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Ballard apre senza esitazioni con la mostra, e all’interno della mostra si muove, dissezionandola<br />
con uno stile più volte definito “chirurgico”, e servendosi in particolare del personaggio del<br />
dottor Nathan per “attraversare” le diverse e inquietanti opere (collages, foto ingrandite,<br />
quadri…) fornite dai pazienti.<br />
La mostra stessa, però, a sua volta non è che una manifestazione<br />
ESTERIORE della mente (dis)ordinatrice di Travis/Traven/Talbot<br />
ecc… Insomma: essa è un interno o un esterno? E’ un che di fon-<br />
damentalmente immaginario (ovvero, fa parte del delirio del pro-<br />
tagonista) oppure ha tratti di oggettività? A partire da questa<br />
ambiguità di fondo, Ballard costruisce la colossale inquietudine<br />
che pervade il libro, introdotta non a caso nella succitata prima<br />
frase: “La mostra di quest’anno […] aveva un segno inquietante.”<br />
Inquietudine determinata, in ampia parte, proprio dal fatto che<br />
il lettore non sa (e non può stabilire) se si trova all’interno o<br />
all’esterno del personaggio stesso! Il trasferimento ALL’ESTERNO,<br />
nel paesaggio, dei sistemi nervosi dei diversi personaggi (e in particolare di T.) si rivela una<br />
micidiale osmosi (anche letteraria, se vogliamo) che fa esplodere le funzioni narrative e<br />
costringe il lettore ad attraversare scenari mentali e forme di pensiero senza la rassicurazione<br />
dell’ “altro da sé”, ovvero senza la confortante certezza della “trama” classica.<br />
Poche idee fisse (dei fatti: la bomba atomica sganciata dall’Enola Gay, l’assassinio di John<br />
Fitzgerald Kennedy; ma anche delle parti corporee: la bocca di Jacqueline Kennedy, le<br />
geometrie dei corpi trasferite elle geometrie spaziali dei luoghi, e fuse con esse) tornano<br />
continuamente e innervano i “diversi” racconti, attraversano le opere della mostra commentate<br />
dal dottor Nathan alla ricerca di un filo conduttore.<br />
Cosa accade dentro la mente di T, ne La mostra delle atrocità, e cosa fuori? In verità, per quanto<br />
sia impossibile non porsi la domanda, bisognerebbe resistere alla tentazione di darsi una<br />
risposta. Ballard, intenzionalmente, scrisse seguendo il metodo (scrittorio più che psicanalitico,<br />
a mio parere) delle libere associazioni, alcune delle quali vengono sviscerate nelle fondamentali<br />
note, aggiunte da Ballard stesso in seguito alla stesura, mentre altre restano straordinariamente<br />
oscure e misteriose, punti di contatto tra elementi apparentemente eterogenei che producono<br />
inquietanti scenari mentali.<br />
Ora, lungi da me l’intenzione di fare esegesi ballardiana solo ed esclusivamente con l’appoggio<br />
della letteratura psicanalitica. Vorrebbe dire – scusatemi per la franchezza – banalizzare il<br />
pensiero e il lavoro dello scrittore inglese, che non è certo una filiazione da Freud o da altri,<br />
bensì una profonda e immaginifica rielaborazione del reale sulla base di certe sue connessioni<br />
segrete, sotterranee e misteriose che – per parlare con altrettanta franchezza – secondo me<br />
neppure la psicanalisi ha mai saputo esplorare così compiutamente.<br />
Ciò detto, in un celebre testo freudiano, Il disagio della civiltà, si trovano dei passi che possono<br />
aiutare ad approfondire il tema che dà il titolo a questo scritto. Scrive infatti Freud: “Un<br />
ulteriore incentivo al distacco dell’Io dalla massa delle sensazioni, al riconoscimento di un al di<br />
fuori, di un mondo esterno, è fornito dalle abbondanti, molteplici, inevitabili sensazioni di<br />
dolore e di dispiacere che, nell’esercizio del proprio illimitato dominio, il principio di piacere<br />
ordina di neutralizzare e di evitare. Sorge la tendenza a separare dall’Io tutto ciò che può<br />
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