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Michael Mann. I due film sono accostabili, ad un primo superficiale livello di lettura,<br />
dall’ambientazione storica (la seconda guerra mondiale in un caso, gli anni ’30 dall’altro), scelta<br />
del tutto inedita per Tarantino e abbastanza inusuale per Mann. Ma le somiglianze, sul piano del<br />
racconto, sono certamente meno delle differenze, non foss’altro che per il fatto che, mentre la<br />
storia di Bastardi senza gloria è del tutto inventata, Nemico pubblico è una ricostruzione piuttosto<br />
fedele della biografia di un personaggio realmente esistito, il rapinatore John Dillinger. In altri<br />
termini, se Tarantino, sullo sfondo della Storia (la grande Storia, quella con la S maiuscola),<br />
tesse una storia del tutto immaginaria che finisce paradossalmente, per ragioni di<br />
verosimiglianza interna, con lo stravolgere la Storia stessa, Mann, dal canto suo, punta ad un<br />
effetto opposto: ricostruire, col maggior grado di fedeltà possibile, la vicenda di Dillinger,<br />
mirando a far coincidere la storia del film con la Storia tout court. In questa direzione vanno<br />
dunque le scelte stilistiche, ancora una volta divergenti, compiute.<br />
Il film di Tarantino è un trionfo di quell’estetica ‘barocca’, fondata sul gusto dell’eccesso, della<br />
magnificenza visiva, dell’amore per la dilatazione dei dettagli (dalle pipe alle scarpe), del<br />
compiacimento per il sangue e per i particolari truculenti (gli scalpi dei nazisti), quell’estetica, si<br />
diceva, che da sempre gli è cara e che è qui, a differenza forse di quanto avveniva negli ultimi<br />
suoi film, messa completamente al servizio della storia, anzi delle storie che si intrecciano e<br />
sembrano ammiccare l’una all’altra, fino a ricongiungersi nello spettacolare finale. I giochi<br />
d’artificio insomma, le soluzioni ad effetto, i colpi di teatro più tipici del cinema tarantiniano<br />
(un certo uso della musica, il ricorso al finto documentario, le didascalie in sovrimpressione, la<br />
slow motion) sono anche qui la materia di cui il film si nutre, fin dall’inizio, ma tutto appare<br />
funzionale a far procedere il racconto, a indirizzare la narrazione sui binari, certamente irreali<br />
ma non per questo inverosimili, della reinvenzione storica.<br />
L’estetica “barocca” di “Bastardi senza gloria”<br />
Shosanna Dreyfus (Melanie Laurent) si dipinge il volto come un’indiana prima della “battaglia” finale.<br />
Anche l’uso dei colori (moltissime le tinte accese e i toni del rosso) indica da parte del regista<br />
l’intenzione di connotare il film con “tinte forti”.<br />
È anzi come se proprio la cornice storica che Tarantino sceglie, ossia la seconda guerra<br />
mondiale e, in particolare, la caccia agli ebrei, col suo campionario di assurdità, di efferatezze, di<br />
eccessi che l’hanno realmente contraddistinta, riuscisse di per sé a riscattare quei tratti che, a<br />
giudizio di alcuni e almeno in altri suoi film, potrebbero essere letti come mera ostentazione di<br />
uno stile, come esibizione gratuita di cinefilia da parte del regista americano. Si ha l’impressione<br />
che, proiettando su uno sfondo storico reale (e, almeno in parte, realisticamente rappresentato: i<br />
personaggi storici che compaiono nel film, da Hitler ai gerarchi nazisti, sono, ahimè, tutt’altro<br />
che grotteschi!) la vicenda della doppia vendetta progettata e realizzata dal gruppo dei ‘bastardi’<br />
(gli ebrei cacciatori di nazisti, guidati dal luogotenente Aldo Raine) e da Shosanna Dreyfus, la<br />
ragazza ebrea sopravvissuta al massacro della sua famiglia e proprietaria del cinema parigino in<br />
cui è ambientata la parte finale del film, Tarantino trovi, per così dire, il modo di esorcizzare la<br />
violenza cinematografica, conferendole una (stranissima) concretezza, giocando a confondere i<br />
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