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ma camminava sicura e spedita senza tanto guardarsi<br />
attorno. Eppure dentro di sé era un vulcano in<br />
eruzione che vomitava tutto quello aveva tenuto<br />
dentro da troppo tempo. Quel giorno le sembrava<br />
diverso, nuovo e sereno nonostante i nuvoloni<br />
macchiassero il cielo e nascondessero continuamente<br />
il sole. Ad un certo punto guardò l’orologio e fu<br />
scossa dal pensiero di arrivare in ritardo perchè non<br />
voleva farli aspettare. Eccoli! Come sempre<br />
affollavano il bar prima di rientrare e di darsi il<br />
cambio. Si avvicinò ai giovani soldati perché sapeva<br />
che la stavano aspettando e che le avrebbero lanciato<br />
languidi sguardi e complici sorrisi. Lei, come loro,<br />
conosceva l’odore della guerra, il sapore del sangue,<br />
lo sguardo dei nemici da uccidere, la tragedia dei<br />
sopravvissuti, la disperazione di chi ha perso la casa,<br />
la gente del suo sangue, i sogni dell’infanzia… il<br />
proprio futuro.<br />
Il giorno dopo i giornali riportarono la foto di una<br />
giovane ragazza senza trecce e con grandi occhi neri e<br />
docili: indossava una tuta blu con un nastro verde<br />
annodato sulla fronte. Il suo nome era Fatima<br />
Radwan ed era l’autrice dell’attentato che aveva<br />
ucciso sette giovani soldati e ferito altre dodici<br />
persone. L’articolo spiegava che era figlia del<br />
miliziano Khaled Radwan, catturato durante una<br />
missione segreta, e ucciso durante un dubbio<br />
tentativo di fuga dal carcere. Era inoltre vicina di casa<br />
di un’altra martire di Jabalya, morta anni addietro in<br />
un altro attentato.<br />
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