L'ultima birra e andiamo a casa (forse) (.pdf) - Maurizio Ferrarotti
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MAURIZIO FERRAROTTI<br />
MEXIA<br />
L’ULTIMA BIRRA E ANDIAMO A CASA<br />
(<strong>forse</strong>)<br />
La <strong>birra</strong> e la sua storia secondo un affezionato consumatore
…in una distorta stratosfera.<br />
2
Per Guido ‘Straker’ Pautasso, che ha<br />
avuto l’idea in una deprimente serata<br />
di fine agosto.<br />
E per tutti quelli che non ci sono più:<br />
Daniela, Piero, Sergino, Ferruccio,<br />
Gianni, Ron, Bon, Phil… Bruno...<br />
3
L’orzo e il luppolo fra crescere, oh Signore<br />
in abbondanza e della qualità migliore.<br />
D’estate a lungo il tempo sia clemente<br />
in modo che assetata sia la gente;<br />
riesca bene sempre la fermentazione<br />
della <strong>birra</strong> che si trova in produzione.<br />
Fa che il <strong>birra</strong>io, per la sua sostanza<br />
non abbia grane con la Guardia di Finanza.<br />
La tua benedizione sul di lui fervore<br />
e un poco di fortuna concedigli, Signore<br />
e in fine fa che i clienti siano pronti<br />
a pagare <strong>birra</strong> senza sconti.<br />
Schranka<br />
4
UNA BIRRA NON BASTA<br />
Una volta non basta di Jacqueline Susann: lessi questo libro a quindici<br />
anni, poco prima di bere la prima birrozza della mia vita. Fu mia sorella<br />
Danii a ordinarlo all’Euroclub. In quel tempo io ero un gracile capelluto<br />
timidissimo famelico consumatore di fantascienza, principalmente d’autori<br />
classici quali Isaac Asimov, Jack Williamson e Ray Bradbury, ma avevo<br />
appena scoperto Philip K. Dick. Sdraiato sul letto a gambe incrociate, i<br />
piedi nudi stracotti da interminabili partite a pallone giocate nelle strade<br />
del quartiere ispirandomi agli idoli del momento (Zico, D’Amico, Keegan,<br />
Woodcock), leggevo e rileggevo senza requie Millemondinverno 1975,<br />
supplemento a Urania n. 684 che includeva ben tre sconvolgenti romanzi<br />
completi dell’immenso scrittore americano: Cronache del dopobomba, La<br />
città sostituita e L’uomo dei giochi a premi, quest’ultimo recentemente<br />
ristampato da Fanucci Editore col titolo Tempo fuori squadra – traduzione<br />
pressoché fedele dell’originale Time out of joint.<br />
C’era già stato un libro di Jackie Susann in <strong>casa</strong> nostra: La macchina<br />
dell’amore, in edizione tascabile della Garzanti. Ma io l’avevo soltanto<br />
intravisto. Di tanto in tanto mio padre alleggeriva le librerie risparmiando,<br />
è ovvio, i classici a detrimento della “spazzatura battuta a macchina” –<br />
capirai, per ogni libro epurato n’acquistava due! Così mi era rimasta una<br />
fortissima curiosità per questa scrittrice di storie definite “a tinte forti”. Mi<br />
premeva sapere se vi fosse in questo mondo qualcuno capace di comporre<br />
un’opera più sporcacciona di Emmanuelle, di cui papà possedeva una<br />
rarissima copia fuorilegge: la risposta, naturalmente, è sì. Dopotutto io non<br />
conoscevo ancora Terry Southern, né Anaïs Nin… neppure Jackie Collins<br />
e Harold Robbins (due fangosissimi imbrattacarte ingrassati da immeritato<br />
successo, e al diavolo l’invidia), se è per quello. Candy (Candy) per me<br />
era uno smanceroso cartoon giapponese; come quasi tutti gli ultrà in erba,<br />
io sballavo per Lupin III.<br />
In ogni modo, non tutti i volumi in eccedenza finivano nei cassonetti della<br />
nettezza urbana: alcuni, diciamo le vaccate de luxe, scendevano giù in<br />
cantina a ingiallire tra scarti di maioliche e portabagagli risalenti all’epoca<br />
del boom economico. Passato circa un lustro che l’ebbi letto (per ben due<br />
volte, sarà stata la tempesta ormonale puberale), Una volta non basta fu<br />
infilato da papà in un sacchetto di plastica del PAM insieme con altri<br />
libracci e io non m’interessai minimamente al suo destino – intrippato<br />
5
com’ero da un’antologia di tre romanzi del prodigioso maestro di stile<br />
Roger Zelazny. Il Signore dei Sogni…<br />
Gli occhi di Eileen Shallot, velati e amorfi come quelli di una statua, lo cercarono<br />
ancora.<br />
“La vostra è una situazione davvero unica” commentò Render. “non c’è mai stato<br />
un neuropartecipazionista affetto da cecità congenita, per evidenti ragioni. Dovrei<br />
considerare tutti gli aspetti della situazione prima di potervi consigliare. Ora<br />
mangiamo, però. Muoio di fame.”<br />
“Benissimo. Ma il fatto che sia cieca non significa che non abbia mai visto.”<br />
Render non le chiese cosa voleva dire con queste parole, perché ora davanti a lui<br />
stavano delle costolette di prima scelta e una bottiglia di Chambertin. Tuttavia,<br />
quando Eileen alzò da sotto il tavolo la mano sinistra, trovò il tempo di notare<br />
che non portava anelli.<br />
Una decina d’anni fa, sceso in apnea nelle profondità del condominio per<br />
riportare alla superficie due pintoni di Nebbiolo, fui preso dall’impulso di<br />
aprire una vecchia credenza: ooh la la! L’ultimo best seller di Jacqueline<br />
Susann – morta di cancro poco tempo dopo averlo scritto – era lì dentro, in<br />
discrete condizioni, compartendo la sua salnitrosa prigione con venerandi<br />
Oscar settimanali della Mondadori e raccolte di fumetti horror dello Zio<br />
Tibia. Decisi di concedergli un momento di luce solare e aria fresca; e,<br />
fatalmente, finii per rileggerlo.<br />
Modernariato, [mo-der-na-rià-to] s.m. Insieme di oggetti di produzione<br />
artigianale o industriale, di un certo valore estetico, prodotti nel sec. XX;<br />
commercio e collezionismo di tali oggetti.<br />
Venerdì 22 agosto 20**, h 04.00 p.m., Central European Time. A dire<br />
la verità l’oggetto in questione, Una volta non basta, è piuttosto bruttino a<br />
vedersi. Svanitane in un buco nero quantico la sovraccoperta, si presenta<br />
ora al mio sguardo arrossato (ieri sera ho fatto bisboccia in un locale del<br />
Quadrilatero, maledetti compleanni!) in tutta la sua discinta insignificanza<br />
color mattone da case popolari in periferia, titolo e cognome dell’autrice<br />
impressi in carminio sul dorso, “finito di stampare il 12 gennaio 1979<br />
dalla Aldo Garzanti Editore s.p.a. Milano”.<br />
Quanto al valore letterario, giudicato col classicissimo senno di poi… Be’,<br />
al giorno d’oggi vengono date alle stampe e sbolognate alle masse cose<br />
infinitamente peggiori: i libri di Emilio Fede e Bruno Vespa e Giampiero<br />
6
Mughini, per esempio; Federico Moccia; le biografie da supermercato dei<br />
cosiddetti tronisti di Maria “la Sanguinaria” De Filippi; e soprattutto tutte<br />
quelle sciroccate pestilenziali nonché sponsorizzatissime autrici (autrici?)<br />
di chick-lit. Messa a confronto con Melissa P., tanto per fare un nome a<br />
caso, Jacqueline Susann pare Edith Warthon. Forse un giorno Melissa ci<br />
beneficherà (ehm) di un romanzo intitolato La valle delle spazzole; ma per<br />
allora io sarò già scappato su Titano a pescare trote etanizzate dal lago<br />
Ontario bevendo <strong>birra</strong> criovulcanica.<br />
Il personaggio centrale di Once is not enough (questo il titolo originale<br />
dell’opera), è January Wayne, bellissima e ricca fanciulla americana col<br />
complesso di Elettra. Non è il luogo, qui, per entrare nei dettagli della<br />
scabrosa trama: se v’interessa, andate a cercarvi il corrispondente articolo<br />
su Wikipedia. Io, per me, voglio soltanto farvi leggere questo passaggio,<br />
per me fondamentale:<br />
“Ma so bene cosa brucia veramente a Keith (il suo fidanzato hippy fotografo,<br />
N.d.A.): il fatto che io guadagno trentacinquemila dollari l’anno più la gratifica<br />
natalizia mentre lui ne incassa tremilacinquecento compresa l’indennità di<br />
disoccupazione. Per lui io sono il tipico esemplare del Sistema. Sono talmente<br />
confusa. Vedi, ho cercato di adeguarmi. Ho frequentato i suoi amici. Ho bevuto<br />
<strong>birra</strong> invece dei martini. Mi sono messa i blue jeans invece di normali pantaloni.<br />
Ma non c’è una legge che mi imponga di fare una vita da barboni. Io tiro fuori<br />
quattrocento dollari al mese per il mio appartamento. È in un bel quartiere, in un<br />
bel palazzo, con custode e addetti all’ascensore. Tutte le mattine arrivo in ufficio<br />
prima delle otto e a volte ci resto fino a mezzanotte. Mi sono guadagnata il diritto<br />
ad avere una <strong>casa</strong> piacevole a cui tornare. Perché dovrei rinunciarvi e lavorare<br />
per qualche giornalucolo underground e farmi pagare cinquanta dollari a pezzo?”<br />
Chi parla è la migliore amica di January, Linda Riggs, caporedattrice<br />
rampante dell’immaginaria rivista Gloss, ex bruttina prodigio della scuola<br />
di Miss Haddon trasformata in levigata strafica da ferrei regimi e chirurgia<br />
plastica. Qualche capitolo più in là costei si autodefinisce orgogliosamente<br />
“la miglior bocchinara di New York”, e racconta alla stupenda bamboccia<br />
di usare lo sperma dei suoi numerosi amanti come maschera di bellezza,<br />
arrivando perfino a servire loro un lavoretto di mano (in inglese, handjob,<br />
ma molti/molte di voi lo sanno già) “e prima che arrivino all’esplosione io<br />
sono pronta lì con un bicchiere, poi lo verso in una bottiglia e piazzo il<br />
tutto in frigorifero”. Veramente un personaggio edificante questa Linda,<br />
ancorché abbastanza credibile…<br />
7
Ma sto divagando. Torniamo alle lamentazioni sul fidanzato fricchettone.<br />
Una frase in particolare mi colpì in mezzo alla fronte alla prima lettura:<br />
Ho bevuto <strong>birra</strong> invece dei martini. Mumble. Ne dedussi che nelle classi<br />
alte dell’America pre-Watergate la <strong>birra</strong> fosse considerata una bevanda da<br />
beatnik cenciosi e da operai; da questa sponda del grande oceano, invece,<br />
era celebrata da meravigliose fanciulle vichinghe ammiccanti dal tubo<br />
catodico o dai cartelloni pubblicitari. Neanche la forma più perniciosa di<br />
Alzheimer potrà cancellarmi dalla memoria l’immagine quasi iconica in<br />
bianco e nero di Solvi Stubing con la tenuta da marinaretto: “Chiamami<br />
Peroni, sarò la tua <strong>birra</strong>.”<br />
Alla salute! Ma io ero ancora vergine: sia dal punto di vista sessuale, sia<br />
da quello etilico. Le bevande alcoliche in toto m’incutevano un timore<br />
arcano, primordiale; a quindici anni io mi sbronzavo di cedrata, orzata e<br />
appiccicoso sciroppo d’amarena diluito in acqua del rubinetto. Quanto alle<br />
ragazze, le odiavo a morte (non tutte, però, come racconterò più avanti) e<br />
per contrappasso la maggior parte di loro mi considerava, senza mezzi<br />
termini, una tazza del cesso su due gambe vaccine. Per di più non mi ero<br />
mai neanche fatto una sega. Ero neutrosexual.<br />
Finalmente, nella torrida estate del 1981, mi risolsi a perdere entrambe le<br />
virtù.<br />
Guarda la troietta tedesca come si struscia contro quel tamarro bolognese<br />
con l’orecchino da pirata e la permanente. Ieri sera da me non ha voluto<br />
neanche farsi baciare sulle guanciotte. Zio fanale, ma faccio così ribrezzo?<br />
Cos’è, ho i denti marci? L’alito cattivo? Il nasone alla Bob Rock?<br />
’Fanculo. Mo’ me ne scappo da questa purulenta discoteca all’aperto. Non<br />
sopporto più ’sto lento del cazzo, Please don’t go. Almeno mi mettessero<br />
Shandi qualche dannata volta: certo non sarà la più bella canzone dei Kiss,<br />
ma è diecimila molte meglio di ’sta lagna per cani morti. K.C. & The<br />
Sunshine Pizz.<br />
Stasera ho ben duemila lire in tasca, wow! È la volta buona che mi bevo<br />
una <strong>birra</strong>. ’Fanculo all’Emilia Romagna.<br />
Mi addentro in questo buco di paese e varco un’altra volta la soglia del bar<br />
tabacchi dove solitamente do inizio a ogni mia inutile serata vacanziera<br />
sparandomi quattro-cinque partite di fila al bigliardino spacciandomela da<br />
pinball wizard; chiedo e ottengo senza storie (ho sedici anni e rotti ma ne<br />
dimostro almeno due di più, e poi sono cliente ormai, anche per le cicche)<br />
una Peroni in bottiglia, “no grazie non ho bisogno del bicchiere”, e ne<br />
8
ingollo una prima, cauta sorsata.<br />
Bleah. E questa sarebbe la bevanda alcolica più antica del mondo? Cristo,<br />
che brutti gusti abbiamo noi umani!<br />
Seconda sorsata, ancor più guardinga della prima. Be’, insomma, sembra<br />
di bere Orzoro frammisto a ghiaccio estratto dai poli di Marte brulicante di<br />
microbi con le antenne e le pistole a raggi, ma non è poi così male… bella<br />
fresca. Mi sa che appena finita questa me ne faccio un’altra.<br />
Così è questa l’ubriachezza. Ogni cosa deformata come nel tunnel degli<br />
specchi al luna-park, compresi i pensieri. Che spasso. Averlo fatto prima,<br />
cazzarola! Sempre a farmi paranoie su paranoie per qualsiasi scoreggia. A<br />
proposito, adesso ne tiro una bella. Prrrr. Tu che cazzo c’hai da guardare?<br />
Problemi, perplessità? Ah, sei crucco. Non capire, nein? Mo’ te ne becchi<br />
un’altra più forte. Prrrrrrrrrr. E col saluto romano se vedemo, Rommel.<br />
Approdo in campeggio alla tenda famigliare neanche io so come. I miei<br />
non ci sono, torneranno tardi da Ravenna con tutta la banda. La testa mi<br />
gira come un frullatore Girmi. “Porca puttana troia, sono proprio ubriaco”<br />
biascico, tentando di accendermi una sigaretta, malfermo sulle zampette di<br />
pollo. “Sbronzo in questa maledetta pineta marittima infestata di zanzare.”<br />
“Se vuoi ti faccio un caffè” bisbiglia qualcuno dalla semioscurità della<br />
veranda di fronte, la tenda di quei bresciani che non riescono mai, dico<br />
mai a pronunciare una frase senza includervi un vocabolo sconcio o una<br />
bestemmia. Dei villani di prima categoria…<br />
“Un bel caffè forte.”<br />
“Come?”<br />
“Sssh, non urlare, diocristo, che è tardi.” Dev’essere la figlia di quegli<br />
ignoranti, Marcella mi sembra che si chiami. È tracagnotta, ma ben dotata<br />
e sempre tutta sculettante nel suo bikini color carta da zucchero; ora però<br />
avrei bisogno di un paio d’occhiali ai raggi infrarossi per apprezzarne le<br />
tette. “Lo vuoi questo caffè o no? Sei ridotto uno straccio. Se i tuoi ti<br />
vedono così ti scomunicano.”<br />
Senti chi parla: la figlia di Belzebù. O di Rasputin, dato l’accento. “Sì…<br />
va bene. Grazie.” Getto la sigaretta a terra senza neppure averla accesa. Se<br />
la fumeranno le formiche sottoterra. Eh eh, ne avranno per un anno intero.<br />
Qualche minuto o secolo dopo mi ritrovo disteso su un materasso ad aria;<br />
Marcella, o per meglio dire la sua formosa silhouette (probabilmente era<br />
destino che il mio sverginamento dovesse avvenire in condizione precarie<br />
di visibilità e stato mentale) incombe su di me. Ho l’inguine allo scoperto.<br />
“Ehi, ma…” protesto debolmente. E il caffè? Non ne sento il gusto in<br />
9
occa. “Ma sei nuda?”<br />
Una mano pienotta mi piomba sulla bocca. “Zitto.” L’altra, sottrattami alla<br />
visione precaria dalla schiena inarcata della squinzia, me lo afferra; in un<br />
istante, mi accorgo di averlo duro come mai è stato. “E stai giù tranquillo.<br />
Anche i miei torneranno tardi, mooolto tardi. Penso a tutto io.”<br />
Effettivamente. Poco prima di abbandonarmi alla prima scopata della mia<br />
vita, non posso fare a meno di chiedermi: “Sarà mica che anche questa qui<br />
lo usa come cera di cupra?”<br />
Per i posteri morbosi, come collutorio…<br />
Com’è naturale, negli anni immediatamente successivi al mio farraginoso<br />
ingresso nella “società degli uomini” mi si aprirono nuovissimi frizzanti<br />
orizzonti. Divenni giovane ancorché saltuario cliente di diverse birrerie<br />
torinesi (una su tutte, la Rosselli, situata nell’omonimo corso e tuttora<br />
funzionante) e assaggiai altre bevande, tra le quali:<br />
– Moretti. Birra artigianale rinomata in tutto il mondo fatta con acqua<br />
pura e grano mietuto nei dintorni di Udine, dove Luigi Moretti fondò<br />
la sua fabbrica nel 1859. Luminosa, rinfrescante e, soprattutto, molto<br />
economica. E io ai tempi non è che navigassi nel grano… pardon,<br />
nell’oro.<br />
– Budweiser. È una lager 100% naturale prodotta con una mistura di<br />
riso e orzo che ha un contenuto alcolico del 5%. Negli Stati Uniti è<br />
un’istituzione, nettamente la marca più popolare. La lager beer è un<br />
beveraggio leggero e spumeggiante che prende il suo nome dal tedesco<br />
lagern, che significa “immagazzinare”. Nel 600 i monaci scoprirono<br />
che la loro <strong>birra</strong> d’estate si manteneva meglio se conservata in fresche<br />
grotte di montagna, e che si addolciva rimanendovi per un tempo. La<br />
pratica di invecchiare la <strong>birra</strong> si sviluppò da quella scoperta. E bravi i<br />
nostri Fratelli <strong>birra</strong>ioli.<br />
– Abbaye Bonne Espérance. I belgi sono grandi produttori di <strong>birra</strong>,<br />
tanto per la qualità quanto per la varietà e quantità di bevande che<br />
elaborano. Quantunque a volte si dedichino a produrre birre ad alta<br />
gradazione e con un carattere corposo, quasi vicino al vino. Come la<br />
Abbaye Bonne Esperance, una ale (definizione generica per le birre a<br />
fermentazione alta) di abbazia dal piacevole aroma di miele, colore<br />
ambrato e gusto luppolato con sfumature agrumate e di lievito. Una<br />
<strong>birra</strong> da intenditori, ma certe mazzate mi dava!<br />
10
– Kwak. Altra <strong>birra</strong> belga, è una doppio malto ad alta gradazione, 8%.<br />
Viene servita in un bicchiere detto “del cocchiere”, sottile e slanciato,<br />
posto in un apposito supporto di legno, la cui impugnatura evita di<br />
scaldare la <strong>birra</strong> con le manacce. Questa qui invece mi cagionava certe<br />
sbronze piene d’energia cinetica, e se eravamo tutti sulla stessa onda<br />
alcolica ne scaturivano dei partitoni notturni da fare invidia alla stessa<br />
Coppa dei Campioni. Altro che epo.<br />
Educazione etilica e rock’n’roll procedevano di pari passo. Quella sessuale<br />
zoppicava vistosamente, ma perlomeno (finalmente…) stavo smettendo di<br />
provare avversione verso le rappresentanti del sesso femminile; tanto che<br />
su una fiancata dell’armadietto ove riponevo i libri di scuola e gli arnesi<br />
per la scrittura avevo appiccicato gli adesivi di Ciao 2001 dei Van Halen e<br />
di Sade Adu fianco a fianco. Yin e Yang. Sade era indiscutibilmente uno<br />
schianto di femmina, stracolma di classe, ma dopo che ebbi visto Valerie<br />
Kaprisky in Breathless (All’ultimo respiro) iniziarono a filarmi le brunette<br />
caucasiche con gli occhi neri profondi e i labbroni. In sostanza, sebbene<br />
siano passati tre decenni da allora, non ho cambiato gusti.<br />
Musicalmente, oltre alla pirotecnica band californiana che aveva ormai<br />
soppiantato i Kiss in cima alle mie preferenze heavy, mi ero innamorato<br />
dei Faces, il gruppo di Rod Stewart e Ron Wood prima che quest’ultimo si<br />
unisse ai Rolling Stones e Rod “The Mod” si consegnasse anima e ciuffo a<br />
un sound smaccatamente più commerciale. Il loro ruspante, essenziale,<br />
rock rhythm’n’blues aveva avuto una considerevole influenza sul punkrock<br />
(Steve Jones dei Sex Pistols era un loro fervido fan) nonché sul glam<br />
& alternative rock americano degli anni Ottanta. Se ne percepisce un’eco<br />
perfino nelle ballate melodrammatiche dei Pearl Jam. Nemmeno l’ultima<br />
generazione di rockettari anglosassoni e scandinavi è rimasta immune al<br />
fascino emanato da quei suoni ruvidi e spontanei: i giovani australiani Jet<br />
sono pratica un affezionatissimo clone delle Facce, con nuances di Who<br />
Rolling Stones e Sweet.<br />
Oltre a ciò, Rod Steward & The Faces erano passati alla storia per la loro<br />
alcohol camaraderie, lo smodato consumo collettivo di beveraggi alcolici<br />
prima durante e dopo i concerti – un critico musicale chiamò il loro genere<br />
booze rock, baldoria rock. I puristi non li volevano ascoltare neppure coi<br />
tappi da Reparto Presse della Fiat Mirafiori ben ficcati nelle orecchie, li<br />
consideravano un gruppaccio trasandato. E di recente navigando nel mare<br />
magnum internettiano mi sono imbattuto nella scheda a essi dedicata da<br />
11
uno stimato musicologo italiano in cui il loro rock è definito “populista”.<br />
“Considera tutti i critici d’arte come inutili e pericolosi” è scritto nel<br />
Manifesto dei Futuristi. Diciamo un buon 90%. Nel restante 10% vi sono<br />
dei personaggi che senza ombra di dubbio mettono passione e competenza<br />
nel proprio lavoro, ma si tirano il moccio da far spavento, più che scrivere<br />
sfoggiano lessico. Come un altro recensore assai stimato che, a proposito<br />
dell’esordio dei Radiohead, scrive in una delle tante enciclopedie dedicate<br />
al rock: “Creep è uno psicodramma in amniocentesi grunge che macera<br />
l’alternanza tra strofe lente e arpeggiate e il ritornello a forte combustione<br />
introdotto con un indovinato effetto di chitarra.” E ancora, passando a<br />
commentare The Bends: “I Radiohead sanno fare della catarsi rock un<br />
umanesimo da stadio, dalle risonanze elettrolitiche di High and Dry e<br />
Fake Plastic Trees allo stato pre-embolia di The Bends fino alle modalità<br />
saltanti e antistatiche di Just che proiettano l’intersezione sfalsata delle<br />
chitarre in una distorta stratosfera.” The Bends mi piace molto: è un disco<br />
metafonetico, ormonatico, positronico. Suona come A nod is as good as a<br />
wink… to a blind horse dei Faces triturato e messo in un frullatore con due<br />
blister di Prozac.<br />
Nell’epoca in cui buona parte dei miei coetanei tentava disperatamente<br />
d’assomigliare a Robert Smith (un altro considerevole segmento a Nino<br />
D’Angelo, il resto si spartiva fra Tony Hadley, Nikki Sixx e Carmelo<br />
Zappulla) io mi ero fatto perfino acconciare i capelli in un facsimile della<br />
chioma a carciofo radioattivo di Ron Wood. Ma ogni santo pomeriggio e<br />
sera dovevo combattere una dura battaglia con Danii e suoi Duran Duran<br />
per il possesso del giradischi Falkland-Malvinas. E non sempre ne uscivo<br />
vincitore. Meno male che i miei m’avevano comprato il walkman, così<br />
potevo spararmi nelle orecchie tutto A nod is as good as a wink… sul 56 la<br />
mattina presto andando a scuola, e nei giorni in cui avevamo lezione al<br />
pomeriggio andare a zonzo per il centro all’ora di pranzo canticchiando<br />
Maybe I’m Amazed con una bottiglia di Heineken in mano, gelida come<br />
una notte sulla Luna. E scolarmene felicemente un’altra all’uscita da un<br />
tediosissimo sermone sui diodi Zener mimando i raspanti accordi iniziali<br />
di Borstal Boys.<br />
Una <strong>birra</strong> non basta.<br />
Le vele erano bianche sotto un sole che era un pulsante rosso che il servitore<br />
raggiunse velocemente e sfiorò.<br />
Cadde la notte.<br />
12
Figura 1. Una <strong>birra</strong> non basta...<br />
13
DIECIMILA ANNI DI SBRONZE<br />
La <strong>birra</strong> è quasi certamente la più vecchia bevanda alcolica del mondo. I<br />
Babilonesi e gli Egizi la fabbricavano più di 6000 anni fa. Gli Egei presero<br />
la ricetta dagli Egizi. La fabbricazione della <strong>birra</strong> si diffuse poi in tutto il<br />
Mediterraneo. Anche i Britanni, come no, facevano <strong>birra</strong> e ale: il 5000<br />
a.C. è la data cui risalgono i reperti di <strong>birra</strong> “fossile” ritrovati nelle isole<br />
Orcadi e quelli a Stonehenge. Nell’antica Cina, la <strong>birra</strong> era importante nei<br />
culti religiosi, funerali e altri rituali delle dinastie Xia, Shang e Zhou<br />
(2100-256 a.C.), ma dopo la dinastia Han essa perse la sua prominenza a<br />
vantaggio del huangjiu, il “vino giallo”: la produzione della <strong>birra</strong> non fu<br />
reintrodotta in Cina fino alla fine del XIX secolo, quando la Russia costruì<br />
una fabbrica ad Harbin, nel sud-est del paese.<br />
In Giappone, fatto culturalmente singolare, la <strong>birra</strong> era sconosciuta fino a<br />
due secoli fa: furono gli Olandesi ad aprirvi le prime birrerie per i marinai<br />
che sfacchinavano sulla rotta mercantile fra la Terra del Sol Levante e<br />
l’Impero Olandese. Ora i giapponesi trincano <strong>birra</strong> a torrenti, la fabbricano<br />
e la esportano in tutto il globo. Ne ho assaggiate alcune marche e non sono<br />
malvage: la Asahi, per citarne una. Fermo restando che c’è chi ritiene il<br />
sakè una <strong>birra</strong>.<br />
Il festino, o la festina, come dicono certi miei amici vicentini (specialisti<br />
nell’organizzazione di baccanali memorabili: le loro Feste del Recioto<br />
sono storia consacrata del Triveneto), è innato nella razza umana. Molto<br />
prima dell’invenzione delle bevande fermentate, che secondo uno studio<br />
condotto da un team di brillanti archeologi dell’Università di Manchester<br />
risalirebbe al 9000 a.C., l’uomo utilizzava le piante allucinogene per<br />
provocare una sorta d’ebbrezza conviviale; alcune pitture del Paleolitico<br />
superiore rappresenterebbero, a parere d’alcuni interpreti, delle visioni<br />
provocate dall’uso di queste piante. Un giorno o l’altro qualche esuberante<br />
archeologo britannico ritroverà in Siberia una bottiglia di <strong>birra</strong> pressoché<br />
intatta con l’etichetta stampata in una lingua sconosciuta incastonata in<br />
uno strato geologico risalente a duecentomila e rotti anni fa, testimonianza<br />
dell’esistenza di una remota civiltà altamente sviluppata, cancellata <strong>forse</strong><br />
da un terribile conflitto nucleare. Mi hanno sempre affascinato le storie<br />
post-atomiche; il secondo romanzo dell’antologia di Zelazny, La pista<br />
dell’orrore, è una delle più belle mai scritte. Hell Tanner, ex membro di<br />
una gang motociclistica, parte da Los Angeles per Boston per portarvi una<br />
14
cassa di siero contro le malattie da radiazioni. Lungo la strada affronterà i<br />
pericoli di un mondo sconvolto dai postumi della Terza Guerra Mondiale:<br />
venti turbinosi che rendono problematico qualsiasi spostamento, tempeste,<br />
crateri radioattivi, animali mutati dalle esplosioni in mostri terrificanti,<br />
esseri umani regrediti alla barbarie. E da biker violento e sprezzante si<br />
trasformerà in indomito salvatore dell’umanità.<br />
Hell ricordò la sua iniziazione. Aveva sedici anni. Avevano fatto passare il<br />
secchio, e lui era rimasto in piedi, eretto e fiero, vestito del suo giubbotto nuovo<br />
coperto di borchie, e per quanto un po’ ubriaco non aveva barcollato. A uno a<br />
uno, tutti avevano pisciato nel secchio. Poi glielo avevano rovesciato in testa.<br />
Quello era stato il battesimo, e lui era diventato un Angel. Aveva tenuto addosso<br />
gli stessi vestiti per un anno intero, e dopo altri due anni, quando lui ne aveva<br />
diciannove, era diventato il numero uno, il capo. Li aveva guidati nelle scorrerie,<br />
e tutti conoscevano il suo nome, e si scansavano quando lo vedevano arrivare.<br />
Lui era Hell, e la sua banda era padrona della Costa dei Barbari. Andavano dove<br />
volevano e facevano quello che volevano. Poi lui era finito nei guai, e i giorni<br />
neri erano scesi sulla Costa. La città era perpetuamente iniziata, come lui, dagli<br />
escrementi del cielo.<br />
Dal futuro ipotetico al passato remoto. Nell’antica Mesopotamia vi era già<br />
una diversificazione in tipologie di <strong>birra</strong> prodotte: esistevano birre chiare,<br />
scure, rosse, dolci, aromatiche. A Babilonia se ne producevano addirittura<br />
venti qualità, ma le più apprezzate erano quattro, e dai nomi decisamente<br />
klingoniani: bi-se-bar, una <strong>birra</strong> d’orzo, bi-gig, una <strong>birra</strong> scura normale,<br />
bi-gig-dug-ga, una <strong>birra</strong> scura di eccelsa qualità, e bi-kal, la migliore.<br />
Secondo i popoli mesopotamici e non solo, la società divina riproduceva<br />
alcune prerogative di quella umana. Nel poema babilonese della creazione<br />
(Enûma elish), allorquando gli dèi cercano un campione coraggioso da<br />
mandare a combattere contro la dea Tiamat che intende annientarli, il dio<br />
Anshar si incarica di riunirli in un convito:<br />
Davanti ad Anshar essi penetrarono, furono riempiti di gioia, si abbracciarono fra<br />
di loro, si assisero in consiglio, presero la parola, si sedettero al festino,<br />
mangiarono cereali, si dissetarono con <strong>birra</strong> forte, e di dolce cervogia riempirono<br />
le loro coppe. A furia di bere <strong>birra</strong> avevano il corpo sazio, si sentivano fiacchi, il<br />
loro cuore era colmo di gioia; allora di Marduk, il loro vendicatore, fissarono il<br />
destino.<br />
15
Nell’Egitto antico la <strong>birra</strong> si preparava mettendo a fermentare al caldo, in<br />
acqua e grano schiacciato, pagnotte d’orzo o di grano mal cotte per salvare<br />
gli enzimi della fermentazione; il liquido denso veniva filtrato e in seguito<br />
lasciato depositare entro giare di terracotta. Gli Egizi fabbricavano <strong>birra</strong><br />
chiara, zythum, rossa, curmy, e la mistica sà; inoltre consumavano <strong>birra</strong><br />
“siriana”, anche se non è ancora ben chiaro se importata o fabbricata. Le<br />
anfore per la <strong>birra</strong> erano decorate con ghirlande.<br />
Spostiamoci in avanti con la nostra ebbra macchina del tempo fino all’alto<br />
Medioevo europeo. In quest’epoca assistiamo all’affermazione del vino<br />
come bevanda quotidiana oltre che di pregio. La <strong>birra</strong>, ancora ignara del<br />
luppolo (il primo atto ufficiale in cui si menziona questa sostanza amara<br />
estratta dai fiori di una pianta rampicante appartenente alla famiglia delle<br />
Cannabacee, un’ordinanza emanata dal prevosto di Parigi per disciplinare<br />
la vendita di <strong>birra</strong>, risale al 1435), era la bevanda dei germani, “barbara e<br />
pagana”, in contrasto con la sacralità cristiana del vino. Figuratevi: così,<br />
tanto per contenere la sovrappopolazione, i Germani talvolta si sfidavano a<br />
colpi di spada in un rituale dedicato al dio Thyr, la Wappentanz, al termine<br />
della quale i sopravvissuti si storcevano come dei fegatelli! Eppure, com’è<br />
universalmente risaputo, i monaci non la disdegnavano, tanto da produrne<br />
in abbondanti quantità a uso proprio e delle migliaia di pellegrini che essi<br />
ospitavano nei monasteri. Il celeberrimo monastero di San Gallo aveva<br />
nientemeno che tre diverse fabbriche di <strong>birra</strong>: una per la <strong>birra</strong> più leggera<br />
destinata ai pellegrini (sic), una per quella di media gradazione, chiara e<br />
scura, che consumavano i monaci e i famigli del monastero, e una, infine,<br />
per le birre de luxe, da offrire agli ospiti di riguardo.<br />
L’intero periodo medievale è contrassegnato da una profonda diffidenza<br />
nei confronti dell’acqua come bevanda, poiché possibile portatrice di<br />
malattie anche mortali. Qui, siate indulgenti, ma mi scappa da ridere… c’è<br />
una coppia spagnola di mia conoscenza la cui peraltro ospitale dimora è<br />
off-limits per l’acqua minerale: lui trinca solo vino, <strong>birra</strong> e superalcolici,<br />
lei Coca Cola light e limonata (consuma alcolici solamente quando esce a<br />
spettegolare con le amiche del cuore: scotch con un cubetto di ghiaccio).<br />
Cosicché quand’ero loro ospite e mi offrivo per andare a fare la spesa al<br />
supermercato compravo l’acqua solo per me; naturale per di più, poiché in<br />
Spagna le acque minerali frizzanti sono imbevibili. In particolar modo la<br />
Vichy Catalan: è come bersi uno sgorgo imbottigliato di Old Faithful, il<br />
famoso geyser di Yellowstone. Tuttavia gli spagnoli prediligono un’altra<br />
robetta niente male quanto a contenuto gassoso: la Casera. E la utilizzano<br />
16
addirittura per allungare il vin ordinaire – certi Rioja scuri e spessi come<br />
inchiostro di china serviti nei menù del giorno a 10 €. Paese che vai,<br />
costumanze barbare che trovi.<br />
In medias res. Nell’Europa continentale del XVI secolo, la <strong>birra</strong> di luppolo<br />
era già un prodotto semi-industriale, preparato in fabbrica da artigiani<br />
forniti di titoli. Nelle isole britanniche la <strong>birra</strong> di fabbricazione domestica<br />
sopravvisse fino al XVIII secolo: bastian cuntrari inveterati, gli inglesi. In<br />
certe regioni come l’Alsazia, nonostante il suo status culturale d’inferiorità<br />
nei confronti del vino, era la bevanda popolare delle città e delle osterie.<br />
Ciononostante nella seconda metà del XVIII secolo l’alto prezzo del vino<br />
permise alla <strong>birra</strong> di irrigare finanche le gole assetate dei contadini. E i<br />
consumi pro capite, quantunque in maniera disomogenea secondo le aree<br />
geografiche e le congiunture economiche, crebbero vertiginosamente sino<br />
a oggi.<br />
Vinum est donatio Dei, cervisia traditio humana. In passato i contadini<br />
della Norvegia producevano, nei loro casolari, due tipi di <strong>birra</strong>: una più<br />
leggera, da consumare durante i lavori nei mesi estivi, e una più forte, per<br />
le feste natalizie, i matrimoni, le nascite e addirittura i funerali. Era molto<br />
diffusa la credenza che le figlie d’Eva, specialmente durante alcuni giorni<br />
del mese, esercitassero un’influenza negativa sul lievito. Esso inoltre era<br />
ritenuto particolarmente “suscettibile” allo sbattimento delle porte e alle<br />
vibrazioni del pavimento.<br />
Sempre nel buon tempo passato europeo, se un giovanotto aveva deciso di<br />
conquistare i favori di una pulzella, doveva dar prova al di colei padre di<br />
poter montare un cavallo in stato d’ebbrezza. Con la <strong>birra</strong> s’irroravano i<br />
campi all’inizio prima dell’aratura dopo il gelo invernale; lo stesso rituale<br />
era ripetuto al momento del raccolto, della trebbiatura e infine della nuova<br />
semina.<br />
“Una <strong>birra</strong> forte, un tabacco profumato e una femmina, questo è piacere.”<br />
Goethe dixit. Dal suo epistolario si apprende che la <strong>birra</strong> prodotta a Lipsia<br />
(“la piccola Parigi”) era di povera qualità: perciò la si acquistava da fuori e<br />
la si beveva allungata con acqua. Da buon alemanno, Goethe era un<br />
<strong>birra</strong>iolo: dapprima aficionado alle equilibrate birre di Francoforte, poi si<br />
assuefece a quelle amare di Merseburgo, apprezzò la Gose – una <strong>birra</strong> a<br />
fermentazione spontanea che ancor oggi viene prodotta in Belgio con il<br />
nome di “Gueuze”, bevuta anche questa – cui si aggiungeva una fettina di<br />
limone, e assaggiò perfino la Bavaroise, una sciccheria che era servita<br />
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calda (sic!) in tazzine al caffè Beyer.<br />
E come tacere sui sovrani, le roi le vent! A quart of ale is a dish for a king,<br />
sosteneva Shakespeare. Un litro di <strong>birra</strong> è degno di un re. Infatti, una<br />
leggenda teutonica attribuisce a Gambrinus, mitico re germanico, proprio<br />
l’invenzione della bevanda nazionale intorno all’anno 750, benché è<br />
provato che in quella regione essa fosse già ben conosciuta e consumata<br />
abbondantemente. Re Alfredo d’Inghilterra, passato alla storia per aver<br />
definitivamente sconfitto i Danesi nell’anno 814 dopo secoli di battaglie,<br />
fu un famoso collezionista nonché provetto produttore di <strong>birra</strong>. Alla corte<br />
di Carlo VI non mancava mai la <strong>birra</strong> a tavola. Federico II il Grande fu un<br />
grande sostenitore dell’arte <strong>birra</strong>ia. Riccardo d’Inghilterra usava donare<br />
agli altri re fusti di <strong>birra</strong>. A Bismarck regalavano barili come se piovesse –<br />
cosa che a lui faceva immenso piacere, essendo tutt’altro che astemio;<br />
certamente la <strong>birra</strong> stimolava le sue capacità creative in ambito politico<br />
internazionale, come lo stratagemma adottato con il Telegramma di Ems<br />
ebbe a dimostrare.<br />
E con un ultimo colpo al motore tachionico veniamo finalmente all’Italia.<br />
Nell’anno 83 d.C. Agricola, governatore della Britannia, tornò a Roma<br />
portandosi dietro tre mastri <strong>birra</strong>i da Glevum (l’odierna Gloucester) e aprì<br />
ciò che potremmo definire il primo pub della Penisola. Le prime fabbriche<br />
di <strong>birra</strong> risalgono a un momento storico notevolmente posteriore, gli inizi<br />
dell’Ottocento; si può affermare che la <strong>birra</strong> nel nostro paese nacque al<br />
Nord, in Piemonte e in Lombardia ma anche nel Veneto. Nel 1789 tal<br />
Baldassarre Setter ottenne un privilegio per produrre <strong>birra</strong> in quel di Nizza<br />
Monferrato. Nel 1828 Franz Saverio Wührer aprì una fabbrica di <strong>birra</strong> a<br />
Brescia, e nel 1846 a Biella nacque la Menabrea.<br />
Un considerevole incremento della produzione si ebbe con l’avvento della<br />
conservazione a bassa temperatura. Ma la vera esplosione dell’industria<br />
<strong>birra</strong>ia avvenne durante il primo decennio del Novecento: si affermarono<br />
nomi ancora oggi in auge come il sopraccennato Wührer, Forst, Poretti,<br />
Peroni, Wunster, Dreher, Moretti. Pure, le aziende italiane si ritrovarono<br />
poi fare i conti con le pesanti imposizioni fiscali durante il fascismo e il<br />
secondo conflitto mondiale; finita la guerra, l’industria <strong>birra</strong>ia italiana<br />
dovette ricominciare da capo. Le fabbriche italiane impiegarono due<br />
decenni abbondanti per raggiungere il livello tecnologico delle concorrenti<br />
europee.<br />
Dal 1976 a oggi il consumo di <strong>birra</strong> in Italia è più che raddoppiato. È in<br />
corso una vera e propria rivoluzione culturale <strong>birra</strong>iola. In certo modo,<br />
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tutti i bevitori che come me sono nati negli anni Sessanta sono figli delle<br />
birrerie che proliferarono come funghi al principio degli Ottanta. Oggi a<br />
Torino la “bionda” si spilla perfino nella più oscura bettola di periferia.<br />
Nondimeno, sotto il profilo qualitativo e culturale, c’è ancora parecchio<br />
cammino da percorrere. Abbiamo surrogati di pub irlandesi che non sanno<br />
spillare la Guinness, locali per fighetti nei quali la <strong>birra</strong> è spillata da fusti<br />
aperti da troppi giorni e quindi ossidata ma tanto non importa, il posto è<br />
trendy!, <strong>birra</strong> servita in bicchieri di plastica (per motivi d’ordine pubblico,<br />
d’accordo, ma è una bestialità) o nei bicchieri sbagliati. Ciononostante il<br />
consumatore medio italiano va raffinandosi, sa quello che vuole, e sempre<br />
più di frequente sceglie i locali per bere basandosi su criteri qualitativi<br />
piuttosto che seguire bovinamente la moda del momento. Coerentemente<br />
l’industria italiana si è dovuta adeguare agli standard mondiali. In questi<br />
ultimi tempi il livello dei prodotti è aumentato in modo ragguardevole, con<br />
riscontri più che lusinghieri. Nel 2008 Evan Rail del New York Times,<br />
uno dei più noti autori di guide specializzate d’America, dopo aver vagato<br />
a lungo per le birrerie del Nord Italia ha incoronato la <strong>birra</strong> artigianale<br />
italiana come la migliore del mondo. Nella sua spumosa pagella spiccano<br />
ben tre birre piemontesi: la Elixir del Birrificio Baladin di Piozzo, demisec<br />
contraddistinta dall’uso di lievito di whisky in rifermentazione, la Daü<br />
del Troll di Vernante (ambo le località si trovano in provincia di Cuneo) e<br />
la Sticher del Grado Plato di Chieri, ispirata alla rara Sticke di Düsseldorf.<br />
Ah oh ehi, i suma sempre i mej!<br />
Era il 15 agosto 1995 quando nella birreria della famiglia Khoury a<br />
Taybeh, Cisgiordania, il solo villaggio palestinese interamente cristiano,<br />
venne spillata la prima omografa Taybeh, unica <strong>birra</strong> prodotta in Palestina.<br />
I Khoury sono originari dello stesso villaggio ma, come molti cristiani,<br />
emigrarono perché il processo di pace non decollava andando a stabilirsi a<br />
Boston, dove avviarono un fiorente commercio di vini e alcolici. Quando,<br />
nel 1993, furono firmati gli accordi di Oslo, credendo che sarebbe iniziata<br />
una nuova era, essi liquidarono i beni statunitensi incassando 1,2 milioni<br />
di dollari, tornarono a <strong>casa</strong> e li reinvestirono nella “fabbricazione di una<br />
<strong>birra</strong> palestinese”, con la benedizione di Arafat. David Khoury, al presente<br />
primo cittadino di Taybeh, tirò su la fabbrica acquistando i tini d’acciaio<br />
negli Stati Uniti e i malti in Francia e Belgio. La Taybeh produce 600 mila<br />
litri l’anno e gode di un quasi-monopolio a Ramallah. Per contro, dopo la<br />
costruzione della barriera israeliana, vendere alla vicina Gerusalemme è<br />
19
diventato impossibile. Gli israeliani obbligano i distributori palestinesi a<br />
passare da un unico posto di blocco; per passarlo occorrono più di tre ore e<br />
spesso essi devono tornare indietro. Intanto gli israeliani distribuiscono le<br />
loro Maccabee e Goldstar dappertutto, passando da tutti i varchi. L’eterna<br />
questione mediorientale arreca danno finanche ai piaceri della <strong>birra</strong>.<br />
Da qualche anno, ogni primo fine settimana di ottobre, si celebra a Taybeh<br />
una sorta di Oktoberfest. Danze, musiche, prodotti dell’artigianato locale,<br />
spiedini e falafel, innaffiati di cervogia e di qualche insulto politico per<br />
rammentare l’obiettivo di “liberare la Palestina”. Con migliaia di cristiani<br />
e arabi – provenienti da Gerusalemme, Ramallah e dai Territori occupati –<br />
che si mescolano allegramente. Salute e insciallah.<br />
Venerdì 12 settembre 20**, h 02.10 p.m., CET. Biblioteca Ermenegildo<br />
“Gigin” Bernaulo. Fra qualche minuto, per staccare un po’ dalla tastiera,<br />
riprenderò in mano Please Kill Me – il punk americano nelle parole dei<br />
suoi protagonisti. Prima però voglio raccontarvi la storia di uno dei più<br />
smoderati bevitori – di <strong>birra</strong> e in generale di ogni beveraggio alcolico –<br />
mai esistiti su questa terra: Oliver Reed.<br />
Nato a Wimbledon, Londra, nel 1938, Robert Oliver Reed cominciò a far<br />
notare la sua corpulenta presenza in svariate produzioni cinematografiche<br />
inglesi dei tardi anni Cinquanta, senza avere alle gagliarde spalle alcun<br />
tirocinio d’attore, neanche teatrale: era un talento naturale. Nel 1969 i<br />
produttori di “007”Albert R. Broccoli e Harry Saltzman presero in esame<br />
la candidatura di Oliver Reed come possibile sostituto di Sean Connery,<br />
ma Reed non ottenne mai quella parte, probabilmente per la sua fisicità<br />
troppo rugbistica. Ciononostante le sue quotazioni crebbero ulteriormente;<br />
nella prima metà degli anni Settanta Oliver Reed fu un memorabile Athos<br />
in I Tre Moschettieri, recitò in Tommy, film basato sull’omonima rockopera<br />
degli Who (Reed era un grande amico di Keith Moon, il geniale e<br />
lunatico batterista della storica band inglese) e nel 1979 apparve in The<br />
Brood (La covata) di David Cronenberg, nel ruolo di un anticonformista<br />
psicoterapeuta inventore della “psicoplasmica”. Dai primi anni Ottanta la<br />
stella di Reed cominciò ad affievolirsi nonostante egli seguitasse a offrire<br />
pregevoli prove d’attore, come nell’immaginifico remake di Terry Gilliam<br />
Il barone di Munchausen. Il suo ultimo ruolo fu l’anziano rivenditore di<br />
schiavi Proximo ne Il Gladiatore, contrapposto all’astro in ascesa Russel<br />
Crowe: un ideale passaggio del testimone attoriale fra due personalità<br />
fortissime, per certi aspetti piuttosto simili. Oliver Reed morì a 61 anni di<br />
20
un improvviso attacco di cuore durante una pausa nelle riprese del film a<br />
La Valletta, capitale dell’isola di Malta. Il Gladiatore uscì nel 2000<br />
riscotendo enorme successo in tutto il pianeta e Reed ricevette diverse<br />
nomination postume per l’ennesima eccellente performance.<br />
Dire che Oliver Reed beveva come una spugna è un pallido eufemismo.<br />
Oltrepassare i propri limiti in materia di consumo d’alcol rientrava nelle<br />
abitudini sociali di molte squadre di rugby negli anni Sessanta e Settanta, e<br />
al riguardo esistono svariati aneddoti sull’attore inglese e i suoi amici; il<br />
più celebre racconta che Reed bevve ben 106 pinte di <strong>birra</strong> durante l’addio<br />
al celibato previo al suo secondo matrimonio. Steve McQueen, un altro<br />
che non scherzava quanto a eccessi d’ogni genere, raccontò che nel 1973<br />
dovette volare in Inghilterra per discutere un progetto con Reed. I due,<br />
entrati subito in sintonia non solamente artistica, si spazzolarono tutti i pub<br />
di Londra, ma un certo punto Reed era talmente pieno che vomitò addosso<br />
a McQueen! Che la raccontò così: “Lo staff si precipitò attorno e mi trovò<br />
dei vestiti nuovi, ma non poterono darmi altre scarpe, così passai il resto<br />
della notte puzzando del vomito di Oliver Reed.”<br />
Nell’ultimo scorcio della sua vita la sua passione per le bevande alcoliche<br />
assunse tinte recisamente meno epiche. Reed era invitato in certi spettacoli<br />
televisivi specificamente per bere; quelli del programma The Word si<br />
spinsero addirittura a mettere delle bottiglie nel suo camerino affinché egli<br />
potesse essere filmato di nascosto mentre si ubriacava. Ciò la dice davvero<br />
lunga sulla moderna “etica” dei media.<br />
Al tempo della sua morte Oliver Reed era ormai gravemente intossicato.<br />
La sua ultima sbronza su questa terra fu colossale: tre bottiglie di rum<br />
Captain Morgan, otto bottiglie di <strong>birra</strong> e innumerevoli doppi di whisky<br />
Famous Grove. Oltre a questo batté a braccio di ferro cinque marinai della<br />
Royal Navy molto più giovani in un locale che da allora in suo onore si<br />
chiama Ollie’s Last Pub: tipico di lui, real-life macho fino alla fine.<br />
21
Figura 2. Miller Lite per lei, Moretti per me da Zeke’s, Miami.<br />
22
NAUSEA, OCCHI INIETTATI DI SANGUE<br />
Non abbiamo niente di meglio da fare / che guardare la tivù e farci un paio di<br />
birre.<br />
Black Flag, TV Party.<br />
Primavera 1988. Io freschissimo di congedo dal servizio militare, bramoso<br />
di denaro, di ragazze, d’alcol. Torino non era più grigia e scorbutica come<br />
l’avevo lasciata. Buck Rogers Macario si stava risvegliando dal suo lungo<br />
sonno metalmeccanico. Nuovi modi di dire comportarsi e vestire, nuova<br />
musica, nuovi ritrovi, nuovi cocktail da bere. E nuove droghe.<br />
“Ho sentito che nei pressi della Mole Antonelliana hanno aperto un nuovo<br />
disco bar” mi comunicò al telefono un pomeriggio Alex, colui che ritengo<br />
responsabile di avermi iniziato alla fede granata.<br />
“Ah sì? E come si chiama?”<br />
“Protex Blue. Sembra che al venerdì sera sia stracolmo di gnocca.”<br />
“Allora fisso che venerdì ci <strong>andiamo</strong>.”<br />
Con il cuore in mano, quello non era il vero nome del locale. Fra poco<br />
comprenderete perché ho ritenuto necessario cambiarlo. Il mio approccio<br />
col Protex Blue fu pessimo. Baldanzoso, suonai il campanello; la porta si<br />
spalancò con un cigolio di cardini bisognosi d’olio lubrificante e nell’uscio<br />
comparve un personaggio minuto dai tratti vagamente orientaleggianti: la<br />
sua faccina di tolla mi era tutt’altro che nuova. Era una classica figura di<br />
figlio di papà impegnato politicamente (o per meglio dire, impegnato a<br />
trarre vantaggio personale dalle proprie esperienze in ambito politico,<br />
come tutti quanti al porco mondo) che al liceo scientifico mi era sempre<br />
stato sulle scatole, più che altro per essere il miglior amico di Stefania B.,<br />
una biondina carinissima fanatica di Bruce “The Boss” Springsteen (di cui<br />
a me piaceva solo una canzone, Born to run, poiché dannatamente simile a<br />
X Offender dei Blondie) che al secondo anno mi aveva rifilato un due di<br />
picche silenzioso: ossia, aveva olimpicamente ignorato una lettera in cui io<br />
le dichiaravo tutto il mio amore: “Stanotte ti ho sognata” e puttanate del<br />
genere. E poi le donne stanno ancora a domandarsi, fra una puntata di Sex<br />
& The City e l’altra, perché gli uomini si siano ficcati il romanticismo nel<br />
buco del culo.<br />
“Teffera?” chiese costui, con quel suo peculiare difetto di pronuncia sulle<br />
esse. O non mi aveva riconosciuto o faceva finta.<br />
23
“Tessera? Quale tessera?” replicai, con occhi da agnellino.<br />
“AICS. Per entrare qui ci vuole la teffera AICS.”<br />
“Io ce l’ho” disse Alex, spalleggiandomi.<br />
Io allargai le braccia al tempo che ammisi: “A me invece è scaduta. Posso<br />
rinnovarla qui, no?”<br />
“Ma certamente. Prego.” Okudera si fece da parte per lasciarci passare.<br />
Repressi a dura pena lo sgurz di chiedergli notizie della biondina, essendo<br />
comunque già ampiamente a conoscenza che si era sposata col campione<br />
di pallavolo del liceo.“Eccolo qui, sempre col quel fetusissimo pullover<br />
grigiastro infeltrito”, pensai guardandolo in tralice mentre compilavo il<br />
modulo apposito coi miei dati personali. “Per di più padrone, o perlomeno<br />
socio di un circolo. Certo che il mondo è proprio uno scherzo!”<br />
Dal banco delle tessere mediante una doppia rampa di scale si scendeva al<br />
locale vero e proprio: pareti lattescenti, luci soffuse, tavolini ovunque. La<br />
musica era prevalentemente negroide, ma il posto non sembrava fatto per<br />
ballare. Tuttavia quando il DJ mise su Dance Little Sister di Terence Trent<br />
D’Arby la stragrande maggioranza degli avventori si scosse dall’atavico<br />
bogianenismo e discostando bruscamente tavoli e sedie improvvisò una<br />
piccola pista da ballo dove scatenarsi. Il tutto sotto lo sguardo recisamente<br />
contrariato di Mr. Pullover Grigio. Tié.<br />
I miei gusti musicali si stavano evolvendo. Sotto naja mi ero rimpinzato di<br />
Stooges, Metallica, Aerosmith, Zodiac Mindwarp & The Love Reaction,<br />
Cult, New York Dolls, Joy Division, Alice Cooper, Celibate Rifles e Died<br />
Pretty – Free Dirt era il disco che ascoltavo più volentieri quand’ero<br />
stonato di qualsiasi cosa, apprezzavo moltissimo la disinibizione con cui<br />
quel gruppo australiano passava da tenebrosi ammodernamenti dei Doors<br />
a canzoni nettamente più ottimistiche effondenti una stupenda sensazione<br />
d’immensità solatia. Ora mi sorprendevo a battere il piedino ascoltando<br />
Terence Trent D’Arby, Sly & The Family Stone e Prince. Portavo i capelli<br />
più corti in un facsimile del taglio di Gigi Lentini ai suoi scintillanti esordi<br />
nel Torino FC, pantaloni attillati di velluto, stivali di finto pitone, pullover<br />
a girocollo e giubbotti di pelle. Bevevo sempre più <strong>birra</strong> e superalcolici.<br />
Al Protex Blue spillavano la Tennent’s Super. Prodotta a Edimburgo dalla<br />
Tennent Caledonian, questa bevanda di color giallo intenso con riflessi<br />
ramati può essere considerata come l’antesignana di tutte le strong lager<br />
scozzesi. Dolciastra all’inizio in bocca, poi fa sentire tutta la sua forza<br />
alcolica. E come. Uscivamo dal locale sempre storti, ridendo come degli<br />
imbecilli per la recidiva dabbenaggine dei baristi.<br />
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Eh sì. Già dal nostro primo ingresso avevamo percepito con la nostra<br />
sensibilità stradaiola come costoro, un folletto dagli occhi perennemente<br />
arrossati e una tizia tutta riccioli e spigoli, non fossero ciò che si dice dei<br />
prodigi d’attenzione: cosa piuttosto penalizzante, dovendo essi occuparsi<br />
altresì della cassa. D’altro canto noi eravamo basilarmente regolari: vale a<br />
dire, pagavamo ogni nostro giro alla consegna dei boccali. Una sera però<br />
quegli alternativi erano talmente stressati dalla ressa che già alla primera<br />
ronda non ci diedero retta e neppure alla seconda, come dicendo “non ora,<br />
siamo troppo indaffarati, pagateci dopo.” Allora Alex saltò su: “Cazzarola,<br />
ma se gli fanno tanto cagare i miei sudatissimi deca, gli pago soltanto una<br />
<strong>birra</strong> e basta. Che ne dite, eroi?”<br />
Bravi ragazzi o no, fummo tutti d’accordo. La manovra uscì così liscia che<br />
stentavamo a crederci. Quei due avevano veramente la testa nella nebulosa<br />
di Andromeda. Finimmo per approfittarne. Sarò bastardo, ma la spassavo<br />
un mondo alle spalle da passero di Mr. Pullover Grigio. In tre arrivammo a<br />
stabilire il record di quattro spumeggianti birre medie scolate pro capite<br />
senza sganciare una lira, appiccicandoci una ronda di tequila sunrise, che<br />
però pagammo – a mo’ di copertura, non fosse la volta buona che quei<br />
babbei trendisti se la intagliavano. Poi sghignazzanti, irriverenti, sbronzi,<br />
uscimmo dal Protex Blue per andare alla conquista di una notte ancora<br />
giovane.<br />
Forse può suonare come un’esagerazione da scrittore affermare che la mia<br />
città cambiò nel tempo che io stetti via per “servire la patria”; alcuni bei<br />
locali esistevano già prima – il Big, il Dottor Sax, il Metro, lo Studio 2.<br />
Nondimeno fu dal 1987 in avanti che a Torino avvenne l’esplosione del<br />
nightclubbing, finanche per il consistente incremento dell’offerta. Oggi la<br />
chiamano movida e nelle serate di fine settimana è un’impresa attraccare<br />
al molo di qualsiasi bar del centro per ordinare da bere, ma nei primi anni<br />
Ottanta la gente usciva di sera assai meno che adesso e i ritrovi per giovani<br />
si contavano a dura pena sulle dita di due mani. Discoteche per tamarri<br />
comprese.<br />
Il locale che tutti i quarantenni e ultra torinesi ricordano con più piacere è<br />
senz’altro lo Studio 2. Non voglio dilungarmi in una commossa ricordanza<br />
di un posto in cui ho passato alcuni tra i momenti più divertenti della mia<br />
vita: ci ha già pensato alcuni anni fa un altro concittadino novelliere, per<br />
quanto da un punto di vista esistenziale alquanto differente dal mio. (Lui<br />
vi organizzava serate per rampolli di buona famiglia, io li detestavo ma vi<br />
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andavo lo stesso e una sera me lo ritrovai lì piantato nell’uscio a dirmi con<br />
fare strafottente che non potevo entrare: al che io lo affrontai a muso duro<br />
ma un buttafuori si mise in mezzo. Più tardi mi procurai l’invito ed entrai.<br />
Non gli serbo neppure una briciola rafferma di rancore: eravamo giovani<br />
stupidi e pieni di sperma, com’è usanza dire dall’altra parte dell’oceano.)<br />
Preferibilmente desidero concentrarmi sulle conseguenze psicofisiche che<br />
la frequentazione di quella gloriosa discoteca causava su di me. Una su<br />
tutte: gli armageddonici doposbronza del sabato e della domenica mattina<br />
– talvolta di metà settimana, allorquando mi veniva la malsana fregola di<br />
imbucarmi alla soirée degli studenti Isef. E il mattino dopo al lavoro tutti a<br />
guardarmi di storto. Soprattutto il capoufficio.<br />
Allo Studio si spillava una <strong>birra</strong> chiara di pessima qualità. In alternativa<br />
potevi intossicarti con i “solventi” (squisiti cocktail preparati con liquori<br />
stappati dal Neolitico inferiore) o la Ceres Strong Ale. In realtà una lager,<br />
questa <strong>birra</strong> danese dai toni amarognoli pronunciati dichiara in etichetta il<br />
7,7% d’alcol, ma in base allo stato in cui ti riduceva (larvale) avresti detto<br />
che ne contenesse almeno il doppio. È anche vero che se ne ingollava a<br />
fiumi e che spesso si entrava in discoteca già carburati (magari dopo aver<br />
fatto tappa all’attiguo Charisma Pub, altro locale leggendario che non c’è<br />
più), ma se il giorno seguente uno stimato neurochirurgo ebreo mi avesse<br />
scoperchiato la scatola cranica avrebbe trovato Dalla biblioteca entropica<br />
di Claes Oldenburg e Coosje van Bruggen in luogo del cervello. Chiunque<br />
conosca quest’opera d’arte si farà un’idea, nonché quattro risate.<br />
La mia serata tipo allo Studio 2 era la seguente: svariate mosse strategiche<br />
per entrare senza pagare il biglietto; salita al bar del piano di sopra e prima<br />
Ceres sorseggiata aspettando l’ascesa al tempio di Roberto, un pazzoide<br />
scatenato di Avigliana con cui ne avrei bevute altre sette; discesa all’altro<br />
bar per bere qualche giro di brodaglia alla spina con la brigata e magari, se<br />
c’era il mood giusto, quattro salti in pista; di nuovo su e di nuovo giù, per<br />
altre tre-quattro volte; chiusura del locale coi buttafuori a ripetere come un<br />
mantra l’invito a guadagnare l’uscita e i parrocchiani a fare orecchie da<br />
mercante; summit fra ubriachi bolliti sul marciapiede circa l’eventualità di<br />
mettere qualcosa sotto i denti o persino di darsi la botta finale in qualche<br />
after-hours. Baccaglio di ragazze? Un optional. Almeno per me.<br />
E il giorno dopo... nausea, testa in frantumi, occhi iniettati di sangue, naso<br />
otturato, gola secca, polmoni in fiamme, estremità di piombo, epitelio<br />
mummificato come Ötzi, l’Uomo di Similaun.<br />
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Maybe I’m Amazed. Il fato, fottuta canaglia, mi fece rincontrare Stefania<br />
B. al campo di concentramento nazi-metallurgico poco prima della grande<br />
fuga per “mettermi in proprio”: un giorno, sopraffatto dalla noia, aprii un<br />
bollettino aziendale e me la trovai fotografata in tailleur pantalone grigio e<br />
boccoli sciolti sulle spalle. Lavorava alla Divisione della Gioia di C.so<br />
Vercelli. Coincidenza, sincronicità, il mondo è piccolo, pensatela un po’<br />
come vi pare.<br />
Fattasi ormai donna e in carriera, un po’ segnata in viso ma <strong>forse</strong> per<br />
questo più bella che mai, Stefania si era separata dal suo biondissimo e<br />
gagliardo pallavolista e si era messa insieme con un nostro ex compagno<br />
di classe nuotatore (è fissata con gli sportivi, la ragazza) che ai tempi del<br />
liceo in una normale conversazione spiccicava monosillabi ma quando era<br />
chiamato alla lavagna per essere interrogato mitragliava date, cognizioni e<br />
logaritmi come un kalashnikov antropomorfo. Stefania organizzò una<br />
rimpatriata in una pizzeria cui da masochista patentato quale sono volli<br />
partecipare. Al dolce, alticcio come un meteorite, confessai a quei postsecchioni<br />
tutta la mia smodata passione per Iggy Pop. Mr. Monosillabo,<br />
Domenico “Mecu” Spitz della Piscina Comunale, commentò con una<br />
punta di sarcasmo: “Ci credo che ti piaccia, ha il tuo stesso fisico.” La<br />
locuzione più lunga che lo stronzetto malcagato aveva mai pronunciato,<br />
cui reagii mandandogli un bacio in punta di dita canzonatorio. Ma non so<br />
cosa mi trattenne dal volargli al collo.<br />
Le insondabili regole dell’attrazione e gli squassanti tormenti dell’amore<br />
non corrisposto: c’è chi ci ha scritto su fior di libri. E di canzoni. Come<br />
Pere Pubill Calaf, 74 anni, gitano di Mataró, Barcellona, conosciuto in<br />
tutto il mondo (meno che da noi, i soliti sciovinisti ignoranti) come Peret,<br />
l’inventore della “rumba catalana”. Dopo una lunga e dura gavetta nei club<br />
per turisti della Costa Brava e nei tablaos madrileni, la sua carriera spiccò<br />
il volo nel 1963 con La noche del hawaiano, e non si fermò più. Nel 1968<br />
vinse il Midem di Cannes con una versione adrenalinica di un valzer del<br />
maestro Monreal, Una lágrima, poi disco dell’anno in Spagna; nello stesso<br />
periodo fu invitato dal leggendario Tom Jones al suo programma per la<br />
televisione britannica. Nondimeno il suo più grande smash fu Borriquito<br />
(asinello), due anni più tardi: “Borriquito como tú, tururú, que no sabes ni<br />
la u, tururú.” Walk On The Wild Side ante litteram.<br />
I continentali immuni ai sovvertimenti sociali e sonori degli anni Sessanta<br />
andavano in sollucchero per codesto zingaro che, in giacca di leopardo e<br />
pantaloni scampanati di lino, muoveva i fianchi come Elvis e cantava<br />
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come James Brown suonando la sua chitarra con la tecnica del ventilador,<br />
quella che per intenderci caratterizza uno dei più indigeribili tormentoni<br />
mai sentiti su questo squinternato corpo celeste: Volare dei Gipsy Kings.<br />
In quel momento il Peret aveva veramente il mondo in mano: gli mancava<br />
soltanto di registrare un concept album su una stella della rumba catalana<br />
rapita dagli alieni e restituita alla Terra in forma di tzigano telecinetico coi<br />
capelli platinati e la chitarra neutronica. Oppure prendere carta e penna (o<br />
più opportunamente ingaggiare un ghost writer) e buttar giù un deviante<br />
resoconto delle proprie esperienze cinematografiche – un titolo su tutti, Si<br />
Fulano fuese Mengano, Anno Domini 1971: traduzione, se Tizio fosse<br />
Caio!<br />
Diversamente, all’alba degli anni Ottanta Peret soffrì una profonda crisi<br />
mistico-religiosa al volante della propria auto (☺) e in un plis plas si fece<br />
pastore della Chiesa Evangelica di Filadelfia abbandonando la canzone,<br />
l’alcol, il tabacco, il gazpacho e quant’altro.<br />
Pressappoco nello stesso momento si scioglievano gli Only Ones di Peter<br />
Perrett, in una burrasca di droghe violenti disaccordi e incidenti stradali.<br />
Gli Only Ones furono una band inglese settantasettina con una distintiva<br />
influenza velvettiana. Un’anomalia, perché in un’epoca di incitamenti alla<br />
ribellione e anfetaminiche celebrazioni della sboccata lo sfuggente Perrett,<br />
lui sì perossidato e impellicciato come una zoccola, rantolava di tremendi<br />
doposbornia, compulsioni croniche e infatuazioni senza speranza annegate<br />
in spremute di barbiturici ed eroina mentre la chitarra solista di John Perry<br />
volava alta come un falco pellegrino. Vaticinio di angst pop. Ebbero un<br />
moderato hit con la rutilante Another Girl, Another Planet, ma avrebbero<br />
meritato maggior fortuna. Classico gruppo rivalutato col tempo.<br />
Torniamo a Peret. Nel 1991 il chitarrista zingaro dalle basette impossibili<br />
annunciò il suo ritorno alla musica e l’anno dopo partecipò alla cerimonia<br />
di chiusura delle Olimpiadi di Barcellona. Nel 2000 pubblicò El rey de la<br />
rumba, dove canta insieme a David Byrne (nientemeno!), Jarabe de Palo,<br />
Amparanoia, Manu Chao… Non sarebbe stato male dare una voce anche a<br />
Peter Perrett, magari per rifare la sua canzone più bella in stile ventilatore:<br />
La chavala del planeta rumbero. Non suona fenomenale?<br />
Maybe avrei potuto ritentarci con Stefania. Niente lettere stavolta: l’avrei<br />
invitata a un caffè e le avrei cantato una bellissima cibernetica canzone dei<br />
Cars dal loro album più ostico, Panorama: Don’t tell me no. Non dirmi di<br />
no. “È la mia festa, puoi venire. È la mia festa, divertiti. È il mio sogno,<br />
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fatti una risata. È la mia vita, prendine metà. Non dirmi di no, non dirmi di<br />
no, no, no.”<br />
Ma quando non ce n’è, non ce n’è e basta. Bisogna farsene una ragione. E<br />
non è un cazzo facile.<br />
Nel 1992 la Danimarca vinse a sorpresa i campionati europei di calcio.<br />
Poco dopo centinaia di italiani si catapultarono a Copenaghen per piantare<br />
il piccone giocandosela con la solidarietà calcistica. Ci andai anch’io con<br />
la mia nuova banda, anche se non vi passammo più di tre giorni: pareva di<br />
stare ad Alassio. Prendemmo un traghetto per la penisola dello Jutland che<br />
poi attraversammo a quattro ruote fino ad Ålborg, una cittadina parecchio<br />
ospitale e piena di vita. Nessuno di noi fece l’amore. Quanto lirismo… Le<br />
occasioni non mancarono, ma in vacanza bisogna essere un po’ burini per<br />
far sesso e noi facevamo parte della Lega dei Gentiluomini (dei Babbioni<br />
per qualcuno, ma me lo venga a dire in faccia che poi gli spacco la sua). In<br />
compenso, sbevazzammo come dei soldati dell’Armata Rossa in licenza:<br />
soprattutto Carlsberg corretta con un centellino di Gammel Dansk, un<br />
bitter fabbricato con un numero spropositato d’erbe e spezie tra le quali il<br />
cinnamomo, l’anice, la noce moscata, la genziana, il lauro e l’angelica. In<br />
ogni modo le danesi sono di una bellezza che non appartiene a questo<br />
mondo.<br />
La Carlsberg, intesa come fabbrica, è uno dei colossi mondiali della <strong>birra</strong>.<br />
Fu proprio nei suoi laboratori che fu isolato e coltivato un ceppo puro di<br />
Saccharomyces carlsbergensis. La leggenda narra che nel 1875 tal Emil<br />
Christian Hansen, di ritorno dalla Germania, trasportò il fermento delle<br />
birre lager versandovi di tanto in tanto dell’acqua per mantenerlo in vita<br />
fino a Copenaghen. Oggi del florido gruppo Carlsberg fanno parte anche<br />
la Tuborg di Copenaghen e, in parte, la Ceres di Århus. Al presente bevo<br />
Carlsberg di rado, benché volentieri: per quanto sia leggera, è sempre più<br />
gustosa di certe idrolitine spillate nei locali di tendenza o della famigerata<br />
Beck’s, “la <strong>birra</strong> tedesca più venduta in Italia”, un fenomeno frutto sia di<br />
un’ammirevole quanto perniciosa campagna di marketing sia dell’atavica<br />
predisposizione italica alla sudditanza culturale. (Mi ci metto anch’io nel<br />
mucchio, ne ho bevuta e continuo a berne a casse! La Ceres Strong Ale,<br />
all’opposto, non la voglio più vedere neanche dipinta.)<br />
Occhi iniettati di sangue…<br />
Gli X, storici portabandiera del beach-punk di Los Angeles, parteciparono<br />
29
alla colonna sonora di Breathless con il brano omonimo, scritto e portato<br />
al successo dal grandissimo Jerry Lee Lewis nel 1958. Lo potete ascoltare<br />
mentre scorrono i titoli di coda. Questo gruppo straordinario, formatosi nel<br />
1978, esordì a 33 giri due anni dopo con Los Angeles, prodotto dall’ex<br />
tastierista dei Doors Ray Manzarek. Molti giudicano L.A. il capolavoro del<br />
punk californiano, benché sia arduo tranciare giudizi con antagonisti quali<br />
Damaged dei Black Flag, Fresh Fruit For Rotten Vegetables dei Dead<br />
Kennedys, Group Sex dei Circle Jerks, G.I. dei Germs e Adolescents.<br />
Nondimeno L.A. stravince, non fosse per altro motivo che contiene la più<br />
bella canzone sul doposbronza mai scritta da una rock band: Nausea.<br />
Musicalmente Nausea suona come Soul Kitchen dei Doors funestata dai<br />
Black Sabbath e dagli Stooges. Fu vagamente ispirata da una bettola punk<br />
conosciuta come il Plunger Pit che era situata dietro una libreria per adulti<br />
nel Santa Monica Boulevard. Il beverone della <strong>casa</strong> era gin con soda alla<br />
fragola – un miscuglio criminale che provocava dei postumi apocalittici.<br />
La camaleontica front-woman Exene Cervenka ce li racconta così:<br />
Oggi starai male, oh così male. Sorreggerai la tua fronte sul lavandino dicendo oh<br />
Cristo oh Gesù Cristo la mia testa sta facendo crack come una banca. Stasera ti<br />
addormenterai nei tuoi panni frusti come una barretta di cioccolato incartocciata<br />
per pranzo. Questo è tutto ciò che hai da gustare… miseria e saliva. Miseria e<br />
saliva.<br />
Parli disarmonicamente. Non riesci a ricordare quello che dici. Dacci un taglio.<br />
Ti senti ritardata. Prendi le forbici e taglia via la testa.<br />
Nausea, occhi iniettati di sangue vai con la nausea, occhi arrossati vai con la<br />
nausea, occhi infiammati vai a dormire.<br />
Difficile non riconoscervisi. Io mi ci riconosco al 100%. La cosa certa è<br />
che se il mio lavandino e la tazza guadagnassero per miracolo il dono della<br />
favella, mi vomiterebbero addosso una quantità d’insulti diecimila volte<br />
superiore alla quantità di succhi gastrici che ho vomitato dentro ambo gli<br />
impianti igienici nel corso degli ultimi venticinque anni. Eppure non mi<br />
considero uno di stomaco debole. È che molto spesso ho passato il limite.<br />
E continuo a farlo, seppure con un quanto di coscienza in più. Oliver Reed<br />
da lassù farebbe uno sciocco sorriso consapevole: “Yes, man, sai il fatto<br />
tuo. Ma non sei più un giovanotto. Forse è meglio che ti dia una regolata,<br />
se non vuoi venire quassù a farmi compagnia prima del tempo.”<br />
In una di quelle disastrose mattinate post-Studio 2, aprii gli occhi e gemei<br />
oh Cristo o Gesù Cristo almeno sette volte. Rivolsi uno sguardo di polpo<br />
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alla sveglia: le nove e venticinque. Ero rientrato da quattro ore scarse, ma<br />
d’altronde l’eccesso d’alcol mi ha sempre fatto dormire poco. Poco dopo<br />
giunse la prima nausea. Guizzai via dal letto e, tappandomi la bocca con<br />
una mano, corsi verso il bagno. Era occupato, cristiddio. Retrocedetti in<br />
camera soffocando un’imprecazione e il secondo conato. «Dove diamine<br />
sbocco adesso? Porca troia, farò la fine di Jimi Hendrix!»<br />
La terza nonché decisiva nausea scatenò una fuoriuscita torrenziale di<br />
succhi gastrici misti a <strong>birra</strong> chiara e scura – Guinness del Charisma Pub! –<br />
e residui della cena che fu accolta provvidenzialmente da uno shopper di<br />
Rock’n’Folk, il mio negozio di dischi preferito. Dopodiché m’infilai di<br />
nuovo sotto le coperte e caddi istantaneamente in un coma profondo fino<br />
all’ora di pranzo, rimovendo totalmente dalla mia memoria il ricordo del<br />
sacchetto.<br />
Passati due giorni, di ritorno da un’altra giornata allucinogena nel campo<br />
di concentramento di Viale Puglia 35, trovai mia madre piantata al centro<br />
della cameretta. “<strong>Maurizio</strong>, cosa accidenti è quello?” mi chiese in tono<br />
inquisitorio neanche n’ebbi oltrepassata la soglia, puntando l’indice verso<br />
lo shopper R’n’F appeso a un appendiabiti da muro, mezzo pieno del mio<br />
rigurgito che cinquantasette ore di giacenza avevano fermentato in una<br />
nuova innovativa marca di lager stout.<br />
31
Figura 3. Tasso alcolico 3.5.<br />
32
MALCOM O’MOLONEY<br />
Intorno alla monumentale fonte di Murrieta, sita nella strada recante il medesimo<br />
nome, in realtà appellativo nobiliario di un illustre marchese e bottegaio riojano<br />
del secolo XIX, aveva proliferato recentemente un buon numero di birrerie<br />
decorate a imitazione d’idealizzate taverne irlandesi. In poco tempo si era<br />
conformata tutta una zona di stabilimenti omogenei che permetteva di scegliere<br />
tra un ampio ventaglio di possibilità itineranti, o lunghi e sedentari giri di bevute,<br />
per degustare alcune pinte o mezze pinte di molteplici birre d’importazione. In<br />
alcuni posti vi era addirittura uno spillatore di Guinness, in luogo della marca<br />
succedanea di turno. Sfortunatamente, in nessuno esisteva una cannella della<br />
varietà Draught Guinness, dotata di un corpo particolarmente intenso e una<br />
spuma tanto densa da poter disegnarci sopra il tradizionale trifoglio irlandese, lo<br />
shamrock, mediante il preciso movimento del bicchiere da 0,568 litri sotto il<br />
sottile e opaco getto di <strong>birra</strong>.<br />
Javier Alonso, Sueños y cadáveres.<br />
La zona descritta dall’Autore si trova a Logroño, capoluogo della regione<br />
spagnola della Rioja, dov’egli è nato e cresciuto ed esercita la professione<br />
di “scrittore provinciale” (parole sue). Pronunciando la parola “Rioja” mi<br />
scatta subito l’associazione cerebro-palatale con alcuni dei migliori vini<br />
rossi prodotti nella piel del toro, molti dei quali ho avuto il privilegio di<br />
assaggiare. Tuttavia qui si sta dissertando di <strong>birra</strong> e affini, e riguardo alla<br />
Guinness il buon Javier non potrebbe aver dipinto meglio il quadro…<br />
scuro della situazione. Finanche a Torino le “birrerie decorate a imitazione<br />
d’idealizzate taverne irlandesi” si sono moltiplicate a dismisura, sull’onda<br />
dell’accresciuto interesse turistico per quell’amabile isola celtica: ma non<br />
sempre vi trovi la Guinness, e meno ancora la Draught. Se va di lusso ti<br />
propinano la Beamish, che non è proprio la stessa cosa, altrimenti qualche<br />
intruglio imbevibile fabbricato da cinesi ridotti in schiavitù nei sottoscala<br />
di Porta Palazzo.<br />
Di aver scoperto la Guinness e le meraviglie della verde Irlanda devo<br />
ringraziare i Pogues, specialmente il loro alcolizzato (ex) leader Shane<br />
McGowan. Sempre in quella memorabile primavera del 1988, un bel<br />
pomeriggio montai su un Intercity e me ne andai da solo a Milano per<br />
assistere a un triplice concerto della madonna: Steve Ray Vaughan,<br />
Pogues e Los Lobos!<br />
La kermesse ebbe luogo al Palatrussardi. Io mi andai a piazzare in una<br />
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delle due tribune laterali. Il compianto Steve Ray Vaughan sfoggiò tutta la<br />
sua titanica tecnica strumentale – se qualcuno non lo sapesse, quelle fluide<br />
parti solistiche di chitarra in China Girl di David Bowie sono opera sua. A<br />
prescindere che di quella canzone io preferisco di gran lunga la versione<br />
tragica che ne offre Iggy Pop in The Idiot. Comunque sia Steve Ray lasciò<br />
il palco tra gli applausi del non foltissimo pubblico e vi salirono i Pogues<br />
recando tutto il loro composito strumentario. Per allora io mi ero già<br />
scolato due belle medie nere e mi accingevo ad attaccare la terza. “Figa,<br />
Pogues deriva da pogue mahone, che in gaelico significa baciami il culo”<br />
si sentì in dovere di chiosare una rossa occhialuta e mingherlina seduta<br />
alla mia destra. Shane McGowan non era ancora quell’ubriacone lacero e<br />
gracchiante che avrei compatito sedici anni dopo al Torino Traffic Festival<br />
e il concerto fu molto divertente. Fiesta, l’epitome del loro stile scomposto<br />
e festaiolo, scatenò le danze in tutto il palazzetto. Dei Los Lobos ascoltai<br />
soltanto due canzoni, poi volai come l’Enterprise a prendere l’ultima corsa<br />
della metropolitana per la stazione ferroviaria di Milano Centrale. Ero già<br />
appagato così.<br />
Rividi i Pogues altre due volte, sempre a Milano ma al Rolling Stone e a<br />
Torino in Piazza D’Armi sotto un tendone. In quest’ultima occasione io i<br />
miei amici e vari altri spettatori ebbri ci lanciammo in un “trenino” come<br />
neanche in quelle feste di Capodanno con la compilation di Jorge Ben<br />
suonata a volume spaccatimpani che fanno la prosperità dei rivenditori<br />
d’armi automatiche. Poche settimane dopo c’imbarcammo in quattro a Le<br />
Havre per la terra di San Patrizio.<br />
Thousand are sailing across the Western Ocean. In quel viaggio io diedi il<br />
meglio (o il peggio) di me stesso. Cominciammo a bere Guinness e Jack<br />
Daniel’s nel bar ristorante del ferry-boat fin dal tardo pomeriggio. Verso le<br />
nove di sera salì in pedana un tipico gruppo da pub e noi eravamo già<br />
ciucchi come delle biglie. Come se non bastasse stringemmo amicizia con<br />
un fulminato d’irlandese segaligno (Liam, mi sembra si chiamasse: un<br />
classico) e dopo innumerevoli rondas d’ogni bevanda esistente su questa<br />
terra e perfino un brindisi all’I.R.A. e a Bobby Sands finimmo a cantare<br />
tutti in coro House of the Rising Sun come dei coyote con la raucedine. Poi<br />
ci disperdemmo partendo ognuno per la propria tangente etilica. Io andai<br />
fuori a tentare di ripigliarmi con l’aria salmastra e qualche sigaretta, ma il<br />
beccheggio del naviglio peggiorò repentinamente la condizione. Allora<br />
rientrai andandomi a raggomitolare su una poltroncina in ultima fila nel<br />
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salone di poppa, fornito di schermo gigante, togliendomi le scarpe. Passati<br />
cinque minuti ebbi il primo, violentissimo conato. Mi alzai di scatto e<br />
corsi verso i servizi. Ormai a un nanosecondo dallo sbocco, mi cacciai nel<br />
bagno delle donne, traumatizzando probabilmente a vita quelle due povere<br />
ragazze francesi che andavano passandosi uno zampirone. Ricordo come<br />
fosse ora il loro grido simultaneo di terrore allorché, scalzo e con il volto<br />
alterato dal disgusto, sfrecciai tra loro come Oscar Pistorius per andare a<br />
depositare fra una tazza e le bianche mattonelle circostanti. Poi biascicai<br />
delle scuse in idioma gallico che le due fattone controbatterono con insulti<br />
irriferibili e tossendo carcinomatosamente riparai nel bagno dei maschi per<br />
sciacquarmi la bocca e la faccia.<br />
Ritornato alla poltroncina provai a dormire, ma il mio stomaco era ancora<br />
irritato. Di lì a poco il secondo round di chimo, assai meno impetuoso del<br />
primo ma non meno corrosivo, andò a concimare un lotto in penombra in<br />
fondo al salone. Doppio rintocco e finalmente sprofondai in un sonno<br />
senza sogni.<br />
Intorno alle dieci del mattino fui destato da un sonoro Scheiße! (“Merda!”)<br />
emesso alle mie spalle, seguito da altre presumibili parolacce in tedesco.<br />
Circospetto, infilai lo sguardo arrossato e il naso intasato di muco nello<br />
spazio tra i sedili. Un accampamento di punkabbestia stava bestemmiando<br />
all’indirizzo nel mio vomito rappreso tra moquette, parete e il lato piedi di<br />
un sacco a pelo color verde militare.<br />
Accanto a me Enrico ridacchiò e disse sottovoce: “Cazzarola, Mauri, gli<br />
hai palumato addosso mentre dormivano!”<br />
Io, in un moto di cinismo reazionario senza pari, mi strinsi nelle spalle.<br />
“Embé? Tanto ci sono abituati.”<br />
Ancora adesso non so se veramente vomitai addosso ai quei punk estremi<br />
teutonici o piuttosto essi per colpa del buio e/o della bomba che avevano<br />
addosso non distinsero la mia opera d’arte ready-made stendendovi sopra<br />
le loro membra ossute. La prima versione è ormai leggenda consolidata tra<br />
i miei amici più cari. E così sia.<br />
Secondo la mitologia irlandese, le genti dell’isola verde guadagnarono per<br />
sempre il diritto a consumare e produrre <strong>birra</strong> sconfiggendo i Fomoriani<br />
nella seconda battaglia di Magh Tuireadh. I Fomoriani, Fomorii Fo-Moir o<br />
Fomorach in gaelico, erano un popolo violento e deforme la cui sede era<br />
Tory Island. Frequentemente figurati con una sola mano, piede od occhio,<br />
erano gli dei malvagi del mito irlandese, benché il nome sembra significhi<br />
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“cavernicoli sottomarini”. Una definizione calzante per come mi sentivo io<br />
quando toccammo terra celtica: col viso dal pallore cadaverico, lo sguardo<br />
stralunato e la tremarella alle gambe, parevo proprio un discendente dei<br />
Fomoriani.<br />
Sembra che nel 1610 nella sola città di Dublino, abitata allora da 4000<br />
famiglie, esistessero quasi 1200 birrerie. Non so dirvi quanti pub fossero<br />
censiti nel 1991; certo è che ne visitammo in abbondanza, specialmente<br />
nella zona di Temple Bar. Cominciavamo a sbevazzare già a colazione e<br />
finivamo giusto un attimo prima della pedante scampanata che annunciava<br />
agli avventori la chiusura del pub. Il rituale di versamento della Guinness<br />
mi rapiva, e mi rapisce, ogni volta. Il barista mantiene il boccale inclinato<br />
a 45°, sotto la spina, che si spinge in avanti in modo che lo spesso liquido<br />
scuro vada a innaffiare il retro del boccale. Una volta riempito per tre<br />
quarti, il bicchiere è lasciato decantare affinché il liquido più pesante vada<br />
a depositarsi sul fondo, lasciando in superficie la schiuma cremosa e più<br />
leggera. Passati due minuti circa si completa il riempimento, ma questa<br />
volta il rubinetto è spinto all’indietro, di modo che the pint of plain si<br />
colmi solo d’inchiostro. E dopo è tutta vita.<br />
Da buoni animali notturni, non potevamo accontentarci di un turbinio di<br />
birre e doppi, un juke-box coi vecchi pezzi dei Thin Lizzy e l’immancabile<br />
concerto di sean nos (motivi tradizionali irlandesi). Ma quando una sera<br />
provammo a entrare in un locale storico di Dublino, McGonagles, la cui<br />
programmazione musicale da noi letta nel tardo pomeriggio su un flyer<br />
prometteva scintille (sound del 1977 e derivati), fummo rimbalzati come<br />
palline da squash per “non avere il look adatto”. Figuratevi: due skinhead,<br />
un modernista e uno sbirro infiltrato nella mala irlandese di Hell’s Kitchen<br />
(il sottoscritto, che prima di partire si era sparato Stato di grazia in Vhs<br />
fino alla nausea. Adoro Sean Penn, Ed Harris e Gary Oldman. Ma anche<br />
Robin Wright…). Più adatti di così! Ciò nondimeno i due buttafuori dallo<br />
spiccato accento brogue ebbero il cavalleresco dettaglio d’informarci che<br />
la soirée sucessiva sarebbe stata più appropriata alle nostre tendenze:<br />
baggy e shoegazer… ah ah ah ah. In qualunque modo ci ripresentammo e<br />
fu divertente, per me un’autentica epifania musicale. Divenni un fan di<br />
quella roba psico-rock-danzereccia edonistica: EMF, Carter USM, Jesus<br />
Jones, Soup Dragons, Ride, My Bloody Valentine, The Wonder Stuff,<br />
Curve, Stone Roses, Happy Mondays… e Black Grape.<br />
Gli Happy Mondays non furono soltanto esponenti celeberrimi del “Madchester”<br />
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che scosse la Gran Bretagna negli anni Novanta, ma furono anche rappresentativi<br />
delle sue origini sociali. Formati nel 1981 dal delinquente e tossicodipendente<br />
Shaun Ryder, gli Happy Mondays rappresentavano l’alienazione dei giovani<br />
sottoproletari delle zone industriali (come appunto Manchester) durante il<br />
periodo conservatore di Lady Margaret Thatcher. Man mano che le discoteche<br />
rimpiazzavano i pub come luogo di perdizione per i giovani, il techno di Detroit<br />
soppiantava il vecchio rhythm and blues dei pub, e parallelamente l’ecstasy<br />
detronizzava l’alcol. (…) Ryder tornera` a galla alla testa dei Black Grape nel<br />
1995, formazione con due rapper (Ryder e Paul Leveridge), la chitarra bruciante<br />
di Paul Wagstaff e un’orchestrina di fiati e tastiere. Il ballabile poliedrico (funk,<br />
hip-hop, jungle, house, reggae e heavy metal) di It’s Great When You’re Straight<br />
(Radioactive, 1995) sfodera l’impeto scanzonato dei Red Hot Chili Peppers e la<br />
coralità epica dei Clash, dallo shuffle indiavolato di Reverend Black Grape alla<br />
giostra raga-psichedelica di In The Name Of The Father, dalla filastrocca<br />
decadente e spaziale di Kelly’s Heroes al rap con organo soul di Little Bob.<br />
Album senza pretese, che continua semplicemente la vena “folle” di Madchester,<br />
ma che segna anche un ritorno alla grande per Ryder.<br />
Piero Scaruffi, Storia della musica rock.<br />
Andavo avanti a <strong>birra</strong>, whisky e tramezzini al salmone. Secondo un mito<br />
irlandese, il salmone Fintan mangiò le Nocciole della Conoscenza prima<br />
di nuotare fino a una pozza nel fiume Boyne. Là fu pescato dal druido<br />
Finegas e dato a Fionn Mac Cumhail da cucinare. Fionn, uno dei più<br />
celebrati eroi della mitologia irlandese, si scottò il pollice con la carne del<br />
pesce girando lo spiedo, se lo succhiò e in quel modo acquisì la saggezza.<br />
Non per niente, dopo tutto quel salmone al mio ritorno a Torino cominciai<br />
a scrivere racconti.<br />
Al terzo o quarto giorno di bed & breakfast mi si produsse una fobia per i<br />
chambermaids, che alle dieci inesorabili venivano a battere alla porta per<br />
rassettare la camera. “No, thanks, I want to sleep”, mugolavo sempre in<br />
risposta, rumore bianco nella testa rintanata sotto il cuscino. Una mattina<br />
l’amico Steve si spacciò per uno di loro imitandone la tiritera in maniera<br />
maccheronica e al mio ormai cronicizzato lamento ribatté in piemontese:<br />
“Sun mi, gadan! Bogia, ch’a l’è tard!” (“Sono io, fessacchiotto! Muoviti,<br />
che è tardi!”) Che simpatico. Se invece di un aspirante scrittore di finzione<br />
speculativa fossi stato un chitarrista dissoluto come Larry Wallis dei Pink<br />
Fairies, avrei colto le possibilità fottitorie della situazione piuttosto che<br />
lagnarmi – nel 1973 quest’ingiustamente trascurato gruppo proto-punk<br />
londinese scrisse un brano travolgente proprio sulle cameriere d’albergo,<br />
37
Chambermaid per l’appunto: “Non m’importa se sembra un cane / purché<br />
faccia un ottimo lavoro/job/blowjob/bocchino.” Della serie, siamo in tour<br />
ragazzi, basta che respirino! Ma del senno di poi sono stracolmi gli otri.<br />
Oltre a questo le cameriere irlandesi sono in prevalenza delle cinghialotte<br />
rubiconde. Perlomeno lo erano tutte coloro che venivano a scassarmi i<br />
marroni glassati. D’altronde non tutti i giorni ci è concesso di giacere con<br />
Nicole Kidman. E ogni scopata lasciata è persa.<br />
Decidemmo la tappa susseguente a Dublino puntando un dito a caso sulla<br />
costa occidentale dell’Irlanda: Limerick. La National 7 ci condusse laggiù<br />
attraverso meravigliosi panorami di smeraldo. Limerick è una tranquilla<br />
cittadina situata alla foce del fiume Shannon. Forse troppo tranquilla per i<br />
nostri gusti vitaioli, ma n’approfittammo per smaltire le rimanenti tossine<br />
sabaude in circolo. Fu certamente una delle vacanze più rigeneranti che io<br />
abbia mai fatto. Un giorno ce ne andammo in gita al King John’s Castle,<br />
intitolato a John Lackland (Giovanni Senzaterra), re d’Inghilterra dal 1199<br />
al 1216, noto soprattutto per aver concesso la Magna Charta – il primo<br />
documento fondamentale per la concessione dei diritti ai cittadini – e per i<br />
terribili sbalzi d’umore. Ehm, in verità nel castello neanche vi entrammo:<br />
ci fermammo in un pub nei pressi a macinare qualcosa e sbevazzare. Notai<br />
che di fronte allo stesso era parcheggiato un autobus turistico. Ci sedemmo<br />
a un tavolo e ordinammo le usuali quattro pinte. Accanto, un tizio sulla<br />
cinquantina abbondante, secco come un lupo, coi capelli neri ancora folti e<br />
lunghi fino alle spalle e i basettoni, stava spiegando a una signora:<br />
“Sì, sono io il conducente di quel pullman là fuori. Mi chiamo Malcom.<br />
Malcom O’Moloney.” Ne aveva addosso una da cinegiornale. “Sissignore,<br />
O’Moloney. Tipico cognome di Limerick. O’Moloney.”<br />
Conducente d’autobus turistici. Davvero? Per la miseria, era più sbronzo<br />
di un soldato mongolo dell’Orda d’Oro nel corso di una gozzoviglia per<br />
l’ennesima conquista!<br />
Noi ce la ridevamo sotto i baffi sorseggiando le nostre Guinness, ma nel<br />
momento in cui la signora riuscì a sganciarsene gli occhi azzurro slavato<br />
di Mr. O’Moloney cercarono e trovarono un altro soggetto cui attaccare<br />
bottone: me.<br />
Io all’epoca ero piuttosto sospettoso e suscettibile. Il tempo e le traversie<br />
mi hanno blandito alquanto. Fosse ora, stringerei la mano a Malcom, gli<br />
offrirei un Tullamore Dew – poiché tale era il suo scopo, farsi offrire da<br />
bere, <strong>forse</strong> aveva finito i soldi –, starei a sentire pazientemente per un po’ i<br />
suoi vaniloqui onomastici e come dicono gli spagnoli, aquí paz y después<br />
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gloria. Per contro allora quand’egli mi mise sorridendo una mano sulla<br />
spalla io gli restituii un’occhiataccia che lo respinse quasi all’istante nel<br />
suo cantuccio. Eppure non nutro alcun senso di colpa postumo per il mio<br />
comportamento scostante, dacché con ogni probabilità salvai la pelle ai<br />
passeggeri di quel torpedone. E allo stesso Malcom O’Moloney.<br />
La nostra breve vacanza si spense nobilmente a Wexford, un’altra ridente<br />
piccola città incastonata nella costa sud-ovest dell’isola pochi chilometri a<br />
nord di Rosslare, l’approdo-imbarco per il continente europeo. Wexford,<br />
che in norvegese significa “la baia delle basse maree”, fu fondata dai<br />
Vikinghi al principio del IX secolo d.C. Per aver rifiutato la capitolazione,<br />
Oliver Cromwell nel 1649 fece mettere a sacco la città e passare l’intera<br />
popolazione per le armi, inclusi i Frati Francescani. Nel 1963 JFK vi<br />
venne in visita e fu fatto Freeman, Uomo Libero, la più alta onorificenza<br />
che la città poteva conferire. Pochi mesi dopo veniva assassinato a Dallas.<br />
A Wexford assistemmo a un concerto della band irlandese del momento, i<br />
Saw Doctors. Il loro album d’esordio, di cui ancora posseggo il nastro,<br />
s’intitola If this is Rock and Roll, I want my old job back. Se questo è<br />
rock’n’roll, rivoglio indietro il mio vecchio lavoro. Semplicemente il più<br />
bel titolo d’album della storia del rock. Più mainstream dei Pogues ma non<br />
meno frizzanti, i Doctors ci piacquero parecchio. Durante uno dei brani<br />
più folk una carampana scalza e florida mi coinvolse in una danza sfrenata<br />
per mezza sala. Io mi prestai di buon grado. Steve, Ricu e Daffy ridevano<br />
come matti, ma di lì a pochi minuti toccò a me smascellarmi. Una ragazza<br />
piuttosto carina si affiancò a Steve e gli chiese: “Do you enjoy the band?”<br />
Stefano, amico mio non me ne volere ma non sei mai stato un’aquila reale<br />
in inglese, rispose: “No, thank. I don’t smoke.” Aveva inteso che la tizia<br />
gli avesse proposto di farsi un joint (una canna) insieme. E i Saw Doctors,<br />
vecchi marpioni loro, suonarono That’s what she said last night.<br />
Giovedì 25 settembre 20**, h 09.29 a.m., CET. Potenza di Internet. Nel<br />
cognome Molony o Moloney, O Maoldhomhnaigh in gaelico irlandese,<br />
oggi raramente è riscontrabile il prefisso originale “O”, nonostante sia<br />
totalmente gaelico e per questo virtualmente irrintracciabile in Inghilterra.<br />
Moloney è un interessante esempio delle stravaganze della nomenclatura<br />
irlandese. Alcune famiglie del North Tipperary chiamate Molony non sono<br />
O Maoldhomhnaigh, ma O Maolfhachtna, il quale, comunque, è altresì in<br />
rari casi anglicizzato in Maloughney e MacLoughney. (“Mi chiamo<br />
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Malcom O’Moloney.” Il George Best di Limerick compitava il proprio<br />
cognome con spiritica devozione. “O’Mo-lo-ney.”)<br />
Il buon Malcom può vantare alcuni illustri predecessori nel suo albero<br />
genealogico. John O’Moloney (1617-1702) fu straordinario sia per i suoi<br />
conseguimenti intellettuali come professore universitario a Parigi sia per la<br />
sua forte resistenza alla persecuzione dei cattolici in Irlanda. Il colonnello<br />
Sir James Stacpoole Moloney fu uno degli intrepidi soldati che presero<br />
parte al disperato attacco a Montreal nel 1786, in cui novantatré dei cento<br />
partecipanti furono uccisi. Martin Molony (1847-1929) fu un milionario<br />
che si fece da sé negli Stati Uniti.<br />
Quanto a Malcom O’Moloney, credo che passerà alla storia come il più<br />
alcolizzato conducente d’autobus granturismo mai vissuto in Irlanda.<br />
Figura 4. Dublino, 1991. Io sono quello con la T-shirt di Iggy Pop.<br />
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GARAGARDO KATXI BAT<br />
Di recente il professor Stephen Oppenheimer dell’Università di Oxford ha<br />
pubblicato un libro, The origin of the British, in cui dimostra che i popoli<br />
britannici discendono… dai baschi. È la diramazione più singolare di<br />
un’ipotesi già portata avanti da altri accademici europei: in una zona<br />
comprendente gli attuali Paesi Baschi, la Cantabria e L’Aquitania esistette<br />
uno dei più importanti rifugi durante l’ultima glaciazione. Per ripararsi dal<br />
freddo intenso, un gruppo di uomini di Cro-magnon si stabilì in questo<br />
Eden. Quando il clima tornò a essere benigno, a partire da 15 mila anni fa,<br />
le tribù vasconiche si dispersero per i territori che i loro antenati avevano<br />
abbandonato a causa del cambiamento climatico. Anche se non furono le<br />
uniche a raggiungere e colonizzare le isole britanniche.<br />
Il metodo della ricerca dello scienziato oxfordiano consiste nel confermare<br />
tale ipotesi mediante l’analisi dei dati ereditari raccolti dagli scienziati nel<br />
corso delle ultime decadi, che sono liberamente accessibili. In particolare,<br />
l’analisi dei marcatori genetici presenti nel Dna mitocondriale delle donne<br />
dell’Europa Occidentale rivela la loro discendenza da “Vera”, l’Eva basca,<br />
proveniente dal rifugio del Cantabrico. Di modo che saremmo tutti un po’<br />
baschi. Ciò spiegherebbe, da un punto di vista squisitamente junghiano,<br />
come il sottoscritto sia fatalmente ossessionato da Euskadi.<br />
Basandosi su quanto anzidetto si sarebbe portati a considerare che i Paesi<br />
Baschi, e di riflesso tutta la penisola iberica, abbiano una tradizione <strong>birra</strong>ia<br />
radicata nei secoli, come i loro possibili discendenti d’Albione. Invece non<br />
è così. Malgrado ciò, la Spagna è l’unico paese a tradizione vinicola a non<br />
avere bassi consumi di <strong>birra</strong> (poco meno di 70 litri pro capite all’anno!).<br />
Non per niente è il paese dove ho sentito, anzi letto per la prima volta – in<br />
un’intervista a Lucía Etxebarria, l’autrice di Beatrice e i corpi celesti –<br />
l’espressione beber como un cosaco: nella fattispecie, come una cosaca.<br />
Lo stile più diffuso al nord come al sud della “pelle del toro” è quello delle<br />
pils moderatamente amare, come nel caso dell’arcinota San Miguel, che in<br />
realtà è originaria delle Filippine. Se mettessi in fila tutte le San Miguel<br />
Especial che ho bevuto in vent’anni di vacanze al di là dei Pirenei (e anche<br />
nei Pirenei stessi) arriverei a sfiorare i bastioni di Orione. Ma a me piace<br />
un po’ troppo anche la Voll-Damm. Si tratta di una pilsner fabbricata dalla<br />
S.A. Damm di Barcellona; gagliarda e piena di corpo, questa <strong>birra</strong> similteutonica<br />
contiene il 7,2% d’alcol per volume. Se non ci stai attento ti sega<br />
41
le gambe. Nella sua prima novella El chico del la bomba José María Sanz<br />
detto “Loquillo”, personaggio chiave del rock spagnolo, scrive a proposito<br />
dell’intellettuale catalano Antonio Rabinad: “Tortilla de patatas e Voll-<br />
Damm per colazione non sono male per uno che ha passato la barriera dei<br />
settanta.” È una colazione da campioni anche per un quarantenne.<br />
Euskadi mi ha cambiato l’esistenza. La prima volta che vi ho messo piede,<br />
vent’anni e qualche mesetto fa, non avevo idea di che cosa mi aspettasse.<br />
A parte l’esistenza di un’organizzazione terroristica separatista chiamata<br />
E.T.A. e di due squadre di calcio mietenti successi in Spagna a cavallo fra<br />
gli anni Settanta e gli Ottanta, Athletic Bilbao e Real Sociedad, non<br />
sapevo un fico seccato al sole della Sicilia di quei territori. Ancora meno<br />
che il concetto di “popolo basco” si estendesse alla Navarra, alla Rioja<br />
alavesa e oltre i confini spagnoli in tre province francesi sotto un unico<br />
lemma: Euskal Herria. Per non parlare della lingua ivi parlata.<br />
Poi successe che un amico mi portò a Donostia-San Sebastián e io, dopo<br />
essermi sciroppato dal 1986, anno della mia prima vacanza in Spagna, una<br />
sfilza di prescindibili località balneari quali Gandia, Peñiscola, Tossa e<br />
Lloret de Mar e aver storto la canappia bighellonando per le Ramblas pre-<br />
Olimpiadi del 1992 – piagate di tossici italiani, spacciatori africani,<br />
mignotte col sarcoma di Kaposi e travestiti – scoprii infine il mio Paese<br />
Celtibero dei Balocchi: cerveza e vino tinto a torrenti, vecchio e nuovo<br />
rock’n’roll sparato a volumi inenarrabili in ogni taverna (Kortatu, Fugazi,<br />
Ramones… Pogues!), architettura guascone, e certe femmine ciarliere dai<br />
lineamenti particolari, quasi estoni. Soltanto che i Lucignoli si chiamavano<br />
Gorka, Patxi, Andoni e Julio e il giorno dopo – alle tre del pomeriggio –<br />
non mi risvegliai con le orecchie d’asino ma scuoiato come una volpe.<br />
(Azeria larrutu, letteralmente “scuoiare la volpe”, è uno dei ben cinque<br />
sinonimi coi quali l’euskera denomina i postumi della sbornia.)<br />
Gernika, 16 agosto 1994, festa di San Roque. Il ragazzo italiano dai capelli<br />
infeltriti con la T-shirt degli Smashing Pumpkins e le Adidas da calcetto,<br />
pericolosamente rassomigliante al sottoscritto, prende l’ennesimo sorso di<br />
calimocho dalla tinozza plastificata. C’è chi fra la sua comitiva aborrisce<br />
con tutta l’anima quella mistura di Coca Cola e vinaccia del paese dietro la<br />
collina, ma lui ne va pazzo e che importa se a forza di mandarne giù a litri<br />
la lingua gli si è fatta bluastra come se avesse contratto la tremenda febbre<br />
catarrale degli ovini causata dall’urbi et orbivirus, tanto alle sette passate<br />
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del mattino il pesce è già bell’è che venduto e chi ha caricato (in vacanza<br />
come a <strong>casa</strong> propria bisogna tassativamente darsi da fare tra mezzanotte e<br />
le tre del mattino, dopodiché è tutto tempo sprecato ammenoché non siate<br />
uno spacciatore di cocaina) sarà già alla seconda o terza mano, o <strong>forse</strong> sarà<br />
crollato sulle tettone Danone di Begoña Taldeitali già dopo la prima per<br />
eccesso di libagioni; quindi sarà per un’altra notte, Mauri, dài, la festa è<br />
appena incominciata e non farti troppe seghe mentali, che quelle fisiche<br />
sotto la doccia quando i tuoi compari stanno ancora dormendo la piomba<br />
della notte prima bastano e avanzano. Dico, hai ventinove anni!<br />
I giovani beoni di Gernika-Lumo, cioè Ibon Ackerman e la sua banda di<br />
contrabbandieri – uomini vigorosi dai nasi aquilini e donne indurite con lo<br />
schioppo sotto la gonna – non ne vogliono sapere di andare a coricarsi.<br />
Baldoria per ogni dove anche se sta sorgendo il sole. Col suo spagnolo<br />
zoppicante, <strong>Maurizio</strong> chiede a un tizio strutturato come un’immane bocca<br />
da fuoco del sedicesimo secolo se esista da qualche parte un locale afterhours:<br />
costui, paonazzo e ridanciano, gli traccia rapidamente con un dito<br />
nell’aria fresca una mappa olografica per giungere a un posto battezzato<br />
Metropolis. Non è molto lontano.<br />
Eccoci. Il Metropolis è una specie di magazzino saturo di fumo d’erba con<br />
uno schermo fissato alla parete opposta al bancone sul quale, non appena<br />
ci accingiamo a brindare per la centesima volta, appare quella sciamannata<br />
di Lene Lovich cantando Lucky Number, Anno di Grazia 1979. My Lucky<br />
Number’s One…Uh-oo-Uh-oo!<br />
Mi lascia basito. L’ultima volta che ho ascoltato questa canzone risale al<br />
tempo del nostro trionfo al Mundial di calcio spagnolo, e ’sti buontemponi<br />
ne possiedono perfino il video… Gora Euskadi!<br />
Gora Euskadi. Viva Euskadi. Il basco, euskera o euskara, è uno degli<br />
idiomi più ostici e misteriosi al mondo. Le stesse origini del popolo basco<br />
sono tuttora oscure. Se è pur vero che i britannici discendono dai baschi,<br />
da chi discendono questi ultimi? Quantunque in gioventù abbia divorato<br />
quantità di fantarcheologia, non ho mai preso per oro colato tutte quelle<br />
congetture su Atlantide, Mu, i dischi volanti e i disegni di Nazca. Ciò<br />
nonostante certe affinità fanno riflettere, e parecchio.<br />
Nell’entroterra basco non è infrequente incontrare donne i cui lineamenti<br />
somigliano al tipo di una scultura aurignaziana ritrovata a Unterwisternitz,<br />
in Moravia: fronte bassa, arco sopraccigliare marcato, naso lungo, bocca<br />
piccola, mento sporgente, testa allungata e sottile. La cultura aurignaziana<br />
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dell’Alto Paleolitico (32.000-21.000 anni a.C.) è considerata da alcuni<br />
archeologi la matrice dell’uomo moderno in Europa: sono attribuiti a essa<br />
i primi esempi tangibili di arte astratta nella storia dell’umanità – il nome<br />
deriva dall’importante sito archeologico di Aurignac, nel distretto francese<br />
dell’Alta Garonna. Sta di fatto che i caratteri di quella scultura somigliano<br />
in modo sorprendente anche al tipo delle strane “teste degli avi”, o Moai,<br />
di Rapa Nui.<br />
Oltre a questo la paleolinguistica riconosce un programma uniforme nel<br />
quale affluiscono non solo tutte le lingue parlate di oggi, ma anche quelle<br />
ormai estinte; il giapponese è affine all’idioma parlato in Georgia che a<br />
sua volta comprende molte radici linguistiche e perfino alcune parole che<br />
corrispondono all’euskera (nonostante in tempi recenti alcuni linguisti<br />
abbiano confutato la tesi di un’origine caucasica della lingua basca), dal<br />
canto suo straordinariamente simile all’idioma dei Lakandoni, una tribù di<br />
Indiani che vive nel nord del Guatemala, a tal punto che un missionario di<br />
origine basca vi predicava nella propria lingua con grande successo.<br />
In ogni modo, l’euskera è una brutta bestia. La cosa divertente è che<br />
spesso i baschi non si comprendono da un monte all’altro, essendo la loro<br />
lingua divisa in una varietà di dialetti. In tal caso tocca loro ricorrere al<br />
batua, l’euskera unificato. Comunque il viaggiatore che mastichi un po’ lo<br />
spagnolo castigliano va sul sicuro. Se poi ci tenete a suscitare un’inarcata<br />
di sopracciglio, epater le basque, ecco alcune frasi d’uso quotidiano:<br />
agur, aio, arrivederci!<br />
agur, arrivederci<br />
aizan!, aizak!, cameriera! cameriere!<br />
arraina, pesce<br />
arratsalde on, buonasera<br />
azkenean, in fondo<br />
ba al da hotelik hemen inguruan?, ci sono degli alberghi qui intorno?<br />
ba al dakizu ingeleraz hitz egiten?, parli inglese?<br />
badakizu euskaraz?, parli basco?<br />
bagarela!, ci siamo, stiamo arrivando<br />
bai ote?, veramente?<br />
bai, egun on, risposta a egun on, letteralmente buongiorno anche a te<br />
bai, sì<br />
barazkiak, verdura<br />
barkatu, scusami<br />
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erdin, hala zuri ere, ugualmente, anche a te<br />
bizi gara!, siamo vivi!<br />
botila ardo bat, una bottiglia di vino<br />
egun on denoi, buongiorno a tutti<br />
egun on, buongiorno<br />
emak bakia!, lasciami solo! (espressione usata anche dal mitico Man Ray<br />
come titolo del suo film e della sua scultura)<br />
eskerrik asko, grazie molte!<br />
eskuinetara, a destra<br />
eup!, ciao, anche apa o aupa o iep!<br />
ez dakit euskaraz hitz egiten, io non parlo basco<br />
ez dut nahi, non lo voglio<br />
ez dut ulertzen, non ho capito<br />
ez, no<br />
ezkerretara, a sinistra<br />
gabon, buonanotte (scuoiare il bufalo invece che la volpe…)<br />
garagardo katxi bat, un katxi di <strong>birra</strong><br />
geldi!, fermati!<br />
gero arte, ci vediamo dopo<br />
ikusi arte, ci vediamo!<br />
jakina!, noski!, sicuro! va bene!<br />
kafe ebakia nahi nuke, vorrei un caffè macchiato<br />
kafe hutsa nahi nuke, vorrei un caffé espresso<br />
kafesnea nahi nuke, vorrei un caffelatte<br />
kaixo aspaldiko!, ciao, quanto tempo!<br />
kaixo!, ciao!<br />
komuna, bagno<br />
lasai, tranquillo<br />
laster arte, ci vediamo presto<br />
mesedez, per favore<br />
metalura, acqua minerale (non suona anche a voi come il nome di una<br />
squadra di calcio polacca?)<br />
neska ederra, bella ragazza<br />
nire izena <strong>Maurizio</strong> da, mi chiamo <strong>Maurizio</strong><br />
non dago autobus-geltokia?, dov’è la stazione degli autobus?<br />
non dago komunak?, dove sono i bagni?<br />
non dago tren-geltokia?, dov’è la stazione (ferroviaria)?<br />
nongoa zara, da dove vieni?, dove abiti?<br />
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ogi piska bat, un po’ di pane<br />
pozten nau zu ezagutzeak, felice di conoscerti<br />
topa!, sono felice! (questa mi fa sbellicare dalle risa, insieme col nome di<br />
un paese in provincia di Bilbao: Fika.)<br />
ura, acqua<br />
xerra patata frji tuekin, bistecca con patate fritte<br />
zein da zure izena?, nola duzu izena?, come ti chiami?<br />
zer moduz?, come va?<br />
zorionak, buone feste!<br />
zuzen-zuzenian, sempre dritto<br />
La pronuncia non dovrebbe presentare grossi patemi. L’accento grafico<br />
non esiste e quello tonico è piuttosto flessibile. Vocali e consonanti si<br />
pronunciano come in italiano tranne che nelle seguenti eccezioni:<br />
g è sempre dura come in “gatto”.<br />
h muta in Euskadi, mentre è aspirata nel territorio basco-francese<br />
tx/ts come la “c” di “cena”<br />
tz “z” sorda, come in “zezè”, come la “c” di “cena” in Bizkaia<br />
z come la “s” di “sole”.<br />
Il katxi è un bicchiere di plastica da un litro in cui vengono mesciti <strong>birra</strong>,<br />
calimocho o kalimotxo (50% vino ordinario e 50% Coca Cola, inventato<br />
trentasei anni fa a Getxo, in provincia di Bilbao) e qualsivoglia altra<br />
pozione alcolica. Considerando lo spirito transumante che anima le feste e<br />
le festività basche, il katxi è piuttosto funzionale. Essendo in quattro, la<br />
classica cuadrilla da bisboccia, potete prenderne uno a testa e andare a<br />
zonzo sereni per un bel pezzo. Salvo che qualcuno – ogni allusione a una<br />
certa ragazza che conosco a Bilbao è fortemente voluta – non se ne esca<br />
con la malsana idea del Katxi Ketama: si pratica un foro nell’orlo inferiore<br />
del katxi e si beve a garganella, come fosse un porrón. Così finirete fradici<br />
in ambo i sensi. E se è kalimotxo, pure appiccicosi.<br />
S’intende che in Euskadi ogni occasione è buona per tracannare alcolici in<br />
quantità industriali. Ma è nelle feste patronali e simili che i vascones ci<br />
danno veramente dentro, come il resto della nazione. Nell’immaginario<br />
collettivo globale la Spagna è e rimarrà sempre associata al concetto di<br />
movida. Poco tempo fa Pedro Almodóvar si è espresso al riguardo: “Per<br />
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molta gente la movida continua a essere sinonimo di orgia perpetua. E non<br />
era esattamente ciò. L’esplosione ufficiale della movida madrilena fu nel<br />
1985, ma per me fu ciò che iniziò nel ’78 e si disfò all’inizio degli Ottanta.<br />
Oggi questo termine è usato largamente a sproposito.”<br />
Sia come sia, la movida basca è estroversa, colorita, inebriante. Le feste<br />
(jaiak) si succedono per tutto l’anno, da primavera a inverno. Perfino il<br />
pueblo più insipido dell’entroterra può trasformarsi in un pandemonio per<br />
tre-quattro giorni di fila: io e i miei amici amiamo spesso rimembrare una<br />
notte di balli e katxis a profusione spesa in un angolo recondito di Bizkaia<br />
che risponde al nome ostrogoto di Larrabetzu. Ma qui mi toccherà essere<br />
selettivo e parlare delle feste a mio modesto giudizio più importanti, da<br />
Carnevale a Ferragosto.<br />
È tradizione che si celebri il Carnevale (in basco, Iñauteriak o Iñotek) in<br />
alcune località di Euskal Herria durante i giorni anteriori alla Quaresima.<br />
Queste celebrazioni che esistono in tutti i paesi europei adottano nei Paesi<br />
Baschi diverse forme e personaggi: come i caldereros della Gipuzkoa,<br />
strane zingaresche comparse “che vengono dall’Ungheria”. A Zalduondo<br />
(Araba) il protagonista della festa è un pupazzo, Markitos, che ogni anno è<br />
giudicato, condannato e bruciato. Un altro fantoccio, Cachi (!), provvisto<br />
di una bandiera e vestito di verde e arancione, anima la festa di Oyón-<br />
Oion, sempre in Araba. Yoaldunak e Mozorros sono invece i pressoché<br />
inesprimibili nomi delle maschere che danno vita all’altrettanto indicibile<br />
Zanpanzar, il Carnevale della località navarra di Iturren-Zubieta, situata a<br />
una trentina di chilometri a nord-ovest di Pamplona-Iruñea lungo la<br />
N121A che porta a Irun. Ma il premio per il Carnevale più chiassoso e<br />
popolare lo vince la cittadina di Tolosa, in Gipuzkoa.<br />
La Navarra, Nafarroa o Nabara in euskera, è un intrigante crocicchio di<br />
molteplici Spagne. Gli abitanti della Comunidad Foral de Navarra, com’è<br />
ufficialmente conosciuta questa regione in ossequio agli storici diritti di<br />
autonomia (i cosiddetti fueros) per lungo tempo esercitati dai navarri e<br />
oggi tornati in auge, sentono fortemente gli aspetti simbolici: il colore<br />
rosso domina lo stemma regionale e le varie sfaccettature del quotidiano,<br />
come le automobili, le motociclette e le uniformi in dotazione alla Policia<br />
Foral, ma soprattutto le fantasmagoriche fiestas della regione, quando gran<br />
parte degli abitanti indossa i tradizionali calzoni e giubba, con le sciarpe e<br />
i pañuelos rossi. Navarra al rosso vivo, alfine. Paesaggi e vini memorabili.<br />
E <strong>birra</strong> a strafottere.<br />
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Le origini della celebre festa di San Fermín, o Sanfermines, risalgono al<br />
Medioevo. Fermín era il figlio di un governatore di Pamplona convertitosi<br />
al Cristianesimo; egli partì per diffondere la parola di Cristo in Gallia, ma<br />
ad Amiens fu imprigionato e poi decapitato. A partire dal 1591 il 7 luglio<br />
gli è stato dedicato. Nello stesso giorno, alle dieci del mattino, una statua<br />
lignea del XV secolo raffigurante il santo patrono della Nafarroa e di<br />
Pamplona-Iruñea viene portata in processione attraverso la città.<br />
Se qualcuno sulla terra nutrisse ancora qualche dubbio, San Fermín è una<br />
festa chiassosa e ad altissimo tasso alcolico. I combattimenti dei tori si<br />
svolgono ogni giorno alle 18.30, dal 7 al 14 luglio. Ogni mattina, i tori<br />
sono lasciati liberi dai Coralillos de Santo Domingo e da lì si scatenano<br />
caricando attraverso l’omonima piazza. Il percorso che li conduce fino<br />
all’arena comprende Calle de los Mercaderes e Calle de la Estafeta, ed è<br />
proprio qui che generalmente si concentrano tutti coloro che intendono<br />
correre con essi cercando di avvicinarli il più possibile; taluni arrivano<br />
perfino a colpirli in testa con dei giornali arrotolati!<br />
Una festa che ha parecchio in comune con San Fermín, poiché anch’essa<br />
prevede la liberazione di bovini cornuti per le strade della città, è la Fête<br />
de Bayonne, l’affascinante capoluogo della provincia basco-francese di<br />
Labour (Lapurdi o Laburdi). Essa inizia il primo mercoledì sera del mese<br />
di agosto e dura cinque giorni. È il Re Léon, alle ore 22 dal balcone del<br />
Municipio, a dare inizio ai bagordi.<br />
Il 4 agosto a Vitoria-Gasteiz, alle sei del pomeriggio, il sindaco spara il<br />
chupinazo (grosso petardo il cui scoppio annuncia l’inizio ufficiale della<br />
cagnara) e un fantoccio nominato Celedón, vestito come i contadini che un<br />
tempo scendevano giù in città per far festa, viene fatto discendere da una<br />
torre della chiesa di San Miguel fin giù nella piazza della Virgen Blanca,<br />
stracolma di festanti… dopodiché è tutto uno spruzzarsi reciprocamente di<br />
spumante. La prima volta che andai a Vitoria-Gasteiz per la festa della<br />
Virgen Blanca fu nel 1994. Era un classico pomeriggio basco estivo senza<br />
sole col cielo color ricotta e io volevo scattare un paio di rullini con la mia<br />
nuova Minolta Dynax. Avevo appena parcheggiato la mia Tipo in una<br />
kalea vicino al centro quando fui circondato da una masnada di zingarelli<br />
assillanti. Il più alto mi arrivava a malapena al mento, ma erano in molti,<br />
se ricordo bene una decina, tutti stracciati e maldisposti. Quando trent’anni<br />
fa percorrevi in solitudine una strada di periferia e all’improvviso ti si<br />
paravano davanti quattro ceffi col caschetto alla Ramones – a prescindere<br />
che adorassi quella band – e le magliette sdrucite, già sapevi che di lì a<br />
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poco la faccia più di merda del gruppo, il capetto, ti avrebbe chiesto di<br />
dargli il portafoglio o gli stivali, o tutt’e due. Allora potevi giocartela in<br />
qualche maniera. Ma con pischelli di dieci anni, massimo dodici... che<br />
cazzo vuoi prevedere? Cadono tutte le regole. Magari di punto in bianco ti<br />
spruzzano in faccia del narcotico e ti risvegli in un lurido sottoscala del<br />
Casco Viejo senza un rene. O con un palo ficcato nel sedere. Comunque<br />
sia riuscii a liberarmi di quei piccoli bastardi a colpi di pseudo kung fu e<br />
ceffoni.<br />
Ah, la Semana Grande Donostiarra: il mio battesimo del fuoco alcolico in<br />
Vasconia. Ero rimasto alla volpe scuoiata. Al terzo giorno di bagordi ne<br />
indossavo la pelle con disinvoltura, come una bagasciona d’alto bordo. Di<br />
tanto in tanto io e l’amico Vito ci perdevamo di vista. Il nostro punto di<br />
riferimento era comunque la taverna Arrai-Txiki, un posto che oggi non<br />
esiste più e che allora era gestito da Julio, un fenomeno d’essere umano di<br />
cui perfino i conoscenti più intimi disconoscevano le origini (“È un po’<br />
basco-navarro, un po’ andaluso, un po’ nonsoché!”). Da lì ripartivamo a<br />
spolverarci tutti i bar della Parte Vieja. Qualche volta ci ricordavamo di<br />
mangiare (in una città la cui cucina è tra le migliori di tutta la Spagna) e di<br />
stimolare la sintesi di vitamina D nei nostri corpicini pallidi prendendo il<br />
sole, quando e se si degnava di apparire tra un piovasco e l’altro, sulle<br />
bellissime spiagge donostiarras.<br />
Il quarto giorno conobbi la questione politica basca. Io e Vito stavamo<br />
bevendo la milionesima <strong>birra</strong> al Bar Bulevar, presso l’Ayuntamiento. Ero<br />
già stato edotto che quello era il Día de la Bandiera – momento critico<br />
delle più importanti feste basche in cui gli abertzales (“patrioti”) assaltano<br />
l’edificio del Comune, ne strappano la bandiera spagnola, la bruciano e la<br />
sostituiscono con l’ikurriña, la bandiera basca. Ma quella sera la polizia<br />
autonoma basca, l’Ertzaintza, era schierata in forze e ricacciò indietro i<br />
manifestanti separatisti sparando palle di gomma. Noi finimmo presi in<br />
mezzo al parapiglia e una pelota saettò fischiando a poco più di un palmo<br />
dalla mia testolina allora zazzeruta. Mentre cercavamo scampo dietro a<br />
un’automobile parcheggiata, due paninari inglesi, che fino allo scoppio del<br />
putiferio stavano facendo classico people watching nel dehors del Bulevar,<br />
s’incazzarono di brutto. “You bloody bobbies!” esclamò uno dei due, un<br />
biondino pettinato alla Rick Astley. L’altro, sorta di Nick Kamen dell’East<br />
End, afferrò una sedia e la scagliò addosso agli sbirri: pochissimo dopo,<br />
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unendo le rispettive forze, essi lanciarono il tavolino. Nel bene e nel male,<br />
gli inglesi sono unici.<br />
Il grosso “problema” è che appena finisce la Semana Grande/Aste Nagusia<br />
Donostiarra (12-19 agosto) si parte in tromba con quella di Bilbao/Bilbo.<br />
Il primo venerdì dopo Ferragosto, dal balcone del Comune, il pregonero<br />
(“banditore”) e la chupinera, colei che fa deflagrare il petardo indossando<br />
un’uniforme dai toni rossi che rammenta quella delle truppe carliste che<br />
assediarono e bombardarono Bilbao nel 1835, danno il via ufficiale a un<br />
vero tour de force alcolico, musicale e gastronomico che si concluderà due<br />
domeniche dopo con la despedida di Marijaia, il simbolo della festa: una<br />
signora grassottella con le braccia levate al cielo in segno di giubilo.<br />
Come un Johnny Mnemonico nato e cresciuto in riva al Po, ho centinaia di<br />
gigabyte di ricordi bilbaini nella memoria: dovessi scaricarli tutti su queste<br />
pagine vi manderei il cervello in crash. Per questo mi limiterò alle mie (e<br />
non solo) esperienze con la bevanda più psichedelica che esista al mondo:<br />
il patxaran.<br />
Il patxaran o pacharán, dal basco baso aran (“prugna selvatica”) è un<br />
liquore dal sapore di prugnole d’origini navarre ma comunemente bevuto<br />
in tutta la Spagna. Si fa mettendo a bagno le prugnole in anisetta con una<br />
piccola quantità di chicchi di caffè e un baccello di vaniglia per diversi<br />
mesi. Il risultato è un liquore dolce color rossastro-marrone trasparente,<br />
intorno ai 25-30% d’alcol per volume. In Navarra si dice che mangiare le<br />
prugnole dopo la macerazione può portare alla pazzia.<br />
Io ci credo ciecamente. Ho sperimentato di persona gli effetti psicotropi di<br />
questo liquore. Una sera di tanti anni fa che in un locale di Portugalete, un<br />
sobborgo di Bilbao, eccedetti nel berlo, mi scatenai in un’imitazione del<br />
Gabibbo davanti alla postazione del DJ. Niente, in confronto a ciò che è<br />
successo a certi miei seguaci. Uno perse realmente il senno per alcune ore.<br />
Ululava le proprie frustrazioni alla luna e alle galassie e sulla strada per il<br />
ritorno all’agriturismo di Lezama dov’eravamo alloggiati tutt’a un tratto<br />
spalancò la portiera della mia auto e si lanciò fuori. Per fortuna io andavo<br />
piano e lui atterrò su un’aiuola. Lì vi rimase a braccia spalancate, come un<br />
crocifisso a faccia in giù. Accostò un Ford Transit tutto rappezzato e gli<br />
occupanti ne smontarono domandandoci se avessimo bisogno di sostegno<br />
e che diavolo fosse successo al nostro collega. Io li tranquillizzai: “Nada,<br />
ha solo bevuto troppo patxaran.”<br />
Josetxo o Garikoitz, dimensioni e accento da orso dei Pirenei, lapidario:<br />
“Vaya, se non è navarro non lo beva!”<br />
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Scoppiammo a ridere. Ma le escandescenze paciaranesche dell’individuo<br />
non finivano lì. Stufatici, lo lasciammo a rantolare chiuso in macchina nel<br />
parcheggio dell’agriturismo e salimmo in camera a dormire la sbronza. Il<br />
mattino dopo, pallide ombre di noi stessi in una splendida giornata di sole,<br />
le verdi colline della Bizkaia tutt’intorno, fummo messi in riga e cazziati<br />
da Don Iñaki Bilbao, proprietario dello stabilimento turistico nonché capo<br />
della sezione locale della Policia Municipal: “Tenemos que hablar” esordì,<br />
freddo come l’inverno russo, cipiglio da Aguirre furore di Dio. Porca troia.<br />
Neanche dodici ore che avevamo disfatto le valigie e già ci eravamo fatti<br />
riconoscere piantando casino di notte. Purtuttavia io feci un tale sfoggio di<br />
diplomazia, lanciando simultaneamente occhiate al curaro in direzione di<br />
my friend delirium – ridotto una merda, è ovvio – che alla fine Iñaki si<br />
convinse che eravamo delle paste di ragazzi e a poco a poco ci prese in<br />
simpatia… anche se per un paio di giorni ci toccò la deportazione in un<br />
altro agriturismo di gran lunga meno confortevole del suo.<br />
Raquel Menéndez Goyenolea, che mi buttò giù dal letto alle 23.15 di un<br />
classico lunedì da sclero per dirmi che mi lasciava, mi fece conoscere un<br />
altro beveraggio demoniaco, il licor de manzana. Le sere che uscivamo<br />
insieme a Bilbao riuscivamo a berne anche cinque a testa, rigorosamente<br />
con ghiaccio perché puro è da coma epatico: le meravigliose scopate che<br />
ci facevamo quand’eravamo bombati di quel veleno alla mela verde! Ma il<br />
primo amore (ad alta gradazione) non si scorda mai. Così una notte stappai<br />
la buta di Etxeko che tenevo sul comodino e cosparsi di liquore i seni della<br />
mia amante per poi leccarmelo goccia a goccia. Rico… suave… Throwing<br />
Copper dei Live in sottofondo. Lacrimuccia.<br />
La sera del 21 agosto 1993 occupammo un bar di Santutxu, il Blues, per<br />
assistere alla finale di Supercoppa Italiana Torino-Milan che si giocava a<br />
Washington a mo’ di spot promozionale per gli imminenti Mondiali di<br />
calcio U.S.A. Cioncammo cerveza e patxaran a secchiate sotto lo sguardo<br />
mezzo divertito e mezzo perplesso del gestore e degli habitué, che peraltro<br />
conoscevano già le nostre inclinazioni dipsomaniache. Il Toro perse 0-1<br />
ma noi non smettemmo di sbevazzare. Quando il Blues chiuse i battenti<br />
rotolammo giù ad Aste Nagusia – Santutxu, uno dei quartieri a più alta<br />
densità di popolazione d’Europa, ha la sua origine in un eremo – e tra la<br />
borrachera che avevamo addosso e la spaventosa concentrazione d’anime<br />
lesse come noi e anche più ci separammo come cosmonavi in fuga da un<br />
pianeta il cui sole fosse sul punto di esplodere. Giovanni, detto Giuà<br />
l’Attaccapanni, fu ritrovato il mattino dopo riverso in un’aiuola sofferente<br />
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d’alopecia aerata dinanzi alla saracinesca abbassata del bar: non ricordava<br />
nulla della notte scorsa. Certi amabili mattacchioni del quartiere invece<br />
ricordavano bene un personaggio rasato a zero e allampanato arrancare tra<br />
i chioschi come un predicatore battista in acido strepitando ogni dieci<br />
secondi: “Skinhead is no fascist! Vaffanculo!” Quanto a me, no comment.<br />
Tempo dopo a Bilbao incontrai un signore barbuto che aveva presenziato<br />
alla fase calcistica della nostra baldoria. Disse: “Voi italiani siete dei pazzi<br />
scatenati. Il patxaran è un digestivo! Non si beve così, un bicchiere dietro<br />
l’altro, come fosse una <strong>birra</strong>!”<br />
Forse noi torinesi discendiamo dai tartari della Mongolia occidentale.<br />
Figura 5. Jai Alai, la <strong>birra</strong> del pelotari (prodotta in India).<br />
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LE INVASIONI BARBARICHE<br />
No, non è giusto che quei cazzoni si prendano tutto il divertimento – con le loro<br />
voci rauche e dodici scopate settimanali… bocche cavernose, urla, rutti, imbevuti<br />
di Guinness.<br />
Steven Berkoff, East: Sylv’s Longing Speech.<br />
Come ho già scritto, prediligo le brunette con le labbra turgide. Ma le altre<br />
figure di donna disponibili sul terzo pianeta del Sistema non mi lasciano<br />
certo indifferente: per esempio, le palliducce con gli occhi blu. Come<br />
Robin Tunney. Americana, attrice di grande talento. È la migliore amica di<br />
Liz Phair, la più scollacciata cantautrice rock statunitense degli ultimi anni<br />
(“Voglio essere la tua regina bocchinara”, canta costei in un brano del suo<br />
acclamato esordio discografico, Exile In Guyville). Qualche anno fa Robin<br />
ha vinto una Coppa Volpi a Venezia quale migliore attrice protagonista<br />
per la splendida interpretazione di una ragazza tourettica nel film Niagara<br />
Niagara. In tempi più vicini ha recitato nella serie Prison Break, ma è<br />
apparsa anche nell’episodio pilota di Dr. House – Medical Division nel<br />
ruolo di Rebecca Adler, una maestrina ebrea affetta da neurocisticercosi:<br />
un’infezione caratterizzata dalla presenza nell’encefalo di cisti formate<br />
dalla fase larvale (immatura) della buona vecchia immonda Taenia solium,<br />
il verme solitario. Roba da non mangiare più salumi e carne cruda a vita.<br />
E Marie-Josée Croze. Di questa deliziosa attrice franco-canadese avevo<br />
ammirato… il bel culo nudo e le iridi gattesche in una puntata del serialcult<br />
The Hunger ben prima che lei vincesse, a buon diritto, la Palma d’Oro<br />
a Cannes per la caratterizzazione di Nathalie, la “correttrice di bozze”<br />
eroinomane che nel bellissimo Le invasioni barbariche aiuta lo scapestrato<br />
ma profondamente umano professor Rémy, “socialista edonista”, a morire<br />
con dignità. Bella e brava, insomma, la Croze ha confermato il suo<br />
versatile talento in un altro bel film tratto da un libro indimenticabile, Lo<br />
scafandro e la farfalla. Rispetto al racconto autobiografico di Jean-<br />
Dominique Bauby, il pittore-regista Julian Schnabel si è preso più di una<br />
libertà in sede d’adattamento, ma non importa, il nucleo struggente della<br />
storia è rimasto intatto. In una delle scene aggiunte dal proteiforme artista<br />
statunitense, Jean-Dominique riapre l’unico occhio funzionante dopo il<br />
devastante attacco che ha imprigionato il suo corpo in uno “scafandro da<br />
palombaro” e, attraverso una percezione sfumata e irregolare, distingue gli<br />
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splendidi lineamenti di due donne in camice bianco chine sul suo volto a<br />
rinfrancarlo: l’ortofonista Sandrine (Croze) e la fisiatra Brigitte (Olatz<br />
Lopez Garmendia, la meravigliosa moglie basca di Schnabel). “Sono in<br />
Paradiso”, mormora Jean-Do tra sé.<br />
Io sono agnostico. Ma qualora vi fosse qualcosa al di là della vita terrena,<br />
un momento da rivivere all’infinito, e io ne fossi giudicato meritevole –<br />
ma esiste la meritocrazia nell’universo? –, e per di più mi fosse data la<br />
possibilità di scegliere, allora vorrei vivere la mia sempiterna beatitudine<br />
in una taverna donostiarra con Marie-Josée, Olatz e Valerie, e mettiamoci<br />
anche Vera Farmiga, altra adorabile attrice dal volto di neve artica, e<br />
Barbara Goenaga, futura star del cinema iberico nata dalle acque del fiume<br />
Urumea, tutte dietro il banco a spillare Draught Guinness e Menabrea per<br />
me. Per sempre.<br />
Ma non ci starebbe male neppure un fusto perpetuo di Pilsner Urquell o di<br />
Heineken. O una bella dunkel weisse tedesca, la Herrnbräu per esempio.<br />
Chiedo troppo?<br />
I Barbari, da tempo immemorabile presenti intorno ai confini dell’Impero<br />
romano, iniziarono a penetrare massicciamente nel suo territorio tra il IV e<br />
il V secolo d.C. I Germani passarono il confine del Reno e devastarono a<br />
più riprese la Gallia, compiendo talvolta azioni di razzia anche in Spagna e<br />
nell’Italia settentrionale e spingendosi finanche in Britannia.<br />
Sette secoli dopo, essi continuavano a spingersi oltre le proprie frontiere,<br />
ma le loro navi anziché guerrieri affamati di carne e assetati di sangue ora<br />
trasportavano <strong>birra</strong> in tutta Europa salpando dal porto di Amburgo, città<br />
che nel 1100 era sede di un importante mercato del luppolo. Nel 1516 la<br />
Bavaria promulgò il Reinheitsgebot, un editto nel quale si prescriveva che<br />
la <strong>birra</strong> poteva essere fatta esclusivamente con malto d’orzo, luppolo e<br />
acqua. In una delle stesure successive venne inserito anche il lievito, così<br />
come le birre di grano ottennero una speciale dispensa.<br />
Oggi la Germania, a tutti nota per l’Oktoberfest e una gamma sterminata<br />
di stili di <strong>birra</strong> (altbier, kolsch, weizen, bock, dunkel, monaco…), è in testa<br />
alle classifiche mondiali come paese consumatore ed è seconda soltanto<br />
agli Stati Uniti come paese produttore.<br />
Mercoledì 1 ottobre 20**, h 09.49 a.m., CET. Ho sotto gli occhi cisposi<br />
la scheda della leggendaria EKU 28, o Kulminator Urtyp Hell (un nome<br />
da band metal core!). Questa doppelbock è una delle birre più forti del<br />
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mondo (11,6% alc.). La ricordo con simpatia come integratore al malto di<br />
quei lunghissimi e atletici prepartita negli anni Ottanta fuori dello Stadio<br />
Comunale, ora Olimpico, anche se alla Rai di Roma, per somma ignoranza<br />
o affinché non sia confuso col loro Stadio Olimpico caput mundi, spesso<br />
lo chiamano Stadio delle Alpi. Un’altra bevanda classica “da stadio” era il<br />
vino portoghese Mateus, consumato in quantità da cosacchi anche dai<br />
Faces sul palcoscenico per tonificarsi fra una canzone e l’altra. Johnny<br />
Rotten li detestava per questo: “Fingevano di essere ubriachi sul palco.”<br />
Già. John Lydon detto Rotten. Un giorno qualcuno mi avvertì: “Mauri, ma<br />
lo sai che a luglio i Sex Pistols vengono a suonare a Torino al Traffic?” E<br />
io mi posi una domanda del menga: “Fantastico, meraviglioso, ma che<br />
senso può avere un concerto dei Sex Pistols nel 2008?” Rispondendomi<br />
all’istante: “Porcaccia eva se ha senso!!! Basta scrollarsi di dosso ogni<br />
forma di preconcetto.” Primo fra tutti, il timore di assistere al definitivo<br />
raglio del cigno di quel gruppo rock’n’roll che, benché avendo pubblicato<br />
un unico maledetto corrosivo tonitruante devastante contagioso pernicioso<br />
sguaiato stonato irriverente in definitiva fottutamente fantastico disco, ha<br />
cambiato/rovinato (eh eh eh, è proprio così!) per sempre la tua vita. E non<br />
solo la tua, accidenti a loro…<br />
“Chi sono i Sex Pistols?” si chiedeva la rivista.<br />
Fine anni settanta, ero andato a trovare mia madre e stavo leggendo il giornale.<br />
Scorrendo un supplemento domenicale per il popolino, la mia attenzione fu<br />
catturata, e la mia vita cambiata, da queste parole insolite in caratteri di scatola<br />
“CHI SONO I SEX PISTOLS?”. Volevo saperlo subito anch’io. L’articolo li<br />
bistrattava, li denigrava: questo “sedicente gruppo musicale” britannico di<br />
mocciosi “punk rocker” che si scagliavano con rabbia contro tutto, vomitavano<br />
oscenità e sputavano a loro piacimento, vestivano di stracci, catene, spuntoni e<br />
stivali orrendi, facevano cose indicibili ai capelli (e alle loro ragazze) e<br />
producevano un frastuono rivoltante scambiandolo… alcune loro canzoni erano<br />
state bandite dalle radio…<br />
Be’ ne avevo sentito abbastanza. Ero già innamorato cotto. (Il lato ironico,<br />
ovviamente, è che la rivista cercava di mettere in guardia la gente dai Pistols e<br />
loro simili, e invece finì <strong>forse</strong> col convertire migliaia di adolescenti al punk.)<br />
Andai immediatamente al negozio di dischi d’importazione ed entrai di corsa,<br />
domandando col fiatone: “Avete i Sex Pistols?”<br />
“Ehi, Joe!” gridò il ragazzo, ridendo. “Un altro che vuole i Sex Pistols!”<br />
Li avevano finiti.<br />
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Anch’io come John Shirley, scrittore di fantascienza punk autore del brano<br />
precedente, me ne innamorai appena ne sentii parlare. Altri, per la maggior<br />
parte pallosissimi radicali con barbe cespugliose e pantaloni di velluto a<br />
coste, li odiarono subito a morte. Erano quei tizi che picchettavano una<br />
mattina su dieci gli ingressi dei licei e degli istituti tecnici, “rimarremo<br />
piantati qua davanti fino a mezzogiorno, compagno”, ti dicevano, cosicché<br />
tu te n’andavi al centro a bighellonare felice e incosciente, ma il giorno<br />
dopo venivi a scoprire con raccapriccio che il picchetto era durato soltanto<br />
un’ora e mezza e i sedicenti contestatori si erano presentati puntualissimi e<br />
splendidamente preparati per l’interrogazione di algebra… morale della<br />
brutta favola, alla fine dell’anno scolastico loro promossi a pieni voti e tu<br />
bocciato come un fesso da corsa. Pure, ammettiamo che tra te e lo studio<br />
vi era la stessa distanza che fra la Terra e la Stella Polare… però…<br />
Per questi futuri parlamentari del PD (o gestori di locali alternativi, come<br />
Okudera) il punk era un rigurgito nichilista del fascismo. Ricordo bene un<br />
servizio trasmesso da una nota tv privata torinese che stigmatizzava “gli<br />
idioti degenerati del nazi-punk-rock”, mostrandoci le fotografie in bianco<br />
e nero di un grottesco ersatz piemontese dei Kiss (ma che c’entravano?),<br />
capelli alla Franco Causio e smorfie da adolescenti costipati sotto il trucco<br />
razziato ai beauty-case delle loro mammine. Il giornalismo disinformato e<br />
dozzinale è una piaga vecchia quanto l’umanità.<br />
Nessuno spiegò lo spirito di quel tempo meglio di Rat Scabies, vulcanico<br />
batterista dei Damned, in un’intervista del 1976: “Oggi il pubblico vuole i<br />
suoi propri eroi, non vecchi uomini noiosi. Doveva accadere; la scena<br />
musicale era diventata talmente stagnante che doveva cambiare.” E io,<br />
post-bambino coi capelli informi e il naso a patata piemu-siculo scimmiato<br />
per Doctor Who, mi bevevo quel mutamento come acqua sorgiva corretta<br />
con solfato di anfetamina seduto a gambe incrociate di fronte al nostro<br />
nuovissimo televisore a colori, i libri di scuola dimenticati sulla scrivania<br />
della mia cameretta: Anarchy in the U.K., London Calling, Plan 9 Channel<br />
7, Happy House…<br />
E ora, trent’anni e trenta chili dopo, i Sex Pistols venivano a suonare per la<br />
prima volta nella mia città. Wow.<br />
Trout Mask Replica, Song Cycle, Anthem of The Sun e Sgt. Pepper sono stati tutti<br />
nette ridefinizioni della musica popolare, ma White Light/White Heat dei Velvet<br />
Underground fa parte di una categoria tutta sua. Anziché infiltrare altri generi<br />
(blues acido, arrangiamenti classicheggianti, bluegrass, music hall) nella forma<br />
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ock i Velvet la espansero riducendola alla sua ossatura: il beat, l’elettrico pulsare<br />
dell’anima del rock’n’roll. White Light/White Heat è il paradigma di questa<br />
musica. Solamente gli Stooges, i primi Modern Lovers, i Sex Pistols e i Clash gli<br />
si sono avvicinati, e nessuno di questi gruppi possedeva quella che si potrebbe<br />
definire l’elevata intelligenza spirituale dei Velvet – la loro consapevolezza, da<br />
apprendisti presso la bottega dell’arte con la A maiuscola, di quel che stavano<br />
facendo.<br />
Richard Mortifoglio, What Goes On n. 3, 1982.<br />
Forse il bravo Richard M. avrebbe dovuto ascoltarsi con molta attenzione<br />
Sandinista prima di buttar giù queste parole. La sua disamina è comunque<br />
rilevante poiché rende giustizia alle qualità musicali di Johnny Rotten e C.<br />
Noterete che non ho fatto ricorso al corsivo. Ci mancherebbe; quelle dei<br />
Sex Pistols sono canzoni!!! Ruvide sgraziate e iconoclaste finché si vuole,<br />
ma pur sempre pezzi rock, con un’articolazione e un impatto sonoro che<br />
nessun altro su questo sferoide è mai più riuscito a eguagliare – anche per<br />
merito della produzione “stratificata” di Chris Thomas e Bill Price, va<br />
detto. Nei brani di Never Mind The Bollocks le intro, i break e i middle<br />
eight sono assolutamente stupefacenti per una band di cosiddetti teppisti<br />
illetterati musicali. Ed è un disco all killer no filler, dodici colpi di frusta e<br />
nemmeno una sola caduta di tono. Qualcuno potrebbe obiettare: “Ma che<br />
diamine, hanno registrato soltanto quello!” Be’, per quanto mi riguarda,<br />
hanno detto più i Pistols in un solo album che i Pink Floyd in quattordici.<br />
Fermo restando che mi piace The Piper at the Gates of Dawn: del resto,<br />
piace pure a Captain Sensible.<br />
Torino, 12 luglio 2008, Parco della Pellerina, h 00.10 a.m. I Sex Pistols,<br />
autori di una performance micidiale, ritornano sul palco per un secondo<br />
inatteso encore. Johnny Rotten ha annunciato una vecchia canzone: Silver<br />
Machine. Io e Vito – my friend delirium! – con la quinta o sesta lattina di<br />
<strong>birra</strong> in mano, incrociamo gli sguardi. “Porca miseria, non sarà mica<br />
quella Silver Machine?” Il più grande hit punkadelico degli Hawkwind, la<br />
folle ciurma cosmica di Dave Brock.<br />
Steve Jones parte a tutto gas con un classico eight-bar rock’n’roll boogie<br />
riff, poi si apre una breccia nel tessuto spazio-temporale del palco e ne<br />
scaturisce un loop elettronico da vecchio film di fantascienza sovietico…<br />
ebbene sì, è proprio Silver Machine degli Hawkwind. Pensa tu che diavolo<br />
mi stanno suonando questi! In verità non sono poi così stupefatto: John<br />
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Lydon ha sempre nominato I Falchi del Vento e i Pink Fairies tra le sue<br />
principali influenze. Ergo… che sballo, ragazzi.<br />
Ma le sorprese non sono finite… Roadrunner! Suonata esattamente come<br />
in The Great Rock’n’roll Swindle; vale a dire, sono passati trentadue anni<br />
e Johnny continua a disconoscerne le liriche! Ma questa volta a metà<br />
canzone non si è lamentato per questo, l’accento cockney più tagliente del<br />
coltello di un teppista dell’East End: “Stop it, it’s fucking awful!” Però alla<br />
fine si è incacchiato come un aspide con il solito cretino lancia-bottiglie.<br />
Come diceva il saggio Eros Drusiani: “I coglioni sono molto più di due.”<br />
Definitivamente: “Chi sono i Sex Pistols?”<br />
I Sex Pistols sono e saranno sempre una trascinante, devastante, ruggente,<br />
tonante, travolgente, fantastica rock’n’roll band. E mi hanno nuovamente<br />
cambiato la vita. Thank you, vecchi satanassi.<br />
Se qualcuno pronuncia la parola Gallia a me viene subito in testa Obelix<br />
che tracanna otri su otri di <strong>birra</strong>. E a ruota un fottio di marche storiche<br />
francesi: 1664 de Kronenbourg, Adelscott, Amadeus e la Bière du Demon.<br />
Quand’ero adolescente quest’ultima <strong>birra</strong> m’incuteva timore: cosa mai mi<br />
sarebbe capitato se l’avessi bevuta? Sarei disceso e rimasto agli inferi per<br />
tutto il tempo che il mio organismo avesse impiegato a smaltirla? Mi sarei<br />
ritrovato a strillare Sabbath Bloody Sabbath su un palco al posto di Ozzy<br />
Osbourne, col baffuto Tony Iommi a spararsela a mancina? Oppure sarei<br />
diventato il bambino di Rosemary?<br />
In realtà la moda delle “birre diaboliche” si deve a una fabbrica belga, la<br />
Moortgart, che in un mare di birre che offrivano in etichetta richiami ad<br />
abbazie, santi et similia, scelse con fine ironia di differenziarsi chiamando<br />
una sua nuova ale Duvel, ossia “il diavolo”. Oggigiorno l’elenco di birre<br />
demoniache è piuttosto nutrito e i grafici pubblicitari non lesinano fantasia<br />
nelle etichette: per esempio quella della canadese Maudite (il cui nome è<br />
già tutto un programma) mostra il solito diavolo alato in primo piano, ma<br />
altresì un’inquietante barca di dannati sullo sfondo della luna piena. Io, per<br />
me, la berrei soltanto in compagnia di uno stimato esorcista.<br />
Andiamo alla fiera dell’est. I primi abitanti della Boemia, regione storica<br />
che con la Moravia forma la Repubblica Ceca, furono i Boi. A essi nel I<br />
secolo d.C. si sostituirono i Marcomanni, sottomessi dopo dure battaglie<br />
dai Romani. Nei secoli V-VI vi penetrarono tribù slave. Alla fine del VIII<br />
l’Impero d’Occidente assorbì e cristianizzò Boemi e Moravi. Dopo alterne<br />
vicende nel 1114 i duchi di Boemia divennero coppieri ed elettori del<br />
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Sacro Romano Impero. Divenuta provincia degli Asburgo al termine della<br />
guerra dei Trent’anni (1618-1648) la Boemia riuscì a emanciparsi solo con<br />
il crollo dell’Impero, nel 1918: da quel momento e fino al 1922, la sua<br />
storia si fuse con quella della Cecoslovacchia e, dopo la scissione da<br />
quest’ultima del gennaio 1993, con le vicende della Repubblica Ceca.<br />
Torniamo indietro al 1840. In quell’anno Anton Dreher, mettendo a frutto<br />
i risultati di alcuni esperimenti condotti in Baviera sui meccanismi della<br />
bassa fermentazione, concepì una <strong>birra</strong> lager che in seguito fu battezzata<br />
proprio col nome della città nella quale fu realizzata, Vienna. Due anni più<br />
tardi nella città di Pilsen, in Boemia, un tal Josef Grolle cercò di produrre<br />
su larga scala una <strong>birra</strong> simile a quella di Dreher: la prima cottura avvenne<br />
nella birreria Prazdroj. Tuttavia il risultato fu differente: la sua <strong>birra</strong> era<br />
leggera, piacevole, amarognola ma soprattutto chiara, come nessun’altra<br />
al mondo. Subito battezzata pilsner, riscosse un successo stratosferico che<br />
dalla natia Boemia si espanse a macchia d’olio – di <strong>birra</strong>, si potrebbe dire<br />
– per tutto il globo terracqueo.<br />
La Pilsner Urquell è l’epitome dello stile pils. Piuttosto secca e altamente<br />
digestiva, almeno a Torino soffre la concorrenza della già menzionata e<br />
ormai onnipresente Beck’s e della Heineken. Ma è una signora <strong>birra</strong> e<br />
perciò meriterebbe d’essere rilanciata. Da poco ho incluso nel mio periplo<br />
notturno un locale gradevole e discreto situato nelle vicinanze della storica<br />
Piazza Vittorio che la mesce alla spina: in confronto a certe risciacquature<br />
di stoviglie propinate in altri posti, sembra quasi una ale! Una curiosità:<br />
San Adalberto, vescovo di Praga e apostolo d’Ungheria, Polonia e Prussia,<br />
nel 993 proibì la cottura della <strong>birra</strong>. È che i preti hanno certe idee…<br />
Nel mio cervello l’Olanda è un photo show sinaptico in cui si alternano<br />
immagini dai toni oranje di Johan Cruyff, Marco Van Basten, Ruud Gullit,<br />
Rutger Hauer, Rebecca Romijn, Sylvie Van der Vaart e una bottiglia da 33<br />
cl. di Heineken. Se faccio clic sulla foto mentale di Cruyff ne erompono a<br />
spirale altre cento: la moglie Danny nel 1974 con la camicia legata in vita<br />
e i pantaloni a zampa d’elefante, “il gol impossibile” segnato all’Atlético<br />
Madrid, un suo classico spunto sull’out sinistro controllando la palla con<br />
l’esterno del piede destro, la famosa frase detta ai suoi giocatori prima di<br />
vincere la Coppa dei Campioni a Wembley col FC Barcellona: uscite e<br />
divertitevi… Johan Cruyff gestaltizza la mia idea di football. Condivido<br />
pienamente tutto quanto egli afferma in Mi piace il calcio (ma non quello<br />
di oggi), un libretto alla cui lettura coarterei certi allenatori, presidenti e<br />
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dirigenti italiani (ma non solo) pieni di zuppa irrancidita, nonché centinaia<br />
di migliaia di cosiddetti tifosi. ’Fanculo al business teratocapitalistico, il<br />
calcio deve tornare a essere un divertimento, i trequartisti devono puntare<br />
l’uomo in verticale e le ali volare sulle fasce e crossare in area dal fondo!<br />
Ricordo una piacevole serata passata a Casa Olanda durante le Olimpiadi<br />
Invernali del 2006, bevendo un boccale dietro l’altro e rimpinzandomi di<br />
patatine fritte insaporite con gustose mostarde locali. Sotto il padiglione<br />
principale c’era una pista di pattinaggio su cui, bevuto, presi un bel paio di<br />
culate prima di assestarmi in uno stile alquanto mediocre ma sicuro. Gli<br />
inservienti erano tutti sorridenti e affabili. Alfine, malgrado la Endemol e<br />
l’Ajax della stagione 1991-1992 (chi come me tifa Toro proverà una fitta<br />
al cuore), gli olandesi mi stanno simpatici. Forse ai più non importerà una<br />
beata fava, ma nel lontano 1968 Starstruck, canzone tratta dall’album che<br />
io considero il meisterwerk dei Kinks, The Kinks Are the Village Green<br />
Preservation Society, non riuscì a entrare nelle classifiche in alcun paese<br />
tranne che l’Olanda: con tutto che è una canzone sublime, purissimo genio<br />
melodico britannico. Questa è soltanto una tra le numerose dimostrazioni<br />
d’apertura mentale degli abitanti delle Nederlands. Oltretutto furono loro<br />
ad aprire la prima fabbrica di <strong>birra</strong> in America, nel lontano 1632: le prime<br />
birre americane erano state commercializzate in modo ufficiale nel sud di<br />
Manhattan venti anni prima. New York è sempre avanti.<br />
La Heineken, commercializzata come pilsener ma in realtà una lager, è la<br />
<strong>birra</strong> più importata in tutto il mondo, la prima a sbarcare negli Stati Uniti<br />
dopo il Proibizionismo. È la mia seconda scelta in bottiglia, essendo la<br />
Menabrea la prima. Soprattutto in Spagna ne assumo in buone dosi, come<br />
fresca e leggera alternativa “serale” a San Miguel e Voll-Damm; benché<br />
perlopiù al banco mi tocchi pronunciarla alla castigliana, enequen, poiché<br />
in diverse occasioni i camareros mi hanno restituito un inarcamento di<br />
sopracciglio.<br />
Tempo fa in una discoteca di Suances, una cittadina della costa cantabrica<br />
esteriormente ordinaria ma dalla nightlife estiva sorprendente (soprattutto i<br />
mercoledì sera) e con una spiaggia, Los Locos, assai rinomata per il surf,<br />
chiesi una Heineken alla maniera sassone. Il barista, faccia da indio, gilet<br />
di pelle nera e foulard al collo, mi guardò strano e chiese: “Ma da dove<br />
vieni?”<br />
Io sorrisi. “Sono italiano. E tu?”<br />
“Io? Honduras.”<br />
Una mutua sensazione di sradicamento… 2000 anni luce da <strong>casa</strong>.<br />
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Sorrisi di nuovo. “Muy bien. Allora siamo due stranieri in terra straniera.”<br />
Lui si fece una bella risata e mi offrì la <strong>birra</strong>. Proost!<br />
Equivoci sulle pronunce <strong>birra</strong>ie a parte, anche la Cantabria è un bel posto<br />
di sbevazzoni. C’è un forte campanilismo con i vicini baschi, ma non entro<br />
in merito. I Romani raccontavano di aver incontrato difficoltà a trattare coi<br />
Cantabrici. Infine, pochi anni prima della nascita di Cristo, riuscirono a<br />
sottometterli, ma dal IV secolo d.C. il territorio, come tutta l’Hispania<br />
imperiale, fu invaso a più riprese da varie popolazioni barbariche. Soltanto<br />
nel 1978 la Costituzione creò la regione della Cantabria, che fino ad allora<br />
era stata considerata un’estensione costiera della Vecchia Castiglia.<br />
Santander, il capoluogo, vanta un’intensa vita notturna. D’estate pullula di<br />
compatrioti. Una sera davanti a un locale a El Sardinero, la zona chic della<br />
città, inquadrammo tre mozas: avevano l’aria un po’ smarrita. Magari sono<br />
di Soria ed è la prima volta che vengono qua in vacanza, commentammo.<br />
Si approssimarono al bar con prudenza; noi lì in agguato, maschi caproni,<br />
coi nostri tintinnanti cubatas de ron. Tutt’a un tratto la più attraente del<br />
terzetto disse: “Allora, ragazze mie, entriamo a prenderci da bere?”, con<br />
un marcato accento delle Langhe. Mancò un pelo che esplodessimo loro in<br />
faccia.<br />
La Cantabria costiera è ricca di attrattive naturali e mondane, ma faccio<br />
prima a consigliarvi l’acquisto della guida Lonely Planet per la Spagna<br />
settentrionale. Ciò che non potete proprio perdervi è il leggiadro Parco<br />
Nazionale dei Picos de Europa, che si estende su tre regioni – Cantabria,<br />
Asturie, Vecchia Castiglia. È il luogo ideale per ritemprare il corpo, la<br />
mente e… il palato, coi suoi squisiti formaggi e le varietà cantabriche di<br />
orujo, un liquore che si ottiene dalla distillazione della sansa dell’uva. Per<br />
di più il mare non è lontano. Un bel posticino da usare come base per le<br />
escursioni nei Picos è Potes: questa cittadina, piuttosto animata in alta<br />
stagione, conserva un certo fascino nel centro storico. I bar e le enoteche<br />
non mancano, ma essendo a un passo dalle Asturie vi si mescono fiumi di<br />
sidro. Ogni sidrería ha installato accanto all’ingresso un marchingegno a<br />
pulsante per spillare il sidro nel bicchiere come si deve, ossia tenendo la<br />
bottiglia il più alto possibile, risparmiandovi in tal modo le figuracce che<br />
si rimediano tentando di imitare il virtuosismo manuale asturiano nella<br />
mescita: di lato generalmente è montata una panca di legno, così potete<br />
accomodarvi e sorbire il succo di mele fermentato osservando la gente che<br />
passa. Magari beccate.<br />
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I messicani potrebbero essere considerati bárbaros soltanto in un romanzo<br />
di fantascienza ucronica in cui gli ellenici fossero approdati in America<br />
Centrale diciassette secoli prima di Colombo. Eppure la moda delle birre<br />
lager leggere messicane, letteralmente esplosa in Europa al principio degli<br />
anni Novanta, possiede tutte le connotazioni di un’invasione barbarica:<br />
fulminea, spiazzante, devastante.<br />
Nel momento in cui un tale Saddam Hussein saliva prepotentemente alla<br />
ribalta delle cronache mondiali minacciando e infine invadendo il Kuwait,<br />
Torino conosceva un’improvvisa fioritura di luoghi all’aperto dove bere e<br />
sbocconcellare qualcosa. Il più trendy (parola maledetta ma efficiente) era<br />
l’Ippopotamo, che si stendeva sull’area dell’ex giardino zoologico. Nelle<br />
serate più calde ci si stava da favola. Serbo un’infinità di ricordi di quella<br />
stagione. Ecco la Top Three:<br />
1. “L’Ippopotamo sta per chiudendo”. Frase pronunciata da una certa<br />
Esther. Eravamo in un altro locale all’aperto, Le Terrazze sul Po, e<br />
qualcuno aveva proposto di spostarci all’ex zoo.<br />
2. Il treno di Corona’s che trincai in una sera senza pagarne neanche una<br />
fottuta bottiglia, complice un barista malato di rock’n’roll originario di<br />
Imperia che era entrato a far parte della nostra eterogenea combriccola.<br />
3. Il sottoscritto, ebbro di spirito e di allegria, sventolando una bandiera<br />
granata per tutto il giardino: il Toro aveva appena vinto la Coppa Italia<br />
1993 in una finale agonica.<br />
Soltanto all’Ippopotamo la Corona Extra andava via ad autobotti. Esagero,<br />
ma mica tanto. Ora il consumo è sensibilmente calato. Fashion, turn to the<br />
left, fashion, turn to the right. In ogni caso è una <strong>birra</strong> leggera, fresca,<br />
dissetante: niente più, niente meno. Il rituale della fettina di limone nel<br />
catacretico collo della bottiglia fa arricciare il naso ai puristi <strong>birra</strong>ioli, ma<br />
per quanto mi riguarda una Corona in particolari occasioni ci sta bene, “fa<br />
fine e non impegna”, soprattutto in riva a un oceano sotto la canicola.<br />
Un’altra <strong>birra</strong> messicana di gran fama è la Dos Equis, originariamente<br />
fabbricata dal <strong>birra</strong>io tedesco Wilhelm Hasse nel 1897. Io mi riferisco<br />
sempre a essa come la cerveza del restaurante, poiché mi capita di berne,<br />
e tanta, soltanto quando mangio messicano. Nella seconda metà degli anni<br />
Novanta m’innamorai di un locale, il Centenario, dall’ottima cucina texmex<br />
e cocktail preparati con amorevolezza – se desiderate incollarmi al<br />
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vostro bancone fino alla fine del mondo, fatemi un’ottima tequila sunrise.<br />
Non tutti i barman ne sono capaci, purtroppo.<br />
In Spagna, fino a una decina d’anni fa, ero assiduo cliente della Cantina<br />
Mariachi. Vado pazzo per il mole poblano, le patatas charras e il dulce de<br />
caramelo. Al Mariachi di Calle Simon Bolivar, Bilbao, devono avere<br />
tuttora le nostre foto segnaletiche attaccate con le puntine dietro la cassa:<br />
là dentro ci riducevamo sempre come delle pezze d’alcol. Una volta ero<br />
così ben combinato che uscendo battei una capocciata tremenda contro la<br />
serranda semiabbassata. Un’altra scolammo un’intera bottiglia di mescal<br />
dando spettacolo per il locale come i Muppets: toccandone a me l’ultimo<br />
sorso, avrei dovuto ingoiare il gusanito, ma mi rifiutai categoricamente.<br />
“Non sai cosa ti perdi”, mi biasimò Luca, il nostro compare piemontese<br />
trapiantato in Euskadi, dopodiché lo mandò giù proprio come facevano<br />
quei veterani del Vietnam in sedia a rotelle nel film Nato il 4 di luglio.<br />
Una leggenda azteca racconta che una dea si era innamorata di un mortale<br />
ma non poteva fare l’amore con lui proprio perché non era come lei, allora<br />
ella creò un liquore dalle foglie della pianta più arida e sterile, l’agave, lo<br />
fece bere al suo innamorato e lui divenne un dio. Pazienza, sto bene anche<br />
solo con la saggezza del salmone irlandese.<br />
Foto segnaletiche, ho scritto. Qualche tempo dopo la serata del mescal ci<br />
ripresentammo alla Cantina Mariachi per un’altra strippata, ma appena<br />
entrati fummo stoppati dalla gestrice, espressione severa e pugni serrati:<br />
“Chicos, io vi faccio entrare a mangiare, però pretendo che non ripetiate il<br />
casino della volta scorsa. Questo è un ristorante, non un bar de barrio.”<br />
A sus ordenes, Doña Carmen.<br />
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Figura 6. Una bella <strong>birra</strong> da tifosi di calcio in trasferta.<br />
64
MARS STOUT BEER<br />
Poche storie, la <strong>birra</strong> fa bene: e come potrebbe essere altrimenti, essendo<br />
essa derivata da infusione e decozione d’orzo, grano e cereali. Una recente<br />
ricerca effettuata dal CNR su marche italiane ha dimostrato che la <strong>birra</strong><br />
contiene microcomponenti con azione antiossidante, ovverosia i nostri<br />
ardimentosi soldatini anti-arteriosclerosi e infarto.<br />
La scoperta delle virtù terapeutiche della nostra amatissima bevanda non è<br />
roba d’oggi. Nel XVII secolo il predicatore tedesco Colerus nel suo libro<br />
Oeconomia ruralis et domestica riconosceva alla <strong>birra</strong> di Zerbst notevoli<br />
virtù curative, quale per esempio la capacità di espellere i calcoli renali.<br />
Nel 1743 una dissertazione a cura di tal Paolo G. Homeyer s’interessava<br />
della qualità della <strong>birra</strong> da somministrare agli ammalati, spiegando come<br />
certe birre siano più adatte di altre. Alla fine, noi siamo ciò che beviamo.<br />
Di conseguenza meglio si beve meglio è.<br />
Disgraziatamente ci troviamo a vivere in una brutta epoca. Una delle sue<br />
maledizioni è il pompaggio mediatico. La nuova tendenza dei mass media<br />
italiani è deplorare indiscriminatamente il consumo d’alcol. Da forte ma<br />
coscienzioso bevitore dai passati eccessi, mi rendo perfettamente conto<br />
delle problematiche legate all’abuso di bevande alcoliche; ma non si può<br />
fare di tutta l’erba un fascio, zoomando su boccali di <strong>birra</strong> e cocktail con<br />
commento moraleggiante in off manco tutti i <strong>birra</strong>ioli fossero potenziali<br />
investitori di bambini e pensionati sulle strisce pedonali. Magari qualche<br />
servizio dopo lo stesso tiggì ti esalta squadriglie di smandrappate mezze<br />
nude e strafatte di cocaina che ballano sui tavoli al Billionaire, ma quella è<br />
“bella vita”, e allora… allora, vaffanculo.<br />
Noi bevitori consapevoli scontiamo le grullerie delle marmaglie ineducate<br />
al buon bere e in generale al buon vivere non solamente con tonnellate<br />
d’ipocrisia catodica, ma anche con la proliferazione neoplasica di zone a<br />
traffico limitato, telecamere, autovelox, blitz anti-movida, e trombonate<br />
come le tabelle per il calcolo del tasso alcolico in base al peso, al sesso, al<br />
cibo e all’alcol ingeriti, nate già approssimative e invise a buona parte dei<br />
gestori. In questa maniera le Amministrazioni cittadine si puliscono la<br />
coscienza e nel contempo fanno cassa. Ma il proibizionismo non ha mai<br />
pagato, specialmente coi giovani, perché quando si è giovani si fa tutto ciò<br />
che i grandi ti dicono di non fare. I ragazzi tazzeranno di meno, <strong>forse</strong>, ma<br />
prenderanno più droghe, pressoché certo: i pusher sono tutti lì a fregarsi le<br />
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mani sporche di mannitolo. Urge educazione preventiva, non repressione.<br />
Ma per i nostri prezzolati e pluririfatti gerontocrati l’empatia è un malanno<br />
ai legamenti.<br />
Bere <strong>birra</strong> tutti i giorni fa bene. Ma è anche opportuno conoscere il parere<br />
anche di chi la pensa in modo difforme, più di tutto se è autorevole. Scrive<br />
il prof. Giuseppe Remuzzi:<br />
Che succede al cervello di uno che beve? Tante cose diverse, secondo quanto si<br />
beve e quanto celermente. L’alcol agisce a livello della trasmissione dell’impulso<br />
nervoso tra un neurone e l’altro (i medici definiscono “sinapsi” le giunzioni di<br />
collegamento attraverso cui passano i segnali elettrici) e delle sostanze che<br />
regolano la trasmissione di questi impulsi come la dopamina, le catecolamine, la<br />
serotonina. E’ la liberazione di dopamina nel sistema limbico – la parte del<br />
cervello coinvolta nel comportamento e nelle emozioni – che dà euforia e<br />
loquacità. L’alcol rende più facili i rapporti con le altre persone, si è meno inibiti,<br />
si arriva a provare un senso di onnipotenza, ma se le concentrazioni di alcol nel<br />
cervello aumentano c’è un effetto sedativo. Inoltre succede che la pressione del<br />
sangue scenda, si perde la capacità di controllare la temperatura del corpo, c’è<br />
difficoltà di respiro e si arriva al coma.<br />
Misurando i livelli di alcol nel sangue di chi ha quei sintomi si può constatare<br />
come essi superino i 300 milligrammi in 100 millilitri di sangue: per livelli di<br />
alcol ancora più alti, più di 400 milligrammi per 100 millilitri di sangue, si può<br />
morire. Basta poco alcol, se uno ne assume tutti i giorni, perché nel fegato si<br />
accumulino grassi (“steatosi”, verificabile con l’ecografia). Una volta gli si dava<br />
poca importanza. Ora si è visto che l’accumulo di grasso nel fegato predispone ad<br />
altre malattie, primariamente una forma di infiammazione somigliante all’epatite<br />
che poi talvolta evolve in cirrosi e cancro. Non si sa bene perché in alcune<br />
persone si passi rapidamente dal fegato grasso alle malattie più gravi, anche per<br />
modiche quantità di alcol, e perché in altre questa evoluzione sia più lenta o non<br />
si verifichi affatto. L’obesità è un fattore di rischio che potenzia di molto gli<br />
effetti dell’alcol.<br />
Perché è proprio il fegato a risentire maggiormente dei nostri eccessi? Birra, vino<br />
e liquori contengono etanolo, e l’etanolo si trasforma nel nostro organismo grazie<br />
a enzimi che risiedono e agiscono soprattutto nel fegato: alcol deidrogenasi e<br />
citocromo P450. Durante il processo di trasformazione dell’etanolo si verificano<br />
nel fegato una serie di reazioni chimiche che portano alla sintesi di grassi. Il<br />
modo migliore per difendersi dall’accumulo di grassi sarebbe quello di ossidarli e<br />
il fegato certamente ne è in grado, ma l’etanolo riduce il processo di ossidazione<br />
degli acidi grassi e così priva l’organo del sistema più efficace per difendersi<br />
dalla steatosi. Più di 40-80 grammi di alcol al giorno per gli uomini e 20-40 per<br />
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le donne nel giro di 10-12 anni portano sicuramente a una malattia del fegato.<br />
Nondimeno qualcuno arriverà alla cirrosi pur bevendo molto meno e altri non vi<br />
arriveranno affatto benché bevano di 50 grammi al giorno. Questa soggettività<br />
dipende da fattori genetici – nella fattispecie, dai geni che governano la sintesi<br />
degli enzimi preposti a metabolizzare etanolo e acetaldeide –, flogistici e<br />
immunitari.<br />
In generale sono gli uomini a patire le conseguenze dell’abuso d’alcolici, perché<br />
bevono di più. Ma alle donne l’alcol fa ancora più male. A uguaglianza di<br />
quantità d’alcol ingerita, si riscontra più etanolo nel sangue delle donne che in<br />
quello degli uomini. Come mai? In primo luogo, la stessa quantità d’alcol si<br />
distribuisce in un volume più piccolo, dato che la donna possiede meno acqua<br />
corporea che l’uomo; in secondo, lo stomaco della donna non è così attivo come<br />
quello dell’uomo nel trasformare l’etanolo; infine, gli ormoni femminili rendono<br />
il fegato più vulnerabile agli effetti dell’alcol. Non basta: chi beve parecchio –<br />
donne e uomini – di solito si nutre male, e assume meno sostanze antiossidanti<br />
(glutatione, Vitamina A e C, per esempio). In questo modo, progressivamente, il<br />
nostro organismo perde quel naturale patrimonio che lo difende dai tumori e<br />
dall’invecchiamento. Per questo chi beve invecchia precocemente.<br />
In conclusione, il bere danneggia il fegato, sempre. Si va da una condizione<br />
relativamente benigna, l’accumulo di grassi, a patologie potenzialmente mortali<br />
come la cirrosi e il cancro. Ma l’abuso di sostanze alcoliche è pernicioso per<br />
l’organismo in svariati altri modi; vi sono ancora molte questioni insolute. Nel<br />
momento in cui ne sapremo di più <strong>forse</strong> comprenderemo altresì perché certuni<br />
col bere rischiano di più e altri invece possono permettersi un po’ più di vino e un<br />
superalcolico di quando in quando senza che ciò arrechi loro troppo danno.<br />
O.K. Allora tocchiamoci gli zebedei ogni santa volta che sorseggiamo una<br />
<strong>birra</strong>, simbolicamente per le amiche donne. Io, per me, sto benissimo, a<br />
parte il forzato cambiamento d’itinerario per il ritorno a <strong>casa</strong> dalle serate<br />
di fiesta impostomi dai posti di blocco antisbronza. La scorsa primavera<br />
ho rischiato grosso. Di rientro da un compleanno con una Budweiser e un<br />
paio di vodka sour in circolo – cosa diavolo pretendono che si beva in<br />
codeste occasioni, cedrata Tassoni? – ma totalmente lucido, ho imboccato<br />
il percorso minato con leggerezza d’animo. «Tanto stasera gli avvoltoi non<br />
ci sono.»<br />
Invece c’erano, accidenti a loro. Piantati nel bel mezzo del solito crocevia<br />
prospiciente la facoltà di Architettura. Stavano già facendo il controllo a<br />
un tale, ma io ero il prossimo. Un carabiniere era già lì pronto ad alzare la<br />
paletta; tra me e lui c’era l’auto del malcapitato e un semaforo rosso. “Col<br />
cazzo che mi prendi” ho ringhiato a denti serrati sul ritmo funky-wave<br />
67
degli LCD Soundsystem. La mia sola via di fuga era il controviale a destra<br />
del corso trasversale e non appena è scattato il verde vi ho svoltato con<br />
noncuranza sfangando alla grande il check point. Fiuu!<br />
In conseguenza di quest’episodio, qualche luna dopo in locale del centro<br />
ho voluto farmi il test. Le istruzioni stampate sull’arnese spacciato per<br />
etilometro erano piuttosto risibili, poiché ti si consigliava di soffiare nella<br />
cannuccia passati dieci minuti dal tuo ultimo drink o paglia. Ve li figurate<br />
i tutori della legge a un controllo? “Scusi, signore, quand’è che ha bevuto<br />
il suo ultimo beverone bruciastomaco? Soltanto quattro minuti fa? Ah be’,<br />
allora aspettiamo!”<br />
See, che l’uovo si frigga in padella col burro. A ogni buon conto, avendo<br />
assunto pressoché la stessa quantità e qualità d’alcolici del compleanno,<br />
ho soffiato in quella scatoletta gialla di latta per la modica cifra di un euro<br />
– il controllo del tasso alcolico è diventato un business, ça va sans dire. Il<br />
responso è stato scioccante: 2.35!!! Vale a dire, ubriaco duro, da lasciare<br />
la macchina dov’è e tornare a <strong>casa</strong> in taxi. E io, con tutta l’obiettività del<br />
multiverso, non mi sentivo per nulla tale. Porcaccia la miseria. Così si<br />
rischia la patente ogni volta che esci fuori a cena o semplicemente per un<br />
aperitivo.<br />
Giovedì 9 ottobre 20**, h 02.19 p.m., CET. È una splendida giornata di<br />
sole. Alla mia sinistra, oltre la vetrata e la siepe già rossiccia d’autunno<br />
che cinge la biblioteca, si stende il mio succedaneo di frontón: un’andana<br />
pietrosa che termina in un muro sbrecciato alto poco più di due metri e<br />
ricoperto di graffiti.<br />
Quattordici anni fa, in un grossolano tentativo per sembrare integrato nella<br />
realtà basca, entrai fischiettando in un fornito negozio d’articoli sportivi di<br />
Santutxu e ne uscii con un set di palas da consumato professionista della<br />
pelota, quando piuttosto avrei potuto contentarmi di una normale versione<br />
da spiaggia. Passate diverse estati a grondare tossine su qualche battigia<br />
atlantica col patema costante di accecare o decapitare qualcuno, mi stufai e<br />
confinai le palas in un armadio sotto una catasta d’attaccapanni.<br />
Torniamo un attimo all’articolo del professor Remuzzi. «L’alcol rende più<br />
facili i rapporti con le altre persone, si è meno inibiti.» Verissimo. Ma in<br />
quantità non eccessive facilita anche il funzionamento del circuito neurale<br />
delle idee. A inizio 2007, stufo del jogging e della cyclette, mi scervellavo<br />
per trovarvi un’alternativa valida. Una sera uscii per bere un paio di birre<br />
scure, ne bevvi quattro, e il mattino dopo appena sveglio mi si accese la<br />
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Osram: “Recupera le palas dai bassifondi del guardaroba e vai a cercarti<br />
un muro abbastanza alto.”<br />
Inaugurai il frontón in una giornata piacevolmente tiepida e lucente come<br />
questa. Al quarto d’ora di timorosi diritti e rovesci fui avvicinato da una<br />
signora piuttosto anziana; vestita come Anna Magnani nella scena madre<br />
di Roma città aperta, incedeva con le spalle curve, stringendo al petto una<br />
rivista di moda. Non sembrava molto in sé, ma le apparenze ingannano. Si<br />
fermò e mi chiese: “Sta giocando a pelota, neh?”<br />
“Sì, signora” le risposi, seguitando a colpire la pallina da tennis. “È una<br />
variante particolare.” Pallamuro alla piemontese.<br />
“Mi pareva. Ma perché gioca qui da solo? Dov’è la sua vicina di camera?”<br />
Mi venne da sorridere, ma anche da esalare un sospiro di tristezza. “Non<br />
ne ho…” Stoppando la palla sulla punta della racchetta.<br />
“Che peccato. Comunque sia, è una bella giornata oggi per fare queste<br />
cose al parco: nessuno che ti disturba.” Detto ciò, si allontanò borbottando<br />
qualcosa tra sé.<br />
Tac, bunch, put, tac, bunch, put, tac… swishhhh. Mi era scappata la mano.<br />
La piccola sfera gialla spelacchiata sorvolò beffarda la muraglia andando<br />
ad atterrare nella strada adiacente. Provai a scavalcare. Quand’ero piccolo<br />
zompavo su quei muri come un grillo bionico. Già, venti chili fa. Trenta.<br />
Issarmi quasi mi costò una clavicola. Fortuna volle che di lì passasse una<br />
gentil madama con cagnuflo riottoso al seguito. Tendendo il braccio per<br />
ridarmi la pallina costei volle avvertirmi: “Stia attento lassù, che c’è da<br />
farsi male.”<br />
“Lo so, signora. Forse non ho più l’età per fare certe cose.”<br />
Vecchio rottame o no, da allora i miei colpi sono molto migliorati ed è<br />
molto raro ormai che io spedisca la pallina oltre il muro. Ho scritto perfino<br />
un blog su questo mio particolare svago e tutto ciò che comporta nel bene<br />
e nel male: Pelota basca e teratologia. Coloro che fossero interessati a<br />
leggerlo e farsi quattro sane ghignate lo troveranno sul mio sito personale,<br />
www.maurizioferrarotti.com. Un po’ di sana autopromozione.<br />
Ho cominciato ad apprezzare davvero i piaceri della tavola alla soglia dei<br />
trent’anni. Prima passavo la lingua sui piatti o mi rimpinzavo di salame<br />
crudo e parmigiano reggiano appena tornato dalle scorribande serotine. Il<br />
risultato di siffatto mutamento nelle mie abitudini alimentari è che in<br />
sedici anni ho messo su venti chili. Più che ingrassato, mi sono riempito.<br />
Gli amici, è ovvio, mi scherzano per questo: “Diamine, Ma’, una volta eri<br />
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anoressico e ora sembri un cinghiale di Giaveno!” Che esagerati. Però<br />
m’altererei molto di più se mi dicessero: “Ehi, Ma’, una volta eri il nipote<br />
sabaudo di Iggy Pop e ora sembri il fratello gemello di Vasco Rossi.” O<br />
peggio ancora, Antonio Albanese a.k.a. Alex Drastico, un altro cui vengo<br />
frequentemente raffrontato anche se, per dirla come Johnny Stecchino,<br />
nun me somiglia pe’ nniente. Puntualmente il giorno dopo che qualcuno –<br />
in genere è una lei, porcaccia l’oca, ma cos’hanno le donne al posto delle<br />
cornee? – mi ha rovinato il drink con ’ste similitudini del kaiser Franz,<br />
scendo giù al parco e meno mazzate basche al muro come un <strong>forse</strong>nnato<br />
per un’ora. Jakina!<br />
Tra il 1993 e il 1995 ci nominammo Avanguardia Gastrica. In autunno e<br />
inverno ogni sabato o domenica salpavamo per vere e proprie spedizioni<br />
enogastronomiche nelle Langhe o nel Monferrato. Il nostro santuario era il<br />
ristorante Vigin Mudest di Alba, dove ci stroncavamo d’antipasti alla<br />
piemontese, agnolotti e/o tajarin con grattatina di tartufo bianco, sorbetto,<br />
costolette di agnello o brasato e dolci prelibati (il bunet è paradisiaco…), il<br />
tutto generosamente annaffiato di Barbera. Ora ci siamo acquietati, ma di<br />
quando in quando, direi una volta ogni due mesi, la mangiata festiva ci<br />
scappa ancora. E le mandibole tornano a macinare come il Pac-Man.<br />
Per quanto concerne Torino e i suoi luoghi di ristoro, prendo a prestito da<br />
un giornale questa dichiarazione: “Restano le eccellenze, stentano i locali<br />
medi.” Sono tempi duri per la ristorazione di qualità, sia per la crisi, sia<br />
perché i tempi e i costumi sono cambiati. È in voga “l’apericena” e io<br />
invero non lo osteggio purché l’offerta sia variegata e genuina: in tal senso<br />
il Fluido, situato al Parco del Valentino in riva al Po, è il miglior locale di<br />
Torino. Prosciutto crudo, insalata di riso e Budweiser come se piovesse è<br />
il mio aperitivo lungo del sabato sera col vista sul ponte della Gran Madre.<br />
Se poi mi resta fame vado al Retrò, il ristorante di Steve. Markette.<br />
Tornando a bomba, cioè alla sacra <strong>birra</strong>, il Birrificio Torino la produce<br />
artigianalmente in moderate quantità nel laboratorio annesso al ristorantebirreria<br />
dallo stesso nome. Non è uno dei locali che batto di frequente ma<br />
mi garba andarci. Là potete gustare alcune ricette sfiziose, come il maiale<br />
cucinato con la Birra Torino, chiara doppio malto a bassa fermentazione,<br />
le frittelle di baccalà alla Clara (così il Birrificio Torino denomina la sua<br />
<strong>birra</strong> chiara) e le coscette di pollo marinate in un intingolo di bacche di<br />
ginepro, foglie d’alloro spezzettate, sale, pepe e <strong>birra</strong> Rufus, specialità<br />
artigianale di <strong>birra</strong> rossa a doppio malto. Un altro birrificio d’ottima fama<br />
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è il Brew Pub BEFed di Settimo Torinese, dove si tracanna <strong>birra</strong> d’acqua e<br />
malto d’orzo e si mangia il galletto al forno. Gnam gnam.<br />
Chiunque almeno una volta nella propria vita ha idoleggiato un divo/a del<br />
piccolo o grande schermo. O si è fortemente immedesimato in un ruolo da<br />
lui/lei interpretato. In quest’ultimo rispetto, potrei citarvi minimo trenta<br />
personaggi che mi hanno preso nel cervello: Charlie Crews, protagonista<br />
del serial Life, è l’ultimo arrivato.<br />
Anch’io come Charlie, un detective che si è fatto dodici anni in galera per<br />
un crimine che non ha commesso, ho dovuto combattere a lungo per non<br />
perdere il senno; soltanto che la mia prigione era mentale, non fisica. Gli<br />
scarabocchi sulle pareti della mia cella rivelavano mancanza d’autostima,<br />
difficoltà di comunicazione col prossimo, sensi di colpa generati dalla<br />
morte di mia sorella Danii per quel male bastardo figlio di puttana sifilitica<br />
il cui nome i media sono ancora riluttanti a pronunciare: cancro, cancro,<br />
cancro, CANCROOO!<br />
Charlie Crews, al secolo Damian Lewis, si è aggrappato a un libercolo zen<br />
trovato in cella per sopravvivere; tornato in libertà n’applica i precetti alla<br />
sua nuova vita, sia pure sui generis. Io, <strong>Maurizio</strong> <strong>Ferrarotti</strong>, bevo <strong>birra</strong><br />
gustandone ogni singolo sorso, gioco a pelota, compro e scarico musica a<br />
tonnellate, corteggio femmine giovani e mature: poi, c’è Stop allo stress.<br />
Ho rinvenuto questo libretto nel bidone cartesiano per la raccolta di carta e<br />
cartone del mio palazzo; in origine era allegato a un numero della rivista<br />
Viversani & belli. Quest’ultima è uno di quei mensili salutisti nei quali per<br />
recuperare la linea dopo i bagordi natalizi ti si consiglia una dieta a base di<br />
melone e acqua minerale naturale per dieci giorni e prima di partire per le<br />
vacanze estive frullati di guaranà e scolopendra indiana, la quale per di più<br />
si dice possieda virtù anti-ictus.<br />
In ogni modo, Stop allo stress si è rivelato tutt’altro che una boiata. Scritto<br />
con la consulenza di una nota neuropsichiatra bergamasca, è prodigo di<br />
suggerimenti su come affrontare gli stressor (così vengono genericamente<br />
chiamate tutte le situazioni di stress). Io, per me, prediligo l’auto-shiatsu.<br />
Lo shiatsu (parola composta di shi = dito e atsu = pressione), è una tecnica<br />
giapponese risalente al VI secolo, quando i monaci buddisti importarono<br />
nel paese del Sol Levante i principi della medicina tradizionale cinese che<br />
ne costituiscono il fondamento teorico. Consiste nell’esercitare con le dita<br />
una moderata pressione in alcuni punti strategici del corpo, risvegliandone<br />
la forza di autoguarigione. Nonostante ora nel nostro paese sia molto in<br />
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voga (recentemente ho visto affissa alla pensilina di una fermata d’autobus<br />
una locandina reclamizzante un “salone rumeno di massaggi shiatsu e Tai<br />
Chi”!), nessuna istituzione universitaria si è ancora impegnata a studiarne<br />
gli effettivi benefici. Italica normalità.<br />
Lunedì 13 ottobre 20**, h 11.02 p.m., CET. Metto il pigiama e mi siedo<br />
sulla sponda del letto. Fra un attimo proverò a potenziare i benefici dello<br />
shiatsu con la visualizzazione: immaginerò di scrivere una recensione di<br />
Radio Ethiopia, uno dei miei dischi preferiti.<br />
Appoggiare gli indici di entrambe le mani sulla sommità del capo,<br />
esattamente al centro della testa.<br />
Nel cruciale 1976 Patti Smith cambia produttore discografico, preferendo<br />
al colto e raffinato John Cale il più spregiudicato Jack Douglas, l’abile<br />
artigiano del suono Aerosmith. Il prodotto di questa collaborazione sarà<br />
Radio Ethiopia, uscito alla fine di quell’anno.<br />
Le punte dei due indici devono toccarsi.<br />
I critici più intransigenti scriveranno che “il Patti Smith Group ha venduto<br />
la propria anima sediziosa al rock duro da classifica”, ma in verità Radio<br />
Ethiopia rappresenta esattamente il lavoro di gruppo successivo alle prime<br />
fasi di Horses. Il Patti Smith Group come entità musicale nasce solo ora<br />
con questo disco.<br />
Sovrapporre il dito medio al rispettivo dito indice, poi premere con una<br />
certa forza, mantenendo la pressione per due-tre secondi.<br />
Ain’t it Strange e Poppies sono i brani in cui musica e testo raggiungono<br />
una completa unità nel suono. Ask The Angels, Pumping (My Heart) e<br />
Pissing in a River riciclano i riff taglienti e metallici dei Blue Öyster Cult<br />
per i new wavers. Distant Fingers, per me il pezzo più bello del disco,<br />
evoca una meravigliosa sensazione di spazio cosmico grazie all’abilità di<br />
Douglas in materia di arrangiamenti – le chitarre suonano come comete<br />
dalle code cangianti.<br />
Allentare la pressione (dita distanti!) per altri tre secondi, poi premere<br />
nuovamente per due-tre secondi.<br />
Radio Ethiopia/Abyssinia, il “brano” che suggella il disco, è una tregenda<br />
allucinata che ha come precedente più indicativo nel rock un disco doppio<br />
malfamato di Lou Reed, Metal Machine Music. Dieci minuti di musica<br />
violentemente distorta e dissonante, dedicata alla mente sconvolta di chi<br />
ascolta: “Nel cuore del tuo cervello c’è una leva, nel cuore del tuo cervello<br />
c’è un interruttore.”<br />
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Ripetere quattro volte e spalmarsi sul lettuccio come burro d’arachidi. Ci<br />
vediamo venerdì prossimo, Charlie.<br />
La sonda Phoenix ha scoperto che dalle nubi di Marte cade neve. Uno<br />
strumento laser progettato per raccogliere indizi su come l’atmosfera e la<br />
superficie marziana interagiscono ha “visto” cadere la fiòca dalle nuvole a<br />
circa due chilometri e mezzo d’altezza sopra il luogo d’atterraggio della<br />
nave spaziale. I dati mostrano che la neve vaporizza prima di raggiungere<br />
il suolo, ma gli scienziati stanno cercando di capire se in talune condizioni<br />
essa possa raggiungere il terreno. Ve li immaginate gli astronauti della<br />
NASA nelle loro immacolate tute spaziali plasmare un pupazzo di neve,<br />
ficcandoci a mo’ di naso una carota modificata geneticamente, sotto quel<br />
cielo brunastro?<br />
Ho un’altra fantasia futurista. Grazie alla <strong>birra</strong> che ho bevuto durante tutta<br />
la vita e un trattamento anti-apoptosi che ho potuto permettermi con le<br />
royalties intascate per il successo eccezionale nonché durevole ottenuto da<br />
questo libro (saranno fallaci sogni, ma lasciatemeli), ho visto l’alba del<br />
ventiduesimo secolo e, quantunque vizzo e incanutito, m’incammino verso<br />
mezzogiorno. Percival I, la prima riuscita spedizione umana sul Pianeta<br />
Rosso, ha scoperto in una oscura caverna di Cydonia un lievito che è stato<br />
subito battezzato Saccharomyces martianensis. Per somma grazia astrale,<br />
una volta portata sulla Terra la sostanza non si è scatenata a solidificare il<br />
sangue nelle vene agli americani né a copulare con ogni essere vivente su<br />
questo pianeta – eccetto gli scarafaggi – come la “cosa disgustosa”<br />
protagonista del racconto di Harlan Ellison Com’è la vita notturna su<br />
Sissalda? Se n’è stata lì tranquilla, grigiastra e silente, a farsi esaminare in<br />
qualsiasi modo concepito dalla scienza del 2100, risultando quasi del tutto<br />
simile a un lievito terrestre. Come prima epocale prova dell’esistenza di<br />
vita al di là del nostro pianeta, era alquanto deludente.<br />
Poi quel genialoide di scienziato irlandese, Liam O’Moloney, ha avuto la<br />
pazzesca pensata di affogare qualche cellula di quella roba in un tino pieno<br />
di mosto: diamine, poteva scaturirne qualsiasi cosa, una melma onnivora,<br />
una lacerazione nel continuum spaziotemporale, una rockstar impegnata in<br />
nobili cause ma allergica alle tasse. Sono pazzi questi figli di San Patrizio.<br />
Invece…<br />
Ne è scaturito ciò che sto gustando ora, seduto sulla mia sedia a dondolo<br />
davanti all’olovisione: Mars Stout, la <strong>birra</strong> scura del Pianeta Rosso. Nera<br />
come lo spazio profondo, è sormontata dall’inconfondibile nebulosa di<br />
73
spuma marrone-rossastro, densa e brillante. Al naso offre aroma intenso di<br />
permafrost Utopia, che lascia spazio anche a sentori troiani. In bocca ha un<br />
impatto intensamente amaro ma cremoso, con gusto di caffè idroponico e<br />
cioccolato amaro europano arricchito da note d’idrogeno metallico. Finale<br />
secco, mercuriano, con retrogusto piacevolmente ultravioletto. Da provare<br />
a costo della vita è l’abbinamento con le ostriche crude allevate nel vivaio<br />
lunare di Oceanus Procellarum.<br />
Lassù nello spazio, nel punto d’equilibrio fra la gravità terrestre e quella<br />
lunare, un team congiunto di cervelloni statunitensi, europei e indiani sta<br />
completando i test su Xanadu, l’astronave a motore positronico che, salvo<br />
imprevisti, dovrebbe partire per Titano entro la fine del 2139.<br />
Bevo un altro sorso di <strong>birra</strong> aliena. Mars Stout e jamón pata negra per<br />
colazione non sono male per uno che ha appena compiuto la veneranda età<br />
di centosettantaquattro anni. Sarò anche un matusa, come si usava dire<br />
nella seconda metà del ventesimo secolo, ma me la cavo ancora bene; al<br />
2141, anno previsto per l’arrivo di Xanadu nell’orbita di Titano, ci arrivo<br />
di sicuro. E anche oltre. Sempre che lassù qualcuno non decida altrimenti.<br />
L’uomo su Titano. Una gozada. Che cosa porterà indietro quella missione<br />
dai mari idrocarburici del satellite arancione di Saturno? Io sono già qui<br />
che mi lecco i baffi…<br />
74
CHERCHEZ LA BIÈRE<br />
La signora O’Dowd rispose che “sua cognata Glorvina non aveva paura di<br />
nessuno, tanto meno di un francese”, poi vuotò un bicchiere di <strong>birra</strong> con un<br />
sorriso che dimostrava tutta la sua simpatia per quella bevanda.<br />
W.M. Thackeray, La fiera delle vanità.<br />
Nel momento in cui l’uomo primitivo uscì dai boschi e conquistò gli ampi<br />
spazi delle praterie, si portò appresso tutto un bagaglio di credenze su ogni<br />
fatto della natura; come cominciò a coltivare la terra, la sua protocultura<br />
religiosa si trasferì sui prodotti del suolo. Essendo fin da allora il concetto<br />
di fertilità associato alla donna, è coerente che le prime divinità agricole<br />
avessero fattezze femminili: la dea Nidaba dei Sumeri (una civiltà davvero<br />
straordinaria: furono loro a confezionare il primo indumento “topless” per<br />
donna!) la vacca Hanub degli egiziani le cui mammelle spargevano latte e<br />
<strong>birra</strong> sulle rive del Nilo, e la dea romana del raccolto, Cerere.<br />
La <strong>birra</strong> primordiale, quale essenza vitale del frumento estratta per mezzo<br />
dell’acqua, divenne la bevanda degli dei. E delle dee. Ishtar, dea assirobabilonese<br />
della fertilità, traeva la sua forza dalla <strong>birra</strong>. Nell’antico Egitto,<br />
le donne incinte offrivano <strong>birra</strong> alla dea Erneunet affinché fornisse latte in<br />
abbondanza alle nutrici. In Grecia, durante le feste in onore di Demetra,<br />
divinità femminile delle messi, si trincava <strong>birra</strong> di cereali in abbondanza:<br />
in particolare le donne s’inebriavano per poi lasciarsi andare a riti che<br />
qualche registucolo della San Fernando Valley sarebbe ben lieto di tornare<br />
indietro nel tempo a riprendere.<br />
Flussi mammari di <strong>birra</strong> dalla terra al cielo e viceversa, insomma. Con più<br />
di un risvolto malinconico o finanche funesto, soprattutto per le femmine<br />
mortali. Cleopatra, profondamente depressa, decise di uccidersi facendosi<br />
mordere il seno da un aspide, ma come ultimo piacere su questa terra volle<br />
concedersi una bevuta di sà, la <strong>birra</strong> forte riservata al Faraone e per le<br />
cerimonie religiose. Nabucodonosor una volta stancatosene si sbarazzava<br />
delle sue amanti annegandole in una grande piscina colma di <strong>birra</strong> d’orzo;<br />
mentre le povere creature, furbescamente sovraccaricate dei suoi gioielli,<br />
annaspavano nella bevanda, egli ai bordi ne glorificava le virtù amatorie.<br />
Che gran figlio di puttana. Un migliaio d’anni più tardi Rosmunda subì<br />
l’affronto di sorbire <strong>birra</strong> dal cranio del padre Cunimondo, assassinato da<br />
Alboino re dei Longobardi. Qué barbaridad. Tuttavia lo sfrontato sovrano<br />
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fu ucciso da Elmichi, suo scudiero, poco dopo il proprio insediamento a<br />
Verona nel palazzo di Teodorico, non senza la complicità di Rosmunda.<br />
“La vendetta è meglio dell’orgasmo”, sosteneva la strega chiamata Elvira<br />
facendo ballonzolare le tette gonfiate al silicone.<br />
Tra eros e thanatos, Teodolinda scelse la terza via: la virtù. Birraia. Infatti,<br />
la figlia di Gariboldo di Baviera sapeva preparare una <strong>birra</strong> spettacolare,<br />
che gli invitati ai lauti pranzi tenuti nella corte di Monza ingurgitavano a<br />
chilolitri. La cattolicissima Teodolinda l’inviava in grandi quantità anche a<br />
Papa Gregorio Magno. Finalmente comprendo perché il locale più famoso<br />
di Zarautz si chiamava Taberna Batikano.<br />
Venerdì 24 ottobre 20**, h 05.16 p.m., CET. Non molto tempo fa ho<br />
regalato all’AMIAT un ghetto blaster con lettore CD incorporato e un<br />
registratore-riproduttore stereo per impianti ad alta fedeltà, ambedue giunti<br />
al canto del cigno e macchiatisi più volte in tarda età del reato d’ingestione<br />
a tradimento di nastro magnetico. Fatto sta che ora non posso più ascoltare<br />
le cinquanta cassette superstiti della mia collezione.<br />
Una di queste è Ritual de lo habitual dei Jane’s Addiction, un gruppo per<br />
cui ebbi una fugace ma ardente passione a cavallo tra gli anni Ottanta e i<br />
Novanta. Decesso dei miei macchinari di riproduzione magnetofonica a<br />
parte, saranno tredici anni che non l’ascolto. Oltre a ciò non ne ho mai<br />
scorso per intero il libretto, intitolato in modo piuttosto bizzarro Noven A.<br />
Tra crediti vari e liriche Perry Farrell ha inserito un lungo scritto dedicato<br />
alle “zanzare intellettuali”. Il paragrafo centrale è una sorta di Sylv’s<br />
Longing Speech al maschile:<br />
Qualche volta ho desiderato di essere una donna. Una donna è la più attraente<br />
creatura che la natura ha da offrire all’uomo. Perché allora è una vergogna<br />
vederla svestita? Io provo molta più vergogna come uomo a vedere un grande<br />
magazzino in costruzione. Com’è complementare la donna all’uomo! Il loro dare<br />
amore è senza paura. La natura ha fatto la cosa giusta nel legare l’infante alla<br />
femmina. Però esse si portano anche appresso un senso di tristezza. Quasi come<br />
celassero una premonizione di pericolo che non possono scrollarsi di dosso. Io<br />
comprendo perché vogliano proteggere i loro bambini, ma per il loro stesso bene,<br />
lasciatemi notare che sebbene voi possiate avere da spiegare ai vostri pargoli cose<br />
che voi percepite come sbagliate, è meglio avere la libertà di spiegare ciò con<br />
parole vostre piuttosto che essere ridotti al silenzio da un governo che ha il potere<br />
di schiacciare chiunque si opponga alle loro vedute. Questo potrebbe far sì che un<br />
giorno il vostro bambino stia all’opposizione. Chi contrasta il debole ronzio che<br />
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ci suggerisce che tutte quelle donne sono sottomesse all’uomo. Le donne hanno<br />
motivo di vivere e ragioni per morire con dignità. Ma non sempre le cose sono<br />
andate così.<br />
Mi sento in perfetta concordanza con questi concetti, benché Perry sia un<br />
soggetto piuttosto controverso: non lo siamo un po’ tutti? L’uomo è duale<br />
per natura. Si può, nello stesso tempo, essere “fuori” e avere ragione. Si<br />
può essere inappuntabili executive di giorno e serial killer di notte. Che<br />
due marroni mi fa tutto quel frasifattume da telegiornale mediasettiano,<br />
“era un ragazzo così ammodo ma ha ammazzato la fidanzata a sprangate e<br />
poi con un bisturi le ha resecato la vagina e l’ha messa nel congelatore<br />
accanto alle granite al limone”!<br />
Ora però avrei proprio voglia di riascoltare ’sto dannato nastro, sentire di<br />
nuovo l’intro supersonica di Stop! scartavetrarmi le orecchie e ondeggiare<br />
allo strampalato ritmo funky di Been Caught Stealing come ai bei tempi<br />
dello Studio 2, quei <strong>forse</strong>nnati venerdì rock di Mixo, bring the noise!<br />
Che fare? Mi scapicollo fin giù al negozio d’elettrodomestici all’angolo<br />
che sta svendendo tutto? Ni hablar. Coi tempi che corrono, è meglio che<br />
mi tenga stretti quei quattro euro che serbo in banca. Orbene, ripiegherò su<br />
Kings of Oblivion dei parimenti eccessivi e drogatissimi Pink Fairies: la<br />
seconda canzone, stellare, s’intitola I Wish Y Was A Girl: vorrei essere una<br />
ragazza…<br />
Nel 1620 i Padri Pellegrini approdarono alla sponda rocciosa occidentale<br />
della baia di Cape Cod, nel Massachusetts sud-orientale; quella regione<br />
apparentemente inospitale era stata battezzata Plimouth in una mappa del<br />
New England disegnata da John Smith nel 1614: i coloni ne cambiarono il<br />
nome in Plymouth. “Non potremmo reggere per molto tempo un’ulteriore<br />
ricerca, avendo quasi finito i nostri viveri, specialmente la <strong>birra</strong>” scrisse<br />
William Bradford, secondo governatore di Plymouth, nel suo resoconto di<br />
prima mano History of Plimouth Plantation.<br />
Non che fossero dei beoni inveterati. In verità la <strong>birra</strong> ricopriva un ruolo<br />
fondamentale per la sopravvivenza, poiché l’acqua nella stiva delle navi<br />
diveniva presto rancida. Non molto tempo dopo il loro arrivo nella nuova<br />
terra, i Pellegrini introdussero i loro nuovi amici, gli indiani della tribù dei<br />
Wampanoag, alle gioie della <strong>birra</strong>. I Wampanoag ricambiarono facendo<br />
loro conoscere ciò che sarebbe diventato un ingrediente comune della <strong>birra</strong><br />
negli Stati Uniti: il grano.<br />
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Dopo essere sopravvissuti a una critica mancanza di <strong>birra</strong> durante i primi<br />
mesi seguenti il loro arrivo, i Pellegrini designarono l’edificazione di un<br />
birrificio quale priorità basilare. Come fu stabilita la colonia, le cucine<br />
<strong>casa</strong>linghe divennero fabbriche di <strong>birra</strong> e, in conformità alla tradizione, la<br />
mansione del brewing fu assegnata alle donne. Mi pare di vederle, quelle<br />
creature timorate di Dio e infaticabili, con le loro cuffie bianche inamidate<br />
e le gonne lunghe fino ai piedi, tenere d’occhio la fermentazione nei tini:<br />
B, La Lettera Dorata.<br />
Lo scorso gennaio, io e la mia fidanzata americana stavamo attaccando la<br />
prima di una lunga serie di Miller Lite da O’Leary Tiki Bar & Grill,<br />
Sarasota, Florida, quando due personaggi, sui 55-60 anni a occhio e croce,<br />
sopraggiunsero a impadronirsi dell’unico pezzo di bancone rimasto libero<br />
al momento, proprio di fianco a noi. I loro indumenti, camice hawaiane<br />
pantaloni corti e ciabatte infradito, erano un pelino leggeri perfino per un<br />
inverno clemente qual è quello della costa ovest della Florida, dov’è raro<br />
che la temperatura notturna scenda sotto i 12 gradi centigradi.<br />
Un’altra splendida giornata volgeva al termine. Era il mio primo viaggio<br />
in assoluto nei mitici (e mitizzati) Stati Uniti d’America e i sentimenti che<br />
provavo per Miss Jane Ann Thomas, sublime prodotto di Dna toscano – da<br />
parte di madre –, gallese e olandese, crescevano di giorno in giorno,<br />
totalmente ricambiati. Wow, stavo proprio una favola. La Miller Lite<br />
scendeva giù che era un piacere, fresca e corroborante. Lo stereo del bar<br />
all’aperto suonava Can’t Hardly Wait dei Replacements. La mia donna<br />
profumava di Pink Sugar. Don’t pinch me, I’m dreaming.<br />
L’accento dei due uomini mi suonava cinese. “Di dove sono?” domandai a<br />
Jane sottovoce. “Di Boston” sorrise lei. Dopodiché chiese loro conferma:<br />
“Ehi, ragazzi, siete di Boston, vero?” Creatura esuberante, la mia Jane.<br />
Il più anziano dei due almeno all’apparenza, barba bianca da capitano di<br />
lungo corso ed eritema etilico, partì subito in quarta a fare lo splendido; il<br />
suo compare, più austero e occhialuto, rimase seduto sul suo sgabello. Io<br />
dosavo sorrisetti di circostanza sforzandomi nel contempo di comprendere<br />
ciò che il Capitano Nemo andava dicendo. Chiamasi accento non-rotico:<br />
ossia, che omette e/o sostituisce la pronuncia della erre quando seguita da<br />
consonante o a fine parola. Se voi ordinaste un’aragosta nel Massachussets<br />
o nell’attiguo Maine come lobster, il cameriere potrebbe riprendervi con<br />
puntiglio: “It’s lobstah, sir, not lobster.” Colà lo schiaccianoci, nutcracker,<br />
si pronuncia nutcrackah.<br />
78
Per deficit d’attenzione o mancanza d’interesse, non capii che accidenti ci<br />
facessero quei due a Sarasota; vacanze, lavoro sugli yacht, contrabbando<br />
di cocaina o di microchip militari da vendere ai cinesi, fate voi che sapete.<br />
Dopo un po’ anche il quattrocchi e due stanghette, anch’egli con lanugine<br />
canuta ma più alto e dinoccolato, venne a offrire il proprio contributo alla<br />
chiacchierata: hey, ma sei italiano?, mia nonna materna era italiana, che ci<br />
fai in Florida, sei uno chef? (un classico. Negli Stati Uniti me lo chiedono<br />
tutti; e, manco a dirlo, ogniqualvolta rispondo che faccio il copy bla bla<br />
bla mi guardano con gli occhi a palla) e così via.<br />
Tempo di bere un’altra <strong>birra</strong> leggera e i due soggetti levarono le ancore; io<br />
e Jane proseguimmo a sbronzarci, mentre l’aria rinfrescava sensibilmente<br />
e la notte calava sulle bianche spiagge della costa. Joe Perry, storica ascia<br />
solista degli Aerosmith, possiede una villa a Longboat Key, pochi minuti<br />
d’auto da Sarasota; pare sia un’emerita testa di minchia repubblicana, ma<br />
invero non ho mai nutrito dubbi al riguardo. Lo era anche Johnny Ramone,<br />
ciò nondimeno non ho smesso di amare i Ramones per quello. E neppure<br />
gli Aerosmith. Let the music do the talking.<br />
Il giorno seguente, in preda a un discreto mal di capoccia da doposbronza,<br />
stavo sorseggiando la mia seconda tazza di tè della mattinata, quando Miss<br />
Thomas, scalza, scarmigliata, stratosfericamente desiderabile, venne a me<br />
brandendo un pezzetto di carta quadrettata: “Ma tu guarda che ho trovato<br />
nella mia borsetta... ” Aggrottai la fronte e lessi; c’era su scritto un nome,<br />
Frederick, cioè Captain Nemo, seguito da un numero di telefono. Quello<br />
spudorato d’un bostoniano glielo aveva infilato nella borsetta a sua/nostra<br />
insaputa.<br />
“...e vuoi saperne un’altra? Mentre tu eri in bagno quello con gli occhiali<br />
gli ha bisbigliato nell’orecchio, convinto che non avrei sentito: hey Fred,<br />
cerca di non baccagliarti troppo ’sta donna ok?, che il suo uomo potrebbe<br />
anche essere della mafia.”<br />
Come no. Maury Soprano. Dissi: “Veramente? Ma vaffanculo loro e tutta<br />
la Citta' Fagiolo!” Jane rise con me, poi appallottolò il biglietto e lo gettò<br />
nel cestino dei rifiuti.<br />
Comunque sia, killer di Cosa Nostra o meno, se ribecco quel cascamorto a<br />
Sarasota gli faccio un didietro a capanna: anzi, a capannah.<br />
Se c’è almeno una cosa che ho appreso in quel biennio di servizio prestato<br />
all’ente Advertising & Promotion del gulag Basse di Stura, è che il mondo<br />
è ormai irrimediabilmente in mano agli esperti di marketing. La loro arma<br />
79
di persuasione-vessazione preferita? Foeminae, ora più che mai. Meglio se<br />
svestita, allusiva, provocante. Il sedere muliebre è la vera icona di questo<br />
primo decennio del ventunesimo secolo.<br />
L’associazione mercantesca “<strong>birra</strong> e fascino venereo” ha più di due secoli<br />
di vita. Nella cruciale transizione tra l’Ottocento e il Novecento, i <strong>birra</strong>i si<br />
trovarono a fronteggiare l’esigenza di far conoscere i propri prodotti a una<br />
popolazione di consumatori ogni giorno più ampia. Bando agli eufemismi:<br />
essendo che il maggior fruitore di <strong>birra</strong> era, e rimane tuttora, l’uomo, si<br />
doveva prenderlo per le palle. Ecco allora gli intrepidi grafici pubblicitari<br />
dell’epoca sbizzarrirsi a illustrare le reclame con donzelle abbigliate come<br />
nel film Amore e ginnastica che porgevano, alzavano al cielo o servivano<br />
boccali traboccanti spuma. Il massimo del sexy lo offriva la reclame del<br />
birrificio americano Ringler & C., con una tizia ignuda dalla vita in su (e<br />
tutt’altro che anoressica) avvolta in un drappo a stelle e strisce.<br />
Lo stereotipo che abbina la <strong>birra</strong> chiara a una ragazza bionda dalle forme<br />
sensuali, possibilmente scandinava perché, si sa, gli uomini preferiscono le<br />
bionde boreali e i maschi mediterranei più di tutti, nasce con l’inizio dei<br />
turbolenti anni Settanta. La Stubing col vestitino di cui ho già accennato,<br />
oppure legata a una bottiglia di Peroni con un Nastro Azzurro: sottilmente<br />
fetish con una spruzzatina di bondage, molto prima che questi due termini<br />
ci sfruculiassero quotidianamente l’esistenza. Dopo la deliziosa omonima<br />
kartoffel dello scarsocrinito capitano di Love Boat, un diluvio di sventole<br />
d’ognidove di cui ho perso la contabilità, sempre meno vestite, sempre più<br />
ammiccanti. Sempre più bone, diciamocelo pure. Come la creatura dai<br />
meravigliosi occhi blu cobalto che, vestita più o meno di nulla, ci invita a<br />
bere la Viru, Premium Estonian Beer.<br />
E le birre scure? Le mie predilette brune? Le rosse? Vogliamo ostracizzare<br />
tutte quelle bellezze dai capelli tizianeschi solo per quella maldicenza da<br />
caserma circa il lezzo delle loro parti intime? Mi sono tuffato nella rete per<br />
cercare fotografie, poster, spot, “gnomi e cognomi”, come direbbe il Mago<br />
Gabriel. Ho scovato due mirabolanti ancorché antitetici ads della Guinness<br />
e una fotografia che ti scioglie il cuore come fosse una noce di burro.<br />
Vai col primo spot. Una ragazza bruna con tutta la passione del mondo<br />
racchiusa in una splendida bocca siede da sola in un pub, gli occhi bassi,<br />
tamburellando con le dita sul bancone. Tutt’a un tratto una mano introduce<br />
un gettone nel juke-box: ne scaturisce una bellissima canzone d’amore. Un<br />
sorriso radioso come una stella appena nata illumina il volto della ragazza:<br />
è arrivato il suo partner! Anche lui è un pivello mica male. S’abbracciano<br />
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con trasporto. Il barista serve loro due gagliarde pinte di Draught. Lei beve<br />
un sorso e le rimane un pizzico di schiuma sul nasino: lui gliela toglie via<br />
con un bacio. Lei allora beve un altro sorso e, a bella posta, ammiccando,<br />
si lascia le labbra bagnate di schiuma cremosa affinché lui le dia un altro<br />
bacio: che teneroni! Tutto questo avviene sotto lo sguardo trasognato di<br />
una nerd dai capelli biondo-ramati seduta più in là: a onor del vero se si<br />
togliesse gli occhiali e il maglione all’uncinetto sarebbe un bel fighino, ma<br />
si sa, l’iperrealismo è il sale e pepe della pubblicità. Il bonario bartender<br />
le allunga una pinta con una strizzata d’occhio, come dicendo: “Anche tu<br />
ce la puoi fare, ragazza.” Così, con un sorriso svenevole la bruttina fittizia<br />
si volge a sinistra laddove siede un magnifico esemplare di provola irish<br />
che, secondo copione, ricambia l’attenzione con visibile imbarazzo; quindi<br />
lei, colta da travolgente mimesi, ghermisce il boccale e vi sciaborda dentro<br />
il viso tornando a sorridergli tutta impiastricciata di schiuma. Il secchione<br />
peldicarota, dopo un momento d’esitanza, si catapulta a baciarla. I due<br />
finiscono abbracciati al suolo trascinandosi dietro bicchieri a campana e<br />
sgabelli: Guinness, a stout with love. Fantastico.<br />
Secondo spot. Il dorso nudo e lucido di sudore di una signorina appecorata<br />
con una bottiglia di Guinness poggiante in precario equilibrio sulla zona<br />
lombo-sacrale. Sullo sfondo, una tappezzeria da hotel d’infimo ordine.<br />
Motivetto imbecille da film porno vintage. Dall’oscillazione sincronica di<br />
bottiglia e corpo appare immantinente palese che qualcuno sta penetrando<br />
sessualmente la donna da dietro. Quel qualcuno dopo un po’ allunga una<br />
zampa, agguanta la bottiglia e ingolla un sorso fuori campo senza smettere<br />
di pompare, poi emettendo un “Ahh!” di piacere la riappoggia esattamente<br />
dov’era. Tempo due-tre buoni colpi di fianco e un’altra mano, dal lato<br />
sinistro dello schermo, entra in campo e tira su il vetro: multitasking, la<br />
ragazzotta! Ma non finisce lì… Nel momento in cui compare la scritta<br />
SHARE ONE WITH A FRIEND, una terza manaccia spunta all’orizzonte<br />
e prende la bottiglia. E il suggerimento si completa: OR TWO. O meglio:<br />
OR THREE. Alquanto spinto, ma divertente.<br />
La fotografia. Una bella ragazza dal look retromoderno, Randi Ingerman<br />
del Connemara, seduta a gambe distese e accavallate dietro la vetrina di un<br />
locale elegantemente arredato, il dorso appoggiato allo stipite, una mano<br />
sul davanzale nascosta dalla cornice, l’altra avvolta intorno a un boccale di<br />
Guinness – dita distanti, affusolate –, la testa riccioluta da una parte. Chi o<br />
cosa stai guardando, Randi Connemara? Il tuo ragazzo, o la tua migliore<br />
amica, è in ritardo? Provi interesse erotico per quel malpelo nerboruto che<br />
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sta scaricando fusti di <strong>birra</strong> dal bilico sul marciapiede di fronte? Magari ti<br />
piacciono le donne, e quella spilungona con l’impermeabile bianco sotto la<br />
pensilina dell’autobus somiglia davvero molto a Samantha Morton, la tua<br />
icona platonica: ti confesso che, sebbene non sia proprio il mio tipo, mi va<br />
parecchio a genio, anche come attrice. Oppure stai soltanto gustando la tua<br />
meritata pint of plain dopo una stressante giornata di lavoro, scrutando<br />
finalmente rilassata e libera d’ogni pensiero il calar della sera sul termitaio<br />
umano. Mi piacerebbe tantissimo offrirtene un’altra.<br />
Nell’antica Roma il consumo di vino era vietato alle donne: secondo i<br />
Romani, esso metteva in serio pericolo la condotta sessuale della donna,<br />
col rischio di condurla all’adulterio, ad inconcessam venerem. Col tempo<br />
le fu concesso di bere il vino passito e in genere i vini dolci, cioè tagliati<br />
con acqua o profumi.<br />
Più che due millenni abbondanti, sembra passato un eone da allora. Oggi<br />
le donne sbevazzano che è un piacere, ragazzine o mature che siano, per<br />
quanto preferiscano il vino e i cocktail alla <strong>birra</strong>, almeno qui nel Belpaese,<br />
per diversi motivi compreso quello meramente fisiologico: laddove a me<br />
ci vogliono tre-quattro birre medie per far scattare l’allarme alla cisterna, a<br />
loro è sufficiente un mojito e mezzo. Guai a essere prima di loro in coda<br />
per soddisfare l’acre necessità, soprattutto quando vi è un bagno solo nel<br />
locale! Talune fanno le caramellose per pungolare il gentiluomo che è in<br />
te, schiacciato sotto strati archeologici di disincanto. Le più screanzate ti<br />
passano davanti e quando escono manco ti chiedono scusa. E se ti tocca il<br />
turno prima di una brigata di ninfette suburbane conciate come le Pussycat<br />
Dolls, aspettati pure che prendano a tempestare di pugni la porta del cesso<br />
neanche quindici secondi dopo il tuo ingresso: vale a dire, appena il tempo<br />
di tirare giù la zip ed estrarre la pompa. Quest’ultimo è un comportamento<br />
che mi fa incazzare come un vaporetto del Mississipi.<br />
La femme! Il futuro potrebbe risolvere la sua atavica incontinenza. Nella<br />
quarta parte del suo grande romanzo Guerra eterna (“Maggiore Mandella,<br />
2458-3143 d.C.”) Joe Haldeman descrive fuggevolmente piccole capsule<br />
da rompere e accostare al naso per fiutarne il contenuto: l’ufficiale medico<br />
dell’astronave comandata da Mandella, la bellissima dottoressa Alsever,<br />
ne fa discreto uso. Fin troppo semplice è spingersi a ipotizzare una capsula<br />
mojito e una screwdriver o finanche una mini-capsula chupito de ron con<br />
zumo de fruta, per eterna pace della vescica femminile. Alsever è lesbica.<br />
Nel XXVI secolo sulla Terra essere gay è la norma: l’eterosessualità è<br />
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considerata una disfunzione emotiva, relativamente facile da correggere.<br />
Ma la <strong>birra</strong> esiste ancora, tant’è vero che a inizio capitolo prima di partire<br />
per l’ennesima campagna Mandella se ne scola ben otto prima di decidersi<br />
ad assaggiare un drink del momento: “Il rum Antares era un bicchiere alto<br />
e sottile, con un poco di ghiaccio che galleggiava sul liquido color ambra<br />
pallido. Sul fondo c’era un globulo rosso vivo, grosso quanto un’unghia,<br />
circondato da filamenti ondeggianti.” Pure la libido femminile, per quanto<br />
geneticamente “orientata”, conserva le sue caratteristiche salienti: una su<br />
tutte, l’arrapamento conseguente all’assunzione d’alcol. Cosicché durante<br />
la missione succede che la Alsever, dopo essersi inebriata di una robaccia<br />
prodotta nella distilleria improvvisata della Masaryk II, tenta di offrirsi al<br />
maggiore: “tenta”, sì, perché la desuetudine all’etanolo la stende sul più<br />
bello. Comunque beccatevi questo spoiler e zitti: verso la fine del romanzo<br />
Diana Alsever si fa convertire in eterosessuale. Ma non sarà Mandella ad<br />
approfittarne.<br />
Holy Fire (“Fuoco sacro”) è l’unico libro di Bruce Sterling che posseggo.<br />
Il Ventunesimo Secolo volge al termine e una Multinazionale nel campo<br />
della medicina domina il mondo economico grazie alle ultime scoperte nel<br />
campo del prolungamento della vita. Nella migliore tradizione cyberpunk<br />
è un mondo di droghe sintetiche, d’individualisti metropolitani che vivono<br />
di espedienti, di governi paternalistici. Il potere politico è nelle mani di<br />
una gerontocrazia che controlla le più avanzate tecnologie per ringiovanire<br />
e le masse si arrabattano alla bell’e meglio. Mia Ziemann, novantaquattro<br />
anni, californiana di San Francisco, di professione economista sanitaria, ha<br />
deciso di sottoporsi a un trattamento chiamato Disintossicazione Cellulare<br />
Dissipativa Neo-Telomerica, che la farà tornare giovanissima e vivere per<br />
sempre. Ma non vuole sottostare al susseguente programma di ricerca cui<br />
quelli della Multinazionale la sottoporrebbero per averne usufruito. Così,<br />
bellissima e post-umana, se ne scappa in Europa col nome mutato in Maya<br />
per vivere la sua nuova, sempiterna vita. Prima tappa del wanderjahr è<br />
Monaco di Baviera. Lì Maya conosce Ulrich, fascinoso anarcoide: “Vieni<br />
con me, e ti porto alla famosa Hofbrauhaus. Si mangia carne. E si beve<br />
<strong>birra</strong>!” Più o meno: Maya scopre che nel 2096 i <strong>birra</strong>ioli tracannano grossi<br />
boccali di malto bollente mentre l’alcol lo sniffano soltanto, tirando da<br />
piccoli inalatori con un preparato lipidico. Quella maniera stravagante di<br />
assumere l’alcol riduce il dosaggio, preservando il fegato dal contatto<br />
diretto con le sostanze tossiche. Per soddisfazione dei discendenti del prof.<br />
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Remuzzi. In ogni modo, Maya si rifiuta di provare la post-<strong>birra</strong>: è il sesso<br />
che desidera, tra le inumerevoli cose. Brava post-ragazza.<br />
Ma come spesso succede la realtà supera la fantasia. Un gruppo di studenti<br />
dell’Helicon Vocational Institute, vicino Amsterdam, ha realizzato l’alcol<br />
in polvere come progetto di fine anno. E le ha affibbiato anche un nome:<br />
Booz2Go. Disponibile in bustine da venti grammi dal costo di un euro e<br />
mezzo, aggiungendovi acqua si ottiene una bevanda al gusto di lime con<br />
tanto di bollicine dal tasso alcolico pari al 3%. Il problema è che, non<br />
essendo Booz2Go alcol in forma liquida, potrebbe essere smerciato anche<br />
ai minori senza infrangere la legge. Staremo a vedere. Io, per me, sto<br />
compiendo già eccessivi sforzi per rimanere al passo coi tempi; mi rifiuto<br />
categoricamente anche soltanto di immaginare che fra trenta-quarant’anni<br />
– anch’io, come il nostro corrente modestissimo Presidente del Consiglio<br />
Silvio Berlusconi, sono certo di campare centoventi anni, e bene! – potrei<br />
dovermi accostare al bancone di una birreria e chiedere a un androide “una<br />
bustina di Menabrea Booz e una media d’acqua naturale, grazie.” Finché è<br />
lievito marziano va ancora bene.<br />
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Figura 7. Io e Jane in azione da O’Leary.<br />
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GRAZIE CHE HO BEVUTO<br />
In una cultura come la nostra, abituata da tempo a frazionare e dividere ogni cosa<br />
al fine di controllarla, è <strong>forse</strong> sconcertante sentirsi ricordare che, per quanto<br />
riguarda le sue conseguenze pratiche, il medium è il messaggio.<br />
Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare.<br />
Mercoledì 5 novembre 20**, h 10.29 a.m., CET. Per uno come me, che<br />
respira e mangia libri dalla nascita, una biblioteca trabocca di tentazioni<br />
fuorvianti dal lavoro quasi come un Midsummer Night’s Dream Party alla<br />
Playboy Mansion per un predicatore evangelico. Oggi, per esempio, ho<br />
qui posato accanto al notebook The Complete Bowie di Nicholas Pegg,<br />
l’enciclopedia definitiva di Mr. David Jones alias Ziggy Stardust alias<br />
Thin White Duke alias David Bowie. Di quest’uomo amo essenzialmente<br />
cinque dischi: Station To Station, Low, Heroes, Lodger e Scary Monsters.<br />
Sono vittima di una vera e propria ossessione uditiva per tutti i chitarristi<br />
che lavorarono con lui durante quella fase abbagliante della sua carriera,<br />
ossia Carlos Alomar, Earl Slick, Ricky Gardiner, Robert Fripp, Chuck<br />
Hammer, Adrian Belew e Stacey Heydon. Fripp e Belew vengono da<br />
Urano. Alomar è uno dei più talentuosi chitarristi ritmici della storia del<br />
rock. Gardiner si presentava sul palco in salopette. Sia Carlos sia Ricky<br />
suonarono con Iggy Pop, in studio e dal vivo. Di Gardiner il produttore<br />
Tony Visconti disse: “Era completamente fuori di testa ed era un autentico<br />
mago degli effetti speciali. Verso di lui nutrivo una sorta di timore<br />
reverenziale” Il suo contributo a Low non è mai stato valutato nella giusta<br />
misura, cioè prezioso, ma il bravo chitarrista scozzese è comunque passato<br />
alla storia per aver ideato il riff di The Passenger “in un amabile mattino<br />
di maggio presso <strong>casa</strong> mia, guardando i meli in fiore”, com’egli stesso<br />
racconta in un’intervista risalente al 2000.<br />
Che personaggi. Che tempi. Ammassi globulari di richiami nella mia testa.<br />
Iggy e la sua band al Dinah Shore Show nel 1977: Hunt Sales alla batteria,<br />
Tony Sales al basso, Ricky Gardiner e il Duca seduto al pianoforte trattato<br />
con una paglia in bocca. Iggy all’Ippodromo di Parigi parlando in francese<br />
al pubblico. Iggy che al principio degli anni Novanta racconta ridendo a<br />
un giornalista nostrano: “A Berlino andavo avanti a polvere boliviana,<br />
salsicce e <strong>birra</strong>.” Diavolo d’un Totò Osterberg.<br />
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Fin dall’antichità l’uomo si è trovato a creare ruoli mistici e separati per<br />
l’atto del bere: benché spesso celebrato entro il generico rito di un pasto,<br />
esso rimane sempre appartato in un rituale a sé. Gli antichi Sumeri, ad<br />
esempio, si mantenevano a rispettosa distanza dalle loro bevande mediante<br />
lunghe cannucce di paglia. Il fatto che le cannucce permettessero a coloro<br />
i quali partecipavano al rituale di bere da un unico contenitore consentì<br />
l’affermazione di un evento comunitario. Uno poteva condividere un senso<br />
di profondo cameratismo con gli altri bevitori membri del suo gruppo di<br />
coppa. Quest’antico costume è ancora parte intrinseca dell’attività sociale<br />
di molte tribù africane odierne; in Occidente è stato ripristinato per i nuovi<br />
cerimoniali della sbronza collettiva. La paglia è stata sostituita dalla meno<br />
esotica plastica e i sempre più arzigogolati beveroni non hanno bisogno di<br />
essere passati al setaccio, ma di un fegato in lega di titanio!<br />
Da lì al brindisi il passo è breve. L’atto di offrire simbolicamente una<br />
bevanda a una divinità fu senz’altro una parte indispensabile delle offerte<br />
di preghiera e feste religiose fin dall’alba della storia in ambo le comunità<br />
pagane e giudaico-cristiane. In questo senso il moderno cincin può essere<br />
considerato come una derivazione dell’Eucarestia! In qualsiasi modo vi<br />
sono stati molti misteri associabili al consumo di pane e vino fra tutte le<br />
comunità religiose, inclusi i Nativi Americani. Anche i seguaci del Dalai<br />
Lama in Tibet celebrano in stile eucaristico. Gli Egizi festeggiavano ogni<br />
anno la resurrezione di Osiride consumando pane in forma di torta sacra<br />
od ostia dopo che era stato benedetto da un sacerdote e così divenuto carne<br />
della carne del dio; poi s’inzuppava il pane nel vino e si comunicava al<br />
fedele di aver mangiato il corpo e il sangue di Osiride. La lista potrebbe<br />
continuare per un bel pezzo.<br />
Nell’antica Grecia il brindisi tra due persone era chiamato proposis, “la<br />
bibita prima”. Colui che proponeva il brindisi dapprima sorseggiava, poi<br />
dava il recipiente che conteneva il resto del vino alla persona onorata; in<br />
occasioni di particolare rilevanza la tazza stessa era un regalo permanente<br />
al ricevitore. A uno sposalizio, per citare un caso, una coppa dorata piena<br />
di vino sarebbe passata in questa maniera da suocero a genero. La coppa<br />
diveniva un simbolo della sposa, “accompagnata all’altare” (com’è ancora<br />
in uso dire) da suo padre; i due uomini, le due famiglie erano ora una cosa<br />
sola nel vino condiviso.<br />
Notevolmente più a nord e avanti lungo la linea temporale, nelle notti di<br />
luna piena, i sacerdoti guerrieri di Odino offrivano brindisi al proprio dio<br />
nell’ambito di riti da connotati proto-heavy metal: niente vetro finemente<br />
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lavorato, solo metallo grezzo, cuoio e sangue. Più tardi essi svilupparono<br />
la pratica di usare il teschio di un nemico caduto come coppa d’offerta<br />
sacrificale, e alcuni studiosi sostengono che quest’uso diede origine al ben<br />
noto brindisi scandinavo “Skoal!”. Indubbiamente questa parola e skull<br />
(“teschio”) sono etimologicamente correlate, significando entrambe “una<br />
cosa cava”. È anche interessante notare che mentre il brindisi non è mai<br />
stato una tradizione molto forte nei paesi dell’area mediterranea fin dalla<br />
nascita del Cristianesimo, gli sono stati attribuiti termini germanici in<br />
francese, italiano e spagnolo. La forma teutonica del costume di brindare<br />
sembra essere stata reintrodotta in quei paesi in qualche periodo durante il<br />
sedicesimo secolo. Come risultato in italiano e spagnolo “brindare” si dice<br />
rispettivamente “brindare” e “brindar”, dal tedesco “ich bring dir’s”, un<br />
brindisi che significa “io lo porto a te”. Nella lingua francese la parola<br />
“trinquer” viene dal tedesco “trinken”, ossia “bere”.<br />
In lingua inglese “fare un brindisi” si dice to drink a toast. Questo modo di<br />
dire viene dalla pratica britannica di mettere a galleggiare sulla bevanda<br />
un pezzetto di pane tostato addolcito o aromatizzato. Un’usanza antica,<br />
derivante anch’essa dalla tradizione degli eventi religiosi eucaristici della<br />
storia: dopo che tutti gli ospiti avevano diviso la coppa, si attendeva che il<br />
padrone di <strong>casa</strong> ne sorbisse le ultime gocce in onore dei commensali e<br />
della devozione alla propria deità.<br />
Neanche a dirlo, la letteratura italiana classica e moderna sovrabbonda di<br />
libagioni. Ulisse brindò a Polifemo dopo che il ciclope ebbe divorato uno<br />
dei suoi compagni, e con un brindisi intriso di speranza si congedò da<br />
Alcinoo, re dei Feaci. Orazio invitò a levare i calici alla transitorietà del<br />
presente, il celeberrimo Carpe Diem dell’Ode a Leuconoe: “Afferra<br />
l’attimo e diffida del dubbio domani.” Tra il XII e la prima metà del XIII<br />
secolo ritroviamo l’atto del brindare con gli amici nelle liriche goliardiche:<br />
“Un brindisi lunghissimo sia per noi saluto: e duri questo uso per secoli<br />
infiniti. Amen.” Nel Rinascimento il brindisi ritorna nel Galateo di Mons e<br />
nella Canzone di Bacco e Arianna di Lorenzo il Magnifico, una bella<br />
ballata che invita a godersi l’esistenza che scorre via. Nel Settecento esso<br />
compare, a tinte più malinconiche, decisamente classicheggianti, nelle<br />
opere di due immensi letterati italiani: Alfieri e Parini. Nell’Ottocento è il<br />
Manzoni a descrivere ne I promessi sposi tre brindisi: il primo ha come<br />
protagonisti frà Cristoforo e i notabili a pranzo da Don Rodrigo; il secondo<br />
vede Renzo nell’osteria “Alla luna piena”; è ancora Renzo, sul carro dei<br />
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monatti, ad assistere al terzo brindisi. Altresì popolare è la bicchierata<br />
musicata da Verdi ne La Traviata: “Libiam ne’ lieti calici / che la bellezza<br />
infiora / E la fuggevol ora s’inebri a voluttà”, cantata da Alfredo cui<br />
risponde il coro dei commensali.<br />
Mercoledì 12 novembre 20**, h 10.06 a.m., CET. Ribadisco che un<br />
doposbornia moderato, diciamo le tre medie chiare e i due gin tonic che ho<br />
ingollato ieri sera al Lab, contribuisce a far fluire meglio le idee. I miei<br />
denigratori se la ghigneranno. Per quanto io sia uno scrittore enormemente<br />
trascurato, ne ho un discreto numero. Certuni sostengono che ho un lessico<br />
pietoso – tipo un paio di capisaldi della cultura torinese, il divertente è che<br />
entrambi sono straconvinti che io nutra per loro profonda stima. Altri mi<br />
accusano di sparare minchiate come un bazooka e addirittura di traviare le<br />
nuove generazioni con le mie narrazioni sul mondo del tifo organizzato.<br />
L’ex proprietaria veterofemminista di un pub che ero solito frequentare mi<br />
ha tacciato di misoginia: nel 1982 ti avrei dato ragione, bella mia. Io, per<br />
mio carattere, accetto molto volentieri i buoni consigli, ma nel momento in<br />
cui sento puzza di preconcetto prendo a eruttare zolfo fuso e biossido di<br />
zolfo come i vulcani di Io, l’infernale satellite di Saturno; inoltre, come già<br />
espresso all’inizio di questo libro per mezzo di una citazione colta, ho una<br />
pessima opinione dei critici d’arte. A loro e a tutti i miei stimatissimi<br />
nonché munifici editori ho dedicato sul mio sito una libera interpretazione<br />
di Crash Street Kidds, classico proto-punk dei Mott the Hoople:<br />
Guarda i miei pensieri, guarda le mie cicatrici, guarda i miei vestiti, sono vestito<br />
per uccidere<br />
Guarda il mio sangue, e guarda la mia pistola<br />
I Raga Casinari stanno venendo a prenderti<br />
(È meglio che corri, avanti corri, comincia a correre!)<br />
I Raga Casinari stanno venendo a prenderti<br />
(Sei fatto, sei fottuto, sei finito!)<br />
Considera i miei errori e considera la mia maledizione, considera la mia<br />
frustrazione<br />
Non sai proprio un cazzo<br />
Nuova Città un accidente, manda a chiamare il carro funebre<br />
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I Raga Casinari stanno venendo a prenderti<br />
(È meglio che corri, avanti corri, comincia a correre!)<br />
I Raga Casinari stanno venendo a prenderti<br />
(Solo per divertimento, per sballo, per sciambola!)<br />
Taglieremo i fili, ti bruceremo, sono stanco di resistere<br />
Ti tortureremo le piante dei piedi, ci tratti come dei topi di fogna, poi il resto<br />
Hai detto loro che siamo dei monelli e la repressione contorce i nostri pugni<br />
Fatemi uscire da questa nebbia…<br />
Sentimi imprecare, senti ogni parola, io non sono soltanto un numero<br />
Voglio essere ascoltato, il presentatore televisivo parla con la gentaglia<br />
I Raga Casinari stanno venendo a prenderti<br />
È meglio che corri<br />
I Raga Casinari stanno venendo a prenderti<br />
Morditi il pollice<br />
Sono stato tenuto all’oscuro, sono involuto, sono stato annullato<br />
E tu te ne sbatti i coglioni<br />
Tu sei così puro, tu conosci i rimedi, cioè mantenermi povero<br />
Il piccolo delinquente giovanile<br />
I Raga Casinari stanno venendo a prenderti<br />
Corri…<br />
I Raga Casinari stanno venendo a prenderti<br />
Uno è tuo figlio…<br />
I Raga Casinari stanno venendo a prenderti<br />
Nasconditi…<br />
I Raga Casinari stanno venendo a prenderti<br />
Fatti una corsa…<br />
I Raga Casinari stanno venendo a prenderti<br />
Troppo tardi…<br />
I Raga Casinari stanno venendo a prenderti<br />
Dove sono i tuoi amici?<br />
I Raga Casinari stanno venendo a prenderti<br />
Sei smascherato<br />
I Raga Casinari stanno venendo a prenderti<br />
90
Ora sei accerchiato…<br />
I Raga Casinari stanno venendo a prenderti<br />
Ora sei morto… sei morto…<br />
SEI MORTO!!!<br />
DUE RAFFICHE DI AK47.WAV PER VOI, PREDATORI DI SOGNI!<br />
La biblioteca Bernaulo è quasi vuota oggi. Le foglie degli alberi intorno<br />
mostrano ormai tutte le malinconiche bellissime colorazioni della season<br />
of wither. Il cielo è un fulgore grigiastro, quasi uniforme. Le mie occhiaie<br />
fanno pendant col panorama: non avrò mica contratto l’epatite? Trascino<br />
nel Windows Media Player Aftermath dei Rolling Stones: nelle cuffiette<br />
rende molto bene, si apprezza soprattutto il fuzz bass di Bill Wyman, una<br />
scelta senz’altro originale quella di distorcere il suo strumento anziché le<br />
chitarre come facevano tutti nel 1966. Probabilmente Keith Richards non<br />
si sentiva ancora abbastanza a proprio agio con le sonorità motoristiche<br />
emesse da quelle portentose scatolette al germanio. Poi vi s’impratichì e<br />
già dal long playing seguente, Between the Buttons, la sua chitarra si fece<br />
più roboante, dura, piccante: e in Their Satanic Majesties Request, perfino<br />
cosmica. Con l’aiutino di una certa sostanza chimica scoperta da Albert<br />
Hoffman il 16 aprile 1943.<br />
Think, think. Porca miseria ladra, ma dov’è finito il video che m’interessa?<br />
Credevo d’averlo importato qui dal precedente computer che ho rottamato.<br />
Macché. Ecco un’altra vittima della sindrome da tabula rasa digitalizzata<br />
che mi affligge da qualche tempo. Dunque mi toccherà scaricarlo un’altra<br />
volta o andare a memoria. Scelgo la prima possibilità, quantunque potrei<br />
recitarne ogni singola battuta come neppure Quei bravi ragazzi di Martin<br />
Scorsese: un capolavoro che ho visto almeno trenta volte, e non mi stanca<br />
mai. Proprio come l’Età dell’Oro delle Pietre Rotolanti.<br />
Due anni e mezzo or sono, in un bel mattino di primavera, aprii l’Outlook<br />
Express e passato qualche minuto mi ritrovai a smadonnare: qualcuno mi<br />
aveva spedito una e-mail con un allegato troppo “pesante”. Io ero, e sono<br />
tuttora, un pitecantropo a 56K che saltuariamente ricorre al warwalking,<br />
cosicché dovetti far buon viso a cattivo gioco e attendere un altro quarto<br />
d’ora abbondante prima che il messaggio fosse scaricato completamente<br />
dal programma.<br />
91
Il testo era il seguente: “Ciao Profiu (è uno dei miei due soprannomi da<br />
battaglia, l’altro è Messia N.d.A.), devi assolutamente guardare questo<br />
filmato, è un vero spasso!” Firmato, Daffy.<br />
Detto, fatto. Lanciai ulteriori imprecazioni nell’aria del mio studio poiché<br />
il video necessitava di un codec per essere riprodotto dal Windows Media<br />
Player, ma una volta scaricato quello potei finalmente scoprire di che si<br />
trattava.<br />
Scorsero tre secondi di schermo blue blue electric blue that’s the color of<br />
my room. Al quarto comparve un pannello elettorale: “Giovanni Bivona,<br />
Patto per la Sicilia, Elezioni Provinciali 25-26 maggio 2003, collegi di<br />
Agrigento-Favara/Canicattì. IO PROTESTO, E TU?”<br />
Già mi scappò un risolino dalle narici: il candidato era un faccione siculo<br />
dalla marcata calvizie fronto-occipitale ma con i capelli superstiti lunghi<br />
fino alle spalle a bottiglia e una camicia bianca dal colletto spropositato,<br />
come quelle che indossava il leggendario pornodivo Ron Jeremy nei suoi<br />
filmacci degli anni Settanta. Prometteva esplosioni di raggi gamma e<br />
supernove.<br />
Ancora qualche attimo e cominciò il filmato vero e proprio. Da una strada<br />
alberata di Favara, Agrigento o vai tu a sapere, Giovanni Bivona lanciava<br />
il suo proclama avanzando lentamente verso la telecamera: “La politica, è<br />
triste. Facciamola diventare allegra.” E poi, fermatosi: “Protestate, con<br />
me.” Camicia e volto stropicciati, come si fosse alzato appena tre minuti<br />
prima da una suntuosa siesta estiva profondo-italiana dopo una spanciata<br />
di melanzane alla parmigiana e cannolicchi annaffiata di Nero d’Avola.<br />
Seguì una ripresa al rallentatore del Sicilian Candidate stringendo la mano<br />
ai suoi sostenitori (per chiamarli in qualche modo) e un coro abborracciato<br />
degli stessi: “NOI PROTESTIAMO!!! NOI VOTIAMO GIOVANNI<br />
BIVONA!”<br />
Da lì in avanti, spettacolo! Bivona che sulle note introduttive all’inno di<br />
Mameli esce dal portone di un palazzo agitando scompostamente il pugno<br />
sinistro accompagnato da un doppio squillo di clacson: “Sto arrivando, sto<br />
arrivando!” Bivona che chiuso in una specie di camera anecoica snocciola<br />
il suo programma: “Io sono qui per... dirvi che dobbiamo lottare tutti uniti<br />
e assieme, uno per tutti e tutti per uno, perché non se ne può più di queste<br />
cose che manca il lavoro, manca… ehhh… il turismo, manca l’edilizia,<br />
manca… iiih… la serietà della gente in famiglia, manca la sicurezza del<br />
lavoro…” e tralignando nel dialetto siciliano “’Un si voglie spusare più<br />
nuggu perché manca u trabagghiu” Bivona esortante il popolo siculo alla<br />
92
ibellione: “Protestiamo, protestiamo, protestiamo, protestiamo…” manata<br />
collerica al muro “…e protestiamo!” Bivona incazzato perché: “Manca<br />
l’acqua! Ha piovuto da maddina a sera, un inverno che chiuvi… e manca<br />
l’acqua!”<br />
E così via. Alle Provinciali il Patto per la Sicilia è stato polverizzato, ma<br />
Giovanni Bivona, di professione barbiere, ha ottenuto la classica rivincita<br />
del genio incompreso: il successo postumo. Il suo spot elettorale è finito in<br />
rete dove è stato visto e scaricato da migliaia di utenti, anno dopo anno,<br />
passando di forum in forum, fino a diventare un vero e proprio fenomeno<br />
di culto di cui si è interessato addirittura un quotidiano autorevole quale il<br />
Corriere della Sera. Perfino Google gli ha dedicato una recensione:<br />
A Sicilian television “presenter” (or pretending to be, while he’s a barber) in his<br />
promotional ad for a local electoral campaign in Sicily (Agrigento County<br />
elections).<br />
You should be sicilians to better get the meaning of the ad, but it’s funny even if<br />
you don’t understand the meaning: you won’t believe this man pretended to be<br />
elected!<br />
Io invece avrei voluto che l’eleggessero, fosse soltanto per la genuinità che<br />
promana: perché, in definitiva, ha ragione lui. La politica è triste, ogni<br />
giorno che passa lo è di più: eppure, anche se solo per tre minuti e diciotto<br />
secondi, lui ce la rende davvero più allegra. Ma come ci si sentirà Bivona<br />
nei panni del comico involontario? Protesterà? Magari gli sarà venuta la<br />
sarsa per colpa degli scarafaggi cinesi!<br />
Diciamo tutti inzieme…<br />
Ritorniamo al passaggio in cui l’incommensurabile Bivona protesta per la<br />
penuria d’acqua corrente. Subito dopo lo vediamo davanti a una fontana di<br />
marmo in compagnia di due tizi riproporre lo slogan scandendo le parole:<br />
“Protestate-con-me”. E di seguito: “Diciamo tutti inzieme… grazie che ho<br />
bevuto!” Intendendo: poiché manca sempre l’acqua, dobbiamo ringraziare<br />
il cielo ogni santa volta che riusciamo a berne una stilla.<br />
Quell’ultima frase è da due anni il brindisi ufficiale della mia compagnia.<br />
Dovunque noi siamo, allo stadio come al ristorante o al pub all’angolo,<br />
qualunque bevanda si sia tracannando tranne ovviamente l’acqua e i drink<br />
analcolici, brindiamo sempre così. Talvolta qualcuno confondendosi coi<br />
canti ultrà da curva dice: “Diciamo tutti in coro…” Al che io lo riprendo<br />
93
aspramente perché la formula va pronunciata esatta, non sono ammesse<br />
bastardizzazioni. Devo ammettere che ho smarrito la contabilità di quanti<br />
brindisi abbiamo fatto in questo modo: mezzo migliaio?<br />
…grazie che ho bevuto! Protestate con me!<br />
Fortunatamente a Torino abbiamo acqua e <strong>birra</strong> in abbondanza, ma non si<br />
sa mai… Per come si stanno mettendo le cose, in un futuro neanche troppo<br />
remoto potremmo ritrovarci a fronteggiare un rincaro spropositato della<br />
nostra bevanda preferita per l’accresciuto ricorso globale ai biocarburanti:<br />
o peggio ancora, e tutt’altro che improbabile, un nuovo Proibizionismo.<br />
Bisogna prepararsi, creando siti, forum di discussione, social network,<br />
pubblicazioni cartacee ad hoc, perché quando il cielo si adombrerà e gli<br />
spillatori si seccheranno avremo bisogno di memoria storica, nonché fucili<br />
mitragliatori, coraggio e faccia tosta per procurarci orzo, luppolo e lievito.<br />
Mettete in rete i frutti della vostra inventiva alcolica! «Dobbiamo lottare<br />
tutti uniti e assieme, uno per tutti e tutti per uno.»<br />
Allora alziamo in alto i boccali e diciamo tutti insieme...<br />
94
Figura 8. ...“GRAZIE CHE HO BEVUTO! ”<br />
95
LA BIRRA E IL TAO<br />
Vedi anche: Punto di Gräfenberg.<br />
Vedi anche: Punto della Dea.<br />
Vedi anche: Punto sacro del Tantra.<br />
Vedi anche: Perla nera taoista.<br />
Chuck Palahniuk, Soffocare.<br />
L’illuminazione, secondo il Buddismo, è il completo sviluppo delle<br />
potenzialità e qualità naturali presenti nella vera natura della nostra mente;<br />
in più circoli buddisti essa è descritta come uno stato di “saggezza che<br />
sorge dall’esperienza diretta di ogni fenomeno svuotata dell’esperienza<br />
indipendente”. Quando una persona vede la luce, effettivamente vede o<br />
comprende la realtà a un livello molto più alto del terreno, non più limitata<br />
dalle transenne della ragione. L’illuminato è sagace e saggio riguardo alle<br />
sue relazioni, il proprio ruolo nella società e l’importanza d’ognuno e ogni<br />
cosa con cui egli interagisce. È dalla ricerca umana di questa luce figurata<br />
che tutte le nostre arti, scienze e religioni si sono sviluppate, originalmente<br />
un’unica ricerca di conoscenza e significato poi segmentatasi in distinte<br />
discipline specializzate.<br />
Come ad esempio la fabbricazione e il consumo della <strong>birra</strong>. Chissà quante<br />
volte avrete pronunciato questa frase: “Ho bisogno di bere un goccio per<br />
schiarirmi le idee”. Sappiate che codesto concetto viene da molto lontano:<br />
dal Tibet, esattamente. La tradizione buddista doha, infatti, contempla<br />
l’antica pratica di preparare e bere la cosiddetta “<strong>birra</strong> dell’illuminazione”.<br />
I tibetani sorseggiano la bevanda sciorinando nel contempo un repertorio<br />
di canzoni intitolate all’atto del bere. Vorrei raccontare ciò al nostro caro<br />
vecchio barman Nicky, colui per il quale Olivia Newton-John era la più<br />
bella mulatta del mondo, il bellissimo capoluogo delle Baleari è Parma di<br />
Maiorca (difatti è molto rinomato per il suo squisito prosciutto di mare), il<br />
telefono del bar funzionava a gin tonic e le birrerie “ondeggiavano”. Apro<br />
una parentesi per spiegarvi quest’ultima cosa. Una mattina d’estate io e<br />
Vito ci presentammo al locale per fare colazione dopo essere stati in giro<br />
tutta la notte a bere senza ritegno, lessi come polletti amburghesi. Nicky ci<br />
fece due cappuccini al gusto di esaclorofene, che accompagnammo con<br />
croissant e cannolicchi siciliani al solito raffermi, e attaccò a straparlare di<br />
vacanze future e passate. “Sapete, cinque anni fa sono andato in ferie a<br />
96
Milano Marittima con mia moglie, e una sera siamo andati a cenare in una<br />
birreria grande e famosa, uno di quei bei posti dove i tedeschi quando sono<br />
belli ubriachi a tavola si prendono tutti a braccetto e si muovono cantando<br />
canzoni a squarciarsi la gola, così la birreria ondeggia.” Dio, gli saremmo<br />
esplosi a ridere in faccia già da sobri, figuratevi con la botta d’alcol che<br />
avevamo in corpo. Sì, vorrei proprio parlare a Nicky della <strong>birra</strong> illuminata.<br />
Purtroppo sono anni ormai che ha ceduto l’attività ad altri e per di più mi<br />
hanno confidato che negli ultimi tempi non è stato molto bene: tieni duro,<br />
roccia! Chiusa parentesi.<br />
Chhaang, o chang, è il nome della bevanda alcolica tradizionale del Tibet.<br />
Strettamente apparentata con la <strong>birra</strong>, viene prodotta usando orzo, miglio e<br />
riso. Procedimento e ingredienti variano secondo la zona; nei pressi del<br />
monte Everest, per esempio, la chang è ottenuta facendo passare acqua<br />
calda attraverso l’orzo fermentato, ed è poi servita in una grande pentola e<br />
sorbita mediante una cannuccia di legno. Il contenuto alcolico è piuttosto<br />
basso, ma essa produce un’intensa sensazione di calore e benessere, ideale<br />
per sopportare le temperature che da quelle parti in inverno scendono a<br />
livelli ben più che glaciali. Dicono che sia un toc<strong>casa</strong>na per affezioni quali<br />
raffreddore, febbre e rinite allergica. Dovrò farmene mandare qualche otre<br />
per il prossimo inverno sabaudo, insieme a dieci casse di Lhasa, la superpremium<br />
quality all-natural, all-malt lager tibetan beer fatta coi migliori<br />
ingredienti del mondo: acqua di fonte dell’Himalaya, luppolo Saaz, lievito,<br />
e la maggior quantità possibile d’orzo autoctono. Pedantissimi virus e<br />
batteri, avrete pane per i vostri microdenti!<br />
Il tempio buddista Wat Pa Maha Chedi Kaew, situato a circa quattrocento<br />
chilometri a nord-est di Bangkok nella città di Khun Han, è senz’altro il<br />
risultato di una fantastica illuminazione birrifica: i monaci Thai lo hanno<br />
edificato usando oltre un milione di bottiglie di <strong>birra</strong> usate (Wat Pa Maha<br />
Chedi Kaew significa, per l’appunto, “Tempio del Milione di Bottiglie”).<br />
Certamente non è il solo esempio al mondo di edificio costruito con questi<br />
particolarissimi “mattoni”, ma lo sviluppo intricato della struttura lo rende<br />
unico e inimitabile. Grazie al supporto della comunità prossima a questi<br />
monaci ingegnosi è stato possibile per essi raccogliere abbastanza bottiglie<br />
da realizzare l’idea: non è noto quanto tempo ci abbiano impiegato, ma il<br />
risultato è stupefacente. Un tempio Thai fatto interamente di bottiglie<br />
riciclate di Heineken e Chang Beer, dalle fondamenta al tetto, perfino la<br />
torre dell’acqua e il bagno dei turisti. E grazie a te che hai bevuto e mi hai<br />
donato la bottiglia.<br />
97
I Lama sono bodhisattva. Sì, proprio come Patrick Swayze in Point Break.<br />
I bodhisattva sono persone che hanno raggiunto l’illuminazione ma hanno<br />
rifiutato di ascendere al successivo piano spirituale, essendo perciò rinati<br />
fino a che tutta la vita sulla Terra sia stata illuminata. Durante il gelido<br />
inverno del 1985 mi impegnai a teletrasportare le opere più belle di Jack<br />
Kerouac dalla biblioteca Bernaulo allo scaffale inchiodato al muro sopra il<br />
mio letto. Il primo volume che riuscii a fottere fu I vagabondi del Dharma,<br />
dove si parlava di bodhisattva alcolici alla ricerca della Verità per le strade<br />
d’America: il buddismo Zen che i Dharma bums professavano era una<br />
variante giapponese del buddismo indo-tibetano. In verità per tradizione i<br />
Lama erano responsabili del controllo religioso, politico ed economico<br />
(riscuotevano i tributi) delle vite di tutti i tibetani, fossero essi nomadi o<br />
coltivatori. Va da sé che l’anedottica buddista è assai corposa, oserei dire<br />
sterminata. E non mancano le storielle in cui si fa esplicito riferimento alla<br />
<strong>birra</strong>.<br />
C’era un praticante tantrico, uno di quei Lama che tengono i capelli lunghi<br />
e si fanno una crocchia sulla cima della testa – come Gene Simmons dei<br />
Kiss sul palco – il cui nome era Ngagpa. Costui esortava i suoi discepoli a<br />
non bere la chang, sostenendo che: “Codesta bevanda fa molto male,<br />
perché quando si beve troppo ci si ubriaca e si perde la consapevolezza di<br />
sé, non si riesce a ricordare e si fanno molte cose brutte, perfino cattive.”<br />
Sta di fatto che Ngagpa di <strong>birra</strong> ne tracannava, e come. Diversamente, i<br />
nomadi non bevono molto e preparano la bevanda soltanto in occasione<br />
dei festeggiamenti per il Capodanno tibetano. Così un giorno un nomade<br />
gli si rivolse in modo molto rispettoso chiedendo: “Ma com’è che tu bevi<br />
la chang?”. Ngagpa rispose con aria sicura: “Io mi visualizzo come una<br />
divinità di meditazione e considero la chang come se fosse del nettare,<br />
sicché quando bevo non sto trasgredendo alcuna regola.” Allora l’uomo<br />
gli rivolse un’altra domanda: “Va bene se gli yak – i simpatici buoi<br />
tibetani – bevono l’acqua? È uno sbaglio, un errore?”. E il Lama: “No, va<br />
bene, se gli yak bevono l’acqua va benissimo.” Così il nomade continuò:<br />
“Ah, grandissima cosa. Allora io posso visualizzarmi come uno yak e la<br />
<strong>birra</strong> la visualizzo come acqua, dunque sono in regola. In questo modo<br />
posso anch’io bere la chang”. Lama Simmons, preso in castagna, non poté<br />
controbattere quest’argomentazione. Bisogna essere coerenti con quello<br />
che si propone ad altri di fare: ma sopra ogni cosa, non predicare bene e<br />
razzolare male.<br />
98
(Ah ah ah. Controllo antialcol in Piazza Vittorio Veneto. I pulotti vi fanno<br />
smontare dalla vettura per sottoporvi al pretest, ma voialtri, rivolgendo<br />
loro il più serafico dei sorrisi, dichiarate: “Io non sono ubriaco.” E quelli:<br />
“Questo lo verificheremo con l’etilometro.” “Oh, non serve, signori tutori<br />
della legge e dell’ordine in questa rifulgente città. Quando bevo <strong>birra</strong>, io<br />
visualizzo me stesso come un golden retriever e la <strong>birra</strong> come acqua che<br />
sgorga da una fontana alla quale mi abbevero. Pertanto non posso essere<br />
sbronzo, benché abbia bevuto sei birre, un mojito e un chupito di tequila.<br />
Non mi sottoporrò al test.” E i signori tutori della legge v’ammanettano<br />
senza tante cerimonie, totalmente zen.)<br />
Sukhasiddhi fu una saggia indiana del secolo XI venerata da una stirpe<br />
buddista tibetana come dakini – un essere magico che si dedica ad aiutare<br />
gli altri lungo la via per l’illuminazione. Sukhasiddhi è considerata la<br />
dimostrazione che chiunque può raggiungere l’illuminazione spirituale, a<br />
dispetto d’età, sesso, educazione, condizione sociale, o condizioni di vita.<br />
Ella è vista altresì come un’incarnazione di gentilezza e generosità, poiché<br />
il suo viaggio spirituale impernia su due atti di benevolenza.<br />
Il primo tale atto è il suo allontanamento da <strong>casa</strong> da parte di suo marito e<br />
sei figli adulti all’età di cinquantanove anni. La famiglia viveva in estrema<br />
indigenza, e un giorno, quando una pentola di riso era tutto quanto era<br />
rimasto loro da mangiare, il marito e i ragazzi si divisero e partirono alla<br />
ricerca di cibo. Mentre erano via, un mendico messo perfino peggio venne<br />
alla porta e chiese del cibo a Sukhasiddhi. Pensando che la sua famiglia<br />
sarebbe ritornata presto con dell’altro, lei diede tutto il riso al pover’uomo.<br />
Quando la famiglia fece ritorno, essi montarono in collera, e l’espulsero.<br />
Miseranda, Sukhasiddhi decise di dirigersi verso un’area conosciuta come<br />
patria di molti grandi santi e maestri, siccome lei era sempre stata devota.<br />
Ella sulla sua strada riuscì a acquistare un sacco di riso, e con esso fece<br />
della <strong>birra</strong>, smerciandola al suo arrivo. Investendo parte di quanto aveva<br />
ricavato, lei comprò più riso, e presto divenne un mercante di <strong>birra</strong> locale.<br />
Un giorno, la studentessa spirituale nonché consorte (però!) di un potente<br />
maestro buddista andò da lei per comprare cervogia per conto del marito.<br />
Quando la studentessa disse a Sukhasiddhi per chi era la <strong>birra</strong>, Sukie<br />
insistette perché lei prendesse la sua <strong>birra</strong> migliore gratuitamente – il suo<br />
secondo, importantissimo atto di generosità.<br />
La studentessa tornò dal suo insegnante e gli disse ciò che era accaduto.<br />
Egli all’istante percepì che Sukie era un’anima profondamente spirituale, e<br />
disse alla sua studentessa di portargliela per istruirla. Sukhasiddhi arrivò,<br />
99
piena di gratitudine e devozione. Il maestro buddista le diede istruzione<br />
sulla meditazione e di seguito compì quattro “autorizzazioni” – iniziazioni<br />
buddiste e benedizioni per accelerare il suo progresso spirituale. Così, sul<br />
momento, senza meditare addirittura, Sukhasiddhi ottenne l’illuminazione<br />
all’età di sessantuno anni. Quel che succede quando si offre una <strong>birra</strong> a<br />
qualcuno!<br />
Ma della famiglia che l’aveva ripudiata, che ne fu? Sicuramente, morirono<br />
tutti quanti di sete vigliacca.<br />
Giovedì 11 dicembre 20**, h 04.16 p.m., CET. Stavo scrivendo l’ultimo<br />
rigo del capitolo precedente, quando alzando gli occhi per un istante dal<br />
computer ho incontrato il libro de I Ching, l’oracolo della saggezza cinese:<br />
qualche genialoide scansafatiche l’aveva riposto nella scansia dedicata alle<br />
scienze bibliotecarie. Essendo tanto tempo che desideravo consultarlo, per<br />
la precisione da diciannove anni quando lessi per la prima volta La<br />
svastica sul sole del sommo Philip K. Dick (un libro le cui situazioni sono<br />
orchestrate da due libri, I Ching, appunto, e il best-seller del momento, La<br />
cavalletta ci opprime, vietato in tutti i paesi del Reich che, secondo la<br />
visione allucinata di Dick, ha vinto la Seconda Guerra Mondiale grazie<br />
alla bomba atomica e si spartisce l’America con Giappone), ho fatto che<br />
prenderlo in prestito fino a Santo Stefano.<br />
I Ching, il Libro dei Mutamenti, o Chin Chin come lo chiama un amico<br />
mio negato per qualsiasi lingua che non sia il piemontese (peculiarità di<br />
tutti i piemontesi pure laine), è considerato il metodo di divinazione più<br />
antico al mondo. Dagli imperatori dell’antica Cina fino ai tifosi del Torino<br />
FC, molti uomini hanno consultato l’I Ching prima di prendere decisioni<br />
importanti o per trovare una risposta rapida alle loro domande. Da buon<br />
oracolo, i suoi responsi sono tutti da interpretare, ma Roderic e Amy Max<br />
Sorrell, autori di quest’edizione tascabile, hanno fatto veramente un ottimo<br />
lavoro nel rendere accessibile a tutti una materia estremamente ostica.<br />
I Ching opera sulla base di quella che il celeberrimo psicologo e filosofo<br />
svizzero Carl Gustav Jung definì “sincronicità”: nessuna coincidenza è<br />
casuale, tutti gli esseri viventi e coscienti dell’universo sono collegati tra<br />
loro sia materialmente sia spiritualmente. Ne ho avuta l’ennesima riprova<br />
non più tardi di un mese fa. Scrissi un post per El tardato vascofilo (tutto il<br />
mondo è paese) ispirato dal tormentone retrò del momento, Pop porno del<br />
duo pugliese Il Genio. L’incipit traeva spunto da un altro passo di Sueños y<br />
cadáveres il cui il protagonista, il colto e disincantato bidello Lucio del<br />
100
Val, deplora la degenerazione qualitativa della musica nei bar di Logroño.<br />
Pochissimo tempo dopo aver inserito l’articolo ricevetti via e-mail questo<br />
colorito commento firmato: “Cazzarola, Javier Alonso è mio cugino!”<br />
Riconnettendomi prontamente al blog venni a scoprire che n’era autore un<br />
bilbaino, Carlos Benito, anch’egli titolare di un diario su El Correo. Vi<br />
andai su e lasciai due righe per lui e il cugino letterato riojano. Il collega<br />
blogger replicò che, per combinazione, entro sera Javier sarebbe venuto in<br />
visita a Bilbao, sicché gli avrebbe trasmesso di persona i miei complimenti<br />
per il suo impactante esordio letterario. Tempo due giorni lo stesso Javier<br />
m’inviò un messaggio: “<strong>Maurizio</strong>, ti ringrazio molto per l’apprezzamento<br />
e per essere una delle tre o quattro persone che hanno acquistato Sueños y<br />
cadáveres.” Ecco l’ennesimo talento incompreso in un pianeta infestato di<br />
ributtanti virtuosi dell’autopromozione.<br />
Ho appena ricevuto per posta la sua seconda opera, Síndrome. Javier<br />
Alonso è una persona squisita. Un giorno mi materializzerò a Logroño e lo<br />
sommergerò di Guinness, se corrisponde al vero che in quella birreria da<br />
lui descritta la spillano come si deve.<br />
[El tardato vascofilo (tutto il mondo è paese) è il mio blog in lingua<br />
spagnola cortesemente ospitato dal quotidiano basco on-line El Correo<br />
Digital. Tardato è il nuovo nomignolo coniato dagli spagnoli per noi del<br />
Belpaese: la sua origine risiede nella nostra frequente pessima dizione del<br />
participio passato del verbo tardar, ossia tardado – tardare, impiegare,<br />
metterci. Alzi la mano chi di voi, essendo alle prime armi con l’idioma<br />
della piel del toro, non ha mai pronunciato questa frase al cospetto di una<br />
Paqui, o Encarni, o Maruja, o Amaia: io ho tardato dos (o quince, o vai tu<br />
a sapere) hores.]<br />
Synchronicity è il titolo del quinto e ultimo album dei Police. Pubblicato<br />
nel 1983 all’inizio dell’estate, ci mandò tutti fuori di testa. Io, Alex e suo<br />
fratello Andrea non ascoltammo altra cosa per tre mesi buoni. Ad agosto<br />
partimmo per una vacanza sconclusionata, di quelle che soltanto a diciotto<br />
anni puoi farti, non smettendo mai di canterellare Every Breath You Take.<br />
La nostra meta originale doveva essere Senigallia, ma giunti là dopo soli<br />
tre giorni ci rompemmo le palle e ci risucammo l’Emilia Romagna in treno<br />
per andare a finire a… Diano Marina, laddove ci aspettava Pippo, il sosia<br />
torinese di Ric Ocasek dei Cars. Un viaggio allucinante. Faceva un caldo<br />
becco e delle modalità di trasmissione dell’AIDS non si sapeva ancora un<br />
101
cacchio; così, quando una fricchettona popputa venne a chiederci un sorso<br />
d’acqua minerale noi glielo concedemmo, ma appena quella fu sparita in<br />
fondo al vagone sottoponemmo la bottiglia a un processo di sterilizzazione<br />
poco meno accurato di quello cui veniva sottoposta ogni persona in entrata<br />
a Wildfire, il laboratorio segreto sotterraneo nel Nevada che nel thriller<br />
tecnologico di Michael Crichton Andromeda veniva contaminato da un<br />
microrganismo extraterrestre portato sulla Terra da un satellite militare. A<br />
Diano piantammo le tende in un campeggio dove ora entrerei soltanto se<br />
mi staccassero un assegno da due milioni di euro ed entrammo una buona<br />
volta in clima vacanziero: sole, mare, birre, trombe, baccaglio di donzelle.<br />
Wrapped Around Your Finger, con le sue sonorità diafane, s’insediò al<br />
secondo posto nella mia personale classifica di preferenza delle canzoni di<br />
Synchronicity. Avvenne un cambiamento d’importanza fondamentale: da<br />
“cesso ambulante” fui promosso da una bella squinzia al rango di “strano”.<br />
Una mostrina che ancora oggi porto al bavero della giacca. Meccanica<br />
quantistica.<br />
Ai cinesi ci viene una malattia per ’sti scarafaggi. Naturale: entrambe le<br />
specie fanno parte del Tao, cosicché non possono esimersi dall’interagire.<br />
Che si possa tranquillamente fare a meno di codesta specifica interazione<br />
o che per puro distillato d’ignoranza si confonda l’influenza aviaria con la<br />
peste storpiandone l’acronimo in S.A.R.S.A., è un altro paio di maniche.<br />
Animali, piante, insetti, microrganismi, camicie non stirate, pozzi artesiani<br />
inariditi, pettini, rasoi, pennelli da barba, lozioni per capelli anteguerra,<br />
poltroncine girevoli, materassi Permaflex ed elettrodomestici vari gettati<br />
in una discarica dell’entroterra siciliano, libri spagnoli, bottiglie di vino<br />
rosso della Rioja, fusti di <strong>birra</strong> scura chiara rossa, luppolo orzo e camere<br />
mortuarie, siamo tutti immersi nell’immensa zuppa cosmica. Insieme nel<br />
tempo.<br />
Fino a questo momento ho interrogato I Ching cinque volte, tre delle quali<br />
per conto di una ragazza che è rimasta sorpresa dalla pressoché perfetta<br />
simmetria delle risposte con la sua vita corrente. Ecco l’ultima domanda in<br />
ordine di tempo:<br />
“Vi è una possibilità che io possa un giorno conoscere Francesca Mazzalai<br />
di persona, portarla a cena fuori e farla innamorare perdutamente di me?”<br />
Eh eh eh. La slanciata, disinvolta, semplicemente meravigliosa Francesca,<br />
nata a Trento il 27 marzo 1976, è attualmente conduttrice del programma<br />
Atlantide-Storie di Uomini e di Mondi su La7. Può anche darsi che cotanta<br />
102
spigliatezza nell’introdurci ad argomenti affascinanti quali la battaglia di<br />
Salamina e la Guerra Fredda sia merito di un prompter o di un auricolare<br />
induttivo, ma la dizione, perfetta, è una rigenerante boccata d’aria pura in<br />
uno schermo a cristalli liquidi contaminato di romanità, e la presenza, che<br />
ve lo dico a fare…<br />
Coi Sigur Rós in sottofondo, ho definito con chiarezza la domanda nella<br />
mia mente. L’ho scritta su un foglio di carta. Ho preso le monete, mi sono<br />
rilassato, ho respirato profondamente. Ho agitato le monete nella mano e<br />
le ho lanciate sulla scrivania. Con gesti misurati le ho ordinate in una<br />
colonna verticale e mi sono rivolto alla tabella riprodotta all’interno della<br />
copertina de I Ching per individuare il numero del mio esagramma.<br />
Esagramma 55. Pienezza, Raccolto, Abbondanza. Ogni cosa si svolge<br />
secondo i vostri desideri. E’ il vostro momento di gloria, l’opportunità di<br />
fare centro. Quest’occasione potrebbe non ripresentarsi. Siate decisi.<br />
Provocate gli eventi. Buttatevi.<br />
Linea 1 mobile. Incontrare il vostro compagno, bene per dieci giorni.<br />
Una persona importante vuole aiutarvi. Se usufruirete di questa generosità,<br />
considerate l’eventualità che possa volere qualcosa in cambio.<br />
Be’, carissima Francesca, se mi procurerai un impiego a La7 anche solo<br />
come uomo delle pulizie, io diverrò tuo schiavo per sempre!<br />
Va detto che, carpe diem, ho mandato senza indugio questa divinazione<br />
via posta elettronica alla medesima Mazzalai: sono ancora qui che attendo<br />
un riscontro. L’esistenza umana è tormento e desiderio. Lo yang è attivo:<br />
eccitato, fantasioso e deciso. Ma la donna è mobile.<br />
Eh? Ah, già. La <strong>birra</strong>.<br />
Potrei rivolgere una gragnola di domande a I Ching in merito alla nostra<br />
bevanda prediletta, ma faremmo notte e <strong>forse</strong> non è opportuno. Certi miei<br />
amici hanno un sacro terrore della negromanzia. Dopotutto Torino è nota<br />
in tutto il mondo come città magica: Fetonte, figlio di Iside, avrebbe scelto<br />
l’incrocio sacro tra i fiumi Dora e Po per erigere un centro di culto ad Api,<br />
il dio-toro. Una delle due statue esterne al tempio della Gran Madre di Dio<br />
indicherebbe il luogo dove riposa il Graal. Dagli alchimisti Paracelso e<br />
Fulcanelli al mitico Cagliostro, da Cesare Lombroso a Nostradamus, tutti<br />
scelsero di vivere a Torino. E non dimentichiamoci del Mago Gabriel. Ma<br />
I Ching non funziona come le sue strampalate previsioni “nell’antamento<br />
103
maggico o viceversa paranormale di questa supercittà Torino ovviamente<br />
piemontese”; è uno strumento straordinario e accessibile che ci consente di<br />
trovare nel nostro frastagliato territorio interiore quella fiducia necessaria<br />
per prendere una decisione e agire di conseguenza, per “attraversare il<br />
fiume”. Scorra in esso acqua di fonte o cervogia.<br />
E allora…<br />
Giovedì 16 dicembre 20**, h 10.30 a.m. “Quanti bicchieri di <strong>birra</strong> mi<br />
rimangono da bere su questa terra?”<br />
L’ultima domanda… entropia etilica.<br />
Stavolta metto su Every Picture Tells A Story, unanimemente considerato<br />
il più bel disco solista di Rod Stewart. Mi chiudo a doppia mandata nel<br />
mio studio. Scrivo in corsivo la domanda su un foglio di carta A4 preso<br />
dalla stampante. Prendo in mano le monete, cinque da 5 pesetas e una da<br />
10 franchi francesi. Le soppeso, respiro a fondo, distendo i nervi. Ron<br />
Wood entra nella canzone con la sua magica chitarra elettrica.<br />
Frullo le monete e le lancio sulla scrivania. Non mi è laborioso ordinarle<br />
nella canonica colonna verticale, grosso modo si sono posizionate già così.<br />
Vado a consultare la tabella per individuare l’esagramma corrispondente.<br />
Esagramma 21. Sforzo, determinazione, far funzionare le cose. I cinesi<br />
attribuiscono a questo esagramma il tema di una persona che aggredisce a<br />
morsi con grande determinazione un ostacolo. Le linee descrivono una<br />
persona che mastica qualità diverse di carne secca. Tradotto in termini<br />
concreti, è il momento di affrontare la situazione direttamente senza più<br />
evitarla.<br />
Linea 5 mobile. Mordete la carne secca pregiata, trovate l’oro, state<br />
attenti.<br />
La vostra azione risoluta vi ha procurato una ricompensa di valore. Se vi<br />
attaccherete troppo al premio sarà la vostra rovina. Un tempo si pensava<br />
che ingoiare l’oro potesse essere fatale.<br />
Devo confessarvi che l’esagramma 21 fotografa alla perfezione il mio qui<br />
e ora: gli sforzi erculei che sto compiendo per disincagliarmi dalle secche<br />
del disincanto. Quanto alla linea 5 mobile, credo si riferisca a un futuro<br />
prossimo in cui la mia pertinacia verrà premiata ma non dovrò tirarmela<br />
troppo per quello. Sicché, stimato oracolo, ho afferrato il concetto: “Berrai<br />
ancora molta <strong>birra</strong> nella tua vita, anzi da un certo momento in avanti potrai<br />
104
addirittura sguazzarci… ma non vanificare tutto il lavoro che hai fatto su e<br />
per te stesso perdendoti in fondo a un barile. Sia esso reale o metaforico.”<br />
Roger, Chin Chin.<br />
105
Figura 9. Wat Pa Maha Chedi Kaew.<br />
106
SCOPRENDO LESTER BANGS: UN TRIP ROCKALCOLICO.<br />
Ordunque… L’intenzione originale che mi aveva sospinto dentro quella<br />
sorta di sesquipedale scatola da calzature post-modernista chiamata Nuova<br />
Biblioteca Pubblica Ermenegildo Bernaulo era abbozzare una fantasia<br />
letteraria schiettamente rock’n’roll sul meraviglioso duo chitarristico degli<br />
Yardbirds Jimmy Page-Jeff Beck, qualcosa sul genere: “Che cosa sarebbe<br />
successo se i tre membri originali della band, cioè Keith Relf Chris Dreja e<br />
Jim McCarthy, non avessero licenziato il loro innovativo nonché psicotico<br />
chitarrista solista coi capelli tagliati a budino nell’ottobre del 1966 a Los<br />
Angeles, dandogli un’ultima chance di redenzione?”<br />
Be’, molto probabilmente il genio del raga-fuzztone avrebbe dato di testa<br />
un’altra volta ancora nel tempo di poche settimane, sicché i suoi esasperati<br />
colleghi l’avrebbero definitivamente mandato a fare là dove non batte il<br />
sole, ma nel mio cervello drogato di <strong>birra</strong> e vino rosso spagnolo e ginseng<br />
con molecole residue di MDMA (peccati di gioventù!) ancora rombanti fra<br />
un neurone a specchio e l’altro come bestie metalliche a due ruote montate<br />
da canuti e raggrinziti Hell’s Angels californiani si andava plasmando una<br />
linea temporale alternativa nella quale Jimmy e Jeff incidevano insieme<br />
una formidabile sequenza di platter straripanti gemiti chitarristici simili a<br />
sirene della polizia che avrebbero inondato ogni mio antro vitale, partendo<br />
dalla pubertà per arrivare alla cosiddetta età matura che così tanto disilluse<br />
Benjamin Disraeli-Gears, di stravaganti dissonanze e dinamiche sonorità.<br />
In quel differente piano di vibrazione molecolare, come si usava dire per<br />
iscritto molti decenni fa nel continuum di Gernsback, i Led Zeppelin non<br />
nascevano, o sarebbero nati più avanti, magari con Steve Marriott al<br />
microfono in luogo di Robert Riccioli D’Oro Plant. Immaginatevi Whole<br />
Lotta Love cantata con sguaiato accento cockney! Sì, le Harley Davidson<br />
biochimiche dei dissoluti Angeli Neurali dell’Inferno correvano ancora a<br />
tutto gas…<br />
…e le immani nubi grigio-verdastre vorticanti nel cielo pomeridiano di<br />
Nuova Augusta Taurinorum sembravano preludere alla devastante venuta<br />
dei Quattro Cavalieri dell’Apocalisse. Io flettei la schiena resa scattante da<br />
costanti e solitarie sessioni di pallamuro ed estrassi dalla sezione Cinema<br />
lo spesso blocco di memoria THE HAMMER OF GOD/Stephen Davis:<br />
ScaffHal non protestò. Poi andai a sedermi a un banco stranamente vuoto<br />
– questo posto è sempre pieno da far paura – nelle immediate vicinanze di<br />
107
due giovani studentesse dai capelli biondi platinati, entrambe in jeans a<br />
pinocchietto stracciati e jersey nerofumo a collo di cigno. Studiavano? Col<br />
cavolo, sguazzavano nel pettegolezzo accademico!<br />
Colei che mi dava le spalle, larghe e sottili come quelle di una nuotatrice<br />
provetta, ogni tanto interrompeva il suo bisbiglio sferzante per inferire una<br />
ditata proditoria alla tastiera di un notebook Aspire uguale al mio; l’altra,<br />
fornita di un assai meno tecnologico portablocco, possedeva un simpatico<br />
musetto da porcellina e un accattivante cobalt gaze. Immagina te e lei in<br />
un trendissimo cocktail lounge del centro città…<br />
Writer <strong>Maurizio</strong>: Conosci Jeff Beck?<br />
Piggy (inarcando un sopracciglio): Che diavolo è, una <strong>birra</strong> danese? Mai<br />
assaggiata finora.<br />
Ehm.<br />
Fuori, nel centro esatto di una piastrella del marciapiede in macadam che<br />
recingeva la biblioteca, un passerotto infliggeva guardinghe beccate a<br />
un’ape grassoccia le cui zampette lucide vibravano ancora, quantunque<br />
con debolezza; sicuro come il sole che l’industrioso insetto danzante era<br />
precipitato a terra disorientato dall’incipiente inquinamento da microonde<br />
e il volatile ne stava approfittando per sfamare una nidiata di bocche<br />
pipianti spalancate a rombo da qualche parte lassù, sui pioppi scorticati dai<br />
tossici in astinenza sparata. Con un sospiro imbevuto di dolore universale,<br />
attivai il blocco di carta interattiva e richiamai la pag. 26.<br />
Nel 1966 James Patrick Page si esibiva con una Telecaster del 1958 (un<br />
regalo della Birra Danese Coi Capelli a Budino di Malto) dipinta a spirali<br />
psichedeliche fosforescenti ricoperte di perspex che, colpito dalle luci<br />
della ribalta, rifletteva raggi a arcobaleno. Musicalmente gli Yardbirds<br />
erano al loro massimo, ma purtroppo Jeff Beck era di salute (fisica e<br />
psichica) piuttosto cagionevole; oltre a questo, gradualmente emerse la<br />
competizione fra le due primedonne. Quando gli effetti stereo e le duplici<br />
armonie delle chitarre non funzionavano, gli altri incolpavano l’instabile<br />
solista. “Tutto andava bene in teoria e durante le prove ma sul palco Jeff<br />
spesso voleva spaziare in qualcos’altro”, dichiarerà serafico Jimmy Page<br />
qualche anno dopo in un’intervista. Hai capito il magrone? Lui cercava di<br />
far funzionare le cose!<br />
Piggy: Ah, è un chitarrista! Ma di quanti secoli fa?<br />
108
Writer (vorrebbe morire d’infarto lì, in quello stesso istante): Era il<br />
musico personale di Enrico VIII.<br />
Cristiddio. Ragazzo, dammi un’altra Menabrea ambrata, per pietà.<br />
Jeff Beck deflagrò al terzo giorno di tour statunitense con la Carovana<br />
delle star di Dick Clark, una locura tipica degli anni Sessanta. Sbatté giù<br />
la sua colonna di amplificatori, sfasciò la chitarra e se ne scappò a Dead<br />
Loss Angeles dalla sua diletta Mary Hughes. Quando gli altri Yardbirds lo<br />
raggiunsero, Beck fece ammenda, ma la troika Relf-Dreja-McCarthy non<br />
volle sentir ragioni e lo licenziò. Beck si alzò per andarsene e chiese a<br />
Page se fosse intenzionato a seguirlo, ma Page gli rispose che sarebbe<br />
restato. In tal modo, seguendo un canovaccio tipicamente dostoevskyano,<br />
gli Yardbirds divennero il gruppo di Jimmy Page. Amen.<br />
L’uccellino delpieresco si era finalmente portato al nido l’ape moribonda.<br />
Piggy scoprì di nuovo il candore all’ossigeno attivo dei suoi denti: non era<br />
propriamente bella, direi piuttosto stuzzicante, come una tartina al paté<br />
d’olive sul bancone di una vineria del centro città per studenti universitari<br />
tiratardi. Pictures of Piggy made me feel so wonderful. Grufola, piccina<br />
mia, grufola.<br />
Uno dei centauri neurali frenò arrestandosi sul ciglio dell’accidentato e<br />
polveroso assone che conduceva alle Grandi Piane Pituitarie, tirò fuori un<br />
pacchetto stropicciato e sudaticcio di Lucky Strike da una tasca del suo<br />
giubbotto per la pelle, se ne accese una, sputò una nuvola di puro cancro<br />
da vero figaccione vissuto e disse: “Be Here Now.”<br />
“Oddio. Da quando in qua a voialtri piacciono gli Oasis?”, replicai con<br />
una smorfia di scherno.<br />
“Diamine, <strong>Maurizio</strong>, te la spacci da gran letterato ma sei più ignorante di<br />
una capra con la demenza senile! Be Here Now è il titolo di un libro di<br />
Richard Alpert, il partner lisergico di Timothy Leary. Significa…”<br />
“So perfettamente che cosa significa, scampolo di ferraglia metastatica! Il<br />
vecchio insegnamento vedico riciclato in salsa allucinogena. Soffermarsi<br />
sul passato o sul futuro significa essere morti nel presente. Non è roba un<br />
po’ troppo hippie per te? Che ne direbbe Sonny?” Il 16 ottobre 1965, gli<br />
Hell’s Angels di Sonny Barger attaccarono i diecimila dimostranti che<br />
marciavano da Berkeley a Oakland contro la guerra del Vietnam al grido<br />
di «traditori», «beatnik», e «comunisti»: così per caso, c’era un cugino<br />
californiano di Silvio Berlusconi a smarmittare con loro?<br />
109
Quella ciminiera propilaminica mi guardò torvo. “Ehi, lascia stare Sonny.<br />
Piuttosto, gli Oasis non sono un po’ troppo lagna-lagna per un fanatico dei<br />
grandi chitarristi beat inglesi come te?”<br />
“I giornali dicono che siamo i più grandi, ma io me ne frego… Io vivo<br />
adesso, now, e non importa se il prossimo anno non vendiamo un disco.”<br />
Noel Gallagher, Souhampton, 1994. Sicché, minchione americano, turn<br />
on, tune in, and please bugger off!<br />
L’Uomo dell’Organetto di Barberia arrivò da Donovan County alle prime<br />
gocce di pioggia. “Poiché Jeff Beck non poteva cantare e stentava così<br />
tanto a adattarsi a un gruppo”, canterellò lo straccione scarmigliato sulla<br />
punta del mio naso alla Jean-Paul Belmondo “Mickey Most gli organizzò<br />
una seduta di registrazione ancor prima della sua dipartita dagli Yardbirds.<br />
Ovviamente si trattava di un solo brano, poiché quel testa di minchia di<br />
produttore notoriamente riteneva che gli ellepì non avessero importanza,<br />
che fossero qualcosa da buttar fuori dopo il singolo.”<br />
Reso strabico dalla sua garrula presenza, crollai il capo. “Sì, l’idea era di<br />
registrare una mutazione per chitarra psichedelica del Bolero di Ravel. Ce<br />
l’avevo in una vecchia compilation su nastro della Fratelli Fabbri Editori<br />
ma quel fottutissimo registratore giap me l’ha fagocitato il mese scorso<br />
come un’ameba bulimica. Jimmy Page era l’arrangiatore e suonava la<br />
chitarra ritmica a 12 corde, al pianoforte c’era Nicky Hopkins, e la sezione<br />
ritmica fu composta da Keith Moon e John Paul Jones dopo che John<br />
Entwistle si era tirato indietro all’ultimo momento. Moon the Loon se la<br />
svignò dagli IBC studios travestito da cosacco beat perché per contratto<br />
non poteva registrare con nessuno all’infuori degli Who.” Beck’s Bolero<br />
venne fuori talmente bene che Moon, Jones, Page e Beck presero in seria<br />
considerazione l’idea di fondare un gruppo: ciò nonostante, avevano<br />
bisogno di un cantante.<br />
Il pene-sitar dell’Uomo emise una dolente onda sonora. “Già, già. Furono<br />
contattati Steve Winwood e Steve Marriott degli Small Faces, ma il primo<br />
scelse di fondare i Traffic e il manager del secondo addirittura minacciò<br />
Jimmy Page di rompergli tutt’e dieci le dita. Ciò che avrebbe potuto essere<br />
il prototipo dei Led Zeppelin non prese mai il volo.”<br />
Molto soddisfatto di sé, l’Uomo dell’Organetto decollò dal mio aeroporto<br />
maxillo-facciale per andare a scomparire nel fresco décolleté di Piggy con<br />
un effettaccio da cinema di serie Z. Per un lungo istante lo invidiai. Ora<br />
pioveva della grossa, un temporale tardo-primaverile coi controcazzi.<br />
110
Oh Piggy, Piggy, Piggy!!! She’s a big teaser: lei è una vera scocciatrice.<br />
She’s a prick teaser: è una stuzzicacazzi a tradimento. La parola “hippie”<br />
non fu coniata prima del 1966. La consapevolezza di sé come entità<br />
distinta si dissolve in ciò che Herr Jung definì “coscienza oceanica”: il<br />
senso che tutte le cose siano una cosa sola, e la coscienza consapevole<br />
individuale sia un’illusione.<br />
Se è così, perché accidentaccio sto perdendo tempo a trovare un incipit<br />
incident per la mia futile storiella ucronica? Nel primo rincalzo dei mondi<br />
possibili Page Beck Marriott Moon e Jones durerebbero al massimo fino al<br />
festival pop di Monterey; una bella scazzottata fra Steven M e Moon the<br />
Loon per qualche motivo britannico del kaiser (per esempio, l’essere nati e<br />
cresciuti in zone opposte di Londra) e ciao ciao ai New Yardbirds o Lead<br />
Zeppelin o come vuoi tu, bellezza. Oppure tirerebbero avanti per tutto il<br />
1967 e parte del 1968 proprio come in questo mondo, ma smerciandoci lo<br />
stesso quella porcheria di Little Games, magari parzialmente riscattato da<br />
qualche bell’intreccio chitarristico. O… bah, che montarozzo di stronzate.<br />
Il prototipo farraginoso del mio universo parallelo rockistico si dissolse in<br />
una patetica nuvoletta di elettroni neurali. Forse era meglio mollare tutto e<br />
andare a spararsi un’ipercinetica sessione di pelota, laggiù in fondo contro<br />
il Murale di Einstein…<br />
Pues no. Rimisi al suo posto Il Martello di Dio Zepp e liberai un blocco<br />
adiacente, di assai più ridotte dimensioni: GUIDA RAGIONEVOLE AL<br />
FRASTUONO PIÙ ATROCE/Lester Bangs. ScaffHal sempre silenzioso<br />
come un merluzzo cibernetico in orbita intorno a Giapeto. Piove, piove,<br />
grattati un coglione. Piggy mi omaggiò di una lumata presagante fantastici<br />
pompini fattimi ginocchioni davanti a uno specchio a tutta persona nella<br />
semioscurità del primo mattino augusto, ma era troppo tardi ormai: Leslie<br />
Conway Bangs detto “Lester” (1948-1982), il critico rock più squinternato<br />
e influente di tutti i tempi possibili, mi aveva sequestrato premendomi sul<br />
volto una pezzuola imbevuta di rockoformio. “Aiutoahmmm… Mmmnster<br />
Mmmgnet… mmmm… mmm... m.”<br />
Figlio di troia.<br />
A essere sinceri sono tanto alienato e schifato da chiedermi se davvero voglio<br />
fare qualcosa nei prossimi anni. Vedi, la questione è: sta diventando tutto come la<br />
rivista People. Tutta la radio, tutta la stampa, tutto quanto sta diventando così,<br />
anche l’industria editoriale. Ieri parlavo col mio agente e gli ho chiesto: “Pensi<br />
111
che di questo passo l’unica cosa vendibile sarà la biografia-marchetta di una<br />
celebrità?”, e lui mi ha risposto: “Non lo so.” Capisci, io me ne sto qui e mi<br />
chiedo se, come scrittore, non sarebbe meglio lasciar perdere tutta questa roba.<br />
Non mi metto certo a fare sviolinate strappalacrime perché, come ho detto prima,<br />
so che mi è andata bene, non devo alzarmi la mattina e andare a lavorare in<br />
fabbrica dalle nove alle cinque o qualcosa del genere. E ho delle entrature, e tante<br />
altre cose, quindi non dovrei far pena a nessuno. Ma allo stesso tempo, tutti quelli<br />
che conosco sono completamente alienati, scoglionati, nauseati da tutto, e so che<br />
gran parte di quelli che lavorano nei media e ci propinano questa roba sono<br />
alienati come lo è il pubblico. Il pubblico compra solamente perché non gli viene<br />
offerto qualcos’altro. E, personalmente, mi chiedo quand’è che la gente<br />
comincerà a dire: “NO! MI RIFIUTO, NON NE VOGLIO PIÙ!”<br />
Lester Bangs, intervista a News Blimp, 1980… 2007? 2070?<br />
Anche John Lennon è morto nel 1982…. O <strong>forse</strong> nel 2082… Hombre,<br />
no… nel 1980!<br />
Che diamine, ora ero completamente sveglio, neanche sgarrupato per la<br />
narcosi. E… be’, stavo galleggiando in assenza di peso sopra un quadro di<br />
navigazione che rassomigliava in modo allarmante a una pizza ai frutti di<br />
mare preparata da un pizzaiolo lituano strafatto di mescalina. Il modulo di<br />
Lester Bangs, con la sua copertina-mandala rosazzurrobianca, mi orbitava<br />
intorno indolentemente. Potevo essere a 2000 anni luce lontano da <strong>casa</strong><br />
come a duemila milioni, satellite di un satellite o viscida bilharzia di un<br />
buco nero, alla fine ciò che conta non è la scorta d’ossigeno puro o i<br />
tubetti di dieta mediterranea da spremersi in bocca, bensì sentirsi a proprio<br />
agio con le proprie scoregge.<br />
Parlez-vous français? Un peu, replicavo ai gendarmi le prime volte che mi<br />
fermavano ai caselli delle autostrade galliche di ritorno dalla penisola<br />
iberica: il che per costoro significava no, non ci capisco una beata mazza.<br />
Allora, esprimendosi qualche volta in un avvilente gramelot anglo-francoitaliano,<br />
i falchi della notte passavano a rovistarmi il borsone da viaggio e<br />
il vano portabagagli, o perfino a smembrarmi la vettura come seguendone<br />
la distinta base secondo la disposizione d’animo del momento, solitamente<br />
negativista perché, è naturale, les italiens son tout dopé. In seguito avevo<br />
imparato a dire je comprends quelques mots mais je ne le parle pas, lo<br />
capisco un po’ ma non lo parlo, oltre a qualche altra tiritera da biascicare<br />
negli autogrill o nella scalognatissima eventualità che fossi finito in panne.<br />
Ciononostante il risultato era sempre il medesimo: facce da Clouseau e<br />
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occhettoni dell’aria divelti da mani rubate ai campi di tuberose. L’ultima<br />
volta che mi hanno bloccato, due estati fa sulla Languedocienne, mi sono<br />
giocato addirittura l’untuosa carta dell’adulazione: je voudrais apprendre<br />
votre splendide langue. E quelli per tutta risposta, con un riso beffardo<br />
sulle labbra rinsecchite dalla mostarda di Digione, mi hanno smontato<br />
pure il serbatoio della benzina. Bâtards.<br />
Ma di che vado blaterando? Che mi avete somministrato mentre dormivo?<br />
Synthemesc neutronico?<br />
Sample da 2001: Odissea nello Spazio, il libro in edizione tascabile,<br />
Longanesi & C. © 1972, Lire 450, pag. 241: «Ma questo è ridicolo, pensò<br />
David Bowman. Mi sorvegliano quasi certamente, e devo sembrare un<br />
idiota con questa tuta spaziale (per quanto mi concerne, con questi panni<br />
sgualciti da ultraquarantenne giovanilista). Se si tratta di una sorta di test<br />
dell’intelligenza, probabilmente ho già fatto fiasco.»<br />
Cristiddio!, diamoci da fare, allora. Mimiamo il cavaliere errante quantico.<br />
Leggiamo un po’ cosa Lester Gang Bang aveva da dire e stendiamo dei<br />
paralleli fra lui e te su questa sostanza lievemente increspata e biancastra<br />
che senza dubbio non è carta, anche se le somiglia moltissimo. Ma gli<br />
alieni sognano pioppi elettrici? Chi si sbatte Rachel Rosen adesso? Correte<br />
qui, nipotini biondissimi…<br />
Lester e i Count Five. Come c’era da aspettarsi, si parte dagli Yardbirds,<br />
vera Urmutter del rock metallico, e dall’incisione del loro singolo I’m A<br />
Man, una maionese impazzita di Bo Diddley, feedback e corde raschiate in<br />
maniera criminale. Il successo di questa canzone fu enorme. E seminale.<br />
Negli Stati Uniti, centinaia di ragazzini si affrettarono a plagiarne il sound<br />
trascinante con l’ausilio di quelle nuove scatolette elettroniche giapponesi<br />
che stravolgevano il suono della chitarra in un frastuono simil-motoristico.<br />
Lester guardava a quelle band di giovani sballati dei college con un misto<br />
d’ironia e incanto, finendo per innamorarsi perdutamente dei Count Five,<br />
“una combriccola di marmocchi che pestavano sulle chitarre e venivano da<br />
una qualche irrilevante provincia della California”, e della loro personale<br />
rilettura di I’m A Man: Psychotic Reaction.<br />
Psychotic Reaction inizia con un fuzz riff recisamente amatoriale ancorché<br />
più appiccicaticcio della resina che d’estate cola subdolamente dai pini giù<br />
sulla carrozzeria della vostra utilitaria corrodendola, lanciandosi poi in un<br />
testo la cui profondità fa sembrare Eros Ramazzotti un epigono del miglior<br />
Lou Reed: “Mi sento depresso, mi sento male / Perché tu sei la ragazza<br />
113
migliore che abbia avuto / Non riesco ad avere il tuo amore, non riesco ad<br />
avere affetto / Oh, quella ragazzina è una reazione psicotica.” Dopodiché, i<br />
Five partono in quarta con l’imitazione/clonazione di I’m A Man, con<br />
l’unica variante di un effetto di phasing innestato sulle grattate similbeckiane.<br />
Woosh-sgratch-sgratch-sgratch-woosh.<br />
Lester ammette che sulle prime odiò questa canzone, ma poi un giorno la<br />
misero alla radio mentre lui scorrazzava in macchina, stravolto come una<br />
mina anticarro, e cominciò a tirarsi sberle sulla testa: “Ma che cazzo mi<br />
ero messo in testa? Quella canzone era fantastica!” Scrive che il disco<br />
aveva una copertina galattica – la fotografia era stata scattata sull’orlo di<br />
una tomba, e i membri del gruppo stavano in piedi sull’orlo, guardando in<br />
basso con occhi sporgenti e malevoli verso gli acquirenti, idealmente in<br />
procinto di essere inumati. Ci recensisce le canzoni del loro primo e unico<br />
LP, comprato nello stesso giorno in cui acquistò Happy Jack degli Who:<br />
“Lo ascoltai spesso, gongolando, per un anno circa, finché dei biker non<br />
me lo trafugarono (accidenti a te, leccapistoni d’un Sonny!), e quando<br />
finalmente lo ritrovai nel 1971 in un negozio di dischi usati, ragazzi, mi<br />
misi a ballare per la gioia. Il tempo non aveva attenuato la grandezza del<br />
disco dei Count Five. Anzi, non l’ha attenuata nemmeno oggi. Suona<br />
ancora sporco e sgangherato come nel 1967.”<br />
Me, me stesso e io. Considera tutti i critici d’arte come inutili e dannosi…<br />
tranne la splendida eccezione che conferma la regola, chiaro. Ho comprato<br />
Nuggets Volume One: The Hits in un pomeriggio adolescenziale di bassa<br />
marea serotoninica, essendo stato incoraggiato all’acquisto dall’ascolto<br />
proprio della splendida canzone in questione a un programma radiofonico<br />
genuinamente rockettaro di Radio Torino Popolare intitolato Provocazioni<br />
e contaminazioni rock.<br />
Per il colto e l’inclita, la suddetta compilation comprende svariati altri<br />
brani killer con lampanti ascendenze Yardbirds, quali Talk Talk dei Music<br />
Machine (cantato nevrastenico, organo tragico e duplice brevissimo assolo<br />
di distorsore che minaccia di frantumarsi in globuli di suono, wow!) e<br />
l’ariosa Open My Eyes dei Nazz, nei quali militava un giovanissimo Todd<br />
Rundgren; c’è altresì I Had Too Much To Dream Last Night degli Electric<br />
Prunes, un safari psichedelico rinnovato in epoca punk da Wayne County<br />
& The Electric Chairs; e A Question Of Temperature dei Balloon Farm, un<br />
brano che più 1967 non si può – gustosissima pozione druidica di fuzz,<br />
feedback, vocals trasognati, theremin deliranti, organo e parti ritmiche da<br />
114
film psichedelico di terz’ordine. Nel 1982 i Lords Of The New Church di<br />
Stiv Bators ne registrarono una versione strabiliante per il loro omonimo<br />
album d’esordio (che adoro), benché con un sound quintessenzialmente<br />
anni Ottanta.<br />
Ciononostante c’è qualcosa che non mi torna. I più quotati annali del rock<br />
sostengono che la prima canzone rock con l’effetto phasing a entrare nella<br />
classifica di Billboard fu Itchycoo Park degli Small Faces. Ma Psychotic<br />
Reaction lo anticipa di una bella sporta di mesi! Come diavolo è questo<br />
fatto? I garage rockers non sono ritenuti meritevoli di essere menzionati<br />
nelle cronache elitarie della musica popolare? I Count Five non furono<br />
sufficientemente “alti”? Andiamo!<br />
Come dite? Devo esprimere una preferenza? Be’, Psychotic Reactions è<br />
realmente micidiale, ma io preferisco A Question Of Temperature, poiché<br />
meno epigonica. E comunque nessuna delle due vale un’oncia di Happy<br />
Jack, anche se Lester Bangs la mise sul piatto del suo giradischi non più di<br />
cinque volte. Gli Who sono gli Who, cari i miei Oscuri Scrutatori.<br />
Lester e gli Stooges. Qui il ragionamento si fa più complesso e polemico.<br />
Lester stigmatizza la cecità ignorante del pubblico hippy, che tratta la band<br />
di Iggy Stooge (al secolo, James Jewel Osterberg) col disprezzo dovuto<br />
all’ennesimo gruppo di volume freaks la cui trovata pubblicitaria, cioè un<br />
front-man pelle e ossa che si scortica il petto disgustosamente spalmato di<br />
burro d’arachidi sbattendosi il microfono sulle mascelle e rantolando testi<br />
esplicitamente nichilisti e antisociali, non basta a farli arrivare all’altezza<br />
di mostri sacri superventas come i Grand Funk Railroad, loro sì un gruppo<br />
al passo coi tempi selvaggi che corrono, capaci di riunire torme di giovani<br />
sballati capelluti sotto il palco in una baraccata simil-politicizzata, Tutti<br />
Insieme Appassionatamente Spaccando Tutto Fumando e Fottendo per il<br />
Movimento, figli di madre ignota! Chi ha bisogno di un gruppo che canta<br />
canzoni che parlano di occhi televisivi, del fatto che uno si sente come<br />
mondezza e che non si diverte proprio per un cazzo a stare da solo? Chi<br />
può idolatrare un adolescente mezzo irlandese mezzo svedese arrapato e<br />
antisociale del Middle West?<br />
Più gente di quanto pensi, cocco di mamma dei fiori.<br />
“Perché c’è molta aria malsana in giro, e dobbiamo spazzare via le banali<br />
tenebre dell’ignoranza e dell’incomprensione se vogliamo che le vere<br />
tenebre degli Stooges risaltino splendenti con tutti i loro prismi caotici,<br />
115
proprio come gli specchi delle case stregate che sono fatti apposta per<br />
confonderti.”<br />
Per Lester, Iggy Stooge è un idiota completo, sul palco e su vinile, ed è<br />
proprio questo uno degli aspetti fondamentali del suo mirabile genio. Iggy<br />
è l’antidoto all’epidemia di supermusicisti altezzosi che sta infettando la<br />
purezza della fonte del rock’n’roll. La “musica” volutamente monotona e<br />
semplicistica degli Stooges, questo caos analfabeta che prende forma per<br />
gradi e diventa uno stile totalmente personale, il giro di chitarra sudicia di<br />
due accordi, ripetuto macchinalmente, per tutta 1969, con rime di<br />
incantevole demenza, “compio ventidue anni tra poco / dico perbacco,<br />
buhu”, ci salveranno dal Nuovo Conformismo dei Piedi Scalzi e Neri di<br />
Sudiciume.<br />
Me, me stesso e io. Diversamente da Lester Bang Bang, non ho mai<br />
considerato Starship degli MC5 un fiasco imbarazzante, anche se mi ci è<br />
voluto un centinaio e passa di ascolti per apprezzarne appieno le nervature<br />
interstellari. E la prima volta che ho ascoltato Fun House degli Stooges,<br />
quand’ero ancora rospa o topo o missile che dirsivoglia per merito di una<br />
testa acidissima dell’hinterland meneghino che ascoltava anche i Joy<br />
Division i Bauhaus e le New York Dolls, sono venuto nei pantaloni kaki.<br />
È uno stupefacente crescendo d’intensità che si apre con Down In The<br />
Street (“Per la strada, dove i visi brillano… vedi una tipa carina / non c’è<br />
nessun muro!”), un riff circolare al plutonio straziato dalle urla lascive<br />
dell’Iguana. Neanche il tempo di riprendersi e sei già invischiato nella<br />
partouze ringhiante di Loose. Ron Asheton parte in distortissimo assolo<br />
suonando pressoché la stessa scala del pezzo precedente ma va benissimo<br />
così, chiamasi coerenza artistica. Poi arriva T.V. Eye, il capolavoro<br />
dell’album: “Guarda quel vitello / Sdraiato / Guarda quella ragazza /<br />
Sdraiata / Mi guarda con occhi da tivù…” La musica è un bordone<br />
sferragliante che ti prende subito per le palle e continua a crescere fino a<br />
che si raggiunge il vertice della tensione, ma non è ancora il momento di<br />
eiaculare… Lancinante schitarrata di chiusura di Ron Asheton, attimo di<br />
silenzio vinilico, rullata indolente di tamburi del fratello Scott ed ecco a<br />
voi Dirt, l’anticlimax alcaloide.<br />
La seconda facciata del disco è un altro esercizio d’eccitabilità, ma grazie<br />
al sassofonista Steve Mackay il suono è più stratificato, lambendo il free<br />
jazz di Coltrane seppure col contrappunto di una chitarra primordiale e<br />
assordante. 1970 è un brano influente in più di un senso: Deniz Tek, un<br />
116
giovane medico militare amico di Ron Asheton, ne prese a prestito una<br />
lirica per battezzare il suo gruppo di scatenati teppisti sonori australiani:<br />
Radio Birdman, up above. Fun House è un sexy-loquio funkeggiante e<br />
monotono, <strong>forse</strong> il pezzo dell’album che mi sconfinfera di meno, ma le<br />
liriche sono stupende: “Tutte le bambine sanno / cosa voglio dire / Vivere<br />
sul confine, nelle / sabbie mobili / Vi chiamo dalla <strong>casa</strong> stregata…”<br />
Infine, L.A. Blues. Orgasmo. Satori. Suonare la chitarra come Jackson<br />
Pollock. Esperimento Concettuale alla Yoko Ono. Marciume Sonoro.<br />
Feedback dei Feedback. Tutto ciò che volete. Una sera Lester si strafece di<br />
fenciclidina, lo riascoltò e gli parve un’immensa rete di carrucole dorate<br />
che si sollevavano nel cielo infinito. Per me potrebbe essere la perfetta<br />
rappresentazione in musica (sic) di quel che si prova quando si supera la<br />
velocità della luce. David Bowman proto-punk.<br />
Ora posso avere una <strong>birra</strong>? Magari una Pilsner?<br />
Lester e i Led Zeppelin. “Verso il 1973, un gruppo di damerini emaciati<br />
di nome Led Zeppelin tenne il suo ultimo concerto, durante il quale il<br />
chitarrista solista fu assassinato con una pistola rudimentale da un fan<br />
inferocito strafatto di stricnina, dopo soli cinquantotto minuti del suo<br />
virtuosistico assolo di due ore e mezzo su un’unica fottuta nota di basso.<br />
Dopodiché il pubblico catturò il cantante (talmente fatto di stramonio,<br />
comunque, che ormai riusciva solo a rigurgitare testi del tipo “Glip glip<br />
gag jargaruna fizzolfuck”) e gli tagliò tutti i riccioloni biondi e gli calpestò<br />
l’armonica, gli diede un cambio d’abito per mettersi in borghese (credo si<br />
trattasse di una versione per taglie forti dei Bodyjeans Lifetime Chainmail)<br />
e lo cacciò via. L’ultima volta che abbiamo sentito parlare di lui, pare che<br />
stesse cercando di cantare Whole Lotta Love a un mucchio di vecchi<br />
cannati sentimentali in un paesino dimenticato da Dio. Stucchevole da<br />
morire, direi.”<br />
Me, me stesso e io. Datemi pure del qualunquista, ma quand’ero un<br />
pivellino potevo saltabeccare tra Led Zeppelin, Stranglers, Police, Van<br />
Halen, Rolling Stones, Cheap Trick, Missing Persons, Who, Faces e Def<br />
Leppard senza essere afflitto dal benché minimo rimorso di coscienza. Del<br />
Dirigibile Bombato io apprezzavo (e continuo ad apprezzare) soprattutto<br />
Good Times, Bad Times, Comunication Breakdown, Ramble On, Living<br />
Loving Maid, Celebration Day, Tangerine, The Rover, Houses Of The<br />
Holy. Tutti brani abbastanza stringati, direi classicamente rock. I più<br />
117
lunghi e bombastici, tipo per l’appunto Whole Lotta Love, How Many<br />
More Times, Kashmir e In My Time Of Dying, mi mandavano in paranoia.<br />
Un giorno mi feci registrare su due nastri comprati al supermercato il livefilm<br />
autocelebrativo The Song Remains The Same, ma non durò più di<br />
quattro mesi: in pratica, ne ascoltavo a ripetizione solamente la title-track,<br />
indubitabilmente una splendida cavalcata elettrica. Però i venticinque<br />
minuti di Dazed & Confused, eh no, quello era davvero troppo; ruotava<br />
finanche il filmato in una tivù libera, ma a un certo punto le sviolinate<br />
megalomani di Jimmy Page venivano provvidenzialmente interrotte dallo<br />
scenario interamente bianco e le pennate impertinenti di Smash It Up dei<br />
Damned, una stravolgente sventagliata di novità.<br />
Ecco che divago ancora. Nel Guantanamo di Torino Nord, prima di essere<br />
trasferito all’ente Strategy & Development, ex Advertising & Promotion<br />
ex Pubblicità & Immagine, il sottoscritto aveva prestato servizio per un<br />
biennio alle Nuove Tecnologie, sotto un “sesto quadro” calabrese che, pur<br />
pagato lautamente, perseverava a guidare una tossicchiante Bianchina e<br />
consumare i pasti nel baracchino: pressoché negato per le lingue straniere,<br />
per tacere sull’italiano. Una volta, indimenticabile, aveva risposto così alla<br />
nazistoide segretaria di un fornitore tedesco: “No, ehm…, Mr. Mayer is not<br />
in ufficio. Is andato end a riunion.” E io a ridere sotto la scrivania come<br />
un matto felice. Ma allo S & D le cose non andavano poi così meglio.<br />
C’era chi comunicava in anglo-piemontese (“We arrive a London a un bot<br />
e mes”) e chi in italo-spagnolo (“Mucho bene, ci vedemos manana al<br />
aeropuorto”). Chiamasi meticciato aziendale. Il mio nuovo capufficio era<br />
una trottola dinoccolata con la faccia da lontra marina. Il suo fottuto<br />
telefono suonava quaranta volte al giorno ma quasi mai lui stava in ufficio,<br />
pertanto la stragrande maggioranza delle volte toccava a me sollevare la<br />
dannatissima cornetta: in pratica, fungevo pure da segretario. Buona parte<br />
delle chiamate proveniva dalla Francia e dal Québec, la belle province:<br />
uguale, anglofobia a palate. Di conseguenza, a <strong>casa</strong> mia come nei tempi<br />
morti aziendali, io cercavo di apprendere quanto più francese possibile.<br />
«Pour le lancement de ce produit sur notre marché il faudra une intense<br />
campagne pubblicitarie. Dans ce but pourriez-vous me procurer du<br />
matériel de propagande?» Sì. E tu puoi procurarmi un appuntamento con<br />
Emmanuelle Béart, grand-père? Fiche-moi la paix!”<br />
Eh sì. Davvero stucchevole il Dirigibile 1973. Gradirei sapere da Voi<br />
come sto andando. E… vi siete esentati finalmente dalla tirannia della<br />
materia?<br />
118
Lester, Metal Machine Music e Kiss Alive!. Punto 14 della Disamina<br />
Lesteriana in 17 punti di Metal Machine Music, doppio disco rumoristico<br />
di Lou Reed: “Quando io e Lisa Robinson siamo stati invitati in Uganda<br />
per intervistare il presidente Idi Amin Dada, per futuri articoli in copertina<br />
su Creem e Hit Parader, gliel’ho fatto ascoltare e a lui è piaciuto un sacco.<br />
Gliene ho regalata una copia e ora lui, con un editto speciale, lo fa<br />
trasmettere dai diffusori di musica di sottofondo in tutti i supermercati<br />
(tutti e trentacinque) e le sale d’aspetto dei medici (tutte e otto) del suo<br />
fantastico paese, in modo che i cittadini possano ricevere ispirazione per<br />
spingersi a vette di patriottismo ancora più alte nei riguardi del suo regime<br />
e di tutto ciò che esso rappresenta.”<br />
Punto 15. “MMM è l’anima di Lou. Se c’è qualcosa che vorrebbe vedere<br />
sepolto in una capsula del tempo, è proprio quello.”<br />
Punto 16: “Quando sono fatto di Romilar è meglio di qualsiasi altro disco<br />
io abbia mai ascoltato.”<br />
Punto 17: “È il disco più fantastico mai realizzato nella storia del timpano<br />
umano. Al secondo posto: Kiss Alive!”<br />
Me, me stesso e io. Il Romilar, o destrometorfano bromidrato, è un<br />
espettorante e sedativo broncopolmonare, prodotto in compresse dalla<br />
Roche, non più in commercio. Negli anni Settanta veniva usato e abusato<br />
come sostitutivo cheap della morfina. Richiedendo dosi piuttosto massicce<br />
per raggiungere l’effetto sballo, solitamente percezioni illusorie e frenesie<br />
sessuali, provoca enormi danni all’organismo, sicché oggigiorno è caduto<br />
in disuso. Lester ci ha lasciato a New York il 30 aprile 1982 per la fatale<br />
interazione di due farmaci, Darvon e Valium, con cui stava curando un<br />
banale raffreddore.<br />
Ho ascoltato Metal Machine Music solo una volta, a <strong>casa</strong> di un amico.<br />
Cinquanta minuti di detriti sonori; francamente, non mi fece venire alcuna<br />
voglia di comprarlo, anzi ricordo bene che commentai sprezzante: “Questa<br />
è merda per eroinomani allo stato puro!” Però qualche anno dopo, molto<br />
più avvezzo a frastuoni atonali e lancinanti retroazioni sonore grazie a<br />
Starship, L.A. Blues, Radio Ethiopia/Abissinia e 30 Seconds Over Tokyo<br />
dei Pere Ubu, ascoltai un altro album doppio di intrecci sonori magmatici,<br />
Daydream Nation dei Sonic Youth, e ne rimasi elettrizzato. «Hyperstation<br />
e` una jam free form capace di creare, con la sua ingarbugliata trama in<br />
119
crescendo, con le punteggiature metalliche delle chitarre e la pulsazione<br />
frenetica di piatti e tamburelli, quel clima di terrore e d’estasi che incrocia<br />
il degrado psichico di un eroinomane con una soundtrack iper-realista.»<br />
Oh yes. Ciononostante non so se comprerò mai Metal Machine Music.<br />
Kiss Alive!… Ostia, che cocente delusione provai quando venni a sapere<br />
che quest’epocale doppio disco dal vivo, tonante colonna sonora della mia<br />
adolescenza problematica e onanista, era stato largamente ritoccato in<br />
studio! È urgente delucidare questa scabrosa faccenda.<br />
2001. Nella sua vendutissima e acclamata autobiografia Kiss and Make-<br />
Up, Gene Simmons scrive: “Sono sempre corse voci che Alive! sia stato<br />
abbondantemente rimaneggiato in studio. Non è vero. Ritoccammo le parti<br />
vocali e sistemammo qualche assolo di chitarra, ma non avevamo né il<br />
tempo né il denaro per modificare completamente le incisioni. Ciò che<br />
volevamo, e che ottenemmo, fu la testimonianza della forza grezza e della<br />
potenza della band.”<br />
(Ouverture dello stesso libro, pag. 4: “In ogni caso, ecco la verità, tutta la<br />
verità, nient’altro che la verità, e che Dio mi aiuti.”)<br />
Secondo il libro di Dale Sherman Black Diamond e la rivista Goldmine,<br />
nei primi anni Novanta Eddie Kramer rese noto che in Alive! egli dovette<br />
ricorrere a un numero limitato di sovraincisioni (overdubs) per correggere<br />
gli errori più ovvi quali rotture di corde, parti vocali mancanti e note fuori<br />
chiave, entrambi piuttosto frequenti in un concerto “movimentato” quale<br />
era quello dei Kiss, che oltre a tutto non erano propriamente dei fenomeni<br />
in fatto di tecnica musicale.<br />
Tuttavia, in tempi più recenti, il celebre produttore/ingegnere del suono<br />
sudafricano ha dichiarato che l’unica registrazione dal vivo originale<br />
nell’album è la chitarra solista di Ace Frehley; successivamente, durante<br />
un’intervista televisiva, ha ulteriormente rettificato il tiro affermando che<br />
le uniche parti originali sono le percussioni di Peter Criss. Forse la<br />
memoria comincia a fargli difetto, o magari pazzeggia, chissà; ho letto che<br />
da giovane durante le sedute di registrazione hendrixiane si dilettava a<br />
deridere Chas Chandler per il suo marcato accento cockney. In qualunque<br />
modo, la controversia ha coinvolto anche il secondo album dal vivo della<br />
band newyorchese, Alive II, che risulterebbe quasi totalmente ricreato alla<br />
consolle, addirittura con due brani, Tomorrow And Tonight e Hard Look<br />
Woman, suonati in studio e in seguito mixati coi rumori della folla! Che<br />
pacchianata! Finalmente, nel recente DVD celebrante la storia dei Kiss,<br />
perfino gli stessi membri del gruppo ammettono sorridenti l’uso estensivo<br />
120
di overdubs nei loro cosiddetti dischi dal vivo. Bella forza, ormai si sono<br />
fatti i miliardi e hanno scopato tutto lo scopabile… Dico, avessero almeno<br />
avuto la dignità di proporsi: “Che importa se siamo una brigata di sacchi<br />
della spazzatura antropomorfi, fissiamoci su vinile così come veniamo e<br />
vaffanculo al mondo intero!”<br />
Mi ci è voluto un giro su Youtube, pochi mesi fa, per tornare ad amarli<br />
come una volta. Là ci sono i veri Kiss, le performance quasi mai perfette<br />
tecnicamente ma scoppiettanti d’energia rock’n’roll. Dal vivo pezzi come<br />
Black Diamond, Detroit Rock City e Cold Gin rendevano cinque volte più<br />
che su disco, realmente non c’era necessità di rappezzarli in studio. E<br />
quando Ace Frehley innestava l’octaver e il phaser e partiva in assolo, era<br />
come se una creatura sonica proveniente dallo spazio profondo erompesse<br />
dagli amplificatori per farti esplodere il cervello. Dal 1973 al 1977 i Kiss<br />
furono davvero la band più calda del mondo.<br />
(Fortissimo nonché scontatissimo dubbio: ma a Lester MMM e Alive!<br />
piacevano davvero, o ci voleva soltanto prendere tutti per i nostri fondelli<br />
tumefatti? Me lo figuro lassù, acciambellato su una nuvoletta di plasma<br />
con trentacinque nanocompresse di Proximax in corpo, sogghignando<br />
sotto il caschetto biondo alla Brian Jones.)<br />
Lester e Station To Station di David Bowie. “È difficile avere degli eroi.<br />
È la cosa più difficile del mondo. È perfino più difficile che essere un<br />
eroe. Di solito dagli eroi ci si aspetta che producano un qualcosa per<br />
riconfermare la presa delle loro dita altolocate sulle belle chiappe di quella<br />
stronza della Musa; e a volte arriva a un pelo dal somigliare a delle<br />
unghiate che scendono lungo il bordo di un precipizio d’argilla fino a<br />
cadere. Al tramonto, addirittura. E non c’è nessun banchetto aziendale,<br />
giovanotto.”<br />
David Bowie non era certamente l’eroe di Lester. Anzi, per dirla tutta non<br />
lo poteva vedere neanche dipinto. Considerava la sua fase Ziggy Stardust e<br />
i Ragni da Marte come una menata colossale, e più ad ampio raggio la sua<br />
musica come un mélange furbastro da professionista dell’industria dello<br />
spettacolo.<br />
Poi però uscì Young Americans e Lester inarcò un sopracciglio, ma fu<br />
Station To Station a fargli scrivere: “È uno dei più bei dischi di chitarra dai<br />
tempi di Rock’n’Roll Animal, ha una disinibizione e una pulsazione<br />
incessanti che calpestano completamente le parole. E quindi, chi se ne<br />
fotte di cosa significa TVC 15: è un gran pezzo rock. (…) È un disco rock<br />
121
talmente bello e con una tale potenzialità di durare nel tempo, perfino più<br />
di Young Americans, che mi sbilancio a dire: penso che Bowie abbia<br />
finalmente prodotto il suo (primo) capolavoro.”<br />
Me, me stesso e io. L’uomo che cadde sulla Terra. Ho letto il libro e visto<br />
il film: pregevole il primo, non completamente riuscito ma lo stesso<br />
affascinante il secondo. Nel 1976 un critico cinematografico scrisse al<br />
proposito su Robot che David Bowie non faceva molta fatica a recitare se<br />
stesso: anche se avevo soltanto undici anni, fui sostanzialmente d’accordo<br />
con lui. Mi è rimasta stampata in testa soprattutto questa scena: una donna<br />
e un uomo a letto, nudi bruchi; lei è una giovanissima bruna all-American<br />
sfrontata e opulenta, di quelle che ti scoperesti tutti i giorni dal tramonto<br />
all’alba, che dormono con la lingua fra le tue palle pelose e ingoiano tutto<br />
quello che c’è da ingoiare, sempre; lui è il dottor Nathan Bryce, libidinoso<br />
professore di college con un’inclinazione per le diciottenni e affascinato<br />
morbosamente dalla World Enterprises, la potente compagnia che Thomas<br />
Jerome Newton, l’alieno venuto sulla Terra da un pianeta morente di sete,<br />
ha creato dal nulla; parlano parlano, finché lei vogliosa non gli circonda i<br />
fianchi con quelle cosce sode da cheerleader spronandolo: “Avanti, fammi<br />
sentire quanto sei uomo!” Yummy.<br />
Young Americans mi serve come lassativo quando tralascio di assumere<br />
fibre vegetali. Station To Station ce l’ho in CD. La fotografia in copertina,<br />
di Steve Shapiro, è tratta da L’uomo che cadde sulla Terra. Le foto<br />
all’interno, sempre di Steve Shapiro e Jayne Fincher, dovrebbero essere<br />
mostrate ai giovinetti della plug generation nell’ambito di una campagna<br />
contro l’abuso di cocaina, soprattutto a Roma, laddove ultimamente il Cnr<br />
ha rintracciato la magica polverina perfino nell’aria: eppure, dato che è<br />
sniffata a tutto spiano perfino in Parlamento, non è considerata una vera<br />
emergenza. Ma lo è, diocristo.<br />
Sono d’accordo con Lester: Station To Station è un masterwork. La titletrack<br />
riprende brillantemente l’idea alquanto datata della suite, mentre<br />
TVC 15 è in effetti un gran pezzo, rozzo e sgangherato – a quanto pare il<br />
titolo deve molto a una storia raccontata a David da Iggy Pop nel 1975 a<br />
proposito della ragazza di Iggy inghiottita da una set televisivo… ahi,<br />
Sorella Morfina! Sono ottimamente congegnate le dinamiche funky-rock<br />
di Golden Years e Stay. Wild Is The Wind e Word On A Wing eccedono<br />
<strong>forse</strong> un tantino in pathos ducale, ma la seconda mi piace moltissimo, con<br />
quella vaporosa nota di sintetizzatore all’inizio che richiama realmente<br />
122
l’immagine di una parola in caduta libera dall’ala di un uccello libratosi in<br />
volo. Le chitarre, e qui do pienamente ragione a Lester, sono grandiose:<br />
Carlos Alomar, Earl Slick e Stacey Heydon, quest’ultimo presente nelle<br />
due bonus track registrate dal vivo, fanno veramente i fuochi d’artificio.<br />
Un’altra scena da un’altra pellicola, e un’altra bruna conturbante: Mathilda<br />
May, alias Space Girl (chiamarla semplicemente “aliena” pareva troppo<br />
ordinario?), percorre nudissima gli interminabili corridoi di un laboratorio<br />
governativo col passo vellutato di una mannequin.<br />
Space Vampires è uno di quei film talmente assurdi da divenire oggetto di<br />
culto. Ritengo che in cuor suo il regista Tobe Hooper volesse realizzare<br />
una sintesi modernista e sensuale dei buoni vecchi film di fanta-horror: ma<br />
il risultato, super-produzione effetti ultra-speciali e principesca campagna<br />
pubblicitaria a parte, mi richiama alla memoria piuttosto certe boiate girate<br />
nei primi anni Settanta da Jess Franco con Lina Romay e C. Le quali se<br />
non altro avevano il pregio dell’artigianalità.<br />
In ogni modo, Mathilda May era fantastica (lo è ancor più adesso, a 43<br />
anni compiuti). Esistessero davvero delle creature aliene così voluttuose!<br />
Ehm, nel caso ne conosceste una, magari nella Nube di Magellano dove si<br />
mormora siano tutte ciorgne, me la mandereste qui a bordo? Comincio a<br />
sentirmi un po’ solo…<br />
Drin-drin. Decimo squillo della mattinata. Ed erano soltanto le dieci e<br />
trentacinque!<br />
“<strong>Maurizio</strong> F.”<br />
“Je suis Nicholas Ercoreca. Est-ce je peux parler à monsieur Rama?”<br />
Santa Madonna del Pilone! “Ehm, oh, uhm... Monsieur Rama il n’est pa<br />
en bureau.”<br />
“D’accorj’appeleraiplustardtartufonjesuicathrindenevue.”<br />
“Sì, okkey, au revoir.” Le palle di fra Giulio che mi trovi qui quando<br />
richiamerai.<br />
Difatti, pochi minuti dopo il termine della pausa per il pranzo, avendo<br />
saputo dalle stressatarie di direzione che più o meno tutti i quadri dell’ente<br />
sarebbero rimasti in riunione dall’amministratore delegato fino alle quattro<br />
del pomeriggio come minimo, mi feci scribacchiare un permesso d’uscita<br />
anticipata dall’unico ravanello che contando quanto una caccola di naso<br />
non era stato convocato su nella fulgida stratosfera dirigenziale (non senza<br />
qualche brontolio da parte del fantozzi) e me la diedi a gambe. Adieu,<br />
maricons.<br />
123
Lester e i Clash. “E così, eccomi qui grazie alla cortesia aziendale della<br />
CBS International per vedere i Clash, per sentire i gruppi new wave alla<br />
radio (una festa per le orecchie di un americano) e trovare l’Impero,<br />
finalmente, di nuovo in preda a fermenti.” Per Lester, il cui pensiero era<br />
che il rock fosse sceso qualitativamente in picchiata dopo il 1968 avendo<br />
raggiunto il suo zenit nell’anno precedente (quando Keith Richards ancora<br />
non si arrampicava sulle palme da cocco e se n’andava a spasso per il<br />
Sistema Solare con gli occhiali da sole a occhio di mosca), il punk-rock<br />
rappresentò un’ipodermica per cavalli di nuova linfa esistenziale. Tant’è<br />
vero che la sua crepitante (al solito) recensione critica del gruppo inglese è<br />
strutturata in tre lunghe parti, che verranno pubblicate sul New Musical<br />
Express il 10, 17 e 24 dicembre 1977. Premettendo che, politicamente<br />
dissertando, non sa niente e non gliene potrebbe fregare di meno della<br />
struttura sociale inglese, il biondo scrive che il gruppo di Joe Strummer,<br />
Mick Jones e Paul Simonon “è giusto perché sotto il loro paesaggio sonoro<br />
teso e aspro si cela un persistente umanitarismo.” In più, gli aggradano<br />
come persone, molto più di ogni altro gruppo che abbia mai incontrato.<br />
Presumibilmente perché la sera che li conobbe essi rintuzzarono ogni sua<br />
provocazione con naturale arguzia britannica, senza mai tirarsela da rocker<br />
arroganti e spocchiosi.<br />
(“Be’, Lester”, disse Mick Jones, “non guardare me. Se ti dà tanto fastidio<br />
il genocidio culturale perché non fai tu qualcosa per cambiare le cose?”<br />
“Sì”, disse una delle fan, una ragazzina punk di colore carinissima, “ci stai<br />
facendo venire la depressione a tutti quanti!”)<br />
Lester B. finisce per montare sul carrozzone della band. Ci racconta di<br />
quando con nonchalance lasciò cadere che si era portato dietro la cassetta<br />
del nuovo album dei Ramones, Rocket To Russia, scatenando il genuino<br />
entusiasmo del gruppo. È molto felice di poter dire che i Clash sono fan<br />
accaniti dei Muppets, nonché gente relativamente sana (relativamente<br />
perché si fanno fior di cannoni, ma in dosi coscienziose il fumo integra il<br />
pensiero). “Non c’è neanche un affumicatore di cucchiai o un fricchettone<br />
malconcio. Oltre a ciò, non divorano groupie adolescenti come caramelle<br />
Zigulì, ammazzano il tempo e la noia sul tour bus leggendo libri impegnati<br />
e s’intrattengono spesso a parlare coi loro fan.” Magnifica il sex appeal<br />
misto di “monellaccio adolescente e primate del Paleolitico” di Paul<br />
Simonon. Trova “patetica e inadeguata” tutta la terminologia critica<br />
utilizzabile per descrivere le loro torrenziali esibizioni. Assiste a diatribe<br />
con titolari di locali pieni di mota e occhiate in cagnesco fra punksters<br />
124
sovraccarichi di spille e spillette e teddy boys perdutamente convinti della<br />
propria unicità. Non sente per nulla la nostalgia di New York, che l’aveva<br />
attanagliato in altre precedenti esperienze in Inghilterra. E di conseguenza<br />
riflette intensamente per la decimillesima volta sul suo controverso paese<br />
natio (“In America non sei tenuto a crescere. Sei tenuto a consumare.”)<br />
Il suo incarico avrebbe dovuto durare tre giorni, ma Lester è talmente<br />
preso bene che prosegue con i Clash fino a Coventry. Durante il concerto<br />
attacca bottone con una punkette “molto vivace, sana, giovane col suo<br />
giubbotto ricoperto di spallette coi nomi dei gruppi”, molto indispettita<br />
perché i Clash avevano chiesto al pubblico di non sputargli addosso.<br />
“Dopotutto, sono stati loro a cominciare”, dice.<br />
“Però suonano meglio quando non lo fate”, le rammenta Lester.<br />
“Non importa! Io voglio solo saltare! E anche i miei alunni!”<br />
Lester rimane basito. “I tuoi alunni? Aspetta un attimo, quanti anni hai?”<br />
“Ventiquattro. Faccio l’insegnante.”<br />
“Ma… allora… che ci fai qui? Cioè, perché ti piacciono i Clash?”<br />
“Perché mi fanno saltare!” E si è allontanata pogando.<br />
Me, me stesso e io. Nel 1983 le pareti della mia stanzetta erano adornate<br />
da un assortimento quanto meno eterogeneo di poster; Kiss, Iron Maiden,<br />
Richard Gere (oh, avrei voluto essere bello come lui!) la formazione del<br />
Torino Calcio 1982-83, Alice (!), Rod Stewart… e i Clash. Il mio primo<br />
loro album era stato Combat Rock, ma in seguito avevo fulmineamente<br />
percorso a ritroso tutta la loro discografia fino a quello juggernaut di suoni<br />
e intenti bellicosi che è The Clash, uno dei capolavori della storia del rock.<br />
Noel Gallagher una volta si è chiesto che diavolo ci trovasse la gente nello<br />
stile musicale del quartetto londinese. Io una miriade e fischia di volte mi<br />
sono chiesto che acciderba ci trovo io, nonché qualche altro milione di<br />
musicomani sparsi su quest’enorme sasso surriscaldato, negli Oasis. Una<br />
spiegazione può essere la loro propinquità al Ritmo Assoluto di Arthur C.<br />
Clarke: una volta che ti è penetrato nella capoccia vi resta per l’eternità,<br />
fagocitando ogni altro pensiero, addirittura i bisogni primari. Piuttosto<br />
inquietante, non trovate?<br />
I Clash invece sono il rock’n’roll ridotto alla propria pulsante ossatura e<br />
rilanciato nella stratosfera in un razzo a propulsione Molotov Cocktail.<br />
“Personalmente, non ricordo neanche di aver registrato il primo album,<br />
talmente ero intontito dagli spini”, rivelò poco prima di andarsene Joe<br />
Strummer a un rampante giornalista. Macché intontito, carissimo Joe: eri<br />
125
in stato di grazia! Flirtavi con la Musa nella Bottega dell’Arte, col Bob<br />
Marley in bocca e una mano fra le sue lunghissime gambe. E Il Capitale di<br />
Marx sul bancone.<br />
Julian Cope ha descritto efficacemente i concerti di questa pattuglia di<br />
uomini veri: “I Clash facevano pensare a un’immensa guerra nucleare.<br />
Avevi bisogno di movimenti che descrivessero le sparatorie sul delta del<br />
Mekong o i bombardamenti al napalm contro i bambini senzatetto.”<br />
He’s in love with rock and roll, woaahh!!! Non c’è una nota fuori posto in<br />
The Clash. L’unità d’intenti musicali e sociali è straordinaria, irripetibile<br />
quanto può esserlo Guernica di Picasso o Il Pensatore di Rodin, e Fun<br />
House. Non ti stanca proprio mai, e quando lo metti sul piatto o nel lettore<br />
laser o vattelappesca non è per enuclearne una canzone o due, exempli<br />
gratia ora mi ascolto London’s Burning e più tardi alla terza canna 48<br />
Hours e nel mentre le Pipettes: te lo spari nelle orecchie ininterrottamente<br />
dal principio alla fine.<br />
Esimi Conflitti, ho un buon amico che come me vi ha venerato e continua<br />
a venerarvi come divinità che hanno preso forma umana, tuttavia è così<br />
rockisticamente pignolo che mi rubatta regolarmente le scatole con la<br />
storia che l’assolo di Police & Thieves gli suona come se fosse stato<br />
eseguito con una moneta da 100 lire anziché un plettro. Sarà, ma proprio<br />
in ciò sta la sua attrattiva! Ascoltatelo a buon volume al volante del vostro<br />
cigolante macinino italiano in un pomeriggio soleggiato di mezza estate<br />
sulla strada per Lekeitio...<br />
Strobe-cut. E mi ritrovai al bar Patxon di Karraspio, col mio culetto sodo<br />
poggiato su uno sgabello davanti al bancone. Manco il tempo d’imprecare<br />
che un’adorabile sirena bionda attraccò al mio molo e cantò: “Kaixo! Ni<br />
Nerea naiz. Eta zu, nor zara zu?” Ciao! Io sono Nerea. E tu chi sei?<br />
Il Babbione Natale, mi veniva da risponderle. Per contro rimasi silenzioso<br />
a fissarla come un bue sedato con una vagonata di thorazina. Era Piggy<br />
versione Lea-Artibai, più alta e slanciata e con quei lineamenti peculiari<br />
dovuti alla progressiva secolare introduzione dell’orifizio occipitale nel<br />
cranio con conseguente ritrazione del volto e ingrossamento delle tempie.<br />
In qualunque modo desossiribonucleico un bel pezzo di legno giovane, coi<br />
suoi pantaloncini di cotone bianco, la blusa rosa confetto e le ciabattine<br />
infradito. L’esame successivo per ottenere il Patentino Intergalattico di<br />
Bambino Rock delle Stelle?<br />
“Nor zara zu?” ripeté sorridendo Nerea Piggistarain.<br />
126
Io parlo il basco, o meglio ne mastico una trentina di frasi utili per stupire<br />
il borghese locale, specialmente il tipico stronzone di buona famiglia che<br />
ritiene che gli italiani siano tutti cretini e cascamorti e berlusconiani come<br />
pure discendenti dei piloti fascisti che bombardarono a tappeto Gernika.<br />
“Ni <strong>Maurizio</strong> naiz, laztana. Arratsalde on!” L’ultima locuzione significava<br />
“buon pomeriggio”, ma eravamo davvero in quella parte del giorno? Mi<br />
voltai verso le lontane onde spumeggianti: surfisti torciati, lettori solitari,<br />
fette di anguria, cellulite navarra, perizomi castigliani. Sì, dovevano essere<br />
le cinque o giù di lì.<br />
Replica di Nerea: “Ottimo livello di euskera!” Anche lei usava parecchio<br />
le strisce sbiancanti per i fanoni. Dopodiché mi aspettavo una domanda del<br />
solito banale repertorio, tipo che ci fa un italiano a Lekeitio, com’è che<br />
parli così bene la nostra lingua, è nato prima l’uovo bilbaino o la gallina<br />
donostiarra e avanti parei fino al Big Crunch.<br />
Ma la neska mi spiazzò prendendomi delicatamente la mano e frusciando,<br />
in perfetto italiano: “Vieni. Andiamo in spiaggia a parlare un po’.”<br />
Non avendo tra tutt’e due un asciugamano (men che mai io!), ci sedemmo<br />
direttamente sulla sabbia, a metà cammino fra il bar e la battigia. Io mi ero<br />
fornito di una San Miguel Extra: molto diversa dalla Especial, è una strong<br />
lager ambrata con un retrogusto maltato ma molto persistente. Non proprio<br />
una <strong>birra</strong> da spiaggia, ma è noto che i baschi sono gente spessa che ama le<br />
emozioni forti. Non per niente si spingevano fino a Terranova per cacciare<br />
le balene.<br />
Nerea estrasse dalla sua pochette dorata uno spinello d’erba, se lo accese<br />
con scioltezza e dopo tre o quattro boccate me lo passò. Nessuno ci guardò<br />
di traverso. Karraspio era un contesto di dolce libertà estiva.<br />
L’erba era squisita, si sposava alla grande con la <strong>birra</strong>. La sera s’inclinava<br />
pigramente sui pescherecci alla fonda. Stavo come una spalmata di miele<br />
con una goccia d’olio d’oliva su una fetta di pane tostato e imburrato. Ora<br />
ci sarebbe stato a meraviglia un bacio tenero come cioccolato bianco sulla<br />
guancia rosea della ragazza, come quando avevo nove anni sul grado del<br />
portone con la mia fidanzatina delle elementari, la capa delle femmine.<br />
Ma mi aspettava ben altro.<br />
Tutt’a un tratto Nerea Piggiberria interruppe la contemplazione di un<br />
surfista particolarmente abile. “Hai portato indietro qualcosa dal Traforo,<br />
<strong>Maurizio</strong>?”<br />
127
“Quale Traforo?” Poi capii. Era il nomignolo che gli scienziati avevano<br />
appioppato alla Singolarità di Gibson. “Che intendi per qualcosa?”<br />
Le punte dei suoi piedini ben modellati, il più bel sogno per un feticista,<br />
smossero nervosamente la rena. “Intendo qualcosa, Mau. Qualsiasi cosa.”<br />
Guardandola in tralice, roteai l’indice della mano destra. “Tutto questo è<br />
vero, o è solo un dannato set della Nasa?”<br />
“È vero, Mauri.” Un gemito di rassegnazione.<br />
Cancellai la fantasia del bacio. Mi alzai, riducendole il sole a un alone.<br />
“Reale una merda secca. Quel cannone era per blandirmi, vero? Così ti<br />
consegnerei la qualsiasi cosa senza fare troppo i capricci, per il sommo<br />
godimento dei capoccioni incravattati lassù o quaggiù in Sala Controllo.<br />
Tuttavia, io non ho proprio niente da darvi. Nessun ninnolo extraterrestre<br />
o sconvolgente verità cosmica scritta in esperanto galattico su pergamena<br />
plasmatica. Nada. Ci facciamo un bagno?”<br />
Lei mi chiese ancora, questa volta attraverso una lente gravitazionale:<br />
“Cos’è successo dall’altra parte, Mauri?”<br />
“Non voglio sapere cosa fanno i ricchi. Non voglio andare dove vanno i<br />
ricchi. Si credono così furbi, si credono così giusti, ma la verità la sanno<br />
soltanto i poveracci.”<br />
“Zer da hori? Cos’è questo che dici?”<br />
Che accidenti avrei dovuto rispondere a quella megagnocca governativa<br />
cannaiola? “Senti, neska ederra, una razza benedetta mi ha fatto scoprire<br />
Lester Bangs, pirotecnico recensore di frastuoni rock e figura chiave della<br />
controcultura americana. Sono stato sottoposto a un confronto virtuale fra<br />
le sue esperienze e le mie in materia di rock’n’roll che mi ha arricchito<br />
l’esistenza.”<br />
Ma a Nerea e soprattutto ai suoi ingessati responsabili non avrebbe potuto<br />
fregagliene di meno. Essi volevano, anzi pretendevano l’oggetto, il reperto<br />
tangibile da analizzare, sezionare, fotografare, vezzeggiare, sodomizzare;<br />
non si spendono miliardi di soldi dei contribuenti per mandare un tizio<br />
dall’altro lato di un wormhole a dissertare di beat, hard rock e punk con gli<br />
ometti verdi, le piovre senzienti, i globi luminescenti o qualunque aspetto<br />
abbiano i nostri interlocutori.<br />
Fiato sprecato. E io, brillo, avevo una gran voglia di tuffarmi sotto quelle<br />
onde, vere o artificiali che fossero. Allora abbandonai un’interdetta Nerea<br />
sul suo piccolo monticello di sabbia e mi diressi ad ampie falcate verso il<br />
bagnasciuga, con indosso ancora i pantaloni e la camicia di tela. La sentii<br />
128
gridare qualcosa dietro di me, ma spallucciai. L’acqua era tiepida e pulita,<br />
perfetta. Strobe-cut.<br />
Aveva smesso di piovere: dopotutto, non può piovere per sempre. Ero<br />
tornato in sintonia con il mondo che gli uomini definiscono reale. Piggy<br />
Paradigmatica e Notebook Swimmer se n’erano andate.<br />
In loro luogo, un’adolescente molto somigliante a Eva Green, la libertina<br />
palliduccia e lentigginosa di The Dreamers. Eva Succedanea era intenta<br />
nella lettura di La strada del Kama-Sutra di Deepak Chopra. Di lì a<br />
qualche attimo fu raggiunta da un ragazzo alto e sottile coi tratti somatici<br />
inconfondibilmente indiani: il suo Bhagwan.<br />
ScaffHal colse quel momento per pronunciare le sue prime parole blasé<br />
della giornata: “Nel 1967, terminato il tour australiano degli Yardbirds,<br />
Jimmy Page se ne scappò in India: dichiarò che voleva ascoltare musica<br />
carnatica. Magari vi fosse tornato, e rimasto per sempre, al termine delle<br />
sessioni di Physical Graffiti.”<br />
Sorridendo sotto i baffi, calai lo sguardo al blocco di memoria cartaceo.<br />
Un altro cambiamento. Sul mio tavolo non c’era più la Guida Ragionevole<br />
al Frastuono, ma I CLASH/Arcana Editrice. Lo attivai.<br />
“Non stare alle regole / non fanno per te è roba da stupidi / E se non lo sai<br />
lo stupido sei tu / Allora stateci voi alle regole pezzi di idioti.”<br />
Sorrisi di nuovo. Il cielo si spalancò in un immenso lago azzurro. “Grazie,<br />
Lester: sei un grande. Stasera berrò un paio di Bud in tuo onore. Facciamo<br />
anche sei.”<br />
129
Figura 10. Keep your riches, gimme a Budweiser!<br />
130
EPILOGO<br />
Un martedì sera qualunque. Cementati davanti all’ingresso del Lab, io e la<br />
mia banda sorseggiamo la quarta o quinta <strong>birra</strong>, dopo un po’ uno perde il<br />
conto. Sotto i portici della piazza è tutto uno sfilare di ragazze mediamente<br />
giovani e attraenti, con frequenti bagliori d’eccellenza. Vito reitera spesso<br />
che quando noi eravamo dei pivellini le ragazze non erano così belle. Io<br />
credo che vi fossero anche meno ragazze a spasso per la città la sera: per<br />
dirla volgarmente, eravamo tutti cazzi e zero, o quasi, gnocche. In fin dei<br />
conti, non tutto il progresso viene per nuocere. Comunque io ora sono in<br />
una seria e felicissima relazione a distanza e, insomma, che ve lo dico a<br />
fare.<br />
Alla consolle DJ Naska, storico (Daffy, suo vecchio compagno di brigata<br />
modernista, correggerebbe in “anziano”) batterista degli Statuto, si lancia<br />
in un brillante mix di successi rock britannici. Ciò dà la stura all’ennesima<br />
discussione musicomaniaca:<br />
Vito: “Secondo te qual è il disco più bello dei Faces?”<br />
Io: “Mah, a me piacciono tutti. Certo che A nod is as good…”<br />
Giorgio Pitone (soprannominato così per i suoi forti appetiti): “Io sono<br />
più per gli Smiths e le band shoegazer. Carina quella biondina laggiù.”<br />
Daffy: “Dio c…, sempre con ’sta musica. Non avete più vent’anni!”<br />
Io: “Se è per questo, neanche trenta. E fra un po’, neanche quaranta.”<br />
Eh già.<br />
Di Soffocare, che per me è il miglior libro scritto da Mr. Chuck Palahniuk,<br />
mi ha colpito soprattutto una frase. Pag. 1, riga 7: “Tanto, ringiovanire non<br />
ringiovanisci.” Spietatissimo, ma vero. Puoi tingerti o trapiantarti i capelli,<br />
riempirti i lineamenti di botoina fino a sembrare uno scimpanzé bonobo,<br />
bere ettolitri di tè verde e passare tre quarti della tua giornata a pisciare nel<br />
cesso, gonfiarti le poppe con l’olio di colza dieci volte l’anno, massacrarti<br />
di step cinque sere su sette, fare Tai Chi ogni mattina presto al parco sotto<br />
<strong>casa</strong> in mezzo alle deiezioni canine e alle siringhe usate. Ma non smetti di<br />
invecchiare neanche per un fottuto nanosecondo.<br />
Tutto sta nel piantarla di rodercisi il fegato e il cervello. Cambiare canale<br />
ogni qual volta lo psicologo ospitato di turno si mette a pontificare sulla<br />
crisi di mezz’età. Fregarsene altamente di quella data stampata sulla carta<br />
d’identità. Far rottamare l’invidiometro dall’AMIAT. C’è ancora tanta,<br />
tantissima vita oltre il devastante doposbornia della gioventù. I brasiliani,<br />
131
che sono molto saggi, fanno del doposbornia una nuova festa. Anche gli<br />
spagnoli sostengono che non c’è niente di meglio che un bel boccale di<br />
<strong>birra</strong> chiara e fresca per toglierti la resaca. E ricominciare coi baccanali.<br />
Diciamo tutti insieme grazie che ho bevuto. Sempre e comunque.<br />
“Facciamo un altro giro?”<br />
“Ma naturalmente!”<br />
“Io veramente domani mi dovrei alzare presto…”<br />
“Dài. L’ultima birretta e <strong>andiamo</strong> a <strong>casa</strong>!”<br />
Forse.<br />
© 2011 <strong>Maurizio</strong> <strong>Ferrarotti</strong>. Tutti i diritti riservati.<br />
Figura 11. Già, <strong>forse</strong>...<br />
132
La pratica di una professione richiede disciplina, che per me intendeva<br />
la produzione di duemila parole in bella copia ogni giorno,<br />
fine settimana inclusi.<br />
Scoprii che, qualora cominciassi abbastanza presto,<br />
avrei potuto completare il lavoro quotidiano prima che aprissero i pub.<br />
Diversamente c’era un inebriante periodo della notte<br />
dopo l’orario di chiusura, coi vicini di <strong>casa</strong> battendo sui muri<br />
per protestare contro l’industrioso ticchettio della macchina da scrivere.<br />
Duemila parole al giorno significa<br />
un totale annuale di settecentotrentamila.<br />
Porta in su la percentuale e, senza indebito sforzo,<br />
puoi raggiungere il milione.<br />
Questo dovrebbe significare dieci romanzi<br />
di centomila parole per ciascuno.<br />
Naturalmente l’approccio quantitativo alla scrittura non è contemplato.<br />
E a causa di doposbornia, dispute coniugali,<br />
citazioni per incontrare funzionari statali, e pura torpida malinconia,<br />
io non fui capace di realizzare più di cinque romanzi e mezzo<br />
di dimensione molto moderata in quell’anno pseudo-terminale.<br />
Nondimeno, ciò era quasi prossimo all’intera produzione letteraria di<br />
E.M. Forster nella sua lunga vita.<br />
Anthony Burgess, celebre scrittore mancuniano, autore<br />
di una cinquantina di libri tra i quali A Clockwork Orange<br />
(“Arancia Meccanica”).<br />
A 43 anni gli fu erroneamente diagnosticato<br />
un tumore inoperabile al cervello con aspettativa di vita di un anno.<br />
Il “mezzo romanzo” era per l’appunto la prima stesura di<br />
A Clockwork Orange.<br />
133
Biblioteca personale e pubblica<br />
FONTI<br />
STERLING, Bruce, Fuoco sacro, Fanucci Editore, 1997.<br />
ELLISON, Harlan, Idrogeno e idiozia, Fanucci Editore, 1997.<br />
MCLUHAN, Marshall, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore<br />
Economici, 1995.<br />
ALONSO, Javier, Sueños y cadáveres, Pre-Textos, 2002.<br />
M. SANZ José «Loquillo», El chico de la bomba, Belacqva, 2002.<br />
THACKERAY, William Makepeace, La fiera delle vanità, Rizzoli<br />
Editore, 1954.<br />
HALDEMAN, Joe, Guerra eterna, Editrice Nord, 1996.<br />
SUSANN, Jacqueline, Una volta non basta, Edizione Euroclub Italia su<br />
licenza di Aldo Garzanti Editore, 1979.<br />
BANGS, Lester, Guida ragionevole al frastuono più atroce, Minimum<br />
Fax, 2005.<br />
PEGG, Nicholas, The complete Bowie, Arcana Libri, Fazi Editore, 2005.<br />
DAVIS, Stephen, Il Martello degli Dei: la saga dei Led Zeppelin, Arcana<br />
Libri, Fazi Editore, 2004.<br />
SPÄTH, Gino, Birra & Birra, Mistral Gruppo Demetra, 1994.<br />
GAMBERO ROSSO, Almanacco del Berebene Birra, Gambero Rosso<br />
Editore, 1999.<br />
MONTANARI & FLANDRIN, Storia dell’alimentazione, Laterza Editori.<br />
MUCK, Otto, I segreti di Atlantide, Edizione Euroclub su licenza di SIAD<br />
Edizioni, 1986.<br />
ELLIS BERRESFORD, Peter, A Dictionary of Irish Mythology, Oxford<br />
University Press, 1991.<br />
DAPINO, Cesare, Spagna settentrionale, Guide Edt su licenza di Lonely<br />
Planet Publications, 2000.<br />
BURGESS, Anthony, A Clockwork Orange, Penguin Books, 1996.<br />
BAS, Juan, Trattato sui postumi della sbornia, Castelvecchi Editore, 2004.<br />
ZELAZNY, Roger, Signore dei sogni e La pista dell’orrore, I Massimi<br />
della Fantascienza, Arnoldo Mondadori Editore, 1988.<br />
THOMPSON, Hunter S., Paura e disgusto a Las Vegas, Bompiani, 1998.<br />
GIBSON, William, La notte che bruciammo Chrome, Oscar Mondadori,<br />
2001.<br />
134
CERVERA, Rafa, Alaska y otras historias de la movida, Plaza & Janés<br />
Editores, 2002.<br />
Internet<br />
www.ateneodella<strong>birra</strong>.it<br />
www.area<strong>birra</strong>.it<br />
www.<strong>birra</strong>land.it<br />
www.marionegri.it<br />
www.winix.it<br />
www.vinoclub.info<br />
www.calodges.org<br />
www.dinodasandra.com<br />
www.multi<strong>birra</strong>.com<br />
www.zimbio.com<br />
www.inventorspot.com<br />
www.realbeer.com<br />
www.homebrewtalk.com<br />
www.sallys-place.com<br />
www.scaruffi.com<br />
…e naturalmente, Youtube e Wikipedia!<br />
135
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