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N° 6 - Giovanni Ficetola

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Finora non avevamo mai confezionato numeri<br />

monografici nel vero senso del termine, ovvero<br />

dedicati ad un unico argomento o ad un’unica<br />

personalità. Nemmeno questo è un numero<br />

monografico, dato che ci piace troppo poter<br />

spaziare da un argomento all’altro,<br />

affrontandone diversi, dalla letteratura al cinema<br />

alle arti visive su su (o giù giù…) fino a<br />

trattazioni più eclettiche e indefinibili.<br />

Mai come in questo caso, però, ci avviciniamo<br />

alla monografia propriamente detta, dedicata a<br />

James Graham Ballard, scomparso purtroppo…<br />

(Segue a pag. 74)<br />

La Lanterna<br />

di Born<br />

Rivista di cultura umanistica<br />

n. 6 Fascicolo 36-40 aprile 2010<br />

Max Ernst<br />

“L’occhio del silenzio”<br />

(Olio su tela, 1943‐44)


IN QUESTO NUMERO<br />

LETTERATURA<br />

Tributo a<br />

JAMES BALLARD<br />

- Prefazione a “La mostra delle atrocità” (William S. Burroughs)……………………….…. pagina 5<br />

- Racconto - “L’assassinio di John Fitzgerald Kennedy considerato come una gara<br />

automobilistica in discesa” (James G. Ballard) …………………………….pagina 6<br />

- Racconto – “Storia segreta della Terza guerra mondiale” (James G. Ballard)……………….pagina 8<br />

- Intervento – Una nota in calce a “Storia segreta della Terza guerra mondiale”<br />

(Davide Gazzaniga)…………………………………………………….pagina 14<br />

- Articolo – Il mondo delle possibilità. A proposito di alcune interessanti affermazioni<br />

di J.G.Ballard (Matteo Fontana) …………………………………………pagina 15<br />

- Articolo – “Il condominio”: la fantascienza distorta di James G. Ballard<br />

(Roberto Mandile)…………………………………………………………pagina 20<br />

- Articolo – Sulla dialettica interno/esterno ne “La mostra delle atrocità”<br />

(Matteo Fontana)…………………………………………………………pagina 24<br />

- Articolo – La fantascienza non è più quella di una volta (<strong>Giovanni</strong> <strong>Ficetola</strong>) …… ……… pagina 29<br />

INTERSEZIONI<br />

- Articolo - Il corpo di Nikolai. Appunti su temi e ossessioni del cinema di David Cronenberg<br />

(Matteo Fontana)……………………..………………………….……….pagina 32<br />

CINEMA<br />

- Articolo - Il realismo del verosimile e dell’inverosimile: la via americana al racconto<br />

della Storia tra Mann e Tarantino (Roberto Mandile)…………………..……pagina 41<br />

CRITICA CINEMATOGRAFICA<br />

- “A serious Man” – La tragedia fuori campo dei fratelli Coen (Roberto Mandile)……...….pagina 47<br />

- “Sherlock Holmes” – Casino Royale (<strong>Giovanni</strong> <strong>Ficetola</strong>)…………………………...…. pagina 50<br />

- “Bastardi senza gloria” – Dio perdona, Tarantino no! (Matteo Fontana)………..…..….pagina 55<br />

- “The Millionaire” – Slumdog Oscar (<strong>Giovanni</strong> <strong>Ficetola</strong>)... ………………………...…..pagina 58<br />

- “The Hurt Locker” - Il realismo action di Katryn Bigelow (Matteo Fontana) ……….....pagina 61<br />

2


- “Il quarto tipo” – Benvenuti nel fantastico mondo del mockumentary<br />

(Matteo Fontana)……………………………………………....pagina 64<br />

(E)SPUNTI<br />

pagina 67<br />

- L’ineluttabile estinzione del pessimismo (Roberto Mandile)<br />

- Della differenza tra “dato di fatto” e “verità” (Matteo Fontana)<br />

- “Up in the Air”: quando il film ha il respiro del telefilm (Roberto Mandile)<br />

- Occhi (ma non del cuore!) puntati su “Boris” (<strong>Giovanni</strong> <strong>Ficetola</strong>)<br />

L’ULTIMA STANZA<br />

- Dalla Russia con amore (letteralmente!)……………………...……………………pagina 72<br />

3


LETTERATURA<br />

Tributo a<br />

JAMES BALLARD<br />

Il 19 aprile dell’anno scorso moriva James Graham Ballard,<br />

uno dei più importanti scrittori europei del XX secolo.<br />

Noi non siamo soliti emettere sentenze trancianti e<br />

inappellabili, preferiamo sempre discutere delle cose,<br />

offrire suggerimenti e spunti di riflessione, opinioni,<br />

considerazioni critiche. Le affermazioni che tentino di<br />

elevarsi al rango di Verità assolute e conclamate non fanno<br />

tanto per noi.<br />

In questo caso, però, ci sia consentito fare un’eccezione.<br />

La grandezza di James Ballard nel panorama letterario<br />

mondiale è assolutamente evidente, non solo sul piano<br />

(tutt’altro che indifferente, intendiamoci!) della bellezza<br />

“pura” della scrittura, ma anche per quanto riguarda la sua<br />

capacità (questa sì conclamata e sotto gli occhi di tutti) di<br />

prevedere sviluppi e patologie della società<br />

contemporanea.<br />

Scrittore “anomalo” di fantascienza, o meglio scrittore di una fantascienza anomala, James<br />

Ballard nacque a Shanghai il 15 novembre del 1930. Cominciò a pubblicare negli anni ’60,<br />

dopo aver abbandonato gli studi di medicina. Partito da una riflessione, già di per sé assai<br />

interessante, sul genere fantascientifico, sarebbe approdato negli anni ’70 e ’80 ad una<br />

letteratura “ibrida” e avvolgente, capace di esprimere come nessun’altra le inquietudini del<br />

tempo presente.<br />

A un anno di distanza dalla sua scomparsa, la “Lanterna di Born” – nel suo piccolo – ha<br />

deciso di offrirgli un sincero tributo, nel modo più semplice e garbato possibile: pubblicando<br />

– a mo’ di invito alla lettura – due suoi racconti e dedicandogli tre articoli volti non già a dare<br />

della sua figura e del suo lavoro un’immagine definitiva ed esaustiva, ma a introdurre<br />

determinate tematiche la cui importanza, non solo nell’ambito della storia della letteratura ma<br />

soprattutto in quello, più ampio, della Storia tout-court, appare evidente.<br />

Vi lasciamo perciò anzitutto alla lettura dei testi di Ballard,<br />

che abbiamo deciso di introdurre con una firma d’eccezio-<br />

ne, quella di William S. Burroughs, altro grandissimo inter-<br />

prete del Novecento letterario di lingua inglese. Vi propo-<br />

niamo la celebre prefazione che Burroughs scrisse per “La<br />

mostra delle atrocità”: una pagina densa di significato e di<br />

suggestioni, vero omaggio – da scrittore a scrittore – alla<br />

potenza immaginativa (e preconizzatrice) di James Ballard.<br />

James Graham Ballard<br />

(1930 – 2009)<br />

4


Prefazione a “La mostra delle atrocità”<br />

WILLIAM S. BURROUGHS<br />

La mostra delle atrocità è un libro intenso e inquietante. Le radici non sessuali della sessualità qui<br />

sono esplorate con una precisione chirurgica. Un incidente d’auto può essere sessualmente<br />

stimolante più di un’immagine pornografica. (Gli studi indicano che le polluzioni notturne<br />

spesso non derivano da sogni con chiari contenuti sessuali, mentre i sogni con chiari contenuti<br />

sessuali in molti casi non portano all’orgasmo.) Il libro si apre così: “La mostra di quest’anno<br />

[…] aveva un segno inquietante: tutti i quadri insistevano sul tema della catastrofe planetaria,<br />

come se questi pazienti, così a lungo segregati, avessero avvertito nelle menti dei dottori e delle<br />

infermiere una specie di sconvolgimento sismico.”<br />

La linea di demarcazione fra paesaggio interno e paesaggio esterno è crollata. I terremoti<br />

possono essere originati da sconvolgimenti sismici all’interno della mente umana. L’intero<br />

universo randomizzato dell’età industriale esplode in frammenti criptici: “in un deposito di auto<br />

in demolizione trovo la carcassa carbonizzata della Pontiac bianca, il prepuzio nasale di L.B.J.,<br />

elicotteri precipitati, Eichmann vestito da donna, un bimbo morto…”. Il corpo umano diventa<br />

paesaggio: “Un pannello di una trentina di metri che all’apparenza rappresentava la sezione di<br />

una duna di sabbia. Guardando più attentamente, però, il dottor Nathan si accorse che<br />

l’immagine era una porzione della pelle sopra la cresta iliaca…”. Questo ingrandirsi<br />

dell’immagine a un punto tale che essa diviene irriconoscibile è un leit-motiv di La mostra delle<br />

atrocità. Questo è ciò che nel campo dell’arte fa Bob Rauschenberg: fa letteralmente saltare per<br />

aria (blowing up), ingrandendola, l’immagine. Poiché le persone sono fatte di immagini, questo è,<br />

alla lettera, un libro esplosivo. L’immagine dell’uomo esplode in rocce, pietre e alberi: “ Le rupi<br />

porose di Tenerife […] portando così alla luce il primo paesaggio spinale. Le rupi vetrificate,<br />

sospese sopra la palude silenziosa […]. Lo specchio di questa palude non riflette nulla. E qui il<br />

tempo non fa concessioni.”<br />

L’eccitazione sessuale deriva dalla ripetizione e dall’impatto dell’immagine: “Ogni pomeriggio<br />

nel cinema deserto. Contenuto sessuale latente degli scontri automobilistici […] James Dean,<br />

Jayne Mansfield, Albert Camus […]. Molti volontari si convincevano che le vittime fossero<br />

ancora vive e in seguito usavano l’una o l’altra di esse per eccitarsi durante l’atto sessuale col<br />

proprio partner.”<br />

James Dean teneva appeso in salotto un nodo scorsoio, e se lo metteva attorno al collo quando<br />

posava per qualche nuova immagine. Un pittore di nome Milton che aveva dipinto un quadro<br />

sexy intitolato La morte di James Dean dopo qualche tempo si suicidò. Questo libro va a frugare<br />

nelle profondità del sesso come nessun libro pornografico illustrato, neanche il più hardcore, ha<br />

mai fatto. “La conseguenza che ne scaturisce necessariamente è la psicopatologia del sesso, e le<br />

relazioni sono ormai così lunari e astratte che la gente diventa una pura estensione della<br />

geometria delle varie situazioni. Il che permette l’esplorazione di ogni aspetto della<br />

psicopatologia sessuale senza che ciò implichi alcuna traccia di colpevolezza.”<br />

Porzioni immensamente ingrandite di James Dean dopo qualche tempo si suicidarono. Nelle<br />

menti più forti i contenuti concettuali si collegano alla profondità del sesso. Eichmann vestito<br />

da donna in un deposito desolato di rupi porose in demolizione.<br />

5


L’assassinio di John Fitzgerald Kennedy considerato<br />

come una gara automobilistica in discesa<br />

JAMES G. BALLARD<br />

Nota dell’autore. L’assassinio del presidente Kennedy il 22 novembre 1963 ha posto numerose questioni, alle<br />

quali il rapporto della commissione Warren non è stato sempre in grado di dare una risposta. Si può supporre<br />

che un resoconto meno convenzionale di quanto accadde in quella fatale giornata possa fornire una spiegazione<br />

più convincente. A questo scopo ci può offrire un’utile traccia La crocifissione considerata come una gara<br />

ciclistica in salita di Alfred Jarry.<br />

Oswald diede il via.<br />

Dalla finestra che dava sulla pista aprì la gara sparando il colpo di avvio. E’ convinzione<br />

comune che questo primo colpo non sia stato udito distintamente da tutti i corridori. Nella<br />

confusione che ne seguì, Oswald provvide a sparare altri due colpi, ma a quel punto la gara era<br />

già iniziata.<br />

Kennedy partì male.<br />

Nella sua macchina c’era un regolatore di giri *, che mantenne la velocità costante sui 24<br />

chilometri all’ora. E’ vero che poco dopo, quando il regolatore venne messo fuori uso, la<br />

macchina accelerò rapidamente e mantenne una velocità elevata per il resto della gara.<br />

Le squadre ospiti. Poiché si trattava della prima gara di produzione automobilistica che si<br />

disputasse per le strade di Dallas, partecipavano sia il presidente sia il vicepresidente. Sulla linea<br />

di partenza il vicepresidente Johnson aveva preso posizione dietro Kennedy. La rivalità tra i<br />

due, per quanto dissimulata, destava grande interesse tra il pubblico. Nella folla. Molti<br />

sostenevano il pilota di casa, Johnson.<br />

Il punto di partenza fu il Texas Book Depository, dove erano state fatte tutte le scommesse<br />

sulla corsa presidenziale. Kennedy non era un concorrente popolare a Dallas, e molti tra il<br />

pubblico gli mostravano un’aperta ostilità. Il deplorevole incidente, che tutti ben conosciamo,<br />

dimostra quanto ciò fosse vero.<br />

Il percorso proseguiva in discesa e dal Book Depository, sotto un cavalcavia, puntava verso il<br />

Parkland Hospital e da lì al Love Air Field. ** E’ uno dei percorsi più rischiosi per una gara<br />

automobilistica in discesa, secondo solo alla pista di Sarajevo, che fu squalificata nel 1914.<br />

Kennedy affrontò la discesa in velocità. Dopo il guasto al regolatore la macchina infatti filava<br />

come un razzo. Un funzionario di gara, allarmato, tentò di salire sull’automobile, che continuò<br />

invece per la sua strada affrontando la curva su due ruote.<br />

* In inglese governor, che significa sia “regolatore” in senso meccanico, sia “governatore” con allusione al governatore<br />

del Texas Connolly che era sulla macchina di Kennedy e rimase ferito. Il gioco di parole non è traducibile in italiano.<br />

[N.d.T]<br />

** Si tratta del campo di atterraggio alla periferia di Dallas, dove era in attesa l’aereo presidenziale [N.d.T].<br />

6


Cambiamento in classifica. All’ospedale Kennedy fu squalificato per aver affrontato la curva in<br />

modo errato.<br />

Johnson prese allora il comando della gara che mantenne fino al traguardo.<br />

La bandiera. Per sottolineare la partecipazione del presidente alla gara, invece della consueta<br />

bandiera a scacchi quadrata fu usata l’Old Glory. *** Le fotografie di Johnson che riceve il<br />

premio dopo aver vinto la gara rivelano come egli avesse già deciso di tenersi la bandiera come<br />

ricordo della vittoria.<br />

All’inizio Johnson era stato costretto a tenere una posizione arretrata, come dimostra la sua<br />

partenza dietro al presidente. E in effetti un tentativo da parte sua di guadagnare posizioni<br />

rispetto a Kennedy durante la falsa partenza fu sventato da un inserviente che lo gettò sul<br />

pavimento della sua automobile.<br />

La confusione creatasi alla partenza della gara è stata senza dubbio responsabile dell’incidente<br />

alla curva dell’ospedale e della conseguente espulsione di Kennedy, che sulla base delle prove<br />

passate veniva considerato sicuro vincitore. Si può supporre allora che il pubblico del luogo,<br />

ostile a Kennedy e desideroso di veder trionfare Johnson, che giocava in casa, abbia deciso di<br />

impedire in tutti i modi al presidente di completare la gara. Un’altra teoria sostiene invece che i<br />

poliziotti di guardia alla pista fossero in combutta con lo starter, Oswald. Dopo essere<br />

finalmente riuscito a dare il via alla corsa, quest’ultimo aveva immediatamente abbandonato il<br />

luogo della gara, e solo successivamente i funzionari l’avevano arrestato.<br />

Johnson non si sarebbe certo aspettato di vincere la gara in quel modo. Non c’erano state<br />

neppure le fermate ai box.<br />

Certo, alcuni aspetti della gara continuano a sembrare sconcertanti. Uno di questi è la presenza<br />

nell’automobile della moglie del presidente, una pratica che non è comun fra i piloti da corsa. Si<br />

può pensare che Kennedy abbia ritenuto di avere comunque diritto a certi privilegi, finché<br />

rimaneva alla guida dello stato.<br />

La commissione Warren. Intrallazzi intorno al verbale della gara. Nel loro rapporto, resosi<br />

necessario per le diffuse proteste sui comportamenti scorretti e le altre irregolarità, i commissari<br />

attribuirono tutta la colpa allo starter, Oswald.<br />

Ora non c’è dubbio che Oswald sbagliò completamente il colpo di avvio. E tuttavia c’è una<br />

domanda alla quale nessuno finora ha dato risposta: chi aveva caricato la pistola del via?<br />

(Da “La mostra delle atrocità” – Feltrinelli, 2001 – Traduzione di Antonio Caronia)<br />

*** E’ la bandiera a stelle e strisce degli Stati Uniti d’America. [N.d.T]<br />

7


Storia segreta della Terza guerra mondiale<br />

JAMES G. BALLARD<br />

Adesso che la Terza guerra mondiale è finita, e la sicurezza regna sovrana, mi sento<br />

autorizzato a esprimere la mia opinione su due importanti aspetti di questa terribile faccenda.<br />

La prima osservazione è questa: il confronto nucleare, che il mondo ha atteso e temuto cos a<br />

lungo e che, tutti ne erano convinti, avrebbe dovuto distruggere ogni forma di vita sul nostro<br />

pianeta, è durato in realtà quattro minuti scarsi. Per quanto ciò possa sorprendere i lettori, la<br />

Terza guerra mondiale ha avuto luogo fra le 18.47 e le 18.51 ora standard orientale del 27<br />

gennaio 1995. La durata complessiva delle ostilità, dalla dichiarazione formale di guerra del<br />

presidente Reagan, al lancio di cinque missili nucleari da sottomarini (tre americani e due russi),<br />

fino ai primi sondaggi di pace e poi all’armistizio concordato tra il presidente e il signor<br />

Gorbaciov, non ha richiesto più di 245 secondi. La Terza guerra mondiale era già finita prima<br />

che qualcuno avesse tempo di capire che era cominciata.<br />

La seconda eccezionale caratteristica della Terza guerra mondiale è che io sono<br />

praticamente l’unica persona al mondo a sapere che essa ha avuto luogo. Può sembrare strano<br />

che un pediatra della piccola città di Arlington, a pochi chilometri a est di Washington D.C., sia<br />

l’unico a essere al corrente di un evento storico di questa portata.<br />

Dopo tutto, le notizie sull’aggravamento della crisi politica, la sofferta dichiarazione di<br />

guerra del presidente, e il conseguente scambio di missili nucleari, sono tutti fatti che il pubblico<br />

ha potuto conoscere grazie alle trasmissioni televisive diffuse in tutta la nazione. La Terza<br />

guerra mondiale non è stata un segreto. Ma l’attenzione della gente era rivolta a questioni più<br />

importanti. Nella sua ossessiva preoccupazione per la salute del proprio vertice politico, il<br />

pubblico è riuscito a ignorare come per miracolo una minaccia ben più consistente al proprio<br />

benessere.<br />

Se vogliamo essere precisi, è ovvio che non sono stato l’unico testimone della Terza<br />

guerra mondiale. Qualche ufficiale di alto grado degli alti comandi della NATO e del Patto di<br />

Varsavia, il presidente Reagan, naturalmente, e il signor Gorbaciov, con i loro aiutanti, come<br />

anche gli ufficiali dei sottomarini che hanno decodificato gli ordini di lancio e hanno indirizzato<br />

i missili sugli obiettivi (zone spopolate dell’Alaska e della Siberia dell’est), tutti costoro erano<br />

ben consapevoli che la guerra era stata dichiarata, e che pochi minuti dopo era intervenuto un<br />

cessate il fuoco. Io parlo della gente comune: ebbene, devo ancora incontrarne uno che abbia<br />

sentito parlare di una Terza guerra mondiale. Ogni volta che faccio un accenno alla guerra la<br />

gente mi fissa incredula. Diversi genitori hanno ritirato i propri bambini dalla mia clinica<br />

pediatrica, evidentemente preoccupati per la mia salute mentale. Proprio ieri una mamma cui<br />

avevo casualmente fatto cenno della guerra ha telefonato a mia moglie per esprimerle la sua<br />

preoccupazione. Ma anche Susan, come tutti gli altri, ha dimenticato la guerra, nonostante le<br />

abbia fatto vedere le registrazioni della ABC, della NBC e della CNN del 27 gennaio, che<br />

annunciano effettivamente l’inizio della terza guerra mondiale.<br />

Il fatto che io sia l’unico ad aver appreso della guerra mi sembra da mettere in relazione<br />

con le strane caratteristiche della terza presidenza Reagan. Non è esagerato dire che gli Stati<br />

Uniti e gran parte del mondo occidentale, quando nel 1989 il vecchio attore si era ritirato in<br />

8


California dopo l’inizio del mandato del suo sfortunato successore, avevano sofferto<br />

acutamente la mancanza del personaggio. Il moltiplicarsi dei problemi sulla scena mondiale (la<br />

nuova crisi dell’energia, il secondo conflitto Iran-Iraq, la destabilizzazione delle repubbliche<br />

sovietiche dell’Asia, e negli Stati Uniti la preoccupante alleanza tra l’Islam e il femminismo<br />

militante) aveva creato una grande nostalgia per gli anni di Reagan. Tutti ricordavano con<br />

simpatia le sue gaffe e i piccoli gesti che rivelavano la sua inettitudine, quel suo indulgere a<br />

guardare la TV sdraiato sul divano invece di occuparsi di questioni più importanti (un’abitudine<br />

condivisa peraltro dai suoi elettori), quel confondere la realtà con i brandelli di ricordi dei film<br />

della sua giovinezza.<br />

I turisti si raccoglievano a centinaia fuori dai cancelli del suo ritiro a Bel Air, e ogni tanto<br />

l’ex presidente usciva con passo malfermo e posava per loro sulla veranda. Qui, imbeccato da<br />

una Nancy sempre lucida, articolava qualche piacevole banalità che faceva venire le lacrime agli<br />

occhi ai suoi ascoltatori, e sollevava tanto i loro cuori quanto il mercato mondiale. Quando la<br />

presidenza del suo successore giunse al termine nel modo tragico che sappiamo, entrambi i rami<br />

del Parlamento approvarono senza difficoltà l’emendamento costituzionale che aboliva<br />

l’impossibilità di più di due elezioni per la stessa persona: con l’esplicito scopo di permettere a<br />

Reagan di potersi insediare per la terza volta alla Casa Bianca.<br />

Nel gennaio 1993 più di un milione di persone si raccolse nelle strade di Washington per<br />

salutare il suo corteo inaugurale, mentre il resto del mondo lo guardava alla televisione. Se io<br />

tubi catodici potessero piangere, quella volta certamente l’avrebbero fatto.<br />

E tuttavia qualche dubbio rimaneva, perché le grandi crisi politiche mondiali si<br />

rifiutavano ostinatamente di arrendersi, anche davanti al sorriso accattivante del vecchio<br />

presidente. La guerra Iran-Iraq minacciava di coinvolgere la Turchia e l’Afghanistan. Sfidando il<br />

Cremlino, le repubbliche baltiche dell’URSS andavano formando milizie armate autonome. Yves<br />

Saint-Laurent aveva disegnato il primo chador per le femministe islamizzate degli uffici alla<br />

moda di Manhattan, Londra e Parigi. Ce l’avrebbe fatta la presidenza Reagan, con un mondo in<br />

cui tutto andava così storto?<br />

Dopo aver visto il presidente in televisione, il mio socio (medico anch’egli) e io ne<br />

dubitavamo seriamente. A quel tempo, nell’estate de 1994, Ronald Reagan aveva ottantatre<br />

anni, e mostrava tutti i segni di un’avanzata senilità. Come molte persone anziane disponeva, in<br />

una giornata, di pochi minuti di relativa lucidità, durante i quali poteva pronunciare qualche<br />

frase sentenziosa, e il resto scorreva in un vitreo crepuscolo. I suoi occhi erano troppo malconci<br />

per leggere il gobbo, ma i suoi assistenti avevano approfittato dell’apparecchio acustico che il<br />

presidente aveva sempre portato per inserire un microscopico microfono, cosicché nei suoi<br />

discorsi egli poteva ripetere come uno scolaretto tutto quello che gli arrivava nell’auricolare. Le<br />

pause venivano cancellate nell’edizione televisiva, ma gli inconvenienti del controllo a distanza<br />

saltarono fuori una volta che il presidente, in un incontro con le Madri cattoliche d’America,<br />

arringò le arcigne signore ripetendo quello che stava dicendo fuori scena un tecnico audio:<br />

“Muovi il culo, che devo andare a pisciare.”<br />

Guardando questa figura da robot, con i suoi sorrisi allucinati e le sue smorfie da<br />

sciocco, qualcuno cominciava a chiedersi se il presidente avesse ancora la testa a posto, o<br />

addirittura se fosse davvero vivo. Per rassicurare il pubblico degli americani, nervosi e spiazzati<br />

da un mercato in declino e dalle notizie dell’insurrezione armata in Ucraina, i medici della Casa<br />

Bianca a un certo punto cominciarono a diffondere una serie di regolari bollettini sulla salute<br />

del presidente. Un gruppo di specialisti del Walter Reed Hospital annunciarono alla nazione che<br />

Reagan aveva la forma fisica e la vivacità mentale di un uomo con quindici anni di meno. I dati<br />

particolareggiati sulla sua pressione sanguigna, sul conteggio dei globuli bianchi e rossi, sul<br />

battito cardiaco e la respirazione, vennero diffusi in tutti i notiziari TV ed ebbero un immediato<br />

effetto calmante. Il giorno seguente il mercato mondiale ebbe una memorabile impennata, i<br />

9


tassi d’interesse precipitarono, e il signor Gorbaciov fu in grado di annunciare che i separatisti<br />

ucraini avevano attenuato le loro richieste.<br />

Per sfruttare il vantaggio di questa imprevedibile stabilizzazione politica collegata alla<br />

funzionalità fisica del presidente, lo staff della Casa Bianca decise di dare ai bollettini medici una<br />

cadenza settimanale. Wall Street rispose positivamente, e i sondaggi d’opinione mostrarono<br />

addirittura una forte ripresa del Partito Repubblicano in quanto tale. All’epoca delle elezioni per<br />

il Congresso di metà legislatura, i bollettini medici vennero diffusi giornalmente, e i candidati<br />

repubblicani ottennero la maggioranza sia alla Camera sia al Senato, grazie alle buone notizie<br />

sugli intestini del presidente diffuse alla vigilia del voto.<br />

Da quel momento in poi il pubblico americano è stato investito da un flusso continuo di<br />

informazioni sulla salute del presidente. Una serie di edizioni successive lungo tutta la giornata<br />

rendeva conto ai telespettatori degli effetti collaterali di un lieve raffreddore o dei benefici sulla<br />

circolazione di un tuffo nella piscina della Casa Bianca. Ricordo bene la vigilia di Natale: mia<br />

moglie preparava il cenone e io guardavo il telegiornale, notando che i particolari sulla salute del<br />

presidente occupavano cinque delle sei notizie principali.<br />

“Allora lo zucchero nel sangue è un po’ diminuito”, osservò mia moglie mentre<br />

apparecchiava la tavola. “Buone notizie per la Quaker Oats e la Pepsi.”<br />

“Davvero? Ma che diavolo di rapporto ci può essere?”<br />

“C’è, c’è, più di quello che pensi.” Lei si sedette sul sofà vicino a me, col macinino del<br />

pepe in mano. “Dobbiamo aspettare l’ultima analisi delle urine. Potrebbe essere decisiva.”<br />

“Tesoro, quello che succede al confine del Pakistan potrebbe essere decisivo. Gorbaciov<br />

ha minacciato un attacco preventivo contro le zone controllate dai ribelli. Gli Stati Uniti hanno<br />

firmato un trattato che comporta degli obblighi, in teoria la guerra potrebbe…”<br />

“Sss…” Susan mi diede un colpetto sul ginocchio con macinino del pepe. “Gli hanno<br />

appena fatto un Inventario di personalità Eysenck… il vecchietto ha totalizzato il massimo dei<br />

punti nella risonanza emotiva e nella capacità di relazione. Tenendo conto dei fattori correttivi<br />

per l’età, dicono… non so bene che cosa voglia dire.”<br />

“Vuol dire che è praticamente un relitto umano.” Io stavo per cambiare canale, sperando<br />

di vedere qualcosa sui veri guai che c’erano in giro per il mondo, ma nella parte inferiore dello<br />

schermo era apparsa una strana figura, una specie di decorazione natalizia, pensavo io, come il<br />

profilo di un agrifoglio stilizzato. L’onda si spostava ritmicamente da sinistra a destra, mentre in<br />

sottofondo si sentiva la melodia ipnotica e nostalgica di Bianco Natale.<br />

“Dio santo…” sussurrò Susan timorosa. “E’ il battito di Ronnie. Hai sentito<br />

l’annunciatore? ‘In diretta il cuore del presidente’.”<br />

Questo fu solo l’inizio. Nelle settimane seguenti, grazie al miracolo della radiotelemetria,<br />

gli schermi televisivi di tutta la nazione divennero un tabellone che registrava ogni particolare<br />

delle funzioni fisiche e mentali del presidente. Il battito del suo cuore si snodava ardito e un po’<br />

tremolante nella banda inferiore dello schermo, mentre sopra di esso i telecronisti si<br />

dilungavano sui suoi esercizi fisici quotidiani, sugli otto metri e mezzo che aveva percorso nel<br />

giardino delle rose, sul bilancio calorico del suo modesto pranzo, sui risultai dell’ultima analisi<br />

cerebrale, sui dati dell’attività dei suoi reni, del suo fegato e dei suoi polmoni. E poi una<br />

quantità infernale di test di personalità e di misurazioni del QI, tutti destinati a rassicurare gli<br />

americani che l’uomo ala guida del mondo libero era più che preparato a far fronte agli immani<br />

compiti che incombevano sulla scrivania dello studio ovale.<br />

A tutti gli scopi pratici, come cercavo di spiegare a Susan, il presidente era poco più che<br />

un cadavere collegato a un impianto di amplificazione. Io e i miei colleghi della clinica<br />

pediatrica eravamo ben consapevoli della dura priva cui si sottoponeva il vecchio con quella<br />

sfilza di test. Ma lo staff della Casa Bianca sapeva bene che gli americani erano ipnotizzati dallo<br />

spettacolo del battito cardiaco del presidente. La linea adesso scorreva sotto tutti i programmi,<br />

accompagnava le commedie leggere, le partite di basket e i vecchi film sulla seconda guerra<br />

10


mondiale. Quel battito accelerato a volte si accompagnava misteriosamente bene con le risposte<br />

emotive del pubblico, indicando che il presidente stesso stava guardando gli stessi film di<br />

guerra, compresi quelli in cui aveva recitato.<br />

Per rendere più completa l’identificazione fra i presidente, il pubblico e gli schermi<br />

televisivi – un obiettivo che i suoi consiglieri politici avevano vagheggiato a lungo – lo staff<br />

presidenziale si diede da fare per ampliare il ventaglio delle informazioni da diffondere. Ben<br />

presto un terzo degli schermi televisivi della nazione furono occupati da grafici del battito<br />

cardiaco e della pressione sanguigna e da elettroencefalogrammi.<br />

Scoppiò qualche timida polemica quando fu chiaro che in questi ultimi predominavano<br />

le onde delta, confermando l’ipotesi da tempo avanzata che il presidente dormisse la maggior<br />

parte della giornata. La gente comunque aveva sempre un brivido quando Reagan entrava nel<br />

sonno REM, e il sonno della nazione coincideva con quello del capo del suo esecutivo.<br />

Indifferenti a questa alluvione di informazioni mediche, gli eventi del mondo reale<br />

continuavano a scendere per la loro china pericolosa. Compravo tutti i giornali che riuscivo<br />

trovare, ma le pagine erano dominate dai grafici sui bollettini sanitari di Reagan e dagli articoli<br />

esplicativi sul significato della funzionalità enzimatica del suo fegato o sulla minima variazione,<br />

positiva o negativa, della concentrazione delle sue urine. Relegati nelle ultime pagine leggevo<br />

brevi rapporti sulla guerra civile nelle repubbliche asiatiche dell’Unione Sovietica, sul tentato<br />

colpo di stato filo-russo in Pakistan, sull’invasione cinese del Nepal, sulla mobilitazione dei<br />

riservisti nella NATO e nel Patto di Varsavia, sul rafforzamento della Quinta e della Settima<br />

flotta USA.<br />

Questi eventi minacciosi, e la probabilità di una Terza guerra mondiale, coincisero per<br />

sfortuna con un leggero peggioramento della salute del presidente. Il banale raffreddore<br />

attaccato a Reagan da un nipotino che gli aveva fatto visita il 20 gennaio spazzò via dai<br />

televisori tutte le altre notizie. Un esercito di giornalisti e di cameraman si accampò davanti alla<br />

Casa Bianca, mentre una task force di specialisti provenienti dai maggiori istituti di ricerca del<br />

paese occupò tutti i canali rilasciando dichiarazioni e fornendo interpretazioni di dati medici.<br />

Come altri cento milioni di americani, Susan trascorse la settimana seguente davanti alla<br />

televisione, con gli occhi fissi sul battito cardiaco di Reagan.<br />

“E’ solo un raffreddore”, la rassicurai al mio ritorno dalla clinica il 27 gennaio. “Che<br />

notizie ci sono dal Pakistan? Girano voci che i sovietici abbiano paracadutato degli uomini<br />

dentro Karachi. La Delta Force si sta muovendo dalla Subik Bay…”<br />

“Aspetta, aspetta!” mi zittì agitata, alzando il volume per sentire il giornalista che<br />

cominciava a leggere un altro notiziario.<br />

“…ecco un aggiornamento del nostro telegiornale di due minuti fa. Buone notizie<br />

dall’ultima analisi TAC del presidente. Non ci sono variazioni anormali della forma o delle<br />

dimensioni dei ventricoli del presidente. Per questa notte è prevista una leggera pioggia su tutta<br />

la regione di Washington; l’Ottava divisione aerotrasportata ha scambiato dei colpi di arma da<br />

fuoco con le pattuglie sovietiche di confine a nord di Kabul. Saremo di nuovo con voi dopo<br />

una breve interruzione per un servizio sul’ultimo picco del grafico del lobo temporale<br />

sinistro…”<br />

“Ma per amor del cielo, non ha senso!” Strappai il telecomando dalla mano contratta di<br />

Susan e cominciai a girare tutti i canali. “Cos’ha combinato la flotta russa del Baltico? Il<br />

Cremlino sta esercitando una contropressione sul fianco settentrionale della NATO. Gli Stati<br />

Uniti devono dare una risposta…”<br />

Per puro caso riuscii a trovare un giornalista famoso che stava concludendo un<br />

notiziario. Si rivolgeva confidenzialmente al pubblico, ammiccando, mentre la sua fascinosa<br />

collega aveva il sorriso incollato alla bocca.<br />

“…alle 5.05 ora standard orientale la pressione cranica interna del presidente Reagan è<br />

soddisfacente. Le funzioni motorie e intellettive sono nella normalità per un uomo dell’età del<br />

11


presidente. Ripeto, le funzioni motorie e intellettive sono nella normalità. C’è un flash che è<br />

arrivato in questo momento. Alle 2.35 ora locale il presidente Reagan ha compiuto un<br />

movimento intestinale, con esito soddisfacente.” Il telecronista si volse verso la sua compagna.<br />

“Barbara, c’è una notizia analoga riguarda a Nancy, credo?”<br />

“Grazie, Dan”, lei prese la parola con disinvoltura. “Sì, esattamente un’ora più tardi, alle<br />

3.35 ora locale, Nancy ha avuto il suo movimento intestinale, il secondo della giornata; e questo<br />

è tutto per quanto riguarda le notizie sulla Prima Famiglia.” Diede un’occhiata a una striscia di<br />

carta che era scivolata sul tavolo. “Il traffico in Pennsylvania Avenue si sta facendo di nuovo<br />

più intenso, mentre gli F-16 della sesta flotta hanno abbattuto sette MiG-29 sopra lo stretto di<br />

Bering. La pressione sanguigna del presidente è a 100 su 60. L’elettrocardiogramma mostra un<br />

leggero tremore a sinistra…”<br />

“Tremore a sinistra…” ripeté Susan, con i pugni stretti. “Non sarà una cosa seria?”<br />

Picchiettai il telecomando. “Può essere. Forse sta pensando che presto dovrà schiacciare il<br />

bottone nucleare. Oppure…”<br />

Mi era venuta in mente una possibilità ancora più agghiacciante. Mi buttai nel marasma<br />

dei telegiornali in concorrenza l’uno con l’altro sperando di distrarre Susan, mentre spiavo il<br />

cielo notturno sopra Washington. La flotta sovietica incrociava a 700 chilometri al largo della<br />

costa orientale degli Stati Uniti. Presto sul Pentagono sarebbero sorte delle nubi a forma di<br />

fungo.<br />

“…si ha notizia di una leggera disfunzione pituitaria, a proposito della quale i medici de<br />

presidente hanno espresso una moderata preoccupazione. Ripeto, una moderata<br />

preoccupazione. Il presidente ha convocato il Consiglio di sicurezza nazionale circa mezz’ora<br />

fa. Il quartier generale del SAC a Omaha, Nebraska, informa che tutte le squadre di attacco dei<br />

B-52 si sono levate in volo. Ecco, mi portano ora l’ultimo bollettino dell’Unità oncologica della<br />

Casa Bianca. E’ stata effettuata una biopsia di un tumore benigno della pelle alle 4.15 ora di<br />

Washington…”<br />

“…i medici del presidente hanno nuovamente espresso la loro preoccupazione per la<br />

calcificazione delle arterie di Reagan e per l’indurimento delle sue valvole cardiache. Si prevede<br />

che l’uragano Clara eviterà Puerto Rico. Il presidente ha invocato l’Emergency War Powers Act.<br />

Dopo l’interruzione avremo altre analisi di esperti sull’amnesia retrograda di Reagan. Come<br />

ricorderete, questa situazione può far pensare a una sospetta sindrome di Korsakov…”<br />

“…impedimento psicomotorio, distorsione del senso del tempo, cambiamenti nella<br />

percezione dei colori e vertigini. Il presidente lamenta anche una crescente percezione di odori<br />

fastidiosi. Vi do ancora qualche notizia arrivata in questo istante: stanno imperversando bufere<br />

sul Midwest, e adesso c’è stato di guerra fra Stati Uniti e Unione Sovietica. Rimanete<br />

sintonizzati su questo canale perché tra breve vi daremo un aggiornamento completo sul<br />

metabolismo del cervello del presidente…”<br />

“Ci siamo, è la guerra” dissi a Susan, e la abbracciai. Ma lei stava guardando sullo<br />

schermo la traccia erratica del cuore. Il presidente aveva avuto un attacco di pazzia scatenando i<br />

missili nucleari sui russi? I bollettini medici martellanti erano un abile camuffamento per<br />

impedire al pubblico televisivo di reagire in modo disperato all’emergenza nazionale? I missili<br />

russi avrebbero impiegato pochi minuti a raggiungere Washington: guardavo ancora il tranquillo<br />

cielo invernale. Tenendo fra le braccia Susan, ascoltavo la cacofonia dei bollettini medici, fino a<br />

che circa quattro minuti più tardi, sentii:<br />

“… i medici del presidente parlano di pupille dilatate e di tremore convulsivo, ma i<br />

sistemi di sostegno neurochimico funzionano in modo soddisfacente. Il metabolismo cerebrale<br />

del presidente rivela un’accresciuta produzione di glucosio. Sono previste tempeste di neve,<br />

questa notte, in diverse località, e fra Stati Uniti e Unione Sovietica è stato raggiunto un accordo<br />

per la cessazione delle ostilità. Dopo il break, gli esperti commenteranno l’ultimo attacco di<br />

12


flatulenza del presidente, e ci diranno come mai la palpebra sinistra di Nancy ha avuto bisogno<br />

di un’operazione di ripiegatura…”<br />

Spensi la televisione e appoggiai la schiena al divano in quello strano silenzio. Un piccolo<br />

elicottero stava sorvolando il cielo grigio di Washington. Come se stessi facendo una riflessione,<br />

dissi a Susan: “A proposito: la Terza guerra mondiale è finita proprio adesso.”<br />

Susan, naturalmente, non aveva idea che la guerra fosse neppure cominciata: e<br />

l’ignoranza era comune a tutti, come avrei avuto modo di verificare nelle settimane seguenti. La<br />

maggior parte della gente aveva conservato solo un vago ricordo di una certa instabilità nel<br />

Medio Oriente. La notizia che bombe nucleari erano cadute sulle montagne deserte dell’Alaska<br />

e nella Siberia orientale si era persa nel torrente di bollettini medici sul ricovero del presidente<br />

Reagan in seguito a raffreddore.<br />

Nella seconda settimana di febbraio 1995 lo vidi in televisione mentre presiedeva a una<br />

cerimonia della Legione americana nel prato della Casa Bianca. Il suo volto d’avorio, segnato<br />

dall’età, era atteggiato a una smorfia amichevole e familiare, gli occhi senza espressione: stava i<br />

piedi sostenuto da due aiutanti, con la onnipresente First Lady ben dritta accanto a lui come se<br />

avesse ingoiato un manico di scopa. Da qualche parte sotto l’imponente soprabito nero i<br />

sensori radio-telemetrici trasmettevano le registrazioni in diretta della pulsazione, della<br />

respirazione e della pressione sanguigna, che vedevamo sui nostri schermi. Immaginai che<br />

anche il presidente si fosse dimenticato di aver scatenato, poco tempo prima, la Terza guerra<br />

mondiale. Dopo tutto, non c’erano stati morti, e per il pubblico l’unica possibile vittima di<br />

quelle ore angosciose sarebbe stato lo stesso Reagan, se la sua lotta contro il raffreddore non<br />

avesse avuto successo.<br />

Nel frattempo, il mondo era diventato un posto più sicuro. Il rapido scambio nucleare<br />

era servito come avvertimento per tutte le fazioni in lotta sulla faccia del pianeta. I movimenti<br />

secessionisti in Unione Sovietica si erano dissolti, in altre zone gli eserciti di invasione si erano<br />

ritirati dietro le frontiere. Avrei quasi creduto che la Terza guerra mondiale fosse stata<br />

concordata tra il Cremlino e lo staff della Casa Bianca come strumento per ristabilire la pace, e<br />

che il raffreddore di Reagan fosse stato soltanto un diversivo, una trappola in cui i giornali e la<br />

televisione erano caduti senza accorgersene.<br />

Come un omaggio alle capacità di recupero del presidente, i diagrammi delle sue<br />

funzioni epatiche si snodavano ancora sui nostri schermi televisivi. Mentre salutava i veterani<br />

della Legione americana raccolti attorno a lui, sentivo la pulsazione collettiva del pubblico che<br />

accelerava all’unisono col cuore del vecchio attore mentre rispondeva allo sguardo commosso<br />

di quegli uomini in marcia.<br />

Poi notai, tra quelli che portavano la medaglia d’onore, un giovane arruffato con<br />

un’uniforme scalcinata che non stava marciando a passo con i suoi compagni più vecchi. Si fece<br />

strada in mezzo alle file in marcia e tirò fuori dal cappotto una pistola. Ci fu un attimo di<br />

confusione mentre le guardie del corpo si stringevano attorno al podio. La telecamera oscillò<br />

per seguire il giovane che si lanciava sul presidente. Al di sopra della melodia tremolante della<br />

banda si sentì i rumore degli spari. In mezzo al panico degli uomini in uniforme il presidente<br />

sembrò cadere tra le braccia della First Lady, poi venne rapidamente portato via.<br />

Guardando i diagrammi al bordo dello schermo televisivo, mi accorsi che la pressione<br />

sanguigna del presidente era crollata. La pulsazione irregolare si era livellata, ora era una linea<br />

orizzontale ininterrotta, e ogni funzione respiratoria era cessata. Solo una decina di minuti più<br />

tardi, quando i telegiornali diedero la notizia del fallito attentato, le tracce ripresero il loro<br />

aspetto tranquillizzante.<br />

Il presidente era morto, forse per la seconda volta? Ma era stato mai davvero vivo, ne<br />

pieno senso della parola, durante la sua terza presidenza? E qualche suo spettro animato,<br />

ricostruito con i grafici biomedici che scorrono ancora sui nostri teleschermi, non continuerà a<br />

governare per atre presidenze, a scatenare una Quarta e una Quinta guerra mondiale, e le storie<br />

13


segrete di queste guerre non svaniranno negli interstizi della programmazione televisiva, perdute<br />

per sempre dentro l’ultima analisi delle urine, dentro l’ultima grande biopsia nel cielo?<br />

14<br />

(Tradizione di Antonio Caronia)<br />

UNA NOTA IN CALCE A<br />

“STORIA SEGRETA DELLA TERZA GUERRA MONDIALE”<br />

DAVIDE GAZZANIGA<br />

Storia segreta della Terza guerra mondiale conclude l’edizione rivista e corretta (l’ultima) di La mostra<br />

delle atrocità. Il racconto, nella sua paradossalità, si presta ad attacchi e critiche anche di natura<br />

“politica”. In realtà, per quanto non abbia mai nascosto di non provare particolare simpatia per<br />

la persona e, soprattutto, per le sue idee (o mancanza di idee), Ballard non si scaglia tanto<br />

contro Ronald Reagan, quanto piuttosto contro un sistema comunicativo e mediatico che – nel<br />

suo racconto – ha ormai scavalcato anche il presidente, e può essere eventualmente sfruttato<br />

(come viene velatamente suggerito) per nascondere fatti imbarazzanti o pericolosi.<br />

Del resto, nella nota che chiude il racconto, lo stesso Ballard scrive: “Questo racconto non<br />

parla tanto di una terza immaginaria presidenza di Reagan, quanto del vuoto che la sua partenza<br />

ha lasciato dietro di lui. Bush e Gorbaciov, come la nuova generazione di politici europei, sono<br />

uomini di uno stampo più pragmatico, burocrati più che creatori di mitologie […] ma mi<br />

sembra difficile credere che la gente non abbia più bisogno di personaggi politici che si<br />

rivolgono più all’immaginario che al borsellino.”<br />

Il Reagan di Ballard, dunque (come del resto il Reagan storico!), è un “creatore di miti”, di più,<br />

è Mito esso stesso. E’ un politico che travalica ampiamente i suoi limiti e incarna la voglia di<br />

affetto e di comprensione e di empatia di un intero popolo (suonerà inquietante dirlo, ma anche<br />

per Hitler fu così…).<br />

Continua Ballard: “Il vuoto postreaganiano è doppiamente curioso perché Reagan era egli<br />

stesso un vuoto (o almeno tale sembra a un outsider europeo come me), un palcoscenico<br />

allestito ma senza attori su cui si muovevano personaggi ritagliati dai fumetti…”<br />

La natura terribilmente inquietante di questo racconto risiede nel fatto che il Reagan “fisico”<br />

non vi compare mai. Compare solo un Reagan trasformato in pulsazioni cardiache,<br />

elettroencefalogramma, frequenza respiratoria. Segnali biomedici che non vogliono dire nulla,<br />

tracce ondulatorie sui monitor di tutto il Paese che “rappresentano” un uomo che, come nel<br />

finale, potrebbe benissimo essere morto… Chi ci dice, infatti, che quei segnali siano proprio di<br />

Reagan? Eppure l’empatia tiene avvinto un intero Paese, e intanto una guerra comincia e finisce<br />

in 4 minuti, senza che nessuno se ne sia accorto.<br />

L’ironia caustica di Ballard non si rivolge dunque a Reagan (o perlomeno non solo a lui), ma al<br />

Sistema che lo ha “riesumato” apposta per farne la sua marionetta, lo specchietto per le allodole<br />

di una ormai inesistente (e impossibile…) “opinione pubblica”.


Il mondo delle possibilità<br />

A proposito di alcune interessanti affermazioni di J.G. Ballard<br />

MATTEO FONTANA<br />

In calce a quell’abissale romanzo che è Crash (1973), l’autore James Ballard ha posto alcune<br />

notazioni volte a contestualizzare il romanzo stesso e le sue ambizioni concettuali e filosofiche.<br />

Posto che Crash è un romanzo piuttosto sconvolgente, soprattutto se si pensa che è stato scritto<br />

nel lontano 1973, trovo che, al di là della indubbia qualità letteraria del romanzo stesso, siano<br />

molto interessanti anche queste notazioni, che non si limitano a riflettere sul libro (né<br />

tantomeno lo “spiegano”) ma si estendono a temi ben più vasti come il ruolo della fantascienza<br />

nell’ambito della letteratura del XX secolo e, soprattutto, l’affermarsi del “mondo delle<br />

possibilità”.<br />

E’ evidente che il mondo d’oggi, grazie al progresso delle comunicazioni e alla sempre maggiore<br />

velocità degli spostamenti, abbia moltiplicato le possibilità d’azione degli individui (perlomeno<br />

nel cosiddetto “mondo civilizzato”). Di più: abbia moltiplicato le ambizioni e le aspirazioni.<br />

Gli status symbols attraggono e fanno agire in funzione dell’ottenimento di oggetti che, da soli,<br />

dovrebbero qualificare una persona: automobile, cellulare, computer; divano, televisore, vasca<br />

da bagno, persino casa; orologio, vestito, scarpe eccetera… Impossibile non pensare al Chuck<br />

Palahniuk di Fight Club (1996), uno dei tanti scrittori di grande successo (meritato, per carità)<br />

anticipati dal lavoro di Ballard. 1<br />

Ballard si spinge oltre, teorizzando con pornografica lucidità il connubio uomo-macchina sul<br />

piano del sesso, altro aspetto oggidì assai diffuso. Il crollo delle differenze di valori tra le cose, il<br />

“multi-tutto”(multiculturalismo, multietnicità, eccetera…) impera, di nulla si può più affermare:<br />

non è valido. Casomai: ha il suo valore, diverso (aggettivo abusatissimo) da quello di altre cose,<br />

ma non per questo meno dignitoso. E così siamo al “diversamente abile”, al “non vedente”, alla<br />

1 Nella oramai piuttosto vasta produzione di Chuck Palahniuk, se il citato Fight Club resta il romanzo più celebre e<br />

noto, non vanno dimenticati perlomeno altri due titoli che propongono, attraverso una interessante rielaborazione<br />

stilistica, tematiche squisitamente ballardiane. Uno è Invisible monsters, poco lucida ma graffiante satira del mondo<br />

della pubblicità e dell’apparenza. Alla sua protagonista, la bellissima modella Shannon McFarland, Palahniuk fa dire:<br />

“Ormai, quando sul giornale vedo la foto di una ventenne che è stata rapita e sodomizzata e derubata e poi uccisa e<br />

accanto c’è una foto a tutta pagina di lei giovane e sorridente, invece di pensare che questo sia un crimine grande e<br />

triste, la mia reazione istintiva è, wow, sarebbe una gran fica se non avesse quel nasone. La mia seconda reazione è che<br />

io abbia pronto qualche bel primo piano di me nel caso venga rapita e sodomizzata a morte. La mia terza reazione è,<br />

be’, almeno così si riduce la competizione.” (Chuck PALAHNIUK Invisible monsters Mondadori 2000, pag. 11). Il fatto<br />

– un assassinio, uno stupro, o quel che si vuole – non è più l’elemento centrale: è la comunicazione del fatto ad essere<br />

centrale, e fondamentalmente pornografica. Essa fonda un mondo parallelo – fatto di linguaggio giornalistico e foto<br />

sensazionalistiche – che il Ballard de La mostra delle atrocità esplora con inaudita profondità e lucidità. Palahniuk, in<br />

questo senso (e non se ne abbia a male!), è un “ripetitore” un po’ più virulento di tematiche ballardiane.<br />

L’altro titolo su cui porre l’accento è il notevole Lullaby (2002), uscito in Italia, sempre per Mondadori, col titolo<br />

“Ninna nanna”. Qui la riflessione di Palahniuk si radicalizza vieppiù e si concentra sul proliferare spropositato<br />

dell’informazione e della comunicazione (mass)mediatica. Libro sarcastico e ghignante, Lullaby ha non a caso per<br />

protagonista un giornalista disilluso che sembra intenzionato a corrodere, dall’interno, il meccanismo stesso di cui egli<br />

non è altro che un ingranaggio: quello dell’informazione e della comunicazione mediatica.<br />

15


“ridotta capacità motoria” e via dicendo. La volontà di comprendere tutto ci porterà a non fare<br />

più nessuna distinzione, il mondo si contrae e si accartoccia come un’auto schiantatasi a 160<br />

Km/h contro un muro di cemento armato (e, in questo senso, il campo scelto da Ballard per la<br />

sua poderosa metafora del mondo della razza umana, in Crash, è perfettamente consono:<br />

l’automobile come mondo a sé stante, come feticcio, come guscio, come involucro e come<br />

microcosmo che riflette, sulle autostrade affollate, le meccaniche sociali: chi ha l’auto più<br />

potente fa la voce grossa, chi va più veloce è più rispettato, e via dicendo…).<br />

Aprendo una piccola parentesi sul tema della comunicazione, sempre più interlacciata e fitta, tra<br />

gli esseri umani, varrà la pena di citare un passo di uno scrittore per certi aspetti sottovalutato, a<br />

livello critico: Michael Crichton, l’autore di Jurassic Park. Non che Crichton arrivi a vette<br />

ballardiane con la sua scrittura, intendiamoci. Peraltro, si tratta di un autore piuttosto<br />

discontinuo, capace di buoni lavori onestamente narrativi (Andromeda) come di saghe<br />

francamente noiose (Timeline, giusto per citarne una).<br />

Un passo de Il mondo perduto (1995), però, merita di essere citato, per la chiarezza con la quale<br />

espone una problematica che anche Ballard ha più volte toccato nel suo lavoro.<br />

La battuta è attribuita da Crichton al personaggio di Ian Malcolm, il matematico-caosologo che,<br />

nei romanzi della saga Jurassic Park, ricopre il ruolo dello scettico, ed è insomma la “voce della<br />

coscienza scientifica” contrapposta ai facili entusiasmi del miliardario Hammond.<br />

“Io personalmente” – dice Malcolm – “ritengo che il cyberspazio 2 rappresenti la fine della<br />

nostra specie […] perché implica la fine dell’innovazione. Quest’idea di un mondo interamente<br />

collegato via cavo significa morte di massa. Qualunque biologo sa che piccoli gruppi isolati si<br />

evolvono più rapidamente degli altri. Metti mille uccelli su un’isola in mezzo all’Oceano e la<br />

loro evoluzione sarà rapida. Mettine diecimila su un grande continente, e la loro evoluzione<br />

rallenterà. Ora, per la nostra specie, l’evoluzione avviene principalmente attraverso il<br />

comportamento. Noi creiamo nuovi comportamenti per adattarci. E chiunque sulla Terra sa<br />

che l’innovazione avviene solo nei piccoli gruppi. Metti tre persone in un comitato, e qualcosa<br />

riusciranno a fare. Metti dieci persone, e già le cose si fanno più difficili. Trenta persone, e tutto<br />

si blocca. Trenta milioni, e tutto diventa impossibile. Questo è l’effetto dei Mass Media…<br />

impediscono a qualunque cosa di accadere. I Mass Media soffocano la diversità. Rendono<br />

uguali tutti i posti, da Bangkok a Tokyo a Londra… Le differenze regionali spariscono. Tutte le<br />

differenze svaniscono. In un mondo dominato dai Mass Media, tutto scarseggia, tranne i dieci<br />

libri, i dieci dischi, i dieci film e le dieci idee in cima alla classifica. La gente si preoccupa della<br />

perdita di varietà nelle specie della foresta pluviale. Ma che dire della diversità intellettuale? […]<br />

Sta scomparendo più rapidamente degli alberi. Ma noi non l’abbiamo ancora capito , così<br />

stiamo pianificando di collegare cinque miliardi di persone tutte insieme nel cyberspazio. E<br />

questo congelerà tutta la specie. Tutto si bloccherà. Tutti penseranno le stesse cose nello stesso<br />

momento. Uniformità globale!”<br />

Ora, Crichton non ha necessariamente ragione, ma il suo discorso – soprattutto sul ruolo<br />

“congelante” dei mass media – è assai interessante, e rispecchia certe riflessioni di Ballard in<br />

romanzi come Crash e Il condominio.<br />

2 E’ ovvio che il tema del cyberspazio meriterebbe più ampia trattazione, soprattutto sulla base di una accurata disamina<br />

del lavoro di William Gibson, che riconosciutamente è il padre letterario di questo termine e di questo genere. E’<br />

altrettanto ovvio, però, che in questa sede non ci sia consentito dilungarci più di tanto, visto che, oltretutto, sarebbe<br />

impossibile ignorare altresì l’opera di Philip Dick e di altri… Insomma, chiediamo venia per l’evidente lacuna e<br />

rinviamo a future trattazioni per un adeguato approfondimento.<br />

16


Viviamo infatti, secondo Ballard, “in un mondo […] che ubbidisce alla pubblicità e agli pseudoeventi,<br />

alla scienza e alla pornografia”. 3<br />

Sesso e paranoia sono allora “i due grandi leit-motiv gemelli del Ventesimo<br />

secolo”. E il grande male del secolo è “la morte del sentimento.”<br />

Si potrebbe discutere sul perché il XX secolo si sia così pervicacemente<br />

anestetizzato fino a perdere ogni forma del “sentire” (inglese: to feel)<br />

originario. Le due Guerre Mondiali, a parere di chi scrive, hanno una grande<br />

parte in questo processo.<br />

“Questa dipartita della facoltà emotiva” – scrive Ballard – “ha spianato la<br />

strada a tutti i nostri piaceri più concreti e delicati”, dandoci la “libertà<br />

morale di attendere alla nostra psicopatologia come a un gioco.”<br />

Danni irreversibili del relativismo elevato a sistema, ed esteso ad ogni<br />

ambito della vita. Tema krausiano, se vogliamo: una sorta di “fronte che si è<br />

esteso a tutto il Paese, e che vi resterà.” 4<br />

Ma, per stringere sul già citato tema-cardine del proliferare delle possibilità, ecco cosa scrive<br />

Ballard: “Il ‘fatto’ principale del Ventesimo secolo è il concetto di possibilità illimitata. Questo<br />

predicato della scienza e della tecnologia si fonda sul concetto di moratoria al passato (di<br />

irrilevanza, anzi di morte del passato) e sulla illimitatezza di alternative al presente.”<br />

Ecco che si torna a quanto già detto a proposito delle psicopatologie moralmente sdoganate: è<br />

lecito provare tutto, è lecito aspirare a tutto, tutti hanno diritto a tutto, nulla deve essere<br />

precluso. Ancora una volta, Karl Kraus ci era arrivato all’inizio del Novecento, col celebre<br />

“motto” che – a sua detta – fotografava meglio di ogni altro il mondo contemporaneo, e ancor<br />

più avrebbe fotografato il mondo a venire: quell’agghiacciante “tutto compreso” di cui egli<br />

parlò in una famosa lettura pubblica, e che Roberto Calasso cita in un suo bel saggio dedicato<br />

alla figura di Kraus. 5<br />

Qui si tratta, del resto, di avventurarsi sul terreno minato della morale, cosa che soltanto ai<br />

Grandi è concessa. Ad esempio, per il cinema, Stanley Kubrick. Eyes Wide Shut è una grande<br />

riflessione sulla morale al giorno d’oggi, sulla morale di fine XX secolo, e sui suoi limiti. 6<br />

A mio avviso, sono i concetti di lecito e di illecito ad essere venuti meno. Prendiamo come<br />

un’offesa qualunque monito (specie se di provenienza ecclesiastica) a non percorrere<br />

determinate strade, perché viviamo immersi nella liquida convinzione che l’Uomo possa tutto,<br />

che ogni cosa sia lecita per il solo fatto di essere realizzabile. Alla stessa stregua, però, uccidere<br />

dovrebbe essere lecito, visto che è tecnicamente realizzabile, anzi realizzabilissimo. Viviamo<br />

ogni divieto come un attacco alla libertà individuale, tutto ci deve essere consentito in virtù di<br />

quella imperante espressione, “qualità della vita”, che probabilmente Vittorio Sgarbi e Giuliano<br />

Ferrara fanno bene a deplorare, per diverse ragioni.<br />

Torniamo a Ballard: “Abbiamo un moltiplicarsi di alternative attorno a noi”, scrive egli nella già<br />

citata postfazione a Crash. “Viviamo in un mondo quasi infantile nel quale può trovare<br />

istantanea soddisfazione ogni domanda, ogni possibilità, si tratti di stili di vita, di viaggi, o di<br />

ruoli e identità sessuali.”<br />

3<br />

Tutte le citazioni da BALLARD presenti in quest’articolo, salvo diversa indicazione, provengono dalla postfazione di<br />

Crash, Feltrinelli 2004.<br />

4<br />

Cfr. Karl KRAUS Gli ultimi giorni dell’umanità (Adelphi, 1980)<br />

5<br />

Roberto CALASSO, La guerra perpetua (saggio pubblicato in calce a Gli ultimi giorni dell’Umanità, Adelphi, 1980).<br />

6<br />

Non sarà pratica granché elegante, ma qui mi è inevitabile rimandare ad un mio scritto, pubblicato peraltro proprio su<br />

questa rivista: Il problema della morale, in “Lanterna di Born 1-10”. In quel saggio, assai più estesamente di quanto<br />

potrei fare ora, analizzavo il problema della morale in Kubrick e in Robert Musil, azzardando un parallelo, prima ancora<br />

che fra i due grandi Autori, tra alcuni loro personaggi.<br />

17


La domanda inquietante che mi pongo, e vi pongo, cari lettori, sulla base delle riflessioni<br />

ballardiane, è dunque questa (ancora una volta, molto krausiana!): il Progresso si può definire<br />

come una moltiplicazione selvaggia delle possibilità? A mio parere, la risposta è affermativa,<br />

tanto che (come appunto suggeriva Kraus) il progresso tecnologico che tanto bene ha fatto<br />

all’Umanità, ha al contempo portato alla costruzione delle armi più terribili e devastanti. Le<br />

possibilità non proliferano solo in senso positivo, ovvero costruttivo, ma anche in ambito<br />

negativo, ovvero distruttivo! Provate a pensarci. La penicillina a fianco dell’iprite; il cinema<br />

sottobraccio alla bomba atomica; e si potrebbe continuare all’infinito, o quasi.<br />

La descrizione che dà James Ballard del nostro mondo mi pare del resto perfetta: un mondo<br />

“governato da fantasie di ogni specie: promozione di prodotti di massa, pubblicità, politica<br />

esercitata come una branca della pubblicità, volgarizzazione immediata di scienza e tecnologia<br />

in immagini popolari, confusione e fusione di identità nel settore dei beni di consumo,<br />

svuotamento di ogni libera o originale risposta immaginativa all’esperienza da parte della<br />

televisione. Viviamo insomma” – concludeva Ballard – “all’interno di un enorme romanzo.”<br />

E’ la confusione tra finzione e realtà su cui sempre più si basano le meccaniche dello spettacolo:<br />

si pensi all’imporsi dei reality show. Illusioni di realtà ricreate a beneficio del mezzo televisivo, che<br />

non ha più un linguaggio capace di coinvolgere e che si contamina col reale, un reale<br />

ovviamente fasullo, se mi è consentito l’ossimoro. Non si prescinde più dall’ESPERIENZA. La<br />

costruzione intellettuale, la riflessione, l’invenzione pura non vanno più bene: il pubblico vuole<br />

esperienze, pezzi di vita altrui offerti sull’altare di quello che una volta si chiamava “Villaggio<br />

Globale” (ricordate l’espressione?). Una specie di mostruosa agape a cui tutti partecipano,<br />

volenti o nolenti, ingoiando il loro pezzo di “realtà” (o di “reality”), sia che si tratti della<br />

ricostruzione del delitto di Cogne su un plastico, o delle intercettazioni ambientali degli<br />

assassini di Erba, o l’ennesimo reality, o la confessione libresca o televisiva del tal VIP o del tal<br />

personaggio mediatico.<br />

La letteratura sembra adeguarsi, come scrive anche Ballard: “Io sento che il ruolo dello scrittore<br />

[…] è radicalmente cambiato. Sento che, in un certo qual modo, lo scrittore non sa più nulla.<br />

Lo scrittore non ha più una posizione morale: offre al lettore i contenuti del proprio cervello,<br />

sotto forma di una serie di possibilità, di alternative fantastiche.”<br />

Io direi: lo scrittore non può più avere una posizione morale! Perché non c’è più, forse, uno<br />

sguardo che possa comprendere il mondo delle possibilità infinite, un mondo virtuale nel quale<br />

il reale si interscambia con la fiction, e nel quale ciò che può accadere ha più peso di ciò che<br />

accade.<br />

Il mondo delle possibilità si configura insomma come il mondo della perdita di ogni differenza.<br />

Attenzione: non di ogni diversità. Anzi, non si perde occasione di proclamare la propria o la<br />

altrui diversità, ma la differenza di valori è abolita. Ogni cosa va salvaguardata, tutto è<br />

importante, col risultato che alla fine niente riesce più ad esserlo veramente.<br />

E’ il rischio che sta correndo l’Arte: se tutto è Arte, niente è Arte, perché non c’è più modo di<br />

distinguere un traliccio dell’alta tensione da un’installazione artistica.<br />

Il medesimo discorso si potrebbe svolgere anche per la letteratura. Oggidì, in tanti (troppi?)<br />

tendono a considerarsi scrittori, e si rischia che non ci sia più modo di distinguere nettamente<br />

Robert Musil dall’ultimo scribacchino di un gialletto italiano… All’origine di tutto, sarei tentato<br />

di porre il venir meno della definizione oggettiva del Bello, ma temo – anzi, sono sicuro – che<br />

proseguire su questa strada ci porterebbe troppo lontano, perciò mi fermo e, con scelta forse<br />

non garbatissima, mi limito a lanciare il sasso… non nascondendo però la mano!<br />

Anche Ballard si interroga accuratamente sul ruolo dello scrittore: “Possiede ancora, lo<br />

scrittore, l’autorità morale che lo legittimi a inventare un mondo autosufficiente e conchiuso, a<br />

18


presiedere all’agire dei propri personaggi alla maniera di un esaminatore che già conosce in<br />

anticipo tutte le domande?”<br />

La risposta, per quanto mi riguarda, è no.<br />

Il discorso ballardiano si sposta quindi sulla possibilità di un genere, la fantascienza, di<br />

raccontare il mondo, di svelarne le linee di sviluppo future. Per Ballard, ormai il presente è<br />

l’oggetto della fantascienza, non più il futuro. Egli definisce Crash un romanzo cataclismatico<br />

dell’oggi, il romanzo che mostra dunque una catastrofe ormai in atto: il connubio mostruoso fra<br />

sesso e tecnologia, e il dominio dell’oggetto-automobile sulle nostre vite (tema questo, per la<br />

verità, più da anni ’80 che da inizio XXI secolo…).<br />

E’ indubbiamente interessante l’idea di usare il futuro, e non il passato, come chiave di lettura<br />

del presente. Se l’intento è quello di tracciare i contorni del mondo delle possibilità, in effetti,<br />

essi emergeranno forse meglio da un’ipotesi di futuro (prossimo), spoglia di ogni moralismo,<br />

piuttosto che da una rievocazione, facilmente nostalgica, del passato.<br />

Frederic Raphael una volta, per giustificare il suo odio per la fantascienza, ha affermato: “Non<br />

sono minimamente interessato alla gente che vivrà tre secoli dopo la mia morte.” 7<br />

Probabilmente alla gente non è interessato neppure Ballard; ma al ventaglio dei possibili sì, e la<br />

sua fantascienza, in questo senso, è la più azzardata e coraggiosa che sia mai stata praticata,<br />

proprio perché non si spinge tre o quattro o cinque secoli in avanti, affidandosi all’inventiva e<br />

all’affabulazione, ma resta saldamente ancorata al presente, si nutre anzi del presente per<br />

costruire modelli inquietanti di futuro o, viceversa, costruisce modelli di futuro per spiegare i<br />

brandelli di un presente ormai impazzito e indecifrabile.<br />

Quello di oggi è già “il mondo delle possibilità”. La fantascienza siamo noi. 8<br />

7 Cfr. Frederic RAPHAEL Eyes Wide Open (Einaudi, 1999)<br />

8 Suggeriamo un ultimo, interessante parallelo tra Ballard e il Guido Morselli di Roma senza Papa (Adelphi, 1974) e,<br />

soprattutto, di Contro-passato prossimo (Adelphi, 1975) e Dissipatio H.G. (Adelphi, 1977). Tutti e tre, a ben vedere,<br />

romanzi di “fantascienza”: il primo immagina una Roma futura (è stato scritto negli anni ’60 anche se, come tutto<br />

Morselli, riscoperto e valorizzato solo dopo la morte dell’Autore, avvenuta nel 1973) che non ospita più la Santa Sede,<br />

trasferita a Zagarolo (!) e decadente al massimo grado (“finendo di essere una corte per ridursi a una burocrazia, la S.<br />

Sede ha perso in splendore senza guadagnare in precisione”); il secondo, pervaso da una sottilissima ironia, propone<br />

un’ipotesi contro-storica (la Prima Guerra Mondiale vinta dagli Imperi Centrali); il terzo, feroce e sferzante, immagina<br />

la fine dell’umanità per dissolvimento degli individui, in un’unica notte, senza ragione apparente. In tutti e tre i casi,<br />

Morselli come Ballard (e anche prima di Ballard!) utilizza con sottigliezza i tocchi fantascientifici (più evidenti in Roma<br />

senza Papa e Dissipatio H.G.) per riflettere anzitutto sul presente o, addirittura, sul passato (Contro-passato prossimo).<br />

Insomma, nell’ambito di una letteratura tanto sottilmente immaginifica quanto estremamente composta nello stile (come<br />

poi Ballard), Morselli articola delle profonde riflessioni sul tempo presente. E non è un caso se i suoi romanzi ben<br />

difficilmente possono essere ascritti a un “genere”, trattandosi piuttosto di opere per le quali la transizione continua tra i<br />

generi è la principale cifra stilistica.<br />

19


Il condominio: la fantascienza distorta di<br />

James G. Ballard<br />

ROBERTO MANDILE<br />

In che senso si può definire Il condominio (titolo originale High-rise, ma conosciuto anche con il<br />

titolo Condominium) di James G. Ballard un romanzo di fantascienza? La domanda potrebbe<br />

sembrare oziosa e forse persino banale, eppure, a trentacinque anni dalla sua pubblicazione, Il<br />

condominio si presta a una serie di considerazioni di grande attualità. Il primo dato che occorre<br />

evidenziare è che il romanzo non è ambientato propriamente nel futuro, visto<br />

che l’autore evita di fornire una collocazione cronologica precisa (ed è<br />

questo un tratto che caratterizza altri romanzi dello scrittore inglese); quello<br />

che più porterebbe ad accostarlo alla fantascienza è infatti, a ben guardare,<br />

la visione cupa, pessimistica del rapporto uomo-tecnologia che il romanzo<br />

propone (ed anche questo è un aspetto comune ad altri libri di Ballard).<br />

In altri termini la collocazione de Il condominio nell’universo della fantascien-<br />

za appare più un riflesso incondizionato del lettore (anche se certamente<br />

voluto dall’autore) che non il frutto di una vera e propria presenza, nel testo,<br />

di elementi stricto sensu fantascientifici. Il condominio appartiene a quell’ampio<br />

e ben documentato filone di letteratura che viene etichettata sotto il nome di ‘distopia’ (o<br />

antiutopia), quella cioè che rappresenta le conseguenze nefaste osservabili all’interno di società<br />

in crisi 1. La peculiarità del romanzo di Ballard consiste nella concentrazione spazio-temporale:<br />

se infatti nella letteratura distopica è frequentissima l’ambientazione in un futuro prossimo, la<br />

vaghezza di riferimenti cronologici de Il condominio finisce per produrre una sorta di distorsione<br />

temporale, per cui la storia non ha bisogno di essere collocata in un tempo preciso, come se la<br />

presenza appunto di elementi distopici fosse di per sé sufficiente a proiettare la vicenda in un<br />

futuro non troppo lontano (e questo valeva per il lettore del 1975 quanto per il lettore di oggi).<br />

In questo senso è sicuramente illuminante quanto affermava lo stesso Ballard, nella celebre<br />

postfazione a Crash, scritta nel 1974, un anno prima della pubblicazione de Il condominio, a<br />

proposito della sua idea di fantascienza:<br />

Fin dall’inizio della mia carriera, quando ho scelto la fantascienza, sono sempre stato<br />

convinto che il futuro fosse una chiave migliore del passato per intendere il presente. Ma,<br />

agli esordi, della fantascienza mi lasciavano insoddisfatto i due temi principali: lo spazio<br />

1 Antonio Caronia (Le radici immaginarie della guerra, “Cyberzone” 17 – 2003) ha definito Il condominio, che, a suo<br />

giudizio, rappresenta per molti versi “una svolta rispetto alla sua produzione precedente e a una parte di quella<br />

seguente”, un romanzo “sociogeografico”: in esso, come in altre opere più tardi (Running Wild, 1988, in italiano Un<br />

gioco da bambini, Cocaine Nights, 1996, e Super-Cannes, 2000) infatti “la dimensione indagata da Ballard è più<br />

esplicitamente sociale rispetto ad altre opere”. La violenza presente in questi testi – sostiene Caronia – “non è più<br />

l’espressione di una psiche individuale che si confronta senza quasi mediazioni con i miti e l’immaginario della<br />

contemporaneità (come in The Atrocity Exhibition e Crash), ma assume una connotazione marcatamente sociale,<br />

presentandosi come strumento privilegiato della socialità (Condominium), o come collante sociale fondamentale<br />

(Cocaine Nights, Super-Cannes)”.<br />

20


esterno e il lontano futuro. […] Il mio obiettivo principale era quello di scrivere un tipo di<br />

narrativa centrato sul presente. 2<br />

Si tratta di una considerazione estremamente utile a capire le modalità attraverso le quali, anche<br />

in un testo come Il condominio, Ballard piega la fantascienza a nuovi scopi e a nuovi esiti. L’incipit<br />

del romanzo fornisce un’immagine di apparente normalità 3 rispetto alle assurde vicende che<br />

verranno raccontate, in flashback, nelle pagine seguenti. Una normalità che, da un lato, è il punto<br />

d’arrivo di un processo che ha portato gli abitanti del condominio a una nuova fase di<br />

convivenza (la violenza, in altri termini, non è l’approdo, ma lo strumento attraverso il quale si è<br />

prodotta la distruzione dell’ordine precedente) e, dall’altro, si presenta fin da subito come<br />

deformata dall’immagine iniziale dell’anomalo (e però introdotto quasi incidentalmente, come<br />

un evento del tutto normale) pasto che il dottor Laing sta consumando:<br />

In seguito, mentre mangiava il cane seduto sul balcone, il dottor Robert Laing ripensò agli<br />

insoliti avvenimenti che si erano succeduti all’interno dell’enorme condominio nei tre<br />

mesi precedenti. Adesso che tutto era tornato alla normalità, si stupiva che non ci fosse<br />

stato un inizio preciso, un punto oltre il quale le loro vite fossero entrate in una<br />

dimensione decisamente più sinistra. 4<br />

Ma il dato forse più interessante è fornito dalla scelta di condensare l’intera vicenda,<br />

conferendole un’atmosfera claustrofobica, interamente all’interno di un edificio. Il condominio<br />

è fornito di tutti i comfort della vita moderna: piscine, banca, scuola materna, ma anche<br />

ristorante, palestra, supermercato, ed ascensori velocissimi; appare, per certi versi, come uno dei<br />

tanti centri commerciali che, negli anni in cui Ballard scriveva, erano ancora agli albori della loro<br />

storia e che, oggi, invece sono in una fase di grande espansione in gran parte del mondo. Ma c’è<br />

ben di più: quello che a Ballard interessa è dare spazio al conflitto che, per così dire, si<br />

determina, in questo contesto artificiale e naturale al tempo stesso (il condominio è, a sua volta,<br />

una sorta di moltiplicazione, di riproduzione all’infinito della cellula abitativa minima), tra<br />

l’“uomo biologico” e l’“uomo tecnologico”. La natura umana è definibile al di fuori di un<br />

ambiente? O, viceversa, è il risultato dell’interazione di precisi fattori ambientali? E la tecnologia<br />

che ruolo gioca nel processo di regressione dell’uomo allo stato di natura? In questo senso di<br />

certo la prospettiva fantascientifica del romanzo risalta in tutta la sua evidenza. Ma, ancora una<br />

volta, è ricondotta a un’incertezza di fondo dalla messa in scena di personaggi che non si<br />

elevano mai a una dimensione morale pienamente illuminata. C’è, potremmo dire, una sorta di<br />

annullamento, o, meglio ancora, di distorsione della morale, tradizionalmente intesa: leggendo Il<br />

condominio (ma, anche in questo caso, il discorso si può allargare a buona parte della produzione<br />

di Ballard), non riusciamo a identificarci con un punto di vista eticamente stabile, nel bene o nel<br />

male. È come se la deformazione spazio-temporale cui accennavamo sottraesse o limitasse di<br />

molto le possibilità di sposare una visione delle cose. E d’altronde le scelte stilistiche, tendenti a<br />

frammentare l’unità della narrazione in una pluralità di episodi, puntano a disorientare più che a<br />

tranquillizzare il lettore. Mi sembra che, proprio in questa esplosione di prospettive, si possa<br />

riconoscere una delle chiavi interpretative dell’allegoria ballardiana: più che di regressione<br />

dell’uomo a un’ipotetica condizione naturale, contraddistinta dalla pratica della violenza, della<br />

sopraffazione, o dell’egoistico spirito di sopravvivenza, credo che, per le ragioni appena<br />

esposte, si possa parlare di un (inevitabile, quasi naturale) scivolamento da una condizione<br />

2 J.G. Ballard, Postfazione, in Id., Crash, trad. di G. Pilone Colombo, Milano, Feltrinelli, 2004, p. 201. La postfazione è<br />

uscita originariamente nel 1974 nell’edizione francese del romanzo pubblicata da Calmann-Lévy di Parigi.<br />

3<br />

Caronia, Le radici, cit., parla di “assoluta normalità della situazione iniziale” e di “assenza – praticamente – di<br />

ambientazione fantascientifica”.<br />

4<br />

J.G. Ballard, Il condominio, trad. italiana di P. Lagorio, Milano, Feltrinelli, 2003.<br />

21


iniziale eticamente critica a un’altra che non appare né migliore né peggiore, essendone, per<br />

molti versi, la conseguenza diretta e ovvia.<br />

Ballard conduce cioè una disamina delle condizioni di vita che si determinano in una società in<br />

cui la tecnologia sembra aver sostituito la natura. Ma, si badi, non c’è nostalgia elegiaca per un<br />

ipotetico tempo perduto 5, bensì la lucida constatazione degli effetti di una caduta rispetto a una<br />

situazione di partenza che è presentata nella sua oggettiva e fredda evidenza: nel percorso che,<br />

da un banale black-out, conduce alla rovina del condominio la natura tende a rioccupare gli<br />

spazi che la tecnologia ha invaso e tentato di ordinare, ma si può davvero credere che questo sia<br />

un male, cioè una condizione in qualche modo dipendente da scelte determinate, definite e<br />

moralmente sbagliate? Il passaggio alla violenza è semmai il riaffiorare della natura umana nella<br />

sua più profonda essenza: non ci può essere, sotto questo profilo, condanna morale (gli animali<br />

agiscono per istinto, non certo per decisioni razionali!). Se c’è un vizio dunque esso è, per così<br />

dire, originario: va ricercato cioè nel condominio stesso, nella (altrettanto istintiva e tracotante)<br />

aspirazione, che nemmeno l’architetto Royal, che il condominio l’ha progettato, riesce a<br />

dominare completamente, a sfidare la verticalità, a costruire la nuova torre di Babele, a scalare il<br />

cielo. È come se l’aspetto stesso del condominio ne segni, fin dalle origini, il destino 6.<br />

Peraltro – come a voler sottrarre di nuovo il racconto ad ogni possibile vagheggiamento<br />

nostalgico – Ballard fa capire chiaramente che l’affiorare in superficie di pulsioni represse non<br />

porta a nessun percorso di purificazione, non approda a nessuna salvifica redenzione 7: la scalata<br />

di Richard Wilder verso la cima del grattacielo anzi, metafora della ribellione sociale delle classi<br />

inferiori (ma anche estremo atto di arroganza, di sfida al cielo), è la materializzazione di un<br />

conflitto che il condominio stesso ha contribuito ad alimentare, o addirittura ha creato. Questa<br />

scalata però non è guardata né con simpatia né con ostilità: è, per così dire, una delle<br />

manifestazioni (la più estrema, se si vuole, ma per certi versi forse non la più grave) di una<br />

società umana che ha elevato a sistema la repressione di ogni aspetto di umanità 8. E infatti solo<br />

nei momenti finali verrà usata una pistola, mentre lo scontro era rimasto fino ad allora sul piano<br />

puramente fisico (Wilder nella sua scalata abbandona progressivamente la cinepresa con la<br />

quale intendeva documentare la vita del condominio e mette in mostra sempre di più il corpo,<br />

sul quale si dipinge segni tribali). In altri termini i conflitti sembrano generati più che dai singoli<br />

(o dalle masse d’individui) dal condominio stesso, che è il primo ad abbandonare la tecnologia,<br />

nel momento in cui il black-out blocca gli ascensori e, con questi, ne rivela la fragilità<br />

costitutiva, l’inservibilità. Come dice Ballard fin dall’inizio, “con i suoi quaranta piani, mille<br />

appartamenti, supermercato, piscine, banca e scuola materna, il condominio offriva sufficienti<br />

occasioni per scatenare violenze e accentuare conflitti” 9.<br />

5 A. Caronia, La morbida geometria di James G. Ballard, in J.G. Ballard, La mostra delle atrocità, trad. italiana di A.<br />

Caronia, Milano, Feltrinelli 2001, p. 193, osserva che “la «mitologia del futuro prossimo» che Ballard vuole creare va<br />

esattamente nel senso contrario” a quello tracciato dalla scienza. “Ma non nel modo nostalgico e «reazionario» di un<br />

autore come Bradbury (che Ballard stima ma da cui si sente, a ragione, lontanissimo). Niente vagheggiamento di un<br />

passato preindustriale o di un mondo «pulito». Le utopie classiche gli sono estranee, anche quelle apparentemente più<br />

ragionevoli e fondate”.<br />

6 Cfr. Caronia, Le radici, cit.: “Il simbolo (ma per certi versi anche l’espressione concreta) di questa caratteristica<br />

dell’ambiente artificiale e tecnologizzato in cui vivono gli abitanti, è la verticalità di questi edifici che sembrano voler<br />

«colonizzare il cielo»”.<br />

7 Ancora Caronia, La morbida geometria, cit., p. 193: “È sempre con sofferto amor fati, è tramite l’attraversamento<br />

dell’inferno che i suoi personaggi attingono quel poco si ambigua salvezza a cui possono arrivare”.<br />

8 In questo senso, come osserva anche Caronia, sono notevoli i punti di contatto con un breve romanzo più tardo di<br />

Ballard: Running World, che racconta del massacro di trentadue adulti da parte dei loro figli adolescenti in un esclusivo<br />

complesso residenziale fuori Londra, organizzato secondo parametri di efficienza tecnologica e completamente isolato<br />

dal resto del mondo: insomma un prototipo di società in cui tutto è talmente programmato da rivelarsi instabile e<br />

fallibile (un caso classico, per molti versi, di eterogenesi dei fini).<br />

9 J.G. Ballard, Il condominio, cit.<br />

22


È insomma dal tentativo di obliterare la natura attraverso la tecnologia, attraverso i comfort del<br />

condominio, che diventa mondo a sé, un universo autosufficiente, volto a soddisfare tutti i<br />

bisogni materiali dei suoi abitanti (ma in realtà, come dice lo stesso Ballard, il condominio è<br />

costruito per mantenere in vita sé stesso!), che si genera il corto circuito (reale e metaforico) in<br />

grado di mettere davvero in crisi la società separata del condominio. Ballard sembra in altri<br />

termini voler offrire in questo romanzo una materializzazione degli incubi e delle ossessioni<br />

della modernità, alle quali altrove ha dato espressioni in forme diverse e, in alcuni casi (penso<br />

soprattutto a The Atrocity Exhibition, in ital. La mostra delle atrocità, 1970), sicuramente più radicali.<br />

Spogliata di ogni traccia di anomalia evidente, inserita in una cornice in apparenza rassicurante,<br />

privata di motivazioni esterne, la crisi è qui, a differenza di quanto accade in altri romanzi dello<br />

stesso Ballard (penso soprattutto ai romanzi della cosiddetta “tetralogia degli elementi” The<br />

Wind from Nowhere [1962], The Drowned World [1962], The Drought [1964], The Crystal World<br />

[1966]), vista nella sua essenzialità, in quanto concentrata all’interno di un microcosmo<br />

autonomo e separato, che tuttavia diventa paradigma e modello potenzialmente estensibile,<br />

come dimostrano alcune considerazioni di Royal e come lascia intravedere il finale del libro. Ha<br />

scritto Antonio Caronia:<br />

Nel suo essere una città in miniatura, il condominio incuba in sé una crisi che non viene<br />

da nient’altro, in ultima analisi, se non dall’oblio dei limiti del linguaggio, dal rifiuto della<br />

componente extralinguistica dell’esperienza, dalla pretesa astratta di costruire un<br />

linguaggio (una città, un palazzo) che sia integralmente trasparente. 10<br />

La crisi è dunque tanto più angosciante perché non scaturisce da eventi catastrofici e non è<br />

nemmeno realmente circoscrivibile e controllabile: la sua tragicità deriva dalla parvenza di<br />

normalità di cui è figlia e che, allo stesso tempo, genera. Questa sorta di normalità (si veda<br />

ancora l’incipit), della quale nessuno pare davvero rendersi pienamente conto 11, si rivela come<br />

profonda distorsione, cupo stravolgimento, aberrazione dalle allarmanti conseguenze e il cui<br />

esito è inevitabilmente l’autodistruzione, l’implosione. È anche in questo caso la “morte degli<br />

affetti”, vero e proprio Leitmotiv dell’opera dello scrittore inglese, a produrre il massimo di<br />

inquietudine. Non è insomma una proiezione (dolorosa, preoccupata, ansiosa) sul futuro, ma il<br />

ripiegamento del tempo su sé stesso a creare gli effetti perversi descritti nel romanzo. Questa,<br />

senza dubbio, è l’essenza della fantascienza ballardiana, una fantascienza che dunque si presenta<br />

a sua volta come distorta, una fantascienza che, secondo quanto affermava lo stesso autore, non<br />

potendo più costruire altri mondi (ossia guardare al futuro), si pone per contro l’obiettivo<br />

d’inventare la realtà (concependo ipotesi sul presente e verificandole alla luce dei fatti) 12.<br />

10 A. Caronia, Le radici, cit.<br />

11 Viene in mente l’inconsapevolezza con cui il mondo assiste alla Terza guerra mondiale nel racconto Storia segreta<br />

della Terza guerra mondiale (compreso ne La mostra delle atrocità): “La seconda eccezionale caratteristica della Terza<br />

guerra mondiale è che io sono praticamente l’unica persona al mondo a sapere che essa ha avuto luogo”.<br />

12 Sono considerazioni esposte dallo stesso Ballard nella citata postfazione a Crash: cfr. Postfazione, pp. 202-204: “Le<br />

nostre concezioni del passato, del presente e del futuro vanno sempre più, forzatamente, modificandosi. […] Il futuro<br />

sta […] cessando di esistere, divorato dall’onnivoro presente. Questo futuro noi l’abbiamo annesso al nostro presente,<br />

facendone una delle molteplici alternative a noi offerte. […] Allo scrittore in particolare è quindi sempre meno<br />

necessario inventare il contenuto fantastico del proprio romanzo. L’invenzione fantastica essendo già data, il suo<br />

compito è l’invenzione della realtà. […] Il suo ruolo è quello dello scienziato che, in safari o in laboratorio, si trovi<br />

davanti a un territorio o argomento del tutto sconosciuto. In tale situazione, tutto ciò che può fare è concepire ipotesi e<br />

verificarle alla luce dei fatti”.<br />

23


Sulla dialettica interno/esterno ne<br />

“La mostra delle atrocità”<br />

MATTEO FONTANA<br />

Anzitutto, un’avvertenza: questo scritto deve pur avere un titolo, e ho scelto quello che potete<br />

leggere qui sopra. Ma in realtà – sarà meglio chiarirlo subito – un libro come La mostra delle<br />

atrocità non si può analizzare sotto un unico aspetto.<br />

Romanzo (o raccolta di racconti) composito ed estremamente complesso,<br />

esso raccoglie, per ammissione dello stesso Ballard, molti temi che saranno<br />

sviluppati dallo scrittore inglese in lavori successivi, in particolare in Crash<br />

(1973) e ne L’Impero del Sole (1984).<br />

Ciò detto, per giustificare la scelta di questo particolare punto di vista<br />

sull’opera, mi rifaccio da un lato alle parole di William Burroughs, nella sua<br />

celebre prefazione al romanzo (pubblicata integralmente in questo numero<br />

della “Lanterna di Born”): “La linea di demarcazione fra paesaggio interno e<br />

paesaggio esterno è crollata. I terremoti possono essere originati da<br />

sconvolgimenti sismici all’interno della mente umana.”<br />

E, dall’altro lato, ad una ammissione dello stesso Ballard, che in una delle tante “note” che<br />

costellano “La mostra delle atrocità” scrive: “Qui, come ovunque ne La mostra delle atrocità, il<br />

sistema nervoso dei personaggi è stato esteriorizzato, come caso particolare di un più generale<br />

rovesciamento fra mondi interni ed esterni. Autostrade, uffici, volti, segnali stradali, sono<br />

percepiti come se fossero elementi difettosi di un sistema nervoso centrale.” 1<br />

Opera densissima e germinale, The Atrocity Exhibition (1969) era indicato da Ballard stesso come<br />

il suo libro più importante. Di certo si tratta di un lavoro complesso e attualissimo, dal grande<br />

fascino, pari forse solo a quello del successivo (ma meno innovativo sul piano formale) Crash<br />

(1973).<br />

La mostra delle atrocità non ha un impianto narrativo vero e proprio. Tramite l’espediente che dà<br />

il titolo al libro – una mostra allestita in una clinica psichiatrica da parte dei pazienti – Ballard si<br />

libera fin da subito dalla necessità di “raccontare una storia”. I diversi capitoli (o racconti) che<br />

compongono l’opera non sono che le diverse sfaccettature della mente di uno psicotico (o forse<br />

di un medico divenuto psicotico) dal cangiante nome di Travis/Traven/Talbot/Travers ecc…<br />

Solo l’iniziale T (e il ritorno, di racconto in racconto, di certi personaggi come la moglie<br />

Margaret, l’amante Karen Novotny, il dottor Nathan…) autorizzano a considerare “unitario” il<br />

personaggio.<br />

Per cominciare, potremmo dunque dire che l’intero racconto si dipana all’interno della mostra<br />

annualmente allestita nell’istituto psichiatrico. Si prenda l’attacco: “La mostra di quest’anno, alla<br />

quale i pazienti non erano stati invitati, aveva un segno inquietante: tutti i quadri insistevano sul<br />

tema della catastrofe planetaria…”.<br />

1 James G. BALLARD La mostra delle atrocità (Feltrinelli, 2001), pag. 68. Tutte le citazioni dalla Mostra delle atrocità<br />

presenti in quest’articolo sono tratte dall’edizione testé indicata.<br />

24


Ballard apre senza esitazioni con la mostra, e all’interno della mostra si muove, dissezionandola<br />

con uno stile più volte definito “chirurgico”, e servendosi in particolare del personaggio del<br />

dottor Nathan per “attraversare” le diverse e inquietanti opere (collages, foto ingrandite,<br />

quadri…) fornite dai pazienti.<br />

La mostra stessa, però, a sua volta non è che una manifestazione<br />

ESTERIORE della mente (dis)ordinatrice di Travis/Traven/Talbot<br />

ecc… Insomma: essa è un interno o un esterno? E’ un che di fon-<br />

damentalmente immaginario (ovvero, fa parte del delirio del pro-<br />

tagonista) oppure ha tratti di oggettività? A partire da questa<br />

ambiguità di fondo, Ballard costruisce la colossale inquietudine<br />

che pervade il libro, introdotta non a caso nella succitata prima<br />

frase: “La mostra di quest’anno […] aveva un segno inquietante.”<br />

Inquietudine determinata, in ampia parte, proprio dal fatto che<br />

il lettore non sa (e non può stabilire) se si trova all’interno o<br />

all’esterno del personaggio stesso! Il trasferimento ALL’ESTERNO,<br />

nel paesaggio, dei sistemi nervosi dei diversi personaggi (e in particolare di T.) si rivela una<br />

micidiale osmosi (anche letteraria, se vogliamo) che fa esplodere le funzioni narrative e<br />

costringe il lettore ad attraversare scenari mentali e forme di pensiero senza la rassicurazione<br />

dell’ “altro da sé”, ovvero senza la confortante certezza della “trama” classica.<br />

Poche idee fisse (dei fatti: la bomba atomica sganciata dall’Enola Gay, l’assassinio di John<br />

Fitzgerald Kennedy; ma anche delle parti corporee: la bocca di Jacqueline Kennedy, le<br />

geometrie dei corpi trasferite elle geometrie spaziali dei luoghi, e fuse con esse) tornano<br />

continuamente e innervano i “diversi” racconti, attraversano le opere della mostra commentate<br />

dal dottor Nathan alla ricerca di un filo conduttore.<br />

Cosa accade dentro la mente di T, ne La mostra delle atrocità, e cosa fuori? In verità, per quanto<br />

sia impossibile non porsi la domanda, bisognerebbe resistere alla tentazione di darsi una<br />

risposta. Ballard, intenzionalmente, scrisse seguendo il metodo (scrittorio più che psicanalitico,<br />

a mio parere) delle libere associazioni, alcune delle quali vengono sviscerate nelle fondamentali<br />

note, aggiunte da Ballard stesso in seguito alla stesura, mentre altre restano straordinariamente<br />

oscure e misteriose, punti di contatto tra elementi apparentemente eterogenei che producono<br />

inquietanti scenari mentali.<br />

Ora, lungi da me l’intenzione di fare esegesi ballardiana solo ed esclusivamente con l’appoggio<br />

della letteratura psicanalitica. Vorrebbe dire – scusatemi per la franchezza – banalizzare il<br />

pensiero e il lavoro dello scrittore inglese, che non è certo una filiazione da Freud o da altri,<br />

bensì una profonda e immaginifica rielaborazione del reale sulla base di certe sue connessioni<br />

segrete, sotterranee e misteriose che – per parlare con altrettanta franchezza – secondo me<br />

neppure la psicanalisi ha mai saputo esplorare così compiutamente.<br />

Ciò detto, in un celebre testo freudiano, Il disagio della civiltà, si trovano dei passi che possono<br />

aiutare ad approfondire il tema che dà il titolo a questo scritto. Scrive infatti Freud: “Un<br />

ulteriore incentivo al distacco dell’Io dalla massa delle sensazioni, al riconoscimento di un al di<br />

fuori, di un mondo esterno, è fornito dalle abbondanti, molteplici, inevitabili sensazioni di<br />

dolore e di dispiacere che, nell’esercizio del proprio illimitato dominio, il principio di piacere<br />

ordina di neutralizzare e di evitare. Sorge la tendenza a separare dall’Io tutto ciò che può<br />

25


divenire fonte di simile dispiacere, a respingerlo all’esterno e a formare un puro Io-piacere, cui<br />

si contrappone un estraneo e minaccioso al di fuori.” 2<br />

Naturalmente è ben difficile affermare che il camaleontico personaggio ballardiano T. agisca<br />

solo in ossequio al freudiano principio di piacere. Egli, come vien detto in un celebre passaggio<br />

del romanzo, “vuole uccidere di nuovo Kennedy, ma questa volta in un modo che abbia senso”<br />

(pag. 55). T. è dunque, casomai, un cercatore di senso (nella realtà, ovvero nel mondo esterno e<br />

nella sua natura fenomenica); egli ambisce a gettare un ponte tra sé e il mondo esterno, tra l’Io e<br />

l’al di fuori, per dirla con Freud. Di più: egli vuole tradurre l’Io nel mondo esterno, con le sue<br />

geometrie e i suoi eventi non sessuali, ma sessualizzati (come spiega bene William Burroughs<br />

nella sua prefazione, La mostra delle atrocità esplora “le radici non sessuali della sessualità.”).<br />

Ma a questo punto è lecito chiedersi: quali sono le ATROCITA’ della mostra? Ragionando su<br />

JFK, Ballard sostiene che l’immensa forza dell’evento occorso a Dallas il 22 novembre del 1963<br />

sia dovuta non tanto al fatto in sé, quanto piuttosto al modo (o ai modi) in cui esso è stato<br />

raccontato. Noi non conosciamo il fatto, ma il racconto del fatto. Su di noi non agisce il fatto,<br />

bensì il suo racconto. E infatti, l’assassinio di Kennedy può essere raccontato anche “come una<br />

gara automobilistica in discesa”…<br />

In questo senso, La mostra delle atrocità è una sorta di “romanzo dodecafonico” (definizione mia,<br />

della quale mi assumo tutte le responsabilità): esso applica chiavi diverse ai medesimi eventi, o<br />

alla medesima mente, quella appunto di T., sia esso un paziente o un medico che ha perso il<br />

controllo (nel primo capitolo si parla di un “ufficio di Travis”, il che può far pensare che T.<br />

lavori presso la clinica, e non ne sia ricoverato).<br />

Le atrocità, allora, non sono altro che i “paesaggi mediatici” attraverso i quali i personaggi si<br />

muovono. Basti pensare alle frequenti citazioni di Ralph Nader, controverso personaggio più<br />

volte candidato outsider alle Presidenziali americane, che si fece conoscere primariamente per<br />

una campagna contro talune marche di automobili considerate pericolose. Nader non è altro<br />

che una posizione mediatica. Egli “esiste” nella percezione di lui ottenibile attraverso la sua<br />

campagna contro-informativa. Allo stesso modo Marilyn Monroe, Ronald Reagan, Jayne<br />

Mansfield, Jackie Kennedy, Elizabeth Taylor si inseriscono nel<br />

tessuto del romanzo grazie all’immagine che di essi forniscono<br />

(o hanno fornito) i media. I personaggi stessi diventano<br />

ATROCITA’, vengono scorporati in gigantografie di parti dei<br />

loro corpi (bocca, organi genitali, ascelle, zigomi, occhi…) poi<br />

sovrapposte al territorio (al di fuori) nel tentativo di<br />

trasformarlo in corpo, o di considerarlo come un corpo: di<br />

unire, ancora una volta, ciò che è al di dentro con ciò che è (o<br />

dovrebbe essere) al di fuori. Nel paradossale e bellissimo Storia<br />

segreta della Terza guerra mondiale, pubblicato su questo numero della “Lanterna”, le funzioni<br />

corporali e i segni vitali di un vecchio Ronald Reagan 3 finiscono addirittura per sostituire le<br />

notizie dal fronte! Il “dentro” del corpo di Reagan (compresa la sua attività intestinale)<br />

2 Sigmund FREUD Il disagio della civiltà (Bollati Boringhieri, 1977) pag. 202. Peraltro lo stesso Ballard, in una nota de<br />

La mostra delle atrocità, cita esplicitamente quest’opera di Freud, autorizzando dunque, per così dire, il mio<br />

riferimento.<br />

3 Un esempio di quanto poderosa sia stata l’immaginazione di Ballard nello stendere La mostra delle atrocità, e di<br />

quanto il suo metodo di “libere associazioni” si sia rivelato capace di produrre riflessioni abissali, può essere dato dalla<br />

considerazione che il celeberrimo capitolo Ecco perché voglio fottere Ronald Reagan, tra i più controversi e “scomodi”<br />

dell’intero libro, fu scritto in prima stesura nel 1967, quando Reagan era ben lungi dal diventare Presidente degli Stati<br />

Uniti. Qualcosa nella personalità dell’attore schierato politicamente con i Repubblicani, ma ancora molto lontano dalla<br />

vetta politica poi raggiunta, aveva già “mediaticamente” colpito Ballard, ed era perciò entrato nel nucleo fondativo di<br />

quello che, un paio d’anni dopo, sarebbe stato La mostra delle atrocità.<br />

26


sostituisce il “fuori” della guerra, anzi, si fa esso stesso “guerra” o rappresentazione della guerra<br />

(che nella realtà del racconto dura pochi minuti: appena uno scambio di missili tra U.S.A. e<br />

URSS!).<br />

Ad ogni modo, scrivendo di un libro come La mostra delle atrocità, l’impressione che si ha è che si<br />

tratti di un’opera incredibilmente e volutamente AMBIGUA, la cui ambiguità anzi non è<br />

risolvibile. Il libro, come suggerisce lo stesso Ballard in una nota, è fatto di “promemoria<br />

segreti”. Tali promemoria sono forniti dalla magmatica materia dei media. Nell’appendice,<br />

Ballard propone alcune descrizioni cliniche di operazioni di chirurgia estetica. “Quello che<br />

sembra più strano” – chiosa – “è che questi resoconti neutrali di procedure operative […]<br />

possano trasformarsi radicalmente con la semplice sostituzione del nome di una celebrità<br />

all’anonimo «paziente»; come se la letteratura e la scienza non fossero che una grande<br />

pornografia dormiente, in attesa di essere svegliata dalla magia della fama” (pag. 168).<br />

E chi crea la fama se non i media, la televisione, i giornali? “I televisori” – dice sempre Ballard –<br />

“ci fornivano uno sfondo interminabile di immagini agghiaccianti e scioccanti, l’assassinio di<br />

Kennedy, il Vietnam, la guerra civile in Congo, il programma spaziale… […] Nel loro<br />

complesso, esse hanno aperto la via al paesaggio dei nostri giorni, e forniscono anche l’ambigua<br />

materia prima di questo libro…” (pag. 108).<br />

Come si nota, l’Autore è lucidissimo nel presentare la sua stessa opera, e nel riconoscerne le<br />

ispirazioni e le motivazioni. Attenzione: non i significati! Non a caso, egli stesso nel brano citato<br />

poco sopra definisce “ambigua” la materia del libro…<br />

Si può spingersi allora ad affermare che la serrata dialettica interno/esterno ne “La mostra delle<br />

atrocità” è da estendere anche al “paesaggio dei media”? Insomma, alla difficoltà che ha il<br />

lettore ne capire se si trova dentro un “promemoria segreto” o fuori da esso, in uno spazio – per<br />

quanto poco ciò voglia dire – vergine? La nostra mappa mentale, ci dice Ballard, è sempre più<br />

disegnata dai media, dalle loro immagini, dai loro accostamenti e dalle loro tesi. 4<br />

La maestria di Ballard si rivela soprattutto nell’esteriorizzazione di queste mappe mentali.<br />

Anche in altre opere dello scrittore britannico si ritrova questa ossessione. Prendiamo Il<br />

condominio (1975), con la meravigliosa e inquietante similitudine tra lo skyline di Londra e<br />

“l’encefalogramma di uno psicotico”. Oppure L’isola di cemento (1974), nell’attraversare la quale<br />

al protagonista, il “naufrago urbano” Robert Maitland, “sembrava di seguire le proprie<br />

circonvoluzioni cerebrali. […] Pensò alla strana frase che aveva mormorato nel delirio: l’isola<br />

sono io.” 5<br />

L’area attorno alla clinica de “La mostra delle atrocità” si carica, negli attraversamenti compiuti<br />

da T. nelle sue molteplici configurazioni, di luoghi e costruzioni “mentali”: i bunker, il poligono<br />

di tiro, i cartelloni pubblicitari con le gigantografie frammentarie di corpi femminili… In questo<br />

4 E, aggiunge in una nota, “tutta la nostra vita è percorsa sotterraneamente da compiti già assegnati: le coincidenze non<br />

esistono”. Affermazione inquietante al massimo grado, teorema “dimostrato” – se vogliamo – proprio da La mostra<br />

delle atrocità, con scientifica precisione…<br />

5 James G. BALLARD L’isola di cemento (Feltrinelli, 2007). Questo interessantissimo romanzo, meno conosciuto di altri<br />

testi ballardiani, merita attenzione proprio per la profondità che in esso raggiunge il concetto della esteriorizzazione<br />

degli spazi interiori e, soprattutto, cerebrali. L’inner space ballardiano raggiunge qui una delle sue vette. Ed è<br />

impossibile, credo, non pensare all’affascinante parallelo con il Kubrick di Shining e di Full Metal Jacket. Tanto<br />

l’Overlook Hotel quanto la spettrale città di Hue invasa (ma non dominata) dai soldati americani sono a loro volta<br />

“paesaggi cerebrali”, rappresentati – a mo’ di mise en abyme – dalla figura del labirinto, presente in entrambi i film e,<br />

in entrambi i casi, fatale ai personaggi che vi si trovano all’interno.<br />

27


paesaggio strutturato dai media 6, Ballard fa muovere i suoi protagonisti, la cui natura (sono<br />

personaggi “reali” o produzioni schizofreniche?) viene fatalmente messa in dubbio.<br />

Poco importa, perché il paesaggio stesso è uno strumento con il quale il multiforme<br />

personaggio di T. tenta di razionalizzare e geometrizzare il reale. Si può dire, dunque, che nulla<br />

sia esterno e nulla sia interno in questo impressionante romanzo a frammenti, suddiviso in<br />

“scaglie mentali” dure e allucinate, o morbide e nitide con le loro immagini grottesche,<br />

suggestive, orrorifiche, stranianti.<br />

Chiudiamo allora tentando di rispondere ad una domanda a suo modo “classica”: “La mostra<br />

delle atrocità” si può considerare un romanzo a tutti gli effetti, o è piuttosto una raccolta di<br />

racconti? Io propendo decisamente per il romanzo, visto l’utilizzo dei medesimi personaggi<br />

praticamente in tutti i “racconti” e il personaggio unificatore/disgregatore d T. ad attraversare<br />

l’opera come un inquietante filo rosso spezzato qua e là e riannodato volta a volta. 7 “La mostra<br />

delle atrocità” è affascinante proprio per la capacità di riannodare i fili che esige dal lettore che,<br />

lungi dal sentirsi vittima dell’esplosione della narrazione classica, deve piuttosto mettersi in<br />

gioco ancora più pesantemente e decisamente per fare la stessa cosa che fanno i personaggi<br />

ballardiani: cercare senso in un paesaggio interno/esterno (anche al lettore!) nel quale i punti di<br />

riferimento crollano uno dopo l’altro, e le simmetrie e le geometrie che emergono non possono<br />

non risultare inquietanti e disturbanti.<br />

E’ ad ogni modo impressionante la quantità di temi e di rimandi ad opere<br />

successive dello tesso Ballard presenti ne La mostra delle atrocità. Il perso-<br />

naggio di Vaughan, oscuro co-protagonista del futuro Crash, compare<br />

qui per la prima volta; e in molte pagine emerge il ricordo della prigionia<br />

del giovane Ballard a Shangai, che sarà la materia principale di L’Impero<br />

del Sole (1984).<br />

La mostra delle atrocità è, a mio parere, un consapevole punto di snodo<br />

nella produzione ballardiana, un punto che contiene molti altri punti,<br />

esattamente come il personaggio di T. contiene molti altri personaggi,<br />

forse tutte le facce di una psicosi galoppante. La psicosi del mondo contemporaneo.<br />

6 “Nell’epoca attuale” – scrive Ballard introducendo il decimo capitolo del libro, Piano per l’assassinio di Jacqueline<br />

Kennedy – “il paesaggio dei media è una mappa in cerca di un territorio. Le nostre menti sono inondate da una massa<br />

impressionante di immagini sensazionali e spesso tossiche, molte delle quali hanno un contenuto inventato. Come fare a<br />

trarre un senso da questo flusso incessante di informazione e di pubblicità, di notizie e di intrattenimento, in cui le<br />

campagne presidenziali e i viaggi sulla Luna sono indistinguibili dal lancio di una nuova merendina o dell’ultimo<br />

deodorante?” Ebbene, La mostra delle atrocità potrebbe in effetti essere visto come il tentativo di strutturare un vero e<br />

proprio (inquietante) “paesaggio dei media”. La natura tutta mentale, cerebrale, di tale paesaggio, non fa che arricchire<br />

il nostro discorso sulla dialettica interno/esterno in questo mirabolante libro. E il fatto che la maggior parte dei<br />

personaggi sia di fatto impegnata a cercare un senso in ciò che accade (o in ciò che si pensa accada…) è il tentativo di<br />

trovare risposta alla inquietante domanda ballardiana che chiude la citazione testé riportata.<br />

7 Va però detto che la storia compositiva dell’opera parla chiaro: Ballard accorpò alla fine degli anni Sessanta alcune<br />

“condensed novels” scritte negli anni precedenti (e in certi casi già pubblicate su riviste di fantascienza o di letteratura<br />

in generale). Una certa natura frammentaria del romanzo va perciò riconosciuta.<br />

28


La fantascienza non è più quella di una volta<br />

GIOVANNI FICETOLA<br />

Tempo fa volli fare un gioco. Avevo una serie di riviste scientifiche con me e proposi ad un<br />

amico scrittore, ma quasi digiuno di fantascienza, di darmi dieci idee fantascientifiche.<br />

Rimase a pensare a lungo, io l’osservavo muto cercando di decifrare le espressioni sul suo viso.<br />

Appuntava, mano a mano che gli venivano, le idee su un taccuino, poi ne cancellò alcune,<br />

infine me le lesse.<br />

Dopo la sua esposizione presi le riviste che avevo con me. Ci mettemmo a leggere. Delle dieci<br />

idee che mi aveva esposto, otto erano già contenute in seri articoli scientifici pubblicati nei mesi<br />

precedenti. In alcuni casi (tre per la precisione) i risultati delle équipe scientifiche erano più<br />

avanzati delle idee proposte.<br />

Avevo raggiunto l’obiettivo che speravo: dimostrare che la scienza è nettamente più avanti e<br />

complicata rispetto alla fantascienza speculativa. Ma il risultato ottenuto non era certo<br />

confortante.<br />

In letteratura, la fantascienza è sempre stato un genere profondamente di nicchia, riservato in<br />

molti casi solo ai cosiddetti nerds o comunque, nei casi più fortunati di fenomeno di massa,<br />

sempre ristretto alla singola opera, peraltro quasi sempre esclusivamente di carattere<br />

cinematografico (2001 – Odissea nello Spazio, Guerre stellari, Blade Runner).<br />

Eppure si tratta di un genere tanto ricco di autori quanto, ultimamente, incredibilmente povero<br />

di idee.<br />

Nel momento, infatti, in cui l’idea scientifica scardinata può essere conosciuta solo dagli addetti<br />

ai lavori di uno specifico settore (biomedico, fisico, ecc...), solo gli addetti ai lavori possono<br />

scriverne.<br />

Questo produce un fastidioso cortocircuito che rende tutti letterati. Ma una preparazione<br />

scientifica (nonostante le eccezioni) non apre automaticamente le porte a capacità e talenti<br />

artistico-letterari. Eppure, eccetto una piccola manciata di grandi autori, la cosiddetta space opera<br />

(quella considerata dal grande pubblico l’unica vera fantascienza, cioè le navi spaziali, gli alieni e<br />

i robot) non è certo stata la miglior fantascienza a livello letterario che il XX secolo ha prodotto,<br />

e che è poi approdata nel XXI secolo.<br />

Anzi, i più grandi autori di fantascienza (escludendo Asimov, Van Vogt, Haldeman e Clark)<br />

sono stati spesso estranei alla space opera, ma più legati all’analisi della corsa verso il futuro. Sono<br />

scrittori come Dick, Bradbury, Gibson e, negli ultimi anni, Gaiman e naturalmente Ballard.<br />

Sono scrittori che, in modi differenti, sono pervenuti alla medesima concezione della letteratura<br />

fantascientifica: parlare del futuro per parlare del presente (o del passato). E questo futuro nel<br />

tempo si è fatto sempre più prossimo, ormai presente parallelo, o addirittura già passato.<br />

Dick e Ballard (ma prima di loro quello che probabilmente è il più grande maestro del<br />

fantastico puro, capostipite di tutta la letteratura di genere di matrice anglosassone, H.P.<br />

Lovecraft, senza scomodare un autore non strettamente e puramente fantastico come J.L.<br />

Borges) hanno saputo parlare come pochi del loro presente attraverso il futuro, anzi, andando a<br />

29


predire il futuro stesso. Non le invenzioni o le innovazioni sono al centro dei loro lavori, ma le<br />

tematiche, il pensiero, lo sfaldamento della società (Ballard) o della realtà stessa (Dick).<br />

E’ ovviamente la caratura intellettuale e universale delle opere che differenzia il vero scrittore<br />

dallo scribacchino pagato a parola 1, limitato al suo presente, incapace di comunicare con il<br />

futuro; talento di cui Dick e Ballard sono ampiamente in possesso.<br />

Com’è possibile, altrimenti, che un romanzo come Il condominio, di neanche 200 pagine, scritto<br />

ormai trentacinque anni fa, riesca a conservare tutt’oggi non solo la carica profetica e<br />

destabilizzante dell’epoca, ma una ancora maggiore violenza letteraria, una incredibile capacità<br />

di inquietare il lettore facendogli tremare i polsi mentre legge seduto su un divano nel proprio<br />

condominio, portandolo a rendersi a mano a mano conto del fatto che anche la sua vita va in<br />

quella disperata direzione?<br />

La distopia è quasi per definizione una forma letteraria di analisi del presente, da Orwell in poi.<br />

Se la fantascienza deve quindi parlare del presente, attraverso l’esasperazione e il parossismo dei<br />

nodi del momento, essa si ritrova a narrare eventi solo apparentemente lontani. Lontananza<br />

non per forza temporale, ma spesso solo mentale. Il cambio del punto d’osservazione,<br />

dell’oggetto osservato, lo spostamento della visuale dello spettatore, viene posto da Ballard<br />

all’interno del corpo uomomacchina, anche attraverso immagini rubate al passato,<br />

all’immaginario collettivo, rimasticato, rigurgitato, poi sputato su un piatto o uno schermo.<br />

Non ha quindi importanza se la letteratura di fantascienza non ha ipotizzato il computer<br />

portatile, non è importante l’oggetto in sé, è importante il concetto mentale del cambiamento<br />

dell’uomo. Ormai anestetizzato alla violenza, incapace di vivere il corpo.<br />

Marc Augè, l’antropologo che ha teorizzato i non-luoghi, parlando del non-futuro dice che è<br />

stata proprio questa mancanza di preveggenza della letteratura speculativa o hard core di<br />

fantascienza a essere il primo sintomo del crollo delle utopie.<br />

Io ritengo che non abbia importanza la mancanza o meno della precisione scientifica. Il crollo<br />

delle utopie è cominciato quando l’uomo ha visto il proprio riflesso nell’acqua, quando si è<br />

accorto non dell’altro, ma di sé stesso. E si è spaventato.<br />

Ballard ha visto le persone attorno a sé rallentare di fronte ad un incidente automobilistico 2, in<br />

un incontrollato senso di voyerismo, come tanti soldatini addestrati da Andy Warhol, incapaci di<br />

non guardare, di non spiare, di non voler, sull’altro piatto della bilancia, apparire.<br />

Se qualcuno spia, qualcuno deve essere spiato, non ha importanza che questi sia cosciente o<br />

meno dell’essere oggetto dell’osservazione; il gioco è truccato da entrambi i lati, il principio di<br />

indeterminazione di Heisenberg fallisce davanti all’uomo, osservatore e osservato, chiunque<br />

accetti le regole del gioco sa di poter e dover barare, credere che ciò che vede sia/è vero e ciò<br />

che fa è egualmente vero. I copioni svaniscono dietro gli specchi, il teatro viene portato<br />

all’estrema conseguenza del reale. E più ciò che appare è parossistico ed estremo, e più sembra<br />

reale, più l’erotico sogno del protagonista di Crash diventa vivo: non più solo sogno, ma illusione<br />

della realtà.<br />

1 Anche se è importante ricordare che molti degli autori citati in quest’articolo, proprio per la scelta di fare letteratura<br />

fantastica, sono stati pagati a parola dalle riviste specialistiche del ‘900, molte delle quali adottavano proprio questo<br />

metodo di pagamento. Basti pensare che anche uno dei principali bestseller mondiali come Stephen King inizialmente<br />

veniva pagato a metro. Il disprezzo di chi scrive è verso coloro che, pagati a parola per dire solo vaghezze, riescono<br />

anche ad allungare il brodo.<br />

2 Già Filippo Tommaso Marinetti, capostipite letterario del Futurismo italiano, tesseva l’elogio dell’incidente d’auto, e<br />

non in un testo qualsiasi, ma addirittura nel Manifesto del Futurismo: “Pel disgusto, mi scaraventai colle ruote all’aria<br />

in un fossato... Oh! materno fossato, quasi pieno di un’acqua fangosa! Bel fossato d’officina! Io gustai avidamente la<br />

tua melma fortificante, che mi ricordò la santa mammella nera della mia nutrice sudanese... Quando mi sollevai - cencio<br />

sozzo e puzzolente - di sotto la macchina capovolta, io mi sentii attraversare il cuore, deliziosamente, dal ferro<br />

arroventato della gioia!” Elogio altrettanto erotico quanto quello ballardiano, anche se in chiave epica più che<br />

pornografica.<br />

30


Forse tutto questo è stato il risultato del secolo freddo, della seconda metà del ‘900, così<br />

infiammato e al contempo distaccato; forse il testamento di Kubrick è proprio questo punto<br />

d’arrivo. 3<br />

E se la regola del gioco è estremizzare un momento, un concetto, allora perchè non portare alla<br />

estrema conseguenza proprio questa regola? Perchè non arrivare al punto massimo, al grado<br />

zero della letteratura, prendendo un articolo da un giornale ed estremizzandolo?<br />

Troppo facilmente ciò porterebbe solo ad un’analisi<br />

superficiale, ad una letteratura che si confonde con la satira,<br />

con il mondo stesso che vuole denunciare. Il risultato troppo<br />

facilmente puzzerebbe di vecchio anche se appena uscito, ciò<br />

di cui si parla sarebbe già passato.<br />

L’uomo non è cambiato negli ultimi diecimila anni, ciò che<br />

valeva per il cittadino greco del V secolo a.C. vale anche<br />

sostanzialmente per l’uomo globalizzato di oggi.<br />

Ed ecco perchè la copertina italiana de Il condominio di<br />

Ballard è così assoluta: un disegno di quello che è forse il più<br />

grande e visionario architetto del ‘900, Antonio Sant’Elia,<br />

futurista, morto sul Carso durante la presa di Trieste, nella<br />

Prima guerra mondiale, appena ventottenne, senza aver mai<br />

costruito nulla. Eppure collocato nell’Olimpo di un’arte<br />

(l’architettura) così incredibilmente pragmatica e legata ai<br />

tempi delle costruzioni degli edifici.<br />

Ecco perchè un grande artista come l’architetto comasco<br />

rappresenta, al contempo, il positivismo verso la tecnologia e<br />

Antonio Sant’Elia, La città nuova il nichilismo malthusiano, due posizioni che le distopie della<br />

Studio, 1914, acquarello su carta fine del ‘900 ci hanno insegnato non essere in contrapposi-<br />

45,3 x 35,3 cm zione ma, soprattutto grazie a Ballard, le due facce della stessa<br />

medaglia.<br />

3<br />

Ricordiamo che Eyes Wide Shut è uscito nel 1999, ma la novella da cui è tratto, Doppio sogno di Arthur Schnitzler, è<br />

del 1925.<br />

31


INTERSEZIONI<br />

Il corpo di Nikolai<br />

Appunti su temi e ossessioni del cinema di David Cronenberg<br />

MATTEO FONTANA<br />

Il punto di partenza di questo scritto è una semplice domanda: quanto e cosa c’è della poetica<br />

cronenberghiana “classica” nelle opere dell’ultimo periodo del regista canadese?<br />

Tentando di rispondere a questa domanda, più o meno inavvertitamente, si finisce per toccare<br />

svariate tematiche e, soprattutto, si finisce per riflettere sulle influenze (anche letterarie) che<br />

agiscono e hanno sempre agito sul lavoro di Cronenberg.<br />

SESSUALITA’ E VIOLENZA: CRONENBERG 1975-1986<br />

Converrà dunque, anzitutto, ripercorrere in breve la carriera del regista canadese, iniziata a metà<br />

degli anni Settanta. Un percorso, questo, che non ha la pretesa di essere esaustivo, ma che<br />

intende fornire al lettore una panoramica il più possibile efficace sulla evoluzione delle<br />

tematiche cronenberghiane classiche. Ovviamente, come sempre quando si tratta di cinema,<br />

nulla può sostituire la visione diretta dei film. In mancanza della quale, però, il lettore non si<br />

spaventi: tenteremo comunque di rendere il discorso comprensibile a tutti e – speriamo –<br />

interessante.<br />

David Cronenberg nasce come regista di genere, nella fattispecie di genere horror, per divenire<br />

in seguito uno dei grandi “pensatori cinematografici” sul tema del CORPO e della CARNE, e<br />

delle interazioni tra corpo e macchina. L’orrore non cessa di abitare l’opera cronenberghiana,<br />

nel suo evolversi; anzi, esso si fa vieppiù insinuante e spaventoso, con l’entrare più<br />

profondamente nelle meccaniche sociali e nei “paesaggi mentali” 1 degli uomini.<br />

Come già detto, il breve percorso che ci accingiamo a compiere nella filmografia<br />

cronenbeghiana non sarà completissimo. Ci concentreremo soprattutto sulle ultime uscite, non<br />

senza concederci qualche corposo cenno a opere precedenti fondamentali per comprendere,<br />

giustappunto, lo sviluppo della riflessione del regista canadese, sia sul genere horror che sul<br />

tema del corpo.<br />

Che tale tema fosse centrale già nel primo Cronenberg appare chiaro dalla visione del “Demone<br />

sotto la pelle” (The Parasite Murders, 1975), film d’esordio del regista. Degli orrendi vermoni<br />

fanno la loro comparsa in un condominio ultramoderno e infestano gli abitanti entrando dentro<br />

i loro corpi e provocando in essi desiderio di violenza e di sesso 2. Corpo, parassiti, violenza,<br />

1 L’espressione è ballardiana e la scelta di utilizzarla non è, ovviamente, casuale.<br />

2 Il potere distruttivo del desiderio, connesso a violenza e sessualità, è stato ottimamente indagato in sede letteraria,<br />

negli ultimi anni, dal lavoro di Michel Houellebecq. Penso a romanzi come Piattaforma (2001) e, soprattutto, Le<br />

32


sesso: gli elementi-cardine del pensiero cronenberghiano sono già perfettamente declinati,<br />

seppure nell’ambito di un film di genere la cui regia, per forza di cose, non può essere levigata e<br />

adulta come quella di tanti lavori successivi.<br />

L’invasione del corpo da parte dei parassiti muta il CARATTERE delle persone, o ne fa emergere<br />

lati sepolti (aggressività e sessualità pronunciata) che la struttura sociale e convenzionale<br />

(rappresentata ovviamente del condominio ultramoderno, che dovrebbe proteggere, rassicurare<br />

e soddisfare ogni necessità degli abitanti) ha mascherato o disinnescato. La connessione tra<br />

orrore e sessualità è già chiara. Cronenberg la porterà avanti per tutta la sua opera, fino all’apice<br />

di “Crash” (id., 1996), che finirà per saldare il lavoro del regista canadese con l’opera grandiosa<br />

di James Ballard, il poeta letterario della fusione corpo-macchina e dell’orrore che ne deriva. A<br />

ben vedere, però, c’è un che di ballardiano anche nel lontano “Demone sotto la pelle”, visto<br />

che “Il condominio” di Ballard (seppur un po’ diverso nella trama: non ci sono parassiti, la<br />

violenza è puramente endogena) uscì nello stesso 1975.<br />

Il corpo umano è violato anche in “Rabid” (id., 1976), dove un trapianto<br />

di epidermide finisce per far crescere alla protagonista un nuovo organo<br />

sotto un’ascella. Con quell’organo la ragazza succhierà il sangue gli abitan-<br />

ti di Montreal, scatenando un’epidemia di rabbia. SESSO e CONTAGIO<br />

sono qui uniti saldamente, e fa la sua comparsa anche la capacità della<br />

carne di modificarsi, di creare nuovi organi. Il pensiero non può<br />

non andare ai più noti “Videodrome” (id., 1983) e “La mosca” (The fly,<br />

1986).<br />

“Videodrome” è una lucida e feroce disamina dell’universo-TV, sicuramente in anticipo sui<br />

tempi. Al di là del (visivamente affascinante quanto orripilante!) connubio corpo-TV, con la<br />

celebre sequenza del televisore fatto di carne pulsante e della videocassetta inserita in una<br />

oscena fessura apertasi nell’addome di James Woods, “Videodrome” teorizza l’influenza del<br />

corpo sulla psiche e viceversa. La TV, sopra di inconscio collettivo in perenne galleggiamento<br />

nell’etere, è una psiche umana condivisa e influenzante, capace persino (vedi la “Cathod Ray<br />

Church”) di strutturarsi come RELIGIONE.<br />

Cronenberg intensifica poi il discorso facendo del<br />

suo protagonista il proprietario di un’emittente<br />

pornografica. Il CORPO è ovviamente centrale nel<br />

porno, è ciò che lo motiva e origina il genere stesso.<br />

Il misterioso segnale videodrome, a questo punto,<br />

propone proprio ciò che, senza confessarlo,<br />

l’inconscio collettivo allo stesso tempo contiene e<br />

desidera: sesso e violenza, corpi martoriati,<br />

strangolamenti, ferite. Siamo già nell’universo<br />

particelle elementari (1998), da cui è tratta la seguente citazione: “Di per sé il desiderio – contrariamente al piacere – è<br />

fonte di sofferenza, di odio e di infelicità. […] La soluzione degli utopisti – da Platone a Huxley passando per Fourier –<br />

consiste nell’annientare il desiderio, e le sofferenze connesse, organizzandone l’immediata soddisfazione. All’opposto,<br />

la società erotico-pubblicitaria in cui viviamo si accanisce ad organizzare il desiderio, a svilupparlo fino a dimensioni<br />

inaudite, al tempo stesso controllandone la soddisfazione nel campo della sfera privata. Affinché la suddetta società<br />

funzioni, affinché la competizione continui, occorre che il desiderio cresca, si allarghi e divori la vita degli uomini.”<br />

(Michel HOUELLEBECQ Le particelle elementari Bompiani 2008). Questo è il grande tema dell’opera di Houellebecq,<br />

indubbiamente tra i più interessanti scrittori europei in attività. Realizzare una precisa mappa del desiderio sembra il suo<br />

principale obiettivo, come già il Ballard de La mostra delle atrocità tentava di disegnare la “mappa dei paesaggi<br />

mediatici”, capaci di influire sui meccanismi interpersonali molto più di ogni altro fattore del mondo contemporaneo.<br />

Ovviamente non si tratta, in senso lato, di una riflessione “nuova”: basti pensare che già un certo Giacomo Leopardi<br />

(giusto per restare nell’ambito della letteratura italiana) rifletteva sul tema filosofico dell’infinità del desiderio<br />

contrapposta alla finitezza dell’essere umano, e del tempo a sua disposizione per soddisfare il desiderio stesso. Il<br />

discorso ci porterebbe assai lontano: contentiamoci di averlo adeguatamente introdotto e suggerito all’attenzione del<br />

lettore!<br />

33


allardiano di “Crash”, a ben vedere, anche se lo stile di Cronenberg non è ancora abbastanza<br />

algido e “pulito” per affrontare il testo dello scrittore inglese<br />

(che infatti sarebbe stato tradotto in pellicola solo nel 1996).<br />

E il contagio, anche in “Videodrome”, si estende: al prota-<br />

gonista Max Renn cresce un organo, nel cervello, che lo<br />

sintonizza su una realtà “altra”, un delirio nel quale corpo<br />

e TV si saldano oscenamente. “Lo schermo televisivo” –<br />

dice l’inquietante professor O’Blivion, fondatore della<br />

succitata Cathod Ray Church” – “è ormai il solo vero oc-<br />

chio del mondo. Ne consegue che lo schermo TV fa Lo schermo come membrana organica:<br />

ormai parte fisicamente del cervello umano.” la “nuova carne” dell’orrore televisivo<br />

E O’Blivion, come si scoprirà, “vive” unicamente su<br />

nastri registrati, essendo egli fisicamente morto. La sua esistenza è solo un segnale TV, “è tutto<br />

registrato”, direbbe forse il Lynch di “Mulholland Drive”.<br />

LA CARNE E LA METAMORFOSI: CRONENBERG 1986-1996<br />

Probabilmente quanto sin qui detto sarebbe già sufficiente ad illustrare, sia pure per sommi<br />

capi, il tema-principe del cinema di Cronenberg: il rapporto tra la psiche e la carne, e la<br />

mostruosità insita nei corpi e nelle pulsioni sessuali. Opere come “Pasto nudo” (Naked Lunch,<br />

1991) e “Crash” esplorano a fondo tale problematica, e rispetto agli inizi smaccatamente di<br />

genere del cinema cronenberghiano mostrano un raffinamento notevole della regia e dello stile,<br />

uno sguardo che diviene sempre più distaccato e gelido, si potrebbe dire equidistante da tutti i<br />

corpi e dalle loro spaventose “avventure” (si pensi a “Inseparabili” [Dead Ringers, 1988],<br />

inquietante e algida esplorazione del tema del doppio).<br />

Quello che ci interessa, in questa sede, è giungere alle ultime opere del regista canadese – e in<br />

particolare a “La promessa dell’assassino” (Eastern Promises, 2007) – per individuarne e svelarne i<br />

punti di contatto (ma forse faremmo meglio a dire “di sutura”!) con la produzione precedente.<br />

Non sarà inutile, però, soffermarci un istante sul celebre e già citato “La mosca”, uno dei film<br />

più noti e di maggior successo di Cronenberg. Perché in esso, ancora una volta, sono il corpo e<br />

la MATERIA ORGANICA ad essere al centro della riflessione. Molto nota la trama: il geniale<br />

inventore Seth Brundle non riesce a teletrasportare corpi vivi. “Forse sono troppo ignorante<br />

sulla carne”, afferma. La carne, dunque, è la sostanza stessa di cui è fatto il film, un film dalla<br />

fotografia alternativamente calda (vedi l’appartamento di Geena Davis) e fredda (il laboratorio<br />

di Brundle), come a suggerire una estraneità della carne – sostanza “calda” e vitale per<br />

antonomasia – dal personaggio e dagli esperimenti del protagonista. 3<br />

Il teletrasporto che alla fine Brundle sperimenta su sé stesso altro non è che una disintegrazione<br />

con successiva ricomposizione del corpo. Uno smontaggio-rimontaggio nel quale il minuscolo<br />

corpo di una mosca finisce per inserirsi, creando un mostro e, ancora una volta come già in<br />

“Videodrome”, dando origine alla “nuova carne”, a un nuovo essere frutto di un’inedita<br />

“copula genetica”. In tanti, a livello critico, hanno ovviamente scomodato Kafka per affiancare<br />

alla metamorfosi di Seth Brundle quella letteraria di Gregor Samsa.<br />

Ma in realtà non potrebbero esserci testi più diversi. Gregor si sveglia un mattino in forma di<br />

insetto senza che della sua metamorfosi si possa dare la benché minima spiegazione, se non<br />

3 Cronenberg non rinuncia del resto all’ironia, in questo film, come quando fa dire a Geena Davis/Veronica: “Sai perché le<br />

donne pizzicano le guance ai bambini? E’ la carne. Ci fa impazzire!”<br />

34


metaforica ed esistenziale; la metamorfosi di Seth Brundle è invece conseguenza, se vogliamo,<br />

di un atto di hýbris, di una inopinata trasgressione alle “leggi della carne”.<br />

La trasformazione (come già i vermoni di “Il demone sotto la pelle”) intacca Seth Brundle<br />

anche a livello psichico. Il mostro in Cronenberg non è mai solo un mostro fisico, ma anche<br />

psichico. Fino alla parziale redenzione finale quando, ridotto ad un ammasso orrendo di<br />

carne sanguinolenta, egli induce Veronica a sparargli, ponendo così fine a questa epopea della<br />

degradazione della carne, a questa terrificante INVOLUZIONE del fu essere umano Seth<br />

Brundle.<br />

“Sono un insetto che aveva sognato di essere un uomo e gli era<br />

piaciuto. Ma adesso il sogno è finito.”, dice lo stesso Brundle, nella<br />

battuta forse più bella e significativa del film. Battuta che può<br />

indubbiamente essere connessa con quella che chiude il notevole<br />

“M.Butterfly” (id., 1993): “Sono un uomo che ha amato una donna<br />

creata da un uomo”, dice René Gallimard (Jeremy Irons), prima di<br />

suicidarsi.<br />

Il raffinamento del cinema di Cronenberg è indicato qui anche dal<br />

fatto che il regista non ha più bisogno dell’horror per esprimere la sua<br />

idea di orrore, e di tragedia. Gallimard vive la stessa illusione di<br />

successo e di completezza di Seth Brundle, ma tutto crolla quando si<br />

accorge che la donna cui aveva sacrificato ogni cosa è in realtà un<br />

uomo. L’inganno del corpo è totale, definitivo, assoluto. E non resta<br />

che la constatazione del proprio esistere insignificante. Brundle addirittura afferma di essere un<br />

insetto che si era creduto uomo: così dicendo, egli in fondo “retrodata” la metamorfosi, se ne<br />

prende ogni responsabilità e la trasforma in condizione esistenziale, piuttosto che in evento<br />

fuori dell’ordinario. In questo, Cronenberg sembra effettivamente riavvicinarsi a Kafka.<br />

L’horror sembra una sovrastruttura estetica e narrativa di cui il suo cinema può ora liberarsi.<br />

E’ innegabile infatti che il percorso artistico e creativo del regista canadese consista in un<br />

progressivo affrancamento dagli stilemi dell’horror, o meglio, in un raffinamento di tali stilemi,<br />

che approda a risultati come “Pasto nudo”, “Crash”, “M.Butterfly” e soprattutto<br />

all’impressionante “Spider” (id., 2002).<br />

INTERLUDIO. CRONENBERG TRA BURROUGHS E BALLARD<br />

Qualche parola a parte meritano due titoli in particolare della filmografia cronenberghiana, sia<br />

per le loro dirette ascendenze letterarie, sia per l’importanza nello sviluppo del pensiero<br />

cinematografico del regista. Il primo di questi due titoli è “Pasto nudo”, del 1991, tratto<br />

dall’omonimo romanzo di William Burroughs.<br />

Naked Lunch, per la verità, è un romanzo intraducibile sullo schermo. Cronenberg, non a caso,<br />

per il suo film non si è basato soltanto sul testo di Burroughs (completandolo peraltro con<br />

suggestioni da un altro suo celebre libro, “Sterminatore” [Exterminator!, 1960]), ma ha tratto<br />

materiale anche dalla vita dello scrittore che, com’è noto, è caratterizzata da lunghi anni di<br />

tossicodipendenza e dalle più disparate avventure, anche tragiche (tra cui l’omicidio della<br />

moglie, compiuto da Burroughs sotto l’effetto degli stupefacenti). Insomma Cronenberg, grazie<br />

a quell’impressionante libro che è “Pasto nudo”, vera e propria trascrizione dei deliri di un<br />

tossicomane, riflette ancora una volta, a fondo, sulla connessione corpo-mente e sulla<br />

possibilità che uno dei due fattori prenda il sopravvento. Come il protagonista del successivo<br />

“Spider”, del quale si parlerà tra poco, il protagonista di “Pasto nudo” vive un delirio tutto suo,<br />

fatto di agenti segreti di misteriose potenze aliene, di macchine per scrivere che si trasformano<br />

35


in orripilanti insetti (qui il pensiero corre fatalmente a Kafka, facile citazione…), di creature<br />

mostruose che popolano – come niente fosse – i bar e i locali pubblici.<br />

“Pasto nudo”, in questo senso, anticipa anche l’impianto<br />

visivo di “eXistenZ” (1999), riuscendo inoltre a con-<br />

frontarsi con un genere (cine)letterario ben preciso:<br />

l’hard boiled. Quella del film, a modo suo, è una sorta<br />

di delirante detection durante la quale il primo a smarrir-<br />

si è proprio il protagonista, incapace di distinguere il<br />

reale dall’irreale, il vero dal falso… ma anche il creatore<br />

dalla creatura! E attenzione, perché è questa la note-<br />

vole aggiunta cronenberghiana: “Pasto nudo” è soprat-<br />

tutto una (imperfetta, ma affascinante) riflessione sulla Creature mostruose e bizzarre simili a in-<br />

SCRITTURA, sul suo potere e sui suoi rischi. La scelta setti popolano il delirio del protagonista<br />

di Burroughs come autore di riferimento, in questo Lee in Naked Lunch<br />

senso, è perfetta: scrittore out of control per antonomasia,<br />

egli – pur appartenendo ad una generazione di poco precedente (era nato nel 1914) – incarnò lo<br />

spirito della cosiddetta beat generation, e fu preso a modello dai vari Jack Kerouac, Allen<br />

Ginsberg, Neal Cassady… 4<br />

Ora, ferme restando le enormi differenze di stile e di interessi, anche Ballard ha in qualche<br />

modo subito la fascinazione di Burroughs (e viceversa). In una nota della Mostra delle atrocità,<br />

Ballard riconosce al Pasto nudo la capacità di indagare le eccentricità dei medici, veicolate nel<br />

lavoro di Burroughs dall’eccezionale personaggio del dottor Benway (presente anche nel film di<br />

Cronenberg). Questo passaggio dalla letteratura al cinema, o meglio, questa sorta di strano<br />

triangolo i cui vertici sono William Burroughs, James Ballard e David Cronenberg, si realizza<br />

appieno con le trasposizioni cinematografiche di Pasto nudo e Crash.<br />

Entrambi libri incentrati sui drammi del corpo e della mente umani, entrambi libri a loro modo<br />

“estremi”, essi potevano essere portati sullo schermo solo dal grande regista delle lacerazioni<br />

psichiche e corporee, quello stesso David Cronenberg di cui ci stiamo occupando.<br />

Colpisce il fatto che la trasposizione cinematografica<br />

di Crash, che è un romanzo del 1973, si sia avuta<br />

soltanto nel 1996. “Crash” è un film algido e freddo,<br />

nonostante le moltissime scene di sesso, che vedono<br />

protagonisti praticamente tutti i personaggi. Il fatto è<br />

che, in “Crash”, NULLA è sessuale ma TUTTO è<br />

sessualizzato. E la macchina da presa di Cronenberg,<br />

controllatissima e sempre distaccata, con questo film<br />

apre davvero una nuova fase della sua attività di<br />

indagine dei corpi e dei loro rapporti.<br />

L’algida fotografia di “Crash”: Deborah Kara<br />

Unger e, in secondo piano, James Spader<br />

Uomo e macchina, in “Crash”, si congiungono in modo disturbante: non c’è partecipazione,<br />

solo ossessione. E la macchina da presa di Cronenberg, qui più che altrove, si limita a registrare,<br />

girando attorno ai corpi feriti o amputati dei suoi personaggi, e insistendo con gelida<br />

4 Varrà la pena di ricordare che Burroughs scrisse Naked Lunch a brandelli, sotto l’effetto delle più svariate droghe, e<br />

che furono proprio Kerouac e Ginsberg a insistere perché egli, una volta disintossicatosi, riordinasse quel materiale per<br />

pubblicarlo. Il titolo, Naked Lunch, fu suggerito a quanto pare dallo stesso Kerouac, che lo prese da una poesia di<br />

Ginsberg.<br />

36


compostezza sulle protesi meccaniche e sulle lamiere contorte delle automobili, sulle cicatrici<br />

del malsano Vaughan, sui dettagli (giustappunto, sessualizzati) di carrozzerie e interni.<br />

“Crash” è il film che porta a compimento la riflessione del regista sul tema della MUTAZIONE:<br />

corpi instabili, che mutano o vengono trasformati da agenti esterni misteriosi (come già nel<br />

“Demone sotto la pelle” e in “Videodrome”, oltre che, ovviamente, nella “Mosca”) sono<br />

sempre stati al centro dei suoi interessi. Con “Crash”, però, il passo avanti è considerevole: qui<br />

la mutazione ha una sorta di allucinante base storica, giacché – come in Ballard – prende le<br />

mosse dalla necessaria constatazione che l’Uomo, dalla Rivoluzione Industriale in avanti, si è<br />

trovato a fare i conti con la propria sempre crescente DIPENDENZA dalle macchine (di cui<br />

l’automobile non è che una forma possibile) 5.<br />

La sessualità in “Crash”<br />

Corpi come carrozzerie incidentate d’automobili, ferite come le lacerazioni della lamiera.<br />

Un universo alienato e straniante, nel quale il sesso non è coronamento dei rapporti umani, ma pura<br />

mediazione, come l’interfaccia di guida (leggasi “volante”) di una macchina…<br />

Lo svilupparsi di una sessualità che non può prescindere dal contatto con l’automobile, e la<br />

connessione tra elementi corporei organici (carne, tessuti) ed elementi metallici viene portata in<br />

“Crash” alle estreme conseguenze, e senza neanche un accenno di “fantascienza”. Come<br />

vedremo meglio nel paragrafo successivo, il cinema di Cronenberg si affranca decisamente dai<br />

generi e diviene da una parte più autoreferenziale, e dall’altra più perversamente “realistico”.<br />

E’ interessante notare come ciò sia avvenuto anche e soprattutto grazie al confronto con due<br />

grandi autori come Burroughs e Ballard. La letteratura ha causato, a sua volta, una mutazione<br />

nel cinema cronenberghiano, affinandolo ulteriormente e fornendogli due dei più poderosi<br />

argomenti di riflessione per immagini: il rapporto corpo-macchina e la scissione mente-corpo,<br />

che origina il delirio. Le lacerazioni della carne, insomma, lungi dallo scomparire, si<br />

intensificano addirittura e invadono i territori psichici, della sessualità, della vita relazionale (si<br />

pensi al protagonista di “Pasto nudo”, che uccide sua moglie come già Burroughs nel tentativo,<br />

giocoso, di replicare l’impresa di Guglielmo Tell: colpire un bicchiere sulla sua testa. Oppure<br />

all’insinuarsi del luciferino Robert Vaughan nella vita – soprattutto sessuale! – dei protagonisti<br />

di “Crash”).<br />

5 Anche nel cinema di James Cameron è molto interessante la trattazione del rapporto uomo-macchina, che fin dai tempi<br />

di Terminator (1984) è il tema-principe del regista. Anche lavori successivi come The Abyss (1989), Terminator 2<br />

(1991), Titanic (1997) e persino il recentissimo e chiacchierato Avatar (2009) recano il segno di questa tematica. In<br />

Cameron, però, essa non viene caricata di problematiche sessuali, e solo in The Abyss viene accarezzato il concetto di<br />

mutazione, prevedendo il film la messa in scena di una creatura aliena dal corpo fatto letteralmente d’acqua. Un nuovo<br />

modo di combinare le molecole d’acqua che si avvicina, parzialmente, alle ossessioni cronenberghiane, senza però<br />

averne la gelida perfezione. Cameron è, del resto, un narratore assai più disteso, laddove invece Cronenberg è un<br />

indagatore inesausto e ossessivo: non è un caso se, a livello di racconto puro e semplice, certi film di Cronenberg<br />

paiono in un certo senso “fermi”, bloccati nell’insistenza su temi e “figure” ricorrenti. “Crash” ne è un esempio, col suo<br />

fluire liquido e col suo girare attorno ai perversi esperimenti di Vaughan; “Pasto nudo” ed “eXistenZ” ne sono però gli<br />

esempi principali, anche a livello squisitamente narrativo.<br />

37


I NUOVI CANONI DELL’ORRORE: CRONENBERG 1996 – 2007<br />

E arriviamo così al Cronenberg ultima maniera, che è poi il vero punto d’interesse di questo<br />

scritto. Fatto salvo quello strano oggetto che è “eXistenZ” (id., 1999), gli ultimi film di<br />

Cronenberg prescindono in modo pressoché totale dagli stilemi dell’horror.<br />

Lo stesso “eXistenZ” non è un horror propriamente detto, per quanto non sia privo di<br />

elementi orrorifici: strane creature, connessioni corpo-macchina, inquietanti interfacce tra la<br />

carne e la macchina. Il discorso cronenberghiano, come nel successivo “Spider”, si concentra<br />

qui sul problema della COMPRENSIONE del reale: come possiamo affermare che ciò che stiamo<br />

vivendo sia “reale”, e non faccia parte di un elaborato videogioco o di una realtà virtuale<br />

appositamente creata? La carne dei corpi può essere pie-<br />

gata e ingannata, i corpi stessi possono essere negati, o<br />

meglio: può essere negata la loro ESISTENZA fisica, con-<br />

tro ogni apparenza. Gioco o realtà? La domanda, un po’<br />

leziosamente per la verità, attraversa tutto “eXistenZ”<br />

fino al beffardo e irrisolto finale.<br />

Il succitato “Spider” è forse il testo basilare da<br />

prendere in considerazione per descrivere l’allon- Connessioni corpo-macchina, escre-<br />

tanamento di Cronenberg dal genere horror. scenze di “nuova carne” in “eXistenZ”<br />

Film durissimo ed estremamente coerente,<br />

“Spider” racconta la schizofrenia del suo personaggio protagonista accettandone<br />

fondamentalmente le regole “narrative”: confusione di passato e presente, personaggi che si<br />

sovrappongono (anche grazie al ricorso ai medesimi attori per interpretarli), luoghi che<br />

rimandano ad altri luoghi tramite dettagli, singoli elementi che il regista utilizza con grande<br />

maestria. L’orrore di “Spider” è nella sua stessa ragnatela mentale, è nella prigionia del<br />

personaggio nel suo stesso corpo, e nella scissione CORPO-MENTE che replica quella, un po’<br />

schematica forse, REALE-IRREALE vista (ma anche continuamente smentita…) in “eXistenZ”.<br />

I temi della violenza e del suo inestricabile<br />

collegamento col sesso sono ben presenti anche<br />

nell’ultimo Cronenberg, seppur raffinati nello stile.<br />

“A History of Violence” (id., 2005), senza<br />

concedere nulla all’horror, descrive lucidamente il<br />

riemergere di un passato di violenza in un uomo<br />

comune. E il successivo “La promessa<br />

dell’assassino” non fa che proseguire il discorso,<br />

portando la violenza tra la gente comune,<br />

svelandone la presenza segreta ovunque, e<br />

La ragnatela mentale di “Spider” è riprodotta smascherando la crudeltà sulla quale tanto spesso i<br />

anche fisicamente dal protagonista (un titani- rapporti umani si basano.<br />

co Ralph Fiennes), che ne è prigioniero.<br />

Il personaggio-chiave è ancora una volta, come già in “History of Violence”, quello interpretato<br />

da Viggo Mortensen, il gelido killer siberiano Nikolai, al servizio di una famiglia di mafiosi russi<br />

a Londra. In realtà, egli è un infiltrato. Sta compiendo, a prezzo di enormi rischi e sacrifici, la<br />

scalata nell’organizzazione, attraversandone riti e usanze. Si sta dunque immedesimando sempre<br />

più, sta mettendo a disposizione i proprio CORPO, che viene coperto di tatuaggi, indispensabili<br />

nell’organizzazione per sancire i diversi “gradi” dell’ascesa.<br />

38


Ora, nel cinema di Cronenberg la dicotomia CORPO-MENTE c’è sempre stata. Basti pensare a<br />

titoli come “La zona morta” (The Dead Zone, 1983), “Scanners” (id., 1981), ma anche, per certi<br />

versi, “Pasto nudo”.<br />

Negli ultimi film, il discorso del regista sembra essersi fatto,<br />

per così dire, più adulto. Egli sembra voler portare non solo<br />

sul piano del reale, ma anche su quello (cinematograficamente<br />

più importante) del REALISMO i suoi personaggi e le sue<br />

riflessioni.<br />

Le MUTAZIONI cui i corpi cronenberghiani vanno incontro<br />

non sono più connotate da un genere che in qualche modo le<br />

giustifichi. Esse irrompono nel tessuto del quotidiano.<br />

Riprendiamo il Tom Stall di “A History of Violence”, il<br />

comune e apprezzato gestore di un semplice diner che si ritrova<br />

di colpo alle prese con una violenza emersa da dentro di lui!<br />

Qualcosa che il suo corpo (ma ancor più la sua psiche) aveva<br />

celato e che è improvvisamente tornato a galla. Le buone<br />

maniere e la bontà d’animo si rivelano niente più che una<br />

maschera, come anche la tranquilla vita della cittadina di<br />

Il corpo di Nikolai provincia. Noi –sembra dire Cronenberg – non sappiamo chi siamo<br />

Viggo Mortensen deve esibire i realmente.<br />

tatuaggi. Il corpo è il suo curri-<br />

culum, la mappa della sua mutazione<br />

Ancora più ambiguo e inquietante è, secondo me, il discorso svolto con “La promessa<br />

dell’assassino”. La fotografia insolitamente calda ne fa già in partenza un lavoro di rottura,<br />

piuttosto diverso dal Cronenberg “classico”, freddo e algido.<br />

“Eastern Promises” è un film di CORPI IN GIOCO, di corpi che lottano, che partoriscono, che si<br />

spaccano, che muoiono, che mentono e che parlano secondo il loro linguaggio. Anche la Mafia<br />

russa è rappresentata da Cronenberg, in fondo, come un CORPO NEL CORPO, un elemento<br />

dissonante eppur mimetizzato nella struttura della città. Nikolai, col suo mestiere di autista, è<br />

colui che raccorda i diversi corpi, le membra di questa città divisa eppure unica, nella quale le<br />

coordinate morali faticano a restar ferme.<br />

Ma Nikolai è anche lo “smontatore” di corpi, il becchino che lavora per l’umorale Kirill, colui<br />

che – in una splendida scena – mozza le dita e cava i denti ad un cadavere per impedirne<br />

l’identificazione. E davanti a quello stesso cadavere, coperto di tatuaggi, il poliziotto commenta:<br />

“Nelle prigioni russe la storia della tua vita si deve poter leggere sul tuo corpo.”<br />

Anche il corpo di Nikolai è coperto di tatuaggi. L’infiltrato Nikolai deve anzi a sua volta<br />

sottoporsi alla lettura del corpo, per essere promosso nella gerarchia del clan (altra sequenza<br />

eccezionale). Egli deve ottenere proprio quei tatuaggi, quel linguaggio DEL corpo e SUL corpo,<br />

che gli consentiranno di arrivare sempre più in alto nella cupola mafiosa.<br />

Ma non solo il corpo maschile è al centro di “Eastern Promises”, lo è anche quello femminile.<br />

Corpi freddamente violati, come quelli delle prostitute; corpi che muoiono partorendo, come la<br />

ragazza adolescente che dà origine alla storia, o corpi di bambini che muoiono nel ventre<br />

femminile, come è accaduto alla protagonista Anna (una sempre brava Naomi Watts). Il parto e<br />

l’aborto sono da sempre ossessioni cronenberghiane. 6<br />

6 E’ certamente superfluo, ma è d’obbligo qui citare la celeberrima e terrificante sequenza del “parto onirico” di Geena<br />

Davis ne “La mosca”. Il timore di essere rimasta incinta del metamorfizzato Seth Brundle si concretizza in un incubo:<br />

quello di dare alla luce un feto che ha le sembianze spaventose di un insetto!<br />

39


Ed è dal corpo della piccola Christine, la figlia illegittima frutto dello stupro, che è minacciato il<br />

capo mafioso Simion, tramite la minaccia del test del DNA. Ed è salvando la bambina che<br />

Nikolai si redime, parzialmente, da quella atroce immedesimazione cui il suo corpo è chiamato.<br />

Il gangster movie secondo Cronenberg non prescinde mai dai corpi. Per fare un paragone, si<br />

prenda la descrizione del mestiere di infiltrato in un buon film come “Donnie Brasco” (id.,<br />

1997). L’alienazione, nel film di Newell, è pressoché interamente MENTALE. Nikolai, viceversa,<br />

è chiamato ad immolare il suo corpo (al punto di dover fare sesso a comando, per obbedire ad<br />

un isterico ordine del capo Kirill!).<br />

Il segno del successo di Nikolai sono le stelle tatuate su spalle e ginocchia, sorta di gradi<br />

definitivi e incancellabili, simboli di potere ma, al contempo, di sottomissione (bellissima<br />

contraddizione che Cronenberg non manca di sottolineare).<br />

Ma proprio quelle stelle sono un terribile inganno, la trappola che il boss gli ha teso per farlo<br />

uccidere al posto di suo figlio Kirill. La sequenza della lotta nel bagno turco è una delle più<br />

crude che si siano viste al cinema. Nikolai, nudo, deve affrontare i due killers: ancora una volta<br />

è il suo corpo ad essere al centro dell’azione cinematografica. Quel corpo che sembra aver<br />

preso il sopravvento sulla mente – e questo è il veri tema di “Eastern Promises” come di<br />

“History of Violence”. Sorta di maschera demoniaca, o marionetta che ha preso il controllo del<br />

suo stesso cervello, il corpo di Nikolai ne comanda in un certo senso le azioni, ed è in perenne<br />

contraddizione con quella che, se vogliamo, con una locuzione un tantino obsoleta ma sempre<br />

efficace, possiamo chiamare la sua “vera natura”.<br />

Ma come l’ultima inquadratura di “A History of Violence” inchiodava inesorabilmente Tom<br />

Stall alle sue responsabilità, al suo passato e, in definitiva, alla sua inestinguibile COLPA, allo<br />

stesso modo l’ultima immagine di “Eastern Promises” (Nikolai che fuma, da solo, seduto ad un<br />

tavolo del locale che funge da base del clan) sembra condannare Nikolai al ruolo che tanto<br />

efficacemente ha interpretato, al corpo che si è costruito, ferita dopo ferita, tatuaggio dopo<br />

tatuaggio.<br />

L’ultima frontiera dell’horror cronenberghiano è dunque la SOLITUDINE che, da “Spider” a<br />

“Eastern Promises” passando per “History of Violence”, pervade i suoi personaggi<br />

condannandoli a lacerazioni che, per riprendere il Seth Brundle de “La mosca”, si spingono ben<br />

“oltre il velo della carne”.<br />

40


CINEMA<br />

Il realismo del verosimile e dell’inverosimile<br />

La via americana al racconto della Storia tra Mann e Tarantino<br />

ROBERTO MANDILE<br />

Se qualcuno dovesse individuare la costante estetica del nostro tempo, si troverebbe, com’è<br />

ovvio, in grave difficoltà, non solo perché è sempre difficile osservare i fenomeni culturali<br />

contemporanei con un occhio sufficientemente distaccato e una visione d’insieme abbastanza<br />

limpida, ma anche perché, sempre ammesso che ci si accordi sui parametri di giudizio e fatte<br />

salve le dovute semplificazioni che ogni discorso critico inevitabilmente produce, la mole delle<br />

opere a vario titolo ‘artistiche’ è comunque tale da non rendere agevole il riconoscimento di una<br />

linea comune. Limitando il discorso al cinema americano, che tanto influsso ha avuto e<br />

continua ad avere sulle forme dell’immaginario occidentale (ma certamente il ragionamento<br />

andrebbe applicato anche alla variegata e spesso ancor più interessante produzione di telefilm<br />

statunitensi), si resta ad esempio colpiti non tanto dal dato, ovvio in sé eppure carico di<br />

implicazioni, di come ogni elaborazione artistica che si rispetti passi (e debba passare) ormai<br />

attraverso una contaminazione di piani e di livelli, per soddisfare al contempo le non<br />

trascurabili esigenze commerciali e i palati, per così dire, più raffinati, ma dal fatto che, pur in<br />

presenza di un’ampia gamma di soluzioni estetiche, di stili, di forme espressive, si possa<br />

ravvisare al fondo di tutto, nella capacità di raccontare, di scrivere, di girare una storia, la traccia<br />

di quello che potremmo definire uno “spirito americano”. Non si tratta, lo ribadisco, di una<br />

questione di stili o di linguaggi (anche se c’entrano pure quelli), ma di una filosofia di fondo che<br />

mi azzarderei a definire il risultato del trasferimento, sul piano cinematografico, di un certo<br />

pragmatismo insito nella cultura americana come nella sua storia: l’idea, per certi versi banale<br />

ma quanto mai densa di significato, che un film (o un telefilm) debba incaricarsi di narrare, con<br />

la maggiore precisione possibile, un evento o una serie di eventi, non con l’intento<br />

programmatico di dimostrare qualcosa del mondo reale, ma con l’implicito accordo che la<br />

finzione sia al di sopra della realtà e possieda una forza, un interesse, una vitalità ben superiore<br />

ad essa. A ben guardare, siamo in presenza di un rovesciamento della logica puramente<br />

realistica o, per restare in ambito cinematografico, neorealistica: non si tratta cioè di raccontare<br />

la realtà attraverso il cinema, ma, al contrario, di raccontare il cinema attraverso la realtà. Cosa<br />

che, appunto, è di gran lunga più interessante.<br />

Una nota battuta di Alfred Hitchcock (uno dei tanti europei convertitisi, per il suo bene e per il<br />

nostro, al cinema americano) recita che “il dramma è la vita con le parti noiose tagliate”.<br />

L’aforisma torna in mente guardando due film di recente uscita che non potrebbero essere più<br />

diversi quanto a scelte linguistiche ed espressive, ma che appaiono accomunati, a mio avviso,<br />

dalla profondità d’intenti con cui si fanno carico di affermare un’idea di cinema attraverso il<br />

racconto di una storia. Si tratta di Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino e Nemico pubblico di<br />

41


Michael Mann. I due film sono accostabili, ad un primo superficiale livello di lettura,<br />

dall’ambientazione storica (la seconda guerra mondiale in un caso, gli anni ’30 dall’altro), scelta<br />

del tutto inedita per Tarantino e abbastanza inusuale per Mann. Ma le somiglianze, sul piano del<br />

racconto, sono certamente meno delle differenze, non foss’altro che per il fatto che, mentre la<br />

storia di Bastardi senza gloria è del tutto inventata, Nemico pubblico è una ricostruzione piuttosto<br />

fedele della biografia di un personaggio realmente esistito, il rapinatore John Dillinger. In altri<br />

termini, se Tarantino, sullo sfondo della Storia (la grande Storia, quella con la S maiuscola),<br />

tesse una storia del tutto immaginaria che finisce paradossalmente, per ragioni di<br />

verosimiglianza interna, con lo stravolgere la Storia stessa, Mann, dal canto suo, punta ad un<br />

effetto opposto: ricostruire, col maggior grado di fedeltà possibile, la vicenda di Dillinger,<br />

mirando a far coincidere la storia del film con la Storia tout court. In questa direzione vanno<br />

dunque le scelte stilistiche, ancora una volta divergenti, compiute.<br />

Il film di Tarantino è un trionfo di quell’estetica ‘barocca’, fondata sul gusto dell’eccesso, della<br />

magnificenza visiva, dell’amore per la dilatazione dei dettagli (dalle pipe alle scarpe), del<br />

compiacimento per il sangue e per i particolari truculenti (gli scalpi dei nazisti), quell’estetica, si<br />

diceva, che da sempre gli è cara e che è qui, a differenza forse di quanto avveniva negli ultimi<br />

suoi film, messa completamente al servizio della storia, anzi delle storie che si intrecciano e<br />

sembrano ammiccare l’una all’altra, fino a ricongiungersi nello spettacolare finale. I giochi<br />

d’artificio insomma, le soluzioni ad effetto, i colpi di teatro più tipici del cinema tarantiniano<br />

(un certo uso della musica, il ricorso al finto documentario, le didascalie in sovrimpressione, la<br />

slow motion) sono anche qui la materia di cui il film si nutre, fin dall’inizio, ma tutto appare<br />

funzionale a far procedere il racconto, a indirizzare la narrazione sui binari, certamente irreali<br />

ma non per questo inverosimili, della reinvenzione storica.<br />

L’estetica “barocca” di “Bastardi senza gloria”<br />

Shosanna Dreyfus (Melanie Laurent) si dipinge il volto come un’indiana prima della “battaglia” finale.<br />

Anche l’uso dei colori (moltissime le tinte accese e i toni del rosso) indica da parte del regista<br />

l’intenzione di connotare il film con “tinte forti”.<br />

È anzi come se proprio la cornice storica che Tarantino sceglie, ossia la seconda guerra<br />

mondiale e, in particolare, la caccia agli ebrei, col suo campionario di assurdità, di efferatezze, di<br />

eccessi che l’hanno realmente contraddistinta, riuscisse di per sé a riscattare quei tratti che, a<br />

giudizio di alcuni e almeno in altri suoi film, potrebbero essere letti come mera ostentazione di<br />

uno stile, come esibizione gratuita di cinefilia da parte del regista americano. Si ha l’impressione<br />

che, proiettando su uno sfondo storico reale (e, almeno in parte, realisticamente rappresentato: i<br />

personaggi storici che compaiono nel film, da Hitler ai gerarchi nazisti, sono, ahimè, tutt’altro<br />

che grotteschi!) la vicenda della doppia vendetta progettata e realizzata dal gruppo dei ‘bastardi’<br />

(gli ebrei cacciatori di nazisti, guidati dal luogotenente Aldo Raine) e da Shosanna Dreyfus, la<br />

ragazza ebrea sopravvissuta al massacro della sua famiglia e proprietaria del cinema parigino in<br />

cui è ambientata la parte finale del film, Tarantino trovi, per così dire, il modo di esorcizzare la<br />

violenza cinematografica, conferendole una (stranissima) concretezza, giocando a confondere i<br />

42


piani del reale e del verosimile, della ricostruzione della verità e della finzione del cinema, della<br />

Storia e della storia. Non a caso il film inizia con la didascalia “C’era una volta nella Francia<br />

occupata dai nazisti” che assimila le vicende più terribili della storia del secolo scorso a una<br />

fiaba (e la mancanza di verosimiglianza, sul piano strettamente storico, della vicenda che verrà<br />

raccontata non può che confermare l’impressione). Tarantino sembra, in altri termini, divertirsi<br />

a oscillare tra lo scrupolo filologico, cui potrebbe far pensare anche la scelta di far parlare i<br />

personaggi in diverse lingue (tedesco, francese, inglese, ma anche dialetto siciliano), e i toni<br />

iperrealistici di molti dialoghi.<br />

Basterebbe pensare alla bellissima scena della<br />

taverna, in cui la verosimiglianza della trovata che<br />

consente di smascherare i ‘bastardi’ che si spacciano<br />

per nazisti è inserita in un gioco di rimandi espliciti ad<br />

atmosfere da spaghetti-western, con tanto di ‘stallo<br />

alla messicana’ del quale i personaggi, con sublime<br />

senso del paradosso, discutono! Il regista insomma,<br />

proprio nel momento in cui pare conferire tratti<br />

realistici alla sua storia, ci ricorda che è il cinema la<br />

vera, unica realtà interessante, una sorta di universo<br />

onnicomprensivo e onnivoro in cui finisce, ancora una volta paradossalmente, per iscriversi<br />

persino la Storia. La massima conferma di quanto siamo venuti fin qui sostenendo si ha nella<br />

parte conclusiva del film, ma prima di affrontare questo discorso soffermiamoci brevemente<br />

sull’altra pellicola, quella di Mann.<br />

Nemico pubblico si pone, per molti versi, agli antipodi, sul piano estetico e anche drammaturgico,<br />

rispetto a Bastardi senza gloria. Raccontando gli ultimi due anni della vita di John Dillinger,<br />

l’intento primario di Mann è quello di restituire, nella sua dimensione storica, la figura di uno<br />

dei gangster più leggendari dell’America della Grande Depressione. Concentrando l’attenzione<br />

sulla caccia che l’FBI scatena contro il “nemico pubblico n. 1”, il regista sceglie la via del<br />

realismo, evitando ogni tentativo di idealizzazione e sfuggendo ad ogni retorica dell’eroe<br />

romantico (ma guardandosi anche dall’esprimere giudizi sulla polizia e sui metodi, non sempre<br />

ortodossi, impiegati per catturare Dillinger). Con uno stile sobrio ma tutt’altro che scialbo<br />

(esaltato dal magistrale uso del digitale e da una fotografia, del fedele Dante Spinotti, superba),<br />

Mann raffredda la materia (anche troppo forse, specie nella prima parte), dimostrando di volersi<br />

confrontare con il processo di mitizzazione che Dillinger ha conosciuto in vita, grazie ai giornali<br />

e anche, dopo la sua morte, grazie al cinema 1: il suo obiettivo, si potrebbe dire, è quello di<br />

togliere, limare, andare all’essenziale per proporre una riflessione sul destino di un gangster<br />

colto in tutta la sua contraddittoria umanità.<br />

Da quanto abbiamo detto, è facile capire come la<br />

scelta stilistica di Mann vada in direzione opposta<br />

rispetto a quella di Tarantino, eppure c’è un punto<br />

che ci consente di accostare i due film e di fare<br />

qualche osservazione sulle modalità di rappresenta-<br />

zione della Storia che i due registi propongono.<br />

Sia Bastardi senza gloria che Nemico pubblico contengono<br />

nel finale una scena, più lunga nel primo, più breve<br />

nel secondo, ambientata in un cinema. Nel film di Il Dillinger di Michael Mann, un antieroe<br />

tutt’altro che idealizzato, sobrio e realistico<br />

1<br />

La storia di John Dillinger è stata raccontata, al cinema, da Max Nosseck (Dillinger, 1945) e da John Milius<br />

(Dillinger, 1976).<br />

43


Tarantino il cinema assume un’importanza narrativa di grande rilievo, visto che è all’interno<br />

della sala cinematografica parigina di proprietà di Shosanna che si tiene la prima del film nazista<br />

L’orgoglio della nazione alla quale partecipano Hitler in persona e tutti i gerarchi tedeschi; nel film<br />

di Mann, invece, Dillinger viene ucciso all’uscita di un cinema di Chicago, dove aveva assistito<br />

alla proiezione di Manhattan Melodrama (in italiano Le due strade), pellicola di W.S. Van Dyke con<br />

Clark Gable, William Powell e Myrna Loy.<br />

Molto differente è tuttavia il ruolo che il cinema assume nelle due opere: in Bastardi senza gloria<br />

la vicenda riprodotta sullo schermo è il riflesso istintivo, immediato, anche se, com’è ovvio, con<br />

un aggravio di retorica celebrativa, della situazione storica. C’è un rispecchiamento totale tra il<br />

cinema e la realtà, al punto che i gerarchi nazisti partecipano alla visione con incitamenti, risate,<br />

sguardi tronfi di soddisfazione (sembra che l’estetica nazista si esprima, ennesimo paradosso, in<br />

una sorta di neorealismo alla rovescia!): ed è per questo che, quando Shosanna, interrompendo<br />

il film, compare sullo schermo per dichiarare il suo proposito di vendetta, cui viene data<br />

immediata attuazione, si produce una sorta di corto circuito in virtù del quale il cinema si<br />

arroga, per così dire, il diritto di decidere la realtà, anche se questo avviene in dispregio di ogni<br />

verosimiglianza, anzi di ogni verità storica.<br />

Il cinema dunque riscrive la storia, ci dice il cinefilo<br />

Tarantino, perché in fondo il suo universo<br />

claustrofobico è totalizzante: e infatti dalla sala<br />

cinematografica non esce vivo quasi nessuno. Non<br />

c’è, in altri termini, realtà al di fuori del cinema. A<br />

fronteggiarsi, nel finale, restano solo il cacciatore di<br />

ebrei Hans Landa e i ‘bastardi’ cacciatori di nazisti,<br />

ai quali Tarantino pare affidare il compito di far<br />

procedere la Storia, anche se non sappiamo<br />

immaginare come. Di certo però la frase conclusiva<br />

Il cinema che riscrive la Storia, in cui si del film, “Questo potrebbe essere il mio capolavoro”,<br />

chiude “Bastardi senza gloria” con la quale il luogotenente Aldo Raine commenta la<br />

svastica che ha inciso, a perpetua memoria, sulla<br />

fronte di Landa, è tutt’altro che casuale ed è sicuramente inutile sottolinearne la chiara valenza<br />

metacinematografica. Tutto finisce dunque per essere inghiottito da una realtà altra, ma è il<br />

cinema, in ogni senso, che ha reso possibile questo stravolgimento: siamo sì in presenza di una<br />

riscrittura della Storia, ma questa a sua volta, nello spazio assoluto del cinema, è l’unica storia<br />

possibile, persino l’unica storia verosimile (altro che L’orgoglio della nazione!) che è stata<br />

raccontata.<br />

In Nemico pubblico invece il cinema assume un significato diverso: prima del finale, cui abbiamo<br />

accennato, esso compare anche in precedenza, in una scena in cui, mentre Dillinger, all’apice<br />

della sua fama, si trova in una sala, la sua immagine viene proiettata sullo schermo e una voce<br />

invita il pubblico a guardarsi intorno perché il “nemico pubblico” potrebbe essere tra loro.<br />

Tutti gli spettatori si voltano, prima a destra e poi a sinistra, tranne Dillinger che resta<br />

immobile; ovviamente nessuno lo riconosce. Poi, come detto, è proprio all’uscita di un cinema<br />

che il gangster verrà ucciso. Mann insiste, nella scena ambientata all’interno della sala dove si<br />

proietta Manhattan Melodrama ad accostare, all’interno della stessa inquadratura, i volti di<br />

Dillinger e di Clark Gable, che nel film interpreta un gangster che finirà sulla sedia elettrica (si<br />

dice anzi che l’attore si sia ispirato proprio al “nemico pubblico n. 1” per il proprio<br />

personaggio). L’accostamento è da leggersi all’interno della rilettura che, secondo quanto<br />

abbiamo detto, Mann vuole proporre della figura di Dillinger: il regista ci fa vedere come il mito<br />

del gangster romantico sia stato, in buona misura, alimentato anche (se non soprattutto) dal<br />

44


cinema. E proprio questo mito Mann intende smontare, raccontando con nudo realismo la<br />

morte del protagonista. Il cinema ha insomma creato una realtà diversa, che però, sembra<br />

avvertirci Mann, ha (è bene che abbia) un suo spazio limitato: all’interno del cinema nessuno<br />

riconosce Dillinger, che può essere assimilato ai gangster dei film, elevato alla stessa eroica<br />

dimensione del grande schermo. Ma, al di fuori della realtà alternativa del cinema, c’è la vera<br />

realtà, nella quale valgono altre regole, molto meno<br />

romantiche. Mann, incaricandosi di restituire il gangster a<br />

questa realtà, non si sottrae dunque dal proporre una<br />

riflessione sul ruolo del cinema, il cui potere di suggestionare<br />

e di deformare la verità è fondato sulla sua ricerca di<br />

verosimiglianza: il regista non emette sentenze, né fa prediche<br />

sulla capacità di alterare la Storia, consapevole forse<br />

dell’inevitabilità di un’operazione costituzionalmente ambigua<br />

qual è quella di mettere in scena (in fondo, si potrebbe<br />

persino dire che basta il volto fascinoso di Johnny Depp<br />

a incrinare qualunque intento di smitizzazione del gangster romantico 2). Sembra per certi versi<br />

di poter ritrovare traccia della lezione di John Ford, del suo celeberrimo “When the legend<br />

becomes fact, print the legend” (“Quando la leggenda diventa realtà, stampa la leggenda”) de<br />

L’uomo che uccise Liberty Valance (1962): anche quando si vuole ridimensionare il mito, questo<br />

finisce fatalmente per imporsi, l’epica vince comunque, perché ha una forza narrativa superiore<br />

alla cronaca e perché la Storia è un viluppo inestricabile di autenticità e finzione, di realtà e<br />

racconto della realtà. La verità, al cinema, è questione di punti di vista (ancora una volta l’ha<br />

insegnato Ford, il più epico e il più antieroico dei registi americani) e non a caso sugli sguardi<br />

Mann rivolge continuamente la macchina da presa, nel tentativo di far emergere la verità,<br />

qualunque essa sia, nel modo più diretto (e più ambiguo) possibile.<br />

Riassumendo dunque possiamo dire che se il cinema in Tarantino è la realtà, l’unica e possibile<br />

dimensione di verità che, nella costruzione di una storia, sia accessibile agli spettatori, ma anche<br />

al regista, in Mann il cinema è un’altra realtà che stabilisce un rapporto problematico (e talvolta<br />

conflittuale) con la vera realtà. In entrambi i registi ad ogni modo colpisce la volontà di svelare,<br />

attraverso il racconto di una storia, le infinite potenzialità creative o addirittura manipolative del<br />

cinema ed è anzi sorprendente osservare, a questo riguardo, come Bastardi senza gloria, che<br />

reinventa la Storia, sia fondato su una sceneggiatura più compatta e più organica di Nemico<br />

pubblico, che invece si propone di ricostruire la Storia. Ma anche questo, a ben vedere, è<br />

inevitabile. Che Mann scelga di raccontare episodi in fondo autonomi o comunque non sempre<br />

rigidamente connessi tra di loro è forse sintomatico di una certa sfiducia di fondo nella<br />

possibilità di venire a capo della verità senza assumere un punto di vista: rinunciando a una<br />

prospettiva unica e anzi moltiplicando i punti di vista (i due antagonisti, Dillinger e Purvis, non<br />

riescono a guardarsi negli occhi nemmeno nel momento supremo, quando la loro condizione di<br />

nemici perde di senso), il regista ci fa intuire le potenzialità deformanti del cinema (dal realismo<br />

all’iperrealismo il passo è breve) anche e forse soprattutto quando non vuole schierarsi. Per<br />

contro la ferrea struttura narrativa di Bastardi senza gloria, diviso in capitoli, come già altri film di<br />

Tarantino, è indice di una presenza palpabile del regista: il suo sguardo è cioè lo sguardo<br />

2 Sugli effetti di ambiguità innescati dal contrasto tra la bellezza degli attori quando e la discutibile statura morale dei<br />

personaggi che interpretano di recente è intervenuto Pierluigi Battista in un paio di articoli: cfr. Quei volti troppo belli<br />

per il Male, «Corriere della sera» 13 novembre 2009, p. 53 (dedicato in particolare al film La prima linea di Renato De<br />

Maria con Riccardo Scamarcio nei panni del terrorista Sergio Segio e Giovanna Mezzogiorno in quelli della sua<br />

compagna Susanna Ronconi) e Vallanzasca e i criminali «sexy». Se al cinema diventano tutti eroi, «Corriere della sera»<br />

14 gennaio 2010, p. 27 (con una veduta più ampia, a partire dal film che Michele Placido sta girando su Renato<br />

Vallenzasca, interpretato da Kim Rossi Stuart; si fa cenno appunto anche al John Dillinger di Johnny Depp).<br />

45


attraverso cui la materia informe della storia (anzi della Storia) prende a poco a poco<br />

consistenza, acquista una sua direzione, procede verso una conclusione. Ma al tempo stesso<br />

Tarantino dà una nuova profondità (nuova rispetto ad altre sue sceneggiature, persino più<br />

articolate di questa) al suo racconto: cimentandosi con la rilettura della Storia attraverso i generi<br />

cinematografici (dal western al mélo, dal film di guerra alla commedia) non si limita ad imitare<br />

stili, a rifare scene, ad ammiccare allo spettatore, ma, tra le righe, propone una riflessione<br />

sull’imprevedibilità del destino, sulle mille strade attraverso cui può realizzarsi o manifestarsi (si<br />

vedano in questo senso soprattutto la scena iniziale e il sacrificio finale di Shosanna) non<br />

dissimile da quella che ci offre Mann.<br />

Il cinema si rivela così uno strumento formidabile, e per molti aspetti inarrivabile, per<br />

intrecciare storie, instaurare collegamenti, magari arditi, costruire e riprodurre all’infinito<br />

significati o, meglio, interpretazioni della Storia. Tanto Mann quanto Tarantino dimostrano<br />

dunque, sebbene da prospettive differenti, una grande fiducia nel cinema: con un’estetica<br />

classica o barocca, con una poetica sobria o enfatica, entrambi si allontanano da un realismo<br />

incolore e sciatto, entrambi rifiutano, anche se con forme antitetiche, l’idea del cinema come<br />

documento della realtà. Quest’ultima, al contrario, ci viene presentata come una questione di<br />

punti di vista, un intrico di verità e finzione che, per essere compreso, nei limiti del possibile,<br />

deve essere raccontato, messo in scena, persino inventato: quando la storia riesce a prevalere<br />

sulla Storia, il cinema (tagliate le parti noiose) diventa di gran lunga più interessante della vita 3.<br />

3 A margine, vorrei rimandare al senso del contributo di Matteo Fontana su Gran Torino di Clint Eastwood, Guerra<br />

privata (e redenzione) del soldato Walt, «Lanterna di Born» n. 5 fascicolo 23-25, nov. 2009, pp. 45-47: pur non<br />

scegliendo, almeno nel suo ultimo film, un’ambientazione storica (ma con la Storia Eastwood si è cimentato, di recente,<br />

con due opere assai significative come Flags of our fathers e Letters from Iwo Jima, che si incaricano di mettere in<br />

scena l’idea del racconto della Storia da punti di vista opposti), il regista americano persegue, attraverso lo stile, asciutto<br />

e misuratissimo, l’intento di far vedere i conflitti, le contraddizioni, le molteplici e problematiche ambiguità dell’agire<br />

umano, affidandone la rappresentazione non a sermoni predicatori, ma alla “morale della visione” e del racconto (per<br />

riprendere, e integrare, la definizione di M. Fontana).<br />

46


CRITICA CINEMATOGRAFICA<br />

La tragedia fuori campo dei fratelli Coen<br />

ROBERTO MANDILE<br />

L’ultimo film dei fratelli Coen, al di sotto della forte impronta autobiografica, rappresenta<br />

probabilmente una delle prove più mature del loro cinema. Raccontando le vicende che ruotano<br />

attorno a Larry Gopnik, professore universitario di fisica nel Midwest degli anni ’60 e soprattutto<br />

membro della comunità ebraica locale, il film ripropone alcuni dei temi più cari ai due autori americani:<br />

l’imprevedibiltà con cui le cose accadono e l’impossibilità di decidere la propria sorte. Larry è infatti<br />

involontario protagonista di situazioni che, fin dall’inizio, non sa gestire, sia nella professione sia nella<br />

vita privata. Da un lato infatti aspetta il passaggio in ruolo, messo in forse da alcune lettere anonime che<br />

lo diffamano (si scoprirà poi l’identità dell’estensore), e si trova a fare i conti, senza saper prendere una<br />

decisione chiara, con le irricevibili (almeno inizialmente) richieste, accompagnate da tentativi di<br />

corruzione, di uno studente coreano che vorrebbe modificato il pessimo voto ottenuto nell’esame di<br />

fisica. Dall’altro è soprattutto la sua famiglia ad essere sostenuta su basi già fragili e che nel film<br />

diventano sempre più instabili: alle difficoltà di relazione con i figli, superficiali, cinici e in perenne lite<br />

tra di loro, si aggiungono la scoperta del tradimento della moglie con un suo collega, che morirà in un<br />

fatale incidente stradale, e la convivenza forzata con il fratello. In tutto questo Larry, come Giobbe,<br />

sopporta ma, senza il conforto della fede, non può fare a meno di interrogarsi sui limiti e sul senso di<br />

quanto gli è stato destinato. Non per caso infatti il prota-<br />

gonista si ritrova più volte a dire: “Non ho fatto niente”<br />

e confessa candidamente di non essersi reso conto di come<br />

sia stato possibile che tutte le sue certezze siano state capo-<br />

volte.<br />

Il film procede con un ritmo alterno, giocando abilmente<br />

su una sapiente successione di pieni e di vuoti, di momenti<br />

di accelerazione del ritmo narrativo e di istanti di pausa<br />

riflessiva: un’alternanza che, come si vede nella sequenza<br />

iniziale che monta in alternato la visita di Larry dal medico Il prof. Larry Gopnik (Michael Stuhlbarg)<br />

e il sequestro a scuola di una radio che il figlio sta ascoltan-<br />

do durante la lezione, fa ricorso alla musica e alla regia per scandire il fatale susseguirsi di eventi ai quali<br />

assistiamo con la stessa espressione, tra l’attonito e il vittimistico, tra l’interrogativo e il rassegnato, che<br />

si dipinge sul volto del protagonista, interpretato dall’ottimo Michael Stuhlbarg. È proprio la banale<br />

47


itmicità con cui le disavventure cadono addosso al povero Larry a costituire, come si diceva, la cifra<br />

stilistica, o, se si preferisce, il sigillo inconfondibile dei due autori sul film. A serious man, come Fargo, al<br />

quale è per molti versi assai vicino (anche se senza i risvolti tragici del film del 1996) – ma si può<br />

pensare anche a L’uomo che non c’era, a Il grande Lebowsky o a Burn after reading – ci racconta le disavventure<br />

di un uomo che, senza accorgersi e senza volerlo, si ritrova al centro di una serie di vicende che vanno<br />

ben al di là delle sue possibilità di comprensione e di gestione: se però altrove tutto è innescato da<br />

comportamenti quanto meno discutibili, nel nostro caso Larry appare propriamente una vittima delle<br />

circostanze. Ed è questa condizione (incarnazione dell’eterna condizione dell’ebreo perseguitato?) che<br />

consente ai Coen di impostare il film su quell’alternanza di registri cui facevamo cenno: da una parte<br />

Larry è spinto o costretto dal mutare degli eventi ad ingegnarsi (se ne deve andare di casa, dando quasi<br />

corpo alla figura, ancora una volta metastorica, dell’ebreo errante), ma dall’altra le sue esitazioni, la sua<br />

titubanze, i suoi tentennamenti (evidenti anche nell’atteggiamento che tiene con lo studente coreano<br />

che tenta di corromperlo) lo inducono a interrogarsi continuamente, anche forse contro la sua volontà<br />

(come sembrano ricordargli i sogni: anche Freud era ebreo, in fondo), sul senso di quello che gli sta<br />

accadendo e sulle reazioni che sarebbe opportuno manifestare. Salvo scoprire però che la religione offre<br />

più domande che risposte: il consulto con i tre rabbini, che scandisce la parte centrale del film, si risolve<br />

in un nulla di fatto.<br />

Le storie interrotte (e in questa categoria s’inserisce anche quella<br />

narrata nel prologo) sono così l’espressione di un’ambiguità che, in<br />

fondo, è affermata chiaramente nel Libro ebraico per eccellenza.<br />

Ogni parola è, al tempo stesso, fonte di conoscenza e di dubbio, di<br />

timore e di speranza: la parola di Dio è la stessa che può creare e<br />

distruggere, benedire e maledire, salvare e condannare. Le poche<br />

certezze che Larry sembra avere gli derivano dalla scienza (solo<br />

quando insegna fisica Larry pare a suo agio), ma anche qui<br />

s’insinua il dubbio, nella forma del paradosso del gatto di<br />

Schrödinger e del principio di indeterminazione di Heisenberg che<br />

vediamo illustrati dal protagonista ai suoi allievi durante le sue<br />

lezioni universitarie. Si potrebbe dire dunque che la prospettiva di<br />

Il protagonista, con un’espressione osservazione della realtà coincide con la sua interpretazione, o,<br />

sempre tra vittimistico e attonito, meglio, con le sue, potenzialmente infinite, interpretazioni: lo<br />

tra interrogativo e rassegnato spaesato Larry si ritrova così a scoprire che ogni tentativo di<br />

trovare indicazioni concrete su come comportarsi con la moglie<br />

(ma anche con l’amante-collega, con i figli, con il fratello, con la vicina di casa o con lo studente) è una<br />

questione di punti di vista. Più questi si moltiplicano, più la verità sfugge. E nell’incertezza non resta<br />

che rinviare, riprovare (come in un esperimento fisico) e, soprattutto, aspettare: il bellissimo finale del<br />

film, con la duplice attesa dell’uragano che si sta abbattendo sulla città e la telefonata di Larry con il<br />

medico che lo invita a passare a ritirare di persona gli esami, lasciando in sospeso lo spettatore (come<br />

facevano, ci ripetiamo, già il prologo o il racconto dei denti del non ebreo), sembra voler lasciare fuori<br />

campo la possibile tragedia. La morale non passa attraverso precetti astratti, giudizi a priori, indicazioni<br />

immutabili, non è un messaggio preconfezionato che si può applicare ad ogni situazione; essa, al<br />

contrario, si rivela misteriosamente, a posteriori, nella<br />

concretezza delle mille azioni che facciamo, ma, ancor di<br />

più, dei fatti ai quali assistiamo.<br />

Il pessimismo degli autori non potrebbe essere su questo<br />

punto più radicale. Oltre la tranquilla apparenza della pro-<br />

vincia americana, i Coen, facendoci salire con Larry sul<br />

tetto della sua casa, ci invitano a guardare le cose da altre<br />

prospettive, per scoprire magari che la vicina prende il sole<br />

completamente nuda, ma ci ricordano altresì che la moralità<br />

dello sguardo è relativa (basti vedere come ciò che Larry<br />

giudica corruzione non sia considerato tale dallo studente I registi Ethan e Joel Coen<br />

coreano), passeggera e soprattutto non è garanzia di suc-<br />

48


cesso e, men che meno, di felicità. I tentativi di Larry di diventare un “mensch”, un “uomo serio” sono<br />

determinati non dalle sue scelte, ma dalla considerazione degli altri (così come la sua promozione non è<br />

decisa dai suoi meriti, ma dalla credibilità delle maldicenze sul suo conto): “ogni azione ha delle<br />

conseguenze” – ricorda all’inizio il protagonista allo studente che prova a corromperlo – ma queste non<br />

sono né prevedibili (specie se il nostro sguardo sulle cose non coincide con quello altrui), né<br />

controllabili (e infatti Larry deciderà di cedere e di correggere il voto incriminato). Non resta, come<br />

recita la frase che compare sullo schermo dopo il prologo, che affidarsi a una saggezza spicciola e<br />

pragmatica: “Prendi con semplicità tutto ciò che ti accade”, perché le parole, che sembrano dare un<br />

senso alla vita, sono le prime a perdere senso di fronte all’uragano che avanza o agli esami clinici da<br />

ritirare.<br />

49<br />

(“A serious Man” di Ethan e Joen Coen)


Sherlock Holmes: Casino Royale<br />

GIOVANNI FICETOLA<br />

La principale e sostanziale differenza tra un uomo di scienza e un uomo di religione è la capacità di<br />

cambiare idea.<br />

È in fondo la differenza stessa dei due principi che stanno alla base, la razionalità, cioè il frutto del<br />

ragionamento dell’intelletto umano e la fede, che come dice la parola stessa, è fiducia nel principio<br />

divino o soprannaturale.<br />

L’uomo di scienza, o comunque chiunque abbia come metro di analisi del mondo che lo circonda la<br />

razionalità e la logica, è disposto a cambiare idea se i fatti gli dimostrano che in un suo pensiero<br />

precedente aveva torto.<br />

Per l’uomo di fede questo problema non si pone, la fiducia nel suo credo gli permette di non cambiare<br />

mai idea anche di fronte all’evidenza dei fatti.<br />

Questo ragionamento porta alla paradossale conclusione che è conveniente, per un non addetto ai<br />

lavori, l’affidamento alla religione, che dà sempre risposte sicure e immutabili. La fiducia da parte di una<br />

persona normale nella scienza può essere solo portatrice di errori e insicurezze. Basterebbe vedere<br />

l’evoluzione del pensiero scientifico, le continue smentite, in un campo piuttosto che in un altro, di idee<br />

considerate un tempo salde e giuste, che con scoperte successive si rivelano imperfette o<br />

completamente errate.<br />

È stato con spirito scientifico che mi sono approcciato quindi al film Sherlock Holmes, di Guy Ritchie,<br />

cioè con uno spirito disposto a cambiare idea rispetto a quella che avevo entrando in sala. L’idea di un<br />

film sul grande investigatore rivisto in chiave hollywoodiana contemporanea, mi faceva inizialmente<br />

venire l’orticaria. Sono sempre stato un grande amante del personaggio nato dalla penna di sir Arthur<br />

Conan Doyle e benché abbia sempre ritenuto Holmes un personaggio non solo pacato, razionale e<br />

deduttivo, ma anche un uomo d’azione (per i parametri dei suoi tempi), la scelta pubblicitaria di<br />

presentare un film ricco di esplosioni non mi dava certezza alcuna della buona fede degli autori, ma<br />

solo l’idea che potesse essere un blockbuster nello stile di Michael Bay.<br />

Ma proprio grazie alla capacità di cambiare idea sono invece uscito pienamente soddisfatto e rassicurato<br />

dal cinema.<br />

Certamente non è il film che un normale spettatore potrebbe immaginare pensando a Sherlock Holmes.<br />

Molte scelte di sceneggiatura o di produzione potrebbero apparentemente sembrare bizzarre o talvolta<br />

in forte opposizione con l’immagine del calmo detective di Baker Street.<br />

50


A un’analisi superficiale si potrebbe pensare che questo reboot * holmesiano sia solo l’ennesimo tentativo<br />

di inserirsi nel filone di film che cercano di riscrivere le origini di un personaggio preesistente, che sia<br />

del cinema, della letteratura o dei fumetti.<br />

Un filone che ha tra i suoi capisaldi due grossi film degli ultimi anni, come il Batman begins (e il<br />

successivo Dark Knight) di Christopher Nolan o il penultimo Bond, Casino Royale.<br />

Sono questi due film che, recentemente, hanno cercato di scollarsi dall’immagine ormai distorta dei loro<br />

protagonisti, cercando di portare nuove idee, un maggior realismo delle storie e delle regie, umanità e<br />

problemi reali nei personaggi, mantenendosi, almeno nelle idee iniziali, più fedeli allo spirito originale<br />

dei personaggi stessi.<br />

Ecco quindi nel primo caso una nuova origine del personaggio nato dalla fantasia di Bob Kane, un<br />

vendicatore notturno realistico, cupo, oscuro, ma mai esageratamente “fumettoso” (come negli ultimi<br />

tentativi di Joel Schumacher) o eccessivamente visionario (come nei capolavori di Burton, Batman e<br />

Batman returns, caratterizzati da scenografie estreme e personaggi problematici fino al parossismo, che ha<br />

portato in Batman returns all’oscuramento del buono da parte dei cattivi Pinguino e Catwoman).<br />

Il Batman di Nolan è una persona vera, con i veri problemi di chi fa il vendicatore mascherato, in una<br />

città vera, con tecnologie o attrezzature comunque realistiche o probabili.<br />

Anche nel secondo caso, la spia più famosa al mondo viene riscritta, se ne rivedono le origini, si<br />

affronta la prima missione. Il mondo delle spie è analizzato in maniera realistica, perdendo quel glamour<br />

e quella magia patinata che dal dopo-Connery ha portato alla soglia del ridicolo il Bond di Brosnan.<br />

Bond ha sentimenti, ma è al contempo una vera spia, capace di azioni semplici e brutali, senza quella<br />

raffinatezza che caratterizzava e ha sempre caratterizzato James Bond, icona dello spionaggio<br />

cinematografico (anche nella sua accezione più inverosimile e negativa).<br />

La sceneggiatura, perfetto gioco ad orologeria di Paul Haggis, è capace di brutalità e crudo realismo<br />

nelle scene d’azione, senza però perdere quella delicatezza e ironia che rendono il film altamente<br />

godibile.<br />

Sherlock Holmes prova a inserirsi in questo filone, andando a scavare e riproponendo un personaggio più<br />

simile all’originale doyliano, aggiornato all’estetica e ai ritmi del XXI secolo. Ed ecco che il personaggio<br />

cambia look, toglie la berretta da cacciatore, lascia in un angolo la pipa e perde il profilo aquilino e<br />

acuto per la faccia cruda di R.Downey jr. E, dietro a lui, il dr. Watson, che da medico militare in<br />

pensione, personaggio rubicondo che narra le avventure passate insieme all’amico investigatore, diventa<br />

il giovane Jude Law, senza però perdere il proprio lato ironico e il passato di carattere militaresco.<br />

Ma siamo sicuri che l’immagine che abbiamo di Holmes sia la stessa che aveva Doyle?<br />

Lo Sherlock Holmes letterario è un detective ottocentesco, un aiuto per la polizia, come erano Dupin o<br />

altri epigoni nati dalle penne di molti scrittori, fino ad Agatha Christie.<br />

Ma a differenza di altri – ed è forse proprio qui la forza e il carisma dell’investigatore londinese – la<br />

pura razionalità e la logica di cui è alfiere non gli impediscono di risolvere i problemi con vie differenti<br />

dalla pura deduzione.<br />

Non è un personaggio esclusivamente mentale, ma<br />

anche un uomo d’azione, un precursore (in un accosta-<br />

mento apparentemente forzato, ma comunque da con-<br />

siderare in tono molto più blando, ovviamente) dei<br />

detective hard boiled delle detective stories americane anni ‘30.<br />

Holmes non ha mai disdegnato il sotterfugio, era un<br />

maestro dei travestimenti (e nel film lo è) ed era capace<br />

di suonare il violino come anche di fare a pugni e tirare<br />

di scherma. Anche il noto episodio della presunta morte<br />

di Holmes è una scena davvero action, davvero incredibile, Sherlock Holmes secondo Guy Ritchie: il<br />

se si dovesse pensare al pacato investigatore che abbiamo volto duro, crudo di Robert Downey Jr.<br />

* Per reboot si intende l’operazione di azzeramento delle caratteristiche di un personaggio preesistente, nel tentativo di<br />

dargli una nuova origine e una nuova estetica, slegate dalle opere precedenti che l’hanno rappresentato e che hanno<br />

portato alla sua raffigurazione tipica, radicata nell’immaginario collettivo. E’ insomma la creazione di un nuovo<br />

archetipo. Il termine è mutuato dal linguaggio dell’informatica.<br />

51


in mente: in una lotta furibonda sul ciglio di un dirupo,<br />

Holmes viene scaraventato di sotto, in una cascata. Sembra più una scena da romanzo d’avventura che<br />

quella di un personaggio tutto deduzione e razionalità.<br />

Non deve quindi stupire la scelta di porre, senza mai, devo ammetterlo, esagerare, anche le scene di<br />

lotta o comunque di azione, all’interno del film.<br />

Senza esagerare, certo, Guy Ritchie è un maestro a calibrare l’azione alla trama, senza mai strafare,<br />

senza perdersi in autocompiacimenti, ma inchiavardando ogni scena di lotta su punti solidi della<br />

sceneggiatura, esplicativi di un modo di vedere il mondo o di spiegare un passaggio.<br />

Senza scadere nel manierismo di scazzottate al rallentatore, analizzate colpo per colpo da Holmes per<br />

trovare la via più breve per mettere fuori combattimento l’avversario. Ed ecco che viene spiegato allo<br />

spettatore il modo di ragionare per indizi, per piccole cose, del detective, un modus operandi valido<br />

sempre, anche, quindi, nelle scene di lotta. Lo spirito di osservazione e la conseguente capacità<br />

deduttiva vanno a mostrare i punti deboli dell’avversario, e sarà poi proprio su questi punti deboli che il<br />

detective andrà a colpire.<br />

Ritchie ritrova lo smalto dei suoi primi film, la<br />

solida storia gli permette di giocare con i<br />

personaggi e con i loro cliché. Questo reboot (o<br />

tentativo di reboot, come vedremo oltre) cerca una<br />

storia nuova.<br />

Sceglie la via più difficile, narrare la storia di<br />

Holmes investigatore e contemporaneamente la<br />

storia di Holmes uomo appoggiandosi alla<br />

struttura doyliana, prendendone a piene mani, ma<br />

scrivendo una storia in realtà autonoma. Il<br />

presupposto di partenza della trama è qualcosa di<br />

nuovo ma noto: Watson, in procinto di sposarsi,<br />

decide di lasciare (professionalmente parlando, ma<br />

Watson e Holmes in versione XXI secolo: ele- anche in questo caso i doppi sensi e l’ironia<br />

menti di continuità (la teiera old style!) e di rottura dell’apparente situazione omosessuale tra i due, con<br />

un Holmes geloso della fidanzata del partner,<br />

andando poi a scavare sulla profonda amicizia e stima tra il detective e il suo assistente) Holmes e<br />

l’appartamento in Baker Street. Eppure, durante lo svolgimento della storia, emergono molti fattori e<br />

personaggi che rimandano a un passato e a storie a noi note, oppure al fatto che molte delle loro<br />

avventure (narrate nella finzione doyliana proprio da Watson) non sono ancora avvenute.<br />

Ecco quindi l’assenza del professor Moriarty (assenza che incombe come una nuvola all’orizzonte) ma<br />

al suo posto un antagonista davvero interessante. Un antagonista antitetico ad Holmes: la magia.<br />

Il soprannaturale, tutto ciò che è irrazionale e al di fuori della logica, incarnate da Lord Blackwood<br />

(interpretato da uno splendido Mark Strong che già aveva lavorato con Ritchie in Rockanrolla) luciferino<br />

nel suo essere completamente e inguaribilmente malvagio, quasi mimetico col Nosferatu di Murnau.<br />

È un nobile esperto della magia più nera, disposto a sacrifici umani e ogni nefandezza per raggiungere il<br />

proprio scopo. Nella Londra di fine ‘800 la finzione narrativa inventa una setta che ha tra i propri<br />

adepti l’élite del potere inglese. Nobili, politici, poliziotti, riuniti in una struttura che vuole richiamare la<br />

massoneria o altre società segrete. Una società segreta in cui si praticano la stregoneria e l’esoterismo.<br />

Ecco la sfida di Holmes, deve quindi sconfiggere tutto ciò che è oscuro e irrazionale, ciò che<br />

apparentemente è inspiegabile.<br />

Ma viene usato un principio enunciato da sir A.C. Clark, grande fisico e scrittore di fantascienza, autore<br />

di 2001 Odissea nello spazio: “Qualunque tecnologia sufficientemente evoluta è indistinguibile dalla<br />

magia”.<br />

La magia di Blackwood si rivela così essere solo una serie di trucchi e illusioni, sapientemente nascosti e<br />

studiati, quasi a riprendere una delle tematiche di The Prestige di Nolan. La magia più grande è quella<br />

della natura.<br />

Holmes si riappropria del proprio territorio, della scienza, del sapere, del razionale. E solo in questo<br />

modo riesce a dominarlo, a piegarlo al proprio volere.<br />

52


Viene quindi proposta in questo modo la sfida totale per l’uomo Holmes: il confronto dell’uomo<br />

moderno e modernizzante (era l’era delle grandi esposizioni universali della scienza) che arriva dalla<br />

strada, contro l’oscurantismo della nobiltà, dei poteri assoluti dettati dall’alto.<br />

Devo ammettere però che all’uscita dal cinema storcevo ancora un po’ il naso sul fatto che il nostro<br />

investigatore vittoriano combattesse col jujitsu.<br />

Infatti le molte scene di lotta sono soprattutto di lotta vera, roba da strada, nei bassifondi di una città<br />

notoriamente pericolosa, dove la legge è sottomettere e sopravvivere o soccombere (il film è<br />

ambientato nel 1890, solo due anni dopo i fatti di Jack lo Squartatore).<br />

Poco spazio quindi all’eleganza, all’essere gentleman. Forma pura dell’arte marziale giapponese, il jujitsu<br />

è quindi ideale per lo scopo, narrare per immagini situazioni di pathos reali.<br />

Ma Holmes?<br />

Sono quindi rimasto doppiamente sorpreso indagando più a fondo.<br />

Alla fine del XIX secolo un inglese, Edward William Barton-Wright, un ingegnere che aveva trascorso i<br />

tre anni precedenti vivendo nell’Impero del Giappone, ritornò in Inghilterra e annunciò la creazione di<br />

“una nuova arte di autodifesa”. Quest’arte, egli sosteneva, combinava i migliori elementi di una gamma<br />

di stili di combattimento in un tutto unificato, che aveva chiamato bartitsu. La parola era una<br />

combinazione del suo cognome e di jujitsu.<br />

Ed ecco la mia sorpresa.<br />

Era un’arte marziale che mescolava gli stili orientali con le arti dei gentleman. Insegnava quindi a<br />

difendersi con il bastone da passeggio e altri oggetti d’uso quotidiano, usando come basi di forme le<br />

posizioni del combattimento occidentale, pugilato, lotta.<br />

Probabilmente solo per caso Doyle nel racconto L’avventura della casa vuota fa dire ad Holmes che<br />

conosce il bartitsu (o meglio il baritsu) e questo è stata la seconda grande sorpresa per me. Era necessario<br />

però un terzo tassello per completare il puzzle.<br />

Dopo il 1920 il bartitsu cadde in disuso, sparì come spariscono le mode, fino ai primi anni del nuovo<br />

secolo. Con la riscoperta dell’arte marziale vittoriana si ha quindi avuto la possibilità di poterlo inserire<br />

all’interno di un nuovo film di Sherlock Holmes. Ed ecco il quadro tornare insieme.<br />

Il caso ha peraltro voluto che uno dei “riscopritori” del bartitsu fosse Tony Woolf, nome sconosciuto ai<br />

più, ma importante per il cinema e fondamentale per la ricostruzione di questa vicenda.<br />

Tony Woolf (o Wolf) è un coreografo di arti marziali neozelandese.<br />

In anni di carriera è arrivato a coreografare il kolossal di Peter Jackson Il Signore degli Anelli.<br />

Con questa solida esperienza cinematografica era la persona adatta, che il caso ha voluto essere al<br />

momento giusto nel posto giusto, per poter trasporre cinematograficamente l’arte marziale dei<br />

gentleman. È opinabile come sia stato ottenuto questo risultato e personalmente trovo lezioso doversi<br />

soffermare sul realismo di ciò che viene coreografato nel film. Un noto coreografo di arti marziali<br />

italiano mi ha detto, interrogato sull’argomento, che è molto improbabile che fosse davvero così, sia per<br />

motivi di ricostruzione, sia per motivi strettamente scenici. Ogni movimento reale sarà stato enfatizzato<br />

ed estetizzato, che è in fondo lo scopo delle arti marziali al cinema, rendere visivo qualcosa che non lo<br />

è. Personalmente ritengo che in questo caso l’operazione concettuale sia stata molto più importante del<br />

risultato finale effettivo, non avendo nessun reale significato il fatto che i combattimenti siano esagerati<br />

rispetto a come dovrebbero essere nella realtà. Il recupero dell’arte marziale di Holmes è, da solo, un<br />

valido argomento giustificativo dell’action del film.<br />

Tutto questo ci riporta a uno dei punti di partenza:<br />

Sherlock Holmes di Guy Ritchie è davvero un reboot del<br />

personaggio? Personalmente ritengo di no.<br />

Anzitutto, nonostante le molte finezze e raffinatezze<br />

della sceneggiatura e della messa in scena, esso non ha<br />

comunque la caratura autoriale né di Batman begins né di<br />

007 Casino Royale. In secondo luogo, il detective<br />

inglese è un personaggio non solo cardine nell’immagina-<br />

rio occidentale, ma anche della letteratura inglese, rispetto Sherlock Holmes di Guy Ritchie: davvero<br />

a due personaggi così strettamente visivi e indissolubil- un reboot del personaggio?<br />

53


mente pop (e quindi legati a doppio filo con le proprie<br />

origini e con il loro contemporaneo) come Batman e James Bond.<br />

Un tentativo di riscrivere il personaggio non aggiunge o toglie, e quindi sostanzialmente non cambia,<br />

nulla di ciò che il personaggio è.<br />

Chi scrive trova che una modernizzazione di Holmes sia già stata effettuata da David Shore qualche<br />

anno fa inventando il personaggio di Gregory House.<br />

Come scrive Wikipedia (e personalmente non avrei saputo dirlo meglio): “Il medico Gregory House<br />

della serie televisiva Dr. House - Medical Division, che è un misantropo, ha rapporti difficili con le donne,<br />

usa ogni sintomo come un indizio di un’indagine, ed è un tossicodipendente. Vive al n. 221B, come<br />

Holmes. Il suo migliore (unico) amico si chiama Wilson, il quale (come Watson) ha avuto numerose<br />

mogli. La sua prima paziente si chiama Adler, come l’unica donna amata da Holmes e che riesce a<br />

tenergli testa. In un episodio, un uomo di nome Moriarty, come la nemesi di Holmes, gli spara.”<br />

54<br />

(“Sherlock Holmes” di Guy Ritchie)<br />

[Articolo tratto dal sito www.giovannificetola.com]


Dio perdona, Tarantino no!<br />

MATTEO FONTANA<br />

Quentin Tarantino, si sa, è un regista “rischioso”, nel senso che è in grado di alternare a capolavori<br />

conclamati come Pulp Fiction (1994) lavori imbarazzanti come Grindhouse - Death Proof (2007), o non<br />

pienamente convincenti come il bipartito Kill Bill (2003-2004). Enfant prodige fin dal suo folgorante<br />

esordio (Le iene, 1992), Tarantino persegue ostinatamente un cinema che fa del citazionismo e della<br />

contaminazione la sua principale cifra stilistica. Ovviamente, questo modo di fare cinema – come scritto<br />

in tante occasioni – si espone ad un rischio evidente: quello de manierismo. E Quentin nella maniera ci<br />

è già caduto più volte, l’ultima con l’impresentabile Grindhouse – Death Proof, sorta di barzelletta doppia e<br />

tirata per le lunghe. Oltretutto, le recenti e francamente un po’ esagerate lodi nelle quali si è profuso il<br />

nostro nei riguardi di certo cinema italiano anni ’70 fanno pensare, e inducono a guardare con (pur<br />

benevolo) sospetto il suo lavoro.<br />

La frequentazione assidua della “Blaxploitation” aveva prodotto il non perfetto ma interessante Jackie<br />

Brown (1997); il kung fu movie aveva portato a quell’oggetto attraente e furbo che è Kill Bill; cosa sarà<br />

mai questo Inglourious Basterds, anticipato da indiscrezioni su una trama divertitamente contro-storica e<br />

da un titolo volutamente gergale, “sporco” e di bassa ambizione?<br />

Ebbene, Inglourious Basterds è la sorpresa che non ti aspetti, è la contaminazione finalmente riuscita,<br />

senza se e senza ma, tra generi e stilemi. Tarantino è mai stato un regista puramente “drammatico”?<br />

Neanche per idea. Né è mai stato un regista propriamente commediale, o d’azione, o horror, o<br />

thriller… Tarantino è ed è sempre stato INTERGENERICO, e in questo risiede la sua fondamentale<br />

essenza post-moderna. Come i Coen, Tarantino attraversa i generi, li usa e li piega con una sapienza<br />

cinematografica indiscutibile; la differenza è che mentre il lavoro dei Coen non prescinde mai (o quasi<br />

mai…) dal contenuto, quello di Tarantino vi prescinde sempre (o quasi sempre…), finendo troppo<br />

spesso per accontentarsi del lato ludico del fare/proporre cinema.<br />

Con questo sgombriamo il campo dal Tarantino precedente e vediamo perché, a modesto parere di chi<br />

scrive, Bastardi senza gloria funziona, principalmente come meccanismo (meta)cinematografico.<br />

Tarantino – contrariamente ai succitati fratelli Coen – ha un modo peculiare di raccontare, che era già<br />

ampiamente visibile in Pulp Fiction. Egli divide tutto in UNITA’ NARRATIVE (spesso con tanto di titoli<br />

e divisione in capitoli) di notevole solidità, che rimandano l’una all’altra, si intrecciano o si<br />

sovrappongono fino a strutturare l’intera caleidoscopica narrazione del film. Pulp Fiction era tripartito,<br />

ma era anche anulare grazie alla cornice rappresentata dalla rapina nel diner di Tim Roth e Amanda<br />

Plummer; Kill Bill era rigorosamente diviso in capitoli, come anche Bastardi senza gloria. Ogni capitolo è<br />

fondamentalmente un piccolo film a sé stante, controllatissimo nei tempi e nei ritmi, e spesso<br />

55


caratterizzato dall’unità di luogo (vedi il primo capitolo, interamente ambientato nella fattoria dei La<br />

Padine).<br />

Così facendo, Tarantino rinuncia in partenza alla fluidità (e alla fluvialità) narrativa, in favore di un<br />

racconto sincopato che segue sino all’ultimo ogni situazione rappresentata. Più che un gioco di incastri,<br />

assistiamo ad una giustapposizione di “momenti forti” che fanno leva sugli stilemi consolidati del film<br />

di guerra e dello spaghetti western per costruire una sorta di parodia della Storia (prima ancora che una<br />

contro-storia) che, paradossalmente, riesce a dire cose non banali sulla Storia stessa della Seconda<br />

Guerra Mondiale.<br />

La caratteristica della CARICATURA, infatti, è quella di estremizzare e sottolineare i tratti salienti dei<br />

personaggi presi di mira. Hitler, Goebbels, ma anche Churchill, sono palesi caricature nel film; e lo<br />

stesso Aldo Raine interpretato da Brad Pitt è la caricatura (meta)cinematografica di tanti personaggi<br />

eroici da “war movie” (a partire dal Lee Marvin di Quella sporca dozzina). Perché “meta cinematografica”?<br />

Lo vedremo alla fine, se avrete la pazienza di leggermi ancora per un po’…<br />

Uno dei modelli dichiarati di Inglourious Basterds è Quel maledetto treno blindato, film di Enzo Castellari del<br />

1977. Il cameo riservato da Tarantino allo stesso Castellari è lì a dimostrarlo. La riflessione tarantiniana,<br />

dunque, prende sempre le mosse dal cinema preesistente, e in particolare dal cinema di genere, meglio<br />

ancora se “di serie B”. Modelli “bassi” che Tarantino fieramente riprende a ai quali ammicca (come in<br />

Kill Bill con kung fu movie) con la sua messa in scena “alta”, ovvero di elevata qualità attoriale e tecnica.<br />

La differenza è nel “tiro”! Infatti, mentre Kill Bill (e più ancora Death Proof) fa la parodia di un genere<br />

che era già parodia di sé stesso, e si esaurisce fondamentalmente nell’esercizio di stile e nella maniera,<br />

Bastardi senza gloria riesce ad elevare il discorso prendendo il B-movie come punto di partenza, ma non<br />

di arrivo.<br />

Il discorso tarantiniano, insomma, è sempre<br />

meta-cinematografico, ma la riflessione paro-<br />

distica sulla Storia che il regista compie in<br />

questo suo ultimo film è tutt’atro che disprez-<br />

zabile e, per così dire, mette carne sullo sche-<br />

letro del meta-cinema e toglie<br />

auto-referenzialità alla regia. E’ come se il<br />

film acquistasse una dimensione – che po-<br />

tremmo chiamare “profondità” – che nemme-<br />

no il pur riuscito Jackie Brown possedeva. Il<br />

ragionamento sul cinema (emblematico che<br />

l’attentato a Hitler venga progettato proprio La caricatura di Hitler (Martin Wuttke) e dei<br />

in una sala cinematografica) non si pone limiti personaggi storici restituisce di essi tratti più veritieri<br />

di senso, pur senza mai farsi puro gioco di quanto si potrebbe immaginare<br />

intellettuale. Se “una risata vi seppellirà” (celebre<br />

slogan anarchico ottocentesco), allora vale anche: “un film vi brucerà”! La cinefilia tarantiniana, altrove<br />

pretestuosa, si salda qui in un divertito/divertente gioco anti-storico: l’incendio, al cinema, parte da<br />

dietro lo schermo, ed è proprio dallo schermo che Shosanna attua<br />

la sua vendetta, proiettando la propria immagine irridente e fiera.<br />

Un’immagine (cinematografica) che “sopravvive” alla sua stessa<br />

protagonista, dando corpo se vogliamo ad un altro celebre detto:<br />

“il cinema è la morte al lavoro”…<br />

Giocando sapientemente con le aspettative del suo pubblico, ed<br />

evitando di soddisfarle tutte (vedi la liason che non riesce a nascere<br />

tra mademoiselle Mimieux/Shosanna e il soldato tedesco Frederick<br />

Zoller), Tarantino riflette anche sugli stilemi del “war movie”. Se la<br />

maggior parte dei film sulla seconda Guerra Mondiale, più per<br />

political correctness che per altro, si sforzano di mostrare anche dei<br />

Christoph Waltz (Hans Landa): un “nazisti dal cuore buono”, non così fa Tarantino: tutto cade sotto la<br />

meritatissimo premio Oscar sua violenta e sbandierata iconoclastia, altrove assai programmatica,<br />

qui un po’ meno… Non per niente, l’alter ego del regista è<br />

56


facilmente individuabile nel “piratesco” personaggio di Aldo Raine, improbabile vietcong americano<br />

nella Francia occupata del 1944.<br />

La squadra dei Bastardi senza gloria è insomma la rappresentazione della ritrovata irriverenza di un regista<br />

che alle proprie “icone” non rinuncia mai, ma che sa altresì andarvi oltre. La scena in cui il perfido<br />

colonnello Hans Landa (un bravissimo Christoph Waltz, premiato con L’Oscar) smaschera il<br />

doppiogioco dell’attrice Bridget von Hammersmarck per mezzo di una scarpa unisce il luogo tutto<br />

tarantiniano del feticismo per i piedi femminili ad una mirabolante e divertentissima rilettura<br />

nientemeno che della favola di Cenerentola! Una cenerentola al contrario, che finisce selvaggiamente<br />

strangolata, in quel massacro senza pietà (e senza gloria) che il ghignante Tarantino orchestra nel suo<br />

1944 parodistico.<br />

“Bastardi e bastarde”<br />

Da sinistra a destra, il tenente Aldo Raine (Brad Pitt), Shosana Dreyfus (Melanie Laurent),<br />

Bridget von Hammersmarck (Diane Kruger)<br />

E allora poco importano gli anacronismi e le facilonerie storiche, perché Tarantino non vuol mostrarci<br />

come sarebbero potute andare le cose “se…”, ma piuttosto svelarci il lato ridicolo e assurdo della<br />

Storia, paragonabile appunto ad un B movie, coi suoi “bastardi senza gloria”, coi suoi allegri massacri e<br />

con le sue improbabili pantomime. In questo senso, tutto il film è un anacronismo (nel suo stesso stile,<br />

che evita gli scimmiottamenti “d’epoca” presenti invece in Death Proof), come è anacronistico il film di<br />

Goebbels sull’impresa del soldato Zoller (che a giudicare dal ritmo sembra un action moderno, e dei più<br />

adrenalinici!).<br />

E a buon titolo, la frase finale di Aldo Raine, detta<br />

guardando in macchina dopo aver inciso la svastica come<br />

sua abitudine sulla fronte di Hans Landa, si presta alla<br />

immediata interpretazione meta-cinematografica come il<br />

suggello (la sphragìs, suvvia) di Tarantino stesso, novello<br />

Sartana o Django del cinema – o di UN cinema –<br />

consapevole (questo sì) del suo posto nella Storia: “Questo<br />

potrebbe essere il mio capolavoro.”<br />

57<br />

(“Inglourious Basterds” di Quentin Tarantino)


Slumdog Oscar<br />

GIOVANNI FICETOLA<br />

La prima volta che mi è stato chiesto di parlare di The Millionare è stato qualche giorno dopo i risultati<br />

degli Oscar da cui il film di Danny Boyle è uscito vincitore indiscusso. Ricordo che sul momento rimasi<br />

perplesso. “Cosa dire del film del momento?” mi chiesi.<br />

Allora decisi di parlare non del film o degli Oscar vinti, ma del perché ne avesse vinti così tanti.<br />

The Millionare è un film basato su un libro, “Le dodici domande”. La trama è piuttosto semplice e a<br />

modo suo geniale. Un ragazzo povero partecipa a “Chi vuol essere milionario” e sbanca. Come ha fatto? Le<br />

domande sono sempre più difficili. Avrà barato? Sapeva le risposte?<br />

La storia si snoda quindi tra le vicende che, a partire dall’infanzia, hanno segnato la vita del ragazzo. E<br />

ciascuno di questi snodi, ciascuno di questi momenti chiave, è legato a una delle domande.<br />

Qui l’unico compromesso narrativo del film. Le domande corrispondono ad un momento ogni volta<br />

cronologicamente successivo al precedente. La vicenda si svolge così in maniera lineare senza fare<br />

bruschi salti avanti e indietro nel tempo.<br />

Questo assunto è un assunto globale, la vicenda potrebbe essere ambientata in ogni parte del mondo,<br />

basta che il quiz televisivo (un marchio sempre uguale in tutto il mondo) sia presente.<br />

L’Autore sceglie quindi di parlare dell’India.<br />

L’India.<br />

Un Paese antico e moderno, un Paese ricco di contraddizioni. Nel<br />

corso della storia vediamo la crescita del ragazzo (Jamal) e<br />

l’evoluzione del suo paese, la sua modernizzazione, fino alla<br />

globalizzazione che porta il format televisivo The Millionare anche in<br />

quel paese.<br />

Raccontato così, il film è anche facile a vedersi. Ma allora perché<br />

otto Oscar?<br />

Otto Oscar, alcuni dei quali anche di una certa rilevanza: miglior<br />

film, miglior regia (peraltro, ironia della sorte, a un britannico:<br />

Danny Boyle), miglior fotografia e sceneggiatura e altri quattro<br />

premi tecnici. Tutti di maestranze occidentali.<br />

I protagonisti Jamal (Dev Patel) e<br />

Latika (Freida Pinto)<br />

58


Parafrasando lo slogan del film, possiamo chiederci: come ha fatto? Un film di produzione europea,<br />

con maestranze indiane, diretti da occidentali, girato nei luoghi che racconta, cioè l’India.<br />

Ed ecco la chiave del mistero.<br />

L’India.<br />

L’India è la più grossa industria cinematografica al mondo, una produzione superiore a quella di tutto il<br />

mondo occidentale come numero di pellicole, ma sinceramente, dal punto di vista qualitativo piuttosto<br />

scadente.<br />

È uno stato molto popoloso, un miliardo di spettatori.<br />

Quella che era “Bollywood” (il nomignolo dato alla città del cinema di Bombay, un misto tra Bombay e<br />

Hollywood), è la più grande città del cinema al mondo, che sforna ogni anno un gran numero di tecnici,<br />

elettricisti, macchinisti, operatori, di alto livello professionale.<br />

Una vera industria ad alti livelli e in un momento come questo nulla più dell’esportare e delocalizzare è<br />

il modus operandi delle industrie.<br />

Nel 2006 l’Italia ha stretto un accordo tra Cinecittà e Bollywood (di cui non si è poi saputo più nulla),<br />

nel 2008 Steven Spielberg ha cominciato a trasferire le sue produzioni proprio in India.<br />

E con questo ultimo indizio, proprio come in ogni film giallo che si rispetti, si risolve il mistero.<br />

Spielberg è la persona più influente dell’Academy (l’organismo preposto all’assegnazione degli Academy<br />

Awards, cioè i premi Oscar) ed è quindi normale che abbia spinto per premiare un film non suo, ma<br />

comunque legato ad interessi personali.<br />

Senza considerare che riuscire finalmente e definitivamente a mescolare, unificare i due mercati sarà una<br />

cosa indubbiamente positiva per il mercato cinematografico occidentale, con un raddoppio dei<br />

potenziali spettatori e l’uso di maestranze qualificate ad un costo nettamente inferiore.<br />

Questo vorrebbe dire avere un effetto similare al boom italiano degli anni ‘50, quando Hollywood si<br />

trasferì per quasi due decenni a Roma (dando così alla luce i primi veri kolossal, quali Quo Vadis e Ben<br />

Hur, film nel quale lavorò tra le altre maestranze italiane anche Sergio Leone).<br />

Se questo processo può essere visto come neocolonialismo o sfruttamento di un paese in via di<br />

sviluppo non lo so e non sono qui a dare alcun tipo di giudizio morale, certo, per ora il know how<br />

necessario ad un film capace di attecchire anche in occidente è ancora di matrice anglosassone, ma forse<br />

nel tempo, se l’India vorrà (a differenza dell’Italia degli anni ‘60) aprirsi, potrà forse diventare la vera<br />

potenza del cinema mondiale, scalzando dalla sua precaria situazione la Nuova Zelanda, che negli ultimi<br />

quindici anni è diventata una vera fucina di grandi maestri e, con la costruzione dei teatri di posa più<br />

grandi del mondo, un appetibile ed economico luogo per lavorare.<br />

Questo ci porta quindi alla risposta del nostro<br />

quesito. Come ha fatto a vincere otto premi Oscar?<br />

Semplice: a parere di chi scrive è stata una scelta<br />

politica. È stato premiato un prodotto di indubbia<br />

qualità per dare un messaggio all’industria cinemato-<br />

grafica statunitense (che peraltro risentiva ancora<br />

degli effetti dello sciopero degli sceneggiatori del 2007).<br />

Il messaggio è: “Guardiamo fuori.”<br />

Parlare del film diventa quindi superfluo per capire<br />

perchè è stato così ampiamente premiato.<br />

È indubbiamente un ottimo film, ben scritto, ben<br />

girato e molto interessante per il cosa mostra, l’evolu-<br />

zione dell’India, una modernizzazione ben salda sulle La protagonista, una dolcissima<br />

proprie radici, incapace di slegarsi dai propri costumi Freida Pinto (Latika)<br />

anche più gretti o a noi apparentemente incomprensibili<br />

come la distinzione in caste del popolo, le guerre di religione, il volersi sentire occidentali ma senza<br />

poterlo essere davvero da parte dei giovani.<br />

Un film che è quasi un allegoria proprio di quel sistema industriale che ne ha portato alla creazione.<br />

Nota all’edizione italiana.<br />

In tanti hanno criticato l’iniziale doppiaggio del film, a causa di un profondo errore.<br />

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Nell’edizione originale i protagonisti sono musulmani e le loro famiglie vengono attaccate dagli induisti,<br />

mentre nella prima versione italiana i cattivi diventavano musulmani.<br />

Io preferisco però porre l’accento sulla cattiva abitudine italiana di traduzione dei titoli. Il titolo<br />

originale è Slumdog Millionare (“milionario delle baraccopoli”, slum è baracca, dog cane; più o meno, reietto,<br />

feccia) e “in italiano” diventa solo The Millionare.<br />

Perchè? Perchè lasciare un titolo in inglese ma diverso dal titolo originale?<br />

Non so, forse quell’aura di anglofonia dà maggiore importanza al film. Mi ricorda Wild things, che in<br />

Italia è uscito come Sex crimes. Misteri dei traduttori.<br />

60<br />

(“Slumdog Millionaire” di Danny Boyle)<br />

N.d.A. A un anno dall’assegnazione dei premi in realtà è successo poco. A causa della crisi<br />

internazionale dell’economia, Hollywood ha varato una politica altamente protezionista sui propri<br />

prodotti, e il concomitante tracollo dello stato indiano ha frenato la corsa alla nuova miniera d’oro.<br />

[Articolo tratto dal sito www.giovannificetola.com]


Il realismo action di Katryn Bigelow<br />

MATTEO FONTANA<br />

Per quanto lo si possa esecrare (e chi scrive lo ha più volte fatto, nel corso degli anni) in quanto premio<br />

non attendibile, eccessivamente spettacolarizzato, dettato più dalle passioni momentanee che<br />

dall’effettiva valutazione storica del valore delle opere, l’Academy Award (per gli amici “Oscar”) rimane<br />

un mito imprescindibile per chi si occupa di cinema; ed è dunque difficile, volendo scrivere qualche<br />

notarella su The Hurt Locker, non partire dal primo Oscar per la migliore regia vinto da una donna,<br />

Katryn Bigelow (classe 1951). Premio giusto? Premio sbagliato? Riconoscimento eccessivo? Checché se<br />

ne dica, un film premiato con la statuetta dorata acquisisce comunque uno status superiore, nella<br />

percezione degli spettatori.<br />

La storia di Hurt Locker, per la verità, è più travagliata della media dei film vincitori di Oscar. Film<br />

“vecchio” e fatto rientrare nella decade (eh sì, quest’anno addirittura dieci!) dei film nominati più per<br />

risarcire la regista, maltrattata a Venezia dove perse il derby americano contro The wrestler, che per<br />

effettiva convinzione, esso sembrava destinato a sicura sconfitta contro il kolossal dei kolossal,<br />

quell’Avatar che a detta dei più avrebbe dovuto reinventare il cinema (hai detto poco!). In più, elemento<br />

gossiparo che non fa mai male, la Bigelow e James Cameron sono stati sposati fino al 1991, e dunque la<br />

sfida dal terreno squisitamente cinematografico (e quindi artistico) si trasferiva sul piano personale,<br />

nonostante le distese dichiarazioni dei due ex-coniugi alla vigilia della premiazione.<br />

Insomma, mai come quest’anno la Cerimonia degli Oscar si è “arricchita” di elementi extracinematografici,<br />

quegli elementi che in fondo la rendono divertente, fermo restando che nessun critico<br />

serio partirebbe mai dalla vittoria di un Oscar per osannare un film. Pensate che il sottoscritto per anni<br />

non ha nemmeno voluto sapere chi avesse vinto!<br />

Ma allora, che film è The Hurt Locker? E’ possibile avvicinarsi ad esso obiettivamente, senza farsi sviare<br />

dalla sua curiosa storia produttiva e distributiva? Proviamoci.<br />

Anzitutto, va detto che Katryn Bigelow è una notevole regista d’azione. A tutt’oggi, la sua miglior prova<br />

a mio giudizio rimane un film squisitamente di genere: Point Break (1991), serrato poliziesco incentrato<br />

su un gruppo di rapinatori che agiscono mascherandosi da ex-Presidenti degli U.S.A. e che basano la<br />

loro amicizia e la loro attività sulla vagamente superomistica “filosofia del surf”.<br />

A un’incollatura, il millenarista Strange Days (1995), action forse più maturo sul piano filosofico, ma<br />

caratterizzato da un “eccesso di trama” che finisce per spostarlo di genere, riconducendone gli<br />

interessanti discorsi su temi come il valore del ricordo e la conservabilità (o meno) del passato ad un<br />

gialletto smunto con tanto di spiegazioncina finale.<br />

Insomma, prima di Hurt Locker la Bigelow, pur tecnicamente molto brava, non è mai parsa una autrice a<br />

tutti gli effetti. Ottima mestierante, non certo priva di talento, pagava però la sua appartenenza ad un<br />

61


genere (l’action) che normalmente non brilla per profondità dei personaggi o delle situazioni<br />

(ovviamente con le dovute eccezioni: vedi Michael Mann, John Woo, Johnnie To e non solo…).<br />

Cosa cambia con The Hurt Locker? Anzitutto, visto che abbiamo citato Strange Days e il suo problema di<br />

eccessiva trama, spezziamo subito una lancia in favore del film trionfatore agli Oscar 2010: The Hurt<br />

Locker è di una asciuttezza ammirevole nel raccontare una storia che in realtà non è una storia, bensì la<br />

semplice “rotazione” di alcuni soldati americani nell’Iraq occupato e presidiato del dopo Saddam. 365<br />

giorni di stanza a Baghdad (ma in realtà il film ne racconta meno) di un gruppo di artificieri dell’esercito<br />

impegnati nella bonifica dalle bombe di una città che, per parecchio tempo, ha avuto il più alto tasso di<br />

attentati dinamitardi del mondo. Un ambiente desertico, riarso, ostile, difficilissimo da controllare. La<br />

Bigelow, fin dalla prima sequenza, è molto brava nel far sentire lo straniamento dei soldati americani,<br />

che si sforzano di parlare come al solito e di “normalizzare” una situazione che di normale non ha un<br />

bel niente. Si chiacchiera di hamburger e di rientro a casa mentre si cerca di capire quanto esplosivo c’è<br />

nel baule di una macchina, e chi tra gli astanti autoctoni potrebbe essere l’attentatore in possesso del<br />

telecomando per far esplodere la bomba.<br />

I soldati, stracarichi di armi e di protezioni, appaiono comunque indifesi e tremanti, pieni di dubbi<br />

e di incertezze in un ambiente irto di minacce, tanto soleggiato e “chiaro” quanto indecifrabile e<br />

misterioso.<br />

Il fascino del film sta tutto nel suo azzeccato realismo, ben sorretto dalla sceneggiatura di Mark Boal<br />

(Oscar a sua volta) che, come sempre più frequentemente accade, non si dedica tanto ad inventare<br />

quanto a documentare, ovvero: si basa assai più su ricerche ed effetti di reale che sull’inventiva vera e<br />

propria.<br />

E’ una direzione verso la quale Hollywood (e non solo Hollywood) si sta incamminando con sempre<br />

maggiore decisione: storie estremamente realistiche, narrazioni di taglio quasi giornalistico e<br />

documentario, senza rinunciare – e qui stanno i meriti indiscussi della regista – ad una struttura action<br />

indubbiamente ben fatta. Insomma, Hollywood continua a fare cinema, anche se la necessità di<br />

interrogarsi sul reale e addirittura di riprodurlo in modo il più possibile fededegno cresce vieppiù.<br />

La regia della Bigelow riesce ad iniettare nel film una dose di inquietudine e (usiamo un caro vecchio<br />

termine!) di suspense davvero notevoli; la tensione non cala mai nonostante una struttura narrativa per<br />

forza di cose assi ripetitiva (ogni giorno per i soldati è uguale a quello precedente: esplorazioni,<br />

missioni, rischi…).<br />

Ma allora, vien da chiedersi, The Hurt Locker è un film sulla guerra, ovvero: ha la dignità e l’ambizione<br />

necessarie per elevarsi al rango di “riflessione” sul tema della guerra? A mio parere sì (fermo restando<br />

che sui singoli aspetti stilistici, su certi ralenti e su certe inquadrature un po’ compiaciute si potrebbe<br />

discutere). La Bigelow e il suo sceneggiatore incentrano la storia su un ridottissimo drappello di soldati<br />

e rinunciano alle facili tentazioni del divismo (niente Clooney, o Pitt, o Cruise nei ruoli-chiave; Guy<br />

Pearce e Ralph Fiennes, unici veri volti noti, fanno appena poco più che delle comparsate). In questo<br />

caso, la rinuncia agli attori di grido è una scelta importante, poiché va nella direzione di aumentare il<br />

realismo: il protagonista, sergente Will James, come anche i suoi compagni di squadra, interpretati tutti<br />

da attori poco noti e fondamentalmente “anonimi”, ovvero non preceduti dalla ingombrante celebrità<br />

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delle succitate star, restituisce ai personaggi un’aura di “normalità” che conferisce al film (per quanto il<br />

discorso sia in fondo un po’ aleatorio, com’è facile capire, e meriterebbe maggiore approfondimento)<br />

un maggiore grado di “verità”.<br />

In fondo, la medesima scelta fece Stanley Kubrick per Full Metal Jacket, dove gli attori più noti erano<br />

Matthew Modine (che solo dopo sarebbe veramente decollato) e Vincent D’Onofrio.<br />

Abbiamo citato il sergente Will James, artificiere esperto<br />

quanto temerario, protagonista del film. E allora a questo<br />

punto occupiamoci anche dell’aspetto più “filosofico”<br />

del lavoro della Bigelow: la considerazione della guerra<br />

come una droga cui diventa impossibile resistere (la<br />

cosiddetta “tesi” del film, dichiarata esplicitamente da<br />

una didascalia che compare all’inizio).<br />

Tema non nuovo: già Apocalypse Now (Coppola, 1979) lo<br />

introduceva perfettamente, in una celeberrima battuta<br />

affidata al capitano Willard: “Quando ero a casa dopo il<br />

mio primo viaggio era anche peggio. Mi svegliavo e c’era<br />

Piccole parti per i volti noti: Ralph Fiennes il vuoto. […] Quando ero qui volevo essere là. Quando<br />

ero là non potevo pensare ad altro che a tornare nella<br />

giungla.”<br />

La Bigelow raffigura la guerra (ma, va detto, non una guerra qualsiasi bensì la particolare guerra in Iraq)<br />

come uno stato di tensione continuo, che ha la sua indubbia efficacia cinematografica e che – viene<br />

suggerito dal film – allo stesso modo può finire per rappresentare una condizione di vita non solo<br />

accettabile, ma addirittura desiderabile per un soldato. Chiariamo un equivoco in cui certa critica è<br />

caduta: Hurt Locker non è un film “di destra” perché esalta la guerra. E’ da mentecatti pensare che sia<br />

“di destra” esaltare la guerra e “di sinistra” esecrarla.<br />

Il sergente Will James (Jeremy Renner), “drogato” dalla guerra serpeggiante<br />

nelle strade insidiose di Baghdad<br />

Katryn Bigelow non esalta e non esecra: si limita a mostrare, con una strana e a suo modo riuscita<br />

commistione fra action e realismo, la guerra serpeggiante per le strade di Baghdad. L’asciuttezza del film<br />

si fa apprezzare soprattutto in quelli che sono i cosiddetti “passaggi obbligati” del genere cui appartiene:<br />

il cameratismo tra soldati, rappresentato in poche efficaci sequenze, e soprattutto il racconto del<br />

disadattamento del soldato rientrato a casa. Anche in questo caso, nulla di particolarmente nuovo.<br />

Torniamo al Coppola di Apocalypse Now, che liquida questa tematica con una semplice, meravigliosa<br />

battuta in voce off: “A mia moglie non dissi una parola fino a quando non dissi sì al divorzio”. Così il<br />

capitano Willard di Coppola e di John Milius (sceneggiatore), così anche il sergente James di Katryn<br />

Bigelow, assuefatto alla guerra, realizzato in essa, volontario (nel finale) per un’altra rotazione in Iraq.<br />

Questo fa di The Hurt Locker una esaltazione della guerra? No: soltanto un film meno ipocrita di altri,<br />

che in fondo ha il coraggio di interrogarsi non solo sugli orrori della guerra stessa (fin troppo facilmente<br />

rappresentabili ed esecrabili, non ne convenite?) ma anche, e soprattutto, sulla sua attrattiva.<br />

Questa, sì, inquietante.<br />

(“The Hurt Locker” di Katryn Bigelow)<br />

63


Benvenuti nel fantastico mondo del mockumentary<br />

MATTEO FONTANA<br />

Da Wikipedia (che, senza affidarsene troppo, presa – diciamo – a piccole dosi, è assai utile): «Con falso<br />

documentario o mockumentary (dalla fusione delle parole inglesi mock = finto/simulato/ironico/derisorio e<br />

documentary = documentario) si indica quel genere cinematografico o televisivo […] nel quale degli<br />

eventi fittizi appositamente realizzati per la trama sono presentati come reali o comunque creati per lo<br />

scopo della narrazione.»<br />

Bene. Un film come Il quarto tipo, del regista afro-americano dal curioso nome di Olatunde Osunsanmi,<br />

rientra pienamente nel genere “mockumentary”. Ma attenzione a non incorrere nell’equivoco, invero<br />

drammatico, di considerare questo film come un apripista, o come qualcosa di sperimentale e mai<br />

azzardato in precedenza.<br />

Prima di entrare nel merito, ovvero prima di dire due parole sul valore o non-valore del film,<br />

ripercorriamo in breve la storia di questo bizzarro genere cinematografico, che negli ultimi anni ha<br />

conosciuto – è vero – un’impennata, ma che era nato già nel 1965 con un film di Peter Watkins,<br />

intitolato The War Game. Una guerra nucleare contro la Gran Bretagna vi veniva raccontata con stile<br />

documentaristico, come un fatto realmente accaduto.<br />

Altri “mockmentary ante litteram” (se ci passate la definizione) sono gli alleniani Prendi i soldi e scappa<br />

(Take the Money and run, 1969) e Zelig (id., 1983), nonché il celeberrimo F for Fake di Orson Welles (id.,<br />

1974) che, per la verità, più che un mockumentary, è una riflessione ante-litteram sul mockumentary. *<br />

In anni più recenti, vanno ricordati L’ignoto spazio profondo (The Deep Blue Yonder, Werner Herzog ** , 2005),<br />

il discutibile The Blair Witch Project (id., Daniel Myrick e Eduardo Sanchez, 1999), filmetto da due soldi<br />

gonfiato a fenomeno cinematografico, e il recentissimo Cloverfield (id., Matt Reeves, 2008).<br />

* A proposito di Orson Welles, peraltro, è impossibile non citare il celebre dramma radiofonico, da lui diretto e<br />

interpretato, tratto da La guerra dei Mondi di H.G. Wells, e trasmesso il 30 ottobre 1938. Nonostante prima della<br />

trasmissione un comunicato avesse avvertito gli ascoltatori che quanto seguiva era frutto di fantasia, lo stile recitativo di<br />

Welles e, soprattutto, la particolare forma del testo (che riproduceva un notiziario allarmistico la cui notizia-bomba era<br />

l’invasione aliena) indussero molti ascoltatori a credere vero il contenuto del dramma! Da cui le celebri scene di panico<br />

per le strade. A buon titolo, io considero questa trasmissione radiofonica il vero archetipo del mockumentary. Ma<br />

vogliamo spingerci ancora più in là ed entrare prepotentemente nel campo della letteratura? Allora bisognerebbe<br />

considerare “mockumentaria” tutta quella letteratura che si basa sul presunto ritrovamento di un (falso) manoscritto<br />

precedente del quale l’autore del libro altri non è che il curatore e il rabberciatore… Vi dice niente questo impianto di<br />

trama? Per citare giusto tre titoli che non possono suonare nuovi: I promessi sposi (Alessandro Manzoni); La coscienza<br />

di Zeno (Italo Svevo); Il manoscritto trovato a Saragozza (Jan Potocki). E vi assicuro che si potrebbe andare avanti! Per<br />

quanto, naturalmente, questo non sia che un giochino un po’ intellettualistico ed erudito…<br />

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Proprio Cloverfield è un caso emblematico di stile-mockumentary. Il film, infatti, si apre con la scritta:<br />

“Proprietà del Governo degli Stati Uniti”, volta ad indicare che staremmo guardando il video contenuto<br />

in una memory card e ripreso, dal vivo, durante la terribile crisi – generata dalla comparsa di un<br />

terrificante mostro – che avrebbe sconvolto Manhattan. Il film, infatti, è costituito dalle riprese<br />

amatoriali realizzate da un gruppo di amici durante il caos scoppiato in città.<br />

Ora, l’assunto di Cloverfield è palesemente fantascientifico, tanto da inscriversi nella tradizione del<br />

“monster movie” (quella di Godzilla, tanto per intenderci). Ad essere “mockumentario” è soltanto lo<br />

stile: tutto in camera a mano, a riprodurre il documentario di fortuna girato da un operatore dilettante.<br />

Nemmeno per un minuto, però, si dubita della “falsità” di ciò che si vede sullo schermo.<br />

Dunque, bisognerebbe anzitutto accordarsi su un punto. Che cos’è da considerarsi “mockumentary”? Il<br />

film che riesce a far credere allo spettatore di stare guardando ANCHE degli spezzoni di documentario<br />

(come tenta di fare Il quarto tipo, appunto) o il film che, NELLO STILE, si adegua al documentario,<br />

senza però esserlo per niente dal punto di vista del contenuto?<br />

Lasciamo lì il quesito e occupiamoci del film di Osunsanmi, sperando di darci così una risposta.<br />

L’attacco è emblematico: Milla Jovovich che, nella cornice<br />

flou di un bosco luminoso, dichiara gli intenti e la natura<br />

del film. Ovvero, ricostruire con inserti “drammatizzati”<br />

una storia vera verificatasi nella sperduta cittadina di Nome,<br />

in Alaska.<br />

La regia di Osunsanmi è corretta e competente, e procede<br />

secondo uno schema fisso che inizialmente fa sorridere, ma<br />

che man mano che il film procede riesce, bene o male, a cat-<br />

turare l’attenzione. Egli accosta sistematicamente le scene<br />

recitate (dalla Jovovich nei panni della dottoressa Abigail<br />

Tyler, la protagonista della inquietante vicenda, come anche<br />

da altri noti attori, tra cui Will Patton e Elias Koteas) a sequenze “amatoriali” (avvicinate a volte<br />

addirittura in split screen alle scene recitate) delle sedute di psicanalisi tenute dalla dottoressa. Il risultato è<br />

che noi, in una visione schizofrenica, riteniamo di stare vedendo il “vero paziente” sulla sinistra dello<br />

schermo e l’attore che lo impersona nella fiction sulla destra. Non solo: il film è attraversato da una<br />

lunga intervista realizzata dallo stesso regista alla presunta “vera” dottoressa Abigail Tyler: una donna<br />

smorta e cadaverica, dalle occhiaie scavate, dallo sguardo spento e dalla voce flebile, che racconta la<br />

allucinante serie di eventi che ha portato alla morte di suo marito prima e alla sparizione di sua figlia<br />

poi.<br />

Ora, a parte il fatto che vien da chiedersi: se il regista dispone dei video di tutte le sedute psicanalitiche<br />

della dottoressa Tyler, perché darsi la pena di far recitare – in modo peraltro filologico – le medesime<br />

scene? Ovvero: se l’interesse dell’Autore è mostrare cose vere, perché non montare sapientemente gli<br />

spezzoni più interessanti di queste inquietanti sedute (dalle quali emergerebbe il rapimento dei pazienti<br />

da parte di entità aliene, la cosiddetta abduction, o incontro ravvicinato del quarto tipo)? Perché questo<br />

ostentato e francamente un po’ ridicolo accostamento di documentario e fiction?<br />

Per rendere più interessante e godibile il tutto, verrebbe da rispondere. Già, peccato che il film –<br />

proponendosi come “testimonianza” sulle misteriose sparizioni che da quarant’anni si verificherebbero<br />

nella cittadina di Nome – si caratterizzi fin da subito come “inchiesta”, e pretenda di riaprire il caso di<br />

** Su Werner Herzog, ovviamente, occorrerebbe aprire una parentesi. La produzione di questo eccezionale ed eclettico<br />

Autore, infatti, si basa sul continuo confronto/scontro (ma sarebbe meglio dire sulla “confusione”!) tra documentario e<br />

film di fiction. Titoli come Fata morgana (1969-70), Paese del silenzio e dell’oscurità (1971), La grande estasi<br />

dell’intagliatore Steiner (1974), Cuore di vetro (1976), Dove sognano le formiche verdi (1984), lo stesso Fitzcarraldo<br />

(1982), possono a buon titolo essere visti come progenitori del moderno mockumentary. Herzog, anche nei suoi film più<br />

sperticatamente di fiction, si è sempre interrogato sulla potenza evocativa delle immagini “vere” (tanto che esse non<br />

mancano praticamente in nessun suo film). L’intera opera di Werner Herzog andrebbe insomma descritta come un<br />

tentativo di strutturare, a livello di stile come di contenuto, il mockumentary. Ma il discorso meriterà in futuro una<br />

trattazione più ampia e a sé stante, per cui in questa sede ci limitiamo a darne questo breve e speriamo stimolante cenno.<br />

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Abigail Tyler allo stesso modo in cui “JFK” (oh già, a proposito, ecco un altro “quasimockumentary”…<br />

o no?) pretendeva – su ben altra base ontologica, però! – di riaprire il caso Kennedy.<br />

Il “vero” e il “falso”<br />

A sinistra, un fotogramma da uno dei presunti “veri” filmati della dottoressa Tyler; a destra, la<br />

ricostruzione cinematografica (e perciò per definizione “falsa”) di una seduta. In realtà nel<br />

mockumentary vero e falso non si integrano e non si contrappongono, ma si confondono…<br />

Il problema di Osunsanmi – ma non solo suo, per carità: il problema del mockumentary<br />

contemporaneo di un certo tipo (il quarto forse…?) – è che in esso è impossibile discernere il vero dal<br />

falso, e questo – lungi dal rendere un buon servizio al genere e al film – non fa che intorbidare le acque<br />

per partorire falsi casi come quello degli studenti persi nel bosco e forse vittime di una terribile magia<br />

nera (The Blair Witch Project, of course…). Insomma, sembra che il film di fiction abbia bisogno di<br />

potenziarsi. Non basta più realizzare un bel film dell’orrore sul tema dei rapimenti alieni. No, oggi<br />

occorre sostenere l’idea dichiarando la “verità” di certi dettagli e di certi eventi.<br />

Peccato che poi si scopra che il film non è stato girato a Nome, Alaska, ma a Vitosha, Bulgaria (!); e<br />

che i filmati “veri” delle sedute psicanalitiche “vere” sono in realtà a loro volta scene di fiction,<br />

sapientemente girate con stile sporco e amatoriale; e, ancora, che la dottoressa Abigail Tyler manco si sa<br />

se esista veramente! E che quella che compare, smunta e slavata, nell’intervista realizzata dal regista è a<br />

sua volta un’attrice.<br />

Insomma, Osunsanmi, a che gioco giochiamo? E’ il<br />

gioco del “vero o falso”? O è una calcolata presa<br />

per i fondelli dello spettatore, indotto a credere a<br />

levitazioni misteriose, ad alieni che parlano sumero<br />

(sic!), a misteriose sparizioni di persone da una citta-<br />

dina che, lungi dall’essere l’angolino paradisiaco che<br />

si vede nel film, è un paesotto informe e sperduto<br />

nell’alta Alaska, quasi sullo stretto di Bering (andate La bellezza di Milla Jovovich.<br />

pure a dare un’occhiata su Google Earth, se non Ecco forse l’unico elemento indiscutibilmente VERO<br />

ci credete)? Vogliamo davvero credere che il rapi- del film di Osunsanmi<br />

mento da parte di alieni che parlano il sumero sia la<br />

più probabile causa di sparizione di una persona da Nome? Osunsanmi ha mai sentito parlare del rasoio<br />

di Ockham? Non è un particolare tipo di moviola, ma un principio filosofico che aiuterebbe nello<br />

strutturare (o nell’evitare di strutturare) certi mockumentary pretestuosi e profondamente disonesti.<br />

Assai più di quanto possa essere disonesto il più disonesto dei film di fiction!<br />

Ma alla fine, mock vuol comunque dire “falso” *** , per cui di che ci stiamo a preoccupare?<br />

*** Scusate l’eccesso di note in questo pezzo, ma è ovvio che – al di là del singolo film, che in questo caso è Il quarto<br />

tipo – è interessante occuparsi un po’ del “problema-mockumentary”. E proprio in questo numero della “Lanterna”<br />

pressoché interamente dedicato a James Ballard, non potevo farmi sfuggire l’occasione di chiudere con una appropriata<br />

citazione da La mostra delle atrocità, dove Ballard scrive: “I falsi cinegiornali di guerra […] mi hanno sempre intrigato.<br />

La mia versione di Platoon, Full Metal Jacket o Niente di nuovo sul fronte occidentale, sarebbe un montaggio di<br />

telegiornali, falso, ma così accurato che il pubblico si convincerebbe che è vero, pur continuando ad avere il dubbio che<br />

possa essere tutto inventato. Il grande esponente del neorealismo italiano, Roberto Rossellini, andò molto vicino a un<br />

risultato del genere con Roma città aperta e Paisà.”<br />

66


E’ ovvio che Il quarto tipo (come anche Cloverfield, Blair Witch Project ecc…) sia un divertissement, anche<br />

piuttosto ben confezionato (bella fotografia e belle ambientazioni, attori di buon livello). Però, per chi<br />

al cinema chiede qualcosa di più di un “gioco” (nell’accezione negativa del termine, s’intende), il film<br />

non è certamente indicato.<br />

67<br />

(“The fourth Kind” di Olatunde Osunsanmi)<br />

Che dire? La provocatorietà del contatto suggerito, e appena accennato, tra Neorealismo e mockumentary parla da sola:<br />

il genio di Ballard non ha limiti!


(E)SPUNTI<br />

68<br />

«Se le circostanze gli sono propizie l’uomo<br />

s’aggiusta scrivendo un bel giorno sul suo<br />

punto fisso un libro o un opuscolo o almeno<br />

un articolo di giornale, e cioè inserendo a<br />

verbale la sua protesta negli atti dell’umanità, il<br />

che è un gran sedativo, anche se nessuno lo<br />

legge.»<br />

(Robert Musil)<br />

Su questo numero inauguriamo una nuova sezione della nostra rivista, nata principalmente dall’intelligenza e<br />

dall’abnegazione di Roberto Mandile, che ormai – più che essere una “firma importante” – è piuttosto una vera<br />

e propria colonna della “Lanterna di Born”.<br />

In questa sezione ci ripromettiamo, cari lettori, di sottoporvi, in breve, degli spunti di riflessione, delle<br />

introduzioni stringate a tematiche, eventi, problematiche culturali, sociali, storiche, artistiche… Introduzioni che,<br />

appunto, non abbiano alcuna ambizione di esaurire la discussione o di “dire tutto”. Anzi, i contributi di questa<br />

sezione nascono volutamente ridotti e limitati, perché essi si offrono come delle chiavi che schiudono porte dietro le<br />

quali… chissà cosa si trova! E sarà anche con la vostra collaborazione e la vostra curiosità di lettori che<br />

determinati spunti si potranno approfondire e proseguire, magari grazie alle vostre lettere o alle vostre repliche,<br />

sempre più che ben accette.<br />

Insomma, contrariamente alle altre, questa è una sezione della rivista che NON VUOLE essere esaustiva, ma<br />

che, al contrario, vuole essere incompiuta e “aperta”, vuol rappresentare degli scogli emergenti dall’acqua senza la<br />

pretesa di scandagliare tutto il fondale, vuol dipingere un quadro (o più quadri) con tocchi rapidi di pennello, a<br />

suggerire forme e immagini, senza le rifiniture, a mo’ di schizzo preparatorio, di invito.<br />

Perché proporvi sempre articoli lunghi, completi e – in alcuni casi, lo sappiamo – anche un po’ complicati?<br />

Perché, si è chiesto il buon Roberto – subito seguito dal resto della redazione – perché non proporvi anche degli<br />

spunti che, senza questa sezione, sarebbero stati cestinati proprio in quanto non sufficientemente sviluppati e<br />

articolati? Da qui, il titolo ironico della sezione stessa: (e)spunti!<br />

Un ulteriore vantaggio degli scritti brevi che ospiteremo in queste pagine è rappresentato dal fatto che, proprio in<br />

virtù della brevità degli spunti, potremo permetterci di spaziare tra gli argomenti e i campi più disparati: dalla<br />

letteratura al cinema, dai fatti d’attualità agli accadimenti storici, dalle considerazioni generali a quelle<br />

particolari. Il tutto in poche righe, in “trafiletti” che – inevitabilmente – finiranno più per porre domande che per<br />

fornire risposte. Il che, attenzione, non significa lanciare il sasso e nascondere la mano: noi siamo qui, sempre<br />

disposti ad approfondire le discussioni che inauguriamo, e soprattutto sempre disposti ad accettare il confronto con<br />

i diversi punti di vista, consapevoli che proprio dal confronto e dalla discussione possano nascere i migliori frutti<br />

in termini di acquisizione di coscienza e di crescita intellettuale. Oltre che, ovviamente, per il piacere del dibattito<br />

in sé…<br />

Tutto ciò, cari lettori, senza volervi caricare dell’onere di scriverci per forza. Massima libertà come sempre: chi<br />

vorrà leggerà, chi vorrà scriverà, chi vorrà salterà a pie’ pari queste pagine per dedicarsi magari ad altro… La<br />

“Lanterna” deve essere un piacere, mai un dovere! E se saremo riusciti a regalarvi anche solo un buono spunto di<br />

discussione, saremo già soddisfatti.<br />

Buona lettura a tutti e, come sempre, grazie per l’attenzione.


1 – L’ineluttabile estinzione del pessimismo<br />

ROBERTO MANDILE<br />

Uno degli equivoci più pervicaci del nostro tempo riguarda l’idea del pessimismo, diventata ormai<br />

pressoché un tabù non per un atteggiamento scaramantico (non solo), ma per un qui pro quo di<br />

fondo che investe tutto quanto può evocare un che di contraddittorio, di ambiguo.<br />

L’ottimismo è qualcosa di più di una filosofia di vita: è l’oggettivazione di un modo di essere e di essere<br />

alla moda. Fin qui nulla di strano (e di nuovo). Colpisce però la condanna senz’appello del<br />

pessimismo, vittima di una lotta senza quartiere volta alla rimozione di una visione della vita complessa<br />

e tanto radicata nella cosiddetta cultura occidentale. Il pessimismo sembra ormai assorbito<br />

irrimediabilmente nell’ambito del catastrofismo, una concezione delle cose condannabile perché<br />

ispirata ad una totale sfiducia nella possibilità del cambiamento, esecrabile in quanto negazione recisa<br />

del progresso, una forma di conservatorismo intollerabile sé e per sé. Il motto (ancora rivoluzionario?)<br />

secondo il quale “tutti possiamo e dobbiamo fare qualcosa per cambiare il mondo” pare resistere ad<br />

ogni crollo di ideologie e, superata indenne ogni epoca, vive e lotta insieme a noi. Certo, come ogni<br />

slogan, ha finito per svuotarsi di significato, per diventare non il riassunto di un’idea (pro)positiva e<br />

veramente sentita, bensì un frammento di discorso ripetuto.<br />

Ma probabilmente l’estinzione del pessimismo era un destino ineluttabile, l’inevitabile risultato di<br />

un’implosione del pensiero stesso: cos’altro ci si poteva aspettare ostinandosi a vedere il bicchiere<br />

mezzo vuoto? Ancora una volta aveva capito tutto Eugenio Montale: «Credi che il pessimismo / sia<br />

davvero esistito? Se mi guardo / d’attorno non ne è traccia. / Dentro di noi, poi, non una voce / che si<br />

lagni. Se piango è un controcanto / per arricchire il grande / paese di cuccagna ch’è il domani. /<br />

Abbiamo grattato col raschino / ogni eruzione del pensiero. Ora / tutti i colori esaltano la nostra<br />

tavolozza, / escluso il nero» (Il raschino, in Satura, 1970).<br />

2 – Della differenza tra “dato di fatto” e “verità”<br />

MATTEO FONTANA<br />

Werner Herzog, in quel mirabile libretto che è La conquista dell’inutile, traccia la differenza (in campo<br />

cinematografico) tra “dato di fatto” è “verità”, e giunge alla conclusione che il cosiddetto “cinemaverità”<br />

si basa, paradossalmente, su dati di fatto messi pedissequamente in sequenza, e non è per questo<br />

in grado di ricavare verità alcuna; il documentario herzoghiano si costruisce, invece, sulla ricerca della<br />

“verità estatica”, una condizione che può derivare anche e soprattutto dalla non assoluta fedeltà ai fatti.<br />

Questo mi fa andare col pensiero ad una celebre affermazione di François Truffaut, secondo la quale il<br />

cinema non si limita a mostrare dei fatti, ma ne rivela una realtà più profonda. Come dire che il totale non<br />

è dato necessariamente dalla somma delle singole parti che lo compongono.<br />

Robert Musil, intervistato da Oskar Maurus Fontana (30 aprile 1926): “I fatti per lo più sono sempre<br />

scambiabili. A me interessa ciò che è spiritualmente tipico, vorrei addirittura dire: la dimensione<br />

spettrale dell’accadere.”<br />

Ora: Werner Herzog, per definire la conoscenza banalmente fattuale, parla spregiativamente di “verità<br />

dei contabili”: una “verità” superficiale, che può accontentare soltanto (con tutto il rispetto per la<br />

categoria) chi è abituato a fare di conto, ovvero a sommare le parti e ad ottenere un totale. I conti<br />

tornano, ma non torna la verità.<br />

Fin qui l’ambito cinematografico (Herzog, Truffaut) e letterario (Musil).<br />

E nella realtà? La domanda che mi pongo (e vi pongo…) è: valgono le medesime, interessanti<br />

considerazioni? Siccome non sono solito nascondermi vi dico: secondo me sì. Anche nella realtà, i fatti<br />

senza interpretazioni sono la verità dei contabili. O dei cretini. Vedete un po’ voi…<br />

69


3 – Up in the air: quando il film ha il respiro del telefilm<br />

ROBERTO MANDILE<br />

Molti sono gli esempi, nel cinema americano, di film tratti da serie televisive. Il fenomeno è di antica<br />

data, ma ha conosciuto nuova linfa negli ultimi anni: il passaggio dal piccolo al grande schermo ha<br />

riguardato sia telefilm storici degli anni ’70 e ’80, come Charlie’s Angels, Starsky & Hutch, Miami Vice, sia<br />

serie più recenti, come Sex and the City. Nel caso di Up in the air di Jason Reitman, siamo in presenza di<br />

un film che si presterebbe al passaggio inverso.<br />

Iniziamo col dire che Up in the air è l’ennesimo esempio di quali risultati il cinema può raggiungere<br />

quando, nel raccontare l’attualità (in questo caso le conseguenze della recente crisi economica negli<br />

USA), sceglie di partire dalle storie private di persone comuni, anziché intraprendere la via del grande<br />

affresco con ambizioni sociali di ampio respiro. Grazie a un’ottima sceneggiatura (dello stesso<br />

Reitman e di Sheldon Turner), una regia che evita le banalizzazioni e si trattiene da ogni eccesso<br />

retorico, e l’interpretazione eccellente di George Clooney (e non solo), Up in the air ha gli stessi pregi di<br />

molte serie televisive americane, a partire appunto dalla capacità di mettere in scena, senza prediche e<br />

forzature ideologiche, la realtà contemporanea. Ma è soprattutto la caratterizzazione dei personaggi,<br />

tra le tante qualità del film, quella che colpisce di più. Tutti, dal protagonista ai comprimari, da quelli<br />

meglio tratteggiati a quelli appena abbozzati, sono portatori di una storia interessante, complessa,<br />

passibile e persino meritevole di essere sviluppata e approfondita. Uno dei maggiori meriti di alcune<br />

delle migliori serie televisive americane (da Twin Peaks a Sex and the City, da The Sopranos a Desperate<br />

Housewives) consiste nella capacità di intrecciare vicende di personaggi convincenti perché mai<br />

monolitici, ma incrinati dal conflitto, dall’ombra del dubbio, dalla precarietà con cui, nell’eterna ricerca<br />

della felicità, affrontano la quotidiana difficoltà di essere normali. A questo contribuisce non poco la<br />

possibilità (e, per certi versi, la necessità) di non costringere la complessità dei personaggi nel giro di<br />

una storia finita, ma di farla emergere, con aggiustamenti progressivi, lungo il corso degli episodi e delle<br />

serie.<br />

Le laceranti solitudini, i piccoli grandi drammi, ma anche le speranze e le attese di un futuro<br />

migliore, dei personaggi di Up in the air sono messe in scena con ritmi, modalità, sfumature degne della<br />

migliore serialità televisiva, senza cioè l’ambizione di chiuderle e imprigionarle nel cerchio di un<br />

racconto finito, ma giocando anzi a lasciare aperte le strade del possibile. Up in the air è insomma un<br />

film che sembra avere il respiro di una serie televisiva. Ed è un grande complimento, sia chiaro!<br />

4 – Occhi (ma non del cuore!) puntati su Boris<br />

GIOVANNI FICETOLA<br />

A parlare bene di Boris son capaci tutti. Se chi sta leggendo vuole questo, è meglio che smetta subito e<br />

cerchi su internet una delle centinaia di recensioni positive della fuoriserie italiana.<br />

Parlarne male è invece solo apparentemente più difficile. Chi scrive è un fan del serial italiano fin dalla<br />

prima stagione. Fan peraltro non disinteressato.<br />

Boris è una meta-fiction che racconta le storie della sgangherata troupe del regista René Ferretti,<br />

impegnato nelle riprese della fiction Occhi del cuore 2 inizialmente, e Medical Dimension nella terza stagione.<br />

Si tratta di una fiction che prova a criticare, attraverso gli strumenti della satira e della comicità,<br />

proprio il modo italiano di fare televisione e fiction. Eppure cade inevitabilmente (nonostante l’alta qualità<br />

registica e attoriale e l’estremo realismo delle vicende, che trasformano ciò che è commedia per il<br />

comune spettatore in dramma per l’addetto ai lavori) esattamente nei medesimi orrori che prova a<br />

mettere alla berlina. L’estrema ristrettezza del campo, della vicenda e l’assenza di respiro internazionale,<br />

che lo rende (a parafrasare uno degli slogan) totalmente italiano, producono un serial coraggioso ma mai<br />

davvero rivoluzionario. E forse è proprio in questa chiave di mea culpa che si inseriscono gli autori del<br />

70


serial con la terza (nella speranza di chi scrive ultima, anche se ultima doveva essere la seconda)<br />

stagione. Cercando l’innovazione della serie (e della meta-serie interna) falliscono miseramente<br />

nell’intento di satireggiare il mondo che li circonda. Si trasformano esattamente in ciò che<br />

bersagliavano, negli orrori televisivi che denunciavano e nei quali, non a caso, sono caduti alcuni degli<br />

attori interpreti della serie, che si sono prestati a Un medico in famiglia o ai Cesaroni.<br />

La trasformazione dei personaggi del serial in macchiette è l’apoteosi del percorso inverso a quello<br />

dichiarato, diventa l’apogeo dell’elogio della scarsa qualità piuttosto che la sua critica.<br />

Parafrasando il gag dello sceneggiatore pentito che dice ai nuovi autori: “Fermatevi alla terza stagione”,<br />

anche chi scrive dice a Ciarrapico & C.: “Fermatevi, per favore! Se siete veri autori tirate fuori una<br />

nuova idea, con la medesima virulenza della prima stagione di Boris.”<br />

Ma parlar male di Boris in Italia non è permesso.<br />

71


L’ULTIMA STANZA<br />

Dalla Russia con amore (letteralmente!)<br />

Nell’ultima stanza di questo numero trova spazio una curiosa lettera che ci è arrivata dalla Russia, e precisamente da<br />

Samara, a voler credere alla gentile signorina che la firma. Una lettera d’amore! Ebbene sì. Anche alla redazione della<br />

“Lanterna di Born” si può scrivere una lettera d’amore. Dalla Russia. Perciò: dalla Russia con amore. Battuta fin<br />

troppo facile e scontata, ma concedetecela: in fondo siamo tutti inguaribili cinefili, qui dentro…<br />

La lettera in questione era indirizzata a un certo “Davide”, il che ci ha messi subito sull’attenti, dato che effettivamente<br />

abbiamo un Davide tra i collaboratori. Trattasi ovviamente del buon Davide Gazzaniga, di cui trovate un piccolo ma<br />

gustoso contributo proprio su questo numero. Che fare? Aprire la e-mail indirizzata a Davide o non aprirla e girargliela<br />

così com’è? Dopo lunghe meditazioni (circa 20 secondi…) abbiamo deciso di aprirla. In fondo, la e-mail è stata inviata a<br />

lanternadiborn@libero.it, perciò è da intendersi destinata agli occhi dell’intera redazione, e soprattutto del direttore…<br />

Questa la giustificazione morale che ci siamo dati. In realtà, era troppa la curiosità perché potessimo resisterle.<br />

E ora, senza indugi, ecco il testo, “dalla Russia con amore”.<br />

Ciao Davide,<br />

Trust - la base di ogni rapporto! sempre si dispone di un rapporto? Sono interessato a sapere di<br />

questo… Tu non sei l’unico uomo al quale ho scritto una lettera. Sarò sincero con voi e spero che non<br />

mentire a me. I tuoi amici ti chiamano “Davide"” o si preferisce fare. di effettuare una chiamata in altro<br />

modo? Il mio nome è Arina. Ti ricordi di me? Non avevo mai utilizzato Internet per fare conoscenza<br />

con gli altri uomini. Internet non è credibile per me, ma io sono stanca di essere sola ...<br />

Ora sono 29 anni. La mia altezza è di 1,65 metri e pesa 50 kg. Guardando le mie foto si può apprezzare<br />

la mia bellezza fisica. Ma io sono solo. Uomini con i quali so che non mi attrae, sono tutti noiosi.<br />

Voglio incontrare l’uomo che amava! Voglio i tuoi altra metà! Ho fiducia. Sono convinto che ci sono<br />

uomini che sapranno apprezzare e amare me. In Russia, ho incontrato un uomo che sarà mio marito.<br />

Sei sorpreso? I live in Russia! Ora devo avere un senso - quello della curiosità. Sono interessato a<br />

proseguire la conoscenza con voi, e spero che la mia lettera non sarebbe stata l'ultima nella nostra<br />

comunicazione... Proprio da dove ho conosciuto la tua e-mail. Così mi disse il mio<br />

amica. Chiamare un agenzia di dating. ha incontrato un uomo. vive con uomini italiani. Non passò<br />

molto tempo tornato da Italia. Visualizzare le foto. Ben presto si sposerà. Io non sono mai stati sposati.<br />

Io non ho figli. Ora dedico al lavoro. Ho già raggiunto un grande. Ero abituato a fissare obiettivi e<br />

raggiungerli.. Attualmente sto lavorando su un lavoro di prestigio. Ho una formazione universitaria.<br />

Sono andato attraverso un percorso difficile, ma io sono fiero. Davide, io sono una donna comune. Io<br />

sogno di felicità di una donna normale. Voglio creare una famiglia. Voglio aspettare il marito dal<br />

lavoro e la cena cucinare per tutta la famiglia. Vorrei che lei e suo marito, piano per il futuro. Questa è<br />

una cosa che mi manca qui. Russia un grande paese, vivono qui tutti i tipi di persone. Molte delle mie<br />

amiche già sposato. Sono sicuro che lei e alcuni amici hanno già una famiglia. Siamo soli, e penso che<br />

dovremmo cercare di unirsi a noi. Non voglio che la mia offerta di mostrarvi la volgare.<br />

Voglio chiarire, e voglio farvi conoscere il mio ordine. Io sono abituato a trattare in realtà, non ho mai<br />

scritto lettere ... Non è una lettura rigorosa della mia lettera. Il mio italiano non è perfetto ... Tempo fa,<br />

quando ho studiato presso l’Istituto, ho dato un sacco di tempo all'apprendimento della<br />

lingua italiana. Ho portato via scrivendo lettere a voi ... Non ho mai pensato che avrei potuto scrivere<br />

72


tali lettere, più un uomo che non sa. Davide, spero che non dispiace per il tempo trascorso per leggere<br />

la mia lettera... Spero che il fatto che tra l’età avremo alcun problema a comunicare ulteriori. Mi aspetto<br />

che lei non potrà ignorare la mia lettera, e mi risponde.<br />

Cordiali saluti, Arina<br />

Nota bene: il testo non è stato corretto in nessun modo e in nessun punto. Abbiamo fatto un semplice “copia e incolla”<br />

dalla e-mail alla pagina. E attenzione: non per offendere o umiliare la ragazza che firma la lettera, il cui italiano è<br />

ovviamente ben lungi dall’essere perfetto… Questa lettera è a suo modo un documento, per cui correggerlo non avrebbe<br />

avuto alcun senso. Lo pubblichiamo perché – nelle settimane scorse – su diverse riviste (soprattutto settimanali) si è<br />

parlato molto di lettere come questa, con tanto di casi di uomini che sono cascati nella trappola e, convinti di organizzarsi<br />

il matrimonio con la bella firmataria della lettera, hanno inviato soldi dietro precisa richiesta… Richiesta che ovviamente<br />

arriva solo dopo uno scambio di e-mail, il che perlomeno denota che dietro alle lettere ci sono delle persone in carne ed ossa<br />

che ragionano, rispondono e imbrogliano. Il tutto, inviando fotografie in allegato ad ogni e-mail. Ce n’erano due anche in<br />

allegato alla lettera da noi pubblicata, ma ovviamente non le metteremo in pagina.<br />

Che dire, cara “Arina” di Samara, in Russia?<br />

Anzitutto, grazie per averci fatto fare due sane risate, che non fanno mai male.<br />

Poi, una domanda: ma come cavolo avete fatto, a Samara in Russia, a pizzicare l’indirizzo della “Lanterna di Born”?<br />

E perché inviare una e-mail all’attenzione di “Davide”? Il nostro collega, appena l’ha saputo, ha naturalmente gonfiato il<br />

petto: “Visto?” ci ha detto. “Sono sempre io il più fascinoso!”<br />

Adesso chissà per quanto andrà avanti con questa tiritera…<br />

Cari lettori, abbiamo voluto condividere con voi questa bizzarra, goffa e a suo modo persino tenera lettera per chiudere il<br />

numero (molto impegnativo, invero, tra Ballard e Cronenberg!) con un sorriso e una curiosità “leggera”, per una volta, e<br />

soprattutto… anti-letteraria!<br />

Perché, con tutto il bene che si può volere ad “Arina”, la sua lettera non sarà in russo ma non è neppure in italiano.<br />

Ah, questi traduttori simultanei! Ah, questi dizionari on-line, che ti suggeriscono frasi come “sempre si dispone di un<br />

rapporto” (?), “effettuare una chiamata in un altro modo” (??), “vorrei che lei e suo marito, piano per il futuro” (???).<br />

Insomma, la lettera di “Arina”, nella sua elettronica goffaggine, sembra un testo espressionista di quelli estremi!<br />

Chissà se tra di voi, cari lettori, alcuni hanno ricevuto lettere come questa (o magari proprio questa!).<br />

Nel caso, questa “ultima stanza” un po’ diversa dal solito valga come monito – anche se non necessario – circa i tanti<br />

furbacchioni che si aggirano per il Web… Oddio, anche noi della “Lanterna” siamo dei furbacchioni a spasso per la<br />

Rete! Ma tra un furbacchione che mira a spillar quattrini e uno che, in fondo, non fa che offrire un po’ di letteratura e un<br />

po’ di cinema, chi scegliereste?<br />

E con questo amletico dubbio, vi salutiamo e vi ringraziamo!<br />

Grazie anche a te, “Arina” da Samara, Russia.<br />

Con amore.<br />

73


(dalla prima)<br />

… il 19 aprile dell’anno scorso. A un anno esatto<br />

dalla sua scomparsa, dunque, dopo alcuni mesi<br />

passati a rileggere le sue opere, a rifletterci sopra e<br />

a scrivere i contributi critici che potete leggere su<br />

questo numero, abbiamo deciso di dedicargli un<br />

doveroso tributo con le sole “armi” di cui<br />

disponiamo: la passione per la letteratura e la<br />

voglia inesausta di porci domande e di cercare le<br />

affascinanti connessioni tra la letteratura e il reale,<br />

tra la scrittura e il mondo. Perché la letteratura<br />

non è un “corpo estraneo” che non ha niente a<br />

che vedere con il mondo “esterno”. Al contrario,<br />

noi siamo convinti che la letteratura possa ancora<br />

raccontare il mondo, rivelandone le meccaniche<br />

segrete e inquietanti (come fa Ballard), e che<br />

possa ancora dirci, su noi stessi, su questa<br />

particolare razza di bipedi che presume di<br />

dominare il pianeta su cui abita, molto più di<br />

quanto possano dire altre discipline.<br />

Nessun intento polemico, intendiamoci. Il nostro<br />

sentito tributo a James Ballard, completato da<br />

un’intersezione con il cinema di David<br />

Cronenberg, il più ballardiano dei registi, non<br />

nasce come contrapposizione ad altro. Nasce per<br />

la sincera ammirazione che chi scrive ha sempre<br />

nutrito per questo grande scrittore, fin dalla<br />

scoperta dei suoi primi libri. Se riusciremo, con<br />

questo numero e, soprattutto, con i due racconti<br />

di Ballard che vi pubblichiamo, a interessare<br />

anche solo qualcuno di voi lettori all’opera di<br />

questo importantissimo Autore, ci dichiareremo<br />

più che soddisfatti. Perché il nostro intento di<br />

base, al di là delle elucubrazioni critiche e del<br />

piacere che proviamo ad elaborarle e a sottoporle<br />

al vostro acuto giudizio, rimane quello di<br />

diffondere la letteratura e di far parlare di essa<br />

esattamente come si parla di sport, di cinema, di<br />

politica, di società, di costume e di spettacolo. La<br />

nostra è e resta una visione estremamente<br />

“normale” della letteratura. Non la osanniamo e<br />

non la anteponiamo forzatamente a nulla, e<br />

soprattutto non la scagliamo addosso a nessuno<br />

come se fosse un anatema; noi la proponiamo, la<br />

rinverdiamo, la suggeriamo, la offriamo.<br />

Non c’è bisogno di esaltare la letteratura; essa si<br />

esalta da sé, senza alcun bisogno di grancasse o di<br />

retoriche insistenze. Per questo, vi lascio<br />

volentieri a Ballard e alla sua cartesiana e<br />

profondissima scrittura, con un’unica avvertenza<br />

(del resto scontata): su questo numero, tra saggi e<br />

74<br />

testi ballardiani, è rappresentata una minima parte<br />

della produzione dello scrittore inglese. Vi<br />

proponiamo due racconti folgoranti, che valgano<br />

come “antipasto” ad un pranzo ben più ricco che,<br />

se vorrete, potrete servirvi in tavola cercando i<br />

libri di Ballard, scoprendoli sugli scaffali delle<br />

librerie o delle biblioteche. Credetemi: nulla è<br />

appagante come la scoperta di un Autore, la<br />

ricerca dei suoi lavori, la lettura cadenzata – uno<br />

dopo l’altro – dei suoi libri, ciascuno dei quali<br />

rappresenta un’acquisizione di coscienza, un altro<br />

passo verso la conoscenza di un universo di<br />

pensiero e di sentimenti.<br />

Pochi scrittori hanno saputo dare del ‘900<br />

un’immagine vivida e inquietante come quella che<br />

esce dalle pagine di Ballard. Io mi fermo qui:<br />

ovviamente, il resto del giudizio spetta a voi<br />

lettori. Ci auguriamo di avervi fornito, con questo<br />

numero della “Lanterna”, una interessante chiave<br />

per schiudere il mondo ballardiano, la cui<br />

esplorazione – per chi vorrà – dovrà poi<br />

proseguire individualmente, secondo i ritmi e la<br />

sensibilità di ciascuno.<br />

Su un’altra novità, del resto adeguatamente<br />

introdotta nel corpo della rivista, vorrei<br />

soffermarmi un attimo, prima di salutarvi. Una<br />

nuova sezione, intitolata “(e)spunti”, si inaugura<br />

su questo numero: brevi colpi d’occhio su temi<br />

letterari e non, su usi e costumi dell’oggi, su<br />

dibattiti aperti o dimenticati, insomma su ogni<br />

argomento che ci passi per la testa e che possa<br />

avere un minimo d’interesse, pur senza meritarsi<br />

una trattazione più ampia. Un modo, se vogliamo,<br />

per aumentare gli spunti di riflessione e di<br />

dibattito presenti sulla “Lanterna di Born”, senza<br />

infliggervi lunghe trattazioni che non avrebbero<br />

sufficiente ragion d’essere. Non c’è niente di<br />

peggio del burro spalmato su una fetta di pane<br />

troppo grande, da cui l’idea di ridurre le<br />

dimensioni della fetta di pane…<br />

E allora non mi resta che augurarvi buona lettura<br />

con Ballard, con Cronenberg, con le nostre nuove<br />

“tartine” imburrate (speriamo a dovere), e con<br />

l’immancabile critica cinematografica, che vede<br />

tra gli altri due articoli “rubacchiati” dal<br />

misterioso sito del nostro collaboratore più<br />

misterioso, quel <strong>Giovanni</strong> <strong>Ficetola</strong> di cui non si<br />

discutono l’intelligenza e la preparazione.<br />

Casomai, se ne discute l’esistenza…<br />

Grazie a tutti, e alla prossima.<br />

Matteo Fontana


L’invio via e-mail di questa rivista è gratuito e opzionale. La rivista non contiene informazioni o proposte<br />

commerciali di alcun genere. Potete richiedere di essere esclusi da successivi invii mandando una e-mail a<br />

lanternadiborn@libero.it con oggetto: Richiesta di cancellazione.<br />

Sulla Bellezza<br />

«O Bellezza, genio benefico della natura!<br />

Ove mostri l’amabile tuo sorriso scherza la<br />

gioja, e si diffonde la voluttà per eternare la<br />

vita dell’universo: chi non ti conosce e non<br />

ti sente incresca al mondo e a sé stesso. Ma<br />

quando la virtù ti rende più cara, e le<br />

sventure, togliendoti la baldanza e la invidia<br />

della felicità, ti mostrano ai mortali co’ crini<br />

sparsi e privi delle allegre ghirlande - chi è<br />

colui che può passarti davanti e non altro<br />

offrirti che un’inutile occhiata di<br />

compassione?»<br />

(Ugo Foscolo,<br />

“Ultime lettere di Jacopo Ortis”)<br />

La lanterna di Born<br />

Numero 6 Fascicolo 36-40 Aprile 2010<br />

Direttore<br />

Matteo Fontana<br />

Hanno collaborato a questo numero<br />

Davide Gazzaniga, William S.Burroughs, James G. Ballard<br />

E’ possibile inviare lettere, commenti, riflessioni, come anche articoli, saggi o racconti,<br />

che possono legittimamente aspirare alla pubblicazione, scrivendo a:<br />

lanternadiborn@libero.it<br />

IN COPERTINA<br />

Le dimensioni del quadro di Max Ernst riprodotto in copertina sono state modificate per esigenze grafiche.<br />

Le reali dimensioni della tela sono cm. 108 x 141<br />

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