L'ultima birra e andiamo a casa (forse) (.pdf) - Maurizio Ferrarotti

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21.05.2013 Views

occa. “Ma sei nuda?” Una mano pienotta mi piomba sulla bocca. “Zitto.” L’altra, sottrattami alla visione precaria dalla schiena inarcata della squinzia, me lo afferra; in un istante, mi accorgo di averlo duro come mai è stato. “E stai giù tranquillo. Anche i miei torneranno tardi, mooolto tardi. Penso a tutto io.” Effettivamente. Poco prima di abbandonarmi alla prima scopata della mia vita, non posso fare a meno di chiedermi: “Sarà mica che anche questa qui lo usa come cera di cupra?” Per i posteri morbosi, come collutorio… Com’è naturale, negli anni immediatamente successivi al mio farraginoso ingresso nella “società degli uomini” mi si aprirono nuovissimi frizzanti orizzonti. Divenni giovane ancorché saltuario cliente di diverse birrerie torinesi (una su tutte, la Rosselli, situata nell’omonimo corso e tuttora funzionante) e assaggiai altre bevande, tra le quali: – Moretti. Birra artigianale rinomata in tutto il mondo fatta con acqua pura e grano mietuto nei dintorni di Udine, dove Luigi Moretti fondò la sua fabbrica nel 1859. Luminosa, rinfrescante e, soprattutto, molto economica. E io ai tempi non è che navigassi nel grano… pardon, nell’oro. – Budweiser. È una lager 100% naturale prodotta con una mistura di riso e orzo che ha un contenuto alcolico del 5%. Negli Stati Uniti è un’istituzione, nettamente la marca più popolare. La lager beer è un beveraggio leggero e spumeggiante che prende il suo nome dal tedesco lagern, che significa “immagazzinare”. Nel 600 i monaci scoprirono che la loro birra d’estate si manteneva meglio se conservata in fresche grotte di montagna, e che si addolciva rimanendovi per un tempo. La pratica di invecchiare la birra si sviluppò da quella scoperta. E bravi i nostri Fratelli birraioli. – Abbaye Bonne Espérance. I belgi sono grandi produttori di birra, tanto per la qualità quanto per la varietà e quantità di bevande che elaborano. Quantunque a volte si dedichino a produrre birre ad alta gradazione e con un carattere corposo, quasi vicino al vino. Come la Abbaye Bonne Esperance, una ale (definizione generica per le birre a fermentazione alta) di abbazia dal piacevole aroma di miele, colore ambrato e gusto luppolato con sfumature agrumate e di lievito. Una birra da intenditori, ma certe mazzate mi dava! 10

– Kwak. Altra birra belga, è una doppio malto ad alta gradazione, 8%. Viene servita in un bicchiere detto “del cocchiere”, sottile e slanciato, posto in un apposito supporto di legno, la cui impugnatura evita di scaldare la birra con le manacce. Questa qui invece mi cagionava certe sbronze piene d’energia cinetica, e se eravamo tutti sulla stessa onda alcolica ne scaturivano dei partitoni notturni da fare invidia alla stessa Coppa dei Campioni. Altro che epo. Educazione etilica e rock’n’roll procedevano di pari passo. Quella sessuale zoppicava vistosamente, ma perlomeno (finalmente…) stavo smettendo di provare avversione verso le rappresentanti del sesso femminile; tanto che su una fiancata dell’armadietto ove riponevo i libri di scuola e gli arnesi per la scrittura avevo appiccicato gli adesivi di Ciao 2001 dei Van Halen e di Sade Adu fianco a fianco. Yin e Yang. Sade era indiscutibilmente uno schianto di femmina, stracolma di classe, ma dopo che ebbi visto Valerie Kaprisky in Breathless (All’ultimo respiro) iniziarono a filarmi le brunette caucasiche con gli occhi neri profondi e i labbroni. In sostanza, sebbene siano passati tre decenni da allora, non ho cambiato gusti. Musicalmente, oltre alla pirotecnica band californiana che aveva ormai soppiantato i Kiss in cima alle mie preferenze heavy, mi ero innamorato dei Faces, il gruppo di Rod Stewart e Ron Wood prima che quest’ultimo si unisse ai Rolling Stones e Rod “The Mod” si consegnasse anima e ciuffo a un sound smaccatamente più commerciale. Il loro ruspante, essenziale, rock rhythm’n’blues aveva avuto una considerevole influenza sul punkrock (Steve Jones dei Sex Pistols era un loro fervido fan) nonché sul glam & alternative rock americano degli anni Ottanta. Se ne percepisce un’eco perfino nelle ballate melodrammatiche dei Pearl Jam. Nemmeno l’ultima generazione di rockettari anglosassoni e scandinavi è rimasta immune al fascino emanato da quei suoni ruvidi e spontanei: i giovani australiani Jet sono pratica un affezionatissimo clone delle Facce, con nuances di Who Rolling Stones e Sweet. Oltre a ciò, Rod Steward & The Faces erano passati alla storia per la loro alcohol camaraderie, lo smodato consumo collettivo di beveraggi alcolici prima durante e dopo i concerti – un critico musicale chiamò il loro genere booze rock, baldoria rock. I puristi non li volevano ascoltare neppure coi tappi da Reparto Presse della Fiat Mirafiori ben ficcati nelle orecchie, li consideravano un gruppaccio trasandato. E di recente navigando nel mare magnum internettiano mi sono imbattuto nella scheda a essi dedicata da 11

– Kwak. Altra <strong>birra</strong> belga, è una doppio malto ad alta gradazione, 8%.<br />

Viene servita in un bicchiere detto “del cocchiere”, sottile e slanciato,<br />

posto in un apposito supporto di legno, la cui impugnatura evita di<br />

scaldare la <strong>birra</strong> con le manacce. Questa qui invece mi cagionava certe<br />

sbronze piene d’energia cinetica, e se eravamo tutti sulla stessa onda<br />

alcolica ne scaturivano dei partitoni notturni da fare invidia alla stessa<br />

Coppa dei Campioni. Altro che epo.<br />

Educazione etilica e rock’n’roll procedevano di pari passo. Quella sessuale<br />

zoppicava vistosamente, ma perlomeno (finalmente…) stavo smettendo di<br />

provare avversione verso le rappresentanti del sesso femminile; tanto che<br />

su una fiancata dell’armadietto ove riponevo i libri di scuola e gli arnesi<br />

per la scrittura avevo appiccicato gli adesivi di Ciao 2001 dei Van Halen e<br />

di Sade Adu fianco a fianco. Yin e Yang. Sade era indiscutibilmente uno<br />

schianto di femmina, stracolma di classe, ma dopo che ebbi visto Valerie<br />

Kaprisky in Breathless (All’ultimo respiro) iniziarono a filarmi le brunette<br />

caucasiche con gli occhi neri profondi e i labbroni. In sostanza, sebbene<br />

siano passati tre decenni da allora, non ho cambiato gusti.<br />

Musicalmente, oltre alla pirotecnica band californiana che aveva ormai<br />

soppiantato i Kiss in cima alle mie preferenze heavy, mi ero innamorato<br />

dei Faces, il gruppo di Rod Stewart e Ron Wood prima che quest’ultimo si<br />

unisse ai Rolling Stones e Rod “The Mod” si consegnasse anima e ciuffo a<br />

un sound smaccatamente più commerciale. Il loro ruspante, essenziale,<br />

rock rhythm’n’blues aveva avuto una considerevole influenza sul punkrock<br />

(Steve Jones dei Sex Pistols era un loro fervido fan) nonché sul glam<br />

& alternative rock americano degli anni Ottanta. Se ne percepisce un’eco<br />

perfino nelle ballate melodrammatiche dei Pearl Jam. Nemmeno l’ultima<br />

generazione di rockettari anglosassoni e scandinavi è rimasta immune al<br />

fascino emanato da quei suoni ruvidi e spontanei: i giovani australiani Jet<br />

sono pratica un affezionatissimo clone delle Facce, con nuances di Who<br />

Rolling Stones e Sweet.<br />

Oltre a ciò, Rod Steward & The Faces erano passati alla storia per la loro<br />

alcohol camaraderie, lo smodato consumo collettivo di beveraggi alcolici<br />

prima durante e dopo i concerti – un critico musicale chiamò il loro genere<br />

booze rock, baldoria rock. I puristi non li volevano ascoltare neppure coi<br />

tappi da Reparto Presse della Fiat Mirafiori ben ficcati nelle orecchie, li<br />

consideravano un gruppaccio trasandato. E di recente navigando nel mare<br />

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