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N° 6 - Giovanni Ficetola

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genere (l’action) che normalmente non brilla per profondità dei personaggi o delle situazioni<br />

(ovviamente con le dovute eccezioni: vedi Michael Mann, John Woo, Johnnie To e non solo…).<br />

Cosa cambia con The Hurt Locker? Anzitutto, visto che abbiamo citato Strange Days e il suo problema di<br />

eccessiva trama, spezziamo subito una lancia in favore del film trionfatore agli Oscar 2010: The Hurt<br />

Locker è di una asciuttezza ammirevole nel raccontare una storia che in realtà non è una storia, bensì la<br />

semplice “rotazione” di alcuni soldati americani nell’Iraq occupato e presidiato del dopo Saddam. 365<br />

giorni di stanza a Baghdad (ma in realtà il film ne racconta meno) di un gruppo di artificieri dell’esercito<br />

impegnati nella bonifica dalle bombe di una città che, per parecchio tempo, ha avuto il più alto tasso di<br />

attentati dinamitardi del mondo. Un ambiente desertico, riarso, ostile, difficilissimo da controllare. La<br />

Bigelow, fin dalla prima sequenza, è molto brava nel far sentire lo straniamento dei soldati americani,<br />

che si sforzano di parlare come al solito e di “normalizzare” una situazione che di normale non ha un<br />

bel niente. Si chiacchiera di hamburger e di rientro a casa mentre si cerca di capire quanto esplosivo c’è<br />

nel baule di una macchina, e chi tra gli astanti autoctoni potrebbe essere l’attentatore in possesso del<br />

telecomando per far esplodere la bomba.<br />

I soldati, stracarichi di armi e di protezioni, appaiono comunque indifesi e tremanti, pieni di dubbi<br />

e di incertezze in un ambiente irto di minacce, tanto soleggiato e “chiaro” quanto indecifrabile e<br />

misterioso.<br />

Il fascino del film sta tutto nel suo azzeccato realismo, ben sorretto dalla sceneggiatura di Mark Boal<br />

(Oscar a sua volta) che, come sempre più frequentemente accade, non si dedica tanto ad inventare<br />

quanto a documentare, ovvero: si basa assai più su ricerche ed effetti di reale che sull’inventiva vera e<br />

propria.<br />

E’ una direzione verso la quale Hollywood (e non solo Hollywood) si sta incamminando con sempre<br />

maggiore decisione: storie estremamente realistiche, narrazioni di taglio quasi giornalistico e<br />

documentario, senza rinunciare – e qui stanno i meriti indiscussi della regista – ad una struttura action<br />

indubbiamente ben fatta. Insomma, Hollywood continua a fare cinema, anche se la necessità di<br />

interrogarsi sul reale e addirittura di riprodurlo in modo il più possibile fededegno cresce vieppiù.<br />

La regia della Bigelow riesce ad iniettare nel film una dose di inquietudine e (usiamo un caro vecchio<br />

termine!) di suspense davvero notevoli; la tensione non cala mai nonostante una struttura narrativa per<br />

forza di cose assi ripetitiva (ogni giorno per i soldati è uguale a quello precedente: esplorazioni,<br />

missioni, rischi…).<br />

Ma allora, vien da chiedersi, The Hurt Locker è un film sulla guerra, ovvero: ha la dignità e l’ambizione<br />

necessarie per elevarsi al rango di “riflessione” sul tema della guerra? A mio parere sì (fermo restando<br />

che sui singoli aspetti stilistici, su certi ralenti e su certe inquadrature un po’ compiaciute si potrebbe<br />

discutere). La Bigelow e il suo sceneggiatore incentrano la storia su un ridottissimo drappello di soldati<br />

e rinunciano alle facili tentazioni del divismo (niente Clooney, o Pitt, o Cruise nei ruoli-chiave; Guy<br />

Pearce e Ralph Fiennes, unici veri volti noti, fanno appena poco più che delle comparsate). In questo<br />

caso, la rinuncia agli attori di grido è una scelta importante, poiché va nella direzione di aumentare il<br />

realismo: il protagonista, sergente Will James, come anche i suoi compagni di squadra, interpretati tutti<br />

da attori poco noti e fondamentalmente “anonimi”, ovvero non preceduti dalla ingombrante celebrità<br />

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