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CINEMA<br />
Il realismo del verosimile e dell’inverosimile<br />
La via americana al racconto della Storia tra Mann e Tarantino<br />
ROBERTO MANDILE<br />
Se qualcuno dovesse individuare la costante estetica del nostro tempo, si troverebbe, com’è<br />
ovvio, in grave difficoltà, non solo perché è sempre difficile osservare i fenomeni culturali<br />
contemporanei con un occhio sufficientemente distaccato e una visione d’insieme abbastanza<br />
limpida, ma anche perché, sempre ammesso che ci si accordi sui parametri di giudizio e fatte<br />
salve le dovute semplificazioni che ogni discorso critico inevitabilmente produce, la mole delle<br />
opere a vario titolo ‘artistiche’ è comunque tale da non rendere agevole il riconoscimento di una<br />
linea comune. Limitando il discorso al cinema americano, che tanto influsso ha avuto e<br />
continua ad avere sulle forme dell’immaginario occidentale (ma certamente il ragionamento<br />
andrebbe applicato anche alla variegata e spesso ancor più interessante produzione di telefilm<br />
statunitensi), si resta ad esempio colpiti non tanto dal dato, ovvio in sé eppure carico di<br />
implicazioni, di come ogni elaborazione artistica che si rispetti passi (e debba passare) ormai<br />
attraverso una contaminazione di piani e di livelli, per soddisfare al contempo le non<br />
trascurabili esigenze commerciali e i palati, per così dire, più raffinati, ma dal fatto che, pur in<br />
presenza di un’ampia gamma di soluzioni estetiche, di stili, di forme espressive, si possa<br />
ravvisare al fondo di tutto, nella capacità di raccontare, di scrivere, di girare una storia, la traccia<br />
di quello che potremmo definire uno “spirito americano”. Non si tratta, lo ribadisco, di una<br />
questione di stili o di linguaggi (anche se c’entrano pure quelli), ma di una filosofia di fondo che<br />
mi azzarderei a definire il risultato del trasferimento, sul piano cinematografico, di un certo<br />
pragmatismo insito nella cultura americana come nella sua storia: l’idea, per certi versi banale<br />
ma quanto mai densa di significato, che un film (o un telefilm) debba incaricarsi di narrare, con<br />
la maggiore precisione possibile, un evento o una serie di eventi, non con l’intento<br />
programmatico di dimostrare qualcosa del mondo reale, ma con l’implicito accordo che la<br />
finzione sia al di sopra della realtà e possieda una forza, un interesse, una vitalità ben superiore<br />
ad essa. A ben guardare, siamo in presenza di un rovesciamento della logica puramente<br />
realistica o, per restare in ambito cinematografico, neorealistica: non si tratta cioè di raccontare<br />
la realtà attraverso il cinema, ma, al contrario, di raccontare il cinema attraverso la realtà. Cosa<br />
che, appunto, è di gran lunga più interessante.<br />
Una nota battuta di Alfred Hitchcock (uno dei tanti europei convertitisi, per il suo bene e per il<br />
nostro, al cinema americano) recita che “il dramma è la vita con le parti noiose tagliate”.<br />
L’aforisma torna in mente guardando due film di recente uscita che non potrebbero essere più<br />
diversi quanto a scelte linguistiche ed espressive, ma che appaiono accomunati, a mio avviso,<br />
dalla profondità d’intenti con cui si fanno carico di affermare un’idea di cinema attraverso il<br />
racconto di una storia. Si tratta di Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino e Nemico pubblico di<br />
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