L'ultima birra e andiamo a casa (forse) (.pdf) - Maurizio Ferrarotti
L'ultima birra e andiamo a casa (forse) (.pdf) - Maurizio Ferrarotti L'ultima birra e andiamo a casa (forse) (.pdf) - Maurizio Ferrarotti
I messicani potrebbero essere considerati bárbaros soltanto in un romanzo di fantascienza ucronica in cui gli ellenici fossero approdati in America Centrale diciassette secoli prima di Colombo. Eppure la moda delle birre lager leggere messicane, letteralmente esplosa in Europa al principio degli anni Novanta, possiede tutte le connotazioni di un’invasione barbarica: fulminea, spiazzante, devastante. Nel momento in cui un tale Saddam Hussein saliva prepotentemente alla ribalta delle cronache mondiali minacciando e infine invadendo il Kuwait, Torino conosceva un’improvvisa fioritura di luoghi all’aperto dove bere e sbocconcellare qualcosa. Il più trendy (parola maledetta ma efficiente) era l’Ippopotamo, che si stendeva sull’area dell’ex giardino zoologico. Nelle serate più calde ci si stava da favola. Serbo un’infinità di ricordi di quella stagione. Ecco la Top Three: 1. “L’Ippopotamo sta per chiudendo”. Frase pronunciata da una certa Esther. Eravamo in un altro locale all’aperto, Le Terrazze sul Po, e qualcuno aveva proposto di spostarci all’ex zoo. 2. Il treno di Corona’s che trincai in una sera senza pagarne neanche una fottuta bottiglia, complice un barista malato di rock’n’roll originario di Imperia che era entrato a far parte della nostra eterogenea combriccola. 3. Il sottoscritto, ebbro di spirito e di allegria, sventolando una bandiera granata per tutto il giardino: il Toro aveva appena vinto la Coppa Italia 1993 in una finale agonica. Soltanto all’Ippopotamo la Corona Extra andava via ad autobotti. Esagero, ma mica tanto. Ora il consumo è sensibilmente calato. Fashion, turn to the left, fashion, turn to the right. In ogni caso è una birra leggera, fresca, dissetante: niente più, niente meno. Il rituale della fettina di limone nel catacretico collo della bottiglia fa arricciare il naso ai puristi birraioli, ma per quanto mi riguarda una Corona in particolari occasioni ci sta bene, “fa fine e non impegna”, soprattutto in riva a un oceano sotto la canicola. Un’altra birra messicana di gran fama è la Dos Equis, originariamente fabbricata dal birraio tedesco Wilhelm Hasse nel 1897. Io mi riferisco sempre a essa come la cerveza del restaurante, poiché mi capita di berne, e tanta, soltanto quando mangio messicano. Nella seconda metà degli anni Novanta m’innamorai di un locale, il Centenario, dall’ottima cucina texmex e cocktail preparati con amorevolezza – se desiderate incollarmi al 62
vostro bancone fino alla fine del mondo, fatemi un’ottima tequila sunrise. Non tutti i barman ne sono capaci, purtroppo. In Spagna, fino a una decina d’anni fa, ero assiduo cliente della Cantina Mariachi. Vado pazzo per il mole poblano, le patatas charras e il dulce de caramelo. Al Mariachi di Calle Simon Bolivar, Bilbao, devono avere tuttora le nostre foto segnaletiche attaccate con le puntine dietro la cassa: là dentro ci riducevamo sempre come delle pezze d’alcol. Una volta ero così ben combinato che uscendo battei una capocciata tremenda contro la serranda semiabbassata. Un’altra scolammo un’intera bottiglia di mescal dando spettacolo per il locale come i Muppets: toccandone a me l’ultimo sorso, avrei dovuto ingoiare il gusanito, ma mi rifiutai categoricamente. “Non sai cosa ti perdi”, mi biasimò Luca, il nostro compare piemontese trapiantato in Euskadi, dopodiché lo mandò giù proprio come facevano quei veterani del Vietnam in sedia a rotelle nel film Nato il 4 di luglio. Una leggenda azteca racconta che una dea si era innamorata di un mortale ma non poteva fare l’amore con lui proprio perché non era come lei, allora ella creò un liquore dalle foglie della pianta più arida e sterile, l’agave, lo fece bere al suo innamorato e lui divenne un dio. Pazienza, sto bene anche solo con la saggezza del salmone irlandese. Foto segnaletiche, ho scritto. Qualche tempo dopo la serata del mescal ci ripresentammo alla Cantina Mariachi per un’altra strippata, ma appena entrati fummo stoppati dalla gestrice, espressione severa e pugni serrati: “Chicos, io vi faccio entrare a mangiare, però pretendo che non ripetiate il casino della volta scorsa. Questo è un ristorante, non un bar de barrio.” A sus ordenes, Doña Carmen. 63
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di fantascienza ucronica in cui gli ellenici fossero approdati in America<br />
Centrale diciassette secoli prima di Colombo. Eppure la moda delle birre<br />
lager leggere messicane, letteralmente esplosa in Europa al principio degli<br />
anni Novanta, possiede tutte le connotazioni di un’invasione barbarica:<br />
fulminea, spiazzante, devastante.<br />
Nel momento in cui un tale Saddam Hussein saliva prepotentemente alla<br />
ribalta delle cronache mondiali minacciando e infine invadendo il Kuwait,<br />
Torino conosceva un’improvvisa fioritura di luoghi all’aperto dove bere e<br />
sbocconcellare qualcosa. Il più trendy (parola maledetta ma efficiente) era<br />
l’Ippopotamo, che si stendeva sull’area dell’ex giardino zoologico. Nelle<br />
serate più calde ci si stava da favola. Serbo un’infinità di ricordi di quella<br />
stagione. Ecco la Top Three:<br />
1. “L’Ippopotamo sta per chiudendo”. Frase pronunciata da una certa<br />
Esther. Eravamo in un altro locale all’aperto, Le Terrazze sul Po, e<br />
qualcuno aveva proposto di spostarci all’ex zoo.<br />
2. Il treno di Corona’s che trincai in una sera senza pagarne neanche una<br />
fottuta bottiglia, complice un barista malato di rock’n’roll originario di<br />
Imperia che era entrato a far parte della nostra eterogenea combriccola.<br />
3. Il sottoscritto, ebbro di spirito e di allegria, sventolando una bandiera<br />
granata per tutto il giardino: il Toro aveva appena vinto la Coppa Italia<br />
1993 in una finale agonica.<br />
Soltanto all’Ippopotamo la Corona Extra andava via ad autobotti. Esagero,<br />
ma mica tanto. Ora il consumo è sensibilmente calato. Fashion, turn to the<br />
left, fashion, turn to the right. In ogni caso è una <strong>birra</strong> leggera, fresca,<br />
dissetante: niente più, niente meno. Il rituale della fettina di limone nel<br />
catacretico collo della bottiglia fa arricciare il naso ai puristi <strong>birra</strong>ioli, ma<br />
per quanto mi riguarda una Corona in particolari occasioni ci sta bene, “fa<br />
fine e non impegna”, soprattutto in riva a un oceano sotto la canicola.<br />
Un’altra <strong>birra</strong> messicana di gran fama è la Dos Equis, originariamente<br />
fabbricata dal <strong>birra</strong>io tedesco Wilhelm Hasse nel 1897. Io mi riferisco<br />
sempre a essa come la cerveza del restaurante, poiché mi capita di berne,<br />
e tanta, soltanto quando mangio messicano. Nella seconda metà degli anni<br />
Novanta m’innamorai di un locale, il Centenario, dall’ottima cucina texmex<br />
e cocktail preparati con amorevolezza – se desiderate incollarmi al<br />
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