L'ultima birra e andiamo a casa (forse) (.pdf) - Maurizio Ferrarotti
L'ultima birra e andiamo a casa (forse) (.pdf) - Maurizio Ferrarotti L'ultima birra e andiamo a casa (forse) (.pdf) - Maurizio Ferrarotti
Le origini della celebre festa di San Fermín, o Sanfermines, risalgono al Medioevo. Fermín era il figlio di un governatore di Pamplona convertitosi al Cristianesimo; egli partì per diffondere la parola di Cristo in Gallia, ma ad Amiens fu imprigionato e poi decapitato. A partire dal 1591 il 7 luglio gli è stato dedicato. Nello stesso giorno, alle dieci del mattino, una statua lignea del XV secolo raffigurante il santo patrono della Nafarroa e di Pamplona-Iruñea viene portata in processione attraverso la città. Se qualcuno sulla terra nutrisse ancora qualche dubbio, San Fermín è una festa chiassosa e ad altissimo tasso alcolico. I combattimenti dei tori si svolgono ogni giorno alle 18.30, dal 7 al 14 luglio. Ogni mattina, i tori sono lasciati liberi dai Coralillos de Santo Domingo e da lì si scatenano caricando attraverso l’omonima piazza. Il percorso che li conduce fino all’arena comprende Calle de los Mercaderes e Calle de la Estafeta, ed è proprio qui che generalmente si concentrano tutti coloro che intendono correre con essi cercando di avvicinarli il più possibile; taluni arrivano perfino a colpirli in testa con dei giornali arrotolati! Una festa che ha parecchio in comune con San Fermín, poiché anch’essa prevede la liberazione di bovini cornuti per le strade della città, è la Fête de Bayonne, l’affascinante capoluogo della provincia basco-francese di Labour (Lapurdi o Laburdi). Essa inizia il primo mercoledì sera del mese di agosto e dura cinque giorni. È il Re Léon, alle ore 22 dal balcone del Municipio, a dare inizio ai bagordi. Il 4 agosto a Vitoria-Gasteiz, alle sei del pomeriggio, il sindaco spara il chupinazo (grosso petardo il cui scoppio annuncia l’inizio ufficiale della cagnara) e un fantoccio nominato Celedón, vestito come i contadini che un tempo scendevano giù in città per far festa, viene fatto discendere da una torre della chiesa di San Miguel fin giù nella piazza della Virgen Blanca, stracolma di festanti… dopodiché è tutto uno spruzzarsi reciprocamente di spumante. La prima volta che andai a Vitoria-Gasteiz per la festa della Virgen Blanca fu nel 1994. Era un classico pomeriggio basco estivo senza sole col cielo color ricotta e io volevo scattare un paio di rullini con la mia nuova Minolta Dynax. Avevo appena parcheggiato la mia Tipo in una kalea vicino al centro quando fui circondato da una masnada di zingarelli assillanti. Il più alto mi arrivava a malapena al mento, ma erano in molti, se ricordo bene una decina, tutti stracciati e maldisposti. Quando trent’anni fa percorrevi in solitudine una strada di periferia e all’improvviso ti si paravano davanti quattro ceffi col caschetto alla Ramones – a prescindere che adorassi quella band – e le magliette sdrucite, già sapevi che di lì a 48
poco la faccia più di merda del gruppo, il capetto, ti avrebbe chiesto di dargli il portafoglio o gli stivali, o tutt’e due. Allora potevi giocartela in qualche maniera. Ma con pischelli di dieci anni, massimo dodici... che cazzo vuoi prevedere? Cadono tutte le regole. Magari di punto in bianco ti spruzzano in faccia del narcotico e ti risvegli in un lurido sottoscala del Casco Viejo senza un rene. O con un palo ficcato nel sedere. Comunque sia riuscii a liberarmi di quei piccoli bastardi a colpi di pseudo kung fu e ceffoni. Ah, la Semana Grande Donostiarra: il mio battesimo del fuoco alcolico in Vasconia. Ero rimasto alla volpe scuoiata. Al terzo giorno di bagordi ne indossavo la pelle con disinvoltura, come una bagasciona d’alto bordo. Di tanto in tanto io e l’amico Vito ci perdevamo di vista. Il nostro punto di riferimento era comunque la taverna Arrai-Txiki, un posto che oggi non esiste più e che allora era gestito da Julio, un fenomeno d’essere umano di cui perfino i conoscenti più intimi disconoscevano le origini (“È un po’ basco-navarro, un po’ andaluso, un po’ nonsoché!”). Da lì ripartivamo a spolverarci tutti i bar della Parte Vieja. Qualche volta ci ricordavamo di mangiare (in una città la cui cucina è tra le migliori di tutta la Spagna) e di stimolare la sintesi di vitamina D nei nostri corpicini pallidi prendendo il sole, quando e se si degnava di apparire tra un piovasco e l’altro, sulle bellissime spiagge donostiarras. Il quarto giorno conobbi la questione politica basca. Io e Vito stavamo bevendo la milionesima birra al Bar Bulevar, presso l’Ayuntamiento. Ero già stato edotto che quello era il Día de la Bandiera – momento critico delle più importanti feste basche in cui gli abertzales (“patrioti”) assaltano l’edificio del Comune, ne strappano la bandiera spagnola, la bruciano e la sostituiscono con l’ikurriña, la bandiera basca. Ma quella sera la polizia autonoma basca, l’Ertzaintza, era schierata in forze e ricacciò indietro i manifestanti separatisti sparando palle di gomma. Noi finimmo presi in mezzo al parapiglia e una pelota saettò fischiando a poco più di un palmo dalla mia testolina allora zazzeruta. Mentre cercavamo scampo dietro a un’automobile parcheggiata, due paninari inglesi, che fino allo scoppio del putiferio stavano facendo classico people watching nel dehors del Bulevar, s’incazzarono di brutto. “You bloody bobbies!” esclamò uno dei due, un biondino pettinato alla Rick Astley. L’altro, sorta di Nick Kamen dell’East End, afferrò una sedia e la scagliò addosso agli sbirri: pochissimo dopo, 49
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Casco Viejo senza un rene. O con un palo ficcato nel sedere. Comunque<br />
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tanto in tanto io e l’amico Vito ci perdevamo di vista. Il nostro punto di<br />
riferimento era comunque la taverna Arrai-Txiki, un posto che oggi non<br />
esiste più e che allora era gestito da Julio, un fenomeno d’essere umano di<br />
cui perfino i conoscenti più intimi disconoscevano le origini (“È un po’<br />
basco-navarro, un po’ andaluso, un po’ nonsoché!”). Da lì ripartivamo a<br />
spolverarci tutti i bar della Parte Vieja. Qualche volta ci ricordavamo di<br />
mangiare (in una città la cui cucina è tra le migliori di tutta la Spagna) e di<br />
stimolare la sintesi di vitamina D nei nostri corpicini pallidi prendendo il<br />
sole, quando e se si degnava di apparire tra un piovasco e l’altro, sulle<br />
bellissime spiagge donostiarras.<br />
Il quarto giorno conobbi la questione politica basca. Io e Vito stavamo<br />
bevendo la milionesima <strong>birra</strong> al Bar Bulevar, presso l’Ayuntamiento. Ero<br />
già stato edotto che quello era il Día de la Bandiera – momento critico<br />
delle più importanti feste basche in cui gli abertzales (“patrioti”) assaltano<br />
l’edificio del Comune, ne strappano la bandiera spagnola, la bruciano e la<br />
sostituiscono con l’ikurriña, la bandiera basca. Ma quella sera la polizia<br />
autonoma basca, l’Ertzaintza, era schierata in forze e ricacciò indietro i<br />
manifestanti separatisti sparando palle di gomma. Noi finimmo presi in<br />
mezzo al parapiglia e una pelota saettò fischiando a poco più di un palmo<br />
dalla mia testolina allora zazzeruta. Mentre cercavamo scampo dietro a<br />
un’automobile parcheggiata, due paninari inglesi, che fino allo scoppio del<br />
putiferio stavano facendo classico people watching nel dehors del Bulevar,<br />
s’incazzarono di brutto. “You bloody bobbies!” esclamò uno dei due, un<br />
biondino pettinato alla Rick Astley. L’altro, sorta di Nick Kamen dell’East<br />
End, afferrò una sedia e la scagliò addosso agli sbirri: pochissimo dopo,<br />
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