3 – Up in the air: quando il film ha il respiro del telefilm ROBERTO MANDILE Molti sono gli esempi, nel cinema americano, di film tratti da serie televisive. Il fenomeno è di antica data, ma ha conosciuto nuova linfa negli ultimi anni: il passaggio dal piccolo al grande schermo ha riguardato sia telefilm storici degli anni ’70 e ’80, come Charlie’s Angels, Starsky & Hutch, Miami Vice, sia serie più recenti, come Sex and the City. Nel caso di Up in the air di Jason Reitman, siamo in presenza di un film che si presterebbe al passaggio inverso. Iniziamo col dire che Up in the air è l’ennesimo esempio di quali risultati il cinema può raggiungere quando, nel raccontare l’attualità (in questo caso le conseguenze della recente crisi economica negli USA), sceglie di partire dalle storie private di persone comuni, anziché intraprendere la via del grande affresco con ambizioni sociali di ampio respiro. Grazie a un’ottima sceneggiatura (dello stesso Reitman e di Sheldon Turner), una regia che evita le banalizzazioni e si trattiene da ogni eccesso retorico, e l’interpretazione eccellente di George Clooney (e non solo), Up in the air ha gli stessi pregi di molte serie televisive americane, a partire appunto dalla capacità di mettere in scena, senza prediche e forzature ideologiche, la realtà contemporanea. Ma è soprattutto la caratterizzazione dei personaggi, tra le tante qualità del film, quella che colpisce di più. Tutti, dal protagonista ai comprimari, da quelli meglio tratteggiati a quelli appena abbozzati, sono portatori di una storia interessante, complessa, passibile e persino meritevole di essere sviluppata e approfondita. Uno dei maggiori meriti di alcune delle migliori serie televisive americane (da Twin Peaks a Sex and the City, da The Sopranos a Desperate Housewives) consiste nella capacità di intrecciare vicende di personaggi convincenti perché mai monolitici, ma incrinati dal conflitto, dall’ombra del dubbio, dalla precarietà con cui, nell’eterna ricerca della felicità, affrontano la quotidiana difficoltà di essere normali. A questo contribuisce non poco la possibilità (e, per certi versi, la necessità) di non costringere la complessità dei personaggi nel giro di una storia finita, ma di farla emergere, con aggiustamenti progressivi, lungo il corso degli episodi e delle serie. Le laceranti solitudini, i piccoli grandi drammi, ma anche le speranze e le attese di un futuro migliore, dei personaggi di Up in the air sono messe in scena con ritmi, modalità, sfumature degne della migliore serialità televisiva, senza cioè l’ambizione di chiuderle e imprigionarle nel cerchio di un racconto finito, ma giocando anzi a lasciare aperte le strade del possibile. Up in the air è insomma un film che sembra avere il respiro di una serie televisiva. Ed è un grande complimento, sia chiaro! 4 – Occhi (ma non del cuore!) puntati su Boris GIOVANNI FICETOLA A parlare bene di Boris son capaci tutti. Se chi sta leggendo vuole questo, è meglio che smetta subito e cerchi su internet una delle centinaia di recensioni positive della fuoriserie italiana. Parlarne male è invece solo apparentemente più difficile. Chi scrive è un fan del serial italiano fin dalla prima stagione. Fan peraltro non disinteressato. Boris è una meta-fiction che racconta le storie della sgangherata troupe del regista René Ferretti, impegnato nelle riprese della fiction Occhi del cuore 2 inizialmente, e Medical Dimension nella terza stagione. Si tratta di una fiction che prova a criticare, attraverso gli strumenti della satira e della comicità, proprio il modo italiano di fare televisione e fiction. Eppure cade inevitabilmente (nonostante l’alta qualità registica e attoriale e l’estremo realismo delle vicende, che trasformano ciò che è commedia per il comune spettatore in dramma per l’addetto ai lavori) esattamente nei medesimi orrori che prova a mettere alla berlina. L’estrema ristrettezza del campo, della vicenda e l’assenza di respiro internazionale, che lo rende (a parafrasare uno degli slogan) totalmente italiano, producono un serial coraggioso ma mai davvero rivoluzionario. E forse è proprio in questa chiave di mea culpa che si inseriscono gli autori del 70
serial con la terza (nella speranza di chi scrive ultima, anche se ultima doveva essere la seconda) stagione. Cercando l’innovazione della serie (e della meta-serie interna) falliscono miseramente nell’intento di satireggiare il mondo che li circonda. Si trasformano esattamente in ciò che bersagliavano, negli orrori televisivi che denunciavano e nei quali, non a caso, sono caduti alcuni degli attori interpreti della serie, che si sono prestati a Un medico in famiglia o ai Cesaroni. La trasformazione dei personaggi del serial in macchiette è l’apoteosi del percorso inverso a quello dichiarato, diventa l’apogeo dell’elogio della scarsa qualità piuttosto che la sua critica. Parafrasando il gag dello sceneggiatore pentito che dice ai nuovi autori: “Fermatevi alla terza stagione”, anche chi scrive dice a Ciarrapico & C.: “Fermatevi, per favore! Se siete veri autori tirate fuori una nuova idea, con la medesima virulenza della prima stagione di Boris.” Ma parlar male di Boris in Italia non è permesso. 71
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