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N° 6 - Giovanni Ficetola

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Proprio Cloverfield è un caso emblematico di stile-mockumentary. Il film, infatti, si apre con la scritta:<br />

“Proprietà del Governo degli Stati Uniti”, volta ad indicare che staremmo guardando il video contenuto<br />

in una memory card e ripreso, dal vivo, durante la terribile crisi – generata dalla comparsa di un<br />

terrificante mostro – che avrebbe sconvolto Manhattan. Il film, infatti, è costituito dalle riprese<br />

amatoriali realizzate da un gruppo di amici durante il caos scoppiato in città.<br />

Ora, l’assunto di Cloverfield è palesemente fantascientifico, tanto da inscriversi nella tradizione del<br />

“monster movie” (quella di Godzilla, tanto per intenderci). Ad essere “mockumentario” è soltanto lo<br />

stile: tutto in camera a mano, a riprodurre il documentario di fortuna girato da un operatore dilettante.<br />

Nemmeno per un minuto, però, si dubita della “falsità” di ciò che si vede sullo schermo.<br />

Dunque, bisognerebbe anzitutto accordarsi su un punto. Che cos’è da considerarsi “mockumentary”? Il<br />

film che riesce a far credere allo spettatore di stare guardando ANCHE degli spezzoni di documentario<br />

(come tenta di fare Il quarto tipo, appunto) o il film che, NELLO STILE, si adegua al documentario,<br />

senza però esserlo per niente dal punto di vista del contenuto?<br />

Lasciamo lì il quesito e occupiamoci del film di Osunsanmi, sperando di darci così una risposta.<br />

L’attacco è emblematico: Milla Jovovich che, nella cornice<br />

flou di un bosco luminoso, dichiara gli intenti e la natura<br />

del film. Ovvero, ricostruire con inserti “drammatizzati”<br />

una storia vera verificatasi nella sperduta cittadina di Nome,<br />

in Alaska.<br />

La regia di Osunsanmi è corretta e competente, e procede<br />

secondo uno schema fisso che inizialmente fa sorridere, ma<br />

che man mano che il film procede riesce, bene o male, a cat-<br />

turare l’attenzione. Egli accosta sistematicamente le scene<br />

recitate (dalla Jovovich nei panni della dottoressa Abigail<br />

Tyler, la protagonista della inquietante vicenda, come anche<br />

da altri noti attori, tra cui Will Patton e Elias Koteas) a sequenze “amatoriali” (avvicinate a volte<br />

addirittura in split screen alle scene recitate) delle sedute di psicanalisi tenute dalla dottoressa. Il risultato è<br />

che noi, in una visione schizofrenica, riteniamo di stare vedendo il “vero paziente” sulla sinistra dello<br />

schermo e l’attore che lo impersona nella fiction sulla destra. Non solo: il film è attraversato da una<br />

lunga intervista realizzata dallo stesso regista alla presunta “vera” dottoressa Abigail Tyler: una donna<br />

smorta e cadaverica, dalle occhiaie scavate, dallo sguardo spento e dalla voce flebile, che racconta la<br />

allucinante serie di eventi che ha portato alla morte di suo marito prima e alla sparizione di sua figlia<br />

poi.<br />

Ora, a parte il fatto che vien da chiedersi: se il regista dispone dei video di tutte le sedute psicanalitiche<br />

della dottoressa Tyler, perché darsi la pena di far recitare – in modo peraltro filologico – le medesime<br />

scene? Ovvero: se l’interesse dell’Autore è mostrare cose vere, perché non montare sapientemente gli<br />

spezzoni più interessanti di queste inquietanti sedute (dalle quali emergerebbe il rapimento dei pazienti<br />

da parte di entità aliene, la cosiddetta abduction, o incontro ravvicinato del quarto tipo)? Perché questo<br />

ostentato e francamente un po’ ridicolo accostamento di documentario e fiction?<br />

Per rendere più interessante e godibile il tutto, verrebbe da rispondere. Già, peccato che il film –<br />

proponendosi come “testimonianza” sulle misteriose sparizioni che da quarant’anni si verificherebbero<br />

nella cittadina di Nome – si caratterizzi fin da subito come “inchiesta”, e pretenda di riaprire il caso di<br />

** Su Werner Herzog, ovviamente, occorrerebbe aprire una parentesi. La produzione di questo eccezionale ed eclettico<br />

Autore, infatti, si basa sul continuo confronto/scontro (ma sarebbe meglio dire sulla “confusione”!) tra documentario e<br />

film di fiction. Titoli come Fata morgana (1969-70), Paese del silenzio e dell’oscurità (1971), La grande estasi<br />

dell’intagliatore Steiner (1974), Cuore di vetro (1976), Dove sognano le formiche verdi (1984), lo stesso Fitzcarraldo<br />

(1982), possono a buon titolo essere visti come progenitori del moderno mockumentary. Herzog, anche nei suoi film più<br />

sperticatamente di fiction, si è sempre interrogato sulla potenza evocativa delle immagini “vere” (tanto che esse non<br />

mancano praticamente in nessun suo film). L’intera opera di Werner Herzog andrebbe insomma descritta come un<br />

tentativo di strutturare, a livello di stile come di contenuto, il mockumentary. Ma il discorso meriterà in futuro una<br />

trattazione più ampia e a sé stante, per cui in questa sede ci limitiamo a darne questo breve e speriamo stimolante cenno.<br />

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