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N° 6 - Giovanni Ficetola

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Sulla dialettica interno/esterno ne<br />

“La mostra delle atrocità”<br />

MATTEO FONTANA<br />

Anzitutto, un’avvertenza: questo scritto deve pur avere un titolo, e ho scelto quello che potete<br />

leggere qui sopra. Ma in realtà – sarà meglio chiarirlo subito – un libro come La mostra delle<br />

atrocità non si può analizzare sotto un unico aspetto.<br />

Romanzo (o raccolta di racconti) composito ed estremamente complesso,<br />

esso raccoglie, per ammissione dello stesso Ballard, molti temi che saranno<br />

sviluppati dallo scrittore inglese in lavori successivi, in particolare in Crash<br />

(1973) e ne L’Impero del Sole (1984).<br />

Ciò detto, per giustificare la scelta di questo particolare punto di vista<br />

sull’opera, mi rifaccio da un lato alle parole di William Burroughs, nella sua<br />

celebre prefazione al romanzo (pubblicata integralmente in questo numero<br />

della “Lanterna di Born”): “La linea di demarcazione fra paesaggio interno e<br />

paesaggio esterno è crollata. I terremoti possono essere originati da<br />

sconvolgimenti sismici all’interno della mente umana.”<br />

E, dall’altro lato, ad una ammissione dello stesso Ballard, che in una delle tante “note” che<br />

costellano “La mostra delle atrocità” scrive: “Qui, come ovunque ne La mostra delle atrocità, il<br />

sistema nervoso dei personaggi è stato esteriorizzato, come caso particolare di un più generale<br />

rovesciamento fra mondi interni ed esterni. Autostrade, uffici, volti, segnali stradali, sono<br />

percepiti come se fossero elementi difettosi di un sistema nervoso centrale.” 1<br />

Opera densissima e germinale, The Atrocity Exhibition (1969) era indicato da Ballard stesso come<br />

il suo libro più importante. Di certo si tratta di un lavoro complesso e attualissimo, dal grande<br />

fascino, pari forse solo a quello del successivo (ma meno innovativo sul piano formale) Crash<br />

(1973).<br />

La mostra delle atrocità non ha un impianto narrativo vero e proprio. Tramite l’espediente che dà<br />

il titolo al libro – una mostra allestita in una clinica psichiatrica da parte dei pazienti – Ballard si<br />

libera fin da subito dalla necessità di “raccontare una storia”. I diversi capitoli (o racconti) che<br />

compongono l’opera non sono che le diverse sfaccettature della mente di uno psicotico (o forse<br />

di un medico divenuto psicotico) dal cangiante nome di Travis/Traven/Talbot/Travers ecc…<br />

Solo l’iniziale T (e il ritorno, di racconto in racconto, di certi personaggi come la moglie<br />

Margaret, l’amante Karen Novotny, il dottor Nathan…) autorizzano a considerare “unitario” il<br />

personaggio.<br />

Per cominciare, potremmo dunque dire che l’intero racconto si dipana all’interno della mostra<br />

annualmente allestita nell’istituto psichiatrico. Si prenda l’attacco: “La mostra di quest’anno, alla<br />

quale i pazienti non erano stati invitati, aveva un segno inquietante: tutti i quadri insistevano sul<br />

tema della catastrofe planetaria…”.<br />

1 James G. BALLARD La mostra delle atrocità (Feltrinelli, 2001), pag. 68. Tutte le citazioni dalla Mostra delle atrocità<br />

presenti in quest’articolo sono tratte dall’edizione testé indicata.<br />

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