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N° 6 - Giovanni Ficetola

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3 – Up in the air: quando il film ha il respiro del telefilm<br />

ROBERTO MANDILE<br />

Molti sono gli esempi, nel cinema americano, di film tratti da serie televisive. Il fenomeno è di antica<br />

data, ma ha conosciuto nuova linfa negli ultimi anni: il passaggio dal piccolo al grande schermo ha<br />

riguardato sia telefilm storici degli anni ’70 e ’80, come Charlie’s Angels, Starsky & Hutch, Miami Vice, sia<br />

serie più recenti, come Sex and the City. Nel caso di Up in the air di Jason Reitman, siamo in presenza di<br />

un film che si presterebbe al passaggio inverso.<br />

Iniziamo col dire che Up in the air è l’ennesimo esempio di quali risultati il cinema può raggiungere<br />

quando, nel raccontare l’attualità (in questo caso le conseguenze della recente crisi economica negli<br />

USA), sceglie di partire dalle storie private di persone comuni, anziché intraprendere la via del grande<br />

affresco con ambizioni sociali di ampio respiro. Grazie a un’ottima sceneggiatura (dello stesso<br />

Reitman e di Sheldon Turner), una regia che evita le banalizzazioni e si trattiene da ogni eccesso<br />

retorico, e l’interpretazione eccellente di George Clooney (e non solo), Up in the air ha gli stessi pregi di<br />

molte serie televisive americane, a partire appunto dalla capacità di mettere in scena, senza prediche e<br />

forzature ideologiche, la realtà contemporanea. Ma è soprattutto la caratterizzazione dei personaggi,<br />

tra le tante qualità del film, quella che colpisce di più. Tutti, dal protagonista ai comprimari, da quelli<br />

meglio tratteggiati a quelli appena abbozzati, sono portatori di una storia interessante, complessa,<br />

passibile e persino meritevole di essere sviluppata e approfondita. Uno dei maggiori meriti di alcune<br />

delle migliori serie televisive americane (da Twin Peaks a Sex and the City, da The Sopranos a Desperate<br />

Housewives) consiste nella capacità di intrecciare vicende di personaggi convincenti perché mai<br />

monolitici, ma incrinati dal conflitto, dall’ombra del dubbio, dalla precarietà con cui, nell’eterna ricerca<br />

della felicità, affrontano la quotidiana difficoltà di essere normali. A questo contribuisce non poco la<br />

possibilità (e, per certi versi, la necessità) di non costringere la complessità dei personaggi nel giro di<br />

una storia finita, ma di farla emergere, con aggiustamenti progressivi, lungo il corso degli episodi e delle<br />

serie.<br />

Le laceranti solitudini, i piccoli grandi drammi, ma anche le speranze e le attese di un futuro<br />

migliore, dei personaggi di Up in the air sono messe in scena con ritmi, modalità, sfumature degne della<br />

migliore serialità televisiva, senza cioè l’ambizione di chiuderle e imprigionarle nel cerchio di un<br />

racconto finito, ma giocando anzi a lasciare aperte le strade del possibile. Up in the air è insomma un<br />

film che sembra avere il respiro di una serie televisiva. Ed è un grande complimento, sia chiaro!<br />

4 – Occhi (ma non del cuore!) puntati su Boris<br />

GIOVANNI FICETOLA<br />

A parlare bene di Boris son capaci tutti. Se chi sta leggendo vuole questo, è meglio che smetta subito e<br />

cerchi su internet una delle centinaia di recensioni positive della fuoriserie italiana.<br />

Parlarne male è invece solo apparentemente più difficile. Chi scrive è un fan del serial italiano fin dalla<br />

prima stagione. Fan peraltro non disinteressato.<br />

Boris è una meta-fiction che racconta le storie della sgangherata troupe del regista René Ferretti,<br />

impegnato nelle riprese della fiction Occhi del cuore 2 inizialmente, e Medical Dimension nella terza stagione.<br />

Si tratta di una fiction che prova a criticare, attraverso gli strumenti della satira e della comicità,<br />

proprio il modo italiano di fare televisione e fiction. Eppure cade inevitabilmente (nonostante l’alta qualità<br />

registica e attoriale e l’estremo realismo delle vicende, che trasformano ciò che è commedia per il<br />

comune spettatore in dramma per l’addetto ai lavori) esattamente nei medesimi orrori che prova a<br />

mettere alla berlina. L’estrema ristrettezza del campo, della vicenda e l’assenza di respiro internazionale,<br />

che lo rende (a parafrasare uno degli slogan) totalmente italiano, producono un serial coraggioso ma mai<br />

davvero rivoluzionario. E forse è proprio in questa chiave di mea culpa che si inseriscono gli autori del<br />

70

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