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Proprio Cloverfield è un caso emblematico di stile-mockumentary. Il film, infatti, si apre con la scritta:<br />
“Proprietà del Governo degli Stati Uniti”, volta ad indicare che staremmo guardando il video contenuto<br />
in una memory card e ripreso, dal vivo, durante la terribile crisi – generata dalla comparsa di un<br />
terrificante mostro – che avrebbe sconvolto Manhattan. Il film, infatti, è costituito dalle riprese<br />
amatoriali realizzate da un gruppo di amici durante il caos scoppiato in città.<br />
Ora, l’assunto di Cloverfield è palesemente fantascientifico, tanto da inscriversi nella tradizione del<br />
“monster movie” (quella di Godzilla, tanto per intenderci). Ad essere “mockumentario” è soltanto lo<br />
stile: tutto in camera a mano, a riprodurre il documentario di fortuna girato da un operatore dilettante.<br />
Nemmeno per un minuto, però, si dubita della “falsità” di ciò che si vede sullo schermo.<br />
Dunque, bisognerebbe anzitutto accordarsi su un punto. Che cos’è da considerarsi “mockumentary”? Il<br />
film che riesce a far credere allo spettatore di stare guardando ANCHE degli spezzoni di documentario<br />
(come tenta di fare Il quarto tipo, appunto) o il film che, NELLO STILE, si adegua al documentario,<br />
senza però esserlo per niente dal punto di vista del contenuto?<br />
Lasciamo lì il quesito e occupiamoci del film di Osunsanmi, sperando di darci così una risposta.<br />
L’attacco è emblematico: Milla Jovovich che, nella cornice<br />
flou di un bosco luminoso, dichiara gli intenti e la natura<br />
del film. Ovvero, ricostruire con inserti “drammatizzati”<br />
una storia vera verificatasi nella sperduta cittadina di Nome,<br />
in Alaska.<br />
La regia di Osunsanmi è corretta e competente, e procede<br />
secondo uno schema fisso che inizialmente fa sorridere, ma<br />
che man mano che il film procede riesce, bene o male, a cat-<br />
turare l’attenzione. Egli accosta sistematicamente le scene<br />
recitate (dalla Jovovich nei panni della dottoressa Abigail<br />
Tyler, la protagonista della inquietante vicenda, come anche<br />
da altri noti attori, tra cui Will Patton e Elias Koteas) a sequenze “amatoriali” (avvicinate a volte<br />
addirittura in split screen alle scene recitate) delle sedute di psicanalisi tenute dalla dottoressa. Il risultato è<br />
che noi, in una visione schizofrenica, riteniamo di stare vedendo il “vero paziente” sulla sinistra dello<br />
schermo e l’attore che lo impersona nella fiction sulla destra. Non solo: il film è attraversato da una<br />
lunga intervista realizzata dallo stesso regista alla presunta “vera” dottoressa Abigail Tyler: una donna<br />
smorta e cadaverica, dalle occhiaie scavate, dallo sguardo spento e dalla voce flebile, che racconta la<br />
allucinante serie di eventi che ha portato alla morte di suo marito prima e alla sparizione di sua figlia<br />
poi.<br />
Ora, a parte il fatto che vien da chiedersi: se il regista dispone dei video di tutte le sedute psicanalitiche<br />
della dottoressa Tyler, perché darsi la pena di far recitare – in modo peraltro filologico – le medesime<br />
scene? Ovvero: se l’interesse dell’Autore è mostrare cose vere, perché non montare sapientemente gli<br />
spezzoni più interessanti di queste inquietanti sedute (dalle quali emergerebbe il rapimento dei pazienti<br />
da parte di entità aliene, la cosiddetta abduction, o incontro ravvicinato del quarto tipo)? Perché questo<br />
ostentato e francamente un po’ ridicolo accostamento di documentario e fiction?<br />
Per rendere più interessante e godibile il tutto, verrebbe da rispondere. Già, peccato che il film –<br />
proponendosi come “testimonianza” sulle misteriose sparizioni che da quarant’anni si verificherebbero<br />
nella cittadina di Nome – si caratterizzi fin da subito come “inchiesta”, e pretenda di riaprire il caso di<br />
** Su Werner Herzog, ovviamente, occorrerebbe aprire una parentesi. La produzione di questo eccezionale ed eclettico<br />
Autore, infatti, si basa sul continuo confronto/scontro (ma sarebbe meglio dire sulla “confusione”!) tra documentario e<br />
film di fiction. Titoli come Fata morgana (1969-70), Paese del silenzio e dell’oscurità (1971), La grande estasi<br />
dell’intagliatore Steiner (1974), Cuore di vetro (1976), Dove sognano le formiche verdi (1984), lo stesso Fitzcarraldo<br />
(1982), possono a buon titolo essere visti come progenitori del moderno mockumentary. Herzog, anche nei suoi film più<br />
sperticatamente di fiction, si è sempre interrogato sulla potenza evocativa delle immagini “vere” (tanto che esse non<br />
mancano praticamente in nessun suo film). L’intera opera di Werner Herzog andrebbe insomma descritta come un<br />
tentativo di strutturare, a livello di stile come di contenuto, il mockumentary. Ma il discorso meriterà in futuro una<br />
trattazione più ampia e a sé stante, per cui in questa sede ci limitiamo a darne questo breve e speriamo stimolante cenno.<br />
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