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piani del reale e del verosimile, della ricostruzione della verità e della finzione del cinema, della<br />
Storia e della storia. Non a caso il film inizia con la didascalia “C’era una volta nella Francia<br />
occupata dai nazisti” che assimila le vicende più terribili della storia del secolo scorso a una<br />
fiaba (e la mancanza di verosimiglianza, sul piano strettamente storico, della vicenda che verrà<br />
raccontata non può che confermare l’impressione). Tarantino sembra, in altri termini, divertirsi<br />
a oscillare tra lo scrupolo filologico, cui potrebbe far pensare anche la scelta di far parlare i<br />
personaggi in diverse lingue (tedesco, francese, inglese, ma anche dialetto siciliano), e i toni<br />
iperrealistici di molti dialoghi.<br />
Basterebbe pensare alla bellissima scena della<br />
taverna, in cui la verosimiglianza della trovata che<br />
consente di smascherare i ‘bastardi’ che si spacciano<br />
per nazisti è inserita in un gioco di rimandi espliciti ad<br />
atmosfere da spaghetti-western, con tanto di ‘stallo<br />
alla messicana’ del quale i personaggi, con sublime<br />
senso del paradosso, discutono! Il regista insomma,<br />
proprio nel momento in cui pare conferire tratti<br />
realistici alla sua storia, ci ricorda che è il cinema la<br />
vera, unica realtà interessante, una sorta di universo<br />
onnicomprensivo e onnivoro in cui finisce, ancora una volta paradossalmente, per iscriversi<br />
persino la Storia. La massima conferma di quanto siamo venuti fin qui sostenendo si ha nella<br />
parte conclusiva del film, ma prima di affrontare questo discorso soffermiamoci brevemente<br />
sull’altra pellicola, quella di Mann.<br />
Nemico pubblico si pone, per molti versi, agli antipodi, sul piano estetico e anche drammaturgico,<br />
rispetto a Bastardi senza gloria. Raccontando gli ultimi due anni della vita di John Dillinger,<br />
l’intento primario di Mann è quello di restituire, nella sua dimensione storica, la figura di uno<br />
dei gangster più leggendari dell’America della Grande Depressione. Concentrando l’attenzione<br />
sulla caccia che l’FBI scatena contro il “nemico pubblico n. 1”, il regista sceglie la via del<br />
realismo, evitando ogni tentativo di idealizzazione e sfuggendo ad ogni retorica dell’eroe<br />
romantico (ma guardandosi anche dall’esprimere giudizi sulla polizia e sui metodi, non sempre<br />
ortodossi, impiegati per catturare Dillinger). Con uno stile sobrio ma tutt’altro che scialbo<br />
(esaltato dal magistrale uso del digitale e da una fotografia, del fedele Dante Spinotti, superba),<br />
Mann raffredda la materia (anche troppo forse, specie nella prima parte), dimostrando di volersi<br />
confrontare con il processo di mitizzazione che Dillinger ha conosciuto in vita, grazie ai giornali<br />
e anche, dopo la sua morte, grazie al cinema 1: il suo obiettivo, si potrebbe dire, è quello di<br />
togliere, limare, andare all’essenziale per proporre una riflessione sul destino di un gangster<br />
colto in tutta la sua contraddittoria umanità.<br />
Da quanto abbiamo detto, è facile capire come la<br />
scelta stilistica di Mann vada in direzione opposta<br />
rispetto a quella di Tarantino, eppure c’è un punto<br />
che ci consente di accostare i due film e di fare<br />
qualche osservazione sulle modalità di rappresenta-<br />
zione della Storia che i due registi propongono.<br />
Sia Bastardi senza gloria che Nemico pubblico contengono<br />
nel finale una scena, più lunga nel primo, più breve<br />
nel secondo, ambientata in un cinema. Nel film di Il Dillinger di Michael Mann, un antieroe<br />
tutt’altro che idealizzato, sobrio e realistico<br />
1<br />
La storia di John Dillinger è stata raccontata, al cinema, da Max Nosseck (Dillinger, 1945) e da John Milius<br />
(Dillinger, 1976).<br />
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