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LICEO SCIENTIFICO GUGLIELMO OBERDAN – TRIESTE DIETRO I NOSTRI ...

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<strong>LICEO</strong> <strong>SCIENTIFICO</strong> <strong>GUGLIELMO</strong> <strong>OBERDAN</strong> <strong>–</strong> <strong>TRIESTE</strong><br />

<strong>DIETRO</strong> I <strong>NOSTRI</strong> OCCHI<br />

PROGETTO CINEMA 2011/2012<br />

► GIOVEDì 26 aprile, ore 14.20, AULA MAGNA del <strong>LICEO</strong> / LABORATORIO DI LINGUE, II piano<br />

L’UOMO CHE VERRÀ<br />

Regia: GIORGIO DIRITTI<br />

Sceneggiatura: Giorgio Diritti, Giovanni Galavotti, Tania Pedroni<br />

Produzione, Durata: Italia 2009, 117’<br />

Interpreti: Alba Rohrwacher, Maya Sansa, Claudio Casadio, Greta Zuccheri Montanari, Stefano<br />

Bicocchi, Eleonora Mazzoni, Orfeo Orlando, Diego Pagotto, Tom Sommerlatte, Bernardo Bolognesi,<br />

Stefano Croci, Zoello Gilli, Germano Maccioni, Timo Jacobs, Thaddaeus Meilinger, Francesco<br />

Modugno, Maria Grazia Naldi, Laura Pizzirani, Frank Schmalz, Raffaele Zabban<br />

Inverno, 1943. Martina, unica figlia di una povera famiglia di contadini, ha 8 anni e vive alle pendici<br />

di Monte Sole. Anni prima ha perso un fratellino di pochi giorni e da allora ha smesso di parlare. La<br />

mamma rimane nuovamente incinta e Martina vive nell'attesa del bambino che nascerà, mentre la<br />

guerra man mano si avvicina e la vita della comunità diventa sempre più difficile, stretta com’è fra<br />

le brigate partigiane del comandante Lupo e l'avanzare dei nazisti. Nella notte tra il 28 e il 29<br />

settembre 1944 il bambino viene finalmente alla luce. Quasi contemporaneamente le SS<br />

scatenano nella zona un rastrellamento senza precedenti, che passerà alla storia come la strage di<br />

Marzabotto.<br />

Alle pendici di Monte Sole, sui colli appenninici vicini a Bologna, la comunità agraria locale vede i propri<br />

territori occupati dalle truppe naziste e molti giovani decidono di organizzarsi in una brigata partigiana. Per<br />

una delle più giovani abitanti del luogo, la piccola Martina, tutte quelle continue fughe dai bombardamenti<br />

e quegli scontri a fuoco sulle vallate hanno poca importanza. Da quando ha visto morire il fratellino<br />

neonato, Martina ha smesso di parlare e vive unicamente nell'attesa che arrivi un nuovo fratellino. Il<br />

concepimento avviene in una mattina di dicembre del 1943, esattamente nove mesi prima che le SS diano<br />

inizio al rastrellamento di tutti gli abitanti della zona.<br />

Per raccontare la strage di Marzabotto, nella quale vennero uccisi circa 770 paesani radunati nelle case, nei<br />

cimiteri e sui sagrati delle chiese, Giorgio Diritti si affida [...] al punto di vista di Martina, che si congiunge e<br />

si scambia con quello di tutte le vittime della strage. Per rendere questa idea, Diritti riscopre la fluidità delle<br />

immagini e, lontano dal facile realismo delle immagini sgranate girate con macchina a mano, costruisce<br />

scene a volte statiche e a volte in movimento, inquadrature fisse e piani sequenza, ma sempre modulati in<br />

funzione dei movimenti e delle emozioni della comunità rurale. La funzione patemica si concede un solo,<br />

brevissimo ralenti durante la scena dell'esecuzione, e delega il suo lavoro a delle semi-soggettive a lunga e<br />

media distanza dall'evento. La "visione con" di queste inquadrature diviene "con-divisione" di punti di vista<br />

e di emozioni sulla tragedia: dietro a quelle nuche che affiorano dai margini delle inquadrature fino ad<br />

occludere la visibilità degli scontri, c'è il progetto di una personificazione dello sguardo nella strage, l'idea<br />

che dietro ad ognuna di quelle morti ingiustificabili ci sia sempre un corpo e un punto di vista. Sguardi nella<br />

tragedia che si fanno sguardi sulla tragedia, per il modo in cui questo visibile parziale richiede il nostro


coinvolgimento ottico ed emotivo. La distanza che fin dall'inizio pone l'antico dialetto bolognese si annulla<br />

così grazie alle scelte di messe in scena di Diritti, che elabora un modo di vedere la guerra dove non c'è<br />

bisogno di suddivisioni manichee o di una crudeltà pittoresca per comprendere da che parte stare. Per<br />

capire che i "partigiani" di oggi sono quelli che sanno collocare il proprio sguardo sul passato in prospettiva<br />

di un futuro pacifico di condivisione che ci riguarda tutti.<br />

(E. Becattini, http://www.mymovies.it/film/2009/luomocheverra/)<br />

Sceglie lo sguardo puro di una bambina di otto anni Giorgio Diritti per raccontare ne L'uomo che<br />

verrà la sua versione della strage di Marzabotto, l'eccidio di 770 civili perpetrato dalle truppe<br />

naziste tra il 29 settembre e il 5 ottobre del 1944 ai danni degli abitanti di Monte Sole e dintorni, a<br />

pochi chilometri a sud di Bologna. [...]<br />

Le parole lasciano il posto alle immagini e alle sensazioni, sviando la ricerca di enfasi, andando<br />

invece a scavare con grande discrezione nell'umanità di coloro che in una guerra non hanno voce.<br />

Oltre ai primi piani che raccontano un lamento sommesso che conserva sempre dignità, il regista<br />

privilegia il campo lungo che incornicia uomini e natura per dar conto di uno sguardo acerbo che si<br />

posa su un mondo da sogno caduto in un incubo. (http://www.movieplayer.it/film/articoli/lo-sguardopuro-sulla-strage_6271/)<br />

La Seconda Guerra Mondiale è un soggetto talmente abusato da far chiedere all’appassionato di<br />

cinema cosa ci sia ancora da raccontare, in che modo si possa interessare lo spettatore con storie<br />

che sono oramai ampiamente conosciute. Giorgio Diritti, regista dell’ottimo Il Vento Fa il Suo Giro,<br />

dimostra invece che, per virtù di stile, si può trovare un modo originale e concreto di fare Storia<br />

attraverso le storie. In apparenza un film bellico sulla strage di Marzabotto, in realtà un dramma<br />

umano e contadino, scritto dal regista con Giovanni Galavotti e Tania Pedroni ispirandosi a Olmi e<br />

Taviani cercando di togliere il racconto storico dalle fauci della drammaturgia retorica (Miracolo a<br />

Sant’Anna, S. Lee).<br />

Nel raccontare uno degli episodi più infami del conflitto in Italia, il film si fonda sull’attesa e<br />

sull’avvento <strong>–</strong> come fa intuire il titolo <strong>–</strong> come stato d’animo di un’intera comunità, raccontando i<br />

gesti quotidiani e umani, centrando lo sguardo su una famiglia che si straccia con l’arrivo della<br />

disumanità bellica e che mostra il percorso di un’unità (anche nazionale) distrutta fino<br />

all’isolamento e alla disperazione. Diritti, che fa recitare tutti in dialetto bolognese montano,<br />

mostra un’alta moralità etica ed estetica, «racconta la morte attraverso la vita, la cattiveria<br />

attraverso la bontà» (come ha scritto Maurizio Ermisino) e struttura i suoi film sul rapporto tra<br />

avvicinamenti e allontanamenti, tracciando il crescendo emotivo in modo lento e magistrale,<br />

costellando il film di poesia (le lucciole) e attenzione alla realtà.<br />

La sceneggiatura prende come schema quello della “diaspora” di una famiglia come metafora di<br />

un tempo e di un mondo e si arricchisce di tante piccole sfumature rese concrete ed emotive dalla<br />

regia, che sceglie la visione parziale (la scena della strage) e la soggettiva come chiavi di<br />

comprensione di un mondo che si vorrebbe comprendere e che invece sfugge allo sguardo. Un<br />

film di grande onestà e intensità, a volte più difficile e faticoso, ma che anche attraverso l’uso di<br />

attrici (Maya Sansa e Alba Rohrwacher) e attori poco noti, dimostra l’attenzione e il talento di un<br />

autore che sa aprirsi alle sfumature della realtà osservandola nella maniera più intensa e poetica<br />

possibile. (http://www.cinefile.biz/?p=15663)


L'uomo che verrà all'Aniene Film Festival<br />

http://www.schermaglie.it/primopiano/1443/luomo-che-verra<br />

di Fabrizia Brandoni, Giorgio Sena e con il contributo prezioso di Carlo Seravalli<br />

In occasione dell'Aniene Film<br />

Festival ripubblichiamo lo speciale su L'uomo che verrà di Giorgio Diritti.<br />

Quando siamo andati a vedere il film di Giorgio Diritti, L’uomo che verrà, credevamo, un po’ sorpresi,<br />

visti i tempi, di andare a vedere un film sulla resistenza: l’eccidio di Contesole nell’Appennino<br />

emiliano, avvenuto tra il 29 settembre ed il 5 ottobre del ’44 ad opera di un battaglione di SS<br />

comandate dal maggiore Walter Reder, come azione punitiva nei confronti della formazione<br />

partigiana Stella Rossa e della popolazione che l'appoggiava sembravano argomenti che volessero<br />

richiamare una tematica tanto centrale quanto difficilmente indagata attraverso un racconto storico<br />

dal cinema italiano, quella della resistenza e della guerra partigiana appunto. Sorpresi perché oggi,<br />

nella società di cui facciamo parte, poco spingerebbe a rivisitare un periodo che nessuno sente<br />

nemmeno di chiamare più in causa, tanto sembra esecrabile il livello di scontro esplicito che lo ha<br />

attraversato, tanto incomprensibile il contesto storico che lo ha mosso e determinato.<br />

Usciti dal cinema ci interroghiamo su come definire l’oggetto di un film, che decisamente, pur<br />

raccontandoci la vicenda subita dai piccoli comuni dell’Appennino bolognese durante l’occupazione<br />

tedesca in Italia, pur mostrando momenti di guerra partigiana, “non parla della<br />

resistenza”. Per cercare di esprimere quello<br />

che la visione della pellicola ci ha trasmesso, due aspetti sembrano focalizzare la nostra attenzione: il<br />

contesto indagato ed il punto di vista prescelto.


Il film si concentra nella ricostruzione accurata di un microcosmo, una fattoria di mezzadri<br />

dell’Appennino emiliano abitata da una famiglia numerosa, tutta concentrata a portare avanti la<br />

propria sopravvivenza attraverso i propri tradizionali meccanismi di riproduzione: tutta la scena<br />

allora, specialmente nella prima parte, è dedicata alla rappresentazione minuziosa di questo universo<br />

contadino, delle sue attività quotidiane, dei suoi rapporti personali. Attraverso questa lente di<br />

ingrandimento, la realtà contadina di Montesole appare piena, gonfia di vita, dura, ma dotata di<br />

senso, di regole e meccanismi chiari e funzionali, di un suo equilibrio e una sua necessità: è un<br />

mondo, una dimensione faticosa, ma reale, comprensiva di tutto l’orizzonte dell’umanità che ne fa<br />

parte. È la compattezza di questo mondo che si impone a chi guarda, quello sembra essere il centro<br />

dell’interesse del regista. Accade poi che questo mondo venga attraversato da un evento esterno,<br />

forte, traumatico e repentino, con tempi, ritmi, logiche diverse da quelle conosciute e praticate in<br />

una dimensione che è sempre storia, ma in confronto ben più lenta, fatta di orizzonti più immediati e<br />

concreti, un evento con cui però non si può non fare i conti: l’occupazione nazista e la conseguente<br />

resistenza partigiana.<br />

Ebbene, questa nuova situazione penetra certo, ma non sconvolge i ritmi, le abitudini, le necessità del<br />

mondo contadino che ci viene raccontato: si cerca di sopravvivere rimanendo ancorati alla propria<br />

quotidianità, a ciò che si conosce e si sa fare bene, la ricerca della propria sopravvivenza, di se stessi e<br />

della propria corposa e autosufficiente realtà, sembra essere il movente fondamentale che muove le<br />

azioni, i comportamenti della famiglia. La sopravvivenza è istintiva, fatta di scelte e comportamenti<br />

saggi e necessari, non legata ad una reale presa di coscienza: coloro che questa scelta di<br />

consapevolezza dovrebbero averla fatta, i partigiani, sono una presenza episodica, e non sempre<br />

chiara e rassicurante. Appaiono poco, sembrano un po’ dei fantasmi confusi e indeboliti, piuttosto<br />

che l’espressione di un sentimento di appartenenza e di libertà condivisa. Quando gli si dà spazio, le<br />

loro divergenze sembrano dettate più da disorganizzazione ed endemica litigiosità, piuttosto che da<br />

un confronto tra strategie differenti, le loro azioni appaiono appiattite su una strategia bellica di cui<br />

non sono gli artefici (la ritirata dopo l’imboscata, sebbene coerente con la strategia della guerriglia<br />

irregolare partigiana è motivata dalla direttiva del comando alleato, cui non si può disattendere), le<br />

loro parole, i loro comportamenti verso la popolazione ne tradiscono le difficoltà, l’incapacità di<br />

spiegare fino in fondo le loro ragioni, che dovrebbero essere quelle di tutti ed invece non riescono ad<br />

esserlo fino in fondo (come accade per esempio quando vanno a rifornirsi di cibo, promettendo di<br />

risarcire tutto alla fine della guerra, e devono confrontarsi con l’esasperazione dei contadini: “Prima<br />

vengono i tedeschi a portarci via tutto, ora voi…”), perché l’adesione alla causa, l’appoggio da parte<br />

della popolazione, pur presente, non sono per questa valori assoluti, ma si mescolano alla necessità<br />

primaria di portare avanti la quotidianità: la dimensione generale e quella individuale, personale,<br />

non facilmente riescono a


sintetizzarsi. Ed è proprio qui, nella rappresentazione<br />

del confronto tra questi due universi, la guerriglia e la quotidianità, che il film sembra proporre<br />

qualcosa, condivisibile o meno, di significativo: cosa ne pensa, come reagisce la comunità contadina,<br />

su cui è concentrato lo sguardo del regista, alla violenza, allo sconquasso che bussa, loro malgrado,<br />

alla porta di quella che, fino a quel momento, è stata una delle tante periferie del mondo? Proprio il<br />

punto di vista narrativo, scelto dall’autore per raccontare la vicenda, può diventare centrale per<br />

provare a rispondere a questo interrogativo: lo sguardo infantile, qui quello sensibile ed intelligente<br />

di una bambina muta, protagonista dell’intera vicenda, non è, come spesso accade, un meccanismo<br />

straniante, un modo per costruire una voluta distanza (pensiamo ad esempio al Pin de Il Sentiero dei<br />

nidi di ragno) o uno strumento catartico (attraverso la purezza e l’ingenuità): il punto di vista della<br />

bimba Martina, espresso chiaramente nelle pagine di un suo tema che l’insegnante legge<br />

preoccupata alla madre (i tedeschi sembrano umani, anche se non sanno parlare, e non si capisce<br />

perché non rimangono a casa dalle loro famiglie, ne avranno anche loro! I ribelli vestono e parlano<br />

come noi, e perciò sono “i nostri”… Esistono alcuni che si chiamano “alleati", ma da queste parti non si<br />

sono mai visti), potrebbe, nel suo grado semplificato di coscienza politica, rappresentare quello di<br />

tutta la comunità che ci viene raccontata. Proprio per quella non pacificata osmosi tra generale e<br />

particolare, e proprio perché quel generale non è rassicurante, sicuro, in grado di coinvolgere come<br />

dovrebbe, il film più che narrare la guerra vista da una bambina, narra la guerra vista da un mondo<br />

bambino in quanto non pienamente consapevole e distante dalla grande storia (si pensi ad esempio a<br />

come, non diversamente dalla disponibilità ingenua dei bambini infatti, fino a che la brutalità non si<br />

fa manifesta, la gente del paese ha un comportamento non così differenziato verso gli uomini in<br />

divisa, a sottolineare che la divisione “nemici” / “nostri”, può venire spesso sostituita dall’impressione<br />

che in ogni caso si tratti di “uomini”, come quando, dopo aver curato il partigiano ferito, i paesani<br />

dividono il frugale pasto con alcuni gentili soldati tedeschi).<br />

La stessa difficoltà nel districarsi all’interno di quello che succede, ci viene rappresentata in maniera<br />

bruciante nel momento in cui Martina si confronta smarrita con la brutalità della violenza, ancor più<br />

devastante perché è violenza dei “nostri” essendo testimone della fucilazione estemporanea di un<br />

tedesco ad opera dei partigiani (e nel suo sguardo potrebbero forse trapelare le parole conclusive di<br />

La casa in collina, in cui il protagonista, che non ha avuto la forza di unirsi alla guerriglia, di<br />

partecipare a nessuna azione organizzata, di fronte alla guerra che dilaga intorno a lui e al suo<br />

mondo, riflette che ogni morto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione. Ecco: proprio la ragione di


quella violenza, quella per cui alla fine “si può scavalcare un morto”, riuscendo ad accettare e a<br />

superare l’azione appena fatta, perché se ne comprende la necessità, ecco proprio questa sembra<br />

vacillare, è fioca e debole nella rappresentazione del film). Che poi la mobilitazione della popolazione<br />

debba giocarsi su un piano concreto, immediato, legato all’invasione e alla difesa della propria terra,<br />

del proprio podere, senza che questo debba tradursi in un disegno più complessivo, sembra averlo in<br />

parte chiaro la stessa banda organizzata del comandante Lupo che non vuol saperne di politica, e i cui<br />

membri vengono chiamati dai paesani significativamente ribelli, mai partigiani, a ribadire<br />

un’opposizione vista e vissuta in primo luogo come rivolta spontanea, come risposta immediata,<br />

istintiva all’occupazione subita.<br />

Questo sotterraneo e non lineare tratto di confine tra il mondo interno, la piccola comunità, e il fuori,<br />

la guerra devastante tra eserciti contrapposti, i dubbi e le difficoltà che questo contatto mette in<br />

campo, sembra approfondirsi ancora di più quando si consuma l’eccidio vero e proprio: certo, in<br />

questo caso l’uguaglianza di cui si parlava prima, la condivisa umanità tra tedeschi e partigiani viene<br />

messa in discussione, in questa occasione i soldati della Wehrmacht sono molto più simili al ritratto<br />

che tradizionalmente ne viene fatto, spietati dispensatori di violenza gratuita, praticata in maniera<br />

cieca e assurdamente infantile (la possibilità, nel bel mezzo dello sfogo omicida, di poter desiderare di<br />

salvare qualcuno tra quelli che si stanno annientando poiché “somiglia a mia moglie”). Ma dall’altra<br />

parte… dove sono i partigiani? Il montaggio delle sequenze, la grande attenzione con cui viene<br />

rappresentato lo sterminio della popolazione della valle, con un punto di vista di nuovo tutto interno<br />

al gruppo di abitanti vittima della vendetta, di contro all’assenza di immagini che ci raccontino che<br />

cosa, in quegli stessi momenti, la guerriglia antinazista poco prima vittoriosa stia facendo e provando,<br />

insinua, implicitamente, mille domande sul ruolo di questa. La forza brutale della reazione tedesca, di<br />

fronte all’azione antinazista (mostrata significativamente da lontano, per campi lunghi e medi,<br />

attraverso brevi sequenze, e che si risolve alla fine in una ritirata, ma non prima di aver osservato<br />

appunto da lontano, con i binocoli, ciò che sta intanto avvenendo dall’altra parte della montagna), la<br />

quasi assenza dei partigiani sulla scena e la loro repentina fuga sembra strutturata proprio per<br />

indurre qualche pesante e difficile interrogativo (c’era un’esigenza reale di quella liberazione, visto il<br />

duro prezzo che comporta di fronte alla feroce reazione degli occupanti?). Non a caso il film è<br />

dedicato a tutte “le vittime innocenti di guerre che non hanno voluto”, non, per dire, “a tutti coloro<br />

che hanno combattuto contro l’oppressione”: la vera e interessante, per quanto dolorosa e faticosa,<br />

proposta del film sembra risiedere proprio nella possibilità di rappresentare un momento<br />

importantissimo della guerra di occupazione in Italia, senza riempirla di tensione politica, quella cui<br />

almeno la più significativa letteratura della resistenza faceva riferimento senza cadere in facili<br />

celebrazioni. La brigata del capitano Kim de Il sentiero dei nidi di ragno è anticelebrativa per<br />

definizione, al suo interno arrancano personaggi marginali, arrivati in montagna attraverso le strade<br />

più diverse e spesso non nobili. Eppure, nella loro vicenda, Calvino fa trapelare continuamente<br />

l’istanza di riscatto che, pure confusamente, li muove, li sottende; così come negli incontri di Johnny,<br />

il partigiano di Fenoglio la cui vicenda nella guerra di resistenza è prima una ricerca esistenziale che<br />

politica, la varia umanità rappresentata si trova in mezzo a qualcosa che, anche se in maniera confusa<br />

e contradditoria, spinge quasi per forza verso una visione complessiva di ciò che si muove. L’idea che<br />

quando la storia è esplosa nella nostra quotidianità, tutti in qualche modo vi abbiamo fatto i conti in<br />

maniera non individuale, abbiamo scoperto una dimensione collettiva ed un livello ulteriore di<br />

coscienza (esemplare a questo proposito è la vicenda di Alberto Sordi in Tutti a casa), che ci fosse


un’organizzazione diffusa in grado di raccogliere e dare slancio alle esigenze materiali della<br />

popolazione assediata, questa idea viene nel film fortemente ridimensionata.<br />

In questo senso il lavoro di Diritti, nella ricostruzione storica di quel passato, sembra in realtà essere<br />

profondamente moderno (come ogni espressione artistica del resto); sembra portarsi dietro la<br />

difficoltà che oggi scontiamo di immaginare una società pervasa di partecipazione, attraversata da<br />

trasformazioni che la aprono all’esterno, piuttosto che farla ripiegare o rimanere dentro se stessa<br />

(come avviene un po’ alla famiglia rappresentata, che rimane tenacemente accogliente,<br />

dignitosamente viva, ma sempre all’interno dei suoi equilibri, nel perimetro delle sue certezze). Ed in<br />

questo rendere conto di un punto di vista meno esaltante, più ridotto e precario, fortemente<br />

concreto, più istintivamente umano, (più saldamente “locale”), sta probabilmente anche la sua forza,<br />

la sua capacità di arrivare, di parlarci oggi.<br />

Così, usciti dal cinema, il film induce molte domande, spinge a chiederci, a voler comprendere meglio<br />

che cosa quel momento ha significato in termini di partecipazione e di costruzione di una comunità<br />

condivisa, in che modo può essere portata avanti una lettura progressiva di quel periodo. E tornando<br />

al discorso iniziale lo stupore per l’argomento del film si è trasformato in conferma, in<br />

consapevolezza che, il cinema, come nient’altro del resto, non sfugge alla realtà: questa è, nel bene e<br />

nel male, la resistenza che i nostri tempi sanno immaginare.

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