L. M. Caliò, E. Lippolis, V. Parisi, C. M. Marchetti - Academia Belgica
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Roma CeC 2012 21-23 Giugno 2012<br />
Contestualizzare la “prima colonizzazione”:<br />
Archeologia, fonti, cronologia e modelli interpretativi fra l'Italia e il<br />
Mediterraneo<br />
Contextualising “early Colonisation”:<br />
Archaeology, Sources, Chronology and interpretative models between Italy and<br />
the Mediterranean<br />
Greci e indigeni nel golfo di Taranto: il caso di Satyrion<br />
Luigi <strong>Caliò</strong>, Enzo <strong>Lippolis</strong>, Chiara <strong>Marchetti</strong>, Valeria <strong>Parisi</strong><br />
Satyrion, toponimo antico conservatosi senza soluzione di continuità in quello moderno di Saturo<br />
(comune di Leporano, Taranto), rappresenta uno dei principali nodi interpretativi nell’ambito della<br />
riflessione sulla prima colonizzazione greca in Italia meridionale, non solo per la comprensione<br />
delle dinamiche relazionali greco-indigene, ma anche per la definizione di alcune tendenze attive<br />
nelle fasi iniziali di strutturazione della polis.<br />
La sua menzione in due diverse fonti (Antioco apd. Strabo. 6,3,2; Diod. Sic. 8, 21) relative agli<br />
oracoli di fondazione di Taranto ha suscitato un notevole interesse nel dibattito storico-filologico,<br />
con un conseguente tentativo di agganciare la tradizione letteraria ai dati materiali. Le indagini<br />
archeologiche, condotte nel sito da Felice Gino Lo Porto prevalentemente tra gli anni ‘50 e ‘70 del<br />
Novecento, hanno lasciato tuttavia alcuni margini di incertezza, soprattutto nella lettura stratigrafica<br />
della successione tra la fase japigia e quella greca. Ciò ha fatto sì che la documentazione<br />
archeologica potesse essere piegata in favore di interpretazioni tra loro contrapposte (basti<br />
confrontare Yntema 2000 e, da ultimo, Guzzo 2011).<br />
Con questo contributo si intende, seppure in maniera preliminare, iniziare a ordinare le informazioni<br />
archeologiche relative a Satyrion, accresciutesi in modo significativo in seguito alle ricerche<br />
condotte nel sito dalla Sapienza – Università di Roma a partire dal 2007.<br />
Le indagini si sono concentrate in due settori, il santuario della sorgente e la cd. acropoli, entrambi<br />
già parzialmente esplorati da Lo Porto.<br />
1. L’inizio dello scavo presso il santuario della sorgente<br />
I dati archeologici riguardanti il santuario della sorgente, limitatamente al primo periodo di<br />
occupazione del sito, datato alla seconda metà del VII secolo a.C., sono piuttosto scarsi e di difficile<br />
lettura. A fronte della completa mancanza di strutture pertinenti il culto che, secondo Lo Porto, in<br />
questa fase iniziale era dedicato alla ninfa Satyria e la cui celebrazione doveva probabilmente<br />
avvenire presso le grotte che caratterizzavano il pendio occidentale del costone roccioso (oggi in<br />
parte crollate), ci sono invece le attestazioni materiali, rappresentate da diversi frammenti di<br />
ceramica del periodo Protocorinzio e Corinzio e di figure votive fittili in stile dedalico (dedalico<br />
tardo e sub dedalico). Si tratta di pochi elementi che, tuttavia, se collegati alle attestazioni<br />
riscontrabili sulla stessa acropoli di Satyrion, informano di una precoce occupazione dell’area a<br />
carattere sacro.<br />
Dal punto di vista dell’assetto generale del luogo, il santuario della sorgente appare organizzato in<br />
una serie di strutture databili a partire dalla metà del VI sec. a.C., poste su di un basso terrazzo<br />
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irregolare fiancheggiato da costoni rocciosi e digradante verso la baia di Porto Saturo. La scelta<br />
della felice posizione geografica sembra essere stata determinata anche dall’abbondante presenza di<br />
acque sorgive, che scaturiscono da un anfratto naturale scorrendo fino al mare in forma di ruscello. I<br />
riferimenti cronologici offerti dagli oltre quindicimila reperti ceramici e votivi fittili, rinvenuti nelle<br />
undici stipi votive scoperte intorno all’oikos A o ‘sacello Lo Porto’ e raccolti a migliaia attestano<br />
un’intensa frequentazione del sito a partire appunto dalla seconda metà del VII secolo a.C. fino ai<br />
primissimi anni del II secolo a.C., quando il complesso viene abbandonato a seguito dei<br />
danneggiamenti subiti durante le vicende annibaliche. Utile per l’identificazione del culto è<br />
l’iscrizione in dialetto dorico locale incisa sull’orlo di un’anfora attica a figure nere firmata da<br />
Exekias (datata al terzo venticinquennio del VI secolo a.C.), che riporta la dedica a una Basilis.<br />
Sulla base di una glossa d’Esichio, la dea venerata a Saturo con questa epiclesi è senza dubbio da<br />
identificarsi con l’Afrodite Areia, guerriera e regina dell’acropoli di Sparta, la quale trova confronti<br />
anche a Taranto. La pertinenza del culto ad Afrodite giustifica inoltre pratiche cultuali<br />
complementari, come attestano ad esempio le iscrizioni vascolari con dediche a Gaia, divinità<br />
ctonia connessa alla fertilità del mondo della natura e degli uomini, il cui culto assume anche a<br />
Sparta un notevole rilievo.<br />
Alla luce dei dati raccolti sinora la parte esplorata comprende, oltre al cd. ‘sacello’ o oikos A,<br />
individuato da Lo Porto durante le indagini di metà anni Settanta del secolo scorso, altri tre edifici a<br />
pianta quadrangolare in blocchi regolari di carparo, strutture di grandezze diverse ma con la<br />
medesima funzione, che è possibile identificare come vani destinati al banchetto o hestiatoria. Il<br />
quadro emerso rimanda dunque a una realtà complessa di notevole importanza, la quale si sviluppa<br />
e diversifica nei culti e nei rituali nel corso di ben cinque secoli, di pari passo con le vicende<br />
storiche, politiche e sociali della vicina Taranto, alla quale il santuario doveva essere senza dubbio<br />
collegato.<br />
2. L’intervento sull’acropoli<br />
Dopo le quattro campagne di scavo consecutive condotte nel santuario della sorgente a partire dal<br />
2007, nell’ottobre del 2011 le indagini si sono concentrate sul sito dell’acropoli che, dopo<br />
l’intervento di Felice Gino Lo Porto nel 1959 e due saggi, rimasti pressoché inediti, nel 1979 e del<br />
1980, da più di cinquant’anni non riceveva un’attenzione scientifica adeguata. La modesta<br />
emergenza rocciosa, posta a 25 m circa sul livello del mare, si trova in posizione centrale tra le due<br />
baie di Porto Saturo e Porto Perone e ricade all’interno del Parco archeologico di Saturo.<br />
Intervenendo in un’area oggetto di precedenti esplorazioni, è stato necessario innanzitutto operare<br />
un’accurata ricognizione della situazione esistente, in modo da raccordarsi allo scavo Lo Porto e<br />
chiarirne, per quanto possibile, le dinamiche.<br />
Nel terrazzo a ovest della sommità dell’altura sono stati riconosciuti i limiti del saggio condotto nel<br />
1959, senza procedere al suo svuotamento ma verificando piuttosto l’affidabilità dell’unica<br />
planimetria edita nella pubblicazione del 1964. Particolare attenzione è stata posta all’area<br />
immediatamente a ridosso dell’unico filare di blocchi conservato, pertinente a un sacello in opera<br />
quadrata, nel punto in cui era stato individuato un deposito votivo di VII sec. a.C. Qui l’intervento<br />
Lo Porto, mirando evidentemente al recupero completo dei materiali, aveva asportato integralmente<br />
la stratigrafia, scavando fino a un livello inferiore al piano di posa dei blocchi, che potrebbero<br />
essere stati addirittura rimossi e riposizionati. A nord e a est della muratura in conci, inoltre, sono<br />
state individuate trincee praticate nel banco argilloso naturale; quelle orientate con il sacello sono<br />
attribuibili allo spoglio di cavi di fondazione i cui blocchi originari devono essere stati asportati in<br />
età post-antica. Al loro interno, infatti, sono stati rinvenuti frammenti litici di rilavorazione e un<br />
rocchio di colonna scanalata in calcare stuccato, di piccole dimensioni, attribuibile a un monumento<br />
a naiskos.<br />
A ovest della struttura in blocchi è stata individuato e correttamente collocato in pianta<br />
l’affioramento della “grotticella-cucina” dell’età del Ferro scoperta nel 1959, sulla quale si è deciso<br />
di non operare in questa campagna. Nonostante le estese esplorazioni precedenti, comunque, è stato<br />
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possibile riconoscere settori non scavati che conservano ancora intatti lembi di piani di calpestio,<br />
anche con residui cinerosi, posti a quote diverse. Tra questi, merita attenzione un fondo di capanna<br />
dell’età del Ferro, addossata verso est al banco roccioso, che la trincea di approfondimento Lo Porto<br />
aveva quasi completamente tagliato, senza riconoscerla.<br />
A sud della struttura in blocchi e in allineamento con essa, infine, in parte già individuata in uno dei<br />
saggi condotti nel 1979-1980, è stata riconosciuta e studiata una struttura in elementi litici<br />
irregolari, compromessa dall’esposizione agli agenti atmosferici che ne ha comportato certamente<br />
un deterioramento. Si tratta di una sorta di muro di contenimento, che poggia sul banco argilloso a<br />
contatto con materiali di VII sec. a.C.<br />
Il secondo settore in cui si è intervenuti corrisponde alla sommità dell’altura, di forma grosso modo<br />
triangolare, in un’area profondamente danneggiata dall’installazione di un bunker costruito prima<br />
della seconda guerra mondiale. La pulitura accurata dell’intera superficie, costituita da roccia<br />
affiorante quasi del tutto priva di stratigrafia conservata, ha rivelato una serie di incassi per elementi<br />
pertinenti a fasi diverse. Buche per pali circolari di circa 20-30 cm di diametro sono riferibili<br />
probabilmente alla frequentazione protostorica, come mostrano i frammenti erratici di ceramica di<br />
impasto tipica delle fasi del bronzo e del ferro, anche se non è stato possibile ricostruire, in base alla<br />
disposizione, il perimetro e la natura delle strutture di riferimento. Per la fase greca del sito, la<br />
scoperta più rilevante in questo settore è costituita da un taglio nel banco roccioso per<br />
l’alloggiamento di una struttura in blocchi. Questa traccia va associata probabilmente alla struttura<br />
in blocchi descritta in precedenza e scoperta nel saggio Lo Porto; l’allineamento e l’omogeneità di<br />
orientamento e dimensioni permettono di riscostruire un unico edificio rettangolare, sviluppato in<br />
direzione ovest-est. Sembra trattarsi, quindi, di un sacello di circa 8 x 4 m, fondato su quote e piani<br />
diversi, a ovest più in basso e su terra, a est più in alto e sul piano di roccia, aperto in maniera<br />
canonica verso est, sulla sommità dell’altura. Sempre nel punto più alto, ma verso il declivio<br />
orientale, nello scavo sono emerse altre due strutture, la cui funzione resta incerta; si tratta di una<br />
costruzione circolare, tagliata in parte dal bunker, e di una sorta di piattaforma litica, poco distante<br />
in direzione sud, delimitata da due setti di contenimento in pietre a secco. Grazie al rinvenimento di<br />
un kantharos di tipo acheo a fondo rosso e sovraddipintura in bianco e di un aryballos del corinzio<br />
antico deposti nello strato su cui poggia tale platea litica, è possibile datare la struttura verso la fine<br />
del VII sec. a.C. Per la costruzione circolare, il cui diametro ricostruibile è di ca. 5 m, per il<br />
momento non è stato possibile invece precisare stratigraficamente la cronologia, ma non è escluso<br />
che i due elementi possano essere stati parte di un unico sistema.<br />
La novità più significativa per la conoscenza delle fasi iniziali del santuario greco è venuta dal terzo<br />
settore di scavo, in corrispondenza del declivio meridionale dell’acropoli. Qui, su un terrazzo posto<br />
2 m più in basso rispetto alla parte sommitale, una fascia di terreno larga circa 1,80 m ha restituito<br />
un ricco deposito votivo. Non si tratta di una “stipe” nel senso più tradizionale del termine, quanto<br />
piuttosto di una stratificazione di materiali votivi, formatasi non per accumulo progressivo ma per<br />
deposizione intenzionale in un'unica soluzione. Il deposito era ricoperto da uno strato di argilla<br />
ocra, sostenuto lungo il limite meridionale da un allineamento irregolare di pietre, e aveva in media<br />
uno spessore di 30 cm, meno consistente nei punti in cui poggiava direttamente su roccia.<br />
Il nucleo di materiale quantitativamente più rilevante è costituito dalla ceramica, per la maggior<br />
parte estremamente frammentaria, associata a coroplastica e metalli, in proporzioni nettamente<br />
inferiori. I reperti sono attualmente in corso di studio, per cui se ne può fornire solo una<br />
presentazione preliminare.<br />
La ceramica di importazione è rappresentata soprattutto da reperti tipologicamente attribuibili al<br />
protocorinzio e al corinzio transizionale e antico. Le forme prevalenti sono pissidi circolari,<br />
oinochoai a corpo conico, aryballoi, alabastra e soprattutto coppe. Parte è di produzione corinzia,<br />
parte invece appartiene a fabbriche coloniali; sono presenti, inoltre, frammenti di coppe ‘ad uccelli’<br />
di importazione e di kantharoi di tipo acheo. Allo stato attuale il profilo cronologico sembra<br />
comprendere integralmente il VII sec. a.C. La data del seppellimento dei materiali, quindi, dovrebbe<br />
cadere intorno al 600 a.C., in un momento vicino all’obliterazione del deposito delimitato da lastre<br />
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litiche scoperto da Lo Porto nel 1959 a ovest del sacello in blocchi. Alla luce di questo dati, si può<br />
pensare che l’area abbia conosciuto un rinnovamento in senso più monumentale tra fine VII e inizi<br />
VI secolo, con la costruzione dell’edificio a oikos e forse di altre strutture.<br />
La coroplastica comprende poche statuette sub-dedaliche femminili, una testina maschile realizzata<br />
a mano, con tracce di colore rosso, forse applicazione di un vaso, e un pinax, che si distingue per la<br />
qualità e l’eccezionale stato di conservazione. La tavoletta votiva, dotata di un foro per la<br />
sospensione, è decorata da una scena con due personaggi, maschile a sinistra e femminile a destra,<br />
che è possibile identificare con Teseo e Arianna per la presenza del fuso che occupa lo spazio tra i<br />
due e forse di un gomitolo che la donna stringe nella mano destra. Di un esemplare tratto dalla<br />
stessa matrice, appartenente a una collezione privata di Bonn ma con indicazione di provenienza<br />
tarantina, aveva dato notizia per la prima volta E. Langlotz nel 1925. Lo schema iconografico, con<br />
valore chiaramente erotico, dell’uomo che sfiora il mento della donna ha un confronto stringente<br />
nella scena dipinta su una brocca da una sepoltura di Afrati (Arkades), a Creta. Stilisticamente i<br />
caratteri ricadrebbero nel medio/tardo-dedalico con una datazione tra il 650 e il 630-620 a.C. I<br />
contatti con la tradizione cretese sono dunque evidenti, anche se si discute se il modello sia arrivato<br />
a Taranto direttamente da Creta o se abbia invece subìto prima una rielaborazione in ambito<br />
peloponnesiaco.<br />
Tra i metalli, si segnalano una punta di lancia, una fibula a quattro spirali e uno spillone in argento e<br />
oro, quest’ultimo non proveniente dal deposito ma dalla pulizia superficiale dell’area.<br />
Il fondo di una pisside corinzia ha restituito infine un’iscrizione in dialetto dorico con menzione<br />
delle Muse (databile entro la fine del VII sec. a.C.)., in corso di studio, come le altre, da parte di<br />
Giulio Vallarino.<br />
All’interno del deposito, frammisti al terreno, sono stati raccolti anche frammenti di impasto e di<br />
ceramica matt-painted SLG (Salento Late Geometric) II, cronologicamente precedenti al materiale<br />
di importazione e di produzione coloniale, che costituiscono un residuo di formazione dello strato.<br />
Questo, a sua volta, obliterava un livello inferiore, immediatamente a sud del deposito, che ha<br />
restituito parte di un altro piano di frequentazione di una capanna del SLG II, con due contenitori<br />
ceramici integri ancora in situ, rinvenimento che documenta chiaramente la sequenza insediativa<br />
nell’area.<br />
3. Elementi per una sintesi della documentazione archeologica<br />
A differenza di quanto riteneva Lo Porto, i materiali ‘matt-painted’ sono presenti anche nei livelli di<br />
frequentazione successivi alla fine dell’VIII sec. a.C., dove appaiono, però, come materiale fluitato.<br />
Anche nel caso del deposito votivo, infatti, se ne è potuto riconoscere un nucleo che risulta<br />
pertinente a una fase precedente a quella del materiale votivo di tipo greco. Questo conferma che la<br />
rigida ricostruzione stratigrafica proposta da Lo Porto, con una successione a compartimenti stagni<br />
tra gli strati con ceramica japigia e quelli con ceramica greca, deve essere articolata diversamente,<br />
come la stessa planimetria dell’area di scavo del 1959 non presenta un’esatta corrispondenza con<br />
quanto emerso nell’esplorazione condotta sinora.<br />
Lo scavo, comunque, sta delineando una successione di fasi abbastanza ben definita.<br />
Nell’esplorazione condotta sembrano per il momento mancare elementi chiaramente attribuibili al<br />
geometrico locale delle fasi più antiche; non si può escludere, quindi, un progressivo abbandono o<br />
una sensibile riduzione del villaggio dell’età del Bronzo. Solo sull’acropoli, per il momento, si<br />
possono documentare chiare tracce di una ripresa insediativa nella seconda metà dell’VIII sec. a.C.,<br />
con un sistema di capanne sub-circolari esteso sino ai primi livelli dei pendii a ovest e a sud<br />
dell’altura. Questo abitato sembra conoscere un abbandono radicale verso la fine dell’VIII sec. a.C.:<br />
come nella grotticella-cucina trovata da Lo Porto, anche nei casi che iniziano ad emergere si<br />
riscontra un’interruzione che prevede l’abbandono della ceramica in situ, all’interno delle strutture.<br />
Su questi livelli non si sovrappone alcuna frequentazione di tipo abitativo e l’intera area sembra<br />
essere stata destinata ad altre funzioni. Sistemazioni con riporti di tufina sabbiosa sterile, analoghi a<br />
quelli descritti da Lo Porto, sono stati rinvenuti anche nello scavo del 2011 e spesso si pongono in<br />
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una collocazione intermedia tra i livelli dell’età del Ferro e quelli successivi. Questi, meglio<br />
conservati sui declivi e molto erosi verso la sommità mostrano un radicale cambiamento nella<br />
cultura materiale, che documenta una significativa sequenza di ceramiche di produzione greca,<br />
importata e coloniale. L’intera altura sembra aver avuto una destinazione di tipo cultuale, come<br />
mostrano i materiali raccolti nelle due stipi rinvenute, quella del 1959 e quella emersa nel 2011.<br />
Verso la fine del VII e il primo decennio del VI sec. a.C. si pone mano a un riordino dell’area sacra<br />
all’aperto con la deposizione delle due stipi e la costruzione del sacello in opera quadrata, che<br />
indica un processo di monumentalizzazione dell’area, in stretto riferimento a quanto avviene in<br />
molti altri siti coloniali. La frequentazione del santuario prosegue nel tempo, almeno sino al III sec.<br />
a.C., anche se con una partecipazione più modesta dal punto di vista qualitativo e quantitativo e le<br />
indicazioni materiali ed epigrafiche di un culto di Atena, già note, mostrano la vitalità della<br />
frequentazione sacra. È necessario pensare, quindi, come è già stato proposto, che sin dall’inizio<br />
l’altura sia stata dedicata ad Atena, in un caso associata alla venerazione delle Muse, mostrando un<br />
collegamento attestato anche nel caso dell’acropoli di Sparta, secondo un processo di<br />
reduplicazione già messo in evidenza dalla bibliografia specifica sulle forme cultuali della colonia<br />
tarantina. Mancano elementi per riconoscere una persistenza del villaggio iapigio nel corso del VII<br />
sec. a.C., mentre non si può escludere che una fase di ‘contatti’ tra importatori di merci ‘greche’ e<br />
culture locali possano essere stati all’origine della stessa ripresa dell’insediamento nella seconda<br />
metà dell’VIII secolo, in una fase anteriore alla riorganizzazione dell’area, che sembra manifestare i<br />
segni di un’occupazione radicale e definitiva, con un abbandono forse improvviso<br />
dell’insediamento, a giudicare dagli oggetti rinvenuti all’interno dei contesti originari.<br />
Per quanto riguarda, poi, il materiale di VII secolo rinvenuto nello scavo e in particolare nella stipe,<br />
è necessario sottolineare che sembra appartenere in maniera omogenea alla sfera sacra/votiva: i vasi<br />
protocorinzi, contenitori per oli, profumi, cosmetici e altri materiali deperibili, in particolare<br />
l’iterazione delle forme come pissidi e oinochoai coniche, le dediche, i vasi potori rimandano a un<br />
campionario del tutto omogeneo a quello restituito dai depositi votivi del santuario sul Timpone<br />
della Motta di Francavilla. L’associazione con la coroplastica, tipico esempio di ex-voto par<br />
destination, accresce in maniera significativa il carattere sacro delle operazioni effettuate<br />
sull’acropoli di Saturo nel corso del VII sec. a.C. Non si tratta di occasionali visitatori, ma dei segni<br />
di una estesa trasformazione delle strutture insediative: a un abitato succede un santuario all’aperto,<br />
mentre progressivamente anche altre zone più lontane dai due porti iniziano a conoscere una<br />
frequentazione sempre più intensa, come mostra il santuario della sorgente, per il quale si dispone<br />
di materiale votivo per il momento risalente solo alla seconda metà del VII sec. a.C. Le difficoltà di<br />
scavo, in questo caso, non hanno ancora permesso di raggiungere i livelli stratigrafici corrispondenti<br />
alle fasi di passaggio tra l’VIII e il VII secolo e ad oggi non è possibile neanche disporre di<br />
informazioni circa un’eventuale frequentazione iapigia del sito.<br />
Lo sviluppo dell’insediamento indigeno nella seconda metà dell’VIII secolo risponde a un<br />
fenomeno più ampiamente diffuso nell’area salentina e già riscontrato; è probabile che tale<br />
dinamica di incremento demografico e produttivo, con la nascita di nuovi abitati o la ripresa di<br />
vecchi insediamenti debba essere letta anche in rapporto al rinnovarsi delle forme di contatto tra la<br />
Puglia meridionale e l’Egeo, con un intensificarsi delle frequentazioni costiere collegato allo<br />
stabilimento della comunità pitecusana. A una fase di ‘contatto’, ancora da definire in maniera<br />
adeguata nel caso del villaggio in esame, succede una radicale trasformazione dell’abitato e un<br />
abbandono del sistema precedente connesso alla riconversione della cultura materiale, dal VII<br />
secolo comprendente solo ceramica greca, e delle funzioni svolte, che mostrano i caratteri di un<br />
luogo di culto che raggiunge il suo aspetto più monumentale solo nel passaggio tra VII e VI sec.<br />
a.C.<br />
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