “E capirai! Son due passi!”
– Roberto (pensando): “Adesso basta! Adesso glie lo dico che era una
scusa per liberarmi di lui!”
– Bruno: “Oh confessa! Non è che me volevi scaricà? Di la verità!”
( 53 ) G. CRAINZ, Storia del miracolo economico, cit., p. 136.

Il boom economico e la commedia all’italiana
– Roberto: “Io? Ma no! Anzi! No... è che stavi con quella... allora io...
prendevo il pullman...ma è meglio la macchina! Non volevo disturbarti.”
Questa “voce pensante”, che accompagna l’intera vicenda narrata,
mette a nudo l’io più autentico del giovane; ne mostra la fragilità, ma
anche la profondità. Non è un caso che di Bruno non sia dato percepire
i pensieri; in lui non c’è scarto tra intenzione e azione, perché nel
momento in cui pensa, contestualmente agisce. Eppure la sua personalità
è sufficientemente sfaccettata da impedirgli di cadere nel ruolo
della macchietta: diversamente dalle caricature de I mostri, Bruno è un
personaggio verosimile, e in quanto tale non privo di coscienza; diciamo
piuttosto che questa è offuscata dai bagliori di una vita futile e di
un’epoca finta. L’esuberanza e l’allegria continuamente esibite appaiono
artificiali, e nascondono la paura di fare i conti con se stessi:
– Bruno: “Fermala Valeria, sennò all’età mia ti ritrovi come me, solo
come un cane.”
per un attimo Bruno toglie la maschera e rivela il suo vero volto;
poi l’attimo passa e la corsa continua.
Durante il viaggio verso la casa dei parenti, Roberto descrive a Bruno,
con accenti di profondo affetto e ammirazione, ogni membro della
famiglia: lo zio Michele, alto e sempre allegro; la zia Enrica, innamoratissima
del marito (“se lo mangiava con gli occhi”); la bella zia
Lidia, di cui era innamorato da bambino; il cugino Alfredo; il fattore
e, per finire, Occhiofino, che lo teneva sempre sulle ginocchia:
– Bruno (dopo aver conosciuto Occhiofino): “Non avevo mai visto
una checca di campagna!”
– Roberto: “Ma che dici?”
– Bruno: “Non mi dirai che non lo sapevi! È così evidente! E poi, scusa,
secondo te perché lo chiamano Occhiofino?”
– Roberto: “Ma... così... un soprannome.”
– Bruno: “Macché soprannome! Occhiofino – Finocchio! È chiaro!”
L’immagine idealizzata di questi parenti di campagna, elaborata
nell’infanzia e sopravvissuta all’impatto con l’età adulta, non regge al
sarcasmo demolitore di Bruno; particolarmente significativa da questo
punto di vista, oltre che preziosa per i riferimenti storici che offre,
la scena del monologo del cugino Alfredo, affermato avvocato ed
esimio rappresentante di quelle forze conservatrici e reazionarie che
tra il ’63 e il ’64 fecero fallire la politica riformatrice del centrosinistra;
monologo durante il quale Bruno si accosta a Roberto per renderlo
partecipe di una clamorosa intuizione:
– il cugino Alfredo: “Tu babbo, coi contadini sei un fesso! Se non ci
fosse il sottoscritto a tener testa a questi quattro bifolchi, lui si fareb-
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GIULIA MAZZARELLI
be portar via pure la camicia! I contadini, specie di questi tempi,
sono brutte bestie! Più gli si concede, e più pretendono! Quindi non
gli si concede nulla, così non hanno nulla da pretendere! Giusto?”
– Bruno: “Giusto! Il cugino Alfredo l’è un bel democratico!”
– Alfredo: “Ti ricordi Luisita, a Montalto di Castro...quella volta che
tenni il mio comizio? Parlai appunto della politica demagogica dell’attuale
governo di centrosinistra nei confronti dei grandi proprietari
terrieri, i cui problemi erano stati così coraggiosamente affrontati e
risolti dal Partito fascista, che non si preoccupò soltanto di dare un
impero per una maggiore espansione agricola...”
– Bruno (bisbigliando): “Aò! Roberto! Hai visto? Il cugino Alfredo
non è mica figlio di Zio Michele. È figlio del fattore.”
– Alfredo: “...ma anche di consolidare in seno alla patria quel patrimonio
terriero che per tradizione storica ed economica apparteneva
appunto ad una classe scelta, colta e soprattutto italiana.”
– Roberto (a Bruno): “Ma sei matto?”
– Bruno: “E come no? Guardali! So’ uguali! Le stesse sopraciglia...
guarda!...Pure il tic alla mano!”
– Alfredo: “…mi fanno ridere quando parlano di equiparazione, di
Piano Verde e compagnia bella! Sappiamo benissimo quello che è costato
allo Stato e quindi a noi l’attuazione della cosiddetta Riforma
Agraria, e con quali risultati poi! L’urbanesimo, l’immigrazione interna,
il disordine nazionale! Senza contare il corrispondente depauperamento….”
– Bruno: “So’ sputati! Ah ah! Hai capito! Zia Enrichetta si mangiava
con gli occhi zio Michele, come dici tu, però andava a letto col fattore!
Ah ah! Scusa eh!”
– Alfredo: “… Dissi tutte queste cose, ma furono parole al vento, perché
oggi sono poche le orecchie che raccolgono gli argomenti suggeriti
dal buonsenso e dalla ragione. Giusto?”
– Roberto (tra sé e sé): “Zia Enrica... con il fattore! E sì, ha ragione
Bruno! E forse zio Michele lo sa, forse lo sapeva anche allora! Caro
zio Michele! Come ero felice il giorno che mi portò a vedere il puledro
comprato alla fiera! ...Alfredino! Se sarò bravo arriverò dove è
arrivato lui! Alla 1500 e alla brava mogliettina che dice sempre sì e
parla poco perché le parole servono tutte al marito.”
Nel corso di un pomeriggio, grazie alla brutale opera di demistificazione
di Bruno, l’infanzia di Roberto si sgretola e il futuro, incarnato
dal cugino Alfredo, tipico esemplare della conformistica generazione
delle ‘tre M’ (macchina, moglie, mestiere) ( 54 ), tutt’a un
( 54 ) Ibid., p. 137.

Il boom economico e la commedia all’italiana
tratto perde ogni attrattiva; in assenza di punti di riferimento più
edificanti, al giovane non resta che la travolgente seppur sospetta euforia
di Bruno.
Roberto comincia a muovere i primi passi nei panni di un nuovo
uomo, più disinvolto e impulsivo, lievemente cinico, con l’incertezza
e la goffaggine di chi inizia per la prima volta a camminare. Bruno
è un bravo maestro, e la sua lezione di vita si conclude in maniera
magistrale a Castiglioncello, nella casa in cui la moglie e la figlia trascorrono
le vacanze estive. Lo spettatore resta sorpreso almeno quanto
Roberto nell’apprendere che Bruno ha una famiglia; ma a mitigare
questo stupore giunge la serena irresponsabilità con cui questi
vive il ruolo di marito e di padre:
– Bruno: “…Sai… io c’avevo vent’anni, avevamo fatto l’impiccio e…
ci siamo sposati di corsa.”
– Roberto: “E poi? Avanti signor Cortona, mi dica tutta la verità!”
– Bruno: “E poi niente! Un giorno m’ha piantato. Chi lo sa, forse…
forse non legavamo. (…) Una volta m’ha mandato seicentomila lire
da dare ad un Monsignore per l’annullamento. Ma io non gliele ho
date! Me dispiaceva rompere il vincolo definitivamente!”
– Roberto: “E le seicentomila lire?”
– Bruno: “Eh?”
– Roberto: “Ti sei tenuto le seicentomila lire?”
– Bruno: “Sì!”
– Roberto: “Bravo! Ben fatto!”
Roberto impara in fretta; ma il mattino dopo, in spiaggia, è nuovamente
un pesce fuor d’acqua: vestito da capo a piedi in mezzo alla folla
dei bagnanti, non riesce ad entrare in sintonia con l’euforia ferragostana.
La spiaggia, con le gite in barca, le partite a ping pong, le esibizioni
atletiche, il tripudio di bikini e le prime canzonette pensate apposta
per l’estate, da Legata ad un granello di sabbia a Pinne fucile ed
occhiali, è il regno del boom, il luogo in cui si concentrano i frutti del
benessere e i maggiori cambiamenti di costume. “La Versilia era allora
la spiaggia elitaria e “in”, in contrapposizione all’altra grande spiaggia
nazionale tra Rimini e Riccione, più popolare, dove Bruno non avrebbe
trovato delle degne prede” ( 55 ). Bruno si muove in questo contesto
con gran disinvoltura, come su di un palcoscenico; ha l’entusiasmo e
l’incoscienza di un ventenne. Forse è per reazione a questa sua eterna
giovinezza, che la figlia, appena quindicenne ma già adulta, si accompagna
ad un maturo e ricco imprenditore, sicura fonte di certezze:
( 55 ) Intervista a D. RISI in P. PINTUS (a cura di), Commedia all’italiana: parlano
i protagonisti, cit., p. 164.
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GIULIA MAZZARELLI
– Bruno: “Ma ti rendi conto che potrebbe avere una figlia buona per
tuo padre?”
– Figlia: “Non ci sperare! Bibì è scapolo!”
A pomeriggio inoltrato i due si mettono nuovamente in marcia.
Roberto, finalmente contagiato dall’entusiasmo di Bruno, decide di
abbandonare i suoi programmi e di andare a trovare Valeria, la ragazza
di cui è innamorato. In viaggio verso Viareggio Roberto è eccitatissimo;
per la prima volta nella sua vita si sente sulla cresta dell’onda
e incita Bruno ad andare più veloce.
– Roberto: “Su! Vola! Alè!”
– Bruno: “Questa notte cosa facciamo? Dormiamo a Viareggio?”
– Roberto: “Non lo so! Non facciamo programmi! Vedremo!”
– Bruno: “Bravo! Come piace a me! Senza programmi! Alè!”
– Roberto: “Dai, corri! Dai! Urrà!”
– Bruno: “Urrà! Ah ah! Bravo avvocato! Adesso vai bene! Lo vedi che
ti sei sbloccato? Aò! Ma chi c’è davanti a noi? Superare!”
– Roberto (in uno stato di febbrile eccitazione): “Bruno, ho passato
con te i due giorni più belli della mia vita! Davvero!”
Bruno supera i 140 km/h, e Roberto, euforico e terrorizzato nello
stesso tempo, tocca con gesto scaramantico il cornetto rosso appeso
al cruscotto della macchina:
– Bruno: “Stai calmo, stai calmo.”
– Roberto: “Urrà!”
Durante un altro sorpasso, Bruno evita per poco la macchina che
arriva dalla direzione opposta; questa volta è lui a toccare il cornetto,
e ci aggiunge un bel paio di corna:
– Bruno: “Quello campa poco!”
La corsa al sorpasso si fa sempre più frenetica; la strada, a picco
sul mare, è un tornante dopo l’altro e la macchina che sta davanti
non accenna a cedere il passo. Un camion sbuca all’improvviso da
una curva e travolge la macchina di Bruno.
– Bruno: “Mammaaaaa!!!!”
– Roberto: “Brunooooo!!!!”
L’auto precipita nel burrone; Bruno viene sbalzato fuori appena
sotto la strada, mentre Roberto si schianta insieme alla macchina sugli
scogli.
Bruno si rialza e guarda giù, impietrito; un poliziotto gli si accosta:
– poliziotto: “Lo conosceva?”
– Bruno: “Si chiamava Roberto. Il cognome non lo so. L’ho conosciuto
ieri mattina.”
Dopo un primo piano di Bruno, che ha il volto rigato di sangue e
drammaticamente serio, il film si chiude su un’inquadratura dell’au-

Il boom economico e la commedia all’italiana
to, ridotta ad un rottame in fondo al burrone. Il mare è agitato, e la
costa, diversamente da quella ‘addomesticata’ delle spiagge di Castiglioncello,
è frastagliata, selvaggia, inquietante; anche la natura sembra
rifiutarsi di addolcire questa piccola tragedia. Il viaggio verso la
morte, anticipato dalla visita al cimitero e dal primo incidente, si è
concluso; il ‘miracolo’ ha mostrato l’altra faccia e si fa premonitore
di future sciagure.
C’è forse un eccesso di moralismo in questo finale così amaro,
che condanna senza appello una modernizzazione vista in termini
esclusivamente negativi. In fondo gli anni sessanta, e il ’63 in particolare,
sono stati forieri di grandi cambiamenti, apprezzabili anche
da chi, da sinistra, era più attento al dover essere che all’essere. Ma è
notevole, a ben guardare, la capacità di Risi e dei suoi sceneggiatori
di leggere tra le righe degli avvenimenti, di scorgere nell’euforia i segni
del malessere, di denunciare i pericoli nascosti in uno sviluppo
tanto rapido quanto squilibrato, di segnalare i guasti prodotti dal
boom nelle giovani generazioni, pur ignorando, o forse presentendo,
il futuro passaggio dalla generazione delle “tre M” a quella del ’68.
399

ANDREA NIEDDU
LA SVOLTA ECONOMICA DEL 1973
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La dimensione sociale. – 3. La congiuntura economica.
– 4. Il baricentro geopolitico in movimento.
1. Premessa. – Il 6 ottobre 1973, giorno della festività ebraica dello
Yom Kippur (cioè dell’espiazione), scoppiò la quarta guerra arabo-israeliana:
Israele, riunita in preghiera, fu vittima di un attacco a danno
delle proprie postazioni sul Sinai per mano egiziana e contemporaneamente
sul Golan da parte di forze prima siriane, poi irachene. Si trattò
di giorni incandescenti, che videro i due eserciti affrontarsi in un sorprendente
dispiegamento di uomini e mezzi fino al giorno 22 dello stesso
mese, in cui il solo intervento del Consiglio di Sicurezza dell’ONU
impose la cessazione delle ostilità.
Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta il mondo
intero sperimentò così un cambiamento; il segnale palese, che qualcosa
d’importante un po’ ovunque ed in modo differente fosse accaduto,
nel tardo autunno del 1973, furono gli estremi, stabiliti da una decisione
dell’OPEC: la vertiginosa ascesa dei prezzi del greggio mediorientale
e il relativo blocco delle esportazioni verso quei Paesi, che avevano osato
appoggiare Israele.
Le conseguenze si concatenarono straordinariamente l’una all’altra,
esercitando una pressione che fu di una portata tale da scardinare l’esistente
ordine politico ed economico del mondo occidentale. A tale fatto
fu data la definizione di crisi petrolifera.
Sorge dunque spontanea e del tutto legittima la domanda del “Perché
e Come?”, ma soprattutto del “Dove la via d’uscita?” da una contrattura
del sistema delle relazioni internazionali nell’ambito dei rapporti
tra Paesi produttori di materie prime, soprattutto di petrolio, e
Paesi consumatori ad economia industrializzata.

402
ANDREA NIEDDU
È capitato ad ognuno di noi di riscoprirsi assorto dinanzi alla TV o
destarsi dall’immersione profonda nella lettura di un qualche scritto,
alienato nella comprensione di eventi, che la cronaca quotidiana già etichettava
attraverso le sue testate giornalistiche come crisi e che solo
un’indagine storica scientificamente valida avrebbe potuto assorbire nel
lungo termine come tali, vagliandone i molteplici aspetti.
È in quest’ultima ottica, ovvero quella di un’oggettiva aderenza alla
realtà e di un serrato rigore analitico, che mi accingo a sviluppare una
riflessione articolata sulla crisi petrolifera del 1973 e che credo debba
affrontarsi qualsiasi indagine, tesa alla ricostruzione più verosimile dei
fatti e al raggiungimento, difficile e a volte inintelligibile, della verità
storica.
La storia economica degli anni Settanta si configura allora come la
storia delle crisi petrolifere, ergendosi a strumento ideale di chiunque
voglia capire come il 1973, dopo aver registrato un arresto ed un cambio
del continuum dell’economia del dopoguerra, improntata ad un
criterio di sviluppo ininterrotto ed indiscriminato, abbia dato valore a
quel vocabolo, “crisi”. Il primo ventennio della seconda metà del Novecento
costituì l’humus e il substratum del problema energetico mondiale,
nonché la premessa a quel famoso “momento decisivo di cambiamento”,
che la voce autorevole dell’Oxford Dictionary attribuisce a “crisi”
come significato più appropriato. Il 1973 si arrogò il diritto di una presa
di coscienza dell’insostenibilità di un modello di crescita del sistemamondo,
che con il ritorno ad un disarmante realismo in una, oramai
diradata, aura ottimistica si ritrovò nel baratro della crisi a far timidamente
capolino sullo spettro delle possibili soluzioni.
L’intero sistema delle relazioni internazionali si affacciò agli anni
Settanta, ostentando una certa ambiguità: gli Stati Uniti furono colti
da una profonda crisi monetaria, la crisi petrolifera ridisegnava nuovi
scenari socio-economici, il polo sovietico si rafforzava sul piano economico
nel Terzo Mondo e sul piano deterrente in Europa.
La volontà, dunque, di conoscere le radici più autentiche e profonde,
nonché così inopinatamente vicine, del nostro essere parte integrante di
una grande “anima economica” e non meno di penetrare l’umana indole
del potere e le sue velate fattezze costituisce l’essenza di questo lavoro;
un lavoro, il cui interesse privilegiato è stato il condizionamento del petrolio
sulle vicende umane, sulle interrelazioni tra società e ambiente e
sulla diffusa e globale percezione di vivere in un mondo in crisi.
2. La dimensione sociale. – Il punto di partenza di un’analisi di
ampio respiro non può non essere che il fattore demografico, perché

La svolta economica del 1973
si giustappongano i ruoli svolti e dalla popolazione e dall’economia,
lasciando che emergano quelle connessioni reciproche necessarie alla
formulazione delle ipotesi sui possibili meccanismi di funzionamento
del sistema mondiale.
Corrisponde al vero se affermiamo che il rapporto tra uomo e
ambiente da sempre è stato l’elemento cardine della genesi dell’umanità:
ai primordi fu l’uomo a trovarsi di fronte all’ostilità minacciosa
dell’habitat naturale e la società a sopportare in maniera deterministica
le conseguenze di una natura quasi leopardianamente “matrigna”;
oggi è invece l’ambiente a fare i conti della propria sopravvivenza
con l’uomo e la società. In concomitanza con gli eventi che
caratterizzarono la crisi petrolifera del 1973, si venne affermando
una nuova concezione delle interrelazioni tra sviluppo economico e
sviluppo demografico, in virtù della quale l’ambiente e l’uomo divennero
parte integrante di un organismo complesso e non più elementi
autonomi, capaci di condizionare la struttura di riferimento.
Si trattò della prima formulazione organica del concetto olistico di
ecosistema, che non riconosceva più validità al rapporto meccanicistico
di causa ed effetto, ma accoglieva l’interpretazione in base alla
quale la manifestazione di qualsivoglia fenomeno è comprensibile
solamente alla luce delle connessioni funzionali tra le molteplici parti
del sistema. Ne derivò pertanto che sviluppo economico e sviluppo
demografico, prodotti dell’attività umana, dovessero essere analizzati
in una prospettiva bilaterale, evitando di privilegiare un approccio
pregiudiziale al condizionamento univoco del dato ambientale
sull’uomo e viceversa ( 1 ).
Espansione demografica ed evoluzione dello sviluppo economico
risultano allora intimamente intrecciate alla luce della tesi secondo
cui all’aumento della popolazione si corrisponde un proporzionale
incremento del fabbisogno energetico. Per questo è opportuno non
prescindere da una conoscenza delle variabili della crescita della popolazione
e dei suoi ritmi tendenziali di progressione temporale, al
fine d’inquadrare correttamente, nel farsi della ricerca, le conseguenze
del rincaro dei prezzi del greggio mediorientale sulle aspettative e
i progetti delle nuove generazioni, che proprio agli inizi degli anni
( 1 ) Negli anni Settanta e Ottanta, il tema della demografia mondiale fu ampiamente
dibattuto ed ebbe, nei Convegni internazionali sulla popolazione di Bucarest
del 1974 e di Città del Messico del 1984, le sue espressioni più autorevoli.
Punti nodali delle ricerche esposte furono il ruolo centrale della famiglia e la sua
proiezione alla realtà del Terzo Mondo. M. NATALE (a cura di), Economia e popolazione:
alcuni aspetti delle interrelazioni tra sviluppo demografico ed economico, Franco
Angeli, Milano 1994, p. 17.
403

404
ANDREA NIEDDU
Settanta si affacciarono ad un mondo del lavoro di già compromesso,
pesantemente intaccato e difficilmente accessibile ( 2 ).
La popolazione mondiale cresceva nella seconda metà del ventesimo
secolo con un aumento quotidiano di circa 200.000 unità pari ad un
tasso annuo approssimativo del 2% ( 3 ), per un totale nel decennio degli
anni Settanta di circa tre miliardi e 300 milioni d’individui; di questi
circa un miliardo ed 800 milioni abitava il continente asiatico, 600
milioni l’Europa, poco più di 300 milioni l’Africa, circa 290 milioni
l’America del Nord, circa 161 milioni l’America del Sud e 18 milioni
l’Australia e l’Oceania. L’incremento demografico è tale sulla base della
differenza positiva tra natalità e mortalità ( 4 ); la diversità dell’andamento
dinamico delle due variabili nelle varie parti del mondo ha assegnato
all’Europa una tendenza all’aumento più bassa rispetto ad Africa
ed Asia. Il tasso di natalità mondiale continuava a subire una tendenza
decrescente già in atto, attestandosi mediamente intorno al 34 per mille,
mentre quello di mortalità ha registrato un’interruzione del corso
discendente dal 16 per mille, che lo aveva caratterizzato quasi costantemente,
fino ad attestarsi non al di sotto del 10 per mille ( 5 ).
Dall’analisi di questi dati emerge chiaramente che una popolazione
in crescita rispettava un processo inverso all’evoluzione della disponibilità
limitata di risorse naturali ( 6 ) e, soprattutto, si muoveva
nella direzione simmetricamente opposta ai segnali dell’economia e
della politica internazionale.
Nel corso della storia lo sviluppo sociale si è saldato alle possibilità
d’accesso e sfruttamento delle fonti d’energia; la stessa condizione
di sopravvivenza di ogni società è stata ed è l’uso dell’energia. Se facessimo
un viaggio a ritroso nel tempo, verremmo a sapere che dal
1860 ai giorni nostri, quindi nel passaggio da un’organizzazione
economica prevalentemente agricola ad una in cui coesistono Paesi
( 2 ) R.J. JOHNSTON, P.J. TAYLOR (a cura di), Geografia di un mondo in crisi,
Franco Angeli Editore, Milano 1990, p. 58.
( 3 ) G. STEFANELLI, L’esplosione demografica, Paravia, Torino 1977, p. 7.
( 4 ) Ibidem, p. 16.
( 5 ) M. NATALE (a cura di), Economia e popolazione: alcuni aspetti delle interrelazioni…,
cit., pp. 25-27; ibidem, p. 19.
( 6 ) Ancor più preoccupante risulta un’analisi che affronti il problema della distribuzione
della ricchezza mondiale e del controllo delle materie prime; nei cosiddetti
Paesi sottosviluppati, in cui non si toccava il livello di pura sussistenza, risiedeva
il 72% della popolazione mondiale, in difficili condizioni igienico-sanitarie,
causa di un’alta concentrazione del tasso di natalità. S. POLLARD, L’economia internazionale
dal 1945 ad oggi, Editori Laterza, Bari 1999, pp. 82-87.

La svolta economica del 1973
sviluppati, in via di sviluppo e sottosviluppati, il consumo complessivo
seguì un aumento di venti volte ( 7 ). Il tasso di crescita media fu
del 2,2% all’anno, ad eccezione del ventennio postbellico in cui si
registrò un 5,6%: tale periodo, infatti, mostrò un’anomalia, che è
parzialmente causa e per il resto sintomo del progressivo deterioramento
dei rapporti tra Paesi produttori e consumatori; un consumo
energetico che crebbe più velocemente della popolazione, arenatasi
intorno ad un tasso dell’1,1% e negli anni Sessanta dell’1,9% ( 8 ).
Le suddette percentuali spiegano in quale modo le sopraggiunte
necessità di riorganizzazione del mercato mondiale, in tema d’energia,
si radicarono nella regolarità del suo abuso da parte delle economie
avanzate in Occidente e nel Terzo Mondo. In seguito alla seconda
guerra mondiale, il continente europeo dipese quasi interamente
dall’importazione di energia e anche l’America del Nord mostrò
iniziali difficoltà interne; tra il 1955 ed il 1974 l’Oriente asiatico
e in primis il Giappone ebbero un consumo, accresciuto di quindici
volte; solamente il Sud America e l’Australia registrarono un
equilibrio del flusso energetico in entrata ed in uscita; l’ex Unione
Sovietica, il Centro America, l’Africa e il Medio Oriente furono i
protagonisti dell’eccedenza mondiale ( 9 ).
La ragione storica di questi alti consumi fu il fatto che tutte le società
sperimentarono la fase massima dell’industrializzazione: dunque
un fenomeno eccezionale, che giustificava la larga produzione di
autoveicoli con conseguente intensificazione della costruzione d’infrastrutture,
arredamenti ed attrezzature per la casa, come elettrodomestici
e condizionatori, tra i tanti segnali della vitalità dell’industria
europea ( 10 ). La fabbricazione di automobili, che servirono per
405
( 7 ) R.J. JOHNSTON, P.J. TAYLOR (a cura di), Geografia di un mondo…, cit.,
p. 93.
( 8 ) H. VAN DER WEE, L’economia mondiale tra crisi e benessere (1945-1980),
Editore Ulrico Hoepli, Milano 1989, p. 103.
( 9 ) La citata regolarità dell’abuso d’energia, nel ventennio postbellico, fu causa
della sostanziale vulnerabilità del mondo occidentale e si pose alla base dell’assunto
secondo cui era minato il modello di civiltà della stessa società sviluppata. Non
esistevano effettivamente principi etici ed economici che regolamentassero l’uso e
il consumo delle risorse naturali e che ponessero l’accento sulla questione della
competitività dei mercati e dell’auspicabile equilibrio delle ragioni di scambio tra
mondo sviluppato ed in via di sviluppo. G. GALASSO, Storia d’Europa. L’età contemporanea,
Editori Laterza, Bari 1996, p. 474.
( 10 ) S.P. VILLE, Ambiente sociale: un cambiamento radicale, in Storia d’Europa.
L’età contemporanea secoli XIX-XX, Giulio Einaudi Editore, Torino 1996, pp. 503-
506.

406
ANDREA NIEDDU
agevolare la mobilità verso il posto di lavoro dalle abitazioni soprattutto
periferiche – frutto di un’intensificata attività edilizia – fu
l’ambito più pesantemente danneggiato dalla crisi petrolifera; in generale
l’illusione, che si potesse mantenere alto il livello produttivo,
e le proiezioni dei consumi energetici esistenti furono disattese e la
costituzione di scorte in periodi di bassi costi ( 11 ) attenuò in parte
l’impatto congiunturale ( 12 ). Si trattò della maturità e dell’inizio della
crisi della cosiddetta “società dei consumi”, ove il consumo si manifestava
irrazionalmente e senza alcuna finalità ( 13 ).
In tutto il mondo sviluppato l’aumento dei prezzi del greggio innescò
una reazione a catena, tesa alla diminuzione dei consumi ed
intimamente connessa all’impiego dello sviluppo tecnologico; duplice
fu la forza che contribuì verso il tentativo di conquista di tale
obiettivo: da una parte la trasformazione comportamentale autonoma
del consumatore e dall’altra l’intervento dei governi ( 14 ). Per
quanto concerne la prima il contenimento della spesa energetica fu
perseguita attraverso una vasta gamma di soluzioni: da una regolazione
più bassa dei termostati per impianti di riscaldamento al perfezionamento
degli isolamenti termici delle strutture pubbliche e private,
ai programmi di modifica del funzionamento di macchinari,
aeromobili e treni all’insegna di un minor consumo di energia e di
una maggiore efficienza tecnica delle fabbriche, fino alla ristrutturazione
dello stile di vita e delle abitudini degli stessi cittadini ( 15 ).
( 11 ) Dal 1950 al 1970 la politica dei prezzi, voluta dalle grandi compagnie petrolifere
internazionali, portò l’Arabian Light da 4,25 dollari a 1,60 al barile, mettendo
i paesi consumatori nelle condizioni di acquistare per un consumo a lungo termine.
R.J. JOHNSTON, P.J. TAYLOR (a cura di), Geografia di un mondo…, cit., p. 96.
( 12 ) Ibidem, pp. 95-97.
( 13 ) A. BELTRAN-P. CARRÈ-M. RUFFAT, Nascita, crescita e dominio della società
dei consumi, in Storia d’Europa…, cit., p. 467.
( 14 ) R.J. JOHNSTON, P.J. TAYLOR (a cura di), Geografia di un mondo…, cit., p. 98.
( 15 ) In Italia ad esempio il 22 novembre 1973 il Consiglio dei Ministri promulgò
misure restrittive sui consumi, la prima delle quali intervenne a modificare
lo stile di vita quotidiano degli italiani: fu imposto il divieto di transito a tutti i
veicoli tanto nei giorni domenicali quanto nelle festività infrasettimanali. Conseguentemente
quando aumentò il prezzo della benzina, si fece più rigoroso il limite
di velocità massima consentita su strade ed autostrade, diminuì la durata dell’illuminazione
pubblica, chiusero con largo anticipo negozi, uffici e locali pubblici,
determinando evidentemente una modificazione degli stili di vita e serie difficoltà
alla mobilità; questa fu la legislazione vigente fino a tutto il primo semestre 1974.
La tematica del risparmio energetico investì i settori industriali, che facevano largo
consumo d’energia: sul totale del consumo energetico mondiale l’Italia occupò il

La svolta economica del 1973
S’impose, infatti, l’uso di gruppo dell’automobile per recarsi al posto
di lavoro così come un’intensa attività propagandistica, promossa
dall’autorità politica, ne accompagnò la diffusione; una programmazione
politica che annotò sulla propria agenda la possibilità di uno
sfruttamento di energie alternative, solare o nucleare, o il potenziamento
delle ricerche del “petrolio di frontiera”.
La fusione della politica e della scienza fu uno dei temi più dibattuti
al fine di rendere concreti un coordinamento e un’integrazione
di ricerca e sviluppo, come garanzia di disponibilità energetica;
un’offerta decisamente vantaggiosa da servire all’Occidente in base
ad un preciso calcolo su riserve di durata secolare, non già su quelle
decennali, e fruibili nel lungo periodo in relazione all’equilibrio, difficilmente
perseguibile, della politica internazionale ( 16 ).
Il rincaro dei prezzi del greggio e le scelte di politica economica
attuate determinarono una profonda modificazione del comparto
produttivo e della distribuzione del reddito ( 17 ). La congiuntura investì
pesantemente i campi economici più esposti alla concorrenza
internazionale, ossia agricoltura, industria manifatturiera e dell’energia;
il settore industriale, infatti, nel 1975 ebbe il primato negativo
del -8% della produzione rispetto all’anno precedente ( 18 ); più morbido
risultò invece l’impatto con quanto rientrava nell’ambito privato
comprese, tra le tante, l’attività edilizia e di erogazione di servizi,
come il commercio, i trasporti ( 19 ), il credito e le assicurazioni ( 20 ).
407
37,9% con l’industria, il 33% con l’insieme degli usi civili ed il 21% con i trasporti;
tuttavia si ebbe una tendenza naturale al risparmio, che diede ottimi risultati. Di fatto
accadde che l’esistente modello di sviluppo e crescita economica entrarono, anche
in Italia, in una crisi profonda insieme all’assopimento di una qualità della vita che
si era ridotta ad un’offerta ininterrotta di beni di consumo, dall’automobile agli elettrodomestici,
alla casa al mare, tutti risultati e simboli del felice ed ormai debilitato
sviluppo industriale del dopoguerra. G. SPANTIGATI, Petrolio: gli anni della crisi e le
incognite future, Etas libri, Milano 1979, pp. 180-185; M. VITTORINI, Petrolio & potere,
Marsilio Editori, Venezia 1974, pp. 66-67, 97-102.
( 16 ) R.J. JOHNSTON, P.J. TAYLOR (a cura di), Geografia di un mondo…, cit., pp. 98-
99; G. SPANTIGATI, Petrolio: gli anni della crisi…, cit., p. 111.
( 17 ) L. BACULO, Il prezzo del petrolio: inflazione, ristrutturazione e crisi nelle economie
occidentali, De Donato, Bari 1982, p. 149.
( 18 ) G. BORDINO-G. MARTIGNETTI, Il mondo dal 1970 a oggi, in Storia universale
dei popoli e delle civiltà, Unione Tipografico Editrice Torinese, Torino 1997,
pp. 15-16.
( 19 ) A. CLÒ, Economia e politica del petrolio, Editrice Compositori, Bologna
2000, p. 163.
( 20 ) Ibidem, p. 150.

408
ANDREA NIEDDU
Capire il significato della distribuzione del reddito implica l’assunzione
del punto di vista del consumatore, che è la chiave di volta
dell’andamento dei mutamenti del tenore di vita e dello stato di benessere
di un’intera collettività. L’aumento generalizzato del Pnl
pro-capite ( 21 ), insieme ad altre variabili come il tasso di alfabetizzazione,
lo stato igienico-sanitario e il dato ambientale, porta con sé un
miglioramento delle condizioni di vita, tanto che ad un aumento del
prodotto ha da sempre corrisposto un aumento del consumo ( 22 ).
La cosiddetta “civiltà del petrolio” è l’espressione sintagmatica atta
a significare un modello sociale, quello del ventennio postbellico, che
crebbe, ma soprattutto maturò, in un clima di sostanziale prosperità;
ebbene in un arco temporale siffatto la tendenza dominante fu, come
in ogni società che conosca e sperimenti il progresso, l’acquisto considerevole
di beni di lusso e la contemporanea decrescita di quello di
beni di prima necessità. La distribuzione del reddito costituisce lo strumento
di misurazione della differenza dello stato di benessere, di cui
godono i Paesi del mondo ( 23 ): di qui si colloca l’effetto espansivo, generato
dalla crisi del 1973, del divario tra mondo sviluppato ed in via
di sviluppo. Alcuni dati, che risalgono al 1976, si esprimono in modo
sufficientemente esauriente in tal senso: i Paesi più poveri con 1.200
milioni di abitanti possedevano un reddito inferiore a 200 dollari, pari
dunque a 130 per il 1965 e 150 per il 1975; i Paesi in via di sviluppo,
con un reddito non eccessivamente basso e con una popolazione di
900 milioni di abitanti, disponevano di circa 630 dollari per il 1965 e
950 per il 1975; infine troviamo i Paesi sviluppati ad economia di
mercato, che per una popolazione di 700 milioni di persone vantavano
un reddito di circa 4.200 dollari per il 1965 e 5.500 per il 1975 ( 24 ).
( 21 ) S. POLLARD, L’economia internazionale…, cit., p. 76.
( 22 ) Ibidem, pp. 82-90.
( 23 ) La nozione di “povertà” è un dato relativo, in quanto che la condizione
d’inferiorità di uno Stato rispetto ad un altro potrebbe avere un peso maggiore
dell’essere poveri; l’Unione Europea ha formulato una definizione di “povertà”,
secondo la quale rientrerebbe in essa colui che percepisce un reddito minore del
50% rispetto alla media nazionale. Ibidem, pp. 77-78.
( 24 ) Si tratta di una congerie di dati pubblicati da Robert McNamara, presidente
della Banca Mondiale, nel prospetto del consueto rapporto annuale, al fine
di stimolare il dialogo fra le nazioni per una migliore coesistenza economica e una
maggiore cooperazione internazionale per lo sviluppo. Alcune precisazioni aiutano
ad avere un quadro più completo: il tasso di sviluppo medio annuo dei Paesi più
poveri era dell’1,5%, mentre quello dei Paesi in via di sviluppo con reddito intermedio
si aggirava intorno al 6,8%; inoltre nei primi circa 750 milioni di persone
si trovavano nella condizione di “povertà assoluta” con un reddito addirittura inferiore
ai 100$. BANCA MONDIALE, Rapporto annuale, 1976.

La svolta economica del 1973
Il reddito mostra tutta la sua importanza in relazione al fatto che
costituisce uno dei pilastri, su cui si regge il tenore di vita del singolo
individuo; tutte le categorie di soggetti economici da quelli autonomi,
come negozianti o agricoltori, a quelli stipendiati o salariati ( 25 ) risentirono
profondamente delle conseguenze della crisi: in primis a causa
della caduta della domanda globale, in virtù degli alti prezzi dei
beni, ed in secondo luogo per il dilagare della disoccupazione, che
cadenzò in modo conflittuale il dialogo tra le parti sociali, in merito
alla tutela del salario reale e della posizione del proletariato nei confronti
della grande industria.
Si verificò una vera e propria resistenza del lavoro alla condizione
di stagnazione, che probabilmente acuì la spirale inflazionistica, prorogando
la crisi stessa. Lo snellimento della classe operaia per via
della meccanizzazione del lavoro, messa in atto durante il Novecento,
diede un senso d’appartenenza al singolo, che divenne la forza sindacale,
di cui il proletariato industriale si servì per evitare la mutilazione
delle proprie retribuzioni. Il regime d’espansione economica del
dopoguerra, infatti, originò l’allargamento della spesa pubblica ( 26 ),
che si tradusse sul piano salariale negli aumenti del biennio 1968-69
e sul piano del consumo nella problematica allocazione delle risorse,
resesi disponibili.
In tutta Europa e, perché no dietro la spinta keynesiana della fiducia
nel pieno impiego, la ragione di tali aumenti si poteva ascrivere
ad una reazione al tentativo di contenimento da parte dei governi
e soprattutto al crescente peso politico della contrattazione sindacale,
anche se ancora strutturalmente immatura ( 27 ), che concorse alla
costruzione di una sorta d’identità collettiva dei lavoratori ( 28 ).
409
( 25 ) S. POLLARD, L’economia internazionale…, cit., p. 70.
( 26 ) D.H. ALDCROFT, L’economia europea dal 1914 al 1990, Editori Laterza,
Bari 1994, pp. 301-303.
( 27 )I sindacati europei nacquero come associazioni di lavoratori maschi, specializzati
in un lavoro manuale; le modificazioni intervenute nel mercato del lavoro,
ossia presenza maggiore del sesso femminile e della popolazione straniera, implicò
necessariamente una fase d’adattamento attraverso l’individuazione di una
finalità unitaria, che riassumesse le varie parti in causa. Si potrebbe parlare di crisi
di rappresentatività sindacale, ma essa diviene per i sindacati stessi un problema,
se è in pericolo la sopravvivenza dell’organizzazione, se classe imprenditoriale o
politica ne mettono in dubbio la forza rappresentativa nei confronti dei soggetti
da tutelare ed, infine, se non si è in grado di approntare politiche congrue agli interessi
da difendere. R. PARBONI (a cura di), L’Europa nella crisi economica mondiale,
Franco Angeli Editore, Milano 1984, pp. 327-331.
( 28 ) H. VAN DER WEE, L’economia mondiale…, cit., pp. 64-66.

410
ANDREA NIEDDU
Fin dagli anni Cinquanta si lavorò tanto per mettere in piedi un
efficace sistema di protezione sociale ( 29 ): basti semplicemente pensare
alle indennità previste per la disoccupazione, al mantenimento
dei livelli occupazionali per periodi congiunturali a breve termine,
alle iniziative a favore delle più deboli fasce giovanili, alla salvaguardia
di garanzie, integrate nel corpo dello statuto dei lavoratori ( 30 ).
Sarebbe bene chiarire che quanto di buono fu costruito in tal senso,
se da una parte attutì l’impatto dello shock petrolifero dal punto
di vista immediato e diretto del lavoratore, dall’altra fu di un insostenibile
peso finanziario per gli stessi governi, che ne appoggiarono
la formazione.
Le esigenze di flessibilità del mercato, con l’introduzione del lavoro
interinale per giovani, donne ed immigrati, e il dovere morale
verso la classe lavoratrice di mantenere inalterate le misure di protezione
sociale vigenti si scontrò con l’inesorabilità del calcolo matematico
dei conti pubblici. Il carico fiscale, derivante o dall’aumento
delle tasse o dalla contribuzione sociale, finì per ritorcersi contro le
imprese o le famiglie, in ogni caso contro la società stessa, degenerando
in un’inevitabile contrazione dell’investimento e dell’occupazione.
Ciò fu il segnale palese di una conflittualità sociale ormai insita
a quel connubio particolare di mercato interno e domanda mondiale,
che fu il motore dello sviluppo economico propedeutico alla
proliferazione della crisi e non più facilmente applicabile ad una realtà
ormai cambiata: inquietante si fece la dilatazione dei consumi, paralizzante
lo stallo dei meccanismi monetari nazionali ed internazionali
( 31 ), diffusa la sensazione che la famosa “civiltà del petrolio” potesse
continuare, in quel 1973 come nel futuro vicino o lontano, a nutrirsi
della stessa fiducia dei suoi albori.
3. La congiuntura economica. – Con il 1973 si dichiara conclusa
l’èra dello sviluppo economico del mondo industrializzato secondo
( 29 ) Alla conclusione della seconda guerra mondiale i partiti di sinistra riscossero
più o meno largamente in tutta Europa il favore dell’elettorato contrariamente
alla destra, che fu associata all’idea dell’appoggio alle dittature. Sotto le ali della
sinistra si affermò il regime del Welfare State, durante il quale ebbero sostegno lavoro,
sanità, istruzione e previdenza sociale; le politiche keynesiane davano i risultati
attesi. S. POLLARD, L’economia internazionale…, cit., pp. 134-135.
( 30 ) A. BELTRAN-P. CARRÈ-M. RUFFAT, Nascita, crescita e dominio…, cit., pp. 471-
472.
( 31 ) R. PARBONI (a cura di), L’Europa nella crisi economica…, cit., pp. 120-123.

La svolta economica del 1973
un ritmo regolare e progressivo; uno sviluppo costruito sulla conciliazione
di un acquisto di materie prime ed energia a basso costo, un
controllo serrato degli aumenti salariali e la gestione della stabilità
del sistema monetario internazionale. La prima crisi petrolifera fu
indiscutibilmente un evento di straordinaria importanza, che intaccò
un consolidato modello di produzione e consumo: infatti, la sfera
decisionale ed il potere di mercato passarono nel corso di un decennio
dal polo capitalistico a quello da esso dipendente dal punto di
vista politico ed economico, preannunciando un capovolgimento
degli orientamenti dominanti nel dialogo tra il Nord, ricco, e il Sud,
povero, del pianeta ( 32 ).
Si deve necessariamente analizzare l’esito “di un concorso di
eventi del tutto eccezionale” ( 33 ), approdato ad una crisi patologica
in seguito ad un fatto decisivo, di cui siamo già a conoscenza. L’ordine
economico mondiale subì l’impatto dello shock, adattandosi a
due situazioni nuove: l’aumento del valore del commercio del greggio,
passato da 29 miliardi di dollari del 1970 a 535 del 1980; il
processo d’accumulazione di valuta, messo in moto da tutti i Paesi
del mondo, al fine di eguagliare la circolazione di merci, sostenuta
dalla capacità d’esportazione degli Stati Uniti.
Uno scenario, reso ancor più complesso e faticosamente ricomponibile
dall’incidenza dell’aumento della produttività dell’economia
occidentale sui profitti di molte società: allargamento della meccanizzazione,
a causa di un aumento della domanda di beni di consumo
( 34 ), ed aumento della domanda, favorito dal nesso produttività
e regolamentazione statale dei salari come sostegno alle parti sociali
più esposte. Questo meccanismo produsse l’emarginazione della periferia
sottosviluppata del mondo, a causa di una riduzione delle
esportazioni ad un livello pari al volume delle importazioni di materie
prime; la realtà delle multinazionali risentì meno della recessione
economica iniziata nel 1974 per la predilezione di mercati in aree
sviluppate ( 35 ).
Dunque la crisi di questi anni fu di portata internazionale, richiedeva
una soluzione frutto di una concertazione internazionale, ma
allo stesso tempo si manifestava attraverso una fenomenologia a ca-
( 32 ) L. BACULO, Il prezzo del petrolio…, cit., pp. 5-6; R.J. JOHNSTON, P.J.
TAYLOR (a cura di), Geografia di un mondo…, cit., pp. 29-31.
( 33 ) Rapporto McCracken della metà degli anni Settanta – Oecd, 1977.
( 34 ) A. CLÒ, Economia e politica…, cit., p. 162.
( 35 ) H. VAN DER WEE, L’economia mondiale…, cit., pp. 319-353.
411

412
ANDREA NIEDDU
rattere nazionale ( 36 ). Essa modificò radicalmente l’assetto esistente,
ridisegnando un nuovo ordine mondiale all’insegna del principio
dell’integrazione economica globale, tant’è che da allora s’iniziò a
parlare di globalizzazione, e all’insegna dell’impossibilità che il corso
della storia potesse registrare per gli anni a venire un appiattimento
delle ragioni di scambio, tale da aver impresso all’economia il carattere
proprio del ventennio post-bellico ( 37 ).
L’aumento dei prezzi del petrolio fu il fattore scatenante di una crisi
mondiale, che produsse l’internazionalizzazione del capitale, cioè
l’esportazione di meccanismi produttivi di natura capitalistica. Il greggio
subì una quadruplicazione dal 1970 al 1973 con il trasferimento
di una somma ai Paesi dell’OPEC, stimata in 64 miliardi di dollari
equivalente all’1,5% della capacità d’acquisto a livello mondiale, e con
forti contraccolpi, che saranno analizzati in seguito approfonditamente,
elementi di un quadro generale che può essere così riassunto: s’impose
un aumento dei costi di produzione e dei prezzi di prodotti primari
nelle economie avanzate ( 38 ) con una corrispondente diminuzione
del livello delle esportazioni; si registrò una contrazione della domanda
complessiva di beni e servizi, un disavanzo nella bilancia commerciale
dell’Occidente ed un avanzo in quella dei Paesi produttori ed
esportatori ( 39 ) di materie prime e petrolio ( 40 ). La crisi produsse così
tre effetti importanti a livello globale: la facilità di movimento di capitali
nel tempo e nello spazio; la più marcata dipendenza del capitale
dalla larga diffusione del modello allora vincente delle multinazionali;
l’ascesa del potere industriale con la conseguenza di un affiatamento
delle economie del centro industrializzato ( 41 ).
( 36 ) G. SPANTIGATI, Petrolio: gli anni della crisi…, cit., pp. 18-34; R.J. JOHN-
STON, P.J. TAYLOR (a cura di), Geografia di un mondo…, cit., pp. 31-33.
( 37 ) L. BACULO, Il prezzo del petrolio…, cit., pp. 7-26.
( 38 ) Tutti i prezzi dei prodotti petroliferi tesero ad un progressivo aumento:
l’olio combustibile dal costo medio di 17 dollari a tonnellata del 1972 passò a circa
30 nel mese di giugno del 1973; il gasolio da 27 a 66; la benzina da 39 a 112
dollari a tonnellata. A. CLÒ, Economia e politica…, cit., p. 162.
( 39 ) M. CHATELUS, J.M. CHEVALIER, G.D. DE BERNIS, T.O. ENDERS, E.R.
FRIED, E. PENROSE, Petrolio e crisi: storia e problemi economici, Feltrinelli, Milano
1977, pp. 9-21; L. BACULO, Il prezzo del petrolio…, cit., pp. 7-26.
( 40 ) Il prezzo dell’Arabian Light passò da 2,90 dollari a 11,65. I profitti delle grandi
compagnie petrolifere s’ingrossarono notevolmente: tra il 1967 e il 1972 si attestarono
sui 7 miliardi di dollari annui, nel 1973 toccarono 11,7 miliardi di dollari, nel
1974 i 16 miliardi. S. POLLARD, L’economia internazionale…, cit., pp. 137-143.
( 41 ) R.J. JOHNSTON, P.J. TAYLOR (a cura di), Geografia di un mondo…, cit., pp. 33-
57; H. VAN DER WEE, L’economia mondiale…, cit., pp. 47-54.

La svolta economica del 1973
L’evoluzione della struttura economica arrecò benessere per alcuni
Paesi e malessere per altri; questo per la diversità delle opportunità
di occupazione, che segnò il carattere distintivo di ciascun’esperienza
nazionale. Quando si parla di economia si deve parlare di forza
lavoro: lo sviluppo economico e la ricchezza crescono, se cresce il
potenziale umano impiegato. Abbiamo visto come la crisi ridisegnò
un nuovo ordine mondiale; ora è necessario esaminare quale sia stata
la sua influenza sul mercato del lavoro.
L’internazionalizzazione del capitale intrecciò possibilità di lavoro
in forme innovative tra mondo sviluppato ed in via di sviluppo; mutarono
alcune caratteristiche della classe lavoratrice occidentale: in primo
luogo aumentò la percentuale di donne, soprattutto maritate, nella
gran parte dei Paesi OCSE ed in secondo luogo varcò la soglia della
trincea del lavoro o si trovò nell’imminenza di essa, proprio in un momento
di grave difficoltà, quella nuova generazione scaturita dall’esplosione
demografica del ventennio appena trascorso. La conseguenza
più grave dell’ottobre 1973 fu la diminuzione delle possibilità
d’occupazione a causa della concorrenza, che decretò la caduta di molte
società, e l’aumento considerevole della disoccupazione. Tra il 1960
ed il 1973 la società industrializzata riportava un tasso oscillante dal 4
al 7% negli Stati Uniti e mai superiore al 2-3% in Europa; dopo lo
shock del petrolio esso salì in modo omogeneo in tutte le parti del
mondo, arrestandosi alla media dell’8,5% nel 1975 e rimanendo sempre
al di sopra del 7% fino al 1979, quando scoppiò la seconda crisi
del petrolio; la massa dei disoccupati aumentò nel 1974-75 di 7 milioni,
escludendo i lavoratori stranieri che tornarono nel proprio Paese.
Le politiche economiche adottate mostrarono tutta la loro inefficacia
contro un ostacolo insormontabile, quello dell’inflazione, traducibile
per il 1974 in una percentuale significativa del 12%.
L’acuirsi della recessione spinse verso l’alto l’indice dei senza lavoro
e di coloro che lo lasciavano, mentre la creazione di nuovi posti si dimostrò
affannosa. La prevalenza dei disoccupati appartenne alle fasce
giovanili, che non contavano alle spalle un’esperienza professionale
qualificante, avendo svolto lavori manuali dietro compenso di misere
retribuzioni. Gli Stati Uniti stimarono un 40% di disoccupati sotto la
soglia dei vent’anni e all’indomani dall’assunzione; la Gran Bretagna
detenne il primato negativo sulla lista di disoccupazione compilata per
metà negli ultimi sei mesi; anche in Italia la situazione giovanile fu deprecabile,
seppure il livello generale si ricongiungeva con quello di altri
Stati come Francia, Belgio, Irlanda e Spagna ( 42 ).
( 42 ) S. POLLARD, Storia economica del Novecento, Il Mulino, Bologna 1999,
pp. 249-251.
413

414
ANDREA NIEDDU
Non desta meno preoccupazione riflettere sulla qualità della disoccupazione,
giacché intervennero fenomeni del tutto nuovi: in
primo luogo la continua proliferazione di disoccupati permanenti in
tutto il mondo sviluppato; in secondo luogo l’inattendibilità di molte
statistiche ufficiali, che sottostimarono il fenomeno, distorcendo
l’informazione sulla realtà dei fatti; in terzo luogo la vulnerabilità di
determinati gruppi sociali, che s’identificavano con i giovani, gli anziani,
le donne e le minoranze. Si trattò di coloro che ricoprivano il
cosiddetto secondo segmento del mercato del lavoro, costituito dagli
impieghi non qualificati, mal pagati e non garantiti: “nei Paesi sviluppati
dieci persone su cento sono disoccupate. Di queste dieci,
cinque sono giovani e tre donne. Inoltre fra i disoccupati in cerca di
un lavoro non qualificato i più fortunati saranno i maschi (d’età
compresa fra 24 e 54 anni), poi le donne delle stesse classi di età e
quindi i giovani. In coda vengono le minoranze e gli anziani” ( 43 ). Il
gruppo sociale più impermeabile alle insidie, tese dall’andamento
economico generale, si dimostrò la popolazione maschile compresa
tra i 24 e i 54 anni e dotata di un buon grado d’istruzione ( 44 ): questa
andava a ricoprire il primo segmento del mercato del lavoro,
contraddistinto dall’offerta professionale qualificata e a tempo pieno,
dalla possibilità di carriera e da una retribuzione in continuo aumento
( 45 ).
Se si riconosce che la disoccupazione sia stata la conseguenza più
drammaticamente gravosa per l’economia mondiale, sarebbe altrettanto
stimolante ai fini della completezza di un affresco puntuale
sull’impatto congiunturale una presa di coscienza della misura in cui
la crisi del 1973 abbia mutato la struttura dell’offerta di lavoro: una
prima considerazione evidenzia la riduzione delle possibilità d’impiego
nell’industria, una seconda invece il parallelo aumento nell’ambito
dei servizi ( 46 ).
Dopo il 1973 le risorse umane impiegate nell’industria furono
soggette in tutti i Paesi ad economia di mercato ad una tendenza al
ribasso, la quale non investì il settore dell’elettronica, stimolato da
una forte domanda di sistemi per uffici, televisori, ecc.. L’occupazione
nei servizi invece aumentò considerevolmente in tutto il mondo
( 43 ) Fonte: International Labour Organization, 1984, p. 46.
( 44 ) R.J. JOHNSTON, P.J. TAYLOR (a cura di), Geografia di un mondo…, cit., pp. 58-
61.
( 45 ) L. BACULO, Il prezzo del petrolio…, cit., pp. 8-26.
( 46 ) R.J. JOHNSTON, P.J. TAYLOR (a cura di), Geografia di un mondo…, cit., p. 61.

La svolta economica del 1973
sviluppato: ad esempio nell’area OCSE la percentuale media di occupati
si aggirava intorno al 63% della popolazione attiva, ripartita
tra i due terzi negli Stati Uniti e in Canada e circa il 50% in tutti gli
altri Paesi. Il settore terziario si avviò già tra il 1960 ed il 1973 verso
un processo di sviluppo, che ebbe nella crisi del petrolio il suo fattore
di accelerazione: dal 1973 al 1980 l’occupazione nel settore terziario
risultò decisamente aumentata ed il ruolo dei servizi si dimostrò
particolarmente vivace nei campi amministrativo, finanziario e commerciale.
Gli elementi che determinarono una maggiore occupazione
furono l’incremento quantitativo dei servizi bancari internazionali
e di quelli, legati alle esigenze di mercato delle multinazionali, e
l’incremento delle stesse attività bancarie e di diversi istituti finanziari:
a questa causa si riconduce l’allargamento impiegatizio nei servizi
bancari ed amministrativi. L’ulteriore ingrossamento del settore
fu inoltre dovuto all’impatto psicologico della disoccupazione sulla
società, il quale provocò reazioni istintive di promozione dell’occupazione
soprattutto a livello di pubbliche amministrazioni: esse si fecero
carico dell’istituzione di numerosi corsi di perfezionamento e di
uffici di controllo della sicurezza sul lavoro, offrendo servizi sociali
con la finalità di dar voce ad una vera e propria politica d’informazione
e sviluppo dell’occupazione. Una base imprescindibile della
crescita del settore dei servizi fu attribuita all’alta percentuale di lavoratori
occupati part time, che contemplava e contempla attualmente
una forte partecipazione femminile ( 47 ): l’esigenza di flessibilità
di tale tipo di occupazione era legata alla qualità dei servizi offerti;
basti pensare alla specificità della domanda e alla sua strutturazione
durante l’arco della giornata, cui anche oggi devono rispondere
banche, ristoranti o negozi. Lo sviluppo del settore è stato quantificato
nel 1981 in un 25% del totale della popolazione attiva in Svezia,
in un 20% nel Regno Unito e mediamente in un 10% nei Paesi
OCSE.
Estremamente più complessa e delicata risultò la situazione nel
mondo in via di sviluppo, laddove il problema dell’occupazione era
ed è fortemente condizionato da quello altrettanto preoccupante
della crescita demografica. Se l’esplosione demografica ( 48 ) postbellica
pose all’Occidente problemi di assorbimento del potenziale uma-
( 47 ) La percentuale media non è mai stata inferiore al 60% del totale della forza
lavoro e, durante il 1981, sull’onda di un aumento progressivo toccò il 70% negli
Stati Uniti e il 90% nel Regno Unito. Ibidem, pp. 61-62.
( 48 ) G. STEFANELLI, L’esplosione…, cit., p. 7; M. NATALE (a cura di), Economia e
popolazione: alcuni aspetti delle interrelazioni…, cit., p. 25.
415

416
ANDREA NIEDDU
no disponibile sul mercato, la crescita ad esempio delle regioni asiatiche
fu tale da far sembrare assolutamente irrilevante la condizione
europea, ingrossando le fila delle classi in età di lavoro ( 49 ).
Si può parlare di reazione alla crisi in termini d’installazione di
attività industriali, legate ai grandi soggetti del mondo sviluppato,
solo in Paesi di recente industrializzazione, in cui però a siffatti elementi
di ripresa fecero da contrappunto sintomi di decadenza, come
la scomparsa di imprese locali. Il dato dell’aumento delle possibilità
di lavoro fu dunque confortante in quei contesti regionali, in cui il
tasso di natalità era circoscritto entro i limiti stabiliti da buone condizioni
igienico-sanitarie, culturali e d’elevato senso di responsabilità
(aree sviluppate), mentre diventò sconfortante e decisamente insufficiente
se inserito in un quadro, contrassegnato da altissimi indici negativi,
quali la sottoccupazione (occupazione di durata inferiore alla
norma o temporanea); nelle realtà asiatiche è provato che il 40% dei
braccianti agricoli ed il 23% dei lavoratori urbani sia attualmente
sottoccupato ed è altresì interessante rilevare che gli indici di disoccupazione
del mondo in via di sviluppo non sono tanto più elevati
di quelli del mondo sviluppato e comunque non confrontabili ai fini
di un’indagine attendibile, in quanto valutati con riferimento ai soli
salariati. La crisi inoltre produsse una seconda modificazione strutturale
dell’occupazione, favorendo la crescita della manodopera industriale.
Una crescita, rafforzata dall’aumento della domanda interna
di beni, che attivò il meccanismo espansivo delle attività industriali
locali, dallo sviluppo dell’edilizia, dall’incrementato volume
delle esportazioni, promosso dallo Stato, ed infine dalla proiezione
delle multinazionali, tutti fattori che definirono la nuova divisione
internazionale del lavoro come una delle quattro grandi conseguenze
della crisi economica mondiale ( 50 ). Negli anni che seguirono la crisi
fino al 1980, il numero dei lavoratori presso le multinazionali fu di
circa 44 milioni; le principali multinazionali statunitensi, circa 500,
vantavano una forza lavoro pari a quella esistente in patria e dopo la
crisi del 1973 la crescita della manodopera industriale fuori dei confini
nazionali fu del 169%, vale a dire che si registrò un passaggio
( 49 ) L’Organizzazione internazionale del lavoro stimò che tra il 1980 ed il
1987 l’aumento della forza lavoro sarebbe stato di circa 139 milioni d’individui,
con la Cina che concorse a tale crescita con il 46% e l’Indonesia che, per mantenere
inalterato il numero di disoccupati, avrebbe dovuto creare circa 2 milioni di
posti di lavoro annui. R.J. JOHNSTON, P.J. TAYLOR (a cura di), Geografia di un
mondo…, cit., p. 65.
( 50 ) Ibidem, pp. 66-74.

La svolta economica del 1973
dall’8,7% al 17,5% tra il 1960 ed il 1980. La perdita di forza delle
industrie locali, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, favorì l’occupazione
di 4 milioni di persone pari al 9% del totale del personale
delle multinazionali.
La seconda importante modificazione, intervenuta nella ristrutturazione
dell’economia mondiale, fu la creazione di zone industriali
per l’esportazione, le cosiddette zone franche, esito d’interventi governativi
attuati prima della crisi ed incentivati da questa al fine di
indirizzare lo sviluppo economico verso il percorso tracciato dalla
nuova divisione internazionale del lavoro. Erano aree generalmente
situate nei Paesi in via di sviluppo e deputate all’accoglimento d’investimenti
stranieri per attività industriali, finalizzate all’esportazione.
Si chiamano attualmente zone franche quelle che rispettino i seguenti
requisiti: 1) specifici provvedimenti per agevolare l’importazione
di beni funzionali alla produzione e la riduzione della pressione
fiscale sull’esportazione; 2) riduzione dei tassi d’interesse per mutui
concessi alla costruzione d’infrastrutture; 3) totale esenzione fiscale
ogni lustro; 4) esistenza di manodopera a basso costo ( 51 ).
La terza conseguenza della crisi fu l’aumento dei flussi migratori internazionali,
allorchè le zone franche non fossero risultate sufficienti a
soddisfare la domanda di lavoro. Realtà importante a partire dall’Ottocento,
le migrazioni apportarono elementi di novità al nuovo ordine
economico mondiale: nei cinque anni successivi alla crisi gli Stati Uniti
contarono un numero di immigrati legali pari a 5 milioni, i due terzi
dei quali provenienti da Paesi in via di sviluppo, e ancora di immigrati
clandestini pari a 3 milioni, quasi tutti operai. L’Europa fu la destinazione
prescelta da altri 6,3 milioni e i Paesi arabi da 2,8 milioni;
anche aree non economicamente avanzate come America Latina accolsero
3,5 - 4 milioni di persone e l’Africa occidentale 1,3 milioni. Le
migrazioni rivestirono una straordinaria rilevanza, se si considera lo
spessore di capitale finanziario immesso nel circuito internazionale: nel
1978 esso ammontava a circa 24 miliardi di dollari USA ed interessò
tanto i Paesi in via di sviluppo, garantendo flessibilità finanziaria e riserve
di valuta forte, quanto i Paesi sviluppati, che aumentarono la
produzione industriale proporzionalmente alla percentuale di immigrati
impiegati. Le migrazioni definitive, per contratto di lavoro, di
funzionari e di operatori economici costituirono le principali tipologie;
la crisi modificò in particolar modo le ultime tre categorie, poichè
l’internazionalizzazione del capitale e la nuova divisione internazionale
del lavoro implicarono i trasferimenti di forza lavoro per tutta la dura-
( 51 ) Ibidem, pp. 74-75.
417

418
ANDREA NIEDDU
ta dell’impegno da assolvere. Vi fu però anche un aspetto negativo, che
imputò alle migrazioni internazionali la responsabilità di problemi, aggravati
dalla recessione economica del 1974-75: la quantità degli emigranti
dai Paesi in via di sviluppo, essendo in continua crescita, non
poteva contare sulle capacità ricettive dell’Occidente industrializzato,
giacchè nel biennio in questione, data la diminuzione della produzione
e delle possibilità di lavoro, essa si sarebbe trasformata da un potenziale
nerbo della forza produttiva alla massa dei disoccupati ( 52 ).
Il quarto effetto sull’occupazione fu l’avanzamento dell’economia internazionale
di servizio, fondata sulla diffusione globalizzata delle grandi
presenze aziendali. La vastità dei mercati, in cui esse operavano, necessitava
di un apparato amministrativo efficiente, rappresentato da un sistema
di servizi nei settori aziendale, finanziario, bancario, assicurativo,
pubblicitario, legale e fiscale. Questo tipo di attività economica offrì ulteriori
possibilità d’occupazione, come risulta da una stima del 12% del
totale della forza lavoro negli Stati Uniti per il 1977, e promosse la nascita
delle cosiddette “città mondiali”; erano e sono siti particolarmente
significativi per il loro status strategico e per la concentrazione di tutti i
produttori di servizi, che reggono le relazioni economiche intercontinentali.
Per fare un esempio nel 1977 Londra fu sede di 525, fra le
1000 aziende più importanti del mondo, e dei centri regionali di 72
grosse multinazionali americane e 11 giapponesi. Anche tale realtà nascondeva
un fattore non positivo, ossia quello dell’esclusione dalla partecipazione
alla dinamica dell’economia terziaria internazionale di parte
delle città importanti del mondo e di molte fasce di lavoratori.
L’analisi in corso di presentazione fa emergere il dato inequivocabile
di una sempre maggiore integrazione dell’economia mondiale
all’insegna dell’affermazione di nuovi soggetti. Si vedano i rapporti
tra multinazionali e banche, rafforzatisi con il processo d’internazionalizzazione
della produzione e della finanza, in virtù dei quali le seconde
diventarono organi di consulenza ed azionisti principali; i
rapporti fra Stati e multinazionali, tesi al miglioramento degli investimenti
esteri, ed infine i rapporti fra Stati e banche, tanto stretti da
provocare scossoni come il forte indebitamento delle zone in via di
sviluppo, laddove aggravanti di forte serietà, quali l’insorgere dell’economia
informale e l’inurbamento, acuirono l’inquietudine di una realtà
di già dolente ed angosciosa, destinata solo a peggiorare ( 53 ).
Lo shock dell’aumento dei prezzi del petrolio interruppe la golden
age del 1950-73, ormai volta alla fine e probabilmente momento uni-
( 52 ) Ibidem, pp. 79-83.
( 53 ) Ibidem, pp. 58-64, 66, 83-92.

La svolta economica del 1973
co ed irripetibile della storia mondiale. Il mondo industrializzato si
trovò di fronte ad una depressione economica che, per la prima volta e
diversamente dalle grosse difficoltà che attanagliarono la dinamica
produttiva degli anni Trenta, vide l’inflazione aggiungersi alla sintomatologia
tipica, ossia contrazione degli investimenti e disoccupazione.
In un contesto che si caratterizzava per la forte instabilità, dovuta
allo squilibrio di bassi aumenti di produttività ed elevati aumenti annuali
dei salari, l’inflazione costituì fino al 1973 il costo opportunità,
evidentemente poco oneroso da sostenere, di un sistema che cresceva
con una media importante del 4-6% l’anno. Dal 1973 al 1980 la crescita
economica si ridusse fino al 2% ( 54 ). Tra il 1971 ed il 1972 l’incremento
della liquidità internazionale, determinata dal deficit degli
USA, si tradusse in un consistente aumento dell’offerta di moneta e
quindi dell’inflazione ( 55 ), spingendo i vari Paesi occidentali ad adottare
politiche espansionistiche più severe. Dal primo luglio 1972 al 30
giugno 1973, il Pnl dell’OCSE aumentò del 7,5% e la produzione industriale
del 10%, producendo una crescita dei prezzi dei beni primari
(esclusa l’energia) del 63% e fino al 1974 del 159%. I vari Governi ritennero
opportuno impiegare strumenti di restrizione economica già
dall’inizio del 1973 e il rincaro dei prezzi del petrolio dell’ottobre
1973 fu il fòmite dell’inasprimento della recessione. Esso innescò una
spirale verso l’alto del processo inflativo, innalzando il livello dei costi
difficilmente sopportabili per i consumatori.
Il dibattito economista introdusse un nuovo vocabolo per indicare
questo insolito fenomeno: stagflazione ( 56 ), in cui coesistevano
419
( 54 ) V.A. DE GIROLAMO, Momenti e problemi delle relazioni mondiali internazionali
nei secoli XIX e XX. Un’analisi critica, Levante Editore, Bari 2003, p. 193.
( 55 ) La degenerazione del sistema di Bretton Woods fu il corollario monetario
dell’inflazione; la continua emissione di moneta portò, in seguito agli sforzi finanziari
del Vietnam, alla svalutazione del dollaro e dunque alla caduta della sua equiparazione
all’oro negli scambi internazionali e della sua capacità di costituire riserva
monetaria nei singoli Stati. Fu il Presidente francese De Gaulle a presentare, con
una mossa politicamente strategica, alla Riserva Federale la richiesta di convertibilità
in oro di una data quantità di dollari, sistematicamente negata per la sproporzione
tra circolazione cartacea ed esigue riserve auree. Il 15 agosto 1971 il Presidente americano
Nixon decretò la non convertibilità del dollaro in oro, alleggerendo il debito
e creando instabilità nei cambi, causa dell’acuirsi del processo inflativo e dell’aumento
dei prezzi. A. DE BERNARDI, S. GUARRACINO, Storia 3. Novecento: eventi e problemi,
Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, Torino 1999, pp. 329-330.
( 56 ) Lo studio del fenomeno della stagflazione investì il mondo degli economisti,
dividendolo in due correnti distinte: l’una di coloro che la interpretavano
come un momento importante dell’evoluzione dei cicli del secondo dopoguerra e
l’altra di coloro che individuavano elementi di una più radicale crisi strutturale.

420
ANDREA NIEDDU
due processi distinti, vale a dire stagnazione ed inflazione, considerati
dallo studio dell’evoluzione economica di una società assolutamente
incompatibili. Infatti di norma la manifestazione di una crisi
si palesa attraverso una riduzione dei prezzi, mentre il ritmo espansivo
di un’economia mostra indici inflazionistici rilevanti. La contrazione
della produzione dei Paesi occidentali, contrassegnata da una
potenzialità produttiva che non riscontrava condizioni generali d’applicazione,
indusse all’aumento della disoccupazione e al progressivo
diffondersi della stagnazione, dunque della mancanza di crescita
economica, accompagnata dalla suddivisione delle relazioni mondiali
internazionali in due “blocchi valutari” intorno al dollaro e al
marco, soprattutto in Europa ( 57 ). La specificità degli anni Settanta
fu certamente l’inflazione, in virtù della sua capacità d’incidenza sulle
possibili politiche economiche; essa divenne il perno attorno al
quale ruotarono le richieste salariali, i contratti commerciali e gli accordi
finanziari. Il suo tasso annuo medio nel 1974 fu per l’OCSE
del 15% e nel 1975 del 10%: una realtà resa maggiormente problematica
dal ristagno economico, che gli faceva da corollario. Il mondo industrializzato
prese coscienza dei limiti della curva di Phillips ( 58 ) e
Secondo i primi sarebbe stato opportuno un contrasto della recessione attraverso
l’impiego di strumenti fiscali, previsto dalle teorie keynesiane, mentre per i secondi
l’impennata degli indici inflazionistici assunse dimensioni tali da invalidare la
politica keynesiana della domanda e accolse gli insegnamenti della scuola monetarista.
Secondo i monetaristi, infatti, il solo metodo per esercitare il controllo efficace
di un ciclo economico avrebbe potuto essere un intervento pubblico, che monitorasse
e, in caso di necessità, regolamentasse l’emissione e dunque l’offerta di
moneta. Pur convenendo sull’evidenza di una crisi strutturale, le due scuole proposero
soluzioni differenti agendo sull’adattamento della domanda: i keynesiani si
riferivano alla domanda effettiva, i monetaristi a quella nominale. L’analisi dei cicli
economici giunse ad un dato significativo: tutte le economie mondiali risultavano
essere sempre più sincronizzate, nonostante che si attendesse il contrario sulla
base dell’aumento delle fluttuazioni monetarie, cause di un ipotetico isolamento
delle realtà nazionali e della rigidità di trasferimento di fenomeni, quali l’inflazione.
R. PARBONI (a cura di), L’Europa nella crisi…, cit., pp. 23-25.
( 57 ) P.C. PADOAN, L’unione economica e monetaria europea, in Storia dell’economia
mondiale a cura di V. CASTRONOVO, 6. Nuovi equilibri in un mercato mondiale,
Editori Laterza, Bari 2002, p. 166.
( 58 ) Diffusasi soprattutto negli USA durante gli anni Cinquanta, postulava la
convinzione che l’Occidente registrasse un rapporto inverso tra tasso di disoccupazione
ed inflazione, derivante dal binomio prezzi - salari. La riduzione della disoccupazione
implicava l’aumento proporzionale dell’inflazione, mentre una condizione
di eccessiva disoccupazione causava l’assenza di proporzionalità; entro i due
estremi esisteva un equilibrio dotato di un’elasticità inversamente proporzionale
fra tassi di disoccupazione ed inflazione ed era in quest’area di equilibrio che le

La svolta economica del 1973
della necessità di dover rinunciare, almeno parzialmente, al perseguimento
di due obiettivi, crescita e lavoro, che da sempre avevano
connotato gli indirizzi della politica economica postbellica. L’arresto
dei consumi ed il reddito, percepito dall’OPEC e non reimmesso nel
circuito economico internazionale per la diversità dei modelli di sviluppo
e di spesa, dunque di distribuzione del reddito stesso, privarono
il mondo occidentale della sua consueta capacità d’acquisto dipingendo,
unitamente al rincaro degli altri prodotti primari, un
quadro di profonda instabilità accentuata da un avviato regime di
politiche deflazionistiche ( 59 ).
L’elevato tasso d’inflazione fu una delle cause dell’aumento dei
prezzi del petrolio, che a sua volta ebbe ripercussioni sull’inflazione
stessa spingendola ancor più in alto. L’inflazione come costante del
periodo postbellico e dunque come tendenza di lungo periodo si
acutizzò intrecciandosi ai fattori, che determinarono il rincaro dei
prezzi del petrolio, regolamentando contemporaneamente il funzionamento
del mercato petrolifero internazionale. Il vigore dell’espansione
economica del biennio 1972-73 si tradusse in tassi talmente
elevati da determinare pressioni sulle possibilità di speculazione ( 60 )
e sull’aumento del costo dei beni in una situazione particolarmente
instabile, date due condizioni: le difficoltà esistenti in alcuni mercati
delle materie prime, soprattutto del grano, i cui raccolti furono assai
scarsi in Unione Sovietica e in Asia e le cui riserve subirono negli Stati
421
politiche economiche dei vari Paesi sceglievano la soluzione ritenuta migliore. Per
esempio negli anni Cinquanta e Sessanta l’alto tasso d’inflazione fu il costo da sostenere
per il mantenimento di un alto livello di occupazione. Tra il 1968 ed il
1970 l’inflazione, come rilevato dal rapporto McCracken-OCSE 1977, salì più
velocemente di quanto non si riducesse la disoccupazione a causa della difficile situazione
in cui versava il mercato del lavoro; si verificò una rottura, che infranse
l’attuazione della formula di Phillips e si consolidò con la crisi del sistema monetario
internazionale. H. VAN DER WEE, L’economia mondiale…, cit., pp. 64-66; S.
POLLARD, Storia economica…, cit., p. 249.
( 59 ) V. PEDERZOLI, Approcci teorici al processo inflazionistico interno ed internazionale,
Cedam, Padova 1983, pp. 457-491.
( 60 ) Lo studio di qualsiasi sistema monetario non può prescindere dalla certezza
dell’esistenza della speculazione; essa deve essere considerata come una forza,
che agisce pericolosamente laddove il tasso di cambio di un Paese si mostra estremamente
fragile e quindi più vulnerabile. Ciò che agisce contro l’azione speculativa
è la flessibilità del cambio, ossia la capacità di integrare nel meccanismo del
cambio stesso quegli elementi che, rispecchiando il più possibile l’aderenza ai
prezzi reali, consentano minori esborsi o perdite e rendano meno difficile per le
singole banche centrali la difesa della propria moneta. RASSEGNE, Economia e finanza
nel mondo, in “Prospettive Settanta”, 1973 II, p. 881.

422
ANDREA NIEDDU
Uniti una forte diminuzione; l’aumento dei prezzi del greggio ( 61 )
con ripercussioni a carattere di sostanziale uniformità, i cui punti salienti
furono, come già visto, la notevole decelerazione della crescita
economica, accompagnata da un’alta disoccupazione ed inflazione, e
l’eccessiva spesa pubblica, che poneva seri problemi in un clima di
disperati tentativi di arginare l’indebitamento con l’estero e prevenire
il rischio di una crisi finanziaria; ciò unitamente al forte impatto
sociale sul piano e delle abitudini di vita e del rapporto fra governo e
sindacati.
4. Il baricentro geopolitico in movimento. – Nel corso del ventesimo
secolo l’importanza del petrolio è stata regista della scena economica
e delle relazioni internazionali: il ruolo dell’OPEC si modificò
proporzionalmente alla dinamica quantitativa della domanda di
greggio nel mercato mondiale delle risorse energetiche. La crisi petrolifera
innescò l’inversione di tendenza dei soggetti in campo, ossia
Paesi produttori-esportatori e Paesi consumatori, che a partire dal
1950, dinanzi ad una percentuale pari al 60% del fabbisogno mondiale
e al 90% di quello europeo, coperti dal bacino mediorientale
ed africano, stabilirono un dato ineccepibilmente inconfutabile: la
dipendenza europea e dell’Occidente in genere da tale area e dunque
la relativa condizione dell’Europa, in primis, di principale debitrice
del petrolio arabo. Le richieste, eccessivamente onerose e dunque insolvibili,
avanzate agli USA dai Paesi europei relativamente ai progetti
di ricostruzione delle economie del secondo dopoguerra in
coincidenza con la fase definitoria del Piano Marshall, spinsero il
Congresso degli Stati Uniti ad adottare una linea preventiva e di
contenimento dei desideri europei, indicando il soddisfacimento dei
rispettivi bisogni d’approvvigionamento verso i giacimenti dell’Arabia
Saudita e del Kuwait in una prospettiva di sfruttamento a medio
o breve termine. Le necessità del caso avrebbero sottoposto ad un
flusso quasi raddoppiato la penetrazione del petrolio in Europa ( 62 )
e non si potrebbe immaginare un mancato coinvolgimento dell’area
( 61 ) D.H. ALDCROFT, L’economia europea…, cit., pp. 291-294, 298-300; R.
PARBONI (a cura di), L’Europa nella crisi…, cit., pp. 41-69; A. DE BERNARDI, S.
GUARRACINO, Storia 3. Novecento…, cit., pp. 326-341; L. BACULO, Il prezzo del petrolio…,
cit., pp. 9-26; H. VAN DER WEE, L’economia mondiale…, cit., pp. 66-72;
S. POLLARD, Storia economica…, cit., pp. 249-251; S. POLLARD, L’economia internazionale…,
cit., pp. 137-143.
( 62 ) A. VITALE, La grande avventura del petrolio, Paravia, Torino 1976, pp. 47,
52, 54.

La svolta economica del 1973
mediorientale, che si dimostrò forte di una capacità produttiva, la
quale pose al mercato serie difficoltà d’assorbimento dell’offerta ( 63 ).
Emerge chiaramente che la realtà politico-economica si avviasse
in questo modo alla fase di congiuntura, che ci riguarda, penalizzata
dall’inesistenza di un “sistema mondiale” del petrolio e caratterizzata
dallo strapotere dominante e dalla prepotenza oligopolistica ( 64 ) delle
cosiddette Sette Sorelle.
È in tale contesto che va inquadrata l’evoluzione della storia del petrolio
come ago della bilancia nella definizione degli orientamenti strategici,
della politica estera dei diversi Paesi e degli assetti geopolitici,
suscettibili di continue rimodulazioni. Tre furono i fatti fondamentali,
che concorsero a strutturare quella che può essere definita la pre-crisi
del petrolio: 1) la sostituzione del petrolio al carbone come fonte primaria
di energia, deputata all’impiego industriale, al consumo nelle
centrali termoelettriche e nel riscaldamento domestico, riconducibile
all’equazione tra due dati storici di rilevanza strategica: quello dell’ingresso
degli americani nella porzione geografica mediorientale e nordafricana
(Algeria e Libia) e quello dell’ascesa dell’oro nero a termometro
dello stile di vita del mondo contemporaneo; 2) la compromissione
della politica estera americana con gli interessi economici delle grandi
compagnie petrolifere: l’esigenza di fondo, connaturata alla condizione
stessa dei giacimenti nazionali di gran lunga meno redditizi (basti pensare
che, secondo alcune rilevazioni statistiche della fine degli anni Settanta,
mentre un pozzo americano rendeva circa 1,9 tonnellate di grezzo
al giorno, uno mediorientale si aggirava intorno alle 546) e qualitativamente
inferiori, era rappresentata dalle importazioni di grezzo da
Venezuela, Medio Oriente ed Africa, a causa fondamentalmente di un
consumo sfrenato ed irrazionale; 3) la nascita di una sorta di movimento,
intorno a cui si raccoglievano le istanze reazionarie, che denunciavano
l’intolleranza di un’aggressiva politica di sfruttamento coloniale
delle risorse e ricalcavano la necessità di un intervento immediato e
chirurgicamente monitorato, volto al contrasto decisivo e risoluto dell’autonomia
monopolistica delle Sette Sorelle ( 65 ).
È esattamente nei risvolti intimamente connessi alla suddetta intelaiatura,
che si colgono le sfumature del terreno in cui affonda le
proprie radici la complessa ed intrigante vicenda della crisi del 1973.
( 63 ) L. MAUGERI, Petrolio: storie di falsi miti, sceicchi e mercati che tengono in
scacco il mondo, Sperling & Kupfer Editori, Milano 2001, pp. 29-34.
( 64 ) M. ARCELLI, La formazione dei prezzi nell’economia delle fonti di energia,
Giuffrè, Milano 1965, pp. 1-78.
( 65 ) C. PAOLI, L’avventura del petrolio, Giunti-Nardini, Firenze 1974 in A. VI-
TALE, La grande avventura…, cit., pp. 52-54.
423

424
ANDREA NIEDDU
È nell’evoluzione storica del ruolo dell’OPEC la chiave di lettura
di una crisi, che ha ridisegnato il mosaico geopolitico dell’energia:
l’OPEC che compì in quegli anni una vera e propria ricognizione
mnemonica del passato, per assurgere ad una presa di coscienza della
realtà, che soffriva a causa di un protagonismo diplomatico sempre
più obsoleto e di una capacità d’incidenza pressoché nulla nell’ambito
dei rapporti tra Paesi produttori e Paesi consumatori.
L’accelerazione industriale, che interessò il mondo occidentale nel
1950-70, si rese protagonista di uno sfruttamento indiscriminato di
energia a basso costo, soprattutto di petrolio, soddisfatto da un’offerta
geograficamente circoscritta ma non altrettanto soggetta a ritmi locali
eccessivamente incalzanti. L’area direttamente coinvolta fu per specifici
motivi il Medioriente: il fatto quindi che tale territorio fosse dotato
di una notevole capacità produttiva riuscì a ricompattare i produttori
di petrolio in una politica economica di coesione ma, non corrispondendo
al relativo stato di avanzamento e sviluppo economico, si verificò
che la mancanza di una regolamentazione dell’offerta garantisse da
una parte un forte potere di mercato, termometro dei prezzi, e dall’altra
un attivo considerevole nella bilancia dei pagamenti OPEC, rivelatosi
di fatto intraducibile in volano delle importazioni. Questo provocò
nelle economie dei Paesi industrializzati la contrazione delle domanda
effettiva ed accentuò lo squilibrio mondiale tra la liquidità disponibile
depositata e il suo impiego a medio o lungo termine, minando
la stabilità del sistema finanziario ( 66 ). I Paesi importatori di petrolio
si videro costretti da una parte a limitare la quantità di beni e servizi,
consuetudinariamente domandata, e dall’altra ad acquistare il greggio
mediorientale in valuta estera; la conseguenza inevitabile fu la crescita
della domanda di valuta pregiata, che si accompagnò all’indebolimento
del tasso dei cambi e al sopravvento del rincaro delle importazioni
e per converso dell’economicità delle esportazioni relativamente
ai rapporti commerciali con i Paesi produttori.
Risulta palese che l’economia mondiale avesse imboccato la strada,
che avrebbe condotto ad una severa depressione, se l’analisi si allarga
al biennio 1972-73, quando l’industria mondiale seguì un indirizzo
espansivo di politica economica, che poggiava ed era fortemente condizionato
dalla fiducia illusoria nell’abbondanza di quantità monetaria:
se la crescita delle relative riserve aveva proceduto fino al 1970 ad
un tasso annuo del 2-3%, dal 1970 in poi superò quello del 10% sfiorando
nell’arco di soli quattro anni un aumento complessivo del
( 66 ) M. CHATELUS, J.M. CHEVALIER, G.D. DE BERNIS, T.O. ENDERS, E.R.
FRIED, E. PENROSE, Petrolio e crisi…, cit., pp. 8-9.

La svolta economica del 1973
136%. La realtà deficitaria degli Stati Uniti fu causa di un’incosciente
emissione di moneta ( 67 ), che fu assorbita dall’Europa e per la prima
volta nel 1971 il sistema di Bretton Woods mostrò la propria intrinseca
fragilità ( 68 ): da regolatore dei mercati monetari ( 69 ) divenne fonte
d’instabilità e terreno fertile alla proliferazione degli effetti inflazionistici
( 70 ). In un quadro di profonda crisi strutturale il dato da tener
presente sarebbe a mio avviso la compresenza di due fenomeni difficilmente
sostenibili: 1) la difficoltà d’assorbimento del capitale finanziario
di Paesi a bassa densità demografica come Arabia Saudita e Kuwait,
che giovava pro tempore all’economia sviluppata in quanto depositato
nelle capitali bancarie come New York e Londra; ma allo stesso
tempo l’incapacità di promuovere una politica fiscale a favore dell’occupazione
e dunque della crescita, dovuta alla miopia della classe politica
occidentale rispetto al fatto che l’inflazione del periodo fosse conseguenza
non già di una spesa eccessiva, bensì di un alto costo delle
importazioni; 2) il tentativo, rivelatosi vano, dei soggetti bancari occidentali
di opporsi alla svalutazione del dollaro, rinunciando alla valu-
425
( 67 ) Il problema dell’emissione di moneta da parte degli Stati Uniti d’America
è uno dei temi più trattati dagli accademici della finanza e dell’economia internazionale.
Esso pone una serie di stimolanti ed interessanti quesiti, per rispondere ai
quali occorrerebbe investigare in primo luogo il rapporto intercorrente tra l’emissione
sconsiderata di moneta da parte di un singolo Paese, nel perseguimento dell’espansione
della propria economia, e il condizionamento della realtà finanziaria
internazionale in termini di squilibri della bilancia dei pagamenti; in secondo luogo
occorrerebbe valutare l’attendibilità scientifica di quanti sostengono che la soluzione
di una condizione deficitaria della bilancia dei pagamenti debba prescindere
dall’adozione di misure, che mostrino la stessa natura delle cause originarie.
RASSEGNE, Economia e finanza…, cit., p. 880.
( 68 ) La difficile condizione deficitaria degli anni Sessanta e Settanta fu nel decennio
successivo causa di una degenerazione della bilancia commerciale statunitense:
il mutamento delle ragioni di scambio, che determinò una caduta del livello
delle esportazioni, fu la chiave di lettura dell’andamento delle partite correnti in
relazione alle variazioni dei prezzi, legate alle oscillazioni del tasso di cambio. S.
MICOSSI-S. VONA (a cura di), Il difficile sentiero del riequilibrio: l’economia internazionale
negli anni ottanta, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 74-78.
( 69 ) B. LI VIGNI, Le guerre del petrolio: strategie, potere, nuovo ordine mondiale,
Editori Riuniti, Roma 2004, pp. 223-224.
( 70 ) Il fatto che il dollaro fosse valso da elemento regolatore e compensatore
delle bilance dei pagamenti dei singoli Paesi si ascrisse alla sua iniziale corrispondenza
tra prezzo ufficiale e corso di mercato; pertanto la necessità di una valuta di
riferimento nel mercato finanziario internazionale impone anche ai giorni d’oggi
che l’emissione di moneta rispetti tanto le esigenze interne dell’espansione economica
quanto la propria capacità di sostenimento dell’economia internazionale.
RASSEGNE, Economia e finanza…, cit., p. 881.

426
ANDREA NIEDDU
tazione delle proprie monete; tra il 1970 ed il 1972, infatti, l’offerta di
moneta nominale passò mediamente dal 7,5 al 14% annuo nei Paesi
industrializzati e in alcuni CEE dal 9,9% al 18,3%, con l’Italia che
vantava un 23%, il Giappone un 30% e la Germania, più refrattaria
alla prassi in uso nell’ambito monetario, un 14,5%.
L’intrecciarsi di questi aspetti degenerò nella grave recessione del
1974-76 in termini di una considerevole eccedenza della bilancia dei
pagamenti da parte dei Paesi OPEC e di un corrispondente deficit
dei Paesi consumatori: nel 1973 l’ammontare del reddito OPEC si
aggirò intorno ai 33 miliardi di dollari, mentre nel 1974 toccò la soglia
dei 108 miliardi ( 71 ) con un ritorno di 20 miliardi in Europa attraverso
sia le importazioni da parte dei Paesi OPEC dei prodotti finiti
sia il loro affidamento al sistema bancario europeo ed un conseguente
avanzo di 55 miliardi; per il mondo consumatore, ma non
produttore di petrolio, si parla di un disavanzo equivalente alla medesima
cifra. I sette Paesi più industrializzati nel 1973 registrarono
un avanzo di bilancia commerciale pari a 13,7 miliardi di dollari,
mentre nel 1974 un disavanzo di 5 miliardi con una significativa riduzione
del tasso di crescita del Pil ( 72 ); il sistema mondiale si trovò
in preda a problematici e complessi disagi congiunturali, in un momento
in cui anche il processo di espansione del credito internazionale
si era ormai avviato ad una fase patologica. Tale scenario stimolò
politiche di natura restrittiva, mirate al conseguimento di un severo
controllo della domanda interna e dei salari, di modo che il consumo
potesse crescere più lentamente del prodotto pro-capite, riflettendosi
sul tentativo di eguagliare il costo più oneroso delle importazioni
di input primari, quali il petrolio, con un accresciuto spessore
delle esportazioni di prodotti finiti; i risultati per le economie più
forti giunsero già a partire dal 1975 con un avanzo importante di 24
miliardi di dollari. La massa monetaria internazionale misurò il volume
delle operazioni bancarie internazionali in un totale lordo di 548
miliardi di dollari, sul quale incise un aumento di 130,3 miliardi per
un totale netto di 416,48 (-24%) ( 73 ). Secondo le tesi e i dati rilevati
dalla BIR le riserve finanziarie mondiali aumentarono dal 1970 al
1976 di circa 180 miliardi di dollari con una percentuale del 230%
( 71 ) E. DI NOLFO, Storia delle relazioni internazionali 1918-1992, Editori Laterza,
Bari 1994, p. 1230.
( 72 ) OCSE, Economic Outlook, n. 26, dicembre 1979.
( 73 ) Dati contenuti nel 47° rapporto annuale della Banca dei Regolamenti Internazionali
(BIR), che il direttore generale René Carre presentò a Basilea il 13
giugno 1977.

La svolta economica del 1973
nella quantità proporzionale ai deficit da sanare: raramente, infatti,
accadeva che le riserve mostrassero una tendenza inversa a fronte di
preoccupanti sproporzioni di bilancia di pagamenti.
Tutto questo avvenne nel clima di fluttuazioni, che potrebbero definirsi
pilotate, delineatosi in seguito alla dichiarazione di “non convertibilità”
del dollaro in oro (fine del gold exchange standard), proclamata
da Nixon. La svalutazione del dollaro risultò coincidere con le
difficoltà connesse alla solvibilità dei Paesi dagli inquieti squilibri di
bilancia dei pagamenti, nella completa insofferenza del ruolo originario
del FMI, deputato alla sorveglianza della stabilità internazionale
( 74 ). Ancor prima che le valute iniziassero a fluttuare l’Istituto in questione
adottò dal 1967 al 1970, oltre che la tradizionale formula di
aiuti in miliardi di dollari, una nuova modalità di erogazione in valute
diverse: furono circa 2850 i primi, circa 6247 i secondi. L’intensa attività
commerciale della fine degli anni Sessanta rivelò, infatti, l’insufficienza
delle riserve rese disponibili dal Fondo, ragione per la quale il
Gruppo dei Dieci stipulò dapprima il Gab ( 75 ) e in seguito i Dsp ( 76 ),
emessi tra il 1970 e 1972 per un totale di 9,5 miliardi di dollari. Il
Fondo ormai era cambiato in quanto che divenne custode delle riserve
dei Paesi in via di sviluppo, essendo passato dal 1945 al 1985 da 47,5
miliardi di dollari a 477,7 ( 77 ), e mise in atto piani di assistenza come
nel 1963 il Compensatory Financial Facility (Cff) e nel 1974 l’Oil Facility
( 78 ). Data la necessità di una superiore circolazione di liquidità,
imposta dall’evoluzione della struttura economica, il FMI fu coinvolto
nella questione del debito mondiale, che dimostrò tanto la vulnerabilità
del mondo sviluppato quanto la misura crescente della dipendenza
del Terzo Mondo dalle importazioni di energia. Terzo Mondo, peral-
427
( 74 ) G. BORDINO-G. MARTIGNETTI, Il mondo dal 1970 a oggi, in Storia universale
..., cit., pp. 12-13.
( 75 ) General Agreement to Borrow (Gab): Accordo Generale sul Prestito, con il
quale nel 1962 i dieci Paesi più potenti prestarono al FMI una somma equivalente a
10 miliardi di dollari. S. POLLARD, L’economia internazionale…, cit., p. 100.
( 76 )I diritti speciali di prelievo, risalenti ad un accordo del 1966-67, consentivano
ai Paesi con maggiori difficoltà finanziarie di usufruire di ulteriori crediti occidentali
per mezzo del FMI; il valore originario di un Dsp era pari a 1/35 di oncia
troy d’oro, ma mutò negli anni successivi per il fenomeno delle fluttuazioni
monetarie. H. VAN DER WEE, L’economia mondiale…, cit., p. 421; ibidem, p. 100.
( 77 ) J.A. FRENCHEL, M. GOLDSTEIN (a cura di), Internazional Financial Policy,
Washington (DC), 1991, p. 9.
( 78 ) Il Cff fu realizzato per fronteggiare le difficoltà da riduzione del volume delle
esportazioni, soprattutto di grano; l’Oil Facility invece per alleggerire gli sforzi
delle importazioni di petrolio. S. POLLARD, L’economia internazionale…, cit., p. 101.

428
ANDREA NIEDDU
tro, da appena qualche decennio uscito dal colonialismo e prostrato
da una serie di carestie, derivanti dalla coincidenza di precarie condizioni
igienico-sanitarie e crescita demografica, che certamente imposero
l’uso di crediti agevolati per fabbisogni di sussistenza immediata e
non per investimenti futuri, con progressivo allargamento della forbice
fra mondo sviluppato e Terzo Mondo ( 79 ).
Sono proprio queste le due modificazioni, che intervennero nel
mondo monetario e finanziario a ridefinirne i contorni geopolitici:
da una parte il fiorire di un’area geografico-finanziaria già formatasi,
battezzata come il mercato delle Eurodivise; dall’altra il meccanismo
di spostamento e circolazione della massa di capitali, condizione indispensabile
di qualsiasi programmazione dello sviluppo economico.
Per quanto concerne la prima, si verificò che la buona parte della liquidità
monetaria, accumulata dall’OPEC, ossia i famosi petrodollari,
ritornasse in Europa per il flusso d’importazioni di prodotti finiti,
per le agevolazioni creditizie del FMI dal Medio Oriente all’Occidente
e per i depositi sul mercato delle Eurodivise; il miglioramento
notevole dei deficit di bilancia dei pagamenti dell’Occidente fu una
conseguenza di quella stessa abbondanza di dollari, che era stata additata
come causa prima ed effetto poi dell’inflazione mondiale.
Grazie alla crescita del mercato delle Eurodivise molte risultarono le
transazioni bancarie indirizzate ai Governi dei Paesi forti per la copertura
totale del proprio deficit e quindi gli effetti positivi, ma altrettanto
numerosi ed onerosi furono i suoi costi: esso infatti incentivò
l’instabilità del cambio delle principali valute in un regime di libere
fluttuazioni che, attraverso la tendenza al reciproco allineamento
per il vuoto di potere d’acquisto, di cui il dollaro si era insignito,
conseguì inizialmente buoni ed inattesi risultati in direzione del ripristino
dell’equilibrio dell’indebitamento mondiale. Inoltre esercitò
una pressione eccessiva tale da fiaccare l’efficacia delle politiche monetarie
nazionali e minò alla base la sicurezza del sistema bancario
internazionale: il fatto stesso che i depositi OPEC fossero impiegati
in operazioni interbancarie di prestito a medio o lungo termine ( 80 ),
e non in una prassi concreta di capitalizzazione della liquidità, determinava
una certa insicurezza strutturale, che sarebbe stata destinata
( 79 ) P. VIOLA, Storia moderna e contemporanea. IV. Il Novecento, Piccola Biblioteca
Einaudi, Torino 2000, pp. 439-440.
( 80 ) Di norma i depositi erano a breve termine, mentre i prestiti a medio o lungo
termine: le banche riuscivano a sviluppare l’attività creditizia mediante la formula di
somme rinnovabili, per cui ne derivava che un periodo di lungo termine apparisse di
medio termine (sei o dodici mesi), mentre in realtà veniva prorogato addirittura fino
a dieci anni. H. VAN DER WEE, L’economia mondiale…, cit., p. 418.

La svolta economica del 1973
a sfociare in una portentosa crisi bancaria, come di fatto quella generatasi
in Germania con il fallimento della banca Herstatt.
Per quanto concerne la seconda, la necessità di capitali all’avvio dello
sviluppo inserì il Terzo Mondo all’interno del profilo finanziario
appena tracciato: la stima dei debiti contratti ricalcò il passaggio dai 74
miliardi di dollari nel 1970 ai 264 nel 1977 ossia dal 16,9 al 38,5%,
un incremento notevole che non rifletteva solide fondamenta e certa
affidabilità dei mutuatari. Un altro soggetto importante fu il Blocco
Orientale o Socialista, il quale fu protagonista di un indebitamento totale
pari a 60 miliardi di dollari e la cui solvibilità era decisamente
dubbia. La situazione si acuì sempre più, quando le esportazioni del
Terzo Mondo verso l’Occidente, vale a dire i mezzi previsti per trarre i
profitti necessari alla restituzione del prestito, subirono una rigorosa
compressione e gli interessi ebbero un’ascesa sconcertante.
I vari Governi occidentali si preoccuparono pertanto di mettere in
campo politiche fiscali improntate all’imposizione di serie misure di
controllo, come ad esempio l’obbligo internazionale di mantenere riserve
bancarie, il pieno coinvolgimento di autorità monetarie come il
BRI di Basilea per la supervisione degli accordi ed infine il consolidamento
di un sistema mondiale che, basandosi de facto sul dollaro, agiva
sul contrasto della posizione di preminenza assoluta dell’oro e dei
Dsp. Questi furono gli obiettivi, perseguiti dai cinque Paesi più industrializzati,
cioè Stati Uniti, Giappone, Germania Federale, Gran Bretagna
e Francia, che si avvicendarono al vertice del FMI dal 1974. Il
deprezzamento dell’oro fu raggiunto nel 1975 quando l’Europa ed il
Giappone accettarono lo scioglimento dei suoi legami con la stessa
Carta costitutiva del Fondo, la vendita di un terzo delle sue riserve auree
e la finale suddivisione, secondo quanto sancito a Kingston (Jamaica)
nel gennaio 1976, della metà della somma ricavata tra i vari
membri in misura proporzionale alle quote versate e la rimanente da
devolvere ai Paesi in via di sviluppo. L’indebolimento dei Dsp fu esito
di una pratica di restringimento e contenimento della loro emissione,
che deluse le aspettative del Terzo Mondo d’intrecciare l’accrescimento
degli aiuti allo sviluppo a quello del sistema creditizio; il FMI, al
fine di bilanciare tale assottigliamento e dietro pressione delle economie
europee, decise di rendere operanti maggiori facilitazioni creditizie
rispetto alle esportazioni di petrolio dei Paesi OPEC, i quali infatti
già a partire dal 1976 osservarono l’ingrossamento dal 5 al 10% della
rispettiva quota complessiva ( 81 ).
( 81 ) F. MASERA, L’Italia e l’economia internazionale, Utet, Torino 1979, pp. 180-
198; A. VALLEGA, Geopolitica e sviluppo sostenibile: il sistema mondo del secolo XXI,
429

430
ANDREA NIEDDU
Ritengo giusto affermare, sulla base dello studio e dell’analisi effettuati,
che la crisi petrolifera, innescata dall’aumento dei prezzi del
grezzo del 1973, non sia stata la causa, ma piuttosto un evento accidentale
d’enorme portata, che contribuì potentemente alla degenerazione
di un mercato e di un sistema monetari ormai gravemente
appesantiti ed affaticati da una conduzione, altamente critica, della
crescita irrazionale dell’economia del secondo dopoguerra; ed ancora
un evento che fu di vasta portata, poiché sconvolse i ritmi e gli assetti
più generali e non solo specificamente finanziari o monetari mondiali.
Lo scacchiere mediorientale subì una modificazione strutturale,
legata a quel mutato scenario internazionale, che si avviò al processo
di transizione ad un “secondo ordine petrolifero” ( 82 ). Il fattore politicamente
rilevante ed innovativo, intervenuto nelle attività inerenti
al ciclo di produzione, distribuzione e consumo, fu rappresentato da
una ridefinizione dell’assetto complessivo, in virtù della redistribuzione
del potere di controllo tra le parti interessate ( 83 ). Il fatto raccolse
in sé la portata della crisi: fu la decadenza del dominio oligopolistico
delle multinazionali e l’ascesa di un inconsueto decisionismo
dei soggetti politici; la transizione ad un nuovo ordine spostò il
baricentro della regolamentazione dell’offerta mediorientale dalle
Mursia, Milano 1994, pp. 307-309; S. POLLARD, Storia economica…, cit., pp. 229-
247; S. POLLARD, L’economia internazionale…, cit., pp. 97-143; G. SPANTIGATI,
Petrolio: gli anni della crisi…, cit., pp. 14-18; D.H. ALDCROFT, L’economia europea…,
cit., pp. 298-305; L. BACULO, Il prezzo del petrolio…, cit., pp. 9-26; H.
VAN DER WEE, L’economia mondiale…, cit., pp. 416-426; CREDITO ITALIANO,
Congiuntura italiana e internazionale, Lito Savena, Bologna, anno II, gennaio -
febbraio 1977.
( 82 ) Si definì “primo regime petrolifero” un sistema del petrolio, i cui tratti essenziali
furono i bassissimi costi degli input primari ed un’organizzazione, il cui
referente principale s’identificava nei Paesi ad economia industriale e dunque importanti
consumatori. Il “secondo regime petrolifero” si configurò diversamente
per una radicale frammentazione della struttura decisionale e di conseguenza per
gli alti prezzi del greggio. O. NORENG, Oil politics in the 1980, New York 1979,
pp. 27 ss.
( 83 ) Si ebbe sostanzialmente una “trasformazione delle strutture di controllo
dell’industria petrolifera e dei modi di funzionamento dei mercati”: tale processo
trasse origine dall’urgenza di ridistribuire il potere tra Nord e Sud del mondo; sarebbe
opportuno assumere, ponendolo al centro dell’indagine conoscitiva del nuovo
ordine petrolifero internazionale, il tema di una partecipazione attiva del Terzo
Mondo allo sfruttamento delle risorse naturali del proprio territorio e della costruzione
di uno “sviluppo sostenibile”, obiettivo propugnato dalle teorie di politica
economica globale in questi ultimi decenni. A. CLÒ, Economia e politica…, cit.,
pp. 156-157.

La svolta economica del 1973
cosiddette Sette Sorelle ( 84 ), che disciplinavano un’ampia porzione
dei processi produttivi e delle disponibilità prodotte, soggette a riserva
o esportazione, direttamente sulla potestà governativa dei Paesi
produttori ( 85 ).
Si trattò del passaggio da un sistema monopolistico, riflesso dell’economia
occidentale, ad un sistema monopolistico di matrice mediorientale:
all’indomani del 1973, l’OPEC conquistò un posto egemone
nel mercato dell’energia; il mondo occidentale, ma soprattutto
gli organi di stampa si proposero di far luce sul percorso tracciato
dalla propria politica estera, in particolar modo statunitense, che da
sempre guardò con interesse prioritario al bacino delle risorse petrolifere
e che, nell’arco di un solo quinquennio, si vide sottrarre la leadership
della gestione.
Durante gli anni Settanta si verificò un fenomeno di progressivo
allargamento della sfera di controllo dell’OPEC sulle attività minerarie,
che scivolò dal 2,3% del 1973 all’87,7% del 1980. Una serie
d’interventi su nazionalizzazioni e partecipazioni azionarie fu promossa
a partire dall’accordo di New York del 5 ottobre 1972 ( 86 ) per
poi risolversi in quelli del 1974-75 ( 87 ), che esautorarono le concessioni
( 88 ), poste sotto l’egida statunitense per poco meno di un seco-
431
( 84 ) L. MAUGERI, Petrolio: storie di falsi miti…, cit., pp. 35-42.
( 85 ) P. GENCO, Il mercato petrolifero internazionale: nuovi soggetti e nuove regole
del gioco nell’offerta di greggio, Franco Angeli Editore, Milano 1983, p. 9.
( 86 ) Prevedeva per gli Stati firmatari, Arabia Saudita, Kuwait, Abu Dhabi e
Qatar, la partecipazione maggioritaria del 51% su concessioni di pertinenza delle
multinazionali. Ibidem, pp. 9-10.
( 87 ) In questi anni il governo del Kuwait acquisì inizialmente il 60% della Kuwait
Oil Company, formata da BP e Gulf, e nel 1975 il restante 40%, indennizzando
le suddette compagnie con 50 milioni di dollari anziché con i 2 miliardi richiesti.
Nel 1974 l’Arabia Saudita riuscì ad aggiudicarsi il 60% dell’Aramco, formata
da Exxon, Texano, Mobil e Chevron, la cui attività interessava un quarto
delle riserve provate al 1976 (149 miliardi di barili); inoltre fu raggiunto, nel periodo
immediatamente successivo, un accordo che prevedeva il trasferimento dell’Aramco
all’Arabia Saudita, in cambio di un ricavo pari a 21 cent a barile prodotto
dietro assistenza tecnica all’estrazione, la commercializzazione dell’80% delle
quantità, disponibili sul mercato, e un acquisto privilegiato da parte delle multinazionali.
M. CHATELUS, J.M. CHEVALIER, G.D. DE BERNIS, T.O. ENDERS, E.R.
FRIED, E. PENROSE, Petrolio e crisi…, cit., pp. 45-47, 51-52; L. MAUGERI, Petrolio:
storie di falsi miti…, cit., pp. 51-52.
( 88 ) Avevano rappresentato il simbolo del potere extranazionale dell’America e
dell’Europa sui governi dei Paesi produttori di petrolio e la loro nazionalizzazione
fu la prima sconfitta subita dalle compagnie multinazionali. In condizioni concessionarie
esse disponevano di un’elevata autonomia nella gestione delle varie attivi-

432
ANDREA NIEDDU
lo ( 89 ). Il secondo momento del ciclo petrolifero, quello della distribuzione,
non desta meno interesse, poiché furono istituite dai governi
dei Paesi produttori le Compagnie di Stato nazionali, deputate
alla formulazione delle regole, che avrebbero dovuto presiedere alla
disponibilità ed alla circolazione del greggio sul mercato internazionale
( 90 ). In questi anni si gettarono le fondamenta dell’identificazione
dell’autorità politica degli Stati produttori con lo status di proprietari
dei giacimenti di petrolio.
L’avvenuta maturazione dei Paesi produttori, in conformità a
soggetti decisionali, spinse all’esercizio della propria sovranità politica
sui giacimenti, presenti nel territorio nazionale, in base ad un retroterra
culturale ed emozionale, profondamente diverso dal modello
occidentale ( 91 ). Ciò impresse una differente programmazione
dell’attività economica e delle politiche, sia di produzione sia di
prezzo, in seno alla mutata natura degli obiettivi da perseguire.
L’affermazione del ruolo dell’OPEC si espresse pertanto in un
uso delle risorse petrolifere coincidente, non solo con gli orientamenti
più propri della logica economica della massimizzazione del
profitto, ma anche con il sostenimento di una politica, finalizzata all’industrializzazione
e al miglioramento socio-economico. Per questo
motivo, allineandomi alla posizione di altri studiosi, parlerei di
“politicizzazione” del mercato petrolifero ( 92 ): una particolare concezione
che allargava la visuale oltre la riduzione del petrolio a strumento
di pressione diplomatica ( 93 ) sull’Occidente e che non trava-
tà dall’esplorazione alla distribuzione dei prodotti finiti: ciò favoriva che un quasi
totale controllo del territorio fosse subordinato alla scelta delle politiche economiche,
libere dal condizionamento politico delle nazioni ospitanti e funzionali al mantenimento
di un livello stabile di produzione e prezzi sul mercato internazionale. La
fine dell’era delle concessioni rappresentò, dunque, la liberazione dell’area del Golfo
dal controllo occidentale e l’assunzione di una responsabilità economica verso il
mondo intero. L. MAUGERI, Petrolio: storie di falsi miti…, cit., p. 51, 162-163.
( 89 ) Per poco meno di mezzo secolo la concessione rappresentò il mezzo giuridico,
capace di regolare i rapporti tra Paesi petroliferi e società straniere; essa fu la
condizione per cui le compagnie poterono godere di una sorta di “diritto reale”, in
virtù del quale ricercare, estrarre e vendere la quantità desiderata di petrolio. A.
CLÒ, Economia e politica…, cit., p. 92.
( 90 ) F. FORTUNA, Aspetti commerciali…, cit., pp. 101-121.
( 91 ) Ibidem, p. 16.
( 92 ) P. GENCO, Il mercato petrolifero internazionale…, cit., p. 17.
( 93 ) G. SPANTIGATI, Petrolio: gli anni della crisi…, cit., p. 10; M. CHATELUS,
J.M. CHEVALIER, G.D. DE BERNIS, T.O. ENDERS, E.R. FRIED, E. PENROSE, Petrolio
e crisi…, cit., p. 47.

La svolta economica del 1973
licava l’assunto del fenomeno culturale del nazionalismo e del panarabismo
del mondo arabo. Sostenere la tesi del condizionamento di
un fattore politicizzante significa altresì prendere atto del fatto che,
anche per la società industrializzata, la minore o maggiore facilità
d’accesso alle fonti d’energia implichi una risposta a stimoli interni,
che provengono da specifiche esigenze di consumo e rispondono a
piani di programmazione industriale ad hoc.
Fino ai primi anni Settanta l’OPEC sperimentò a proprie spese
l’incondizionato consumo occidentale e solo la crisi del 1973 ridisegnò
il mosaico delle relazioni internazionali all’insegna di un’accresciuta
consapevolezza del ruolo storico dei molteplici soggetti decisionali
interagenti fra loro ( 94 ) e dell’oramai rinnovata fisionomia
post-crisi.
( 94 ) P. GENCO, Il mercato petrolifero internazionale…, cit., pp. 17-20.
433

TATIANA COSSU
IMMAGINI DI PATRIMONIO: MEMORIA,
IDENTITÀ E POLITICHE DEI BENI CULTURALI
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Tradizioni estetico-tesaurizzatrici. – 3. Dalle belle
arti ai beni culturali. – 4. I beni immateriali, intangibili, volatili, inoggettuali.
– 5. Immagini di passato e costruzioni identitarie. – 6. Selezione e
valorizzazione dei beni culturali. – 7. Patrimonio e cultura. – 8. La patrimonializzazione.
1. Premessa. – Due parole chiave ritornano frequentemente nel
dibattito attuale sui beni culturali: patrimonio e patrimonializzazione.
La nozione di patrimonio ha subito nel tempo una notevole metamorfosi,
determinata sia dalle trasformazioni sociali, economiche e
politiche, sia dal cambiamento e dall’ampliamento dei paradigmi
epistemologici adottati. Si sono moltiplicate le tipologie dei beni
considerati patrimonio e sono aumentati anche coloro che partecipano
ai processi di patrimonializzazione, cioè alle politiche e alle
pratiche finalizzate alla costruzione di ‘oggetti’ patrimoniali, alla
loro legittimazione istituzionale e alla loro tutela, salvaguardia e valorizzazione.
Nei discorsi sul patrimonio compaiono frequentemente anche le
parole, memoria o storia – talora usate separatamente, altre volte messe
in relazione l’una con l’altra, come nell’espressione ‘memoria storica’
– e identità. Si tratta di parole-ponte, di concetti che fanno da tramite
e mettono in comunicazione gli oggetti e i soggetti della patrimonializzazione.
Non c’è oggetto patrimonializzato che non sia ritenuto
parte integrante della memoria, della storia e dell’identità dei
soggetti patrimonializzanti. Il patrimonio, infatti, è una componente
fondamentale della costruzione, conservazione, rappresentazione e
perpetuazione sia della memoria sia dell’identità di tali soggetti.

436
TATIANA COSSU
Pertanto, la ricostruzione storica delle inclusioni e delle esclusioni,
che il termine patrimonio ha comportato, non può che essere il
punto di partenza per comprendere i nuovi processi di patrimonializzazione,
e per compiere un discorso antropologico riflessivo – antropologia
del patrimonio è la denominazione invalsa per questo
nuovo orientamento negli studi – che si muova dalle memorie e dalle
identità alle politiche e alle pratiche patrimoniali ad esse connesse.
2. Tradizioni estetico-tesaurizzatrici. – La nozione di patrimonio
culturale, come quella francofona di patrimoine culturel o quella anglosassone
di cultural heritage, racchiude il concetto di trasmissione
di un bene di padre in figlio, e per estensione indica i beni comuni
che la collettività eredita dalle generazioni che l’hanno preceduta e
che intende trasmettere a quelle future. Ma possedere, conservare,
collezionare e mostrare opere di particolare pregio è stata per secoli
una pratica elitaria in Europa e in Italia, propria della classe nobiliare
delle antiche corti, una forma di tesaurizzazione e allo stesso tempo
di ostentazione del proprio gusto, insomma una componente importante
della costruzione e presentazione della propria immagine
da parte dell’aristocrazia. Tale patrimonio comprendeva beni rari e
preziosi (quadri, oreficerie, manoscritti, ecc.) provenienti dai luoghi
più vari, che evidenziavano la cultura e il potere o la sovranità di chi
li possedeva ( 1 ).
Dal periodo rinascimentale in poi il collezionismo in Italia cominciò
a comprendere statue di età romana, provenienti dalle rovine
delle città antiche, che andavano ad arricchire i patrimoni di cardinali
o anche di mercanti. Ma se queste collezioni erano chiuse e mostrate a
pochi, non così avveniva nelle chiese dove si accumulavano opere di
grande valore, economico e artistico, donate o commissionate da nobili
e notabili che in questo modo rafforzavano i propri legami con il
potere ecclesiastico e, al contempo, contribuivano alla costruzione
della propria immagine agli occhi della comunità dei fedeli di cui essi
facevano parte, attraverso il velo della devozione religiosa.
I gusti e i princìpi estetici delle élites, cioè di coloro che avevano
il potere di finanziare la produzione di beni, ai quali erano destinati
( 1 )SETTIS 2002, p. 21 ss. Nata probabilmente come una manifestazione simbolica
di status, il possesso e l’esibizione in occasioni cerimoniali di oggetti di particolare
pregio erano propri dei sovrani, dei principi e dei tiranni dell’antichità. Si
trattava, spesso, di doni ricevuti dai regnanti dei paesi con i quali si stringevano
relazioni diplomatiche, patti commerciali e alleanze o di offerte provenienti dai
territori conquistati e sottomessi o, semplicemente, di bottini di guerra.

Immagini di patrimonio: memoria, identità e politiche dei beni culturali
tali beni e che in sostanza ne risultavano i principali fruitori, furono
dunque alla base del perdurare nei secoli di una nozione di patrimonio
che escludeva i beni etnografici, legati alla quotidianità e alle
classi strumentali o subalterne.
Nel Settecento e Ottocento in Italia si ebbe una svolta importante
con la graduale apertura al pubblico delle collezioni private e il
costituirsi di istituti o servizi per la conoscenza e la conservazione
del patrimonio pubblico, in quanto si allargò alla comunità dei cittadini
la fruizione di tali beni favorendo lo sviluppo di un senso di
appartenenza dei cittadini alle città e di difesa delle loro istituzioni.
Non così avveniva fuori dai centri urbani e nelle aree decentrate,
specialmente nel periodo post-unitario, dove le leggi per la tutela di
carattere punitivo e la grande povertà di larghi strati della popolazione
non poterono portare alla nascita di una coscienza del patrimonio
e ad un interesse per la sua salvaguardia ( 2 ), né si poteva pretendere
altrimenti, data la lunga esclusione dei più dalla partecipazione a
questi beni. La patrimonializzazione rimaneva una pratica sostanzialmente
elitaria sia socialmente sia culturalmente, sebbene si andasse
sempre più estendendo tra le borghesie cittadine. Bisogna tenere
presente, però, che il regime liberistico dell’Italia post-unitaria
spesso entrava in conflitto nelle pratiche quotidiane con le leggi di
tutela del patrimonio artistico le quali imponevano un superiore interesse
collettivo agli interessi privati ( 3 ).
Sino agli anni Trenta del secolo scorso, la salvaguardia del patrimonio
continuava a riguardare unicamente i beni di carattere storico-artistico
di particolare rilievo. Nel 1902, infatti, la prima legge
parlamentare dell’Italia unita relativa alla “conservazione dei monumenti
e degli oggetti di antichità e arte” rivolgeva la conservazione e
la tutela a beni immobili e mobili di “pregio” o di “importanza artistica
e archeologica” ( 4 ).
Solo con la Legge Bottai (n. 1089 del 1939) la tutela si estese per
la prima volta anche ai beni etnografici ( 5 ). Nemmeno vent’anni prima,
nel 1911, vi erano stati a Roma il Primo Congresso di Etnogra-
( 2 )EMILIANI 1973, p. 1628.
( 3 )EMILIANI 1973, p. 1643.
( 4 ) Legge del 12 giugno 1902, n. 185. Nel 1913 si aggiunge la salvaguardia di
ville, parchi e giardini di interesse artistico o storico; cfr. EMILIANI 1973, p. 1651.
( 5 ) Art. 1 della legge del 1 giugno 1939, n. 1089: “Sono soggette alla presente
legge le cose, immobili e mobili, che presentano interesse artistico, storico, archeologico,
o etnografico […]”.
437

438
TATIANA COSSU
fia italiana e una Mostra di Etnografia per il cinquantenario dell’unità
d’Italia ( 6 ), le cui raccolte poi entrarono a far parte del Regio
Museo di Etnografia Italiana istituito nel 1923, l’odierno Museo
Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari.
Nonostante ciò, fino agli anni Sessanta, il concetto di bene rimase
di fatto legato alla filosofia crociana del bello e dell’arte, nonché
alla concezione evenemenziale della storia, per cui l’attenzione era
rivolta unicamente all’opera d’arte e al monumento storico di particolare
importanza ( 7 ).
3. Dalle belle arti ai beni culturali. – È comunemente considerato
un vero e proprio giro di boa quello compiuto nella seconda metà
degli anni Sessanta, più precisamente dalla Commissione Franceschini
(1964-69), incaricata di occuparsi della tutela e della valorizzazione
del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio,
che introdusse per la prima volta in un documento ufficiale la
locuzione “bene culturale”, definito “testimonianza materiale avente
valore di civiltà”, in conformità a quanto avveniva anche in ambito
internazionale ( 8 ). Negli anni Settanta, tali risultati furono acquisiti
nel disegno di legge della Commissione Papaldo in cui si stabiliva
che le cose di interesse “archeologico, artistico, storico, etnografico,
ambientale, archivistico, bibliotecario, audiovisivo, nonché ogni altra
cosa che comunque costituisca materiale testimonianza di civiltà,
sono beni culturali ed appartengono al patrimonio culturale del popolo
italiano” ( 9 ). Sebbene tali risultati non furono tradotti in legge,
l’istituzione nel 1975 di un apposito Ministero per i Beni Culturali
e Ambientali ( 10 ), al posto della Direzione generale per le Antichità e
le Belle Arti dipendente dal Ministero della Pubblica Istruzione, fu
un segnale dell’importanza sempre maggiore attribuita alla gestione
( 6 ) Per un quadro generale sul dibattito che si svolse in quell’occasione tra i
partecipanti al congresso, si veda PUCCINI 1985.
( 7 )CARLETTI, BUCCI 2004, p. 9; ALIBRANDI, FERRI 1988, pp. 15-16.
( 8 )ALIBRANDI, FERRI 1988, p. 16. Quanto alla legislazione internazionale, si
vedano la Convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato
(L’Aja, maggio 1954) e la Convenzione culturale europea (Parigi, 19 dicembre
1954). Della commissione Franceschini fece parte l’antropologo culturale
Tullio Tentori, a questo proposito si veda MARIOTTI 2002-2003.
( 9 )PAVONE 1995, pp. 10-11; MIRIZZI 1999, p. 5.
( 10 ) D.L. 14 dicembre 1974, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 29
gennaio 1975.

Immagini di patrimonio: memoria, identità e politiche dei beni culturali
e tutela del patrimonio culturale e dell’ambiente, anche a livello istituzionale,
ma nella sua organizzazione interna venne nuovamente
escluso il patrimonio etnografico.
L’abbandono, anche da parte delle istituzioni nazionali, del modello
epistemologico estetico come l’unico valido nella definizione di patrimonio,
sotteso oltretutto alla stessa locuzione di “Belle Arti”, e l’introduzione
del paradigma socio-culturale rispondono ai grandi cambiamenti
avvenuti tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta.
Nell’Italia che aveva appena compiuto un suo processo di modernizzazione,
connesso fra l’altro al fenomeno dell’urbanizzazione, e nella
quale prendevano già l’avvio la massificazione consumistica e culturale,
insomma in un contesto di veloci trasformazioni soprattutto nei
modi di vivere e di pensare, si manifestò un desiderio di “riscoperta del
passato”, “di recupero della memoria”, che portò ad un rafforzamento
del legame con il territorio, con il locale, e alla proliferazione di raccolte
prevalentemente spontanee di cultura materiale, spesso trasformate
o confluite in musei etnografici ( 11 ). Questo processo fu favorito dall’entrata
in attività delle regioni a statuto ordinario e dalla disponibilità
di finanziamenti da parte degli enti locali. Memoria, territorio e
beni culturali divennero un patrimonio da riscoprire e da valorizzare, e
questo anelito di ricerca delle proprie radici comunitarie fu largamente
condiviso nei vari livelli sociali e culturali. In questa temperie sociale
e culturale la costruzione e l’estensione della coscienza patrimoniale
in larghi strati della popolazione ricevettero un forte impulso.
Sebbene la legge Bottai avesse incluso i beni etnografici nella tutela
del patrimonio, si deve giungere alla fine degli anni Novanta del
Novecento per registrare l’ingresso del patrimonio demoetnoantropologico
nella legislazione italiana e nell’assetto ministeriale.
L’uso dell’aggettivo “demoetnoantropologico” nel Testo Unico
sui beni culturali ( 12 ) è stato un riconoscimento a circa un secolo e
mezzo di studi e ricerche compiuti in Italia nel campo della demologia
o studio delle tradizioni popolari, dell’etnologia e dell’antropologia
culturale. Tale aggettivo tripartito, coniato o comunque divulgato
da Alberto M. Cirese, è stato sostituito nel Codice dei Beni Culturali
e del Paesaggio (D.L. 42/2004) dall’aggettivo bipartito “etnoantropologico”
ritenuto “più scientifico” ( 13 ), ma che di fatto can-
( 11 )CLEMENTE 1997, pp. 20-23; CLEMENTE 1999a, p. 30 ss.; CLEMENTE 1999b,
p. 78 ss.
( 12 ) D.L. 490/1999, che accorpa anche il D.L. 112/1998 e il D.L. 369/1998.
( 13 )CARLETTI, BUCCI 2004, p. 165.
439

440
TATIANA COSSU
cella il primato tutto italiano di aver dato importanza e dignità
scientifica alla demologia, in tempi in cui in Europa era relegata “a
curiosità locale o ripudiata come folklorismo deteriore” ( 14 ).
Nel Codice Urbani, appena entrato in vigore ( 15 ), i “beni culturali”
comprendono “le cose immobili e mobili che [...] presentano interesse
artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico
e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla
legge quali testimonianze aventi valore di civiltà” ( 16 ). Vengono
inoltre definiti “beni paesaggistici” “gli immobili e le aree […] costituenti
espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici
ed estetici del territorio” ( 17 ). Il nuovo Codice comprende, dunque,
con la locuzione “patrimonio culturale” l’insieme dei beni sia culturali
sia paesaggistici, la cui tutela e valorizzazione “concorrono a preservare
la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a
promuovere lo sviluppo della cultura” ( 18 ). Il patrimonio culturale è
pertanto considerato nella legislazione italiana una componente fondamentale
e rappresentativa dell’identità nazionale, come già evidenziato
nell’articolo 9 della Costituzione: “La Repubblica tutela il
paesaggio e il patrimonio storico artistico della Nazione”. Insomma,
memoria, beni culturali e paesaggio svolgono una funzione identificativa
e distintiva della comunità nazionale italiana.
4. I beni immateriali, intangibili, volatili e inoggettuali. – Sin dalla
legislazione del 1939 fino al Codice Urbani appare come un aspetto
connotativo del “patrimonio culturale nazionale” l’allargamento dei
beni culturali dalle “cose” in senso stretto ai “paesaggi” ( 19 ), fatto
che evidenzia la connessione, il legame inscindibile, che per la legislazione
italiana vi è tra bene e territorio. Nonostante questo aspetto
positivo, nella nuova legislazione continua a sussistere l’uso della locuzione
“cose immobili e mobili” in riferimento ai beni culturali impedendo
un disancoraggio dal “sostrato materiale”, sebbene l’espressione
“testimonianza avente valore di civiltà”, adoperata sia nel Te-
( 14 )ANGIONI 2003a, p. 15.
( 15 ) Decreto legislativo n. 42 del 22 gennaio 2004.
( 16 ) Art. 2, comma 2.
( 17 ) Art. 2, comma 3.
( 18 ) Art. 1, comma 2.
( 19 ) Cfr. Legge 1497/1939 e Legge Galasso del 1985.

Immagini di patrimonio: memoria, identità e politiche dei beni culturali
sto Unico sia nel Codice Urbani, lasci aperta la possibilità di includere
anche i cosiddetti beni “immateriali” o “volatili” ( 20 ).
Nella legislazione internazionale, invece, il patrimonio culturale
comprende già esplicitamente tali beni. Mentre, infatti, la convenzione
internazionale riguardante la protezione sul piano mondiale
del patrimonio culturale e naturale, adottata dalla Conferenza generale
dell’UNESCO riunitasi a Parigi nel 1972, includeva monumenti
e agglomerati di “valore universale eccezionale dall’aspetto storico,
artistico o scientifico”, nonché siti “dall’aspetto storico ed estetico,
etnologico o antropologico”, relativi alle “opere dell’uomo o opere
coniugate dell’uomo e della natura” ( 21 ), e quindi non citava i beni
non tangibili o immateriali, a partire dal 2001 anche questi ultimi
sono entrati a far parte ufficialmente delle liste del patrimonio culturale
mondiale dell’umanità ( 22 ). Pure l’ICOM (International Council
of Museum), l’organizzazione non governativa associata all’UNE-
SCO che raccoglie 140 paesi, a partire dall’ottobre del 2004 ha incluso
i beni immateriali nella sua definizione di museo ( 23 ).
L’introduzione dei cosiddetti beni immateriali nella concezione e
definizione del patrimonio è stato, dunque, un lungo processo che
trova le sue origini tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta e
che è tuttora in corso.
In Italia il patrimoine immatériel o intangibile heritage viene indicato
variamente come patrimonio “immateriale”, “intangibile”, “volatile”.
Questo ultimo aggettivo è stato introdotto da Cirese: “[…]
ho proposto di chiamare volatili: canti o fiabe, feste o spettacoli, cerimonie
e riti che non sono né mobili né immobili in quanto, per essere
fruiti più volte, devono essere ri-eseguiti o rifatti, ben diversamente
da case o cassepanche o zappe le cui fruizione ulteriore […]
non esige il rifacimento. […]. I beni volatili sono insieme identici e
441
( 20 ) Sulle due opposte concezioni nella definizione di bene culturale, quella reale
e normativa finora adottata rispondente ad esigenze di carattere tecnico-giuridico,
e quella unitaria e aperta, già proposta dalla Commissione Franceschini nel
1966, si vedano SEVERINI 2000 e CARLETTI, BUCCI 2004, p. 153.
( 21 ) Art. 1 della Convenzione per la protezione del patrimonio mondiale culturale
e naturale; cfr. http://www.unesco.it/patrimonio/art_conv/art_1.htm (dicembre
2004).
( 22 ) Al maggio del 2001 risale la proclamazione di diciannove “Masterpieces of
Oral and Intangibile Heritage of Humanity”. Per ulteriori dati si rimanda a TESTA
2002a, p. 62 e al sito http://www.unesco.org/culture/heritage/intangible/htm_eng/
index_en.shtlm.
( 23 ) Si veda http://icom.org.

442
TATIANA COSSU
mutevoli e vanno perduti per sempre se non vengono fissati su memorie
durevoli” ( 24 ).
Di recente Cirese ha criticato l’uso della opposizione “materiale/
immateriale” in relazione ai beni culturali, in quanto il concetto di
“immateriale” indicherebbe l’assenza di fisicità e quindi dell’uso dei
cinque sensi, impensabile in qualsiasi forma di comunicazione: “non
c’è comunicazione […] se non nella materialità” ( 25 ). Ritiene invece
più accettabile l’uso dell’opposizione “tangibile/intangibile”, sebbene
anch’essa lasci alcune perplessità nel momento in cui tra i beni
intangibili sono inseriti medicamenti, cibi o processioni. Propone
pertanto in alternativa i termini “oggettuale/inoggettuale”: un oggetto
può essere trasferito in un altro luogo, per esempio in un museo,
senza subire modifiche; ciò che non è oggetto ed è quindi un
bene volatile, come una processione o un canto, non può essere trasferito
se non fissando la sua rappresentazione, ad esempio, attraverso
l’uso di strumentazione magnetica o digitale ( 26 ).
L’impegno ontologico profuso in questa classificazione del patrimonio
culturale e i tentativi continui di dare un ordine alle cose sembrano
ogni volta vanificarsi quando, a causa dei veloci processi di patrimonializzazione
che caratterizzano i tempi attuali, ogni aspetto della
vita culturale entra a far parte del concetto di bene e le vecchie classificazioni
vanno presto in disuso o comunque non paiono più adeguate.
Ciò che è importante sottolineare è l’esistenza di uno stretto legame
tra il bene culturale e il suo contesto, fatto di fisicità, di materialità
e di significati, di elementi volatili. Anzi, si può dire che lo stesso
contesto è un bene culturale, forse il più prezioso, perché è quello che
consente di conoscere e interpretare l’oggetto in senso lato, durevole o
volatile che sia ( 27 ). Patrimonio culturale può essere, dunque, l’oggetto
nel suo contesto, il contesto stesso, l’oggetto entrato in disuso e poi
rivitalizzato all’interno del museo, i nuovi segni veicolati dall’oggetto
musealizzato ( 28 ) e, infine, la stessa cultura della conservazione ( 29 ).
( 24 )CIRESE 1996, p. 251.
( 25 )CIRESE 2002, p. 67.
( 26 )CIRESE 2002, p. 68.
( 27 ) Sull’importanza della conservazione del contesto nella politica dei beni
culturali italiana si veda SETTIS 2002, p. 11.
( 28 )CIRESE 1977, p. 9 ss. Gli oggetti musealizzati sono detti “sémiophores” da
POMIAN 1990, p. 177 ss.; cfr. anche KORFF 2003, p. 22 ss.
( 29 )SETTIS 2002, p. 11.

Immagini di patrimonio: memoria, identità e politiche dei beni culturali
5. Immagini di passato e costruzioni identitarie. – I luoghi, la storia,
la memoria sono alla base del senso di appartenenza e della formazione
dell’identità di piccole e grandi comunità. Il passato ha lasciato
le sue tracce, i suoi segni, i suoi testimoni, i suoi documenti
nel paesaggio attuale ( 30 ). Ma il paesaggio, i luoghi hanno oltre ad
una dimensione spaziale, anche una dimensione temporale: sono infatti
spazi temporalizzati, portatori di identità nella misura in cui
sono immaginati e caricati di valenze simboliche ( 31 ).
Il passato, dunque, anche quello più remoto, può essere sottoposto
ad un processo di patrimonializzazione e trasformarsi in bene
culturale non solo attraverso le cose e attraverso i luoghi ma soprattutto
attraverso i modi differenti di pensarlo, di immaginarlo, di
rappresentarlo, di viverlo e di dargli senso.
La costruzione del passato, anche quella compiuta dal “ricercatore
sul campo-teorico” – una espressione adoperata da James Clifford per
l’etnografo del XX secolo ( 32 ), ma estensibile anche ad altri studiosi
come l’archeologo – è comunque storicamente e culturalmente determinata,
un’opera di interpretazione che, volutamente o involontariamente,
può innescare processi di falsificazione e mitizzazione
contribuendo alla sua elaborazione e rielaborazione nell’immaginario
collettivo. Numerosi sono gli attori sociali, oltre agli specialisti,
che direttamente o indirettamente contribuiscono alla costruzione e
alla manipolazione di questo immaginario collettivo, dagli Enti locali
ai politici, ai cultori locali di storia e tradizioni, ai giornalisti, fino
ai falsari e ai tombaroli. I beni culturali sono, infatti, oggetto privilegiato
delle retoriche di appartenenza ( 33 ).
Costruire il passato è un’operazione culturale e al contempo una
fase importante del processo di patrimonializzazione.
Come afferma Jan Assmann, che sviluppa il pensiero socio-costruttivista
del sociologo francese Maurice Halbwachs, “il passato
non si fissa spontaneamente”, ma “è una costruzione sociale la cui
composizione risulta dal bisogno di senso e dai quadri di riferimento
del presente” ( 34 ). Ogni ricordatore o mediatore dell’atto del ricor-
( 30 ) Sui concetti di ‘traccia’ e ‘documento’ si vedano RICOEUR 1988, p. 178 ss.;
KILANI 1998, p. 28 ss.
( 31 )CONDOMINAS 1981; REMOTTI, SCARDUELLI, FABIETTI 1989; REMOTTI 1993;
AUGÉ 1997; FABIETTI, MATERA 1999; LAI 2000.
( 32 )CLIFFORD 1993.
( 33 ) Su questi aspetti si veda in particolare PALUMBO 2003.
( 34 )ASSMANN 1997, p. 22.
443

444
TATIANA COSSU
do, interprete del passato di una o più comunità, fornisce una sua
esegesi del passato che può diventare la base per il rafforzamento del
senso identitario delle comunità coinvolte, un elemento collante dell’identità
collettiva. “Le società”, oltretutto, “hanno bisogno del passato
ai fini della loro autodefinizione” ( 35 ). Il passato, infatti, è componente
significativa dell’identità, che si definisce e ridefinisce continuamente
rapportandosi con esso ( 36 ).
6. Selezione e valorizzazione dei beni culturali. – La costruzione
del passato non solo è plasmata dai quadri sociali (cadres sociaux) di
riferimento del presente ( 37 ), ma anche dai rapporti dialettici con i
quadri del passato recente e meno recente che hanno filtrato, modificato,
distrutto, trasformato e ricostruito sia la sua immagine e il
suo ricordo, sia le cose, gli oggetti, i monumenti, le pratiche e i saperi,
cioè l’eredità materiale e immateriale del passato. I processi di selezione
dei beni da valorizzare e i criteri stessi di selezione condizionano,
pertanto, contenuti, modalità e forme della “tradizione”, nel
senso etimologico del termine, cioè di quanto del passato si intende
tradere, consegnare e tramandare ai posteri, modellando o preformando,
almeno in parte, il futuro ricordo del passato e il patrimonio
culturale da trasmettere ( 38 ).
L’oggettivazione dei beni culturali, la loro patrimonializzazione procede
parallelamente ad un processo di selezione dei beni da valorizzare.
Si tratta di un problema particolarmente rilevante se si pensa che il solo
patrimonio storico-artistico italiano, secondo un luogo comune, rappresenta
circa il 40% di quello mondiale ( 39 ). Se poi si restringe il cerchio
alla Sardegna e, per esempio, ai soli monumenti del periodo protostorico,
si vedrà che sono migliaia i complessi nuragici distribuiti sul
territorio, tanto da costituire parte integrante e caratterizzante del paesaggio
sardo da circa tremila anni. Scegliere il sito da valorizzare fra una
quantità tale di monumenti comporta necessariamente un’opera di negoziazione
e scelte politiche, raramente corrispondenti ad interessi me-
( 35 )ASSMANN 1997, pp. 101-102.
( 36 )BALANDIER 1973, p. 89; REMOTTI 1990, pp. 224-231.
( 37 ) Cfr. HALBWACHS 1952; HALBWACHS 1987; ASSMANN 1997.
( 38 ) Il termine “tradizione” è usato in questo contesto nella sua accezione più
ampia. Non si intende pertanto entrare in merito al dibattito sul rapporto tra tradizione
e innovazione, per il quale si rimanda a CLEMENTE, MUGNAINI 2001.
( 39 )SETTIS 2002; SETTIS 2004.

Immagini di patrimonio: memoria, identità e politiche dei beni culturali
ramente scientifici. Tale selezione, effettuata a livello locale, nazionale
e talora internazionale, può avviare un processo di ipersemantizzazione
dei beni prescelti e di ridefinizione dei sentimenti identitari delle comunità
locali intorno ai beni valorizzati ( 40 ).
7. Patrimonio e cultura. – L’estensione del patrimonio dei beni
culturali a quelli inoggettuali, se è stato anche conseguenza dell’influsso
degli studi antropologici, sta pure comportando novità importanti
per gli stessi studi antropologici. Fino a non molte decine
di anni fa, i beni culturali richiamavano alla mente soprattutto
l’aspetto museografico e le problematiche ad esso connesse relative
alla conservazione, alla catalogazione, e in generale le tematiche sulla
cultura materiale e sulla comunicazione museale, che di fatto rappresentavano
un settore marginale negli studi; oggi, invece, il patrimonio
culturale e i modi differenti di intenderlo, di praticarlo, di costruirlo
o decostruirlo e di manipolarlo hanno conquistato un posto
rilevante nella riflessione antropologica. Ciò è dovuto anche al fatto
che vi è una graduale ma sempre più marcata identificazione o equiparazione
delle nozioni di patrimonio e di cultura ( 41 ). ‘Patrimonio’
è diventato un concetto inglobante e al contempo composito e polisemico,
come nella definizione ampia proposta da Pierre Laimason:
“Le patrimoine est constitué par tout les éléments qui fondent l’identité
de chacun des groupes humains et contribuent à les différencier les uns
des autres. C’est un ensemble d’agents sociaux, de biens matériels ou immatériels,
de savoirs organisés, qui se sont élaborés, transmis, transformés
sur un territoire donné. Faire l’inventaire de touts ces éléments impose
de prendre en considération les traits les plus variés, allant des formes
d’organisation économique et sociale aux savoirs techniques ou symboliques,
des moyens de communication (tel la langue ou le dialecte)
aux biens matériels, traits considérés dans chaque cas comme éléments
d’un tout, de ce qu’on appelle une culture” ( 42 ), o in quella sintetica di
Llorenç Prats, per il quale il patrimonio non sarebbe altro che “la
rappresentazione simbolica dell’identità”( 43 ).
( 40 ) Si veda, per esempio, la ricerca etnografica di Berardino Palumbo nell’iperluogo
di Catalfaro e nella Val di Noto in Sicilia (PALUMBO 2003).
( 41 ) Sull’equiparabilità odierna fra il concetto di patrimonio e quello di cultura
si veda CLEMENTE 1996, p. 213.
( 42 )LAMAISON 1982, p. 76.
( 43 )PRATS 1997.
445

446
TATIANA COSSU
In quanto rappresentazione dell’identità culturale, il patrimonio
contribuisce a distinguere ‘noi’ dagli ‘altri’, entra nella dialettica tra
identità e alterità, offre contenuti alla diversità culturale: temi, questi,
cruciali nella scienza antropologica. Ma lo spaziare del concetto
moderno di patrimonio negli stessi ambiti che sono pertinenti al concetto
di ‘cultura’ – compresi quelli di località, specificità e peculiarità
– non è privo di rischi totalizzanti, che invece di facilitarne la comprensione,
ne complicano la gestibilità epistemologica ( 44 ). Si sta verificando,
cioè, un semplice e non sempre accorto trasferimento sul
patrimonio del secolare e complesso dibattito antropologico relativo
ai problemi metodologici ed epistemologici che pone lo studio della
cultura o delle culture, dall’approccio olistico a quello contestuale,
dalla prospettiva emica a quella etica. Insomma, si rischia di cambiare
il nome alla cosa senza dare un vero contributo alla trattazione dei
problemi di sempre.
8. La patrimonializzazione. – Oggi tutto può essere trasformato
in patrimonio e definito patrimonio. Questa spinta alla patrimonializzazione
risponde non solo ad esigenze identitarie delle comunità,
ma anche all’incalzante richiesta di ‘prodotti’ diversificati e ‘autentici’
da parte del turismo. Le istituzioni agevolano questo processo, da
quelle locali a quelle sovranazionali, finanziandolo, normandolo e
incentivandolo in varie forme. Ma l’identificazione del patrimonio –
e di conseguenza anche l’avvio dei processi di patrimonializzazione –
è possibile solo se le comunità o gruppi sociali e culturali di tali comunità
ne riconoscono l’esistenza ( 45 ). Infatti, il patrimonio, o meglio
i patrimoni, come le culture, hanno un carattere relativistico, in
quanto ogni comunità o gruppo sociale riconosce e individua i propri
( 46 ). Nel sito-web dell’Unesco, ad esempio, si precisa che per patrimonio
culturale immateriale si intendono “les pratiques, représentations
et expressions, les connaissances et savoir-faire que les communautés
et les groupes et, dans certains cas, les individus, reconnaissent
comme partie intégrante de leur patrimoine culturel” ( 47 ). Questo atto
( 44 ) Si veda a questo proposito CLEMENTE 1996, p. 212 ss.
( 45 ) Cfr. BOURDIN 1992, p. 156.
( 46 ) Si veda, ad esempio, come M.G. Da Re ripensa le sue esperienze di patrimonializzazione
museografica ad Armungia in Sardegna (DA RE 2003, pp. 27-32).
( 47 ) http://portal.unesco.org/culture/admin/ev.php?URL_ID=2225 consultato
il 28/12/04.

Immagini di patrimonio: memoria, identità e politiche dei beni culturali
di riconoscimento, che non va inteso come una dichiarazione di ‘autenticità’
dell’oggetto, è espressione di una condivisione di senso,
che può tradursi in partecipazione alle azioni patrimonializzanti.
Ugualmente importante è però che i singoli individui di una comunità
possano vivere e praticare in modi differenti il patrimonio,
né si nega che singoli attori sociali possano dare il loro contributo
personale al processo di patrimonializzazione, come nel caso dei politici
o degli intellettuali e delle figure professionali (antropologi, archeologi,
storici, architetti, ecc.) che in varia misura svolgono un
ruolo di mediatori tra le istituzioni locali e quelle regionali o sovraregionali,
e tra istituzioni e comunità. Sembra utile allora considerare
che la loro mediazione e la loro partecipazione al processo di legittimazione
ufficiale e di legalizzazione del patrimonio possano non
essere destinate al successo, se manca il riconoscimento del patrimonio
e l’accoglimento collettivo di tale processo di patrimonializzazione
da parte della comunità o di suoi gruppi sociali o culturali ( 48 ).
La questione della partecipazione attiva, in particolare degli etno
e demo-antropologi, ai processi di patrimonializzazione e alle pratiche
e politiche culturali, e delle modalità in cui questa partecipazione
si esplica, è oggetto di dibattito e di riflessione fra gli stessi antropologi
( 49 ). Non solo gli oggetti ma anche i soggetti coinvolti nei
processi di patrimonializzazione sono divenuti infatti oggetto dell’antropologia
del patrimonio. Questa oggettivazione dei soggetti
oggettivanti, come direbbe Bourdieu ( 50 ), è compiuta da un’antropologia
critica coinvolta essa stessa in tali processi ( 51 ).
Il complesso rapporto tra sapere antropologico e potere, non privo
di ambiguità e connivenze, viene comunemente rimandato all’origine
stessa del costituirsi delle discipline etno-antropologiche,
avvenuto all’interno del contesto storico del colonialismo, al quale
tali studi furono “consustanzialmente” legati ( 52 ) o – per evitare di
generalizzare le posizioni che gli antropologi assunsero nei confronti
della dominazione coloniale – dal quale furono “variamente condi-
447
( 48 ) Sulla questione del rapporto tra collettività e individualità, in particolar
modo nel campo demologico, si rinvia a CIRESE 1973, pp. 102-106.
( 49 ) Si veda il dibattito fra B. Palumbo (2002, 2002-2003) e F. Dei (2002)
nella rivista Antropologia museale, e gli interventi che ne seguirono, in particolare
di V. Lattanzi (2002-2003), P. Clemente (2002-2003) e G. Pizza (2004).
( 50 )BOURDIEU 1984; BOURDIEU 1992, pp. 43-47, 203-209.
( 51 )PALUMBO 2002-2003, pp. 36-39; PALUMBO 2003.
( 52 )AMSELLE 1999, p. 49.

448
TATIANA COSSU
zionati” ( 53 ). Il “disagio e rimorso etnologico” che ne è seguito ( 54 ) si
manifestò anche in un tendere alla neutralità del sapere attraverso la
scissione della pratica dalla teoria, e la distinzione di una antropologia
pura da una applicata, occultando, talora ulteriormente, le implicazioni
politiche del sapere antropologico, che invece si devono
esplicitare nella consapevolezza dell’inscindibilità tra il campo intellettuale
e politico, tra “discorso teorico, discorso etnografico e pratica
critica”, tra teoria e azione ( 55 ).
Credo che si possa concludere che il patrimonio è un ‘fatto sociale
totale’ e che la patrimonializzazione è innanzitutto un ‘processo
sociale’. Laddove si trascura questo aspetto, si rischia di creare semplicemente
dei contenitori legislativi privi di contenuto o, ancor
peggio, situazioni conflittuali con le comunità locali. Inoltre, come
si è messo in evidenza nella parte di questo articolo dedicata alla ricostruzione
storica del concetto di patrimonio, anche la mancata
condivisione o appropriazione, da parte delle comunità locali e di
larghi strati della società, di un patrimonio considerato elitario può
comportare in parte la sua dispersione e distruzione, nonostante le
severe norme legislative di tutela.
Del termine ‘patrimonializzazione’ è importante rilevare l’aspetto
processuale e costruttivo, e ribadire anche la funzione ineliminabile
delle competenze e delle sensibilità dell’antropologo in questi processi.
Con la costruzione del patrimonio le comunità procedono alla
edificazione della propria immagine, alla costruzione o ridefinizione
della propria identità. Il riconoscimento del patrimonio da parte di
una comunità locale e la sua legittimazione giuridica da parte delle
istituzioni offrono anche la possibilità di estendere tale riconoscimento
a comunità più ampie, di carattere sovralocale. Si pensi, per
esempio, all’inserimento dei Pupi siciliani o del complesso nuragico
di Su Nuraxi di Barumini nelle liste del patrimonio mondiale dell’umanità,
in base al quale tutti nel mondo simbolicamente ci appropriamo
di quei patrimoni locali. Il patrimonio contribuisce, dunque,
alla costruzione di altre identità oltre quella locale, come l’identità
nazionale o quella mondiale dell’umanità tutta. Questo processo
non è privo di forti implicazioni di carattere politico, fatto che spiega
l’interesse da parte delle istituzioni nei confronti del patrimonio e
( 53 )ANGIONI 1973, p. 21; cfr. anche BOROFSKY 2000, pp. 501-502.
( 54 )ANGIONI 1973, pp. 11-50.
( 55 )BOURDIEU 1984; BOURDIEU 1992; PALUMBO 2002-2003, pp. 33-39; PIZZA
2004, pp. 57-58.

Immagini di patrimonio: memoria, identità e politiche dei beni culturali
soprattutto verso alcuni oggetti patrimoniali e luoghi della memoria
che più di altri si prestano a diventare emblemi su cui coagulare il
consenso per rivendicazioni di carattere nazionalistico ( 56 ).
Se la patrimonializzazione non è un fenomeno del tutto nuovo, è
solo nel mondo contemporaneo che questo processo sociale ha avuto
una estensione e accelerazione notevole, assumendo talora l’aspetto
ambiguo di una “riscoperta del patrimonio culturale” ( 57 ). In genere
si è soliti attribuire ciò soprattutto a due fattori importanti: la velocità
del progresso tecnologico e la globalizzazione.
Nella seconda metà del Novecento, specialmente nel mondo occidentale,
si è verificata una grande trasformazione che ha cambiato i
modi di vita in modo repentino e radicale sia nelle città sia nelle
campagne. La migliore etnologia e antropologia europea e italiana è
stata attenta a documentare e studiare questo “profondo e irreversibile
mutamento socioeconomico, e di cultura in generale” ( 58 ), e ad
indagare “sui processi di trasformazione culturale” ( 59 ).
Le ultime generazioni, dunque, hanno avuto modo di vedere sia il
modificarsi dei propri modi di vivere, sia la rapida obsolescenza dei propri
saperi e degli stessi oggetti della quotidianità. Il desiderio di conservare,
così, è diventato tutt’uno con quello di offrire una testimonianza,
un documento, di ciò che solo ieri c’era ed oggi non c’è più, di ciò che
appena ieri aveva una funzione ed ora non l’ha più ( 60 ), generando rim-
449
( 56 )HERZFELD 1982; HERZFELD 2003; HANDLER 1988; ANDERSON 1996; PA-
LUMBO 2003, solo per citare alcune opere su questo argomento che raccoglie una
vasta bibliografia.
( 57 ) Sull’ambiguità presente nel concetto di patrimonio si veda MONDARDINI
MORELLI 2004, pp. 44-45.
( 58 )ANGIONI 1986, p. 129 ss.
( 59 )CIRESE 1997, pp. 175-188. Già nel 1970 Cirese lamenta il fatto che, “[…]
fino a tempi recentissimi, la stragrande maggioranza degli studi di folklore ha concentrato
l’attenzione sulla cultura contadina, e più specialmente sui suoi aspetti
più ‘arcaici’ o comunque meno ‘moderni (sopravvivenze preistoriche o protostoriche,
tecniche ‘antiche’, canti di ‘vecchia’ tradizione, fiabe, superstizioni, ecc.), lasciando
in ombra la città e le fabbriche, e trascurando altri aspetti più o meno
‘moderni’ (forme di resistenza o di contrasto sociale, ad esempio)” (Ibidem, pp.
178-179). Stesso rimprovero muove oggi Augè (2004, pp. 14-16) a quegli antropologi
che dagli anni Sessanta-Settanta in poi, invece di occuparsi della “analisi
integrale della realtà attuale” e quindi delle trasformazioni legate alla globalizzazione,
si sono dimostrati “più sensibili alla bellezza di quel che stava crollando”.
( 60 ) In questo contesto il termine ‘funzione’ va inteso in senso lato comprendendo
anche il ruolo di quegli oggetti che rispondono allo stile di vita e al gusto di
classe (BOURDIEU 1983).

450
TATIANA COSSU
pianti e nostalgie più o meno ambigue ( 61 ). La patrimonializzazione diventa,
pertanto, una risposta per mantenere e perpetuare il ricordo di
tutto un mondo di rapporti, di pratiche, di conoscenze e di cose.
Uno degli argomenti principe dei discorsi socio-antropologici sul
mondo contemporaneo è la coesistenza fra due processi in pieno sviluppo
e apparentemente opposti, ma che rappresentano due facce
della stessa medaglia: la globalizzazione dell’economia, della tecnologia,
dei media, insomma dei modi di vivere e di pensare, e la produzione
di localismi. Opportunamente si osserva da parte di molti che
non si tratta di un semplice rapporto di opposizione o di resistenza
alla paventata omologazione culturale, bensì di un rapporto dialettico
in cui entrambi i processi si influenzano a vicenda. Pertanto, se
da un lato il moltiplicarsi delle rivendicazioni identitarie, dei regionalismi
ed ‘etnicismi’ appare come una reazione al nuovo processo
mondiale di globalizzazione, allo stesso tempo differenziazioni culturali
e offerte differenziate dei ‘prodotti’ rispondono ad una domanda
della stessa società globale ( 62 ).
In un contesto di questa portata va inserito il moltiplicarsi e il
diffondersi dei processi di patrimonializzazione culturale.
Per finire, non si può non segnalare l’insistenza di non pochi studiosi
sul fatto che si tratta di un fenomeno non privo di ambiguità,
dato che spesso si concretizza nella fissazione e cristallizzazione delle
proprie tradizioni da parte delle comunità, e nella diversificazione,
anche forzata e artificiosa, dei propri beni culturali per vincere la sfida
del mercato economico e culturale del sistema-mondo. Tali operazioni
fortemente selettive, che talvolta comportano l’estrapolazione
di singoli beni dal contesto che dava loro senso, innescano meccanismi
metonimici o di ipersemantizzazione. È stato spesso documentato
che la decontestualizzazione di alcuni elementi a fini del
consumo e della spettacolarizzazione turistica crea “luoghi della memoria
sradicati dall’esperienza concreta del quotidiano e orienta gli
individui a farsi spettatori di se stessi piuttosto che protagonisti della
progettazione del proprio futuro” ( 63 ). Insomma, c’è il rischio che tutta
questa frenesia di patrimonializzare non diventi stimolo di operazioni
consapevoli, non sia, cioè, un fare “per essere” ma “per sembra-
( 61 )CLEMENTE 1996, p. 165 ss.; CLEMENTE 1999, pp. 28-30; ANGIONI 2000,
pp. 28-32.
( 62 )APPADURAI 2001; HANNERZ 2001; GEERTZ 1999; ROBERTSON 1996; RIVERA
2004; solo per citare alcuni lavori data la vastissima letteratura in merito.
( 63 )MONDARDINI 2004, p. 45.

Immagini di patrimonio: memoria, identità e politiche dei beni culturali
re” ( 64 ), e non si traduca in una partecipazione attiva dei depositari
dei patrimoni culturali, ma solo in una forma nuova di subordinazione
dei portatori dei saperi e delle tradizioni locali ( 65 ).
Se la patrimonializzazione in sé, dunque, è un concetto neutro,
né positivo, né negativo, nella messa in valore dei patrimoni, soprattutto
all’interno di progetti di sviluppo territoriale, a fare la differenza
sono le modalità, i soggetti coinvolti, gli obiettivi, la politica culturale
che guida la programmazione, laddove magari non manchi
l’apporto degli studiosi dei patrimoni, delle culture locali. Se si dà
potere decisionale anche alle comunità locali e a tutte le loro componenti
sociali, riequilibrando i poteri, allora i processi di patrimonializzazione
possono essere un’occasione storica perché esse diventino
protagoniste del proprio avvenire.
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( 64 )ANGIONI 2004, p. 53. Questo tema è stato affrontato in tutta la sua lacerante
contraddittorietà nel romanzo Assandira di Giulio Angioni, in cui si narra dell’intimità
culturale violata di un vecchio pastore, che gestiva col figlio un agriturismo
dove ‘si mettevano in scena’ per i turisti aspetti dell’antica vita agropastorale.
( 65 )ANGIONI 2003b, pp. 36-42; ANGIONI 2000, pp. 28-32.

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66.

ALBERTO CAOCI
ETICA DELLA RICERCA IN ANTROPOLOGIA
In questo scritto intendo riflettere criticamente sul rapporto tra
antropologia ed etica, ed in particolare metterò al centro della mia
attenzione due questioni: è necessario che gli antropologi facciano
riferimento ad un codice etico-deontologico per meglio orientarsi
nello svolgimento della loro attività? Quali sono gli aspetti più problematici
delle attività dell’antropologo che un codice etico potrebbe
contribuire a normalizzare e (ri)orientare?
Vale da subito la pena ricordare al lettore che nel trattare questi
temi non è mio obiettivo sostenere delle soluzioni univoche, ma anzi
tenere aperte (e vive) delle questioni su cui sarà poi, a maggior ragione,
necessario continuare a riflettere.
Ma prima di entrare nel merito occorre delimitare il campo d’indagine
attraverso il chiarimento di alcuni aspetti preliminari.
Pur sinteticamente sappiamo che l’etica può essere definita come la
dottrina o la scienza dei motivi e delle regole che guidano le azioni umane,
oppure dei principi e dei fini che dovrebbero guidarle perché queste
risultino buone e degne di approvazione sia da parte della coscienza del
soggetto che le ha compiute sia da parte del giudizio degli altri.
In linea generale, nella storia moderna, troviamo due diverse concezioni
dell’etica.
Nella filosofia kantiana, la massima espressione dei principi etici
(gli imperativi categorici) sono prescrizioni di valore oggettivo ed
universale che guidano l’azione dell’uomo virtuoso. Questa esigenza
di universalità si esprime e si riassume nel concetto di Dovere.
Un netto rifiuto della morale (o etica) ( 1 ) kantiana è stato – in
epoca successiva – espresso da tutte le varie tendenze ideali di indi-
( 1 )I termini di etica e morale sono utilizzati da Kant pressoché con lo stesso
significato. Una chiara distinzione dei due concetti fu successivamente apportata
da Hegel che definì l’etica come lo studio degli aspetti della condotta umana, il

458
ALBERTO CAOCI
rizzo positivistico (C.H. de Saint-Simon, A. Comte, H. Spencer, E.
Durkheim) attente ai risultati sempre più ricchi conseguiti dalle
scienze dell’uomo (in ispecie sociologia e psicologia) e dall’economia
politica. La morale, in queste correnti di pensiero, tende a divenire
sempre più uno studio del comportamento umano, considerato non
già come comportamento universalmente valido bensì come espressione
del singolo all’interno della società storicamente determinata.
L’antropologia moderna ha evidentemente avvallato l’orientamento
relativista e culturalista di queste ultime concezioni se pur,
negli ultimi tempi, gli sviluppi dell’etica filosofica ( 2 ) hanno suggerito
una particolare attenzione sul significato del dialogo sociale e sull’idea
di comunità. Se in K.O. Apel e J. Habermas la società della
comunicazione si identifica quasi completamente con l’ideale di un
dialogo sociale non ostacolato da rapporti di dominio, da disuguaglianze
insuperabili, da opacità legate in ultima analisi a divisioni di
classe, l’ideale della comunità assume un senso più sostanziale in autori
come A. MacIntyre e E. Levinas, che tendono a criticare il carattere
astratto dell’etica razionalista moderna, ricollegando la nozione
di virtù ai concreti modi di vita di una comunità storica e alle sue
tradizioni. Su questa basi l’antropologia contemporanea ha mosso
un’incisiva critica alle sue retoriche narrative e alla sue pratiche sul
campo ed ha inoltre attivato una particolare sensibilità riflessiva verso
la comprensione e l’orientamento etico dello stesso fare antropologico.
Ciò detto in termini sinteticamente definitori, va comunque ricordato
che l’etica antropologica, anche la più avanzata, deve essere
concepita come un aspetto dell’etica applicata, il cui principio fondamentale
è la ricerca costante del giusto per l’“uomo concreto e reale”
(quindi, uomo-antropologico e non già uomo-astratto).
Così definita l’etica è concetto contiguo ma distinto dalla deontologia.
Quest’ultimo campo, la cui genesi si deve al filosofo inglese
Jeremy Bentham (Deontologia e scienza della moralità, 1834) per
indicare quell’ambito dell’agire umano che non è regolato da leggi
dello stato, è dedito all’“esposizione e lo studio di un particolare
gruppo di doveri inerenti ad una determinata classe o ceto professio-
loro rilievo, e le valutazioni che se possono dare, mentre per morale lo studio dell’aspetto
soggettivo del problema, dell’importanza e del significato che riveste per
il soggetto un determinato atto.
( 2 ) L’etica filosofica contemporanea, da J.F. Lyotard a J. Habermas e K.O.
Apel, A. MacIntyre, E. Levinas etc. , tende in molti suoi aspetti a identificarsi con
una riflessione molto generale sulle condizioni dell’esistenza contemporanea.

Etica della ricerca in antropologia
nale”. Esso denota, in particolare, ciò che si riferisce al “dover essere”
in contrapposizione all’“essere”. Rinvia ad un “comportamento
idoneo al fine” ed è qualcosa di molto più rilevante di una specie di
“galateo” del professionista. Indica per l’appunto i comportamenti a
cui i singoli professionisti devono attenersi nell’esercizio della loro
professione per salvaguardare la correttezza, il senso dell’onore, i
loro diritti e la qualità stessa della professione. Questi comportamenti
possono certo scaturire da valori etici, ma pure essere stabiliti
dagli stessi professionisti, dopo una opportuna riflessione sulla pratica
quotidiana. In quanto tale la deontologia comprende tutti i problemi
inerenti ad un individuo antropologicamente determinato
(ossia, collocato in un’epoca e società precise) come soggetto professionale.
Se si accettano queste definizioni, la conseguenza è che il codice
del quale stiamo ipotizzando la necessità (contenendo l’elencazione
dei doveri degli antropologi come specifico gruppo professionale)
dovrebbe essere definito più come codice deontologico che come codice
etico. Resta fermo il fatto che è propedeutico porci il problema
di capire la necessità di un codice che indichi i principi e i fini che
dovrebbero guidare le azioni degli antropologi perché queste risultino
buone e degne di approvazione, sia da parte della loro coscienza
sia da parte del giudizio degli altri.
Antropologia, seduzione e strategie conoscitive
La pratica etnografica per raggiungere i suoi scopi, che genericamente
possiamo definire come la conoscenza – pur parziale – dell’alterità
socio-culturale ( 3 ) all’interno della critica continua dei suoi discorsi
e del suo fare, mette in campo un’insieme di strategie intenzionalmente
finalizzate al loro raggiungimento.
Tra questi scopi un posto certamente rilevante, direi quasi necessario,
riveste il rapporto comunicativo e di fiducia tra l’antropologo
e le soggettività oggetto del suo interesse. Come è facile capire in
questo rapporto si gioca una parte fondamentale della sua possibilità
di avere accesso alla conoscenza.
Ciò su cui vale la pena qui riflettere, tenendo come sfondo i comportamenti
che l’antropologo dovrebbe avere sul campo, è che nell’agganciare
i suoi informatori egli normalmente mette in gioco delle
( 3 ) Va evidenziato che sempre più gli antropologi si occupano di studiare
quello che più gli sta vicino (come comunità sociale, ideologica, politica etc.) in
rapporto a ciò che essi stessi sono (umanamente, professionalmente etc.).
459

460
ALBERTO CAOCI
strategie tutt’altro che innocenti ed innocue. I mezzi da lui utilizzati
per raggiungere il suo scopo sono normalmente caratterizzati dalla
seduzione degli informatori e di tutti quelli che potrebbero portargli
una maggiore e più profonda conoscenza del processo che sta studiando.
Il gioco di seduzione e avvicinamento all’oggetto della sua
conoscenza non è chiaramente a senso unico, ma si deve necessariamente
confrontare con le aspettative, le rivendicazioni e le intenzionalità
(che implicano a loro volta strategie di avvicinamento e seduzione)
degli attori sociali con cui egli entra in contatto. È abbastanza
semplice capire che lo scambio comunicativo tra antropologo ed informatore
per essere efficace deve basarsi sulla fiducia reciproca (anche
temporanea e strategicamente indirizzata), secondo quella logica
della comunicazione che ci dice che laddove la relazione è buona ci si
preoccupa soprattutto di scambiare contenuti. Facendo un passo indietro
è anche vero che la fiducia deve essere costruita, non viene accordata
senza il rispetto di impegni (anche non formalizzati) precisi.
Spesso ci viene accordata per impegni che altri hanno preso, ma è anche
vero che a far da garante “sull’onestà” dell’antropologo può essere
un archetipo come il sapere scientifico che egli rappresenta, l’istituzione
che lo avvalla (l’Università, lo Stato, una Ong, etc. ), il suo status
sociale, la sua potenzialità mediatica. Questi habitus normalmente
conferiscono all’antropologo un certo potere nelle relazioni che instaura
sul campo e di conseguenza una certa inquietudine tra gli informatori.
L’abilità dell’antropologo sta quindi nel contrattare, e continuamente
rimodulare, il livello di comunicabilità all’interno della polarità
fiducia-diffidenza, nella consapevolezza che la rottura di una relazione
(per sua o meno responsabilità) è presupposto per un impoverimento
delle potenzialità conoscitive offerte dalla sua esperienza sul
campo. Le strategie di “conquista” nei confronti dell’informatore, in
altri termini il processo di seduzione che l’etnografo attiva per conquistarne
l’interesse, possono essere spesso maldestre ed eccessivamente
opportunistiche. Può infatti accadere che per facilitare confidenze, intimità
e segreti l’etnografo sia tentato dall’indurre delle aspettative che
già sa di non poter mantenere o, d’altra parte, che l’evolvere della ricerca
può ostacolare. Tra queste aspettative, giusto per fare qualche
esempio, ritroviamo la promessa dell’antropologo di utilizzare le informazioni
acquisite per appoggiare una rivendicazione di classe, di
genere, od etnica etc. , cosi come la promessa di valorizzare l’immagine
di una soggettività, più o meno collettiva, in una sfera pubblica più
ampia per facilitarne magari un ritorno economico o politico.
Una volta vinte le titubanze degli informatori, può poi capitare
che le confidenze e le intimità vengano concesse all’antropologo a

Etica della ricerca in antropologia
patto che egli non le renda pubbliche. Spesso infatti è esplicita l’indicazione
da parte degli informatori di non fare pubblica menzione
di ciò che è stato detto, oppure di non fare riferimento al soggetto
che ha fornito le informazioni.
Ciò accade normalmente quando all’antropologo vengono fatte
delle confidenze su ambiti riservati, come possono essere alcune pratiche
rituali e/o magico-religiose, mediche, illegali (furti, spaccio di
droga, etc. ), di conflitto politico, etc.
Ma a volte gli informatori non sanno, o non vengono debitamente
informati dagli antropologi, che ciò che diranno sarà poi utilizzato (all’interno
di una specifica ricostruzione) per un resoconto pubblico.
Le linee guida dell’AAA sul codice etico degli antropologi
Ma come fare a rispettare gli impegni, a non tradire le aspettative
ingenerate, a non abusare del potere istituzionale, mediatico ed economico
che gli antropologi possono normalmente mettere in campo?
È possibile svincolarsi, almeno in parte, da accordi di riservatezza
in nome della mission disciplinare che sollecita a dire dell’alterità
senza pregiudizi di valore, svelando i significati culturali più interni
e profondi anche, e soprattutto laddove, questi fatti appaiono agli
occhi del ricercatore come bizzarri e distanti? Senza la violazione
dell’intimità culturale è concreto il rischio di produrre etnografie
annacquate dalla mediazione normalizzatrice dell’antropologo moralizzato?
Fino a che punto l’antropologo si può spingere in avanti nel
rendere pubblico il punto di vista dell’altro?
In America a quanto pare esistono delle linee guida, suggerite da
autorevolissime istituzioni, sui comportamenti etico-deontologici
che l’antropologo deve avere prima, durante e dopo la sua ricerca sul
campo. Tra queste, giusto per farsi un’idea, sarà sufficiente indicare
il codice etico che l’American Anthropological Association (AAA)
suggerisce per “un uso appropriato della conoscenza dei popoli del
mondo”. Un codice che, a me pare, ha la doppia funzione di tutelare
le soggettività oggetto d’interesse dell’antropologo ma anche la sua
professionalità, frequentemente sollecitato com’è a confrontarsi –
dice il testo della AAA – con situazioni complesse (e soggette a più
codici etici) ed in quanto tale bisognoso di avere dei riferimenti che
possano meglio orientarlo nelle sue scelte.
Ma cosa dicono, tra le altre cose, queste linee guida?
1) I ricercatori in antropologia devono fare ogni cosa che è in loro
potere per assicurare che la loro ricerca non arrechi dei danni alla
461

462
ALBERTO CAOCI
sicurezza, alla dignità, o alla privacy delle persone con le quali lavorano,
conducono ricerca, o intrattengono altre attività professionali.
2) I ricercatori in antropologia devono determinare per tempo se i
loro informatori desiderano rimanere anonimi od essere riconosciuti,
e fare ogni sforzo per restare fedeli a quei desideri. Devono
presentare ai loro informatori le possibili conseguenze delle loro
scelte e fare chiarezza sul fatto che, malgrado il loro impegno,
l’anonimità può essere compromessa o può fallire il tentativo di
irriconoscibilità dei loro informatori.
3) I ricercatori in antropologia devono prima ottenere il consenso
informato degli individui che studiano, di quelli che possiedono
o controllano l’accesso a materiali di loro interesse, ed ancora dei
soggetti con i quali possono entrare in contatto durante la loro ricerca.
È sottinteso che il grado e l’ampiezza delle indicazioni
esplicitate nel consenso informato dipenderanno dalla natura del
progetto e devono tener presente le esigenze dei codici, delle leggi,
e dell’etica dei paesi o comunità nei quali la ricerca è stata intrapresa.
Ancora è sottinteso che il processo del consenso informato
è dinamico e continuo; il processo inizierà con la definizione
del progetto e continuerà, attraverso il dialogo e la negoziazione,
nel proseguo della ricerca. I ricercatori sono responsabili della
definizione e dell’osservazione dei vari codici indicati nel consenso
informato, così come delle leggi e dei regolamenti che interessano
i loro progetti. Il consenso informato, in linea con il suo
scopo, non necessariamente implica o richiede di essere esecutivo
attraverso un accordo scritto o controfirmato. È la qualità del
consenso, non la forma, che è rilevante (AAA, 2005).
Che questo codice etico sia rispettato dagli antropologi americani,
perlomeno nelle sue formalità burocratiche, è fuori di dubbio. Di
fatti ciascun dipartimento universitario è chiamato ad istituire un
comitato di garanti sull’ “uso dei soggetti umani nella ricerca” con il
compito di valutare il rispetto, da parte del ricercatore appunto, di
quei principi etici che guideranno la sua attività sul campo e il suo
successivo darne conto pubblicamente (attraverso una pubblicazione,
l’insegnamento, etc. ). La base di questi principi, come era forse
già chiaro, sembra fondarsi soprattutto sul consenso informato dei
soggetti coinvolti dall’antropologo rispetto ad alcuni punti cruciali
quali la conoscenza e l’accettazione del progetto di ricerca, il ruolo
che essi avranno in questa, il tempo che metteranno a disposizione, i
rischi che potranno correre, i benefici e i compensi che riceveranno,

Etica della ricerca in antropologia
la garanzia della privacy e il nome dei referenti a cui potranno rivolgersi
nel caso vengano violati i loro diritti, etc.
Su un terreno comunque scivoloso e normalmente carico d’ideologia
e potere, sembrano invece collocarsi le strategie dell’antropologo
per dire degli altri senza violarne l’intimità culturale. Anche perché
la palese violazione del consenso informato appare priva di sanzioni
disciplinari e rimanda piuttosto alle valutazioni della commissione
etica, la quale potrà tutt’al più disapprovare i comportamenti
devianti e solo in casi estremi agire sulla carriera professionale dell’antropologo.
Ciò che, d’altra parte, sembra chiaro (e non privo di ripercussioni
sul piano etico) è che l’antropologo americano (anche se non solo)
può, in nome della conoscenza, acquistare il tempo, le performance
e il consenso informato dei suoi informatori. Si aprono in questo
caso altre, e non meno problematiche, questioni. Quale è il prezzo
“giusto” da pagare per avere accesso alla conoscenza degli altri, se gli
informatori sono – come spesso accade – in condizioni di povertà
materiale? A costi maggiori si ha poi un maggiore accesso all’alterità?
Quanto si può spingere in avanti l’antropologo nei casi in cui neanche
i soldi siano sufficienti a comprare l’accettazione del consenso
informato dei suoi informatori e nella linea di confine tra il dire e il
non dire sull’altro si gioca tutto il suo sforzo etnografico? Può infine
l’antropologo violare il rispetto della privacy in nome dei diritti civili?
Un altro nodo problematico sembra poi interessare l’accessibilità
alla ricostruzione (soprattutto sotto forma di scrittura) che l’antropologo
fa della sua ricognizione sul campo. Quanti sono i ricercatori
che forniscono ai propri informatori una copia del loro lavoro di
scrittura? Il fatto che gli antropologi scrivano per la loro specifica comunità
professionale, che utilizza una certa lingua, uno specifico
linguaggio ed è magari concentrata a migliaia di chilometri di distanza
dal luogo della ricerca, può giustificare l’assenza di un ritorno
tra i protagonisti che hanno contribuito a costituirla? E quanto l’antropologo
è condizionato dai rischi che può correre per ciò che ha
scritto? Più in particolare, quanto le sue scelte sono condizionate dal
potere che gli informatori (e l’intera comunità) possono esercitare su
di lui? Quanto, insomma, è disposto a sfidare la forza delle élite
quando si tratta di fare delle etnografie che dicono sulla
(ri)produzione del potere?
La violazione del codice deontologico, sanzioni sociali o di diritto?
Va da subito chiarito che è assolutamente necessario distinguere
la riflessione sul codice etico-deontologico delle professioni antropo-
463

464
ALBERTO CAOCI
logiche da qualsiasi altra raccolta di regole che abbia finalità disciplinaria.
Coloro che opinano che la violazione delle regole deontologiche
dovrebbe essere punita con sanzioni di carattere disciplinare
(magari applicate dai tribunali) finiscono con lo svilire la finalità
stessa di queste regole.
In effetti un codice deontologico deve indicare un ideal-tipo di
comportamento professionale, funzionando come fattore propositivo
di orientamento per i singoli individui. In sostanza pare corretto
affermare che mentre un codice deontologico esprime il “massimo
etico” (ovvero, un modello da perseguire), un codice disciplinare
esprime solo un “minimo etico”, ovvero il livello sotto il quale il
comportamento del professionista dovrebbe essere punito in ogni
modo consentito.
Mischiare i due concetti potrebbe non solo essere dannoso ai fini
dell’effettività di un “motore di spinta morale” che mira ad ottenere
quell’altissimo livello di condotta professionale che costituisce l’essenza
del codice deontologico, ma anche privare la pubblica opinione
di un modello realmente virtuoso di comportamento attraverso il
quale si esercita una funzione di controllo dell’operato del professionista.
Per questo il codice deve essere uno strumento offerto alle comunità
(locali, nazionali o sovranazionali) per misurare l’integrità, la
professionalità e lo stile degli antropologi, servendo così da base per
la denuncia pubblica delle condotte devianti perché si determini una
sanzione di ordine sociale.
Pertanto il codice deontologico dovrebbe tener vivo l’impegno
solenne degli antropologi di fronte alla società nella quale svolgono
la propria attività a rispettare gli alti ideali in esso contenuti: ideali e
principi che dovrebbero sempre essere considerati come corollari
della stessa funzione conoscitiva, e non solo, che perseguono.
Può restare il dubbio sull’utilità dei codici quando è assente la
sanzione giuridica per la violazione delle regole deontologiche, ma è
nostra convinzione che perché la norma deontologica sia effettivamente
norma (nel senso più generale) l’unico parametro di valutazione
(e retroazione) deve essere espresso dai valori della comunità che
rappresenta. Sembra allora corretto dire che il codice etico-deontologico,
appartiene ad un ramo del sapere diverso dal diritto ed in
quanto tale deve sorgere dall’interno del corpo sociale (o gruppo
professionale) al quale si riferisce. Il valore di questo codice potrà
svolgere la sua funzione di guida nell’esercizio del fare antropologico
solo se sarà elaborato dagli stessi antropologi che, in ultima istanza,
a lui dovranno ispirarsi per indirizzare al meglio il proprio compor-

Etica della ricerca in antropologia
tamento professionale. Evidentemente senza che questi possano sottrarsi
al dialogo con le altre istituzioni nazionali ed extranazionali
nel quale operano e più in generale con tutti i soggetti che vengono
coinvolti dalle loro pratiche. Vale però la pena osservare come dall’accettazione
di questo principio derivi il rigetto di tutti i codici etici
o deontologici eteroimposti (quanto meno in linea teorica, e
quindi prescindendo dal giudizio sulla sostanza concreta degli stessi).
Qualche commento a margine
Tante le questioni sollevate e tutte a mio avviso chiaramente prive
di una risposta univoca e, come già accennato, cariche di più livelli
di problematicità. Quella problematicità che contraddistingue
il fare antropologico stretto nella morsa della sua missione conoscitiva
(e non solo) e l’imbarazzo del dover rendere pubblico ciò che
sempre più frequentemente pubblico non può essere, se non a costo
di rischi alti. In gioco c’è la sicurezza, la dignità e la privacy delle
persone, compresa quella dell’antropologo che si fa arbitro (più o
meno dichiaratamente) delle dinamiche sociali, dei giochi di potere,
dei tentativi di riscatto di cui rivendica una qualche conoscenza. E
allora, anche includendo la presunzione della ricognizione che l’antropologo
fa dei fenomeni culturali (partendo sempre e comunque
dalla parzialità delle sue conoscenze) e pur includendo il coinvolgimento
della sua posizione sociale, politica, affettiva etc., viene da
chiedersi se avrebbe ancora senso fare dell’antropologia – perlomeno
come critica culturale – senza assumersi il rischio della propria specificità
disciplinare: dire delle soggettività anche laddove qualcuno resta
scontento o si sente mal rappresentato. Vanno certo bene le linee
guida dell’AAA, ma nella consapevolezza che la conoscenza antropologica
deve per mandato disciplinare violare la regolarità e spingersi
nelle aree più oscure e problematiche del sociale, per poi darne conto
nelle diverse forme ad una sfera pubblica. Certo deve pure trovare
un equilibrio tra quelli che sono i rischi soggettivi e sociali delle parti
in causa, la critica alle proprie pratiche e retoriche e i vantaggi apportati
da una maggiore conoscenza dei popoli del mondo, senza
però mai dimenticare che l’antropologo più di altri professionisti è
destinato a conquistare la fiducia e l’approvazione di qualcuno a discapito
di altri, a “tradire” un codice etico per testimoniare l’alterità.
È forse questa la conferma, se qualche remora potevamo ancora
avercela, che non esiste antropologia asettica, apolitica e acritica.
Tutte le etnografie, più o meno velatamente, si schierano con qualcuno
ed hanno a bersaglio qualcun altro, anche laddove (e soprattut-
465

466
ALBERTO CAOCI
to laddove) cercano di dar conto delle pratiche di produzione e valorizzazione
culturale mettendo in mostra le differenti intenzionalità
dei protagonisti coinvolti.
Le domande cruciali allora non sembrano più essere: quanto gli
antropologi (e il loro sapere) si prestano alle politiche di rivendicazione
sociale? Quanto devono e possono apertamente schierarsi? Ma,
quanto sono consapevoli (anche nelle etnografie più pacificatrici e
normalizzate) del loro ruolo? ed ancora quale è la strategia, la retorica,
la poetica che utilizzano per perseguire questo obiettivo? Ciò evidentemente
non esclude che delle cose dette dagli antropologi se ne
possa fare un uso distorto e caricaturale, cosi come un uso differente
(polivalente) a seconda dei contesti. La consapevolezza delle proprie
posizioni analitiche e narrative sembra perciò più che mai necessaria
per non farsi trovare impreparati nel confronto con quelle altre soggettività
su cui queste avranno una ricaduta e forse, ancor prima, per
incentivare lo sviluppo di una sensibilità etico-critica verso le pratiche
del fare antropologico, anche laddove queste sono “semplicemente”
indirizzate ad accrescere la conoscenza dei popoli del mondo.
Bibliografia
AAA
Aprile 2005, Code of ethics of the American Anthropological Association, http://
www. aaanet. org/committees/ethics/ethcode. htm.
ASA
Aprile 2005, Association of Social Anthropologists – Ethical guidelines http://www.
theasa. org/ethics. htm.
HERZFELD MICHAEL
2003, Intimità culturale. Antropologia e nazionalismo, Napoli, l’Ancora del Mediterraneo.
HUGH GUSTERSON,
Giugno 2005, Anthropologist as spies in Anthropology today, vol. 23, pp. 25-26
VIANO CARLO AUGUSTO
1990, Teorie etiche contemporanee, Torino, Bollati Boringhieri.

MICHELA PIRAS
IL FENOMENO DEI GRAFFITI
COME MESSAGGIO SOCIALE GIOVANILE
SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Le origini del writing: sviluppo urbano e stratificazione
sociale. – 3. Il linguaggio dei graffiti: il codice comportamentale,
linguistico e tecnico. – 4. Graffiti ed interazione sociale. – 5. La psicologia
dei graffiti e l’identità del graffitaro. – 6. I graffiti e la valenza formativa
dell’arte di strada. – 7. L’aerosol arte le sue antiche radici: pittura murale e
graffitismo. – 8. Frammenti di realtà: intervista ad un writer cagliaritano.
1. Introduzione. – L’idea base che accompagna questo specifico lavoro
sui graffiti o writing, è capire il significato profondo della sua diffusione
fra gli adolescenti ed i giovani adulti. La nostra esigenza di conoscenza
del fenomeno dei graffiti nasce dalla considerazione che gli
adolescenti esprimono contenuti profondi attraverso gesti, azioni, e
comportamenti sociali (tatuaggi, piercing, graffiti, breakdance, etc)
che nelle fasi successive di sviluppo diventano pensieri e comunicazioni
verbali. In modo particolare è stato interessante capire quanto i
graffiti rappresentino uno strumento d’aiuto nel processo di nascita
sociale, nella individuazione delle scelte sociali di appartenenza e dei
propri valori ideali. Una condizione essenziale per la realizzazione del
lavoro è stata la contestualizzazione culturale del fenomeno (Grafico
n. 1), infatti il writing fa parte, assieme al rap e alla breakdance, della
cultura Hip Hop. È una cultura che stimola la produzione di modelli
di comportamento funzionali all’integrazione del rapporto tra gruppi
urbani e loro ambiente; caratteristica che spiega l’adesione di tanti
adolescenti, e le forti identificazioni nei suoi principi base. Lo studio
svolto ha richiesto un primo approfondimento rispetto alle origini del
fenomeno, al quale è seguito la definizione del contesto comportamentale
e tecnico che caratterizza la realizzazione dei graffiti. Aspetti
originali approfonditi sono l’interazione sociale e l’identità del graffi-

468
MICHELA PIRAS
taro, per i quali è stato utile avvalersi e fare riferimento in modo specifico
alle ricerche ed agli scritti prodotti da Mario Corallo, studioso del
writing ed anche ex-writer per cui profondo conoscitore del fenomeno.
Lo sviluppo di questo lavoro ha spontaneamente messo in evidenza
la valenza formativa dell’arte di strada, testimoniata da una
intervista ad un writer cagliaritano, e dall’ampio valore artistico raggiunto
dal movimento dei graffiti, ormai considerati in campo artistico
opere d’arte originali e complesse per le quali è stato appositamente
battezzato il movimento dell’Aerosol Art.
(Grafico n. 1)
CULTURA HIP
HOP:
MUSICA RAP
BREAKDANCE
GRAFFITI
ORIGINI:
ANNI ’70
NEW YORK
(MANHATTAN-BRONX)
WRITING
IN CAMPO
ARTISTICO:
AEROSOL ART
IN ITALIA
ANNI ’80:
GRAFFITISMO
2. Le origini del writing: sviluppo urbano e stratificazione sociale. –
Parlando degli Stati Uniti la prima immagine che viene alla mente è
New York: i suoi grattacieli, le strade affollate, la vita frenetica che le
anima, le luci variopinte, il famoso quartiere degli affari, il grande
porto sempre gremito di navi ma anche gli immensi sobborghi che
la circondano.
New York è un insieme di cinque contee: Manhattan, Bronx,
Queens, Brooklyn e Richmond. Mentre le altre contee sono prevalentemente
zone di residenza, Manhattan è il centro culturale, amministrativo-finanziario
della città. Gli abitanti più ricchi abitano in

Il fenomeno dei graffiti come messaggio sociale giovanile
lussuosi quartieri residenziali, gli altri vanno altrove cedendo il posto
a nuove sedi di banche, società, etc; la superficie urbana è occupata
perlopiù da case ad uno o due piani, spesso unifamiliari e circondate
da un piccolo giardino. Nella parte nord di Manhattan ci sono anche
i quartieri afro-portoricano di Harlem, conosciuti per l’alto degrado
delle abitazioni e degli spazi comuni; è proprio in questi quartieri
che sono nati i graffiti, successivamente sviluppati a Brooklyn, e
nel Bronx hanno raggiunto il massimo livello di diffusione (Stampa
Alternativa, IGTimes, 1996). Nel fenomeno del writing é molto forte
il carattere di protesta sociale; per capire l’origine e lo sviluppo del
fenomeno è necessario ripercorrere la storia dello sviluppo delle città
americane.
Le principali città sono nate fra il ’700-’800 e non avevano molti
problemi di spazio, poi verso la fine del secolo scorso, quasi tutte le
grandi città hanno conosciuto un duplice fenomeno: da un lato un
rapido sviluppo industriale con la nascita di grandi fabbriche alla periferia,
dall’altro una vasta immigrazione sia dall’esterno (Europa,
America Latina, Asia) sia dall’interno, popolazione nera (Finzi, Foa
et Altri, 1990).
La popolazione afro-americana, per esempio, che fino alla metà
del secolo scorso era concentrata negli Stati del Sud, dove lavorava le
piantagioni, in seguito prese la via delle grandi metropoli settentrionali
trasformandosi in proletariato industriale.
I nuovi arrivati che affluivano sempre più numerosi, attratti dalle
possibilità offerte dallo sviluppo industriale, tendevano a sistemarsi
in quartieri in base ai luoghi di provenienza. Nascevano così quartieri
di neri, quello di Harlem a New York è il più famoso, ma anche di
portoricani, italiani e polacchi, etc.
Contemporaneamente, di fronte all’afflusso sempre più rapido e
disordinato di nuova popolazione, le strutture cittadine entrarono in
crisi, e le grandi città cominciarono a presentare dei fenomeni di degradazione
ambientale che sono oggi particolarmente vistosi, per
esempio, a New York: rumore, sporcizia crescente nelle strade, smog,
strade dissestate e piene di buchi (Finzi, Foa et Altri, 1990).
Per sfuggire a questa decadenza fisica della città, chi poteva si trasferiva
altrove, cercando nell’estrema periferia cittadina un modo di
abitare più sano e tranquillo. Le città si sono così vuotate poco per
volta dei loro abitanti di più antica immigrazione (e più benestanti),
che corrispondono nella maggior parte agli anglosassoni. In questo
dopoguerra sono state concesse esenzioni fiscali a chi si costruiva
una casa fuori città; ma, per godere di queste esenzioni fiscali, occorreva
avere i soldi per costruire una casa (Finzi, Foa et Altri, 1990).
469

470
MICHELA PIRAS
Lentamente, le grandi città hanno cambiato aspetto. Al centro
sono cresciuti i grattacieli, con le direzioni e gli uffici delle grandi
imprese e dell’amministrazione pubblica, le banche, i giornali, in
qualche caso anche le lussuose residenze di alcuni ricchi. Poco oltre
iniziano gli “slum”, i quartieri poveri dalle strade sporche e dissestate
e dalle case in rovina, con i vetri rotti e le immondizie accumulate
davanti alla porta (Stampa Alternativa, IGTimes, 1996). Qui abitano,
in maggioranza, neri, portoricani e in genere quegli strati della
popolazione che, essendo privi di un reddito adeguato, perché sottoccupati
o disoccupati, non hanno la possibilità economica di trasferirsi
nei quartieri dell’estrema periferia.
Alla periferia ci sono le fabbriche. Più in là, a molti chilometri
dal centro urbano, comincia una nuova città: una distesa di piccole
case regolarmente allineate, linde, circondate da giardini e abitate da
impiegate ed operai.
Nella zona centrale delle grandi città americane la degradazione
fisica delle case e delle strade, il rischio ormai scontato di aggressioni
e rapine, rivelano la scomoda esistenza di una massa di poveri, visibili
e minacciosi. Grattacieli nuovissimi sorgono in mezzo a case in
rovina, strade quasi decorose e pulite diventano, un isolato più avanti,
depositi di immondizie, riserve di edifici fatiscenti. A New York
ci sono quartieri, come il sud Bronx e l’East Side, che sembrano
bombardati, edifici semidistrutti e bruciati sorgono tra montagne di
rifiuti. Servono da riparo a drogati, alcolizzati e altri disperati che vivono
d’espedienti e di rapine. Avventurarsi in queste zone è un vero
pericolo e i taxisti spesso si rifiutano di addentrarvisi di sera. Non è
raro che anche quartieri ancora fiorenti siano incendiati da persone
pagate dai proprietari che vogliono così prendere i soldi delle assicurazioni
e costringere gli abitanti ad andarsene. Le aree liberate aspettano
di essere acquistate da grosse società immobiliari, e di costruzioni
che le trasformeranno in moderni centri commerciali e in lussuosi
grattacieli dove troveranno posto uffici di rappresentanza e appartamenti
costosissimi.
Un aspetto drammatico delle grandi città americane è questo:
l’incapacità di tenere in vita e funzionanti le proprie case da parte
dei cittadini si accompagna a un’analoga incapacità di tenere in vita
e funzionante la città da parte della sua amministrazione (Finzi, Foa
et Altri, 1990). Le cause di questo fatto sono molte: sprechi, corruzione,
mancanza di una pianificazione rigorosa. Una delle cause, indubbiamente,
sta proprio nell’esodo dei benestanti verso la fascia extraurbana;
spostandosi fuori dall’area del municipio i benestanti non
pagano più le tasse all’amministrazione della città, ma a quella del

Il fenomeno dei graffiti come messaggio sociale giovanile
nuovo luogo di residenza. Così l’amministrazione delle grandi città
si vede sottrarre, ogni anno di più, una parte consistente dei suoi
proventi, e non è in grado di riparare le strade, di far funzionare la
nettezza urbana, i servizi pubblici, etc.
3. Il linguaggio dei graffiti: il codice comportamentale, linguistico e
tecnico. – Il writing sono strane scritte e disegni multicolore che animano
i muri delle città, i vagoni ferroviari e spesso si trovano anche
nei cartelli autostradali e in qualsiasi altro tipo di superficie; in realtà
non consiste banalmente in scritte. Due elementi importanti nella
cultura del writing sono la sfida ed il rispetto; la sfida sia nel rap,
nella danza e nell’arte dei graffiti è un modo di incanalare meglio se
stessi (Stampa Alternativa, IGTimes, 1996). L’energia e l’aggressività
nelle sfide sono finalizzate alla ricerca di una perfezione espressiva.
Il riconoscimento personale avviene attraverso una performance
o produzione artistica, che deve avere certe qualità riconoscibili dal
gruppo come originali e fedeli della cultura Hip Hop. Il rispetto occupa
un posto centrale come valore rivolto soprattutto ai membri
del gruppo e più in generale agli esclusi, cioè coloro colpiti nella loro
dignità. Questo atteggiamento è ritualizzato attraverso il saluto, le
parole e le dediche dei brani musicali (Pasqualetti, 2002).
Una delle regole più conosciuta e rispettata è quella che impone
ai graffittari di non coprire con il proprio “pezzo” (disegno o dipinto)
il lavoro di un altro; anche il lavoro di un writer meno amato
deve essere rispettato. Se qualcuno copre il pezzo di un altro, le reazioni
possono essere molteplici: l’autore del graffito coperto coprirà
a sua volta quello del writers che non ha rispettato la regola, oppure
lo sfiderà ad una specie di guerra sui muri a dimostrare chi è dei due
quello più abile.
Un’altra importante regola che esiste nel mondo dei writers è legata
al rispetto delle aree di “possesso” delle Crew, infatti nella maggior
parte dei casi ogni crew ha un luogo ben determinato dove dipingere
(Hall of Fame) che è una specie di possesso della crew. Secondo
questa specifica regola nessuno se non i componenti della
crew che possiede un dato muro può dipingervi, pena la devastazione
immediata del pezzo e l’inizio di una faida fra gruppi (Corallo,
1996). Nell’ambito dei graffiti è raro conoscere nome e cognome di
un writer, spesso si conosce solo la sua Tag (codice identificativo); a
questo proposito esiste una regola che vieta a due graffittari di avere
la stessa Tag, nessuno mai potrà appropriarsi della Tag di altri pena
la cancellazione di tutte le sue firme.
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MICHELA PIRAS
Il codice tecnico dei graffiti è piuttosto variegato, una importante
distinzione da fare è che ci sono varie tipologie di graffiti che si differenziano
sulla base del livello tecnico di abilità, ci sono le “Tag”, i
“Bombing” o “Throw Up”, infine i “Pezzi” o “Masterpiece” (Stampa
Alternativa, IGTimes, 1996).
Le Tag sono le firme, ovvero i nomi di battaglia dei graffitari scelti
da loro stessi secondo criteri arbitrari, ad esempio può essere una
Tag con delle lettere su cui si possano attuare delle trasformazioni,
oppure una Tag che rimanda ad un aspetto del carattere (Stampa Alternativa,
IGTimes, 1996). Non esistono due writers con la stessa
Tag, perché essa individua una sola persona. Essa rappresenta la base
dei graffiti perché su essa i writers si esercitano a studiare le lettere,
creare il proprio stile di scrittura e studiare le possibili modificazioni
e interazioni delle lettere che formeranno una scritta successivamente
trasformata in Bombing e poi ancora nel Pezzo. Una volta studiata
su carta la Tag va provata sui muri, perché una bozza su carta, fatta
con i pennarelli o con la biro, ha un effetto diverso quando prodotta
sul muro. La Tag è il primo mezzo del graffittaro per comunicare
la propria esistenza agli altri graffittari, la propria abilità tecnica,
la creatività ed originalità; dalla Tag è possibile intuire per i writers
più esperti il livello di abilità tecnica del nuovo graffittaro. Ultimamente
si vedono Tag ovunque, è una proliferazione che lascia
sconcertati e in disaccordo i graffittari stessi perché si rendono conto
che tutto questo porta il fenomeno della cultura Hip Hop a essere
stigmatizzato e penalizzato in tutti i suoi aspetti in particolare quelli
più creativi. Perciò la Tag è sempre più spesso oggetto di discussione,
tutti sono concordi nell’affermare che nel writing è indispensabile essere
conosciuti, ma per la maggior parte dei graffittari non è la Tag a
rendere onore alla propria abilità ed al proprio coraggio, quello che
davvero rende famosi nella cultura dei graffittari è il Bombing.
Il Bombing o Throw Up (pezzi veloci riempiti sommariamente) è
l’evoluzione della Tag cioè scrivere il proprio nome con caratteri ancora
più grandi e notevoli e poi colorato con due o più colori e viene
contornato da un outline (linea esterna o contorno). Questi pezzi
veloci non richiedono più di due ore per la realizzazione, sono considerati
illegali e vengono fatti la notte in punti casuali, diversamente
dai Masterpiece che sono ben tollerati, dipinti alla luce del giorno
con un grande impiego di materiale e creatività, è un lavoro che può
durare anche alcune settimane. Esiste un momento della carriera di
un graffittaro in cui egli decide di specializzarsi in una tipologia di
graffiti, quelli che in misura maggiore fanno Bombing si chiamano
Bomber da To Bomb (coprire abbondantemente con il proprio

Il fenomeno dei graffiti come messaggio sociale giovanile
nome una superficie). L’obiettivo del bomber è la quantità in luogo
della qualità in modo da farsi notare e ottenere il rispetto, il suo scopo
è quello di fare il maggior numero di lavori; egli diventa famoso
per le sue opere ed in particolare per i luoghi dove decide di bombardare
(dipingere). Dopo aver raggiunto la notorietà anch’egli inizia
una ricerca stilistica più approfondita, che lo porti a fare Pezzi
migliori ed in posti studiati con attenzione.
Il Masterpiece (capolavoro) è l’opera più completa di un artista,
dove intuizione creativa ed abilità tecnica si fondono, la sua realizzazione
richiede molto tempo e passa attraverso varie fasi di sviluppo:
1. traccia su carta (bozzetto), può essere a matita, a penna e colorato
o non, in genere raffigura lettere con complessi disegni.
2. traccia su muro con bomboletta, è la traccia base da seguire, è
fondamentale per la buona riuscita del Masterpiece. Alcune volte
i bozzetti su carta sono molto complessi per cui per il graffittaro
può essere difficile riprodurlo su muro
3. colorazione di base, consiste in colorazioni che vengono sfumate
tra loro con tecniche particolari, deve essere molto precisa e non
uscire dai contorni delle lettere tracciate. La colorazione base del
pezzo rappresenta l’anima del pezzo.
4. introduzione di stili decorativi, vengono introdotti nel pezzo vari
“design” e motivi decorativi semplici (linee, linee curve, palline
colorate, stelle)o anche molto complicati.
5. fase dell’outline, è la fase terminale del graffito, può essere molto sottile
oppure largo molto spesso viene aggiunto anche l’effetto 3D.
Fare un Masterpiece è molto difficile perché è necessario conoscere
abbastanza bene la tecnica di utilizzo della bomboletta ed i tappini
che regolano la fuoriuscita della vernice; i graffittari che dipingono
in misura maggiore Masterpiece alla ricerca di una qualità
sempre maggiore si definiscono “Stylist”. Essi sono graffittari che si
pongono come obiettivo la qualità tecnica del pezzo, hanno una visione
d’insieme del loro pezzo e poco interesse per quello che scrivono,
la precisione è la regola primaria seguita assieme alla continua ed
estrema evoluzione delle lettere che gli porta a creare scritte illegibili
(Hard Core Stylist).
4. Graffiti ed interazione sociale. – I graffiti hanno una forte valenza
sociale, perché sono una forma di espressione personale, ma alcune
volte denunciano un’aspetto sociale recepito come negativo
allo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica. Un’esempio famoso
di graffito con un forte messaggio sociale è l’Heroin Kills del Centro
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474
MICHELA PIRAS
Sociale Giovanile Leoncavallo, fatto per combattere la droga considerata,
dai graffittari, un problema sociale devastante; non sono rari
anche i graffiti che mettono in guardia nei confronti dell’AIDS. Tale
valenza sociale è intuibile anche dai luoghi scelti per creare i pezzi, i
graffiti sono nati infatti sui treni questo perché con il treno il dipinto
non rimaneva un’immagine statica ma poteva anche raggiungere
zone che non ne avevano mai visto uno. Il graffito diventa in questo
modo comunicazione visiva immediata, il messaggio circola anche
tra crew di graffittari di paesi diversi.
Il messaggio sociale del graffito può essere esplicito, espresso a livello
di contenuto attraverso la scritta, ma anche implicito-visivo
che si può cogliere solo attraverso un’attento studio della composizione
estetica del graffito: uso di simboli, forma delle lettere (deformazioni,
apertura, chiusura) e andamento delle lettere (altezza e direzione),
colori usati (caldi o freddi) ed infine lo stile.
I graffiti che contengono un esplicito messaggio di critica sociale si
differenziano perché, per il loro autore, non é più importante l’affermazione
della propria individualità e competenza tecnica, ma egli si fa
portatore di un malcontento comune ed usa il codice che meglio conosce
per esprimerlo. Questa esigenza di scambio e d’interazione comunicativa,
è una espressione di adattamento sociale peculiare della
cultura Hip Hop, che non si ferma, come le altre subculture giovanili,
alla fase della ribellione; i giovani graffittari infatti, con i loro “pezzi”,
fanno seguire un tentativo di comunicazione e d’integrazione con la
società dalla quale in un primo momento fuggono. La subcultura dei
graffiti non si chiude entro se stessa per agire a scapito della cultura
normale, ma getta le basi per un tentativo fruttuoso di comunicazione
(Corallo, 1996), anche se lanciato attraverso un codice linguisticoestetico
nuovo, sconosciuto che può spaventare e creare distanze ma
anche incuriosire ed attrarre per la spontaneità. Sempre più spesso, la
società chiede ai graffittari di spiegare la loro cultura, in una seconda
fase di maturazione il graffittaro capisce l’importanza di uno scambio
comunicativo e si rende disponibile all’interazione perché, diversamente,
il messaggio del suo graffito rimane improduttivo e ciò a lungo
andare potrebbe anche sminuire la cultura Hip Hop.
Secondo Corallo esistono quattro diversi tipi d’interazione tra società
e graffittari:
• mostre con performance; si può verificare quando il comune di
una città organizza degli spazi appositi dove i graffittari possono
dipingere pubblicamente alla luce del sole e “sfidarsi a colpi di
bomboletta” su pannelli per dimostrare la propria creatività;
• graffiti commissionati a scopo decorativo; è un tipo d’interazione

Il fenomeno dei graffiti come messaggio sociale giovanile
che rappresenta la base di un rapporto professionale tra graffittaro
e cultura dominante, implica quindi il riconoscimento di abilità
artistiche specifiche, ed il potere comunicativo e attrattivo esercitato
dai “pezzi”. Il graffito prodotto è permanente, cioè pensato
come un’opera che rimane nel tempo, e viene pagato come un
qualsiasi altro lavoro creativo.
• graffiti commissionati a scopo pubblicitario; in questo caso “i
pezzi” fungono da catalizzatore dell’attenzione e da fonte d’ispirazione
nei confronti del pubblico giovane e dinamico. Questo tipo
d’interazione è la più complessa e fruttifera, perché i graffiti diventano
parte di un codice comunicativo istituzionale e si trasformano
in un linguaggio implicitamente accettato.
• graffiti usati per decorare oggetti di uso comune; in questo caso
non c’è la realizzazione del pezzo ma la fotografia di un graffito che
viene stampata in vari modi (abbigliamento, borse, quaderni, posters,
etc) ad uso prevalentemente commerciale e poco artistico.
La diffusione dei graffiti in ambito artistico, pubblicitario e commerciale,
dimostra come essi siano integrati socialmente e soprattutto
che la volontà d’interazione è bilaterale: la società invita i graffitari
a spiegare la loro attività, dall’altra i graffittari si prestano a dimostrazioni
e lavori che portano il loro lavoro ad essere riconosciuto e
ricontestualizzato (Corallo, 1996). L’interazione fra graffittari e società
non è quindi solo di tipo negativo e deviante ma riesce anche
ad essere costruttiva senza creare scompensi ne alla cultura dominante
ne alla cultura Hip Hop.
I giovani attraverso i graffiti, ed in particolare attraverso le diverse
forme d’interazione, rispondono al bisogno d’attenzione tanto recriminato
che non gli viene dato dal “mondo adulto civile” , sono essi infatti
che per primi cercano la comunicazione con una società che si dimentica
troppo spesso di loro e che non da abbastanza stimoli creativi.
5. La Psicologia dei graffiti e l’identità del graffittaro. – Il “vecchio”
graffitaro è molto diverso, dagli attuali writers in particolare da quelli
italiani. Infatti, ciò che accomunava i giovani newyorchesi degli anni
’70 era la povertà ed un livello socio-culturale molto basso, erano ragazzi
“di strada”. In realtà non erano dei disadattati o appartenenti a
bande violente, ma semplicemente ragazzi inseriti in un clima sociopolitico
complesso, come detto in precedenza, verso il quale esprimevano
il loro dissenso (Stampa Alternativa, IGTimes, 1996). Il loro
ambiente di crescita era disgregante e spersonalizzante, per emergere si
usava il codice della violenza e del ricatto; così i writers decisero di
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MICHELA PIRAS
ribellarsi a tutto ciò con il loro personale messaggio creativo, “il pezzo”,
cercando allo stesso tempo, modalità espressive nuove.
Il motivo che porta un graffitaro a scrivere la propria “tag” sul
muro, è la volontà di affermare la propria identità e diversità rispetto
all’ambiente di crescita e dimostrare la loro esistenza. I graffitari italiani,
a differenza dei loro coetanei americani, intravedono in questa
originale forma di ribellione una alternativa al clima culturalmente
piatto, nel quale vivono, dominato dal consumismo e dalla ripetizione
di schemi sociali preesistenti (Corallo, 1996). Si può dunque affermare
che il writing è stato per i giovani italiani una fonte d’ispirazione,
ma soprattutto la risposta ad una ricerca di mezzi espressivi
nuovi per uscire dalla massificazione culturale (Corallo, 1996). Dall’attenta
analisi svolta da Corallo sugli stili di vita dei giovani writers,
egli ritiene che diversamente dai giovani americani che esprimevano
un disagio economico e sociale, in Italia invece i graffittari sembrano
essere portatori di un disagio socio-psicologico (Corallo, 1996).
Corallo attraverso una ricerca svolta nel 1996 descrive un campione
di graffittari: la maggior parte di essi vive in una famiglia medio-borghese
con un buon livello culturale. Infatti l’80% studia o ha concluso gli
studi (scuole medie superiori)e tra questi uno su tre pensa di proseguire
gli studi per conseguire la laurea (Corallo, 1996). Un’altra netta distinzione
tra graffitari americani ed italiani è data dall’abbigliamento, in particolare
i secondi “imitano” i primi nell’indossare abiti molto larghi, anche
di una o due taglie più grandi, in genere pantaloni ampi con tasconi
dove mettere tappini e bombolette spray, magliette e felpe, cappellini e
scarpe da tennis senza stringhe. La particolarità dei graffitari italiani è che
pur vestendosi come gli americani, i loro capi d’abbigliamento sono
“griffati” creati appositamente dalle industrie di moda giovanile. Secondo
Corallo i giovani italiani tendono ad affermare, anche attraverso le proprie
marche, l’appartenenza ad un livello socio-economico medio-alto: i
graffitari americani rubavano le bombolette per i loro pezzi mentre i giovani
italiani le comprano ad un costo medio di 5-6 euro l’una, spendendo
per la realizzazione di un pezzo un costo medio di 30 Euro.
Da un punto di vista psicologico i graffiti tendono ad esaltare la
personalità dei singoli, i giovani infatti traggono grande vantaggio
da questo “spazio personale”, perchè si sentono più liberi di sperimentare
nuovi stili secondo la propria ispirazione creativa, il prodotto
artistico di questo individualismo, viene poi in un secondo momento
confrontato con quello di altri writers. L’esaltazione dell’individualità
è una caratteristica che differenzia la cultura dei graffiti
(Corallo, 1996, p. 77) dalle altre subculture metropolitane (Hippy,
Punk, Dark, Mods, Rockabillies, Heavy Metal, Cyberpunk ed altre)

Il fenomeno dei graffiti come messaggio sociale giovanile
dove, invece, l’identità di gruppo sostituisce quella individuale con,
avvolte, risultati di appiattimento della personalità del singolo.
Nella cultura dei graffiti i meccanismi di accettazione ed integrazione
nella crew (gruppo o famiglia di graffittari) avvengono in tempi
diversi; infatti i graffittari tendono ad accettare solo in secondo momento
l’identità del gruppo, sentono di appartenere alla cultura Hip
Hop ma sanno che il gruppo non potrà essergli d’aiuto quando dipingono
illegalmente, il graffittaro è solo con la sua abilità personale creativa.
Il “pezzo” diventa la forma attraverso cui esprimere la propria
personalità e, contemporaneamente mandare un messaggio alla società
rispetto ad alcuni aspetti negativi, ciò diventa l’obiettivo principale
della attività artistica di questi giovani (Stampa Alternativa, IGTimes,
1996). Il writers è, in linea generale, un adolescente che vorrebbe stabilire
una comunicazione con la società mostrando la sua identità e le
sue capacità artistiche ma ciò non avviene, anzi spesso viene stigmatizzato
ed etichettato a priori come deviante e lentamente emarginato. A
questo punto, pur di non rinunciare alle proprie idee il writers si rifugia
nella microsocietà Hip Hop, dove non solo può esprimersi liberamente,
essere ascoltato e riconosciuto per ciò che fa. Nella subcultura
giovanile Hip Hop il graffittaro viene valorizzato in base a criteri completamente
diversi, tutti i doveri e gli oneri sociali “standard” passano
in secondo piano, cioè il ragazzo è rispettato al di la dei suoi meriti
scolastici o del suo comportamento in famiglia. In questa microsocietà
“non esistono privilegi, non interessano le caratteristiche fisiche, psicologiche
e non importa da dove il graffittaro provenga, se è simpatico
o antipatico” (Corallo, 1996, p. 81); è, invece, molto importante saper
dipingere, e dimostrare con la propria creatività e con le proprie
immagini il valore personale. I graffiti trasformano la persona più insicura
e introversa, fuori dalla crew, nel maestro rispettato da tutti dentro
la crew; perché il ragazzo acquista consapevolezza sulle sue capacità
di tecniche di realizzazione dei graffiti, questo rinforza la sua autostima
e lo porta a sentirsi gratificato e più sicuro di sé.
Dentro l’Hip Hop l’identità personale del graffittaro si basa semplicemente
sui graffiti, e invece ogni elemento caratterizzante nella
società normale perde d’importanza:
“… i valori diventano altro da quelli comunemente accettati e le mete
verso cui il graffittaro tende non sono quelle meritocratiche della società
dominante, tutti possono avere successo senza però dover tenere conto di
infinite regole sociali che, secondo i graffittari, esaltano l’esteriorità a
scapito dei contenuti, facendo così perdere all’individuo una spontaneità
che nel mondo dei graffiti è molto forte.
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MICHELA PIRAS
Nel mondo dell’Hip Hop si ricomincia da zero, senza dover tenere conto
degli obblighi sociali e della diversità culturale, ognuno vale per quello che
fa, e se si è davvero creativi si riceve una gratificazione immediata
spontanea e sincera.” (Corallo)
6. I graffiti e la valenza formativa dell’arte di strada. – Il fenomeno
dei graffiti esprime una forte esigenza d’identificazione per le nuove
generazioni e rappresenta, come l’arte di strada in generale, un canale
privilegiato d’espressione, di creatività, di autorappresentazione ed
autoformazione. All’interno i giovani vi sperimentano codici, tecniche,
intelligenze e soprattutto, trovano il luogo dove contribuire personalmente
allo sviluppo di un movimento culturale. I graffitari con
fatica e senso d’improvvisazione cercano di creare un mondo che non
si rassegna al presente, pur con tutte le sue contraddizioni, esagerazioni
ed ingenuità. Anita Gramigna, nel suo saggio sui graffiti del
2003 ”Leggere i Graffiti. Percorsi formativi tra estetica e comunicazione
metropolitana”, evidenzia l’importanza pedagogica di una dialogo
extra-istituzionale tra giovani ed adulti, dialogo che deve però
partire dalle culture giovanili, nello specifico quella del writing.
L’ipotesi appare interessante perché offre la possibilità di leggere con
i giovani la loro esperienza e da questa, progettare nuovi itinerari formativi
che siano più familiari ai giovani e valorizzino il desiderio di
protagonismo che il ragazzo esprime liberamente nei contesti non
istituzionali (gruppo dei pari, gruppi informali, etc). Ciò potrebbe
essere il punto di partenza per la costruzione di un “tempo condiviso”
da giovani ed istituzioni, dove le istituzioni sono aperte all’ascolto e
al dialogo produttivo con i suoi giovani. Allo stesso tempo, quest’ultimi,
sono disposti a svelarsi, farsi conoscere, conoscere se stessi ed in
questo modo crescere non più in solitudine ma con la consapevolezza
della possibilità di un confronto solido e rispettoso. Questo scambio
armonioso ha poi interessanti risvolti sulla formazione e sulla
qualità della vita sociale. L’esperienza dei graffiti diventa una “istituzione
informale” dove i giovani attivano processi di sviluppo fondamentali,
come la costruzione della propria identità e la rappresentazione
del mondo per se stesso e per gli altri. Secondo la studiosa Gramigna
i graffiti possono essere, in alcuni casi, una forte risposta poliedrica
che il giovane elabora alle svariate manifestazioni di disagio;
un’alternativa creativa all’indeterminatezza, alla confusione, ed alle
contraddizioni che segnano il passaggio dall’adolescenza alla giovinezza
(Gramigna, 2003). La ricchezza e la forza formativa stanno, in
gran parte, nella carica creativa che trasforma il malessere in produ-

Il fenomeno dei graffiti come messaggio sociale giovanile
zione artistica, l’anonimato in visibilità sociale, il silenzio in comunicazione
alternativa (Gramigna, 2003, p. 63). La lingua dei graffitari è
dunque una potente strategia auto-formativa perché, con l’esperienza
“costruisci” alcune chiavi di lettura della realtà che sono personali ed
originali. Caratteristica fondamentale di questo processo auto-formativo
é il coinvolgimento estetico ed empatico dei ragazzi, contrariamente
a ciò che avviene nella trasmissione dei saperi scolastici, che
tradizionalmente implicano, invece, uno “straniamento critico” ed
un distacco razionale (cognitivo). Nel mondo dei graffiti, il logos della
conoscenza coincide con l’esperienza personale, ovvero è contingente;
mentre le discipline scolastiche sono portatrici di una conoscenza distante,
lontana dai contesti di crescita. Nel futuro potrebbe essere interessante,
creare in campo educativo più sinergie tra queste due diverse
modalità di trasmissione della conoscenza, individuando dei percorsi
formativi integrati e contestualizzati in base al tipo di gruppo (bambini,
adolescenti o adulti), alle eventuali risorse personali non espresse, ai
contesti sociali abituali dei giovani modulando in itinere coinvolgimento
emozionale e straniamento critico. Il protagonismo del giovane
deve essere il nodo centrale del processo auto-educativo, la “fiamma”
che tiene accesa la motivazione all’apprendimento; il “sapere” diventa
un “processo di costruzione” e smette di essere un dato da acquisire
dall’alto di una entità deputata a farlo. Ritengo che le istituzioni educative,
impegnate nella formazione culturale e sociale dei giovani, sono
chiamate a riflettere seriamente sulla valenza formativa dei messaggi di
cui si fanno portatori. Esse dovrebbero, in modo particolare, valutare
quanto del sapere trasmesso diventa poi uno strumento che orienta il
giovane nella realtà, che lo aiuta a leggere i vissuti del sociale ed a comprendere
nodi esistenziali di grande importanza. È fondamentale per le
istituzioni chiedersi quanto è “forte” il loro contributo al processo di
costruzione dell’identità dei giovani; il dialogo educativo, di cui sopra,
si costruisce infatti dall’integrazione tra identità in formazione, culture
giovanili e specifici stili di socializzazione.
7. L’Aerosol Art e le sue antiche radici: pittura murale e graffitismo.
– Il fenomeno sociale del graffitismo é con il tempo diventato una
delle più sorprendenti e coinvolgenti forme di espressione visiva degli
ultimi anni, una vera e propria arte chiamata dagli esperti del settore
“Aerosol Art” che una originale e spiccata valenza creativa e pittorica.
L’aerosol art o “pittura di bomboletta” affonda le sue radici nella
grande tradizione messicana scaturita dalla rivoluzione e dalle riven-
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MICHELA PIRAS
dicazioni sociali del 1910. La pittura murale ha avuto manifestazioni,
riconducibili più che a esigenze di ordine estetico, a sollecitazioni
politiche e sociali; anche negli Stati Uniti, dove tali espressioni non
ebbero lunga vita e furono sostituite dalla moda dei graffiti (Stampa
Alternativa, IGTimes, 1996).
Il graffitismo, propriamente detto, è una tecnica di incisione muraria
testimoniata dalle incisioni rupestri preistoriche, in cui i disegni
erano poi riempiti di colore; questa tecnica fù largamente impiegata
dai Greci e dagli Etruschi per decorare oggetti o vasi dipinti. Splendidi
risultati ottennero gli artigiani etruschi nella decorazione di specchi
e ciste di bronzo, come la famosa cista Ficoroni del Museo Villa Giulia
a Roma. In età romana il graffitismo fù usato soprattutto per tracciare
l’intonaco fresco schizzi preparatori di pitture parietali o per disegnare
caricature (graffitismo anticristiano del Paedagogium sul Palatino,
raffigurante un crocifisso con testa d’asino) (www.murales.it).
La tecnica continuò ad essere usata anche in epoca medievale applicata
in particolare alla ceramica; ottenuta graffiando l’ingobbio in
modo da scoprire il colore di fondo della pasta, la decorazione a
sgraffio ebbe un grande successo in Italia dove fiorì fino al XVIII secolo
(www.murales.it). Il graffitismo fu molto diffuso durante il Rinascimento
per decorare facciate di edifici secondo un procedimento
consistente nello stendere su un muro coperto di uno strato di intonaco
scuro un secondo strato di intonaco bianco, per poi in una seconda
fase graffire quest’ultimo seguendo un dato disegno in modo
da evidenziare il sottostante strato bruno.
Nei secoli successivi la tecnica si affino sempre più, tanto che si
usò sovrapporre vari strati di intonaco di diverso colore ottenendo,
secondo la profondità dell’incisione, il segno del colore desiderato e
gradevoli effetti di chiaroscuro (www.murales.it).
Il fenomeno del writing è espressione, dunque, di un complesso
patrimonio culturale antico ed universale, comune a tutta l’umanità,
condiviso da popoli di appartenenza geografica, culturale, sociale e
religiosa molto diversa. L’uso di lettere alfabetiche in chiave decorativa
ha curiosi richiami, anche, con una pratica diffusa nella civiltà
islamica; la religione islamica vieta categoricamente l’uso della decorazione
figurativa, nel caso di abbellimenti ed ornamenti si usano
rappresentazioni grafiche espresse attraverso ornamentazioni geometriche,
intrecci e sequenze ripetitive, complessi e tormentati “ghirigori”
(stile arabesco). Tuttavia tra le varie tipologie di ornamento, la
forma calligrafica risulta predominante; spesso sono stati utilizzati i
versetti del Corano per decorare oggetti, tessuti, arazzi e strutture architettoniche
(www.supereva.it/arte).

Il fenomeno dei graffiti come messaggio sociale giovanile
In Oriente l’ideogramma costituisce prima che un mezzo per
esprimere un concetto, un’opera grafica che sottostà a precisi concetti
estetici, tanto da aver dato origine alla “arte sho”, connotata
proprio dal motivo kanji, carattere cinese (www.supereva.it/arte).
Nel tempo il graffitismo ha perso la sua connotazione di iscrizione
o figurazione graffiata o incisa, finendo per identificarsi con una
pittura eseguita attraverso bombolette spray sui muri, sui vagoni ed
in spazi pubblici a scopi propagandistici o politici.
Il movimento dell’Aerosol Art (“arte della bomboletta”) rappresenta,
come il jazz, una rivincita culturale dei negri e degli emarginati
sulla cultura artistica dominante della New York degli anni ’70-
’80 portata avanti dal mondo dei “bianchi”.
La prima apparizione dei graffitisti si ha nel ’72 quando nella metropolitana
newyorkese “le scritte politiche, erotiche, e oscene vengono
sostituite da un’espressione grafica nuova che viene dai ghetti,
una sorta di violenta risposta spray alla produzione capitalistica che
cancella e travolge tutti i messaggi della comunicazione di massa”
(Lara, Vinca Masini, 2003, p. 1128). I nuovi “Kids” (giovanissimi
negri e portoricani dei sobborghi) diventano i protagonisti della nascita
di una nuova cultura visiva che trova il suo spazio tra le ferraglie,
gli ammassi di vecchie macchine, fili elettrici e valvole rotte
cioè nel “mondo” degradato della città.
Intorno al ’72 le “tags” nere divengono sempre più grandi, si fanno
colorate e invadono i vagoni della metropolitana, il fenomeno,
con il tempo, si estende rapidamente sino a coinvolgere l’opinione
pubblica, anche i giornali si occupano del fenomeno, la Metropolitan
Transportation Authority spende 150 milioni di dollari per cancellare
le scritte, che riappaiono in breve tempo. È stato immediato
il collegamento tra graffiti e vandalismo, percezione messa però in
discussione dalla valenza artistica riconosciuta alla nuova espressione
grafica; un importante contributo in questa direzione è stato l’uscita
del primo articolo su ”New York Magazine” dove i graffiti vengono
definiti “espressione artistica”. Nel 1973 si è svolta la prima mostra
dell’ U.G.A. (United Graffiti Artist) promossa alla New York Foundation
of Arts, il fenomeno assume dimensioni sempre più vaste,
tanto che nel giro di pochi anni i graffitisti non riempiono più le pareti
della metropolitana ma affrescano scuole, stadi, decorano negozi,
copertine di dischi (Lara, Vinca Masini, 2003). Sempre più spesso
i loro “pezzi” entrano nelle gallerie d’arte americane ed europee, i
critici dedicano spazio al fenomeno e cercano di accaparrarsi gli artisti
più “talentuosi” in pochi anni i graffiti entrano nel mercato artistico.
Importanti manifestazioni importanti a cui i graffitisti hanno
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MICHELA PIRAS
partecipato sono: CoLab nel 1980, il Mud Club nel 1981, Fashion
Moda nel 1982,etc; i graffitisti più apprezzati sono svariati tra quelli
newyorchesi: Rammellzee ed i suoi seguaci A One, B One, C One,
Keith Haring, Ronnie Cutrone; Tra gli altri, Kenny Sharf, Brett De
Palma,John Ahearn e Jean-Michel Basquiat recentemente celebrato al
Museo d’Arte Moderna di Lugano (www.repubblica.it); tutti grandi
artisti non solo per la qualità di ciò che hanno prodotto, ma soprattutto
per il profondo senso innato dei popoli di lasciare una traccia, di
cui si fanno portatori, loro in particolare, attraverso i graffiti.
In Italia il fenomeno dei graffiti, arriva intorno alla metà degli anni
’80, la prima manifestazione che se ne é occupata è stata “Telepazzia”
alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna durante la VI Settimana della
Performance (Lara, Vinca Masini, 2003). Da allora si sono susseguite
le mostre dei singoli artisti in varie città italiane. Anche in Italia è stata
subito molto forte la contrapposizione tra graffiti e vandalismo, atteggiamento
che si è accentuato ancor più con l’ibridazione del fenomeno
conseguente alla sua commercializzazione, è perciò necessario fare
delle distinzioni tra veri “graffitari” e “giovani vandali”.
L’opinione pubblica è fortemente convinta che il fenomeno sia
un atto di deturpazione della proprietà pubblica e privata e che non
abbia niente in comune con un attività creativa ed artistica. In realtà
i graffiti, in particolare “Masterpiece” e “Bombing”, non sono vandalismo
la stessa opinione pubblica accetta i pezzi e condanna invece le
Tag sparse disordinatamente sui muri che danno alla città un senso
di trascuratezza. Secondo la Legge Italiana entrambe le espressioni
artistiche sono punibili, perché considerate come atti vandalici. I
graffittari più esperti sono consapevoli e sensibili al problema della
devastazione dei muri da parte di una vasta cerchia di “giovani non
graffittari” (non integrati nella cultura Hip Hop) essi si rendono
conto che la loro cultura viene bollata di vandalismo. Cosa ancor
più grave sono consapevoli che la loro possibile ”avanguardia artistico-comunicativa”
finisce per essere etichettata come puro sfogo delle
frustrazioni giovanili. Questo stato di cose si è accentuato in modo
particolare con la trasformazione della cultura Hip Hop in una
moda, il fatto che chiunque si possa procurare una bomboletta e inventarsi
una firma, ha fatto si che centinaia di giovani estranei alla
cultura Hip Hop ma hanno sentito dire che va molto di moda, firmano
su qualsiasi superficie. Un graffitaro che ha interiorizzato le
origini della sua cultura capisce che la “tag” è una componente minimale
dei graffiti, il vero lavoro si svolge a livello di “pezzi” che comportano
la ricerca di uno stile creativo portata ai massimi livelli per
sconvolgere il normale alfabeto e trasformarlo in un elemento vivo,

Il fenomeno dei graffiti come messaggio sociale giovanile
dinamico e nuovo. L’intento non è quello di infrangere la legge, e
neanche di offendere la sensibilità della gente, ma di risvegliare una
comunicazione tra generazioni attraverso un linguaggio nuovo che
scuota l’opinione pubblica anche per la sua carica creativa.
8. Frammenti di realtà: intervista ad un writer cagliaritano. –
“… il fenomeno dei graffiti a Cagliari è apparso circa 13-14 anni
fa, hanno iniziato due Crew la TNT e la VNC che dipingevano a Cagliari
e dintorni, poi tutti gli altri sono andati dietro. Attualmente
questi gruppi non esistono più si sono sciolti, ci sono però molte altre
crew nuove circa 200, tra le più importanti la KMA, HOLAS, TBS,
IDF (la più numerosa) e la RG21 una delle più conosciute a Sassari.
La curiosità per il mondo dei graffiti è nata perché ho conosciuto
degli amici che erano writers, mi hanno insegnato qualcosa, poi
sono andato avanti con il loro gruppo e così ho imparato a dipingere.
Dipingo perché mi piace disegnare e voglio farmi conoscere in
bravura artistica, penso che questa sia la motivazione che spinge un
writers ha fare pezzi sui muri.
Io assieme ad un amico siamo i fondatori della crew che si chiama
Holas, la mia Tag è Sure mentre quella del mio amico è Criw.
Come capo faccio quello che fanno gli altri graffittari, ho però in
più la possibilità di decidere chi fare entrare nella crew, ed organizzare
le Jam che sono delle competizioni o sfide tra writers.
Le Jam vengono organizzate circa ogni mese, spesso saltano perché
non ci sono i fondi economici oppure perché il messaggio non
arriva all’altra crew, o anche perché è organizzata male allora si cerca
di farne un’altra.
Una Jam che è riuscita bene a Cagliari nel 2005 è la Jam di Terrapieno,
si è svolta una domenica di Febbraio dalle 9.00 alle 24.00 per
un intero giorno, ha richiamato più di cento writers. E stata organizzata
da un writer della IDF attraverso volantinaggio nelle scuole ma
non solo, tutti i giovani a conoscenza dell’evento si sono avvicinati incuriositi
al Terrapieno. È stato bello perché ho conosciuto ragazzi che
non sapevo esistessero, ho scoperto anche altri stili e nuovi gruppi
provenienti da zone che noi non frequentiamo. Nel resto della penisola
le Jam sono molto frequenti ed attive, è molto nota quella che celebra
Joe Cassano un famoso rapper assassinato, durante la quale diversi
rappers si sfidano con scontri diretti tra loro in free style (rime create
sul momento su basi musicali mixate da un Dj).
Sarebbe troppo bello se una manifestazione di questo genere venisse
organizzata anche qui a Cagliari, ormai questo fenomeno non è
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MICHELA PIRAS
visibile, gli artisti di strada non hanno più spazio per esprimersi, e
l’illegalità è l’unica cosa che ci rimane.
La nostra Crew è nata 5 anni fa, ero in 2ª media ed all’inizio è
nata per gioco, poi dopo un anno abbiamo deciso di fare le cose sul
serio, così ci siamo organizzati. La nostra crew non è composta solo
da writers ma anche da skaters e rapper, in particolare è composta da
3 writers, 2 rappers e 9 skaters ed abbiamo un capo per ogni settore.
Con questa nuova organizzazione abbiamo deciso di fare le cose seriamente,
infatti abbiamo imparato ad usare la telecamera (sta per
uscire il video dei “La Holas” in skate), abbiamo imparato ad usare
programmi di musica per la creazione di testi rap. Per entrare nella
nostra crew noi guardiamo le capacità di un writers, cioè valutiamo
se il ragazzo è in possesso di qualità specifiche: saper usare la bombola
(non sbavare, essere precisi, avere un buon tratto), saper fare
bozze, ed essere bravi e creativi. Alcune volte capita che un ragazzo è
bravo ma non sa usare la bombola, allora in questo caso gli insegnamo,
lo facciamo entrare e lo portiamo avanti noi. Dentro la crew ci
conosciamo tutti, con alcuni di essi siamo anche amici, altrimenti
sarebbe impossibile andare avanti; alcuni writers sono stati esclusi ed
eliminati dal gruppo perché hanno rovinato la nostra reputazione,
hanno coperto i graffiti di altri writers senza chiedere il permesso.
Quando usciamo a graffitare facciamo prima il disegno su carta cioè
la bozza, se dobbiamo dipingere in più persone lo creiamo insieme
unendo anche diversi stili, con l’idea provata compriamo le bombole,
decidiamo i colori e realizziamo il pezzo facendoci aiutare da due
amici che fanno da “palo”. In genere dipingiamo sui muri e sulle
serrande, dipingiamo la notte ma se c’é poca gente in circolazione
anche il pomeriggio; se i graffiti fossero legali non sarebbe divertente,
è bello perché quando lo fai hai l’adrenalina in corpo, perché vai
contro le regole.
Gli adulti dovrebbero adeguarsi di più ai giovani, documentarsi,
e scoprire cosa c’è dietro ai graffiti invece che limitarsi a considerarli
un atto di vandalismo, potrebbero pensare che sono un’espressione
artistica.
La nostra arte è bella perché le nostre opere arrivano subito ed a
tutti, la visione è diretta, siamo più a contatto con la gente infatti
chiunque può notare su un muro la tua bravura, invece la tela del
pittore devi cercarla nelle mostre.
…una mia grande speranza è di ottenere spazi per realizzare i nostri
pezzi, nei paesi ci sono molti muri che non sono intonacati, noi
writers potremmo dipingere e trasformare i muri grigi in una strada
piena d’ arte e colore”.

Il fenomeno dei graffiti come messaggio sociale giovanile
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Saccargia ..........................................................................................................................................................................................................................
ROBERTO CORONEO, Il Peccato e l’eterna lotta fra Il Bene e Il Male. Un percorso
iconografico nella scultura romanica della Corsica ........................................................................
BIANCA FADDA, Un nuovo documento su Benedetta, marchesa di Massa e
del giudicato di Cagliari ...........................................................................................................................
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cinquecentesca della provincia d’Aragona .........................................................................................................
FRANCESCO CARBONI, Sigismondo Arquer e Don Gaspare Centelles nella bufera
politica del XVI secolo ............................................................................................................................................................................
SIMONA BANDE, I codici teatrali nella Comedia del Desenclauamiento di
Antonio Maria da Esterzili .........................................................................................................................................................
GIORGIO PUDDU, Difficoltà internazionali e instabilità interna del regno di
Sardegna tra la pace di Amiens e quella di Presburgo ...............................................................
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MARZIA MARINO, Gli artisti sardi del Novecento nella collezione Piloni .........................
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GIULIA MAZZARELLI, Il boom economico e la commedia all’italiana ..........................................
ANDREA NIEDDU, La svolta economica del 1973 ..............................................................................................................
TATIANA COSSU, Immagini di patrimonio: memoria, identità e politiche dei
beni culturali ...........................................................................................................................................................................................................
ALBERTO CAOCI, Etica della ricerca in antropologia .................................................................................................
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Finito di stampare nel mese di Marzo 2006
presso lo stabilimento litotipografico
PRESS COLOR – Via Beethoven, 14
09045 Quartu S. Elena (CA)
per conto delle Edizioni AV di Antonino Valveri
Via M. De Martis, 6 – 09121 Cagliari