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L'ultima birra e andiamo a casa (forse) (.pdf) - Maurizio Ferrarotti

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delle due tribune laterali. Il compianto Steve Ray Vaughan sfoggiò tutta la<br />

sua titanica tecnica strumentale – se qualcuno non lo sapesse, quelle fluide<br />

parti solistiche di chitarra in China Girl di David Bowie sono opera sua. A<br />

prescindere che di quella canzone io preferisco di gran lunga la versione<br />

tragica che ne offre Iggy Pop in The Idiot. Comunque sia Steve Ray lasciò<br />

il palco tra gli applausi del non foltissimo pubblico e vi salirono i Pogues<br />

recando tutto il loro composito strumentario. Per allora io mi ero già<br />

scolato due belle medie nere e mi accingevo ad attaccare la terza. “Figa,<br />

Pogues deriva da pogue mahone, che in gaelico significa baciami il culo”<br />

si sentì in dovere di chiosare una rossa occhialuta e mingherlina seduta<br />

alla mia destra. Shane McGowan non era ancora quell’ubriacone lacero e<br />

gracchiante che avrei compatito sedici anni dopo al Torino Traffic Festival<br />

e il concerto fu molto divertente. Fiesta, l’epitome del loro stile scomposto<br />

e festaiolo, scatenò le danze in tutto il palazzetto. Dei Los Lobos ascoltai<br />

soltanto due canzoni, poi volai come l’Enterprise a prendere l’ultima corsa<br />

della metropolitana per la stazione ferroviaria di Milano Centrale. Ero già<br />

appagato così.<br />

Rividi i Pogues altre due volte, sempre a Milano ma al Rolling Stone e a<br />

Torino in Piazza D’Armi sotto un tendone. In quest’ultima occasione io i<br />

miei amici e vari altri spettatori ebbri ci lanciammo in un “trenino” come<br />

neanche in quelle feste di Capodanno con la compilation di Jorge Ben<br />

suonata a volume spaccatimpani che fanno la prosperità dei rivenditori<br />

d’armi automatiche. Poche settimane dopo c’imbarcammo in quattro a Le<br />

Havre per la terra di San Patrizio.<br />

Thousand are sailing across the Western Ocean. In quel viaggio io diedi il<br />

meglio (o il peggio) di me stesso. Cominciammo a bere Guinness e Jack<br />

Daniel’s nel bar ristorante del ferry-boat fin dal tardo pomeriggio. Verso le<br />

nove di sera salì in pedana un tipico gruppo da pub e noi eravamo già<br />

ciucchi come delle biglie. Come se non bastasse stringemmo amicizia con<br />

un fulminato d’irlandese segaligno (Liam, mi sembra si chiamasse: un<br />

classico) e dopo innumerevoli rondas d’ogni bevanda esistente su questa<br />

terra e perfino un brindisi all’I.R.A. e a Bobby Sands finimmo a cantare<br />

tutti in coro House of the Rising Sun come dei coyote con la raucedine. Poi<br />

ci disperdemmo partendo ognuno per la propria tangente etilica. Io andai<br />

fuori a tentare di ripigliarmi con l’aria salmastra e qualche sigaretta, ma il<br />

beccheggio del naviglio peggiorò repentinamente la condizione. Allora<br />

rientrai andandomi a raggomitolare su una poltroncina in ultima fila nel<br />

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