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Lo scorso giugno sono stati attribuiti i Premi della XLII edizione del concorso Istria Nobilissima, che hanno dato una nuova conferma dei potenziali creativi del gruppo nazionale italiano nei campi dell’arte e della cultura. Ritenendo che di tali potenziali debba fruire il maggior numero di lettori nelle pagine riservate alle letture, “Panorama” propone le opere a cui siano stati attribuiti premi o menzioni. Nella sezione “Prosa in lingua italiana” la giuria ha assegnato la menzione onorevole a MARIO SCHIAVATo di Fiume. Il titolo del racconto, di cui pubblichiamo la prima parte, è ”Ritorno a Midian”. 34 Panorama Letture «Ritorno a Midian» I Marco, di buon mattino, dopo quasi sei mesi dal pensionamento, con uno zaino sulle spalle e un borsone in mano, a Zagabria salì su un autobus e se ne stette immobile sprofondato nel sedile, gli occhi smarriti nel vuoto. Quanti affanni gli turbinavano nell’animo anche quella mattina perché con la partenza aveva finalmente deciso di innalzare un muro su tutte le indecisioni, le ansie, le paure e gli scoramenti che, soprattutto negli ultimi tempi, lo avevano tanto abbattuto, angustiato, spesso sconvolto. Voleva uscire da quel tunnel e dimenticare. Tutto. Proprio tutto! In primo luogo l’ufficio e tutto quanto all’ufficio era legato: quelle albe dopo le troppo lunghe notti insonni quando la sveglia suonava, lui spegneva la suoneria, si girava dall’altra parte, s’addormentava finalmente, ma dopo un po’ apriva gli occhi e scopriva di avere solo poco tempo per alzarsi, lavarsi, vestirsi e correre in banca; poi la noia fetida di tutti quegli anni trascorsi, dei giorni tutti uguali tra l’indifferenza di quanti gli stavano attorno intruppati di scrivania in scrivania a sbadigliare e a deriderlo; quindi i vigliacchi intrighi del caposezione che, per poter passare da comandante di sei impiegati a quello di quindici esseri indolenti e rassegnati, non faceva che scorrazzare in cerca di dirigenti bisognosi di servi tonti, meglio di leccaculi e appena poteva per delle stupidaggini lo rimproverava, lo umiliava davanti a tutti, lui, l’istarski talijančić che alle volte nel parlare sbagliava qualche desinenza; voleva dimenticare anche gli ordini ed i contrordini ai quali aveva dovuto sempre adeguarsi senza mai protestare, l’aver sgobbato tre volte più del necessario sforzandosi da un lato di portare a termine i compiti affidatigli - sempre per orgoglio e per assurdo spirito di disciplina, non perché credesse all’utilità di quel che faceva o ne aspettasse qualche vantaggio personale -, dall’altro di evitare le piccole furberie e le viltà indispensabili per poter rimanere a galla, per difendersi dall’invidia e dall’ostilità degli altri. Perfino quando comprese che il far carriera non era cosa che gli si addicesse, che doveva accontentarsi di effettuare solo dei lavori esecutivi, trovò la forza di rinunciare ai modesti gradi che a volte gli concedevano, continuando però a soffrire moralmente per le ingiustizie e per i cento piccoli soprusi fatti a lui ed agli altri, per lo spettacolo delle teste vuote, dei prepotenti, dei ciarlatani e degli intriganti che troppo spes- so salivano in alto. Sì, doveva proprio mettere nel dimenticatoio tutta quella sua lunga vita fatta di niente, vuota, piatta, rassegnata seguita ai primi entusiasmi, ai primi fervori, quel suo degradare giorno per giorno dallo zelo verso il disinteresse, verso l’indifferenza, e alla fine, quella sua esistenza ancora più vuota, vacua, seguita al pensionamento, le giornate senza fine passate girovagando per la casa in ciabatte e mutande, il non saper dove andare e cosa fare, i pranzi e le cene solitari consumati con la mente persa, i libri che una volta aveva tanto amato, che tentava di leggere e non riusciva a seguire. E poi voleva soprattutto dimenticare quella che era stata la sua vita con la Dora che in un certo modo lo aveva costretto a rimanere a Zagabria, quei tanti amori all’inizio, certo grandi amori, l’entusiasmo, la passione e la tenerezza almeno da parte sua, quel matrimonio fatto in fretta e senza pretese d’accordo, ma molto intimo e tenero, quindi da parte di lei la non desiderata nascita di figli, quel tempestarlo di pugni sulla schiena, il non lasciarlo finire se qualche volta facevano l’amore per i due aborti uno dietro l’altro che lei aveva deciso ed in seguito i rancori, le recriminazioni, l’animosità che pian piano erano finiti nell’indifferenza, nell’astio, nel livore, nell’odio. La rivedeva cento volte al giorno, spettinata, arrabbiata, acquattata nel suo malanimo, cento volte al giorno risentiva le sue invettive, le sue minacce, le sue sfuriate, anche il suo disprezzo e, alla fine, per sua fortuna, il definitivo delirio, quando dopo anni di liti furiose, spesso con rottura di piatti e di bicchieri, aveva impacchettato non soltanto la sua roba, aveva fatto caricare il tutto su un furgone e, sbattendo la porta, se n’era andata finalmente a far ammattire, lui lo aveva capito da qualche tempo che esisteva, un altro disgraziato come lui. Adesso che tutto era finito doveva ammettere che troppo spesso era stato un codardo, un remissivo, qualche volta persino un vile sia nei rapporti con l’ufficio che con la Dora. Molto difficili, inquieti, erano stati poi tutti quegli ultimi mesi chiuso in casa. Non usciva più. Ogni tanto metteva la testa fuori dalla finestra, vedeva il cielo azzurro deserto di nubi, immaginava campi, boschi, vigne, olivi e pietraie, fiutava i profumi e gli pareva di percepire quello del cotogno, del ginepro, del timo, anche del letame. Gli odori della sua infanzia. Allora gli occhi gli si riempivano di lacrime, singhiozzava premendosi una mano sulla bocca, ma non sapeva decidersi ad andarsene. Non ci riusciva. Spesso sdraiato sulla malconcia poltrona sfondata

ascoltava l’assordante rotolare dei motori, gli scoppi delle motociclette sulla strada, la musica a tutto volume dei vicini screanzati, teneva un libro aperto in mano e non riusciva a leggere una sola parola, sfinito rimaneva lì, a braccia e gambe spalancate come un sacco vuoto senza neanche poter connettere. Davvero tanti giorni di noia, di accidia, di completa solitudine, raramente a finestre spalancate per poter catturare - almeno quelli - i pochi fili di vento e le illusioni di frescure serali e se qualche volta nel radersi la barba si guardava allo specchio avrebbe voluto essere un altro per dimenticare quel livore che sentiva e vedeva dentro di sé. Usciva di sabato, solo di sabato mattina per la spesa. Se incontrava qualcuno sulle scale salutava, ma nessuno gli rispondeva. Allora imparò ad imboccarle e scenderle senza reggersi al corrimano, lentamente, a testa alta, pallido, fiero, teso, magari guardando in viso la gente ma mostrando con evidenza che non vedeva nessuno, che il suo sguardo era perso altrove. Nel negozio più vicino andava a comperare pane, formaggio, mortadella, salsiccia da lasciar sfrigolare per ore nel fornetto che a suo tempo la Dora aveva preteso e che era già pieno di unto e di grasso mentre la puzza si diffondeva attorno, fino giù per le scale. Dopo un lungo tempo di quelle salsicce, di quella mortadella, di quel riso scondito, di quella pasta mezzo cruda, anche di vomiti e di diarree, un medico vicino di casa, una giovane pietosa dai grandi occhi tristi, incontrandolo per caso sul portone lo aveva fermato, gli aveva detto che era diventato uno straccio, che sembrava un barbone deperito, emaciato, che sì, sicuramente non aveva malattie, ma soltanto paura, paura di uscire da quella sua prigione. Gli disse ancora che aveva bisogno di una vacanza, di una lunga vacanza. Perciò doveva uscire più spesso, muoversi da quella sua apatia, incontrare qualche amico, recarsi fuori della città, immergersi nella natura, respirare aria buona, parlare con la gente, mangiare decentemente, scherzare talvolta, anche bere qualche bicchiere di vino. Fu appunto dopo quell’incontro che una notte, dopo essersi rivoltato a lungo nel letto, finalmente decise: doveva andare nella vecchia casa dei nonni nella stanzia di Midian, il villaggetto sperduto in quell’Istria che non aveva mai dimenticato, che era continuamente nei suoi sogni, la chiave ruggine conservata come una reliquia nel borsello che il padre alla sua morte gli aveva lasciato assieme al suo vecchio orologio. Si disse: certo, sarò solo anche lì, ma libero finalmente. Se la gente del posto mi cucirà addosso una figura, non potrà essere che di straniero il quale arriva per chiedere la carità di una piccola attenzione, di un saluto, di una parola buona, ma comunque sarò un uomo tra gli uomini. Ad un tratto, mentre steso sul sedile dell’autobus se ne stava con gli occhi socchiusi, gli parve di sentire il ronzio di un calabrone, poi il cinguettio degli uccelli, il verso del cuculo, il frinire di cicale, lo sbattere del picchio, di vedere lo snodarsi del viottolo che portava alla stanzia e, una volta arrivato sotto il grande gelso che sorgeva all’inizio dell’abitato, di sentire le voci acute delle donne che dalle finestre chiamavano i figli, anche il belare delle pecore, il ragliare degli asini, i muggiti delle vacche e dei manzi. Pure le bestemmie degli uomini. E fu così che su quell’autobus che filava veloce, dopo tante notti disperatamente insonni, s’addormentò. Un sonno profondo il suo, mentre la grande città spariva pian piano alle spalle, tutti i quartieri moderni, le enormi muraglie degli insulsi dormitori come il suo sparivano, si perdevano nel magico, fantastico verde della periferia dapprima e poi della campagna. Letture Dormì a lungo. Si svegliò e si riaddormentò più volte finché, dopo parecchie ore, uno scossone lo destò definitivamente. Allora strabuzzando gli occhi pulì gli occhiali con l’orlo della camicia, se li si sistemò sul naso, con la mente ancora annebbiata seguì per qualche tempo oltre il finestrino l’alternarsi dei dossi, delle dolinette, dei boschi di querce già di colore ruggine, dei campi, dei vigneti, degli oliveti, dell’intrico verdastro della macchia e quello grigiastro delle masere, infinito labirinto di muretti a secco. Dunque era arrivato in Istria e quando ad una svolta gli parve di conoscere i posti e che fosse giunto il momento di scendere, si decise: si alzò, si pose il suo voluminoso zaino sulle spalle, agguantò con una mano il borsone, si avvicinò timoroso all’autista dell’autobus, lo pregò gentilmente e quello quasi subito, un po’ brontolando, fermò l’automezzo ormai pressoché vuoto su una piazzola che s’allargava accanto alla strada. Così egli, per la verità un po’ a fatica, poté scendere prima ancora di arrivare a Dignano, proprio a due passi dal bivio per Gajan; alzò una mano in segno di saluto - hvala, grazie sior sofer, so ben che qua no’ xe stazion, hvala lijepa dovidjenja - scrollò un po’ le spalle per aggiustarsi il pesante carico e quindi, soprappensiero ma sollevato, soddisfatto, respirando a pieni polmoni s’avviò lentamente per il viottolo che si defilava tra due grosse masere, viottolo pietroso che avrebbe dovuto portarlo, non ne era molto sicuro comunque perché gli parve un po’ troppo curato, allargato, a quella stanzia Midian dove appunto sorgeva anche la vecchia casa della sua famiglia. Quei due poderosi muri a secco che si perdevano avanti, erano quasi soffocati da ammassi di sterpi, da rovi spinosi, da fitti ginepri, da ginestre, da biancospini carichi di bacche olivastre. In alto planavano i corvi neri e sotto, tra il fogliame marcio, qualche merlo zampettava, raspava indaffarato in cerca di chissà quali delizie. Anche se non era tornato da tanto da quelle parti, come avanzava gli parve di riconoscere ogni tratto del viottolo che s’inoltrava tra i troppi vedorni, i maggesi trascurati, tra oliveti abbandonati, tra qualche vigneto con i filari di viti dai tralci coperti da foglie rossastre, tra campetti di erba spagna ormai secca, tra grumassi di pietrame con, in un canto, qualche decrepita casita col tetto mezzo sfondato. Più avanti, ne era sicuro, il viottolo doveva infilarsi nella macchia stracolma di cespugli di cornioli e di ginepri, poi svoltare ad un bivio per Peroi prima e per Valmadorso e Santa Fosca dopo, quindi allungarsi dritto per un lungo tratto fino alla vecchia chiesa mezzo diroccata di San Tomà di Gusan per raggiungere il grosso gelso col tronco da un lato rivestito di muschio e quindi le poche case tutte affacciate in fila. Finiva quel viottolo in un altro più stretto e lungo che portava verso le rovine del castelliere di Mandriol dove quand’era ragazzo, durante le lunghe vacanze dell’estate, andava con gli amici Gigi e Ninetto a scovare i ramarri ma anche gli spiriti che - a detta delle comari chiacchierone sedute di sera sugli scagni davanti l’uscio di casa a prendere il fresco - nelle giornate di bora sospiravano, gemevano disperati, poveracci, forse anche perché ormai da secoli erano ridotti senza un tetto sulla testa. Su tutto quell’indimenticabile panorama - che Marco con grande nostalgia e anche con commozione ritrovò intatto - in quella stagione sovrastava un verde succhiato da una estrema umidità, un verde già polveroso, secco, grigio come l’erba del viottolo che lentamente lo accompagnava, avanti e avanti. E lui faceva un po’ di fatica a procedere, perché era cosparso di pietre, pietre frantuma- Panorama 35

Lo scorso giugno sono stati attribuiti i Premi della<br />

XLII edizione del concorso Istria Nobilissima, che<br />

hanno dato una nuova conferma dei potenziali creativi<br />

del gruppo nazionale italiano nei campi dell’arte<br />

e della cultura. Ritenendo che di tali potenziali debba<br />

fruire il maggior numero di lettori nelle pagine riservate<br />

alle letture, “<strong>Panorama</strong>” propone le opere a cui<br />

siano stati attribuiti premi o menzioni.<br />

Nella sezione “Prosa in lingua italiana” la giuria<br />

ha assegnato la menzione onorevole a MARIO<br />

SCHIAVATo di Fiume. Il titolo del racconto, di cui<br />

pubblichiamo la prima parte, è ”Ritorno a Midian”.<br />

34 <strong>Panorama</strong><br />

Letture<br />

«Ritorno a Midian»<br />

I<br />

Marco, di buon mattino, dopo quasi sei mesi dal pensionamento,<br />

con uno zaino sulle spalle e un borsone in mano, a Zagabria<br />

salì su un autobus e se ne stette immobile sprofondato<br />

nel sedile, gli occhi smarriti nel vuoto. Quanti affanni gli turbinavano<br />

nell’animo anche quella mattina perché con la partenza<br />

aveva finalmente deciso di innalzare un muro su tutte le<br />

indecisioni, le ansie, le paure e gli scoramenti che, soprattutto<br />

negli ultimi tempi, lo avevano tanto abbattuto, angustiato,<br />

spesso sconvolto. Voleva uscire da quel tunnel e dimenticare.<br />

Tutto. Proprio tutto!<br />

In primo luogo l’ufficio e tutto quanto all’ufficio era legato:<br />

quelle albe dopo le troppo lunghe notti insonni quando la<br />

sveglia suonava, lui spegneva la suoneria, si girava dall’altra<br />

parte, s’addormentava finalmente, ma dopo un po’ apriva gli<br />

occhi e scopriva di avere solo poco tempo per alzarsi, lavarsi,<br />

vestirsi e correre in banca; poi la noia fetida di tutti quegli<br />

anni trascorsi, dei giorni tutti uguali tra l’indifferenza di quanti<br />

gli stavano attorno intruppati di scrivania in scrivania a sbadigliare<br />

e a deriderlo; quindi i vigliacchi intrighi del caposezione<br />

che, per poter passare da comandante di sei impiegati a quello<br />

di quindici esseri indolenti e rassegnati, non faceva che scorrazzare<br />

in cerca di dirigenti bisognosi di servi tonti, meglio di<br />

leccaculi e appena poteva per delle stupidaggini lo rimproverava,<br />

lo umiliava davanti a tutti, lui, l’istarski talijančić che<br />

alle volte nel parlare sbagliava qualche desinenza; voleva dimenticare<br />

anche gli ordini ed i contrordini ai quali aveva dovuto<br />

sempre adeguarsi senza mai protestare, l’aver sgobbato tre<br />

volte più del necessario sforzandosi da un lato di portare a termine<br />

i compiti affidatigli - sempre per orgoglio e per assurdo<br />

spirito di disciplina, non perché credesse all’utilità di quel che<br />

faceva o ne aspettasse qualche vantaggio personale -, dall’altro<br />

di evitare le piccole furberie e le viltà indispensabili per<br />

poter rimanere a galla, per difendersi dall’invidia e dall’ostilità<br />

degli altri. Perfino quando comprese che il far carriera non<br />

era cosa che gli si addicesse, che doveva accontentarsi di effettuare<br />

solo dei lavori esecutivi, trovò la forza di rinunciare ai<br />

modesti gradi che a volte gli concedevano, continuando però a<br />

soffrire moralmente per le ingiustizie e per i cento piccoli soprusi<br />

fatti a lui ed agli altri, per lo spettacolo delle teste vuote,<br />

dei prepotenti, dei ciarlatani e degli intriganti che troppo spes-<br />

so salivano in alto. Sì, doveva proprio mettere nel dimenticatoio<br />

tutta quella sua lunga vita fatta di niente, vuota, piatta, rassegnata<br />

seguita ai primi entusiasmi, ai primi fervori, quel suo<br />

degradare giorno per giorno dallo zelo verso il disinteresse,<br />

verso l’indifferenza, e alla fine, quella sua esistenza ancora più<br />

vuota, vacua, seguita al pensionamento, le giornate senza fine<br />

passate girovagando per la casa in ciabatte e mutande, il non<br />

saper dove andare e cosa fare, i pranzi e le cene solitari consumati<br />

con la mente persa, i libri che una volta aveva tanto amato,<br />

che tentava di leggere e non riusciva a seguire.<br />

E poi voleva soprattutto dimenticare quella che era stata la<br />

sua vita con la Dora che in un certo modo lo aveva costretto<br />

a rimanere a Zagabria, quei tanti amori all’inizio, certo grandi<br />

amori, l’entusiasmo, la passione e la tenerezza almeno da parte<br />

sua, quel matrimonio fatto in fretta e senza pretese d’accordo,<br />

ma molto intimo e tenero, quindi da parte di lei la non desiderata<br />

nascita di figli, quel tempestarlo di pugni sulla schiena,<br />

il non lasciarlo finire se qualche volta facevano l’amore per i<br />

due aborti uno dietro l’altro che lei aveva deciso ed in seguito<br />

i rancori, le recriminazioni, l’animosità che pian piano erano<br />

finiti nell’indifferenza, nell’astio, nel livore, nell’odio. La rivedeva<br />

cento volte al giorno, spettinata, arrabbiata, acquattata<br />

nel suo malanimo, cento volte al giorno risentiva le sue invettive,<br />

le sue minacce, le sue sfuriate, anche il suo disprezzo<br />

e, alla fine, per sua fortuna, il definitivo delirio, quando dopo<br />

anni di liti furiose, spesso con rottura di piatti e di bicchieri,<br />

aveva impacchettato non soltanto la sua roba, aveva fatto caricare<br />

il tutto su un furgone e, sbattendo la porta, se n’era andata<br />

finalmente a far ammattire, lui lo aveva capito da qualche tempo<br />

che esisteva, un altro disgraziato come lui.<br />

Adesso che tutto era finito doveva ammettere che troppo<br />

spesso era stato un codardo, un remissivo, qualche volta persino<br />

un vile sia nei rapporti con l’ufficio che con la Dora. Molto<br />

difficili, inquieti, erano stati poi tutti quegli ultimi mesi chiuso<br />

in casa. Non usciva più. Ogni tanto metteva la testa fuori dalla<br />

finestra, vedeva il cielo azzurro deserto di nubi, immaginava<br />

campi, boschi, vigne, olivi e pietraie, fiutava i profumi e gli<br />

pareva di percepire quello del cotogno, del ginepro, del timo,<br />

anche del letame. Gli odori della sua infanzia. Allora gli occhi<br />

gli si riempivano di lacrime, singhiozzava premendosi una<br />

mano sulla bocca, ma non sapeva decidersi ad andarsene. Non<br />

ci riusciva. Spesso sdraiato sulla malconcia poltrona sfondata

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