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L'ultima birra e andiamo a casa (forse) (.pdf) - Maurizio Ferrarotti

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MAURIZIO FERRAROTTI<br />

MEXIA<br />

L’ULTIMA BIRRA E ANDIAMO A CASA<br />

(<strong>forse</strong>)<br />

La <strong>birra</strong> e la sua storia secondo un affezionato consumatore


…in una distorta stratosfera.<br />

2


Per Guido ‘Straker’ Pautasso, che ha<br />

avuto l’idea in una deprimente serata<br />

di fine agosto.<br />

E per tutti quelli che non ci sono più:<br />

Daniela, Piero, Sergino, Ferruccio,<br />

Gianni, Ron, Bon, Phil… Bruno...<br />

3


L’orzo e il luppolo fra crescere, oh Signore<br />

in abbondanza e della qualità migliore.<br />

D’estate a lungo il tempo sia clemente<br />

in modo che assetata sia la gente;<br />

riesca bene sempre la fermentazione<br />

della <strong>birra</strong> che si trova in produzione.<br />

Fa che il <strong>birra</strong>io, per la sua sostanza<br />

non abbia grane con la Guardia di Finanza.<br />

La tua benedizione sul di lui fervore<br />

e un poco di fortuna concedigli, Signore<br />

e in fine fa che i clienti siano pronti<br />

a pagare <strong>birra</strong> senza sconti.<br />

Schranka<br />

4


UNA BIRRA NON BASTA<br />

Una volta non basta di Jacqueline Susann: lessi questo libro a quindici<br />

anni, poco prima di bere la prima birrozza della mia vita. Fu mia sorella<br />

Danii a ordinarlo all’Euroclub. In quel tempo io ero un gracile capelluto<br />

timidissimo famelico consumatore di fantascienza, principalmente d’autori<br />

classici quali Isaac Asimov, Jack Williamson e Ray Bradbury, ma avevo<br />

appena scoperto Philip K. Dick. Sdraiato sul letto a gambe incrociate, i<br />

piedi nudi stracotti da interminabili partite a pallone giocate nelle strade<br />

del quartiere ispirandomi agli idoli del momento (Zico, D’Amico, Keegan,<br />

Woodcock), leggevo e rileggevo senza requie Millemondinverno 1975,<br />

supplemento a Urania n. 684 che includeva ben tre sconvolgenti romanzi<br />

completi dell’immenso scrittore americano: Cronache del dopobomba, La<br />

città sostituita e L’uomo dei giochi a premi, quest’ultimo recentemente<br />

ristampato da Fanucci Editore col titolo Tempo fuori squadra – traduzione<br />

pressoché fedele dell’originale Time out of joint.<br />

C’era già stato un libro di Jackie Susann in <strong>casa</strong> nostra: La macchina<br />

dell’amore, in edizione tascabile della Garzanti. Ma io l’avevo soltanto<br />

intravisto. Di tanto in tanto mio padre alleggeriva le librerie risparmiando,<br />

è ovvio, i classici a detrimento della “spazzatura battuta a macchina” –<br />

capirai, per ogni libro epurato n’acquistava due! Così mi era rimasta una<br />

fortissima curiosità per questa scrittrice di storie definite “a tinte forti”. Mi<br />

premeva sapere se vi fosse in questo mondo qualcuno capace di comporre<br />

un’opera più sporcacciona di Emmanuelle, di cui papà possedeva una<br />

rarissima copia fuorilegge: la risposta, naturalmente, è sì. Dopotutto io non<br />

conoscevo ancora Terry Southern, né Anaïs Nin… neppure Jackie Collins<br />

e Harold Robbins (due fangosissimi imbrattacarte ingrassati da immeritato<br />

successo, e al diavolo l’invidia), se è per quello. Candy (Candy) per me<br />

era uno smanceroso cartoon giapponese; come quasi tutti gli ultrà in erba,<br />

io sballavo per Lupin III.<br />

In ogni modo, non tutti i volumi in eccedenza finivano nei cassonetti della<br />

nettezza urbana: alcuni, diciamo le vaccate de luxe, scendevano giù in<br />

cantina a ingiallire tra scarti di maioliche e portabagagli risalenti all’epoca<br />

del boom economico. Passato circa un lustro che l’ebbi letto (per ben due<br />

volte, sarà stata la tempesta ormonale puberale), Una volta non basta fu<br />

infilato da papà in un sacchetto di plastica del PAM insieme con altri<br />

libracci e io non m’interessai minimamente al suo destino – intrippato<br />

5


com’ero da un’antologia di tre romanzi del prodigioso maestro di stile<br />

Roger Zelazny. Il Signore dei Sogni…<br />

Gli occhi di Eileen Shallot, velati e amorfi come quelli di una statua, lo cercarono<br />

ancora.<br />

“La vostra è una situazione davvero unica” commentò Render. “non c’è mai stato<br />

un neuropartecipazionista affetto da cecità congenita, per evidenti ragioni. Dovrei<br />

considerare tutti gli aspetti della situazione prima di potervi consigliare. Ora<br />

mangiamo, però. Muoio di fame.”<br />

“Benissimo. Ma il fatto che sia cieca non significa che non abbia mai visto.”<br />

Render non le chiese cosa voleva dire con queste parole, perché ora davanti a lui<br />

stavano delle costolette di prima scelta e una bottiglia di Chambertin. Tuttavia,<br />

quando Eileen alzò da sotto il tavolo la mano sinistra, trovò il tempo di notare<br />

che non portava anelli.<br />

Una decina d’anni fa, sceso in apnea nelle profondità del condominio per<br />

riportare alla superficie due pintoni di Nebbiolo, fui preso dall’impulso di<br />

aprire una vecchia credenza: ooh la la! L’ultimo best seller di Jacqueline<br />

Susann – morta di cancro poco tempo dopo averlo scritto – era lì dentro, in<br />

discrete condizioni, compartendo la sua salnitrosa prigione con venerandi<br />

Oscar settimanali della Mondadori e raccolte di fumetti horror dello Zio<br />

Tibia. Decisi di concedergli un momento di luce solare e aria fresca; e,<br />

fatalmente, finii per rileggerlo.<br />

Modernariato, [mo-der-na-rià-to] s.m. Insieme di oggetti di produzione<br />

artigianale o industriale, di un certo valore estetico, prodotti nel sec. XX;<br />

commercio e collezionismo di tali oggetti.<br />

Venerdì 22 agosto 20**, h 04.00 p.m., Central European Time. A dire<br />

la verità l’oggetto in questione, Una volta non basta, è piuttosto bruttino a<br />

vedersi. Svanitane in un buco nero quantico la sovraccoperta, si presenta<br />

ora al mio sguardo arrossato (ieri sera ho fatto bisboccia in un locale del<br />

Quadrilatero, maledetti compleanni!) in tutta la sua discinta insignificanza<br />

color mattone da case popolari in periferia, titolo e cognome dell’autrice<br />

impressi in carminio sul dorso, “finito di stampare il 12 gennaio 1979<br />

dalla Aldo Garzanti Editore s.p.a. Milano”.<br />

Quanto al valore letterario, giudicato col classicissimo senno di poi… Be’,<br />

al giorno d’oggi vengono date alle stampe e sbolognate alle masse cose<br />

infinitamente peggiori: i libri di Emilio Fede e Bruno Vespa e Giampiero<br />

6


Mughini, per esempio; Federico Moccia; le biografie da supermercato dei<br />

cosiddetti tronisti di Maria “la Sanguinaria” De Filippi; e soprattutto tutte<br />

quelle sciroccate pestilenziali nonché sponsorizzatissime autrici (autrici?)<br />

di chick-lit. Messa a confronto con Melissa P., tanto per fare un nome a<br />

caso, Jacqueline Susann pare Edith Warthon. Forse un giorno Melissa ci<br />

beneficherà (ehm) di un romanzo intitolato La valle delle spazzole; ma per<br />

allora io sarò già scappato su Titano a pescare trote etanizzate dal lago<br />

Ontario bevendo <strong>birra</strong> criovulcanica.<br />

Il personaggio centrale di Once is not enough (questo il titolo originale<br />

dell’opera), è January Wayne, bellissima e ricca fanciulla americana col<br />

complesso di Elettra. Non è il luogo, qui, per entrare nei dettagli della<br />

scabrosa trama: se v’interessa, andate a cercarvi il corrispondente articolo<br />

su Wikipedia. Io, per me, voglio soltanto farvi leggere questo passaggio,<br />

per me fondamentale:<br />

“Ma so bene cosa brucia veramente a Keith (il suo fidanzato hippy fotografo,<br />

N.d.A.): il fatto che io guadagno trentacinquemila dollari l’anno più la gratifica<br />

natalizia mentre lui ne incassa tremilacinquecento compresa l’indennità di<br />

disoccupazione. Per lui io sono il tipico esemplare del Sistema. Sono talmente<br />

confusa. Vedi, ho cercato di adeguarmi. Ho frequentato i suoi amici. Ho bevuto<br />

<strong>birra</strong> invece dei martini. Mi sono messa i blue jeans invece di normali pantaloni.<br />

Ma non c’è una legge che mi imponga di fare una vita da barboni. Io tiro fuori<br />

quattrocento dollari al mese per il mio appartamento. È in un bel quartiere, in un<br />

bel palazzo, con custode e addetti all’ascensore. Tutte le mattine arrivo in ufficio<br />

prima delle otto e a volte ci resto fino a mezzanotte. Mi sono guadagnata il diritto<br />

ad avere una <strong>casa</strong> piacevole a cui tornare. Perché dovrei rinunciarvi e lavorare<br />

per qualche giornalucolo underground e farmi pagare cinquanta dollari a pezzo?”<br />

Chi parla è la migliore amica di January, Linda Riggs, caporedattrice<br />

rampante dell’immaginaria rivista Gloss, ex bruttina prodigio della scuola<br />

di Miss Haddon trasformata in levigata strafica da ferrei regimi e chirurgia<br />

plastica. Qualche capitolo più in là costei si autodefinisce orgogliosamente<br />

“la miglior bocchinara di New York”, e racconta alla stupenda bamboccia<br />

di usare lo sperma dei suoi numerosi amanti come maschera di bellezza,<br />

arrivando perfino a servire loro un lavoretto di mano (in inglese, handjob,<br />

ma molti/molte di voi lo sanno già) “e prima che arrivino all’esplosione io<br />

sono pronta lì con un bicchiere, poi lo verso in una bottiglia e piazzo il<br />

tutto in frigorifero”. Veramente un personaggio edificante questa Linda,<br />

ancorché abbastanza credibile…<br />

7


Ma sto divagando. Torniamo alle lamentazioni sul fidanzato fricchettone.<br />

Una frase in particolare mi colpì in mezzo alla fronte alla prima lettura:<br />

Ho bevuto <strong>birra</strong> invece dei martini. Mumble. Ne dedussi che nelle classi<br />

alte dell’America pre-Watergate la <strong>birra</strong> fosse considerata una bevanda da<br />

beatnik cenciosi e da operai; da questa sponda del grande oceano, invece,<br />

era celebrata da meravigliose fanciulle vichinghe ammiccanti dal tubo<br />

catodico o dai cartelloni pubblicitari. Neanche la forma più perniciosa di<br />

Alzheimer potrà cancellarmi dalla memoria l’immagine quasi iconica in<br />

bianco e nero di Solvi Stubing con la tenuta da marinaretto: “Chiamami<br />

Peroni, sarò la tua <strong>birra</strong>.”<br />

Alla salute! Ma io ero ancora vergine: sia dal punto di vista sessuale, sia<br />

da quello etilico. Le bevande alcoliche in toto m’incutevano un timore<br />

arcano, primordiale; a quindici anni io mi sbronzavo di cedrata, orzata e<br />

appiccicoso sciroppo d’amarena diluito in acqua del rubinetto. Quanto alle<br />

ragazze, le odiavo a morte (non tutte, però, come racconterò più avanti) e<br />

per contrappasso la maggior parte di loro mi considerava, senza mezzi<br />

termini, una tazza del cesso su due gambe vaccine. Per di più non mi ero<br />

mai neanche fatto una sega. Ero neutrosexual.<br />

Finalmente, nella torrida estate del 1981, mi risolsi a perdere entrambe le<br />

virtù.<br />

Guarda la troietta tedesca come si struscia contro quel tamarro bolognese<br />

con l’orecchino da pirata e la permanente. Ieri sera da me non ha voluto<br />

neanche farsi baciare sulle guanciotte. Zio fanale, ma faccio così ribrezzo?<br />

Cos’è, ho i denti marci? L’alito cattivo? Il nasone alla Bob Rock?<br />

’Fanculo. Mo’ me ne scappo da questa purulenta discoteca all’aperto. Non<br />

sopporto più ’sto lento del cazzo, Please don’t go. Almeno mi mettessero<br />

Shandi qualche dannata volta: certo non sarà la più bella canzone dei Kiss,<br />

ma è diecimila molte meglio di ’sta lagna per cani morti. K.C. & The<br />

Sunshine Pizz.<br />

Stasera ho ben duemila lire in tasca, wow! È la volta buona che mi bevo<br />

una <strong>birra</strong>. ’Fanculo all’Emilia Romagna.<br />

Mi addentro in questo buco di paese e varco un’altra volta la soglia del bar<br />

tabacchi dove solitamente do inizio a ogni mia inutile serata vacanziera<br />

sparandomi quattro-cinque partite di fila al bigliardino spacciandomela da<br />

pinball wizard; chiedo e ottengo senza storie (ho sedici anni e rotti ma ne<br />

dimostro almeno due di più, e poi sono cliente ormai, anche per le cicche)<br />

una Peroni in bottiglia, “no grazie non ho bisogno del bicchiere”, e ne<br />

8


ingollo una prima, cauta sorsata.<br />

Bleah. E questa sarebbe la bevanda alcolica più antica del mondo? Cristo,<br />

che brutti gusti abbiamo noi umani!<br />

Seconda sorsata, ancor più guardinga della prima. Be’, insomma, sembra<br />

di bere Orzoro frammisto a ghiaccio estratto dai poli di Marte brulicante di<br />

microbi con le antenne e le pistole a raggi, ma non è poi così male… bella<br />

fresca. Mi sa che appena finita questa me ne faccio un’altra.<br />

Così è questa l’ubriachezza. Ogni cosa deformata come nel tunnel degli<br />

specchi al luna-park, compresi i pensieri. Che spasso. Averlo fatto prima,<br />

cazzarola! Sempre a farmi paranoie su paranoie per qualsiasi scoreggia. A<br />

proposito, adesso ne tiro una bella. Prrrr. Tu che cazzo c’hai da guardare?<br />

Problemi, perplessità? Ah, sei crucco. Non capire, nein? Mo’ te ne becchi<br />

un’altra più forte. Prrrrrrrrrr. E col saluto romano se vedemo, Rommel.<br />

Approdo in campeggio alla tenda famigliare neanche io so come. I miei<br />

non ci sono, torneranno tardi da Ravenna con tutta la banda. La testa mi<br />

gira come un frullatore Girmi. “Porca puttana troia, sono proprio ubriaco”<br />

biascico, tentando di accendermi una sigaretta, malfermo sulle zampette di<br />

pollo. “Sbronzo in questa maledetta pineta marittima infestata di zanzare.”<br />

“Se vuoi ti faccio un caffè” bisbiglia qualcuno dalla semioscurità della<br />

veranda di fronte, la tenda di quei bresciani che non riescono mai, dico<br />

mai a pronunciare una frase senza includervi un vocabolo sconcio o una<br />

bestemmia. Dei villani di prima categoria…<br />

“Un bel caffè forte.”<br />

“Come?”<br />

“Sssh, non urlare, diocristo, che è tardi.” Dev’essere la figlia di quegli<br />

ignoranti, Marcella mi sembra che si chiami. È tracagnotta, ma ben dotata<br />

e sempre tutta sculettante nel suo bikini color carta da zucchero; ora però<br />

avrei bisogno di un paio d’occhiali ai raggi infrarossi per apprezzarne le<br />

tette. “Lo vuoi questo caffè o no? Sei ridotto uno straccio. Se i tuoi ti<br />

vedono così ti scomunicano.”<br />

Senti chi parla: la figlia di Belzebù. O di Rasputin, dato l’accento. “Sì…<br />

va bene. Grazie.” Getto la sigaretta a terra senza neppure averla accesa. Se<br />

la fumeranno le formiche sottoterra. Eh eh, ne avranno per un anno intero.<br />

Qualche minuto o secolo dopo mi ritrovo disteso su un materasso ad aria;<br />

Marcella, o per meglio dire la sua formosa silhouette (probabilmente era<br />

destino che il mio sverginamento dovesse avvenire in condizione precarie<br />

di visibilità e stato mentale) incombe su di me. Ho l’inguine allo scoperto.<br />

“Ehi, ma…” protesto debolmente. E il caffè? Non ne sento il gusto in<br />

9


occa. “Ma sei nuda?”<br />

Una mano pienotta mi piomba sulla bocca. “Zitto.” L’altra, sottrattami alla<br />

visione precaria dalla schiena inarcata della squinzia, me lo afferra; in un<br />

istante, mi accorgo di averlo duro come mai è stato. “E stai giù tranquillo.<br />

Anche i miei torneranno tardi, mooolto tardi. Penso a tutto io.”<br />

Effettivamente. Poco prima di abbandonarmi alla prima scopata della mia<br />

vita, non posso fare a meno di chiedermi: “Sarà mica che anche questa qui<br />

lo usa come cera di cupra?”<br />

Per i posteri morbosi, come collutorio…<br />

Com’è naturale, negli anni immediatamente successivi al mio farraginoso<br />

ingresso nella “società degli uomini” mi si aprirono nuovissimi frizzanti<br />

orizzonti. Divenni giovane ancorché saltuario cliente di diverse birrerie<br />

torinesi (una su tutte, la Rosselli, situata nell’omonimo corso e tuttora<br />

funzionante) e assaggiai altre bevande, tra le quali:<br />

– Moretti. Birra artigianale rinomata in tutto il mondo fatta con acqua<br />

pura e grano mietuto nei dintorni di Udine, dove Luigi Moretti fondò<br />

la sua fabbrica nel 1859. Luminosa, rinfrescante e, soprattutto, molto<br />

economica. E io ai tempi non è che navigassi nel grano… pardon,<br />

nell’oro.<br />

– Budweiser. È una lager 100% naturale prodotta con una mistura di<br />

riso e orzo che ha un contenuto alcolico del 5%. Negli Stati Uniti è<br />

un’istituzione, nettamente la marca più popolare. La lager beer è un<br />

beveraggio leggero e spumeggiante che prende il suo nome dal tedesco<br />

lagern, che significa “immagazzinare”. Nel 600 i monaci scoprirono<br />

che la loro <strong>birra</strong> d’estate si manteneva meglio se conservata in fresche<br />

grotte di montagna, e che si addolciva rimanendovi per un tempo. La<br />

pratica di invecchiare la <strong>birra</strong> si sviluppò da quella scoperta. E bravi i<br />

nostri Fratelli <strong>birra</strong>ioli.<br />

– Abbaye Bonne Espérance. I belgi sono grandi produttori di <strong>birra</strong>,<br />

tanto per la qualità quanto per la varietà e quantità di bevande che<br />

elaborano. Quantunque a volte si dedichino a produrre birre ad alta<br />

gradazione e con un carattere corposo, quasi vicino al vino. Come la<br />

Abbaye Bonne Esperance, una ale (definizione generica per le birre a<br />

fermentazione alta) di abbazia dal piacevole aroma di miele, colore<br />

ambrato e gusto luppolato con sfumature agrumate e di lievito. Una<br />

<strong>birra</strong> da intenditori, ma certe mazzate mi dava!<br />

10


– Kwak. Altra <strong>birra</strong> belga, è una doppio malto ad alta gradazione, 8%.<br />

Viene servita in un bicchiere detto “del cocchiere”, sottile e slanciato,<br />

posto in un apposito supporto di legno, la cui impugnatura evita di<br />

scaldare la <strong>birra</strong> con le manacce. Questa qui invece mi cagionava certe<br />

sbronze piene d’energia cinetica, e se eravamo tutti sulla stessa onda<br />

alcolica ne scaturivano dei partitoni notturni da fare invidia alla stessa<br />

Coppa dei Campioni. Altro che epo.<br />

Educazione etilica e rock’n’roll procedevano di pari passo. Quella sessuale<br />

zoppicava vistosamente, ma perlomeno (finalmente…) stavo smettendo di<br />

provare avversione verso le rappresentanti del sesso femminile; tanto che<br />

su una fiancata dell’armadietto ove riponevo i libri di scuola e gli arnesi<br />

per la scrittura avevo appiccicato gli adesivi di Ciao 2001 dei Van Halen e<br />

di Sade Adu fianco a fianco. Yin e Yang. Sade era indiscutibilmente uno<br />

schianto di femmina, stracolma di classe, ma dopo che ebbi visto Valerie<br />

Kaprisky in Breathless (All’ultimo respiro) iniziarono a filarmi le brunette<br />

caucasiche con gli occhi neri profondi e i labbroni. In sostanza, sebbene<br />

siano passati tre decenni da allora, non ho cambiato gusti.<br />

Musicalmente, oltre alla pirotecnica band californiana che aveva ormai<br />

soppiantato i Kiss in cima alle mie preferenze heavy, mi ero innamorato<br />

dei Faces, il gruppo di Rod Stewart e Ron Wood prima che quest’ultimo si<br />

unisse ai Rolling Stones e Rod “The Mod” si consegnasse anima e ciuffo a<br />

un sound smaccatamente più commerciale. Il loro ruspante, essenziale,<br />

rock rhythm’n’blues aveva avuto una considerevole influenza sul punkrock<br />

(Steve Jones dei Sex Pistols era un loro fervido fan) nonché sul glam<br />

& alternative rock americano degli anni Ottanta. Se ne percepisce un’eco<br />

perfino nelle ballate melodrammatiche dei Pearl Jam. Nemmeno l’ultima<br />

generazione di rockettari anglosassoni e scandinavi è rimasta immune al<br />

fascino emanato da quei suoni ruvidi e spontanei: i giovani australiani Jet<br />

sono pratica un affezionatissimo clone delle Facce, con nuances di Who<br />

Rolling Stones e Sweet.<br />

Oltre a ciò, Rod Steward & The Faces erano passati alla storia per la loro<br />

alcohol camaraderie, lo smodato consumo collettivo di beveraggi alcolici<br />

prima durante e dopo i concerti – un critico musicale chiamò il loro genere<br />

booze rock, baldoria rock. I puristi non li volevano ascoltare neppure coi<br />

tappi da Reparto Presse della Fiat Mirafiori ben ficcati nelle orecchie, li<br />

consideravano un gruppaccio trasandato. E di recente navigando nel mare<br />

magnum internettiano mi sono imbattuto nella scheda a essi dedicata da<br />

11


uno stimato musicologo italiano in cui il loro rock è definito “populista”.<br />

“Considera tutti i critici d’arte come inutili e pericolosi” è scritto nel<br />

Manifesto dei Futuristi. Diciamo un buon 90%. Nel restante 10% vi sono<br />

dei personaggi che senza ombra di dubbio mettono passione e competenza<br />

nel proprio lavoro, ma si tirano il moccio da far spavento, più che scrivere<br />

sfoggiano lessico. Come un altro recensore assai stimato che, a proposito<br />

dell’esordio dei Radiohead, scrive in una delle tante enciclopedie dedicate<br />

al rock: “Creep è uno psicodramma in amniocentesi grunge che macera<br />

l’alternanza tra strofe lente e arpeggiate e il ritornello a forte combustione<br />

introdotto con un indovinato effetto di chitarra.” E ancora, passando a<br />

commentare The Bends: “I Radiohead sanno fare della catarsi rock un<br />

umanesimo da stadio, dalle risonanze elettrolitiche di High and Dry e<br />

Fake Plastic Trees allo stato pre-embolia di The Bends fino alle modalità<br />

saltanti e antistatiche di Just che proiettano l’intersezione sfalsata delle<br />

chitarre in una distorta stratosfera.” The Bends mi piace molto: è un disco<br />

metafonetico, ormonatico, positronico. Suona come A nod is as good as a<br />

wink… to a blind horse dei Faces triturato e messo in un frullatore con due<br />

blister di Prozac.<br />

Nell’epoca in cui buona parte dei miei coetanei tentava disperatamente<br />

d’assomigliare a Robert Smith (un altro considerevole segmento a Nino<br />

D’Angelo, il resto si spartiva fra Tony Hadley, Nikki Sixx e Carmelo<br />

Zappulla) io mi ero fatto perfino acconciare i capelli in un facsimile della<br />

chioma a carciofo radioattivo di Ron Wood. Ma ogni santo pomeriggio e<br />

sera dovevo combattere una dura battaglia con Danii e suoi Duran Duran<br />

per il possesso del giradischi Falkland-Malvinas. E non sempre ne uscivo<br />

vincitore. Meno male che i miei m’avevano comprato il walkman, così<br />

potevo spararmi nelle orecchie tutto A nod is as good as a wink… sul 56 la<br />

mattina presto andando a scuola, e nei giorni in cui avevamo lezione al<br />

pomeriggio andare a zonzo per il centro all’ora di pranzo canticchiando<br />

Maybe I’m Amazed con una bottiglia di Heineken in mano, gelida come<br />

una notte sulla Luna. E scolarmene felicemente un’altra all’uscita da un<br />

tediosissimo sermone sui diodi Zener mimando i raspanti accordi iniziali<br />

di Borstal Boys.<br />

Una <strong>birra</strong> non basta.<br />

Le vele erano bianche sotto un sole che era un pulsante rosso che il servitore<br />

raggiunse velocemente e sfiorò.<br />

Cadde la notte.<br />

12


Figura 1. Una <strong>birra</strong> non basta...<br />

13


DIECIMILA ANNI DI SBRONZE<br />

La <strong>birra</strong> è quasi certamente la più vecchia bevanda alcolica del mondo. I<br />

Babilonesi e gli Egizi la fabbricavano più di 6000 anni fa. Gli Egei presero<br />

la ricetta dagli Egizi. La fabbricazione della <strong>birra</strong> si diffuse poi in tutto il<br />

Mediterraneo. Anche i Britanni, come no, facevano <strong>birra</strong> e ale: il 5000<br />

a.C. è la data cui risalgono i reperti di <strong>birra</strong> “fossile” ritrovati nelle isole<br />

Orcadi e quelli a Stonehenge. Nell’antica Cina, la <strong>birra</strong> era importante nei<br />

culti religiosi, funerali e altri rituali delle dinastie Xia, Shang e Zhou<br />

(2100-256 a.C.), ma dopo la dinastia Han essa perse la sua prominenza a<br />

vantaggio del huangjiu, il “vino giallo”: la produzione della <strong>birra</strong> non fu<br />

reintrodotta in Cina fino alla fine del XIX secolo, quando la Russia costruì<br />

una fabbrica ad Harbin, nel sud-est del paese.<br />

In Giappone, fatto culturalmente singolare, la <strong>birra</strong> era sconosciuta fino a<br />

due secoli fa: furono gli Olandesi ad aprirvi le prime birrerie per i marinai<br />

che sfacchinavano sulla rotta mercantile fra la Terra del Sol Levante e<br />

l’Impero Olandese. Ora i giapponesi trincano <strong>birra</strong> a torrenti, la fabbricano<br />

e la esportano in tutto il globo. Ne ho assaggiate alcune marche e non sono<br />

malvage: la Asahi, per citarne una. Fermo restando che c’è chi ritiene il<br />

sakè una <strong>birra</strong>.<br />

Il festino, o la festina, come dicono certi miei amici vicentini (specialisti<br />

nell’organizzazione di baccanali memorabili: le loro Feste del Recioto<br />

sono storia consacrata del Triveneto), è innato nella razza umana. Molto<br />

prima dell’invenzione delle bevande fermentate, che secondo uno studio<br />

condotto da un team di brillanti archeologi dell’Università di Manchester<br />

risalirebbe al 9000 a.C., l’uomo utilizzava le piante allucinogene per<br />

provocare una sorta d’ebbrezza conviviale; alcune pitture del Paleolitico<br />

superiore rappresenterebbero, a parere d’alcuni interpreti, delle visioni<br />

provocate dall’uso di queste piante. Un giorno o l’altro qualche esuberante<br />

archeologo britannico ritroverà in Siberia una bottiglia di <strong>birra</strong> pressoché<br />

intatta con l’etichetta stampata in una lingua sconosciuta incastonata in<br />

uno strato geologico risalente a duecentomila e rotti anni fa, testimonianza<br />

dell’esistenza di una remota civiltà altamente sviluppata, cancellata <strong>forse</strong><br />

da un terribile conflitto nucleare. Mi hanno sempre affascinato le storie<br />

post-atomiche; il secondo romanzo dell’antologia di Zelazny, La pista<br />

dell’orrore, è una delle più belle mai scritte. Hell Tanner, ex membro di<br />

una gang motociclistica, parte da Los Angeles per Boston per portarvi una<br />

14


cassa di siero contro le malattie da radiazioni. Lungo la strada affronterà i<br />

pericoli di un mondo sconvolto dai postumi della Terza Guerra Mondiale:<br />

venti turbinosi che rendono problematico qualsiasi spostamento, tempeste,<br />

crateri radioattivi, animali mutati dalle esplosioni in mostri terrificanti,<br />

esseri umani regrediti alla barbarie. E da biker violento e sprezzante si<br />

trasformerà in indomito salvatore dell’umanità.<br />

Hell ricordò la sua iniziazione. Aveva sedici anni. Avevano fatto passare il<br />

secchio, e lui era rimasto in piedi, eretto e fiero, vestito del suo giubbotto nuovo<br />

coperto di borchie, e per quanto un po’ ubriaco non aveva barcollato. A uno a<br />

uno, tutti avevano pisciato nel secchio. Poi glielo avevano rovesciato in testa.<br />

Quello era stato il battesimo, e lui era diventato un Angel. Aveva tenuto addosso<br />

gli stessi vestiti per un anno intero, e dopo altri due anni, quando lui ne aveva<br />

diciannove, era diventato il numero uno, il capo. Li aveva guidati nelle scorrerie,<br />

e tutti conoscevano il suo nome, e si scansavano quando lo vedevano arrivare.<br />

Lui era Hell, e la sua banda era padrona della Costa dei Barbari. Andavano dove<br />

volevano e facevano quello che volevano. Poi lui era finito nei guai, e i giorni<br />

neri erano scesi sulla Costa. La città era perpetuamente iniziata, come lui, dagli<br />

escrementi del cielo.<br />

Dal futuro ipotetico al passato remoto. Nell’antica Mesopotamia vi era già<br />

una diversificazione in tipologie di <strong>birra</strong> prodotte: esistevano birre chiare,<br />

scure, rosse, dolci, aromatiche. A Babilonia se ne producevano addirittura<br />

venti qualità, ma le più apprezzate erano quattro, e dai nomi decisamente<br />

klingoniani: bi-se-bar, una <strong>birra</strong> d’orzo, bi-gig, una <strong>birra</strong> scura normale,<br />

bi-gig-dug-ga, una <strong>birra</strong> scura di eccelsa qualità, e bi-kal, la migliore.<br />

Secondo i popoli mesopotamici e non solo, la società divina riproduceva<br />

alcune prerogative di quella umana. Nel poema babilonese della creazione<br />

(Enûma elish), allorquando gli dèi cercano un campione coraggioso da<br />

mandare a combattere contro la dea Tiamat che intende annientarli, il dio<br />

Anshar si incarica di riunirli in un convito:<br />

Davanti ad Anshar essi penetrarono, furono riempiti di gioia, si abbracciarono fra<br />

di loro, si assisero in consiglio, presero la parola, si sedettero al festino,<br />

mangiarono cereali, si dissetarono con <strong>birra</strong> forte, e di dolce cervogia riempirono<br />

le loro coppe. A furia di bere <strong>birra</strong> avevano il corpo sazio, si sentivano fiacchi, il<br />

loro cuore era colmo di gioia; allora di Marduk, il loro vendicatore, fissarono il<br />

destino.<br />

15


Nell’Egitto antico la <strong>birra</strong> si preparava mettendo a fermentare al caldo, in<br />

acqua e grano schiacciato, pagnotte d’orzo o di grano mal cotte per salvare<br />

gli enzimi della fermentazione; il liquido denso veniva filtrato e in seguito<br />

lasciato depositare entro giare di terracotta. Gli Egizi fabbricavano <strong>birra</strong><br />

chiara, zythum, rossa, curmy, e la mistica sà; inoltre consumavano <strong>birra</strong><br />

“siriana”, anche se non è ancora ben chiaro se importata o fabbricata. Le<br />

anfore per la <strong>birra</strong> erano decorate con ghirlande.<br />

Spostiamoci in avanti con la nostra ebbra macchina del tempo fino all’alto<br />

Medioevo europeo. In quest’epoca assistiamo all’affermazione del vino<br />

come bevanda quotidiana oltre che di pregio. La <strong>birra</strong>, ancora ignara del<br />

luppolo (il primo atto ufficiale in cui si menziona questa sostanza amara<br />

estratta dai fiori di una pianta rampicante appartenente alla famiglia delle<br />

Cannabacee, un’ordinanza emanata dal prevosto di Parigi per disciplinare<br />

la vendita di <strong>birra</strong>, risale al 1435), era la bevanda dei germani, “barbara e<br />

pagana”, in contrasto con la sacralità cristiana del vino. Figuratevi: così,<br />

tanto per contenere la sovrappopolazione, i Germani talvolta si sfidavano a<br />

colpi di spada in un rituale dedicato al dio Thyr, la Wappentanz, al termine<br />

della quale i sopravvissuti si storcevano come dei fegatelli! Eppure, com’è<br />

universalmente risaputo, i monaci non la disdegnavano, tanto da produrne<br />

in abbondanti quantità a uso proprio e delle migliaia di pellegrini che essi<br />

ospitavano nei monasteri. Il celeberrimo monastero di San Gallo aveva<br />

nientemeno che tre diverse fabbriche di <strong>birra</strong>: una per la <strong>birra</strong> più leggera<br />

destinata ai pellegrini (sic), una per quella di media gradazione, chiara e<br />

scura, che consumavano i monaci e i famigli del monastero, e una, infine,<br />

per le birre de luxe, da offrire agli ospiti di riguardo.<br />

L’intero periodo medievale è contrassegnato da una profonda diffidenza<br />

nei confronti dell’acqua come bevanda, poiché possibile portatrice di<br />

malattie anche mortali. Qui, siate indulgenti, ma mi scappa da ridere… c’è<br />

una coppia spagnola di mia conoscenza la cui peraltro ospitale dimora è<br />

off-limits per l’acqua minerale: lui trinca solo vino, <strong>birra</strong> e superalcolici,<br />

lei Coca Cola light e limonata (consuma alcolici solamente quando esce a<br />

spettegolare con le amiche del cuore: scotch con un cubetto di ghiaccio).<br />

Cosicché quand’ero loro ospite e mi offrivo per andare a fare la spesa al<br />

supermercato compravo l’acqua solo per me; naturale per di più, poiché in<br />

Spagna le acque minerali frizzanti sono imbevibili. In particolar modo la<br />

Vichy Catalan: è come bersi uno sgorgo imbottigliato di Old Faithful, il<br />

famoso geyser di Yellowstone. Tuttavia gli spagnoli prediligono un’altra<br />

robetta niente male quanto a contenuto gassoso: la Casera. E la utilizzano<br />

16


addirittura per allungare il vin ordinaire – certi Rioja scuri e spessi come<br />

inchiostro di china serviti nei menù del giorno a 10 €. Paese che vai,<br />

costumanze barbare che trovi.<br />

In medias res. Nell’Europa continentale del XVI secolo, la <strong>birra</strong> di luppolo<br />

era già un prodotto semi-industriale, preparato in fabbrica da artigiani<br />

forniti di titoli. Nelle isole britanniche la <strong>birra</strong> di fabbricazione domestica<br />

sopravvisse fino al XVIII secolo: bastian cuntrari inveterati, gli inglesi. In<br />

certe regioni come l’Alsazia, nonostante il suo status culturale d’inferiorità<br />

nei confronti del vino, era la bevanda popolare delle città e delle osterie.<br />

Ciononostante nella seconda metà del XVIII secolo l’alto prezzo del vino<br />

permise alla <strong>birra</strong> di irrigare finanche le gole assetate dei contadini. E i<br />

consumi pro capite, quantunque in maniera disomogenea secondo le aree<br />

geografiche e le congiunture economiche, crebbero vertiginosamente sino<br />

a oggi.<br />

Vinum est donatio Dei, cervisia traditio humana. In passato i contadini<br />

della Norvegia producevano, nei loro casolari, due tipi di <strong>birra</strong>: una più<br />

leggera, da consumare durante i lavori nei mesi estivi, e una più forte, per<br />

le feste natalizie, i matrimoni, le nascite e addirittura i funerali. Era molto<br />

diffusa la credenza che le figlie d’Eva, specialmente durante alcuni giorni<br />

del mese, esercitassero un’influenza negativa sul lievito. Esso inoltre era<br />

ritenuto particolarmente “suscettibile” allo sbattimento delle porte e alle<br />

vibrazioni del pavimento.<br />

Sempre nel buon tempo passato europeo, se un giovanotto aveva deciso di<br />

conquistare i favori di una pulzella, doveva dar prova al di colei padre di<br />

poter montare un cavallo in stato d’ebbrezza. Con la <strong>birra</strong> s’irroravano i<br />

campi all’inizio prima dell’aratura dopo il gelo invernale; lo stesso rituale<br />

era ripetuto al momento del raccolto, della trebbiatura e infine della nuova<br />

semina.<br />

“Una <strong>birra</strong> forte, un tabacco profumato e una femmina, questo è piacere.”<br />

Goethe dixit. Dal suo epistolario si apprende che la <strong>birra</strong> prodotta a Lipsia<br />

(“la piccola Parigi”) era di povera qualità: perciò la si acquistava da fuori e<br />

la si beveva allungata con acqua. Da buon alemanno, Goethe era un<br />

<strong>birra</strong>iolo: dapprima aficionado alle equilibrate birre di Francoforte, poi si<br />

assuefece a quelle amare di Merseburgo, apprezzò la Gose – una <strong>birra</strong> a<br />

fermentazione spontanea che ancor oggi viene prodotta in Belgio con il<br />

nome di “Gueuze”, bevuta anche questa – cui si aggiungeva una fettina di<br />

limone, e assaggiò perfino la Bavaroise, una sciccheria che era servita<br />

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calda (sic!) in tazzine al caffè Beyer.<br />

E come tacere sui sovrani, le roi le vent! A quart of ale is a dish for a king,<br />

sosteneva Shakespeare. Un litro di <strong>birra</strong> è degno di un re. Infatti, una<br />

leggenda teutonica attribuisce a Gambrinus, mitico re germanico, proprio<br />

l’invenzione della bevanda nazionale intorno all’anno 750, benché è<br />

provato che in quella regione essa fosse già ben conosciuta e consumata<br />

abbondantemente. Re Alfredo d’Inghilterra, passato alla storia per aver<br />

definitivamente sconfitto i Danesi nell’anno 814 dopo secoli di battaglie,<br />

fu un famoso collezionista nonché provetto produttore di <strong>birra</strong>. Alla corte<br />

di Carlo VI non mancava mai la <strong>birra</strong> a tavola. Federico II il Grande fu un<br />

grande sostenitore dell’arte <strong>birra</strong>ia. Riccardo d’Inghilterra usava donare<br />

agli altri re fusti di <strong>birra</strong>. A Bismarck regalavano barili come se piovesse –<br />

cosa che a lui faceva immenso piacere, essendo tutt’altro che astemio;<br />

certamente la <strong>birra</strong> stimolava le sue capacità creative in ambito politico<br />

internazionale, come lo stratagemma adottato con il Telegramma di Ems<br />

ebbe a dimostrare.<br />

E con un ultimo colpo al motore tachionico veniamo finalmente all’Italia.<br />

Nell’anno 83 d.C. Agricola, governatore della Britannia, tornò a Roma<br />

portandosi dietro tre mastri <strong>birra</strong>i da Glevum (l’odierna Gloucester) e aprì<br />

ciò che potremmo definire il primo pub della Penisola. Le prime fabbriche<br />

di <strong>birra</strong> risalgono a un momento storico notevolmente posteriore, gli inizi<br />

dell’Ottocento; si può affermare che la <strong>birra</strong> nel nostro paese nacque al<br />

Nord, in Piemonte e in Lombardia ma anche nel Veneto. Nel 1789 tal<br />

Baldassarre Setter ottenne un privilegio per produrre <strong>birra</strong> in quel di Nizza<br />

Monferrato. Nel 1828 Franz Saverio Wührer aprì una fabbrica di <strong>birra</strong> a<br />

Brescia, e nel 1846 a Biella nacque la Menabrea.<br />

Un considerevole incremento della produzione si ebbe con l’avvento della<br />

conservazione a bassa temperatura. Ma la vera esplosione dell’industria<br />

<strong>birra</strong>ia avvenne durante il primo decennio del Novecento: si affermarono<br />

nomi ancora oggi in auge come il sopraccennato Wührer, Forst, Poretti,<br />

Peroni, Wunster, Dreher, Moretti. Pure, le aziende italiane si ritrovarono<br />

poi fare i conti con le pesanti imposizioni fiscali durante il fascismo e il<br />

secondo conflitto mondiale; finita la guerra, l’industria <strong>birra</strong>ia italiana<br />

dovette ricominciare da capo. Le fabbriche italiane impiegarono due<br />

decenni abbondanti per raggiungere il livello tecnologico delle concorrenti<br />

europee.<br />

Dal 1976 a oggi il consumo di <strong>birra</strong> in Italia è più che raddoppiato. È in<br />

corso una vera e propria rivoluzione culturale <strong>birra</strong>iola. In certo modo,<br />

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tutti i bevitori che come me sono nati negli anni Sessanta sono figli delle<br />

birrerie che proliferarono come funghi al principio degli Ottanta. Oggi a<br />

Torino la “bionda” si spilla perfino nella più oscura bettola di periferia.<br />

Nondimeno, sotto il profilo qualitativo e culturale, c’è ancora parecchio<br />

cammino da percorrere. Abbiamo surrogati di pub irlandesi che non sanno<br />

spillare la Guinness, locali per fighetti nei quali la <strong>birra</strong> è spillata da fusti<br />

aperti da troppi giorni e quindi ossidata ma tanto non importa, il posto è<br />

trendy!, <strong>birra</strong> servita in bicchieri di plastica (per motivi d’ordine pubblico,<br />

d’accordo, ma è una bestialità) o nei bicchieri sbagliati. Ciononostante il<br />

consumatore medio italiano va raffinandosi, sa quello che vuole, e sempre<br />

più di frequente sceglie i locali per bere basandosi su criteri qualitativi<br />

piuttosto che seguire bovinamente la moda del momento. Coerentemente<br />

l’industria italiana si è dovuta adeguare agli standard mondiali. In questi<br />

ultimi tempi il livello dei prodotti è aumentato in modo ragguardevole, con<br />

riscontri più che lusinghieri. Nel 2008 Evan Rail del New York Times,<br />

uno dei più noti autori di guide specializzate d’America, dopo aver vagato<br />

a lungo per le birrerie del Nord Italia ha incoronato la <strong>birra</strong> artigianale<br />

italiana come la migliore del mondo. Nella sua spumosa pagella spiccano<br />

ben tre birre piemontesi: la Elixir del Birrificio Baladin di Piozzo, demisec<br />

contraddistinta dall’uso di lievito di whisky in rifermentazione, la Daü<br />

del Troll di Vernante (ambo le località si trovano in provincia di Cuneo) e<br />

la Sticher del Grado Plato di Chieri, ispirata alla rara Sticke di Düsseldorf.<br />

Ah oh ehi, i suma sempre i mej!<br />

Era il 15 agosto 1995 quando nella birreria della famiglia Khoury a<br />

Taybeh, Cisgiordania, il solo villaggio palestinese interamente cristiano,<br />

venne spillata la prima omografa Taybeh, unica <strong>birra</strong> prodotta in Palestina.<br />

I Khoury sono originari dello stesso villaggio ma, come molti cristiani,<br />

emigrarono perché il processo di pace non decollava andando a stabilirsi a<br />

Boston, dove avviarono un fiorente commercio di vini e alcolici. Quando,<br />

nel 1993, furono firmati gli accordi di Oslo, credendo che sarebbe iniziata<br />

una nuova era, essi liquidarono i beni statunitensi incassando 1,2 milioni<br />

di dollari, tornarono a <strong>casa</strong> e li reinvestirono nella “fabbricazione di una<br />

<strong>birra</strong> palestinese”, con la benedizione di Arafat. David Khoury, al presente<br />

primo cittadino di Taybeh, tirò su la fabbrica acquistando i tini d’acciaio<br />

negli Stati Uniti e i malti in Francia e Belgio. La Taybeh produce 600 mila<br />

litri l’anno e gode di un quasi-monopolio a Ramallah. Per contro, dopo la<br />

costruzione della barriera israeliana, vendere alla vicina Gerusalemme è<br />

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diventato impossibile. Gli israeliani obbligano i distributori palestinesi a<br />

passare da un unico posto di blocco; per passarlo occorrono più di tre ore e<br />

spesso essi devono tornare indietro. Intanto gli israeliani distribuiscono le<br />

loro Maccabee e Goldstar dappertutto, passando da tutti i varchi. L’eterna<br />

questione mediorientale arreca danno finanche ai piaceri della <strong>birra</strong>.<br />

Da qualche anno, ogni primo fine settimana di ottobre, si celebra a Taybeh<br />

una sorta di Oktoberfest. Danze, musiche, prodotti dell’artigianato locale,<br />

spiedini e falafel, innaffiati di cervogia e di qualche insulto politico per<br />

rammentare l’obiettivo di “liberare la Palestina”. Con migliaia di cristiani<br />

e arabi – provenienti da Gerusalemme, Ramallah e dai Territori occupati –<br />

che si mescolano allegramente. Salute e insciallah.<br />

Venerdì 12 settembre 20**, h 02.10 p.m., CET. Biblioteca Ermenegildo<br />

“Gigin” Bernaulo. Fra qualche minuto, per staccare un po’ dalla tastiera,<br />

riprenderò in mano Please Kill Me – il punk americano nelle parole dei<br />

suoi protagonisti. Prima però voglio raccontarvi la storia di uno dei più<br />

smoderati bevitori – di <strong>birra</strong> e in generale di ogni beveraggio alcolico –<br />

mai esistiti su questa terra: Oliver Reed.<br />

Nato a Wimbledon, Londra, nel 1938, Robert Oliver Reed cominciò a far<br />

notare la sua corpulenta presenza in svariate produzioni cinematografiche<br />

inglesi dei tardi anni Cinquanta, senza avere alle gagliarde spalle alcun<br />

tirocinio d’attore, neanche teatrale: era un talento naturale. Nel 1969 i<br />

produttori di “007”Albert R. Broccoli e Harry Saltzman presero in esame<br />

la candidatura di Oliver Reed come possibile sostituto di Sean Connery,<br />

ma Reed non ottenne mai quella parte, probabilmente per la sua fisicità<br />

troppo rugbistica. Ciononostante le sue quotazioni crebbero ulteriormente;<br />

nella prima metà degli anni Settanta Oliver Reed fu un memorabile Athos<br />

in I Tre Moschettieri, recitò in Tommy, film basato sull’omonima rockopera<br />

degli Who (Reed era un grande amico di Keith Moon, il geniale e<br />

lunatico batterista della storica band inglese) e nel 1979 apparve in The<br />

Brood (La covata) di David Cronenberg, nel ruolo di un anticonformista<br />

psicoterapeuta inventore della “psicoplasmica”. Dai primi anni Ottanta la<br />

stella di Reed cominciò ad affievolirsi nonostante egli seguitasse a offrire<br />

pregevoli prove d’attore, come nell’immaginifico remake di Terry Gilliam<br />

Il barone di Munchausen. Il suo ultimo ruolo fu l’anziano rivenditore di<br />

schiavi Proximo ne Il Gladiatore, contrapposto all’astro in ascesa Russel<br />

Crowe: un ideale passaggio del testimone attoriale fra due personalità<br />

fortissime, per certi aspetti piuttosto simili. Oliver Reed morì a 61 anni di<br />

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un improvviso attacco di cuore durante una pausa nelle riprese del film a<br />

La Valletta, capitale dell’isola di Malta. Il Gladiatore uscì nel 2000<br />

riscotendo enorme successo in tutto il pianeta e Reed ricevette diverse<br />

nomination postume per l’ennesima eccellente performance.<br />

Dire che Oliver Reed beveva come una spugna è un pallido eufemismo.<br />

Oltrepassare i propri limiti in materia di consumo d’alcol rientrava nelle<br />

abitudini sociali di molte squadre di rugby negli anni Sessanta e Settanta, e<br />

al riguardo esistono svariati aneddoti sull’attore inglese e i suoi amici; il<br />

più celebre racconta che Reed bevve ben 106 pinte di <strong>birra</strong> durante l’addio<br />

al celibato previo al suo secondo matrimonio. Steve McQueen, un altro<br />

che non scherzava quanto a eccessi d’ogni genere, raccontò che nel 1973<br />

dovette volare in Inghilterra per discutere un progetto con Reed. I due,<br />

entrati subito in sintonia non solamente artistica, si spazzolarono tutti i pub<br />

di Londra, ma un certo punto Reed era talmente pieno che vomitò addosso<br />

a McQueen! Che la raccontò così: “Lo staff si precipitò attorno e mi trovò<br />

dei vestiti nuovi, ma non poterono darmi altre scarpe, così passai il resto<br />

della notte puzzando del vomito di Oliver Reed.”<br />

Nell’ultimo scorcio della sua vita la sua passione per le bevande alcoliche<br />

assunse tinte recisamente meno epiche. Reed era invitato in certi spettacoli<br />

televisivi specificamente per bere; quelli del programma The Word si<br />

spinsero addirittura a mettere delle bottiglie nel suo camerino affinché egli<br />

potesse essere filmato di nascosto mentre si ubriacava. Ciò la dice davvero<br />

lunga sulla moderna “etica” dei media.<br />

Al tempo della sua morte Oliver Reed era ormai gravemente intossicato.<br />

La sua ultima sbronza su questa terra fu colossale: tre bottiglie di rum<br />

Captain Morgan, otto bottiglie di <strong>birra</strong> e innumerevoli doppi di whisky<br />

Famous Grove. Oltre a questo batté a braccio di ferro cinque marinai della<br />

Royal Navy molto più giovani in un locale che da allora in suo onore si<br />

chiama Ollie’s Last Pub: tipico di lui, real-life macho fino alla fine.<br />

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Figura 2. Miller Lite per lei, Moretti per me da Zeke’s, Miami.<br />

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NAUSEA, OCCHI INIETTATI DI SANGUE<br />

Non abbiamo niente di meglio da fare / che guardare la tivù e farci un paio di<br />

birre.<br />

Black Flag, TV Party.<br />

Primavera 1988. Io freschissimo di congedo dal servizio militare, bramoso<br />

di denaro, di ragazze, d’alcol. Torino non era più grigia e scorbutica come<br />

l’avevo lasciata. Buck Rogers Macario si stava risvegliando dal suo lungo<br />

sonno metalmeccanico. Nuovi modi di dire comportarsi e vestire, nuova<br />

musica, nuovi ritrovi, nuovi cocktail da bere. E nuove droghe.<br />

“Ho sentito che nei pressi della Mole Antonelliana hanno aperto un nuovo<br />

disco bar” mi comunicò al telefono un pomeriggio Alex, colui che ritengo<br />

responsabile di avermi iniziato alla fede granata.<br />

“Ah sì? E come si chiama?”<br />

“Protex Blue. Sembra che al venerdì sera sia stracolmo di gnocca.”<br />

“Allora fisso che venerdì ci <strong>andiamo</strong>.”<br />

Con il cuore in mano, quello non era il vero nome del locale. Fra poco<br />

comprenderete perché ho ritenuto necessario cambiarlo. Il mio approccio<br />

col Protex Blue fu pessimo. Baldanzoso, suonai il campanello; la porta si<br />

spalancò con un cigolio di cardini bisognosi d’olio lubrificante e nell’uscio<br />

comparve un personaggio minuto dai tratti vagamente orientaleggianti: la<br />

sua faccina di tolla mi era tutt’altro che nuova. Era una classica figura di<br />

figlio di papà impegnato politicamente (o per meglio dire, impegnato a<br />

trarre vantaggio personale dalle proprie esperienze in ambito politico,<br />

come tutti quanti al porco mondo) che al liceo scientifico mi era sempre<br />

stato sulle scatole, più che altro per essere il miglior amico di Stefania B.,<br />

una biondina carinissima fanatica di Bruce “The Boss” Springsteen (di cui<br />

a me piaceva solo una canzone, Born to run, poiché dannatamente simile a<br />

X Offender dei Blondie) che al secondo anno mi aveva rifilato un due di<br />

picche silenzioso: ossia, aveva olimpicamente ignorato una lettera in cui io<br />

le dichiaravo tutto il mio amore: “Stanotte ti ho sognata” e puttanate del<br />

genere. E poi le donne stanno ancora a domandarsi, fra una puntata di Sex<br />

& The City e l’altra, perché gli uomini si siano ficcati il romanticismo nel<br />

buco del culo.<br />

“Teffera?” chiese costui, con quel suo peculiare difetto di pronuncia sulle<br />

esse. O non mi aveva riconosciuto o faceva finta.<br />

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“Tessera? Quale tessera?” replicai, con occhi da agnellino.<br />

“AICS. Per entrare qui ci vuole la teffera AICS.”<br />

“Io ce l’ho” disse Alex, spalleggiandomi.<br />

Io allargai le braccia al tempo che ammisi: “A me invece è scaduta. Posso<br />

rinnovarla qui, no?”<br />

“Ma certamente. Prego.” Okudera si fece da parte per lasciarci passare.<br />

Repressi a dura pena lo sgurz di chiedergli notizie della biondina, essendo<br />

comunque già ampiamente a conoscenza che si era sposata col campione<br />

di pallavolo del liceo.“Eccolo qui, sempre col quel fetusissimo pullover<br />

grigiastro infeltrito”, pensai guardandolo in tralice mentre compilavo il<br />

modulo apposito coi miei dati personali. “Per di più padrone, o perlomeno<br />

socio di un circolo. Certo che il mondo è proprio uno scherzo!”<br />

Dal banco delle tessere mediante una doppia rampa di scale si scendeva al<br />

locale vero e proprio: pareti lattescenti, luci soffuse, tavolini ovunque. La<br />

musica era prevalentemente negroide, ma il posto non sembrava fatto per<br />

ballare. Tuttavia quando il DJ mise su Dance Little Sister di Terence Trent<br />

D’Arby la stragrande maggioranza degli avventori si scosse dall’atavico<br />

bogianenismo e discostando bruscamente tavoli e sedie improvvisò una<br />

piccola pista da ballo dove scatenarsi. Il tutto sotto lo sguardo recisamente<br />

contrariato di Mr. Pullover Grigio. Tié.<br />

I miei gusti musicali si stavano evolvendo. Sotto naja mi ero rimpinzato di<br />

Stooges, Metallica, Aerosmith, Zodiac Mindwarp & The Love Reaction,<br />

Cult, New York Dolls, Joy Division, Alice Cooper, Celibate Rifles e Died<br />

Pretty – Free Dirt era il disco che ascoltavo più volentieri quand’ero<br />

stonato di qualsiasi cosa, apprezzavo moltissimo la disinibizione con cui<br />

quel gruppo australiano passava da tenebrosi ammodernamenti dei Doors<br />

a canzoni nettamente più ottimistiche effondenti una stupenda sensazione<br />

d’immensità solatia. Ora mi sorprendevo a battere il piedino ascoltando<br />

Terence Trent D’Arby, Sly & The Family Stone e Prince. Portavo i capelli<br />

più corti in un facsimile del taglio di Gigi Lentini ai suoi scintillanti esordi<br />

nel Torino FC, pantaloni attillati di velluto, stivali di finto pitone, pullover<br />

a girocollo e giubbotti di pelle. Bevevo sempre più <strong>birra</strong> e superalcolici.<br />

Al Protex Blue spillavano la Tennent’s Super. Prodotta a Edimburgo dalla<br />

Tennent Caledonian, questa bevanda di color giallo intenso con riflessi<br />

ramati può essere considerata come l’antesignana di tutte le strong lager<br />

scozzesi. Dolciastra all’inizio in bocca, poi fa sentire tutta la sua forza<br />

alcolica. E come. Uscivamo dal locale sempre storti, ridendo come degli<br />

imbecilli per la recidiva dabbenaggine dei baristi.<br />

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Eh sì. Già dal nostro primo ingresso avevamo percepito con la nostra<br />

sensibilità stradaiola come costoro, un folletto dagli occhi perennemente<br />

arrossati e una tizia tutta riccioli e spigoli, non fossero ciò che si dice dei<br />

prodigi d’attenzione: cosa piuttosto penalizzante, dovendo essi occuparsi<br />

altresì della cassa. D’altro canto noi eravamo basilarmente regolari: vale a<br />

dire, pagavamo ogni nostro giro alla consegna dei boccali. Una sera però<br />

quegli alternativi erano talmente stressati dalla ressa che già alla primera<br />

ronda non ci diedero retta e neppure alla seconda, come dicendo “non ora,<br />

siamo troppo indaffarati, pagateci dopo.” Allora Alex saltò su: “Cazzarola,<br />

ma se gli fanno tanto cagare i miei sudatissimi deca, gli pago soltanto una<br />

<strong>birra</strong> e basta. Che ne dite, eroi?”<br />

Bravi ragazzi o no, fummo tutti d’accordo. La manovra uscì così liscia che<br />

stentavamo a crederci. Quei due avevano veramente la testa nella nebulosa<br />

di Andromeda. Finimmo per approfittarne. Sarò bastardo, ma la spassavo<br />

un mondo alle spalle da passero di Mr. Pullover Grigio. In tre arrivammo a<br />

stabilire il record di quattro spumeggianti birre medie scolate pro capite<br />

senza sganciare una lira, appiccicandoci una ronda di tequila sunrise, che<br />

però pagammo – a mo’ di copertura, non fosse la volta buona che quei<br />

babbei trendisti se la intagliavano. Poi sghignazzanti, irriverenti, sbronzi,<br />

uscimmo dal Protex Blue per andare alla conquista di una notte ancora<br />

giovane.<br />

Forse può suonare come un’esagerazione da scrittore affermare che la mia<br />

città cambiò nel tempo che io stetti via per “servire la patria”; alcuni bei<br />

locali esistevano già prima – il Big, il Dottor Sax, il Metro, lo Studio 2.<br />

Nondimeno fu dal 1987 in avanti che a Torino avvenne l’esplosione del<br />

nightclubbing, finanche per il consistente incremento dell’offerta. Oggi la<br />

chiamano movida e nelle serate di fine settimana è un’impresa attraccare<br />

al molo di qualsiasi bar del centro per ordinare da bere, ma nei primi anni<br />

Ottanta la gente usciva di sera assai meno che adesso e i ritrovi per giovani<br />

si contavano a dura pena sulle dita di due mani. Discoteche per tamarri<br />

comprese.<br />

Il locale che tutti i quarantenni e ultra torinesi ricordano con più piacere è<br />

senz’altro lo Studio 2. Non voglio dilungarmi in una commossa ricordanza<br />

di un posto in cui ho passato alcuni tra i momenti più divertenti della mia<br />

vita: ci ha già pensato alcuni anni fa un altro concittadino novelliere, per<br />

quanto da un punto di vista esistenziale alquanto differente dal mio. (Lui<br />

vi organizzava serate per rampolli di buona famiglia, io li detestavo ma vi<br />

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andavo lo stesso e una sera me lo ritrovai lì piantato nell’uscio a dirmi con<br />

fare strafottente che non potevo entrare: al che io lo affrontai a muso duro<br />

ma un buttafuori si mise in mezzo. Più tardi mi procurai l’invito ed entrai.<br />

Non gli serbo neppure una briciola rafferma di rancore: eravamo giovani<br />

stupidi e pieni di sperma, com’è usanza dire dall’altra parte dell’oceano.)<br />

Preferibilmente desidero concentrarmi sulle conseguenze psicofisiche che<br />

la frequentazione di quella gloriosa discoteca causava su di me. Una su<br />

tutte: gli armageddonici doposbronza del sabato e della domenica mattina<br />

– talvolta di metà settimana, allorquando mi veniva la malsana fregola di<br />

imbucarmi alla soirée degli studenti Isef. E il mattino dopo al lavoro tutti a<br />

guardarmi di storto. Soprattutto il capoufficio.<br />

Allo Studio si spillava una <strong>birra</strong> chiara di pessima qualità. In alternativa<br />

potevi intossicarti con i “solventi” (squisiti cocktail preparati con liquori<br />

stappati dal Neolitico inferiore) o la Ceres Strong Ale. In realtà una lager,<br />

questa <strong>birra</strong> danese dai toni amarognoli pronunciati dichiara in etichetta il<br />

7,7% d’alcol, ma in base allo stato in cui ti riduceva (larvale) avresti detto<br />

che ne contenesse almeno il doppio. È anche vero che se ne ingollava a<br />

fiumi e che spesso si entrava in discoteca già carburati (magari dopo aver<br />

fatto tappa all’attiguo Charisma Pub, altro locale leggendario che non c’è<br />

più), ma se il giorno seguente uno stimato neurochirurgo ebreo mi avesse<br />

scoperchiato la scatola cranica avrebbe trovato Dalla biblioteca entropica<br />

di Claes Oldenburg e Coosje van Bruggen in luogo del cervello. Chiunque<br />

conosca quest’opera d’arte si farà un’idea, nonché quattro risate.<br />

La mia serata tipo allo Studio 2 era la seguente: svariate mosse strategiche<br />

per entrare senza pagare il biglietto; salita al bar del piano di sopra e prima<br />

Ceres sorseggiata aspettando l’ascesa al tempio di Roberto, un pazzoide<br />

scatenato di Avigliana con cui ne avrei bevute altre sette; discesa all’altro<br />

bar per bere qualche giro di brodaglia alla spina con la brigata e magari, se<br />

c’era il mood giusto, quattro salti in pista; di nuovo su e di nuovo giù, per<br />

altre tre-quattro volte; chiusura del locale coi buttafuori a ripetere come un<br />

mantra l’invito a guadagnare l’uscita e i parrocchiani a fare orecchie da<br />

mercante; summit fra ubriachi bolliti sul marciapiede circa l’eventualità di<br />

mettere qualcosa sotto i denti o persino di darsi la botta finale in qualche<br />

after-hours. Baccaglio di ragazze? Un optional. Almeno per me.<br />

E il giorno dopo... nausea, testa in frantumi, occhi iniettati di sangue, naso<br />

otturato, gola secca, polmoni in fiamme, estremità di piombo, epitelio<br />

mummificato come Ötzi, l’Uomo di Similaun.<br />

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Maybe I’m Amazed. Il fato, fottuta canaglia, mi fece rincontrare Stefania<br />

B. al campo di concentramento nazi-metallurgico poco prima della grande<br />

fuga per “mettermi in proprio”: un giorno, sopraffatto dalla noia, aprii un<br />

bollettino aziendale e me la trovai fotografata in tailleur pantalone grigio e<br />

boccoli sciolti sulle spalle. Lavorava alla Divisione della Gioia di C.so<br />

Vercelli. Coincidenza, sincronicità, il mondo è piccolo, pensatela un po’<br />

come vi pare.<br />

Fattasi ormai donna e in carriera, un po’ segnata in viso ma <strong>forse</strong> per<br />

questo più bella che mai, Stefania si era separata dal suo biondissimo e<br />

gagliardo pallavolista e si era messa insieme con un nostro ex compagno<br />

di classe nuotatore (è fissata con gli sportivi, la ragazza) che ai tempi del<br />

liceo in una normale conversazione spiccicava monosillabi ma quando era<br />

chiamato alla lavagna per essere interrogato mitragliava date, cognizioni e<br />

logaritmi come un kalashnikov antropomorfo. Stefania organizzò una<br />

rimpatriata in una pizzeria cui da masochista patentato quale sono volli<br />

partecipare. Al dolce, alticcio come un meteorite, confessai a quei postsecchioni<br />

tutta la mia smodata passione per Iggy Pop. Mr. Monosillabo,<br />

Domenico “Mecu” Spitz della Piscina Comunale, commentò con una<br />

punta di sarcasmo: “Ci credo che ti piaccia, ha il tuo stesso fisico.” La<br />

locuzione più lunga che lo stronzetto malcagato aveva mai pronunciato,<br />

cui reagii mandandogli un bacio in punta di dita canzonatorio. Ma non so<br />

cosa mi trattenne dal volargli al collo.<br />

Le insondabili regole dell’attrazione e gli squassanti tormenti dell’amore<br />

non corrisposto: c’è chi ci ha scritto su fior di libri. E di canzoni. Come<br />

Pere Pubill Calaf, 74 anni, gitano di Mataró, Barcellona, conosciuto in<br />

tutto il mondo (meno che da noi, i soliti sciovinisti ignoranti) come Peret,<br />

l’inventore della “rumba catalana”. Dopo una lunga e dura gavetta nei club<br />

per turisti della Costa Brava e nei tablaos madrileni, la sua carriera spiccò<br />

il volo nel 1963 con La noche del hawaiano, e non si fermò più. Nel 1968<br />

vinse il Midem di Cannes con una versione adrenalinica di un valzer del<br />

maestro Monreal, Una lágrima, poi disco dell’anno in Spagna; nello stesso<br />

periodo fu invitato dal leggendario Tom Jones al suo programma per la<br />

televisione britannica. Nondimeno il suo più grande smash fu Borriquito<br />

(asinello), due anni più tardi: “Borriquito como tú, tururú, que no sabes ni<br />

la u, tururú.” Walk On The Wild Side ante litteram.<br />

I continentali immuni ai sovvertimenti sociali e sonori degli anni Sessanta<br />

andavano in sollucchero per codesto zingaro che, in giacca di leopardo e<br />

pantaloni scampanati di lino, muoveva i fianchi come Elvis e cantava<br />

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come James Brown suonando la sua chitarra con la tecnica del ventilador,<br />

quella che per intenderci caratterizza uno dei più indigeribili tormentoni<br />

mai sentiti su questo squinternato corpo celeste: Volare dei Gipsy Kings.<br />

In quel momento il Peret aveva veramente il mondo in mano: gli mancava<br />

soltanto di registrare un concept album su una stella della rumba catalana<br />

rapita dagli alieni e restituita alla Terra in forma di tzigano telecinetico coi<br />

capelli platinati e la chitarra neutronica. Oppure prendere carta e penna (o<br />

più opportunamente ingaggiare un ghost writer) e buttar giù un deviante<br />

resoconto delle proprie esperienze cinematografiche – un titolo su tutti, Si<br />

Fulano fuese Mengano, Anno Domini 1971: traduzione, se Tizio fosse<br />

Caio!<br />

Diversamente, all’alba degli anni Ottanta Peret soffrì una profonda crisi<br />

mistico-religiosa al volante della propria auto (☺) e in un plis plas si fece<br />

pastore della Chiesa Evangelica di Filadelfia abbandonando la canzone,<br />

l’alcol, il tabacco, il gazpacho e quant’altro.<br />

Pressappoco nello stesso momento si scioglievano gli Only Ones di Peter<br />

Perrett, in una burrasca di droghe violenti disaccordi e incidenti stradali.<br />

Gli Only Ones furono una band inglese settantasettina con una distintiva<br />

influenza velvettiana. Un’anomalia, perché in un’epoca di incitamenti alla<br />

ribellione e anfetaminiche celebrazioni della sboccata lo sfuggente Perrett,<br />

lui sì perossidato e impellicciato come una zoccola, rantolava di tremendi<br />

doposbornia, compulsioni croniche e infatuazioni senza speranza annegate<br />

in spremute di barbiturici ed eroina mentre la chitarra solista di John Perry<br />

volava alta come un falco pellegrino. Vaticinio di angst pop. Ebbero un<br />

moderato hit con la rutilante Another Girl, Another Planet, ma avrebbero<br />

meritato maggior fortuna. Classico gruppo rivalutato col tempo.<br />

Torniamo a Peret. Nel 1991 il chitarrista zingaro dalle basette impossibili<br />

annunciò il suo ritorno alla musica e l’anno dopo partecipò alla cerimonia<br />

di chiusura delle Olimpiadi di Barcellona. Nel 2000 pubblicò El rey de la<br />

rumba, dove canta insieme a David Byrne (nientemeno!), Jarabe de Palo,<br />

Amparanoia, Manu Chao… Non sarebbe stato male dare una voce anche a<br />

Peter Perrett, magari per rifare la sua canzone più bella in stile ventilatore:<br />

La chavala del planeta rumbero. Non suona fenomenale?<br />

Maybe avrei potuto ritentarci con Stefania. Niente lettere stavolta: l’avrei<br />

invitata a un caffè e le avrei cantato una bellissima cibernetica canzone dei<br />

Cars dal loro album più ostico, Panorama: Don’t tell me no. Non dirmi di<br />

no. “È la mia festa, puoi venire. È la mia festa, divertiti. È il mio sogno,<br />

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fatti una risata. È la mia vita, prendine metà. Non dirmi di no, non dirmi di<br />

no, no, no.”<br />

Ma quando non ce n’è, non ce n’è e basta. Bisogna farsene una ragione. E<br />

non è un cazzo facile.<br />

Nel 1992 la Danimarca vinse a sorpresa i campionati europei di calcio.<br />

Poco dopo centinaia di italiani si catapultarono a Copenaghen per piantare<br />

il piccone giocandosela con la solidarietà calcistica. Ci andai anch’io con<br />

la mia nuova banda, anche se non vi passammo più di tre giorni: pareva di<br />

stare ad Alassio. Prendemmo un traghetto per la penisola dello Jutland che<br />

poi attraversammo a quattro ruote fino ad Ålborg, una cittadina parecchio<br />

ospitale e piena di vita. Nessuno di noi fece l’amore. Quanto lirismo… Le<br />

occasioni non mancarono, ma in vacanza bisogna essere un po’ burini per<br />

far sesso e noi facevamo parte della Lega dei Gentiluomini (dei Babbioni<br />

per qualcuno, ma me lo venga a dire in faccia che poi gli spacco la sua). In<br />

compenso, sbevazzammo come dei soldati dell’Armata Rossa in licenza:<br />

soprattutto Carlsberg corretta con un centellino di Gammel Dansk, un<br />

bitter fabbricato con un numero spropositato d’erbe e spezie tra le quali il<br />

cinnamomo, l’anice, la noce moscata, la genziana, il lauro e l’angelica. In<br />

ogni modo le danesi sono di una bellezza che non appartiene a questo<br />

mondo.<br />

La Carlsberg, intesa come fabbrica, è uno dei colossi mondiali della <strong>birra</strong>.<br />

Fu proprio nei suoi laboratori che fu isolato e coltivato un ceppo puro di<br />

Saccharomyces carlsbergensis. La leggenda narra che nel 1875 tal Emil<br />

Christian Hansen, di ritorno dalla Germania, trasportò il fermento delle<br />

birre lager versandovi di tanto in tanto dell’acqua per mantenerlo in vita<br />

fino a Copenaghen. Oggi del florido gruppo Carlsberg fanno parte anche<br />

la Tuborg di Copenaghen e, in parte, la Ceres di Århus. Al presente bevo<br />

Carlsberg di rado, benché volentieri: per quanto sia leggera, è sempre più<br />

gustosa di certe idrolitine spillate nei locali di tendenza o della famigerata<br />

Beck’s, “la <strong>birra</strong> tedesca più venduta in Italia”, un fenomeno frutto sia di<br />

un’ammirevole quanto perniciosa campagna di marketing sia dell’atavica<br />

predisposizione italica alla sudditanza culturale. (Mi ci metto anch’io nel<br />

mucchio, ne ho bevuta e continuo a berne a casse! La Ceres Strong Ale,<br />

all’opposto, non la voglio più vedere neanche dipinta.)<br />

Occhi iniettati di sangue…<br />

Gli X, storici portabandiera del beach-punk di Los Angeles, parteciparono<br />

29


alla colonna sonora di Breathless con il brano omonimo, scritto e portato<br />

al successo dal grandissimo Jerry Lee Lewis nel 1958. Lo potete ascoltare<br />

mentre scorrono i titoli di coda. Questo gruppo straordinario, formatosi nel<br />

1978, esordì a 33 giri due anni dopo con Los Angeles, prodotto dall’ex<br />

tastierista dei Doors Ray Manzarek. Molti giudicano L.A. il capolavoro del<br />

punk californiano, benché sia arduo tranciare giudizi con antagonisti quali<br />

Damaged dei Black Flag, Fresh Fruit For Rotten Vegetables dei Dead<br />

Kennedys, Group Sex dei Circle Jerks, G.I. dei Germs e Adolescents.<br />

Nondimeno L.A. stravince, non fosse per altro motivo che contiene la più<br />

bella canzone sul doposbronza mai scritta da una rock band: Nausea.<br />

Musicalmente Nausea suona come Soul Kitchen dei Doors funestata dai<br />

Black Sabbath e dagli Stooges. Fu vagamente ispirata da una bettola punk<br />

conosciuta come il Plunger Pit che era situata dietro una libreria per adulti<br />

nel Santa Monica Boulevard. Il beverone della <strong>casa</strong> era gin con soda alla<br />

fragola – un miscuglio criminale che provocava dei postumi apocalittici.<br />

La camaleontica front-woman Exene Cervenka ce li racconta così:<br />

Oggi starai male, oh così male. Sorreggerai la tua fronte sul lavandino dicendo oh<br />

Cristo oh Gesù Cristo la mia testa sta facendo crack come una banca. Stasera ti<br />

addormenterai nei tuoi panni frusti come una barretta di cioccolato incartocciata<br />

per pranzo. Questo è tutto ciò che hai da gustare… miseria e saliva. Miseria e<br />

saliva.<br />

Parli disarmonicamente. Non riesci a ricordare quello che dici. Dacci un taglio.<br />

Ti senti ritardata. Prendi le forbici e taglia via la testa.<br />

Nausea, occhi iniettati di sangue vai con la nausea, occhi arrossati vai con la<br />

nausea, occhi infiammati vai a dormire.<br />

Difficile non riconoscervisi. Io mi ci riconosco al 100%. La cosa certa è<br />

che se il mio lavandino e la tazza guadagnassero per miracolo il dono della<br />

favella, mi vomiterebbero addosso una quantità d’insulti diecimila volte<br />

superiore alla quantità di succhi gastrici che ho vomitato dentro ambo gli<br />

impianti igienici nel corso degli ultimi venticinque anni. Eppure non mi<br />

considero uno di stomaco debole. È che molto spesso ho passato il limite.<br />

E continuo a farlo, seppure con un quanto di coscienza in più. Oliver Reed<br />

da lassù farebbe uno sciocco sorriso consapevole: “Yes, man, sai il fatto<br />

tuo. Ma non sei più un giovanotto. Forse è meglio che ti dia una regolata,<br />

se non vuoi venire quassù a farmi compagnia prima del tempo.”<br />

In una di quelle disastrose mattinate post-Studio 2, aprii gli occhi e gemei<br />

oh Cristo o Gesù Cristo almeno sette volte. Rivolsi uno sguardo di polpo<br />

30


alla sveglia: le nove e venticinque. Ero rientrato da quattro ore scarse, ma<br />

d’altronde l’eccesso d’alcol mi ha sempre fatto dormire poco. Poco dopo<br />

giunse la prima nausea. Guizzai via dal letto e, tappandomi la bocca con<br />

una mano, corsi verso il bagno. Era occupato, cristiddio. Retrocedetti in<br />

camera soffocando un’imprecazione e il secondo conato. «Dove diamine<br />

sbocco adesso? Porca troia, farò la fine di Jimi Hendrix!»<br />

La terza nonché decisiva nausea scatenò una fuoriuscita torrenziale di<br />

succhi gastrici misti a <strong>birra</strong> chiara e scura – Guinness del Charisma Pub! –<br />

e residui della cena che fu accolta provvidenzialmente da uno shopper di<br />

Rock’n’Folk, il mio negozio di dischi preferito. Dopodiché m’infilai di<br />

nuovo sotto le coperte e caddi istantaneamente in un coma profondo fino<br />

all’ora di pranzo, rimovendo totalmente dalla mia memoria il ricordo del<br />

sacchetto.<br />

Passati due giorni, di ritorno da un’altra giornata allucinogena nel campo<br />

di concentramento di Viale Puglia 35, trovai mia madre piantata al centro<br />

della cameretta. “<strong>Maurizio</strong>, cosa accidenti è quello?” mi chiese in tono<br />

inquisitorio neanche n’ebbi oltrepassata la soglia, puntando l’indice verso<br />

lo shopper R’n’F appeso a un appendiabiti da muro, mezzo pieno del mio<br />

rigurgito che cinquantasette ore di giacenza avevano fermentato in una<br />

nuova innovativa marca di lager stout.<br />

31


Figura 3. Tasso alcolico 3.5.<br />

32


MALCOM O’MOLONEY<br />

Intorno alla monumentale fonte di Murrieta, sita nella strada recante il medesimo<br />

nome, in realtà appellativo nobiliario di un illustre marchese e bottegaio riojano<br />

del secolo XIX, aveva proliferato recentemente un buon numero di birrerie<br />

decorate a imitazione d’idealizzate taverne irlandesi. In poco tempo si era<br />

conformata tutta una zona di stabilimenti omogenei che permetteva di scegliere<br />

tra un ampio ventaglio di possibilità itineranti, o lunghi e sedentari giri di bevute,<br />

per degustare alcune pinte o mezze pinte di molteplici birre d’importazione. In<br />

alcuni posti vi era addirittura uno spillatore di Guinness, in luogo della marca<br />

succedanea di turno. Sfortunatamente, in nessuno esisteva una cannella della<br />

varietà Draught Guinness, dotata di un corpo particolarmente intenso e una<br />

spuma tanto densa da poter disegnarci sopra il tradizionale trifoglio irlandese, lo<br />

shamrock, mediante il preciso movimento del bicchiere da 0,568 litri sotto il<br />

sottile e opaco getto di <strong>birra</strong>.<br />

Javier Alonso, Sueños y cadáveres.<br />

La zona descritta dall’Autore si trova a Logroño, capoluogo della regione<br />

spagnola della Rioja, dov’egli è nato e cresciuto ed esercita la professione<br />

di “scrittore provinciale” (parole sue). Pronunciando la parola “Rioja” mi<br />

scatta subito l’associazione cerebro-palatale con alcuni dei migliori vini<br />

rossi prodotti nella piel del toro, molti dei quali ho avuto il privilegio di<br />

assaggiare. Tuttavia qui si sta dissertando di <strong>birra</strong> e affini, e riguardo alla<br />

Guinness il buon Javier non potrebbe aver dipinto meglio il quadro…<br />

scuro della situazione. Finanche a Torino le “birrerie decorate a imitazione<br />

d’idealizzate taverne irlandesi” si sono moltiplicate a dismisura, sull’onda<br />

dell’accresciuto interesse turistico per quell’amabile isola celtica: ma non<br />

sempre vi trovi la Guinness, e meno ancora la Draught. Se va di lusso ti<br />

propinano la Beamish, che non è proprio la stessa cosa, altrimenti qualche<br />

intruglio imbevibile fabbricato da cinesi ridotti in schiavitù nei sottoscala<br />

di Porta Palazzo.<br />

Di aver scoperto la Guinness e le meraviglie della verde Irlanda devo<br />

ringraziare i Pogues, specialmente il loro alcolizzato (ex) leader Shane<br />

McGowan. Sempre in quella memorabile primavera del 1988, un bel<br />

pomeriggio montai su un Intercity e me ne andai da solo a Milano per<br />

assistere a un triplice concerto della madonna: Steve Ray Vaughan,<br />

Pogues e Los Lobos!<br />

La kermesse ebbe luogo al Palatrussardi. Io mi andai a piazzare in una<br />

33


delle due tribune laterali. Il compianto Steve Ray Vaughan sfoggiò tutta la<br />

sua titanica tecnica strumentale – se qualcuno non lo sapesse, quelle fluide<br />

parti solistiche di chitarra in China Girl di David Bowie sono opera sua. A<br />

prescindere che di quella canzone io preferisco di gran lunga la versione<br />

tragica che ne offre Iggy Pop in The Idiot. Comunque sia Steve Ray lasciò<br />

il palco tra gli applausi del non foltissimo pubblico e vi salirono i Pogues<br />

recando tutto il loro composito strumentario. Per allora io mi ero già<br />

scolato due belle medie nere e mi accingevo ad attaccare la terza. “Figa,<br />

Pogues deriva da pogue mahone, che in gaelico significa baciami il culo”<br />

si sentì in dovere di chiosare una rossa occhialuta e mingherlina seduta<br />

alla mia destra. Shane McGowan non era ancora quell’ubriacone lacero e<br />

gracchiante che avrei compatito sedici anni dopo al Torino Traffic Festival<br />

e il concerto fu molto divertente. Fiesta, l’epitome del loro stile scomposto<br />

e festaiolo, scatenò le danze in tutto il palazzetto. Dei Los Lobos ascoltai<br />

soltanto due canzoni, poi volai come l’Enterprise a prendere l’ultima corsa<br />

della metropolitana per la stazione ferroviaria di Milano Centrale. Ero già<br />

appagato così.<br />

Rividi i Pogues altre due volte, sempre a Milano ma al Rolling Stone e a<br />

Torino in Piazza D’Armi sotto un tendone. In quest’ultima occasione io i<br />

miei amici e vari altri spettatori ebbri ci lanciammo in un “trenino” come<br />

neanche in quelle feste di Capodanno con la compilation di Jorge Ben<br />

suonata a volume spaccatimpani che fanno la prosperità dei rivenditori<br />

d’armi automatiche. Poche settimane dopo c’imbarcammo in quattro a Le<br />

Havre per la terra di San Patrizio.<br />

Thousand are sailing across the Western Ocean. In quel viaggio io diedi il<br />

meglio (o il peggio) di me stesso. Cominciammo a bere Guinness e Jack<br />

Daniel’s nel bar ristorante del ferry-boat fin dal tardo pomeriggio. Verso le<br />

nove di sera salì in pedana un tipico gruppo da pub e noi eravamo già<br />

ciucchi come delle biglie. Come se non bastasse stringemmo amicizia con<br />

un fulminato d’irlandese segaligno (Liam, mi sembra si chiamasse: un<br />

classico) e dopo innumerevoli rondas d’ogni bevanda esistente su questa<br />

terra e perfino un brindisi all’I.R.A. e a Bobby Sands finimmo a cantare<br />

tutti in coro House of the Rising Sun come dei coyote con la raucedine. Poi<br />

ci disperdemmo partendo ognuno per la propria tangente etilica. Io andai<br />

fuori a tentare di ripigliarmi con l’aria salmastra e qualche sigaretta, ma il<br />

beccheggio del naviglio peggiorò repentinamente la condizione. Allora<br />

rientrai andandomi a raggomitolare su una poltroncina in ultima fila nel<br />

34


salone di poppa, fornito di schermo gigante, togliendomi le scarpe. Passati<br />

cinque minuti ebbi il primo, violentissimo conato. Mi alzai di scatto e<br />

corsi verso i servizi. Ormai a un nanosecondo dallo sbocco, mi cacciai nel<br />

bagno delle donne, traumatizzando probabilmente a vita quelle due povere<br />

ragazze francesi che andavano passandosi uno zampirone. Ricordo come<br />

fosse ora il loro grido simultaneo di terrore allorché, scalzo e con il volto<br />

alterato dal disgusto, sfrecciai tra loro come Oscar Pistorius per andare a<br />

depositare fra una tazza e le bianche mattonelle circostanti. Poi biascicai<br />

delle scuse in idioma gallico che le due fattone controbatterono con insulti<br />

irriferibili e tossendo carcinomatosamente riparai nel bagno dei maschi per<br />

sciacquarmi la bocca e la faccia.<br />

Ritornato alla poltroncina provai a dormire, ma il mio stomaco era ancora<br />

irritato. Di lì a poco il secondo round di chimo, assai meno impetuoso del<br />

primo ma non meno corrosivo, andò a concimare un lotto in penombra in<br />

fondo al salone. Doppio rintocco e finalmente sprofondai in un sonno<br />

senza sogni.<br />

Intorno alle dieci del mattino fui destato da un sonoro Scheiße! (“Merda!”)<br />

emesso alle mie spalle, seguito da altre presumibili parolacce in tedesco.<br />

Circospetto, infilai lo sguardo arrossato e il naso intasato di muco nello<br />

spazio tra i sedili. Un accampamento di punkabbestia stava bestemmiando<br />

all’indirizzo nel mio vomito rappreso tra moquette, parete e il lato piedi di<br />

un sacco a pelo color verde militare.<br />

Accanto a me Enrico ridacchiò e disse sottovoce: “Cazzarola, Mauri, gli<br />

hai palumato addosso mentre dormivano!”<br />

Io, in un moto di cinismo reazionario senza pari, mi strinsi nelle spalle.<br />

“Embé? Tanto ci sono abituati.”<br />

Ancora adesso non so se veramente vomitai addosso ai quei punk estremi<br />

teutonici o piuttosto essi per colpa del buio e/o della bomba che avevano<br />

addosso non distinsero la mia opera d’arte ready-made stendendovi sopra<br />

le loro membra ossute. La prima versione è ormai leggenda consolidata tra<br />

i miei amici più cari. E così sia.<br />

Secondo la mitologia irlandese, le genti dell’isola verde guadagnarono per<br />

sempre il diritto a consumare e produrre <strong>birra</strong> sconfiggendo i Fomoriani<br />

nella seconda battaglia di Magh Tuireadh. I Fomoriani, Fomorii Fo-Moir o<br />

Fomorach in gaelico, erano un popolo violento e deforme la cui sede era<br />

Tory Island. Frequentemente figurati con una sola mano, piede od occhio,<br />

erano gli dei malvagi del mito irlandese, benché il nome sembra significhi<br />

35


“cavernicoli sottomarini”. Una definizione calzante per come mi sentivo io<br />

quando toccammo terra celtica: col viso dal pallore cadaverico, lo sguardo<br />

stralunato e la tremarella alle gambe, parevo proprio un discendente dei<br />

Fomoriani.<br />

Sembra che nel 1610 nella sola città di Dublino, abitata allora da 4000<br />

famiglie, esistessero quasi 1200 birrerie. Non so dirvi quanti pub fossero<br />

censiti nel 1991; certo è che ne visitammo in abbondanza, specialmente<br />

nella zona di Temple Bar. Cominciavamo a sbevazzare già a colazione e<br />

finivamo giusto un attimo prima della pedante scampanata che annunciava<br />

agli avventori la chiusura del pub. Il rituale di versamento della Guinness<br />

mi rapiva, e mi rapisce, ogni volta. Il barista mantiene il boccale inclinato<br />

a 45°, sotto la spina, che si spinge in avanti in modo che lo spesso liquido<br />

scuro vada a innaffiare il retro del boccale. Una volta riempito per tre<br />

quarti, il bicchiere è lasciato decantare affinché il liquido più pesante vada<br />

a depositarsi sul fondo, lasciando in superficie la schiuma cremosa e più<br />

leggera. Passati due minuti circa si completa il riempimento, ma questa<br />

volta il rubinetto è spinto all’indietro, di modo che the pint of plain si<br />

colmi solo d’inchiostro. E dopo è tutta vita.<br />

Da buoni animali notturni, non potevamo accontentarci di un turbinio di<br />

birre e doppi, un juke-box coi vecchi pezzi dei Thin Lizzy e l’immancabile<br />

concerto di sean nos (motivi tradizionali irlandesi). Ma quando una sera<br />

provammo a entrare in un locale storico di Dublino, McGonagles, la cui<br />

programmazione musicale da noi letta nel tardo pomeriggio su un flyer<br />

prometteva scintille (sound del 1977 e derivati), fummo rimbalzati come<br />

palline da squash per “non avere il look adatto”. Figuratevi: due skinhead,<br />

un modernista e uno sbirro infiltrato nella mala irlandese di Hell’s Kitchen<br />

(il sottoscritto, che prima di partire si era sparato Stato di grazia in Vhs<br />

fino alla nausea. Adoro Sean Penn, Ed Harris e Gary Oldman. Ma anche<br />

Robin Wright…). Più adatti di così! Ciò nondimeno i due buttafuori dallo<br />

spiccato accento brogue ebbero il cavalleresco dettaglio d’informarci che<br />

la soirée sucessiva sarebbe stata più appropriata alle nostre tendenze:<br />

baggy e shoegazer… ah ah ah ah. In qualunque modo ci ripresentammo e<br />

fu divertente, per me un’autentica epifania musicale. Divenni un fan di<br />

quella roba psico-rock-danzereccia edonistica: EMF, Carter USM, Jesus<br />

Jones, Soup Dragons, Ride, My Bloody Valentine, The Wonder Stuff,<br />

Curve, Stone Roses, Happy Mondays… e Black Grape.<br />

Gli Happy Mondays non furono soltanto esponenti celeberrimi del “Madchester”<br />

36


che scosse la Gran Bretagna negli anni Novanta, ma furono anche rappresentativi<br />

delle sue origini sociali. Formati nel 1981 dal delinquente e tossicodipendente<br />

Shaun Ryder, gli Happy Mondays rappresentavano l’alienazione dei giovani<br />

sottoproletari delle zone industriali (come appunto Manchester) durante il<br />

periodo conservatore di Lady Margaret Thatcher. Man mano che le discoteche<br />

rimpiazzavano i pub come luogo di perdizione per i giovani, il techno di Detroit<br />

soppiantava il vecchio rhythm and blues dei pub, e parallelamente l’ecstasy<br />

detronizzava l’alcol. (…) Ryder tornera` a galla alla testa dei Black Grape nel<br />

1995, formazione con due rapper (Ryder e Paul Leveridge), la chitarra bruciante<br />

di Paul Wagstaff e un’orchestrina di fiati e tastiere. Il ballabile poliedrico (funk,<br />

hip-hop, jungle, house, reggae e heavy metal) di It’s Great When You’re Straight<br />

(Radioactive, 1995) sfodera l’impeto scanzonato dei Red Hot Chili Peppers e la<br />

coralità epica dei Clash, dallo shuffle indiavolato di Reverend Black Grape alla<br />

giostra raga-psichedelica di In The Name Of The Father, dalla filastrocca<br />

decadente e spaziale di Kelly’s Heroes al rap con organo soul di Little Bob.<br />

Album senza pretese, che continua semplicemente la vena “folle” di Madchester,<br />

ma che segna anche un ritorno alla grande per Ryder.<br />

Piero Scaruffi, Storia della musica rock.<br />

Andavo avanti a <strong>birra</strong>, whisky e tramezzini al salmone. Secondo un mito<br />

irlandese, il salmone Fintan mangiò le Nocciole della Conoscenza prima<br />

di nuotare fino a una pozza nel fiume Boyne. Là fu pescato dal druido<br />

Finegas e dato a Fionn Mac Cumhail da cucinare. Fionn, uno dei più<br />

celebrati eroi della mitologia irlandese, si scottò il pollice con la carne del<br />

pesce girando lo spiedo, se lo succhiò e in quel modo acquisì la saggezza.<br />

Non per niente, dopo tutto quel salmone al mio ritorno a Torino cominciai<br />

a scrivere racconti.<br />

Al terzo o quarto giorno di bed & breakfast mi si produsse una fobia per i<br />

chambermaids, che alle dieci inesorabili venivano a battere alla porta per<br />

rassettare la camera. “No, thanks, I want to sleep”, mugolavo sempre in<br />

risposta, rumore bianco nella testa rintanata sotto il cuscino. Una mattina<br />

l’amico Steve si spacciò per uno di loro imitandone la tiritera in maniera<br />

maccheronica e al mio ormai cronicizzato lamento ribatté in piemontese:<br />

“Sun mi, gadan! Bogia, ch’a l’è tard!” (“Sono io, fessacchiotto! Muoviti,<br />

che è tardi!”) Che simpatico. Se invece di un aspirante scrittore di finzione<br />

speculativa fossi stato un chitarrista dissoluto come Larry Wallis dei Pink<br />

Fairies, avrei colto le possibilità fottitorie della situazione piuttosto che<br />

lagnarmi – nel 1973 quest’ingiustamente trascurato gruppo proto-punk<br />

londinese scrisse un brano travolgente proprio sulle cameriere d’albergo,<br />

37


Chambermaid per l’appunto: “Non m’importa se sembra un cane / purché<br />

faccia un ottimo lavoro/job/blowjob/bocchino.” Della serie, siamo in tour<br />

ragazzi, basta che respirino! Ma del senno di poi sono stracolmi gli otri.<br />

Oltre a questo le cameriere irlandesi sono in prevalenza delle cinghialotte<br />

rubiconde. Perlomeno lo erano tutte coloro che venivano a scassarmi i<br />

marroni glassati. D’altronde non tutti i giorni ci è concesso di giacere con<br />

Nicole Kidman. E ogni scopata lasciata è persa.<br />

Decidemmo la tappa susseguente a Dublino puntando un dito a caso sulla<br />

costa occidentale dell’Irlanda: Limerick. La National 7 ci condusse laggiù<br />

attraverso meravigliosi panorami di smeraldo. Limerick è una tranquilla<br />

cittadina situata alla foce del fiume Shannon. Forse troppo tranquilla per i<br />

nostri gusti vitaioli, ma n’approfittammo per smaltire le rimanenti tossine<br />

sabaude in circolo. Fu certamente una delle vacanze più rigeneranti che io<br />

abbia mai fatto. Un giorno ce ne andammo in gita al King John’s Castle,<br />

intitolato a John Lackland (Giovanni Senzaterra), re d’Inghilterra dal 1199<br />

al 1216, noto soprattutto per aver concesso la Magna Charta – il primo<br />

documento fondamentale per la concessione dei diritti ai cittadini – e per i<br />

terribili sbalzi d’umore. Ehm, in verità nel castello neanche vi entrammo:<br />

ci fermammo in un pub nei pressi a macinare qualcosa e sbevazzare. Notai<br />

che di fronte allo stesso era parcheggiato un autobus turistico. Ci sedemmo<br />

a un tavolo e ordinammo le usuali quattro pinte. Accanto, un tizio sulla<br />

cinquantina abbondante, secco come un lupo, coi capelli neri ancora folti e<br />

lunghi fino alle spalle e i basettoni, stava spiegando a una signora:<br />

“Sì, sono io il conducente di quel pullman là fuori. Mi chiamo Malcom.<br />

Malcom O’Moloney.” Ne aveva addosso una da cinegiornale. “Sissignore,<br />

O’Moloney. Tipico cognome di Limerick. O’Moloney.”<br />

Conducente d’autobus turistici. Davvero? Per la miseria, era più sbronzo<br />

di un soldato mongolo dell’Orda d’Oro nel corso di una gozzoviglia per<br />

l’ennesima conquista!<br />

Noi ce la ridevamo sotto i baffi sorseggiando le nostre Guinness, ma nel<br />

momento in cui la signora riuscì a sganciarsene gli occhi azzurro slavato<br />

di Mr. O’Moloney cercarono e trovarono un altro soggetto cui attaccare<br />

bottone: me.<br />

Io all’epoca ero piuttosto sospettoso e suscettibile. Il tempo e le traversie<br />

mi hanno blandito alquanto. Fosse ora, stringerei la mano a Malcom, gli<br />

offrirei un Tullamore Dew – poiché tale era il suo scopo, farsi offrire da<br />

bere, <strong>forse</strong> aveva finito i soldi –, starei a sentire pazientemente per un po’ i<br />

suoi vaniloqui onomastici e come dicono gli spagnoli, aquí paz y después<br />

38


gloria. Per contro allora quand’egli mi mise sorridendo una mano sulla<br />

spalla io gli restituii un’occhiataccia che lo respinse quasi all’istante nel<br />

suo cantuccio. Eppure non nutro alcun senso di colpa postumo per il mio<br />

comportamento scostante, dacché con ogni probabilità salvai la pelle ai<br />

passeggeri di quel torpedone. E allo stesso Malcom O’Moloney.<br />

La nostra breve vacanza si spense nobilmente a Wexford, un’altra ridente<br />

piccola città incastonata nella costa sud-ovest dell’isola pochi chilometri a<br />

nord di Rosslare, l’approdo-imbarco per il continente europeo. Wexford,<br />

che in norvegese significa “la baia delle basse maree”, fu fondata dai<br />

Vikinghi al principio del IX secolo d.C. Per aver rifiutato la capitolazione,<br />

Oliver Cromwell nel 1649 fece mettere a sacco la città e passare l’intera<br />

popolazione per le armi, inclusi i Frati Francescani. Nel 1963 JFK vi<br />

venne in visita e fu fatto Freeman, Uomo Libero, la più alta onorificenza<br />

che la città poteva conferire. Pochi mesi dopo veniva assassinato a Dallas.<br />

A Wexford assistemmo a un concerto della band irlandese del momento, i<br />

Saw Doctors. Il loro album d’esordio, di cui ancora posseggo il nastro,<br />

s’intitola If this is Rock and Roll, I want my old job back. Se questo è<br />

rock’n’roll, rivoglio indietro il mio vecchio lavoro. Semplicemente il più<br />

bel titolo d’album della storia del rock. Più mainstream dei Pogues ma non<br />

meno frizzanti, i Doctors ci piacquero parecchio. Durante uno dei brani<br />

più folk una carampana scalza e florida mi coinvolse in una danza sfrenata<br />

per mezza sala. Io mi prestai di buon grado. Steve, Ricu e Daffy ridevano<br />

come matti, ma di lì a pochi minuti toccò a me smascellarmi. Una ragazza<br />

piuttosto carina si affiancò a Steve e gli chiese: “Do you enjoy the band?”<br />

Stefano, amico mio non me ne volere ma non sei mai stato un’aquila reale<br />

in inglese, rispose: “No, thank. I don’t smoke.” Aveva inteso che la tizia<br />

gli avesse proposto di farsi un joint (una canna) insieme. E i Saw Doctors,<br />

vecchi marpioni loro, suonarono That’s what she said last night.<br />

Giovedì 25 settembre 20**, h 09.29 a.m., CET. Potenza di Internet. Nel<br />

cognome Molony o Moloney, O Maoldhomhnaigh in gaelico irlandese,<br />

oggi raramente è riscontrabile il prefisso originale “O”, nonostante sia<br />

totalmente gaelico e per questo virtualmente irrintracciabile in Inghilterra.<br />

Moloney è un interessante esempio delle stravaganze della nomenclatura<br />

irlandese. Alcune famiglie del North Tipperary chiamate Molony non sono<br />

O Maoldhomhnaigh, ma O Maolfhachtna, il quale, comunque, è altresì in<br />

rari casi anglicizzato in Maloughney e MacLoughney. (“Mi chiamo<br />

39


Malcom O’Moloney.” Il George Best di Limerick compitava il proprio<br />

cognome con spiritica devozione. “O’Mo-lo-ney.”)<br />

Il buon Malcom può vantare alcuni illustri predecessori nel suo albero<br />

genealogico. John O’Moloney (1617-1702) fu straordinario sia per i suoi<br />

conseguimenti intellettuali come professore universitario a Parigi sia per la<br />

sua forte resistenza alla persecuzione dei cattolici in Irlanda. Il colonnello<br />

Sir James Stacpoole Moloney fu uno degli intrepidi soldati che presero<br />

parte al disperato attacco a Montreal nel 1786, in cui novantatré dei cento<br />

partecipanti furono uccisi. Martin Molony (1847-1929) fu un milionario<br />

che si fece da sé negli Stati Uniti.<br />

Quanto a Malcom O’Moloney, credo che passerà alla storia come il più<br />

alcolizzato conducente d’autobus granturismo mai vissuto in Irlanda.<br />

Figura 4. Dublino, 1991. Io sono quello con la T-shirt di Iggy Pop.<br />

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GARAGARDO KATXI BAT<br />

Di recente il professor Stephen Oppenheimer dell’Università di Oxford ha<br />

pubblicato un libro, The origin of the British, in cui dimostra che i popoli<br />

britannici discendono… dai baschi. È la diramazione più singolare di<br />

un’ipotesi già portata avanti da altri accademici europei: in una zona<br />

comprendente gli attuali Paesi Baschi, la Cantabria e L’Aquitania esistette<br />

uno dei più importanti rifugi durante l’ultima glaciazione. Per ripararsi dal<br />

freddo intenso, un gruppo di uomini di Cro-magnon si stabilì in questo<br />

Eden. Quando il clima tornò a essere benigno, a partire da 15 mila anni fa,<br />

le tribù vasconiche si dispersero per i territori che i loro antenati avevano<br />

abbandonato a causa del cambiamento climatico. Anche se non furono le<br />

uniche a raggiungere e colonizzare le isole britanniche.<br />

Il metodo della ricerca dello scienziato oxfordiano consiste nel confermare<br />

tale ipotesi mediante l’analisi dei dati ereditari raccolti dagli scienziati nel<br />

corso delle ultime decadi, che sono liberamente accessibili. In particolare,<br />

l’analisi dei marcatori genetici presenti nel Dna mitocondriale delle donne<br />

dell’Europa Occidentale rivela la loro discendenza da “Vera”, l’Eva basca,<br />

proveniente dal rifugio del Cantabrico. Di modo che saremmo tutti un po’<br />

baschi. Ciò spiegherebbe, da un punto di vista squisitamente junghiano,<br />

come il sottoscritto sia fatalmente ossessionato da Euskadi.<br />

Basandosi su quanto anzidetto si sarebbe portati a considerare che i Paesi<br />

Baschi, e di riflesso tutta la penisola iberica, abbiano una tradizione <strong>birra</strong>ia<br />

radicata nei secoli, come i loro possibili discendenti d’Albione. Invece non<br />

è così. Malgrado ciò, la Spagna è l’unico paese a tradizione vinicola a non<br />

avere bassi consumi di <strong>birra</strong> (poco meno di 70 litri pro capite all’anno!).<br />

Non per niente è il paese dove ho sentito, anzi letto per la prima volta – in<br />

un’intervista a Lucía Etxebarria, l’autrice di Beatrice e i corpi celesti –<br />

l’espressione beber como un cosaco: nella fattispecie, come una cosaca.<br />

Lo stile più diffuso al nord come al sud della “pelle del toro” è quello delle<br />

pils moderatamente amare, come nel caso dell’arcinota San Miguel, che in<br />

realtà è originaria delle Filippine. Se mettessi in fila tutte le San Miguel<br />

Especial che ho bevuto in vent’anni di vacanze al di là dei Pirenei (e anche<br />

nei Pirenei stessi) arriverei a sfiorare i bastioni di Orione. Ma a me piace<br />

un po’ troppo anche la Voll-Damm. Si tratta di una pilsner fabbricata dalla<br />

S.A. Damm di Barcellona; gagliarda e piena di corpo, questa <strong>birra</strong> similteutonica<br />

contiene il 7,2% d’alcol per volume. Se non ci stai attento ti sega<br />

41


le gambe. Nella sua prima novella El chico del la bomba José María Sanz<br />

detto “Loquillo”, personaggio chiave del rock spagnolo, scrive a proposito<br />

dell’intellettuale catalano Antonio Rabinad: “Tortilla de patatas e Voll-<br />

Damm per colazione non sono male per uno che ha passato la barriera dei<br />

settanta.” È una colazione da campioni anche per un quarantenne.<br />

Euskadi mi ha cambiato l’esistenza. La prima volta che vi ho messo piede,<br />

vent’anni e qualche mesetto fa, non avevo idea di che cosa mi aspettasse.<br />

A parte l’esistenza di un’organizzazione terroristica separatista chiamata<br />

E.T.A. e di due squadre di calcio mietenti successi in Spagna a cavallo fra<br />

gli anni Settanta e gli Ottanta, Athletic Bilbao e Real Sociedad, non<br />

sapevo un fico seccato al sole della Sicilia di quei territori. Ancora meno<br />

che il concetto di “popolo basco” si estendesse alla Navarra, alla Rioja<br />

alavesa e oltre i confini spagnoli in tre province francesi sotto un unico<br />

lemma: Euskal Herria. Per non parlare della lingua ivi parlata.<br />

Poi successe che un amico mi portò a Donostia-San Sebastián e io, dopo<br />

essermi sciroppato dal 1986, anno della mia prima vacanza in Spagna, una<br />

sfilza di prescindibili località balneari quali Gandia, Peñiscola, Tossa e<br />

Lloret de Mar e aver storto la canappia bighellonando per le Ramblas pre-<br />

Olimpiadi del 1992 – piagate di tossici italiani, spacciatori africani,<br />

mignotte col sarcoma di Kaposi e travestiti – scoprii infine il mio Paese<br />

Celtibero dei Balocchi: cerveza e vino tinto a torrenti, vecchio e nuovo<br />

rock’n’roll sparato a volumi inenarrabili in ogni taverna (Kortatu, Fugazi,<br />

Ramones… Pogues!), architettura guascone, e certe femmine ciarliere dai<br />

lineamenti particolari, quasi estoni. Soltanto che i Lucignoli si chiamavano<br />

Gorka, Patxi, Andoni e Julio e il giorno dopo – alle tre del pomeriggio –<br />

non mi risvegliai con le orecchie d’asino ma scuoiato come una volpe.<br />

(Azeria larrutu, letteralmente “scuoiare la volpe”, è uno dei ben cinque<br />

sinonimi coi quali l’euskera denomina i postumi della sbornia.)<br />

Gernika, 16 agosto 1994, festa di San Roque. Il ragazzo italiano dai capelli<br />

infeltriti con la T-shirt degli Smashing Pumpkins e le Adidas da calcetto,<br />

pericolosamente rassomigliante al sottoscritto, prende l’ennesimo sorso di<br />

calimocho dalla tinozza plastificata. C’è chi fra la sua comitiva aborrisce<br />

con tutta l’anima quella mistura di Coca Cola e vinaccia del paese dietro la<br />

collina, ma lui ne va pazzo e che importa se a forza di mandarne giù a litri<br />

la lingua gli si è fatta bluastra come se avesse contratto la tremenda febbre<br />

catarrale degli ovini causata dall’urbi et orbivirus, tanto alle sette passate<br />

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del mattino il pesce è già bell’è che venduto e chi ha caricato (in vacanza<br />

come a <strong>casa</strong> propria bisogna tassativamente darsi da fare tra mezzanotte e<br />

le tre del mattino, dopodiché è tutto tempo sprecato ammenoché non siate<br />

uno spacciatore di cocaina) sarà già alla seconda o terza mano, o <strong>forse</strong> sarà<br />

crollato sulle tettone Danone di Begoña Taldeitali già dopo la prima per<br />

eccesso di libagioni; quindi sarà per un’altra notte, Mauri, dài, la festa è<br />

appena incominciata e non farti troppe seghe mentali, che quelle fisiche<br />

sotto la doccia quando i tuoi compari stanno ancora dormendo la piomba<br />

della notte prima bastano e avanzano. Dico, hai ventinove anni!<br />

I giovani beoni di Gernika-Lumo, cioè Ibon Ackerman e la sua banda di<br />

contrabbandieri – uomini vigorosi dai nasi aquilini e donne indurite con lo<br />

schioppo sotto la gonna – non ne vogliono sapere di andare a coricarsi.<br />

Baldoria per ogni dove anche se sta sorgendo il sole. Col suo spagnolo<br />

zoppicante, <strong>Maurizio</strong> chiede a un tizio strutturato come un’immane bocca<br />

da fuoco del sedicesimo secolo se esista da qualche parte un locale afterhours:<br />

costui, paonazzo e ridanciano, gli traccia rapidamente con un dito<br />

nell’aria fresca una mappa olografica per giungere a un posto battezzato<br />

Metropolis. Non è molto lontano.<br />

Eccoci. Il Metropolis è una specie di magazzino saturo di fumo d’erba con<br />

uno schermo fissato alla parete opposta al bancone sul quale, non appena<br />

ci accingiamo a brindare per la centesima volta, appare quella sciamannata<br />

di Lene Lovich cantando Lucky Number, Anno di Grazia 1979. My Lucky<br />

Number’s One…Uh-oo-Uh-oo!<br />

Mi lascia basito. L’ultima volta che ho ascoltato questa canzone risale al<br />

tempo del nostro trionfo al Mundial di calcio spagnolo, e ’sti buontemponi<br />

ne possiedono perfino il video… Gora Euskadi!<br />

Gora Euskadi. Viva Euskadi. Il basco, euskera o euskara, è uno degli<br />

idiomi più ostici e misteriosi al mondo. Le stesse origini del popolo basco<br />

sono tuttora oscure. Se è pur vero che i britannici discendono dai baschi,<br />

da chi discendono questi ultimi? Quantunque in gioventù abbia divorato<br />

quantità di fantarcheologia, non ho mai preso per oro colato tutte quelle<br />

congetture su Atlantide, Mu, i dischi volanti e i disegni di Nazca. Ciò<br />

nonostante certe affinità fanno riflettere, e parecchio.<br />

Nell’entroterra basco non è infrequente incontrare donne i cui lineamenti<br />

somigliano al tipo di una scultura aurignaziana ritrovata a Unterwisternitz,<br />

in Moravia: fronte bassa, arco sopraccigliare marcato, naso lungo, bocca<br />

piccola, mento sporgente, testa allungata e sottile. La cultura aurignaziana<br />

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dell’Alto Paleolitico (32.000-21.000 anni a.C.) è considerata da alcuni<br />

archeologi la matrice dell’uomo moderno in Europa: sono attribuiti a essa<br />

i primi esempi tangibili di arte astratta nella storia dell’umanità – il nome<br />

deriva dall’importante sito archeologico di Aurignac, nel distretto francese<br />

dell’Alta Garonna. Sta di fatto che i caratteri di quella scultura somigliano<br />

in modo sorprendente anche al tipo delle strane “teste degli avi”, o Moai,<br />

di Rapa Nui.<br />

Oltre a questo la paleolinguistica riconosce un programma uniforme nel<br />

quale affluiscono non solo tutte le lingue parlate di oggi, ma anche quelle<br />

ormai estinte; il giapponese è affine all’idioma parlato in Georgia che a<br />

sua volta comprende molte radici linguistiche e perfino alcune parole che<br />

corrispondono all’euskera (nonostante in tempi recenti alcuni linguisti<br />

abbiano confutato la tesi di un’origine caucasica della lingua basca), dal<br />

canto suo straordinariamente simile all’idioma dei Lakandoni, una tribù di<br />

Indiani che vive nel nord del Guatemala, a tal punto che un missionario di<br />

origine basca vi predicava nella propria lingua con grande successo.<br />

In ogni modo, l’euskera è una brutta bestia. La cosa divertente è che<br />

spesso i baschi non si comprendono da un monte all’altro, essendo la loro<br />

lingua divisa in una varietà di dialetti. In tal caso tocca loro ricorrere al<br />

batua, l’euskera unificato. Comunque il viaggiatore che mastichi un po’ lo<br />

spagnolo castigliano va sul sicuro. Se poi ci tenete a suscitare un’inarcata<br />

di sopracciglio, epater le basque, ecco alcune frasi d’uso quotidiano:<br />

agur, aio, arrivederci!<br />

agur, arrivederci<br />

aizan!, aizak!, cameriera! cameriere!<br />

arraina, pesce<br />

arratsalde on, buonasera<br />

azkenean, in fondo<br />

ba al da hotelik hemen inguruan?, ci sono degli alberghi qui intorno?<br />

ba al dakizu ingeleraz hitz egiten?, parli inglese?<br />

badakizu euskaraz?, parli basco?<br />

bagarela!, ci siamo, stiamo arrivando<br />

bai ote?, veramente?<br />

bai, egun on, risposta a egun on, letteralmente buongiorno anche a te<br />

bai, sì<br />

barazkiak, verdura<br />

barkatu, scusami<br />

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erdin, hala zuri ere, ugualmente, anche a te<br />

bizi gara!, siamo vivi!<br />

botila ardo bat, una bottiglia di vino<br />

egun on denoi, buongiorno a tutti<br />

egun on, buongiorno<br />

emak bakia!, lasciami solo! (espressione usata anche dal mitico Man Ray<br />

come titolo del suo film e della sua scultura)<br />

eskerrik asko, grazie molte!<br />

eskuinetara, a destra<br />

eup!, ciao, anche apa o aupa o iep!<br />

ez dakit euskaraz hitz egiten, io non parlo basco<br />

ez dut nahi, non lo voglio<br />

ez dut ulertzen, non ho capito<br />

ez, no<br />

ezkerretara, a sinistra<br />

gabon, buonanotte (scuoiare il bufalo invece che la volpe…)<br />

garagardo katxi bat, un katxi di <strong>birra</strong><br />

geldi!, fermati!<br />

gero arte, ci vediamo dopo<br />

ikusi arte, ci vediamo!<br />

jakina!, noski!, sicuro! va bene!<br />

kafe ebakia nahi nuke, vorrei un caffè macchiato<br />

kafe hutsa nahi nuke, vorrei un caffé espresso<br />

kafesnea nahi nuke, vorrei un caffelatte<br />

kaixo aspaldiko!, ciao, quanto tempo!<br />

kaixo!, ciao!<br />

komuna, bagno<br />

lasai, tranquillo<br />

laster arte, ci vediamo presto<br />

mesedez, per favore<br />

metalura, acqua minerale (non suona anche a voi come il nome di una<br />

squadra di calcio polacca?)<br />

neska ederra, bella ragazza<br />

nire izena <strong>Maurizio</strong> da, mi chiamo <strong>Maurizio</strong><br />

non dago autobus-geltokia?, dov’è la stazione degli autobus?<br />

non dago komunak?, dove sono i bagni?<br />

non dago tren-geltokia?, dov’è la stazione (ferroviaria)?<br />

nongoa zara, da dove vieni?, dove abiti?<br />

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ogi piska bat, un po’ di pane<br />

pozten nau zu ezagutzeak, felice di conoscerti<br />

topa!, sono felice! (questa mi fa sbellicare dalle risa, insieme col nome di<br />

un paese in provincia di Bilbao: Fika.)<br />

ura, acqua<br />

xerra patata frji tuekin, bistecca con patate fritte<br />

zein da zure izena?, nola duzu izena?, come ti chiami?<br />

zer moduz?, come va?<br />

zorionak, buone feste!<br />

zuzen-zuzenian, sempre dritto<br />

La pronuncia non dovrebbe presentare grossi patemi. L’accento grafico<br />

non esiste e quello tonico è piuttosto flessibile. Vocali e consonanti si<br />

pronunciano come in italiano tranne che nelle seguenti eccezioni:<br />

g è sempre dura come in “gatto”.<br />

h muta in Euskadi, mentre è aspirata nel territorio basco-francese<br />

tx/ts come la “c” di “cena”<br />

tz “z” sorda, come in “zezè”, come la “c” di “cena” in Bizkaia<br />

z come la “s” di “sole”.<br />

Il katxi è un bicchiere di plastica da un litro in cui vengono mesciti <strong>birra</strong>,<br />

calimocho o kalimotxo (50% vino ordinario e 50% Coca Cola, inventato<br />

trentasei anni fa a Getxo, in provincia di Bilbao) e qualsivoglia altra<br />

pozione alcolica. Considerando lo spirito transumante che anima le feste e<br />

le festività basche, il katxi è piuttosto funzionale. Essendo in quattro, la<br />

classica cuadrilla da bisboccia, potete prenderne uno a testa e andare a<br />

zonzo sereni per un bel pezzo. Salvo che qualcuno – ogni allusione a una<br />

certa ragazza che conosco a Bilbao è fortemente voluta – non se ne esca<br />

con la malsana idea del Katxi Ketama: si pratica un foro nell’orlo inferiore<br />

del katxi e si beve a garganella, come fosse un porrón. Così finirete fradici<br />

in ambo i sensi. E se è kalimotxo, pure appiccicosi.<br />

S’intende che in Euskadi ogni occasione è buona per tracannare alcolici in<br />

quantità industriali. Ma è nelle feste patronali e simili che i vascones ci<br />

danno veramente dentro, come il resto della nazione. Nell’immaginario<br />

collettivo globale la Spagna è e rimarrà sempre associata al concetto di<br />

movida. Poco tempo fa Pedro Almodóvar si è espresso al riguardo: “Per<br />

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molta gente la movida continua a essere sinonimo di orgia perpetua. E non<br />

era esattamente ciò. L’esplosione ufficiale della movida madrilena fu nel<br />

1985, ma per me fu ciò che iniziò nel ’78 e si disfò all’inizio degli Ottanta.<br />

Oggi questo termine è usato largamente a sproposito.”<br />

Sia come sia, la movida basca è estroversa, colorita, inebriante. Le feste<br />

(jaiak) si succedono per tutto l’anno, da primavera a inverno. Perfino il<br />

pueblo più insipido dell’entroterra può trasformarsi in un pandemonio per<br />

tre-quattro giorni di fila: io e i miei amici amiamo spesso rimembrare una<br />

notte di balli e katxis a profusione spesa in un angolo recondito di Bizkaia<br />

che risponde al nome ostrogoto di Larrabetzu. Ma qui mi toccherà essere<br />

selettivo e parlare delle feste a mio modesto giudizio più importanti, da<br />

Carnevale a Ferragosto.<br />

È tradizione che si celebri il Carnevale (in basco, Iñauteriak o Iñotek) in<br />

alcune località di Euskal Herria durante i giorni anteriori alla Quaresima.<br />

Queste celebrazioni che esistono in tutti i paesi europei adottano nei Paesi<br />

Baschi diverse forme e personaggi: come i caldereros della Gipuzkoa,<br />

strane zingaresche comparse “che vengono dall’Ungheria”. A Zalduondo<br />

(Araba) il protagonista della festa è un pupazzo, Markitos, che ogni anno è<br />

giudicato, condannato e bruciato. Un altro fantoccio, Cachi (!), provvisto<br />

di una bandiera e vestito di verde e arancione, anima la festa di Oyón-<br />

Oion, sempre in Araba. Yoaldunak e Mozorros sono invece i pressoché<br />

inesprimibili nomi delle maschere che danno vita all’altrettanto indicibile<br />

Zanpanzar, il Carnevale della località navarra di Iturren-Zubieta, situata a<br />

una trentina di chilometri a nord-ovest di Pamplona-Iruñea lungo la<br />

N121A che porta a Irun. Ma il premio per il Carnevale più chiassoso e<br />

popolare lo vince la cittadina di Tolosa, in Gipuzkoa.<br />

La Navarra, Nafarroa o Nabara in euskera, è un intrigante crocicchio di<br />

molteplici Spagne. Gli abitanti della Comunidad Foral de Navarra, com’è<br />

ufficialmente conosciuta questa regione in ossequio agli storici diritti di<br />

autonomia (i cosiddetti fueros) per lungo tempo esercitati dai navarri e<br />

oggi tornati in auge, sentono fortemente gli aspetti simbolici: il colore<br />

rosso domina lo stemma regionale e le varie sfaccettature del quotidiano,<br />

come le automobili, le motociclette e le uniformi in dotazione alla Policia<br />

Foral, ma soprattutto le fantasmagoriche fiestas della regione, quando gran<br />

parte degli abitanti indossa i tradizionali calzoni e giubba, con le sciarpe e<br />

i pañuelos rossi. Navarra al rosso vivo, alfine. Paesaggi e vini memorabili.<br />

E <strong>birra</strong> a strafottere.<br />

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Le origini della celebre festa di San Fermín, o Sanfermines, risalgono al<br />

Medioevo. Fermín era il figlio di un governatore di Pamplona convertitosi<br />

al Cristianesimo; egli partì per diffondere la parola di Cristo in Gallia, ma<br />

ad Amiens fu imprigionato e poi decapitato. A partire dal 1591 il 7 luglio<br />

gli è stato dedicato. Nello stesso giorno, alle dieci del mattino, una statua<br />

lignea del XV secolo raffigurante il santo patrono della Nafarroa e di<br />

Pamplona-Iruñea viene portata in processione attraverso la città.<br />

Se qualcuno sulla terra nutrisse ancora qualche dubbio, San Fermín è una<br />

festa chiassosa e ad altissimo tasso alcolico. I combattimenti dei tori si<br />

svolgono ogni giorno alle 18.30, dal 7 al 14 luglio. Ogni mattina, i tori<br />

sono lasciati liberi dai Coralillos de Santo Domingo e da lì si scatenano<br />

caricando attraverso l’omonima piazza. Il percorso che li conduce fino<br />

all’arena comprende Calle de los Mercaderes e Calle de la Estafeta, ed è<br />

proprio qui che generalmente si concentrano tutti coloro che intendono<br />

correre con essi cercando di avvicinarli il più possibile; taluni arrivano<br />

perfino a colpirli in testa con dei giornali arrotolati!<br />

Una festa che ha parecchio in comune con San Fermín, poiché anch’essa<br />

prevede la liberazione di bovini cornuti per le strade della città, è la Fête<br />

de Bayonne, l’affascinante capoluogo della provincia basco-francese di<br />

Labour (Lapurdi o Laburdi). Essa inizia il primo mercoledì sera del mese<br />

di agosto e dura cinque giorni. È il Re Léon, alle ore 22 dal balcone del<br />

Municipio, a dare inizio ai bagordi.<br />

Il 4 agosto a Vitoria-Gasteiz, alle sei del pomeriggio, il sindaco spara il<br />

chupinazo (grosso petardo il cui scoppio annuncia l’inizio ufficiale della<br />

cagnara) e un fantoccio nominato Celedón, vestito come i contadini che un<br />

tempo scendevano giù in città per far festa, viene fatto discendere da una<br />

torre della chiesa di San Miguel fin giù nella piazza della Virgen Blanca,<br />

stracolma di festanti… dopodiché è tutto uno spruzzarsi reciprocamente di<br />

spumante. La prima volta che andai a Vitoria-Gasteiz per la festa della<br />

Virgen Blanca fu nel 1994. Era un classico pomeriggio basco estivo senza<br />

sole col cielo color ricotta e io volevo scattare un paio di rullini con la mia<br />

nuova Minolta Dynax. Avevo appena parcheggiato la mia Tipo in una<br />

kalea vicino al centro quando fui circondato da una masnada di zingarelli<br />

assillanti. Il più alto mi arrivava a malapena al mento, ma erano in molti,<br />

se ricordo bene una decina, tutti stracciati e maldisposti. Quando trent’anni<br />

fa percorrevi in solitudine una strada di periferia e all’improvviso ti si<br />

paravano davanti quattro ceffi col caschetto alla Ramones – a prescindere<br />

che adorassi quella band – e le magliette sdrucite, già sapevi che di lì a<br />

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poco la faccia più di merda del gruppo, il capetto, ti avrebbe chiesto di<br />

dargli il portafoglio o gli stivali, o tutt’e due. Allora potevi giocartela in<br />

qualche maniera. Ma con pischelli di dieci anni, massimo dodici... che<br />

cazzo vuoi prevedere? Cadono tutte le regole. Magari di punto in bianco ti<br />

spruzzano in faccia del narcotico e ti risvegli in un lurido sottoscala del<br />

Casco Viejo senza un rene. O con un palo ficcato nel sedere. Comunque<br />

sia riuscii a liberarmi di quei piccoli bastardi a colpi di pseudo kung fu e<br />

ceffoni.<br />

Ah, la Semana Grande Donostiarra: il mio battesimo del fuoco alcolico in<br />

Vasconia. Ero rimasto alla volpe scuoiata. Al terzo giorno di bagordi ne<br />

indossavo la pelle con disinvoltura, come una bagasciona d’alto bordo. Di<br />

tanto in tanto io e l’amico Vito ci perdevamo di vista. Il nostro punto di<br />

riferimento era comunque la taverna Arrai-Txiki, un posto che oggi non<br />

esiste più e che allora era gestito da Julio, un fenomeno d’essere umano di<br />

cui perfino i conoscenti più intimi disconoscevano le origini (“È un po’<br />

basco-navarro, un po’ andaluso, un po’ nonsoché!”). Da lì ripartivamo a<br />

spolverarci tutti i bar della Parte Vieja. Qualche volta ci ricordavamo di<br />

mangiare (in una città la cui cucina è tra le migliori di tutta la Spagna) e di<br />

stimolare la sintesi di vitamina D nei nostri corpicini pallidi prendendo il<br />

sole, quando e se si degnava di apparire tra un piovasco e l’altro, sulle<br />

bellissime spiagge donostiarras.<br />

Il quarto giorno conobbi la questione politica basca. Io e Vito stavamo<br />

bevendo la milionesima <strong>birra</strong> al Bar Bulevar, presso l’Ayuntamiento. Ero<br />

già stato edotto che quello era il Día de la Bandiera – momento critico<br />

delle più importanti feste basche in cui gli abertzales (“patrioti”) assaltano<br />

l’edificio del Comune, ne strappano la bandiera spagnola, la bruciano e la<br />

sostituiscono con l’ikurriña, la bandiera basca. Ma quella sera la polizia<br />

autonoma basca, l’Ertzaintza, era schierata in forze e ricacciò indietro i<br />

manifestanti separatisti sparando palle di gomma. Noi finimmo presi in<br />

mezzo al parapiglia e una pelota saettò fischiando a poco più di un palmo<br />

dalla mia testolina allora zazzeruta. Mentre cercavamo scampo dietro a<br />

un’automobile parcheggiata, due paninari inglesi, che fino allo scoppio del<br />

putiferio stavano facendo classico people watching nel dehors del Bulevar,<br />

s’incazzarono di brutto. “You bloody bobbies!” esclamò uno dei due, un<br />

biondino pettinato alla Rick Astley. L’altro, sorta di Nick Kamen dell’East<br />

End, afferrò una sedia e la scagliò addosso agli sbirri: pochissimo dopo,<br />

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unendo le rispettive forze, essi lanciarono il tavolino. Nel bene e nel male,<br />

gli inglesi sono unici.<br />

Il grosso “problema” è che appena finisce la Semana Grande/Aste Nagusia<br />

Donostiarra (12-19 agosto) si parte in tromba con quella di Bilbao/Bilbo.<br />

Il primo venerdì dopo Ferragosto, dal balcone del Comune, il pregonero<br />

(“banditore”) e la chupinera, colei che fa deflagrare il petardo indossando<br />

un’uniforme dai toni rossi che rammenta quella delle truppe carliste che<br />

assediarono e bombardarono Bilbao nel 1835, danno il via ufficiale a un<br />

vero tour de force alcolico, musicale e gastronomico che si concluderà due<br />

domeniche dopo con la despedida di Marijaia, il simbolo della festa: una<br />

signora grassottella con le braccia levate al cielo in segno di giubilo.<br />

Come un Johnny Mnemonico nato e cresciuto in riva al Po, ho centinaia di<br />

gigabyte di ricordi bilbaini nella memoria: dovessi scaricarli tutti su queste<br />

pagine vi manderei il cervello in crash. Per questo mi limiterò alle mie (e<br />

non solo) esperienze con la bevanda più psichedelica che esista al mondo:<br />

il patxaran.<br />

Il patxaran o pacharán, dal basco baso aran (“prugna selvatica”) è un<br />

liquore dal sapore di prugnole d’origini navarre ma comunemente bevuto<br />

in tutta la Spagna. Si fa mettendo a bagno le prugnole in anisetta con una<br />

piccola quantità di chicchi di caffè e un baccello di vaniglia per diversi<br />

mesi. Il risultato è un liquore dolce color rossastro-marrone trasparente,<br />

intorno ai 25-30% d’alcol per volume. In Navarra si dice che mangiare le<br />

prugnole dopo la macerazione può portare alla pazzia.<br />

Io ci credo ciecamente. Ho sperimentato di persona gli effetti psicotropi di<br />

questo liquore. Una sera di tanti anni fa che in un locale di Portugalete, un<br />

sobborgo di Bilbao, eccedetti nel berlo, mi scatenai in un’imitazione del<br />

Gabibbo davanti alla postazione del DJ. Niente, in confronto a ciò che è<br />

successo a certi miei seguaci. Uno perse realmente il senno per alcune ore.<br />

Ululava le proprie frustrazioni alla luna e alle galassie e sulla strada per il<br />

ritorno all’agriturismo di Lezama dov’eravamo alloggiati tutt’a un tratto<br />

spalancò la portiera della mia auto e si lanciò fuori. Per fortuna io andavo<br />

piano e lui atterrò su un’aiuola. Lì vi rimase a braccia spalancate, come un<br />

crocifisso a faccia in giù. Accostò un Ford Transit tutto rappezzato e gli<br />

occupanti ne smontarono domandandoci se avessimo bisogno di sostegno<br />

e che diavolo fosse successo al nostro collega. Io li tranquillizzai: “Nada,<br />

ha solo bevuto troppo patxaran.”<br />

Josetxo o Garikoitz, dimensioni e accento da orso dei Pirenei, lapidario:<br />

“Vaya, se non è navarro non lo beva!”<br />

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Scoppiammo a ridere. Ma le escandescenze paciaranesche dell’individuo<br />

non finivano lì. Stufatici, lo lasciammo a rantolare chiuso in macchina nel<br />

parcheggio dell’agriturismo e salimmo in camera a dormire la sbronza. Il<br />

mattino dopo, pallide ombre di noi stessi in una splendida giornata di sole,<br />

le verdi colline della Bizkaia tutt’intorno, fummo messi in riga e cazziati<br />

da Don Iñaki Bilbao, proprietario dello stabilimento turistico nonché capo<br />

della sezione locale della Policia Municipal: “Tenemos que hablar” esordì,<br />

freddo come l’inverno russo, cipiglio da Aguirre furore di Dio. Porca troia.<br />

Neanche dodici ore che avevamo disfatto le valigie e già ci eravamo fatti<br />

riconoscere piantando casino di notte. Purtuttavia io feci un tale sfoggio di<br />

diplomazia, lanciando simultaneamente occhiate al curaro in direzione di<br />

my friend delirium – ridotto una merda, è ovvio – che alla fine Iñaki si<br />

convinse che eravamo delle paste di ragazzi e a poco a poco ci prese in<br />

simpatia… anche se per un paio di giorni ci toccò la deportazione in un<br />

altro agriturismo di gran lunga meno confortevole del suo.<br />

Raquel Menéndez Goyenolea, che mi buttò giù dal letto alle 23.15 di un<br />

classico lunedì da sclero per dirmi che mi lasciava, mi fece conoscere un<br />

altro beveraggio demoniaco, il licor de manzana. Le sere che uscivamo<br />

insieme a Bilbao riuscivamo a berne anche cinque a testa, rigorosamente<br />

con ghiaccio perché puro è da coma epatico: le meravigliose scopate che<br />

ci facevamo quand’eravamo bombati di quel veleno alla mela verde! Ma il<br />

primo amore (ad alta gradazione) non si scorda mai. Così una notte stappai<br />

la buta di Etxeko che tenevo sul comodino e cosparsi di liquore i seni della<br />

mia amante per poi leccarmelo goccia a goccia. Rico… suave… Throwing<br />

Copper dei Live in sottofondo. Lacrimuccia.<br />

La sera del 21 agosto 1993 occupammo un bar di Santutxu, il Blues, per<br />

assistere alla finale di Supercoppa Italiana Torino-Milan che si giocava a<br />

Washington a mo’ di spot promozionale per gli imminenti Mondiali di<br />

calcio U.S.A. Cioncammo cerveza e patxaran a secchiate sotto lo sguardo<br />

mezzo divertito e mezzo perplesso del gestore e degli habitué, che peraltro<br />

conoscevano già le nostre inclinazioni dipsomaniache. Il Toro perse 0-1<br />

ma noi non smettemmo di sbevazzare. Quando il Blues chiuse i battenti<br />

rotolammo giù ad Aste Nagusia – Santutxu, uno dei quartieri a più alta<br />

densità di popolazione d’Europa, ha la sua origine in un eremo – e tra la<br />

borrachera che avevamo addosso e la spaventosa concentrazione d’anime<br />

lesse come noi e anche più ci separammo come cosmonavi in fuga da un<br />

pianeta il cui sole fosse sul punto di esplodere. Giovanni, detto Giuà<br />

l’Attaccapanni, fu ritrovato il mattino dopo riverso in un’aiuola sofferente<br />

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d’alopecia aerata dinanzi alla saracinesca abbassata del bar: non ricordava<br />

nulla della notte scorsa. Certi amabili mattacchioni del quartiere invece<br />

ricordavano bene un personaggio rasato a zero e allampanato arrancare tra<br />

i chioschi come un predicatore battista in acido strepitando ogni dieci<br />

secondi: “Skinhead is no fascist! Vaffanculo!” Quanto a me, no comment.<br />

Tempo dopo a Bilbao incontrai un signore barbuto che aveva presenziato<br />

alla fase calcistica della nostra baldoria. Disse: “Voi italiani siete dei pazzi<br />

scatenati. Il patxaran è un digestivo! Non si beve così, un bicchiere dietro<br />

l’altro, come fosse una <strong>birra</strong>!”<br />

Forse noi torinesi discendiamo dai tartari della Mongolia occidentale.<br />

Figura 5. Jai Alai, la <strong>birra</strong> del pelotari (prodotta in India).<br />

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LE INVASIONI BARBARICHE<br />

No, non è giusto che quei cazzoni si prendano tutto il divertimento – con le loro<br />

voci rauche e dodici scopate settimanali… bocche cavernose, urla, rutti, imbevuti<br />

di Guinness.<br />

Steven Berkoff, East: Sylv’s Longing Speech.<br />

Come ho già scritto, prediligo le brunette con le labbra turgide. Ma le altre<br />

figure di donna disponibili sul terzo pianeta del Sistema non mi lasciano<br />

certo indifferente: per esempio, le palliducce con gli occhi blu. Come<br />

Robin Tunney. Americana, attrice di grande talento. È la migliore amica di<br />

Liz Phair, la più scollacciata cantautrice rock statunitense degli ultimi anni<br />

(“Voglio essere la tua regina bocchinara”, canta costei in un brano del suo<br />

acclamato esordio discografico, Exile In Guyville). Qualche anno fa Robin<br />

ha vinto una Coppa Volpi a Venezia quale migliore attrice protagonista<br />

per la splendida interpretazione di una ragazza tourettica nel film Niagara<br />

Niagara. In tempi più vicini ha recitato nella serie Prison Break, ma è<br />

apparsa anche nell’episodio pilota di Dr. House – Medical Division nel<br />

ruolo di Rebecca Adler, una maestrina ebrea affetta da neurocisticercosi:<br />

un’infezione caratterizzata dalla presenza nell’encefalo di cisti formate<br />

dalla fase larvale (immatura) della buona vecchia immonda Taenia solium,<br />

il verme solitario. Roba da non mangiare più salumi e carne cruda a vita.<br />

E Marie-Josée Croze. Di questa deliziosa attrice franco-canadese avevo<br />

ammirato… il bel culo nudo e le iridi gattesche in una puntata del serialcult<br />

The Hunger ben prima che lei vincesse, a buon diritto, la Palma d’Oro<br />

a Cannes per la caratterizzazione di Nathalie, la “correttrice di bozze”<br />

eroinomane che nel bellissimo Le invasioni barbariche aiuta lo scapestrato<br />

ma profondamente umano professor Rémy, “socialista edonista”, a morire<br />

con dignità. Bella e brava, insomma, la Croze ha confermato il suo<br />

versatile talento in un altro bel film tratto da un libro indimenticabile, Lo<br />

scafandro e la farfalla. Rispetto al racconto autobiografico di Jean-<br />

Dominique Bauby, il pittore-regista Julian Schnabel si è preso più di una<br />

libertà in sede d’adattamento, ma non importa, il nucleo struggente della<br />

storia è rimasto intatto. In una delle scene aggiunte dal proteiforme artista<br />

statunitense, Jean-Dominique riapre l’unico occhio funzionante dopo il<br />

devastante attacco che ha imprigionato il suo corpo in uno “scafandro da<br />

palombaro” e, attraverso una percezione sfumata e irregolare, distingue gli<br />

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splendidi lineamenti di due donne in camice bianco chine sul suo volto a<br />

rinfrancarlo: l’ortofonista Sandrine (Croze) e la fisiatra Brigitte (Olatz<br />

Lopez Garmendia, la meravigliosa moglie basca di Schnabel). “Sono in<br />

Paradiso”, mormora Jean-Do tra sé.<br />

Io sono agnostico. Ma qualora vi fosse qualcosa al di là della vita terrena,<br />

un momento da rivivere all’infinito, e io ne fossi giudicato meritevole –<br />

ma esiste la meritocrazia nell’universo? –, e per di più mi fosse data la<br />

possibilità di scegliere, allora vorrei vivere la mia sempiterna beatitudine<br />

in una taverna donostiarra con Marie-Josée, Olatz e Valerie, e mettiamoci<br />

anche Vera Farmiga, altra adorabile attrice dal volto di neve artica, e<br />

Barbara Goenaga, futura star del cinema iberico nata dalle acque del fiume<br />

Urumea, tutte dietro il banco a spillare Draught Guinness e Menabrea per<br />

me. Per sempre.<br />

Ma non ci starebbe male neppure un fusto perpetuo di Pilsner Urquell o di<br />

Heineken. O una bella dunkel weisse tedesca, la Herrnbräu per esempio.<br />

Chiedo troppo?<br />

I Barbari, da tempo immemorabile presenti intorno ai confini dell’Impero<br />

romano, iniziarono a penetrare massicciamente nel suo territorio tra il IV e<br />

il V secolo d.C. I Germani passarono il confine del Reno e devastarono a<br />

più riprese la Gallia, compiendo talvolta azioni di razzia anche in Spagna e<br />

nell’Italia settentrionale e spingendosi finanche in Britannia.<br />

Sette secoli dopo, essi continuavano a spingersi oltre le proprie frontiere,<br />

ma le loro navi anziché guerrieri affamati di carne e assetati di sangue ora<br />

trasportavano <strong>birra</strong> in tutta Europa salpando dal porto di Amburgo, città<br />

che nel 1100 era sede di un importante mercato del luppolo. Nel 1516 la<br />

Bavaria promulgò il Reinheitsgebot, un editto nel quale si prescriveva che<br />

la <strong>birra</strong> poteva essere fatta esclusivamente con malto d’orzo, luppolo e<br />

acqua. In una delle stesure successive venne inserito anche il lievito, così<br />

come le birre di grano ottennero una speciale dispensa.<br />

Oggi la Germania, a tutti nota per l’Oktoberfest e una gamma sterminata<br />

di stili di <strong>birra</strong> (altbier, kolsch, weizen, bock, dunkel, monaco…), è in testa<br />

alle classifiche mondiali come paese consumatore ed è seconda soltanto<br />

agli Stati Uniti come paese produttore.<br />

Mercoledì 1 ottobre 20**, h 09.49 a.m., CET. Ho sotto gli occhi cisposi<br />

la scheda della leggendaria EKU 28, o Kulminator Urtyp Hell (un nome<br />

da band metal core!). Questa doppelbock è una delle birre più forti del<br />

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mondo (11,6% alc.). La ricordo con simpatia come integratore al malto di<br />

quei lunghissimi e atletici prepartita negli anni Ottanta fuori dello Stadio<br />

Comunale, ora Olimpico, anche se alla Rai di Roma, per somma ignoranza<br />

o affinché non sia confuso col loro Stadio Olimpico caput mundi, spesso<br />

lo chiamano Stadio delle Alpi. Un’altra bevanda classica “da stadio” era il<br />

vino portoghese Mateus, consumato in quantità da cosacchi anche dai<br />

Faces sul palcoscenico per tonificarsi fra una canzone e l’altra. Johnny<br />

Rotten li detestava per questo: “Fingevano di essere ubriachi sul palco.”<br />

Già. John Lydon detto Rotten. Un giorno qualcuno mi avvertì: “Mauri, ma<br />

lo sai che a luglio i Sex Pistols vengono a suonare a Torino al Traffic?” E<br />

io mi posi una domanda del menga: “Fantastico, meraviglioso, ma che<br />

senso può avere un concerto dei Sex Pistols nel 2008?” Rispondendomi<br />

all’istante: “Porcaccia eva se ha senso!!! Basta scrollarsi di dosso ogni<br />

forma di preconcetto.” Primo fra tutti, il timore di assistere al definitivo<br />

raglio del cigno di quel gruppo rock’n’roll che, benché avendo pubblicato<br />

un unico maledetto corrosivo tonitruante devastante contagioso pernicioso<br />

sguaiato stonato irriverente in definitiva fottutamente fantastico disco, ha<br />

cambiato/rovinato (eh eh eh, è proprio così!) per sempre la tua vita. E non<br />

solo la tua, accidenti a loro…<br />

“Chi sono i Sex Pistols?” si chiedeva la rivista.<br />

Fine anni settanta, ero andato a trovare mia madre e stavo leggendo il giornale.<br />

Scorrendo un supplemento domenicale per il popolino, la mia attenzione fu<br />

catturata, e la mia vita cambiata, da queste parole insolite in caratteri di scatola<br />

“CHI SONO I SEX PISTOLS?”. Volevo saperlo subito anch’io. L’articolo li<br />

bistrattava, li denigrava: questo “sedicente gruppo musicale” britannico di<br />

mocciosi “punk rocker” che si scagliavano con rabbia contro tutto, vomitavano<br />

oscenità e sputavano a loro piacimento, vestivano di stracci, catene, spuntoni e<br />

stivali orrendi, facevano cose indicibili ai capelli (e alle loro ragazze) e<br />

producevano un frastuono rivoltante scambiandolo… alcune loro canzoni erano<br />

state bandite dalle radio…<br />

Be’ ne avevo sentito abbastanza. Ero già innamorato cotto. (Il lato ironico,<br />

ovviamente, è che la rivista cercava di mettere in guardia la gente dai Pistols e<br />

loro simili, e invece finì <strong>forse</strong> col convertire migliaia di adolescenti al punk.)<br />

Andai immediatamente al negozio di dischi d’importazione ed entrai di corsa,<br />

domandando col fiatone: “Avete i Sex Pistols?”<br />

“Ehi, Joe!” gridò il ragazzo, ridendo. “Un altro che vuole i Sex Pistols!”<br />

Li avevano finiti.<br />

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Anch’io come John Shirley, scrittore di fantascienza punk autore del brano<br />

precedente, me ne innamorai appena ne sentii parlare. Altri, per la maggior<br />

parte pallosissimi radicali con barbe cespugliose e pantaloni di velluto a<br />

coste, li odiarono subito a morte. Erano quei tizi che picchettavano una<br />

mattina su dieci gli ingressi dei licei e degli istituti tecnici, “rimarremo<br />

piantati qua davanti fino a mezzogiorno, compagno”, ti dicevano, cosicché<br />

tu te n’andavi al centro a bighellonare felice e incosciente, ma il giorno<br />

dopo venivi a scoprire con raccapriccio che il picchetto era durato soltanto<br />

un’ora e mezza e i sedicenti contestatori si erano presentati puntualissimi e<br />

splendidamente preparati per l’interrogazione di algebra… morale della<br />

brutta favola, alla fine dell’anno scolastico loro promossi a pieni voti e tu<br />

bocciato come un fesso da corsa. Pure, ammettiamo che tra te e lo studio<br />

vi era la stessa distanza che fra la Terra e la Stella Polare… però…<br />

Per questi futuri parlamentari del PD (o gestori di locali alternativi, come<br />

Okudera) il punk era un rigurgito nichilista del fascismo. Ricordo bene un<br />

servizio trasmesso da una nota tv privata torinese che stigmatizzava “gli<br />

idioti degenerati del nazi-punk-rock”, mostrandoci le fotografie in bianco<br />

e nero di un grottesco ersatz piemontese dei Kiss (ma che c’entravano?),<br />

capelli alla Franco Causio e smorfie da adolescenti costipati sotto il trucco<br />

razziato ai beauty-case delle loro mammine. Il giornalismo disinformato e<br />

dozzinale è una piaga vecchia quanto l’umanità.<br />

Nessuno spiegò lo spirito di quel tempo meglio di Rat Scabies, vulcanico<br />

batterista dei Damned, in un’intervista del 1976: “Oggi il pubblico vuole i<br />

suoi propri eroi, non vecchi uomini noiosi. Doveva accadere; la scena<br />

musicale era diventata talmente stagnante che doveva cambiare.” E io,<br />

post-bambino coi capelli informi e il naso a patata piemu-siculo scimmiato<br />

per Doctor Who, mi bevevo quel mutamento come acqua sorgiva corretta<br />

con solfato di anfetamina seduto a gambe incrociate di fronte al nostro<br />

nuovissimo televisore a colori, i libri di scuola dimenticati sulla scrivania<br />

della mia cameretta: Anarchy in the U.K., London Calling, Plan 9 Channel<br />

7, Happy House…<br />

E ora, trent’anni e trenta chili dopo, i Sex Pistols venivano a suonare per la<br />

prima volta nella mia città. Wow.<br />

Trout Mask Replica, Song Cycle, Anthem of The Sun e Sgt. Pepper sono stati tutti<br />

nette ridefinizioni della musica popolare, ma White Light/White Heat dei Velvet<br />

Underground fa parte di una categoria tutta sua. Anziché infiltrare altri generi<br />

(blues acido, arrangiamenti classicheggianti, bluegrass, music hall) nella forma<br />

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ock i Velvet la espansero riducendola alla sua ossatura: il beat, l’elettrico pulsare<br />

dell’anima del rock’n’roll. White Light/White Heat è il paradigma di questa<br />

musica. Solamente gli Stooges, i primi Modern Lovers, i Sex Pistols e i Clash gli<br />

si sono avvicinati, e nessuno di questi gruppi possedeva quella che si potrebbe<br />

definire l’elevata intelligenza spirituale dei Velvet – la loro consapevolezza, da<br />

apprendisti presso la bottega dell’arte con la A maiuscola, di quel che stavano<br />

facendo.<br />

Richard Mortifoglio, What Goes On n. 3, 1982.<br />

Forse il bravo Richard M. avrebbe dovuto ascoltarsi con molta attenzione<br />

Sandinista prima di buttar giù queste parole. La sua disamina è comunque<br />

rilevante poiché rende giustizia alle qualità musicali di Johnny Rotten e C.<br />

Noterete che non ho fatto ricorso al corsivo. Ci mancherebbe; quelle dei<br />

Sex Pistols sono canzoni!!! Ruvide sgraziate e iconoclaste finché si vuole,<br />

ma pur sempre pezzi rock, con un’articolazione e un impatto sonoro che<br />

nessun altro su questo sferoide è mai più riuscito a eguagliare – anche per<br />

merito della produzione “stratificata” di Chris Thomas e Bill Price, va<br />

detto. Nei brani di Never Mind The Bollocks le intro, i break e i middle<br />

eight sono assolutamente stupefacenti per una band di cosiddetti teppisti<br />

illetterati musicali. Ed è un disco all killer no filler, dodici colpi di frusta e<br />

nemmeno una sola caduta di tono. Qualcuno potrebbe obiettare: “Ma che<br />

diamine, hanno registrato soltanto quello!” Be’, per quanto mi riguarda,<br />

hanno detto più i Pistols in un solo album che i Pink Floyd in quattordici.<br />

Fermo restando che mi piace The Piper at the Gates of Dawn: del resto,<br />

piace pure a Captain Sensible.<br />

Torino, 12 luglio 2008, Parco della Pellerina, h 00.10 a.m. I Sex Pistols,<br />

autori di una performance micidiale, ritornano sul palco per un secondo<br />

inatteso encore. Johnny Rotten ha annunciato una vecchia canzone: Silver<br />

Machine. Io e Vito – my friend delirium! – con la quinta o sesta lattina di<br />

<strong>birra</strong> in mano, incrociamo gli sguardi. “Porca miseria, non sarà mica<br />

quella Silver Machine?” Il più grande hit punkadelico degli Hawkwind, la<br />

folle ciurma cosmica di Dave Brock.<br />

Steve Jones parte a tutto gas con un classico eight-bar rock’n’roll boogie<br />

riff, poi si apre una breccia nel tessuto spazio-temporale del palco e ne<br />

scaturisce un loop elettronico da vecchio film di fantascienza sovietico…<br />

ebbene sì, è proprio Silver Machine degli Hawkwind. Pensa tu che diavolo<br />

mi stanno suonando questi! In verità non sono poi così stupefatto: John<br />

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Lydon ha sempre nominato I Falchi del Vento e i Pink Fairies tra le sue<br />

principali influenze. Ergo… che sballo, ragazzi.<br />

Ma le sorprese non sono finite… Roadrunner! Suonata esattamente come<br />

in The Great Rock’n’roll Swindle; vale a dire, sono passati trentadue anni<br />

e Johnny continua a disconoscerne le liriche! Ma questa volta a metà<br />

canzone non si è lamentato per questo, l’accento cockney più tagliente del<br />

coltello di un teppista dell’East End: “Stop it, it’s fucking awful!” Però alla<br />

fine si è incacchiato come un aspide con il solito cretino lancia-bottiglie.<br />

Come diceva il saggio Eros Drusiani: “I coglioni sono molto più di due.”<br />

Definitivamente: “Chi sono i Sex Pistols?”<br />

I Sex Pistols sono e saranno sempre una trascinante, devastante, ruggente,<br />

tonante, travolgente, fantastica rock’n’roll band. E mi hanno nuovamente<br />

cambiato la vita. Thank you, vecchi satanassi.<br />

Se qualcuno pronuncia la parola Gallia a me viene subito in testa Obelix<br />

che tracanna otri su otri di <strong>birra</strong>. E a ruota un fottio di marche storiche<br />

francesi: 1664 de Kronenbourg, Adelscott, Amadeus e la Bière du Demon.<br />

Quand’ero adolescente quest’ultima <strong>birra</strong> m’incuteva timore: cosa mai mi<br />

sarebbe capitato se l’avessi bevuta? Sarei disceso e rimasto agli inferi per<br />

tutto il tempo che il mio organismo avesse impiegato a smaltirla? Mi sarei<br />

ritrovato a strillare Sabbath Bloody Sabbath su un palco al posto di Ozzy<br />

Osbourne, col baffuto Tony Iommi a spararsela a mancina? Oppure sarei<br />

diventato il bambino di Rosemary?<br />

In realtà la moda delle “birre diaboliche” si deve a una fabbrica belga, la<br />

Moortgart, che in un mare di birre che offrivano in etichetta richiami ad<br />

abbazie, santi et similia, scelse con fine ironia di differenziarsi chiamando<br />

una sua nuova ale Duvel, ossia “il diavolo”. Oggigiorno l’elenco di birre<br />

demoniache è piuttosto nutrito e i grafici pubblicitari non lesinano fantasia<br />

nelle etichette: per esempio quella della canadese Maudite (il cui nome è<br />

già tutto un programma) mostra il solito diavolo alato in primo piano, ma<br />

altresì un’inquietante barca di dannati sullo sfondo della luna piena. Io, per<br />

me, la berrei soltanto in compagnia di uno stimato esorcista.<br />

Andiamo alla fiera dell’est. I primi abitanti della Boemia, regione storica<br />

che con la Moravia forma la Repubblica Ceca, furono i Boi. A essi nel I<br />

secolo d.C. si sostituirono i Marcomanni, sottomessi dopo dure battaglie<br />

dai Romani. Nei secoli V-VI vi penetrarono tribù slave. Alla fine del VIII<br />

l’Impero d’Occidente assorbì e cristianizzò Boemi e Moravi. Dopo alterne<br />

vicende nel 1114 i duchi di Boemia divennero coppieri ed elettori del<br />

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Sacro Romano Impero. Divenuta provincia degli Asburgo al termine della<br />

guerra dei Trent’anni (1618-1648) la Boemia riuscì a emanciparsi solo con<br />

il crollo dell’Impero, nel 1918: da quel momento e fino al 1922, la sua<br />

storia si fuse con quella della Cecoslovacchia e, dopo la scissione da<br />

quest’ultima del gennaio 1993, con le vicende della Repubblica Ceca.<br />

Torniamo indietro al 1840. In quell’anno Anton Dreher, mettendo a frutto<br />

i risultati di alcuni esperimenti condotti in Baviera sui meccanismi della<br />

bassa fermentazione, concepì una <strong>birra</strong> lager che in seguito fu battezzata<br />

proprio col nome della città nella quale fu realizzata, Vienna. Due anni più<br />

tardi nella città di Pilsen, in Boemia, un tal Josef Grolle cercò di produrre<br />

su larga scala una <strong>birra</strong> simile a quella di Dreher: la prima cottura avvenne<br />

nella birreria Prazdroj. Tuttavia il risultato fu differente: la sua <strong>birra</strong> era<br />

leggera, piacevole, amarognola ma soprattutto chiara, come nessun’altra<br />

al mondo. Subito battezzata pilsner, riscosse un successo stratosferico che<br />

dalla natia Boemia si espanse a macchia d’olio – di <strong>birra</strong>, si potrebbe dire<br />

– per tutto il globo terracqueo.<br />

La Pilsner Urquell è l’epitome dello stile pils. Piuttosto secca e altamente<br />

digestiva, almeno a Torino soffre la concorrenza della già menzionata e<br />

ormai onnipresente Beck’s e della Heineken. Ma è una signora <strong>birra</strong> e<br />

perciò meriterebbe d’essere rilanciata. Da poco ho incluso nel mio periplo<br />

notturno un locale gradevole e discreto situato nelle vicinanze della storica<br />

Piazza Vittorio che la mesce alla spina: in confronto a certe risciacquature<br />

di stoviglie propinate in altri posti, sembra quasi una ale! Una curiosità:<br />

San Adalberto, vescovo di Praga e apostolo d’Ungheria, Polonia e Prussia,<br />

nel 993 proibì la cottura della <strong>birra</strong>. È che i preti hanno certe idee…<br />

Nel mio cervello l’Olanda è un photo show sinaptico in cui si alternano<br />

immagini dai toni oranje di Johan Cruyff, Marco Van Basten, Ruud Gullit,<br />

Rutger Hauer, Rebecca Romijn, Sylvie Van der Vaart e una bottiglia da 33<br />

cl. di Heineken. Se faccio clic sulla foto mentale di Cruyff ne erompono a<br />

spirale altre cento: la moglie Danny nel 1974 con la camicia legata in vita<br />

e i pantaloni a zampa d’elefante, “il gol impossibile” segnato all’Atlético<br />

Madrid, un suo classico spunto sull’out sinistro controllando la palla con<br />

l’esterno del piede destro, la famosa frase detta ai suoi giocatori prima di<br />

vincere la Coppa dei Campioni a Wembley col FC Barcellona: uscite e<br />

divertitevi… Johan Cruyff gestaltizza la mia idea di football. Condivido<br />

pienamente tutto quanto egli afferma in Mi piace il calcio (ma non quello<br />

di oggi), un libretto alla cui lettura coarterei certi allenatori, presidenti e<br />

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dirigenti italiani (ma non solo) pieni di zuppa irrancidita, nonché centinaia<br />

di migliaia di cosiddetti tifosi. ’Fanculo al business teratocapitalistico, il<br />

calcio deve tornare a essere un divertimento, i trequartisti devono puntare<br />

l’uomo in verticale e le ali volare sulle fasce e crossare in area dal fondo!<br />

Ricordo una piacevole serata passata a Casa Olanda durante le Olimpiadi<br />

Invernali del 2006, bevendo un boccale dietro l’altro e rimpinzandomi di<br />

patatine fritte insaporite con gustose mostarde locali. Sotto il padiglione<br />

principale c’era una pista di pattinaggio su cui, bevuto, presi un bel paio di<br />

culate prima di assestarmi in uno stile alquanto mediocre ma sicuro. Gli<br />

inservienti erano tutti sorridenti e affabili. Alfine, malgrado la Endemol e<br />

l’Ajax della stagione 1991-1992 (chi come me tifa Toro proverà una fitta<br />

al cuore), gli olandesi mi stanno simpatici. Forse ai più non importerà una<br />

beata fava, ma nel lontano 1968 Starstruck, canzone tratta dall’album che<br />

io considero il meisterwerk dei Kinks, The Kinks Are the Village Green<br />

Preservation Society, non riuscì a entrare nelle classifiche in alcun paese<br />

tranne che l’Olanda: con tutto che è una canzone sublime, purissimo genio<br />

melodico britannico. Questa è soltanto una tra le numerose dimostrazioni<br />

d’apertura mentale degli abitanti delle Nederlands. Oltretutto furono loro<br />

ad aprire la prima fabbrica di <strong>birra</strong> in America, nel lontano 1632: le prime<br />

birre americane erano state commercializzate in modo ufficiale nel sud di<br />

Manhattan venti anni prima. New York è sempre avanti.<br />

La Heineken, commercializzata come pilsener ma in realtà una lager, è la<br />

<strong>birra</strong> più importata in tutto il mondo, la prima a sbarcare negli Stati Uniti<br />

dopo il Proibizionismo. È la mia seconda scelta in bottiglia, essendo la<br />

Menabrea la prima. Soprattutto in Spagna ne assumo in buone dosi, come<br />

fresca e leggera alternativa “serale” a San Miguel e Voll-Damm; benché<br />

perlopiù al banco mi tocchi pronunciarla alla castigliana, enequen, poiché<br />

in diverse occasioni i camareros mi hanno restituito un inarcamento di<br />

sopracciglio.<br />

Tempo fa in una discoteca di Suances, una cittadina della costa cantabrica<br />

esteriormente ordinaria ma dalla nightlife estiva sorprendente (soprattutto i<br />

mercoledì sera) e con una spiaggia, Los Locos, assai rinomata per il surf,<br />

chiesi una Heineken alla maniera sassone. Il barista, faccia da indio, gilet<br />

di pelle nera e foulard al collo, mi guardò strano e chiese: “Ma da dove<br />

vieni?”<br />

Io sorrisi. “Sono italiano. E tu?”<br />

“Io? Honduras.”<br />

Una mutua sensazione di sradicamento… 2000 anni luce da <strong>casa</strong>.<br />

60


Sorrisi di nuovo. “Muy bien. Allora siamo due stranieri in terra straniera.”<br />

Lui si fece una bella risata e mi offrì la <strong>birra</strong>. Proost!<br />

Equivoci sulle pronunce <strong>birra</strong>ie a parte, anche la Cantabria è un bel posto<br />

di sbevazzoni. C’è un forte campanilismo con i vicini baschi, ma non entro<br />

in merito. I Romani raccontavano di aver incontrato difficoltà a trattare coi<br />

Cantabrici. Infine, pochi anni prima della nascita di Cristo, riuscirono a<br />

sottometterli, ma dal IV secolo d.C. il territorio, come tutta l’Hispania<br />

imperiale, fu invaso a più riprese da varie popolazioni barbariche. Soltanto<br />

nel 1978 la Costituzione creò la regione della Cantabria, che fino ad allora<br />

era stata considerata un’estensione costiera della Vecchia Castiglia.<br />

Santander, il capoluogo, vanta un’intensa vita notturna. D’estate pullula di<br />

compatrioti. Una sera davanti a un locale a El Sardinero, la zona chic della<br />

città, inquadrammo tre mozas: avevano l’aria un po’ smarrita. Magari sono<br />

di Soria ed è la prima volta che vengono qua in vacanza, commentammo.<br />

Si approssimarono al bar con prudenza; noi lì in agguato, maschi caproni,<br />

coi nostri tintinnanti cubatas de ron. Tutt’a un tratto la più attraente del<br />

terzetto disse: “Allora, ragazze mie, entriamo a prenderci da bere?”, con<br />

un marcato accento delle Langhe. Mancò un pelo che esplodessimo loro in<br />

faccia.<br />

La Cantabria costiera è ricca di attrattive naturali e mondane, ma faccio<br />

prima a consigliarvi l’acquisto della guida Lonely Planet per la Spagna<br />

settentrionale. Ciò che non potete proprio perdervi è il leggiadro Parco<br />

Nazionale dei Picos de Europa, che si estende su tre regioni – Cantabria,<br />

Asturie, Vecchia Castiglia. È il luogo ideale per ritemprare il corpo, la<br />

mente e… il palato, coi suoi squisiti formaggi e le varietà cantabriche di<br />

orujo, un liquore che si ottiene dalla distillazione della sansa dell’uva. Per<br />

di più il mare non è lontano. Un bel posticino da usare come base per le<br />

escursioni nei Picos è Potes: questa cittadina, piuttosto animata in alta<br />

stagione, conserva un certo fascino nel centro storico. I bar e le enoteche<br />

non mancano, ma essendo a un passo dalle Asturie vi si mescono fiumi di<br />

sidro. Ogni sidrería ha installato accanto all’ingresso un marchingegno a<br />

pulsante per spillare il sidro nel bicchiere come si deve, ossia tenendo la<br />

bottiglia il più alto possibile, risparmiandovi in tal modo le figuracce che<br />

si rimediano tentando di imitare il virtuosismo manuale asturiano nella<br />

mescita: di lato generalmente è montata una panca di legno, così potete<br />

accomodarvi e sorbire il succo di mele fermentato osservando la gente che<br />

passa. Magari beccate.<br />

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I messicani potrebbero essere considerati bárbaros soltanto in un romanzo<br />

di fantascienza ucronica in cui gli ellenici fossero approdati in America<br />

Centrale diciassette secoli prima di Colombo. Eppure la moda delle birre<br />

lager leggere messicane, letteralmente esplosa in Europa al principio degli<br />

anni Novanta, possiede tutte le connotazioni di un’invasione barbarica:<br />

fulminea, spiazzante, devastante.<br />

Nel momento in cui un tale Saddam Hussein saliva prepotentemente alla<br />

ribalta delle cronache mondiali minacciando e infine invadendo il Kuwait,<br />

Torino conosceva un’improvvisa fioritura di luoghi all’aperto dove bere e<br />

sbocconcellare qualcosa. Il più trendy (parola maledetta ma efficiente) era<br />

l’Ippopotamo, che si stendeva sull’area dell’ex giardino zoologico. Nelle<br />

serate più calde ci si stava da favola. Serbo un’infinità di ricordi di quella<br />

stagione. Ecco la Top Three:<br />

1. “L’Ippopotamo sta per chiudendo”. Frase pronunciata da una certa<br />

Esther. Eravamo in un altro locale all’aperto, Le Terrazze sul Po, e<br />

qualcuno aveva proposto di spostarci all’ex zoo.<br />

2. Il treno di Corona’s che trincai in una sera senza pagarne neanche una<br />

fottuta bottiglia, complice un barista malato di rock’n’roll originario di<br />

Imperia che era entrato a far parte della nostra eterogenea combriccola.<br />

3. Il sottoscritto, ebbro di spirito e di allegria, sventolando una bandiera<br />

granata per tutto il giardino: il Toro aveva appena vinto la Coppa Italia<br />

1993 in una finale agonica.<br />

Soltanto all’Ippopotamo la Corona Extra andava via ad autobotti. Esagero,<br />

ma mica tanto. Ora il consumo è sensibilmente calato. Fashion, turn to the<br />

left, fashion, turn to the right. In ogni caso è una <strong>birra</strong> leggera, fresca,<br />

dissetante: niente più, niente meno. Il rituale della fettina di limone nel<br />

catacretico collo della bottiglia fa arricciare il naso ai puristi <strong>birra</strong>ioli, ma<br />

per quanto mi riguarda una Corona in particolari occasioni ci sta bene, “fa<br />

fine e non impegna”, soprattutto in riva a un oceano sotto la canicola.<br />

Un’altra <strong>birra</strong> messicana di gran fama è la Dos Equis, originariamente<br />

fabbricata dal <strong>birra</strong>io tedesco Wilhelm Hasse nel 1897. Io mi riferisco<br />

sempre a essa come la cerveza del restaurante, poiché mi capita di berne,<br />

e tanta, soltanto quando mangio messicano. Nella seconda metà degli anni<br />

Novanta m’innamorai di un locale, il Centenario, dall’ottima cucina texmex<br />

e cocktail preparati con amorevolezza – se desiderate incollarmi al<br />

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vostro bancone fino alla fine del mondo, fatemi un’ottima tequila sunrise.<br />

Non tutti i barman ne sono capaci, purtroppo.<br />

In Spagna, fino a una decina d’anni fa, ero assiduo cliente della Cantina<br />

Mariachi. Vado pazzo per il mole poblano, le patatas charras e il dulce de<br />

caramelo. Al Mariachi di Calle Simon Bolivar, Bilbao, devono avere<br />

tuttora le nostre foto segnaletiche attaccate con le puntine dietro la cassa:<br />

là dentro ci riducevamo sempre come delle pezze d’alcol. Una volta ero<br />

così ben combinato che uscendo battei una capocciata tremenda contro la<br />

serranda semiabbassata. Un’altra scolammo un’intera bottiglia di mescal<br />

dando spettacolo per il locale come i Muppets: toccandone a me l’ultimo<br />

sorso, avrei dovuto ingoiare il gusanito, ma mi rifiutai categoricamente.<br />

“Non sai cosa ti perdi”, mi biasimò Luca, il nostro compare piemontese<br />

trapiantato in Euskadi, dopodiché lo mandò giù proprio come facevano<br />

quei veterani del Vietnam in sedia a rotelle nel film Nato il 4 di luglio.<br />

Una leggenda azteca racconta che una dea si era innamorata di un mortale<br />

ma non poteva fare l’amore con lui proprio perché non era come lei, allora<br />

ella creò un liquore dalle foglie della pianta più arida e sterile, l’agave, lo<br />

fece bere al suo innamorato e lui divenne un dio. Pazienza, sto bene anche<br />

solo con la saggezza del salmone irlandese.<br />

Foto segnaletiche, ho scritto. Qualche tempo dopo la serata del mescal ci<br />

ripresentammo alla Cantina Mariachi per un’altra strippata, ma appena<br />

entrati fummo stoppati dalla gestrice, espressione severa e pugni serrati:<br />

“Chicos, io vi faccio entrare a mangiare, però pretendo che non ripetiate il<br />

casino della volta scorsa. Questo è un ristorante, non un bar de barrio.”<br />

A sus ordenes, Doña Carmen.<br />

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Figura 6. Una bella <strong>birra</strong> da tifosi di calcio in trasferta.<br />

64


MARS STOUT BEER<br />

Poche storie, la <strong>birra</strong> fa bene: e come potrebbe essere altrimenti, essendo<br />

essa derivata da infusione e decozione d’orzo, grano e cereali. Una recente<br />

ricerca effettuata dal CNR su marche italiane ha dimostrato che la <strong>birra</strong><br />

contiene microcomponenti con azione antiossidante, ovverosia i nostri<br />

ardimentosi soldatini anti-arteriosclerosi e infarto.<br />

La scoperta delle virtù terapeutiche della nostra amatissima bevanda non è<br />

roba d’oggi. Nel XVII secolo il predicatore tedesco Colerus nel suo libro<br />

Oeconomia ruralis et domestica riconosceva alla <strong>birra</strong> di Zerbst notevoli<br />

virtù curative, quale per esempio la capacità di espellere i calcoli renali.<br />

Nel 1743 una dissertazione a cura di tal Paolo G. Homeyer s’interessava<br />

della qualità della <strong>birra</strong> da somministrare agli ammalati, spiegando come<br />

certe birre siano più adatte di altre. Alla fine, noi siamo ciò che beviamo.<br />

Di conseguenza meglio si beve meglio è.<br />

Disgraziatamente ci troviamo a vivere in una brutta epoca. Una delle sue<br />

maledizioni è il pompaggio mediatico. La nuova tendenza dei mass media<br />

italiani è deplorare indiscriminatamente il consumo d’alcol. Da forte ma<br />

coscienzioso bevitore dai passati eccessi, mi rendo perfettamente conto<br />

delle problematiche legate all’abuso di bevande alcoliche; ma non si può<br />

fare di tutta l’erba un fascio, zoomando su boccali di <strong>birra</strong> e cocktail con<br />

commento moraleggiante in off manco tutti i <strong>birra</strong>ioli fossero potenziali<br />

investitori di bambini e pensionati sulle strisce pedonali. Magari qualche<br />

servizio dopo lo stesso tiggì ti esalta squadriglie di smandrappate mezze<br />

nude e strafatte di cocaina che ballano sui tavoli al Billionaire, ma quella è<br />

“bella vita”, e allora… allora, vaffanculo.<br />

Noi bevitori consapevoli scontiamo le grullerie delle marmaglie ineducate<br />

al buon bere e in generale al buon vivere non solamente con tonnellate<br />

d’ipocrisia catodica, ma anche con la proliferazione neoplasica di zone a<br />

traffico limitato, telecamere, autovelox, blitz anti-movida, e trombonate<br />

come le tabelle per il calcolo del tasso alcolico in base al peso, al sesso, al<br />

cibo e all’alcol ingeriti, nate già approssimative e invise a buona parte dei<br />

gestori. In questa maniera le Amministrazioni cittadine si puliscono la<br />

coscienza e nel contempo fanno cassa. Ma il proibizionismo non ha mai<br />

pagato, specialmente coi giovani, perché quando si è giovani si fa tutto ciò<br />

che i grandi ti dicono di non fare. I ragazzi tazzeranno di meno, <strong>forse</strong>, ma<br />

prenderanno più droghe, pressoché certo: i pusher sono tutti lì a fregarsi le<br />

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mani sporche di mannitolo. Urge educazione preventiva, non repressione.<br />

Ma per i nostri prezzolati e pluririfatti gerontocrati l’empatia è un malanno<br />

ai legamenti.<br />

Bere <strong>birra</strong> tutti i giorni fa bene. Ma è anche opportuno conoscere il parere<br />

anche di chi la pensa in modo difforme, più di tutto se è autorevole. Scrive<br />

il prof. Giuseppe Remuzzi:<br />

Che succede al cervello di uno che beve? Tante cose diverse, secondo quanto si<br />

beve e quanto celermente. L’alcol agisce a livello della trasmissione dell’impulso<br />

nervoso tra un neurone e l’altro (i medici definiscono “sinapsi” le giunzioni di<br />

collegamento attraverso cui passano i segnali elettrici) e delle sostanze che<br />

regolano la trasmissione di questi impulsi come la dopamina, le catecolamine, la<br />

serotonina. E’ la liberazione di dopamina nel sistema limbico – la parte del<br />

cervello coinvolta nel comportamento e nelle emozioni – che dà euforia e<br />

loquacità. L’alcol rende più facili i rapporti con le altre persone, si è meno inibiti,<br />

si arriva a provare un senso di onnipotenza, ma se le concentrazioni di alcol nel<br />

cervello aumentano c’è un effetto sedativo. Inoltre succede che la pressione del<br />

sangue scenda, si perde la capacità di controllare la temperatura del corpo, c’è<br />

difficoltà di respiro e si arriva al coma.<br />

Misurando i livelli di alcol nel sangue di chi ha quei sintomi si può constatare<br />

come essi superino i 300 milligrammi in 100 millilitri di sangue: per livelli di<br />

alcol ancora più alti, più di 400 milligrammi per 100 millilitri di sangue, si può<br />

morire. Basta poco alcol, se uno ne assume tutti i giorni, perché nel fegato si<br />

accumulino grassi (“steatosi”, verificabile con l’ecografia). Una volta gli si dava<br />

poca importanza. Ora si è visto che l’accumulo di grasso nel fegato predispone ad<br />

altre malattie, primariamente una forma di infiammazione somigliante all’epatite<br />

che poi talvolta evolve in cirrosi e cancro. Non si sa bene perché in alcune<br />

persone si passi rapidamente dal fegato grasso alle malattie più gravi, anche per<br />

modiche quantità di alcol, e perché in altre questa evoluzione sia più lenta o non<br />

si verifichi affatto. L’obesità è un fattore di rischio che potenzia di molto gli<br />

effetti dell’alcol.<br />

Perché è proprio il fegato a risentire maggiormente dei nostri eccessi? Birra, vino<br />

e liquori contengono etanolo, e l’etanolo si trasforma nel nostro organismo grazie<br />

a enzimi che risiedono e agiscono soprattutto nel fegato: alcol deidrogenasi e<br />

citocromo P450. Durante il processo di trasformazione dell’etanolo si verificano<br />

nel fegato una serie di reazioni chimiche che portano alla sintesi di grassi. Il<br />

modo migliore per difendersi dall’accumulo di grassi sarebbe quello di ossidarli e<br />

il fegato certamente ne è in grado, ma l’etanolo riduce il processo di ossidazione<br />

degli acidi grassi e così priva l’organo del sistema più efficace per difendersi<br />

dalla steatosi. Più di 40-80 grammi di alcol al giorno per gli uomini e 20-40 per<br />

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le donne nel giro di 10-12 anni portano sicuramente a una malattia del fegato.<br />

Nondimeno qualcuno arriverà alla cirrosi pur bevendo molto meno e altri non vi<br />

arriveranno affatto benché bevano di 50 grammi al giorno. Questa soggettività<br />

dipende da fattori genetici – nella fattispecie, dai geni che governano la sintesi<br />

degli enzimi preposti a metabolizzare etanolo e acetaldeide –, flogistici e<br />

immunitari.<br />

In generale sono gli uomini a patire le conseguenze dell’abuso d’alcolici, perché<br />

bevono di più. Ma alle donne l’alcol fa ancora più male. A uguaglianza di<br />

quantità d’alcol ingerita, si riscontra più etanolo nel sangue delle donne che in<br />

quello degli uomini. Come mai? In primo luogo, la stessa quantità d’alcol si<br />

distribuisce in un volume più piccolo, dato che la donna possiede meno acqua<br />

corporea che l’uomo; in secondo, lo stomaco della donna non è così attivo come<br />

quello dell’uomo nel trasformare l’etanolo; infine, gli ormoni femminili rendono<br />

il fegato più vulnerabile agli effetti dell’alcol. Non basta: chi beve parecchio –<br />

donne e uomini – di solito si nutre male, e assume meno sostanze antiossidanti<br />

(glutatione, Vitamina A e C, per esempio). In questo modo, progressivamente, il<br />

nostro organismo perde quel naturale patrimonio che lo difende dai tumori e<br />

dall’invecchiamento. Per questo chi beve invecchia precocemente.<br />

In conclusione, il bere danneggia il fegato, sempre. Si va da una condizione<br />

relativamente benigna, l’accumulo di grassi, a patologie potenzialmente mortali<br />

come la cirrosi e il cancro. Ma l’abuso di sostanze alcoliche è pernicioso per<br />

l’organismo in svariati altri modi; vi sono ancora molte questioni insolute. Nel<br />

momento in cui ne sapremo di più <strong>forse</strong> comprenderemo altresì perché certuni<br />

col bere rischiano di più e altri invece possono permettersi un po’ più di vino e un<br />

superalcolico di quando in quando senza che ciò arrechi loro troppo danno.<br />

O.K. Allora tocchiamoci gli zebedei ogni santa volta che sorseggiamo una<br />

<strong>birra</strong>, simbolicamente per le amiche donne. Io, per me, sto benissimo, a<br />

parte il forzato cambiamento d’itinerario per il ritorno a <strong>casa</strong> dalle serate<br />

di fiesta impostomi dai posti di blocco antisbronza. La scorsa primavera<br />

ho rischiato grosso. Di rientro da un compleanno con una Budweiser e un<br />

paio di vodka sour in circolo – cosa diavolo pretendono che si beva in<br />

codeste occasioni, cedrata Tassoni? – ma totalmente lucido, ho imboccato<br />

il percorso minato con leggerezza d’animo. «Tanto stasera gli avvoltoi non<br />

ci sono.»<br />

Invece c’erano, accidenti a loro. Piantati nel bel mezzo del solito crocevia<br />

prospiciente la facoltà di Architettura. Stavano già facendo il controllo a<br />

un tale, ma io ero il prossimo. Un carabiniere era già lì pronto ad alzare la<br />

paletta; tra me e lui c’era l’auto del malcapitato e un semaforo rosso. “Col<br />

cazzo che mi prendi” ho ringhiato a denti serrati sul ritmo funky-wave<br />

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degli LCD Soundsystem. La mia sola via di fuga era il controviale a destra<br />

del corso trasversale e non appena è scattato il verde vi ho svoltato con<br />

noncuranza sfangando alla grande il check point. Fiuu!<br />

In conseguenza di quest’episodio, qualche luna dopo in locale del centro<br />

ho voluto farmi il test. Le istruzioni stampate sull’arnese spacciato per<br />

etilometro erano piuttosto risibili, poiché ti si consigliava di soffiare nella<br />

cannuccia passati dieci minuti dal tuo ultimo drink o paglia. Ve li figurate<br />

i tutori della legge a un controllo? “Scusi, signore, quand’è che ha bevuto<br />

il suo ultimo beverone bruciastomaco? Soltanto quattro minuti fa? Ah be’,<br />

allora aspettiamo!”<br />

See, che l’uovo si frigga in padella col burro. A ogni buon conto, avendo<br />

assunto pressoché la stessa quantità e qualità d’alcolici del compleanno,<br />

ho soffiato in quella scatoletta gialla di latta per la modica cifra di un euro<br />

– il controllo del tasso alcolico è diventato un business, ça va sans dire. Il<br />

responso è stato scioccante: 2.35!!! Vale a dire, ubriaco duro, da lasciare<br />

la macchina dov’è e tornare a <strong>casa</strong> in taxi. E io, con tutta l’obiettività del<br />

multiverso, non mi sentivo per nulla tale. Porcaccia la miseria. Così si<br />

rischia la patente ogni volta che esci fuori a cena o semplicemente per un<br />

aperitivo.<br />

Giovedì 9 ottobre 20**, h 02.19 p.m., CET. È una splendida giornata di<br />

sole. Alla mia sinistra, oltre la vetrata e la siepe già rossiccia d’autunno<br />

che cinge la biblioteca, si stende il mio succedaneo di frontón: un’andana<br />

pietrosa che termina in un muro sbrecciato alto poco più di due metri e<br />

ricoperto di graffiti.<br />

Quattordici anni fa, in un grossolano tentativo per sembrare integrato nella<br />

realtà basca, entrai fischiettando in un fornito negozio d’articoli sportivi di<br />

Santutxu e ne uscii con un set di palas da consumato professionista della<br />

pelota, quando piuttosto avrei potuto contentarmi di una normale versione<br />

da spiaggia. Passate diverse estati a grondare tossine su qualche battigia<br />

atlantica col patema costante di accecare o decapitare qualcuno, mi stufai e<br />

confinai le palas in un armadio sotto una catasta d’attaccapanni.<br />

Torniamo un attimo all’articolo del professor Remuzzi. «L’alcol rende più<br />

facili i rapporti con le altre persone, si è meno inibiti.» Verissimo. Ma in<br />

quantità non eccessive facilita anche il funzionamento del circuito neurale<br />

delle idee. A inizio 2007, stufo del jogging e della cyclette, mi scervellavo<br />

per trovarvi un’alternativa valida. Una sera uscii per bere un paio di birre<br />

scure, ne bevvi quattro, e il mattino dopo appena sveglio mi si accese la<br />

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Osram: “Recupera le palas dai bassifondi del guardaroba e vai a cercarti<br />

un muro abbastanza alto.”<br />

Inaugurai il frontón in una giornata piacevolmente tiepida e lucente come<br />

questa. Al quarto d’ora di timorosi diritti e rovesci fui avvicinato da una<br />

signora piuttosto anziana; vestita come Anna Magnani nella scena madre<br />

di Roma città aperta, incedeva con le spalle curve, stringendo al petto una<br />

rivista di moda. Non sembrava molto in sé, ma le apparenze ingannano. Si<br />

fermò e mi chiese: “Sta giocando a pelota, neh?”<br />

“Sì, signora” le risposi, seguitando a colpire la pallina da tennis. “È una<br />

variante particolare.” Pallamuro alla piemontese.<br />

“Mi pareva. Ma perché gioca qui da solo? Dov’è la sua vicina di camera?”<br />

Mi venne da sorridere, ma anche da esalare un sospiro di tristezza. “Non<br />

ne ho…” Stoppando la palla sulla punta della racchetta.<br />

“Che peccato. Comunque sia, è una bella giornata oggi per fare queste<br />

cose al parco: nessuno che ti disturba.” Detto ciò, si allontanò borbottando<br />

qualcosa tra sé.<br />

Tac, bunch, put, tac, bunch, put, tac… swishhhh. Mi era scappata la mano.<br />

La piccola sfera gialla spelacchiata sorvolò beffarda la muraglia andando<br />

ad atterrare nella strada adiacente. Provai a scavalcare. Quand’ero piccolo<br />

zompavo su quei muri come un grillo bionico. Già, venti chili fa. Trenta.<br />

Issarmi quasi mi costò una clavicola. Fortuna volle che di lì passasse una<br />

gentil madama con cagnuflo riottoso al seguito. Tendendo il braccio per<br />

ridarmi la pallina costei volle avvertirmi: “Stia attento lassù, che c’è da<br />

farsi male.”<br />

“Lo so, signora. Forse non ho più l’età per fare certe cose.”<br />

Vecchio rottame o no, da allora i miei colpi sono molto migliorati ed è<br />

molto raro ormai che io spedisca la pallina oltre il muro. Ho scritto perfino<br />

un blog su questo mio particolare svago e tutto ciò che comporta nel bene<br />

e nel male: Pelota basca e teratologia. Coloro che fossero interessati a<br />

leggerlo e farsi quattro sane ghignate lo troveranno sul mio sito personale,<br />

www.maurizioferrarotti.com. Un po’ di sana autopromozione.<br />

Ho cominciato ad apprezzare davvero i piaceri della tavola alla soglia dei<br />

trent’anni. Prima passavo la lingua sui piatti o mi rimpinzavo di salame<br />

crudo e parmigiano reggiano appena tornato dalle scorribande serotine. Il<br />

risultato di siffatto mutamento nelle mie abitudini alimentari è che in<br />

sedici anni ho messo su venti chili. Più che ingrassato, mi sono riempito.<br />

Gli amici, è ovvio, mi scherzano per questo: “Diamine, Ma’, una volta eri<br />

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anoressico e ora sembri un cinghiale di Giaveno!” Che esagerati. Però<br />

m’altererei molto di più se mi dicessero: “Ehi, Ma’, una volta eri il nipote<br />

sabaudo di Iggy Pop e ora sembri il fratello gemello di Vasco Rossi.” O<br />

peggio ancora, Antonio Albanese a.k.a. Alex Drastico, un altro cui vengo<br />

frequentemente raffrontato anche se, per dirla come Johnny Stecchino,<br />

nun me somiglia pe’ nniente. Puntualmente il giorno dopo che qualcuno –<br />

in genere è una lei, porcaccia l’oca, ma cos’hanno le donne al posto delle<br />

cornee? – mi ha rovinato il drink con ’ste similitudini del kaiser Franz,<br />

scendo giù al parco e meno mazzate basche al muro come un <strong>forse</strong>nnato<br />

per un’ora. Jakina!<br />

Tra il 1993 e il 1995 ci nominammo Avanguardia Gastrica. In autunno e<br />

inverno ogni sabato o domenica salpavamo per vere e proprie spedizioni<br />

enogastronomiche nelle Langhe o nel Monferrato. Il nostro santuario era il<br />

ristorante Vigin Mudest di Alba, dove ci stroncavamo d’antipasti alla<br />

piemontese, agnolotti e/o tajarin con grattatina di tartufo bianco, sorbetto,<br />

costolette di agnello o brasato e dolci prelibati (il bunet è paradisiaco…), il<br />

tutto generosamente annaffiato di Barbera. Ora ci siamo acquietati, ma di<br />

quando in quando, direi una volta ogni due mesi, la mangiata festiva ci<br />

scappa ancora. E le mandibole tornano a macinare come il Pac-Man.<br />

Per quanto concerne Torino e i suoi luoghi di ristoro, prendo a prestito da<br />

un giornale questa dichiarazione: “Restano le eccellenze, stentano i locali<br />

medi.” Sono tempi duri per la ristorazione di qualità, sia per la crisi, sia<br />

perché i tempi e i costumi sono cambiati. È in voga “l’apericena” e io<br />

invero non lo osteggio purché l’offerta sia variegata e genuina: in tal senso<br />

il Fluido, situato al Parco del Valentino in riva al Po, è il miglior locale di<br />

Torino. Prosciutto crudo, insalata di riso e Budweiser come se piovesse è<br />

il mio aperitivo lungo del sabato sera col vista sul ponte della Gran Madre.<br />

Se poi mi resta fame vado al Retrò, il ristorante di Steve. Markette.<br />

Tornando a bomba, cioè alla sacra <strong>birra</strong>, il Birrificio Torino la produce<br />

artigianalmente in moderate quantità nel laboratorio annesso al ristorantebirreria<br />

dallo stesso nome. Non è uno dei locali che batto di frequente ma<br />

mi garba andarci. Là potete gustare alcune ricette sfiziose, come il maiale<br />

cucinato con la Birra Torino, chiara doppio malto a bassa fermentazione,<br />

le frittelle di baccalà alla Clara (così il Birrificio Torino denomina la sua<br />

<strong>birra</strong> chiara) e le coscette di pollo marinate in un intingolo di bacche di<br />

ginepro, foglie d’alloro spezzettate, sale, pepe e <strong>birra</strong> Rufus, specialità<br />

artigianale di <strong>birra</strong> rossa a doppio malto. Un altro birrificio d’ottima fama<br />

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è il Brew Pub BEFed di Settimo Torinese, dove si tracanna <strong>birra</strong> d’acqua e<br />

malto d’orzo e si mangia il galletto al forno. Gnam gnam.<br />

Chiunque almeno una volta nella propria vita ha idoleggiato un divo/a del<br />

piccolo o grande schermo. O si è fortemente immedesimato in un ruolo da<br />

lui/lei interpretato. In quest’ultimo rispetto, potrei citarvi minimo trenta<br />

personaggi che mi hanno preso nel cervello: Charlie Crews, protagonista<br />

del serial Life, è l’ultimo arrivato.<br />

Anch’io come Charlie, un detective che si è fatto dodici anni in galera per<br />

un crimine che non ha commesso, ho dovuto combattere a lungo per non<br />

perdere il senno; soltanto che la mia prigione era mentale, non fisica. Gli<br />

scarabocchi sulle pareti della mia cella rivelavano mancanza d’autostima,<br />

difficoltà di comunicazione col prossimo, sensi di colpa generati dalla<br />

morte di mia sorella Danii per quel male bastardo figlio di puttana sifilitica<br />

il cui nome i media sono ancora riluttanti a pronunciare: cancro, cancro,<br />

cancro, CANCROOO!<br />

Charlie Crews, al secolo Damian Lewis, si è aggrappato a un libercolo zen<br />

trovato in cella per sopravvivere; tornato in libertà n’applica i precetti alla<br />

sua nuova vita, sia pure sui generis. Io, <strong>Maurizio</strong> <strong>Ferrarotti</strong>, bevo <strong>birra</strong><br />

gustandone ogni singolo sorso, gioco a pelota, compro e scarico musica a<br />

tonnellate, corteggio femmine giovani e mature: poi, c’è Stop allo stress.<br />

Ho rinvenuto questo libretto nel bidone cartesiano per la raccolta di carta e<br />

cartone del mio palazzo; in origine era allegato a un numero della rivista<br />

Viversani & belli. Quest’ultima è uno di quei mensili salutisti nei quali per<br />

recuperare la linea dopo i bagordi natalizi ti si consiglia una dieta a base di<br />

melone e acqua minerale naturale per dieci giorni e prima di partire per le<br />

vacanze estive frullati di guaranà e scolopendra indiana, la quale per di più<br />

si dice possieda virtù anti-ictus.<br />

In ogni modo, Stop allo stress si è rivelato tutt’altro che una boiata. Scritto<br />

con la consulenza di una nota neuropsichiatra bergamasca, è prodigo di<br />

suggerimenti su come affrontare gli stressor (così vengono genericamente<br />

chiamate tutte le situazioni di stress). Io, per me, prediligo l’auto-shiatsu.<br />

Lo shiatsu (parola composta di shi = dito e atsu = pressione), è una tecnica<br />

giapponese risalente al VI secolo, quando i monaci buddisti importarono<br />

nel paese del Sol Levante i principi della medicina tradizionale cinese che<br />

ne costituiscono il fondamento teorico. Consiste nell’esercitare con le dita<br />

una moderata pressione in alcuni punti strategici del corpo, risvegliandone<br />

la forza di autoguarigione. Nonostante ora nel nostro paese sia molto in<br />

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voga (recentemente ho visto affissa alla pensilina di una fermata d’autobus<br />

una locandina reclamizzante un “salone rumeno di massaggi shiatsu e Tai<br />

Chi”!), nessuna istituzione universitaria si è ancora impegnata a studiarne<br />

gli effettivi benefici. Italica normalità.<br />

Lunedì 13 ottobre 20**, h 11.02 p.m., CET. Metto il pigiama e mi siedo<br />

sulla sponda del letto. Fra un attimo proverò a potenziare i benefici dello<br />

shiatsu con la visualizzazione: immaginerò di scrivere una recensione di<br />

Radio Ethiopia, uno dei miei dischi preferiti.<br />

Appoggiare gli indici di entrambe le mani sulla sommità del capo,<br />

esattamente al centro della testa.<br />

Nel cruciale 1976 Patti Smith cambia produttore discografico, preferendo<br />

al colto e raffinato John Cale il più spregiudicato Jack Douglas, l’abile<br />

artigiano del suono Aerosmith. Il prodotto di questa collaborazione sarà<br />

Radio Ethiopia, uscito alla fine di quell’anno.<br />

Le punte dei due indici devono toccarsi.<br />

I critici più intransigenti scriveranno che “il Patti Smith Group ha venduto<br />

la propria anima sediziosa al rock duro da classifica”, ma in verità Radio<br />

Ethiopia rappresenta esattamente il lavoro di gruppo successivo alle prime<br />

fasi di Horses. Il Patti Smith Group come entità musicale nasce solo ora<br />

con questo disco.<br />

Sovrapporre il dito medio al rispettivo dito indice, poi premere con una<br />

certa forza, mantenendo la pressione per due-tre secondi.<br />

Ain’t it Strange e Poppies sono i brani in cui musica e testo raggiungono<br />

una completa unità nel suono. Ask The Angels, Pumping (My Heart) e<br />

Pissing in a River riciclano i riff taglienti e metallici dei Blue Öyster Cult<br />

per i new wavers. Distant Fingers, per me il pezzo più bello del disco,<br />

evoca una meravigliosa sensazione di spazio cosmico grazie all’abilità di<br />

Douglas in materia di arrangiamenti – le chitarre suonano come comete<br />

dalle code cangianti.<br />

Allentare la pressione (dita distanti!) per altri tre secondi, poi premere<br />

nuovamente per due-tre secondi.<br />

Radio Ethiopia/Abyssinia, il “brano” che suggella il disco, è una tregenda<br />

allucinata che ha come precedente più indicativo nel rock un disco doppio<br />

malfamato di Lou Reed, Metal Machine Music. Dieci minuti di musica<br />

violentemente distorta e dissonante, dedicata alla mente sconvolta di chi<br />

ascolta: “Nel cuore del tuo cervello c’è una leva, nel cuore del tuo cervello<br />

c’è un interruttore.”<br />

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Ripetere quattro volte e spalmarsi sul lettuccio come burro d’arachidi. Ci<br />

vediamo venerdì prossimo, Charlie.<br />

La sonda Phoenix ha scoperto che dalle nubi di Marte cade neve. Uno<br />

strumento laser progettato per raccogliere indizi su come l’atmosfera e la<br />

superficie marziana interagiscono ha “visto” cadere la fiòca dalle nuvole a<br />

circa due chilometri e mezzo d’altezza sopra il luogo d’atterraggio della<br />

nave spaziale. I dati mostrano che la neve vaporizza prima di raggiungere<br />

il suolo, ma gli scienziati stanno cercando di capire se in talune condizioni<br />

essa possa raggiungere il terreno. Ve li immaginate gli astronauti della<br />

NASA nelle loro immacolate tute spaziali plasmare un pupazzo di neve,<br />

ficcandoci a mo’ di naso una carota modificata geneticamente, sotto quel<br />

cielo brunastro?<br />

Ho un’altra fantasia futurista. Grazie alla <strong>birra</strong> che ho bevuto durante tutta<br />

la vita e un trattamento anti-apoptosi che ho potuto permettermi con le<br />

royalties intascate per il successo eccezionale nonché durevole ottenuto da<br />

questo libro (saranno fallaci sogni, ma lasciatemeli), ho visto l’alba del<br />

ventiduesimo secolo e, quantunque vizzo e incanutito, m’incammino verso<br />

mezzogiorno. Percival I, la prima riuscita spedizione umana sul Pianeta<br />

Rosso, ha scoperto in una oscura caverna di Cydonia un lievito che è stato<br />

subito battezzato Saccharomyces martianensis. Per somma grazia astrale,<br />

una volta portata sulla Terra la sostanza non si è scatenata a solidificare il<br />

sangue nelle vene agli americani né a copulare con ogni essere vivente su<br />

questo pianeta – eccetto gli scarafaggi – come la “cosa disgustosa”<br />

protagonista del racconto di Harlan Ellison Com’è la vita notturna su<br />

Sissalda? Se n’è stata lì tranquilla, grigiastra e silente, a farsi esaminare in<br />

qualsiasi modo concepito dalla scienza del 2100, risultando quasi del tutto<br />

simile a un lievito terrestre. Come prima epocale prova dell’esistenza di<br />

vita al di là del nostro pianeta, era alquanto deludente.<br />

Poi quel genialoide di scienziato irlandese, Liam O’Moloney, ha avuto la<br />

pazzesca pensata di affogare qualche cellula di quella roba in un tino pieno<br />

di mosto: diamine, poteva scaturirne qualsiasi cosa, una melma onnivora,<br />

una lacerazione nel continuum spaziotemporale, una rockstar impegnata in<br />

nobili cause ma allergica alle tasse. Sono pazzi questi figli di San Patrizio.<br />

Invece…<br />

Ne è scaturito ciò che sto gustando ora, seduto sulla mia sedia a dondolo<br />

davanti all’olovisione: Mars Stout, la <strong>birra</strong> scura del Pianeta Rosso. Nera<br />

come lo spazio profondo, è sormontata dall’inconfondibile nebulosa di<br />

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spuma marrone-rossastro, densa e brillante. Al naso offre aroma intenso di<br />

permafrost Utopia, che lascia spazio anche a sentori troiani. In bocca ha un<br />

impatto intensamente amaro ma cremoso, con gusto di caffè idroponico e<br />

cioccolato amaro europano arricchito da note d’idrogeno metallico. Finale<br />

secco, mercuriano, con retrogusto piacevolmente ultravioletto. Da provare<br />

a costo della vita è l’abbinamento con le ostriche crude allevate nel vivaio<br />

lunare di Oceanus Procellarum.<br />

Lassù nello spazio, nel punto d’equilibrio fra la gravità terrestre e quella<br />

lunare, un team congiunto di cervelloni statunitensi, europei e indiani sta<br />

completando i test su Xanadu, l’astronave a motore positronico che, salvo<br />

imprevisti, dovrebbe partire per Titano entro la fine del 2139.<br />

Bevo un altro sorso di <strong>birra</strong> aliena. Mars Stout e jamón pata negra per<br />

colazione non sono male per uno che ha appena compiuto la veneranda età<br />

di centosettantaquattro anni. Sarò anche un matusa, come si usava dire<br />

nella seconda metà del ventesimo secolo, ma me la cavo ancora bene; al<br />

2141, anno previsto per l’arrivo di Xanadu nell’orbita di Titano, ci arrivo<br />

di sicuro. E anche oltre. Sempre che lassù qualcuno non decida altrimenti.<br />

L’uomo su Titano. Una gozada. Che cosa porterà indietro quella missione<br />

dai mari idrocarburici del satellite arancione di Saturno? Io sono già qui<br />

che mi lecco i baffi…<br />

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CHERCHEZ LA BIÈRE<br />

La signora O’Dowd rispose che “sua cognata Glorvina non aveva paura di<br />

nessuno, tanto meno di un francese”, poi vuotò un bicchiere di <strong>birra</strong> con un<br />

sorriso che dimostrava tutta la sua simpatia per quella bevanda.<br />

W.M. Thackeray, La fiera delle vanità.<br />

Nel momento in cui l’uomo primitivo uscì dai boschi e conquistò gli ampi<br />

spazi delle praterie, si portò appresso tutto un bagaglio di credenze su ogni<br />

fatto della natura; come cominciò a coltivare la terra, la sua protocultura<br />

religiosa si trasferì sui prodotti del suolo. Essendo fin da allora il concetto<br />

di fertilità associato alla donna, è coerente che le prime divinità agricole<br />

avessero fattezze femminili: la dea Nidaba dei Sumeri (una civiltà davvero<br />

straordinaria: furono loro a confezionare il primo indumento “topless” per<br />

donna!) la vacca Hanub degli egiziani le cui mammelle spargevano latte e<br />

<strong>birra</strong> sulle rive del Nilo, e la dea romana del raccolto, Cerere.<br />

La <strong>birra</strong> primordiale, quale essenza vitale del frumento estratta per mezzo<br />

dell’acqua, divenne la bevanda degli dei. E delle dee. Ishtar, dea assirobabilonese<br />

della fertilità, traeva la sua forza dalla <strong>birra</strong>. Nell’antico Egitto,<br />

le donne incinte offrivano <strong>birra</strong> alla dea Erneunet affinché fornisse latte in<br />

abbondanza alle nutrici. In Grecia, durante le feste in onore di Demetra,<br />

divinità femminile delle messi, si trincava <strong>birra</strong> di cereali in abbondanza:<br />

in particolare le donne s’inebriavano per poi lasciarsi andare a riti che<br />

qualche registucolo della San Fernando Valley sarebbe ben lieto di tornare<br />

indietro nel tempo a riprendere.<br />

Flussi mammari di <strong>birra</strong> dalla terra al cielo e viceversa, insomma. Con più<br />

di un risvolto malinconico o finanche funesto, soprattutto per le femmine<br />

mortali. Cleopatra, profondamente depressa, decise di uccidersi facendosi<br />

mordere il seno da un aspide, ma come ultimo piacere su questa terra volle<br />

concedersi una bevuta di sà, la <strong>birra</strong> forte riservata al Faraone e per le<br />

cerimonie religiose. Nabucodonosor una volta stancatosene si sbarazzava<br />

delle sue amanti annegandole in una grande piscina colma di <strong>birra</strong> d’orzo;<br />

mentre le povere creature, furbescamente sovraccaricate dei suoi gioielli,<br />

annaspavano nella bevanda, egli ai bordi ne glorificava le virtù amatorie.<br />

Che gran figlio di puttana. Un migliaio d’anni più tardi Rosmunda subì<br />

l’affronto di sorbire <strong>birra</strong> dal cranio del padre Cunimondo, assassinato da<br />

Alboino re dei Longobardi. Qué barbaridad. Tuttavia lo sfrontato sovrano<br />

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fu ucciso da Elmichi, suo scudiero, poco dopo il proprio insediamento a<br />

Verona nel palazzo di Teodorico, non senza la complicità di Rosmunda.<br />

“La vendetta è meglio dell’orgasmo”, sosteneva la strega chiamata Elvira<br />

facendo ballonzolare le tette gonfiate al silicone.<br />

Tra eros e thanatos, Teodolinda scelse la terza via: la virtù. Birraia. Infatti,<br />

la figlia di Gariboldo di Baviera sapeva preparare una <strong>birra</strong> spettacolare,<br />

che gli invitati ai lauti pranzi tenuti nella corte di Monza ingurgitavano a<br />

chilolitri. La cattolicissima Teodolinda l’inviava in grandi quantità anche a<br />

Papa Gregorio Magno. Finalmente comprendo perché il locale più famoso<br />

di Zarautz si chiamava Taberna Batikano.<br />

Venerdì 24 ottobre 20**, h 05.16 p.m., CET. Non molto tempo fa ho<br />

regalato all’AMIAT un ghetto blaster con lettore CD incorporato e un<br />

registratore-riproduttore stereo per impianti ad alta fedeltà, ambedue giunti<br />

al canto del cigno e macchiatisi più volte in tarda età del reato d’ingestione<br />

a tradimento di nastro magnetico. Fatto sta che ora non posso più ascoltare<br />

le cinquanta cassette superstiti della mia collezione.<br />

Una di queste è Ritual de lo habitual dei Jane’s Addiction, un gruppo per<br />

cui ebbi una fugace ma ardente passione a cavallo tra gli anni Ottanta e i<br />

Novanta. Decesso dei miei macchinari di riproduzione magnetofonica a<br />

parte, saranno tredici anni che non l’ascolto. Oltre a ciò non ne ho mai<br />

scorso per intero il libretto, intitolato in modo piuttosto bizzarro Noven A.<br />

Tra crediti vari e liriche Perry Farrell ha inserito un lungo scritto dedicato<br />

alle “zanzare intellettuali”. Il paragrafo centrale è una sorta di Sylv’s<br />

Longing Speech al maschile:<br />

Qualche volta ho desiderato di essere una donna. Una donna è la più attraente<br />

creatura che la natura ha da offrire all’uomo. Perché allora è una vergogna<br />

vederla svestita? Io provo molta più vergogna come uomo a vedere un grande<br />

magazzino in costruzione. Com’è complementare la donna all’uomo! Il loro dare<br />

amore è senza paura. La natura ha fatto la cosa giusta nel legare l’infante alla<br />

femmina. Però esse si portano anche appresso un senso di tristezza. Quasi come<br />

celassero una premonizione di pericolo che non possono scrollarsi di dosso. Io<br />

comprendo perché vogliano proteggere i loro bambini, ma per il loro stesso bene,<br />

lasciatemi notare che sebbene voi possiate avere da spiegare ai vostri pargoli cose<br />

che voi percepite come sbagliate, è meglio avere la libertà di spiegare ciò con<br />

parole vostre piuttosto che essere ridotti al silenzio da un governo che ha il potere<br />

di schiacciare chiunque si opponga alle loro vedute. Questo potrebbe far sì che un<br />

giorno il vostro bambino stia all’opposizione. Chi contrasta il debole ronzio che<br />

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ci suggerisce che tutte quelle donne sono sottomesse all’uomo. Le donne hanno<br />

motivo di vivere e ragioni per morire con dignità. Ma non sempre le cose sono<br />

andate così.<br />

Mi sento in perfetta concordanza con questi concetti, benché Perry sia un<br />

soggetto piuttosto controverso: non lo siamo un po’ tutti? L’uomo è duale<br />

per natura. Si può, nello stesso tempo, essere “fuori” e avere ragione. Si<br />

può essere inappuntabili executive di giorno e serial killer di notte. Che<br />

due marroni mi fa tutto quel frasifattume da telegiornale mediasettiano,<br />

“era un ragazzo così ammodo ma ha ammazzato la fidanzata a sprangate e<br />

poi con un bisturi le ha resecato la vagina e l’ha messa nel congelatore<br />

accanto alle granite al limone”!<br />

Ora però avrei proprio voglia di riascoltare ’sto dannato nastro, sentire di<br />

nuovo l’intro supersonica di Stop! scartavetrarmi le orecchie e ondeggiare<br />

allo strampalato ritmo funky di Been Caught Stealing come ai bei tempi<br />

dello Studio 2, quei <strong>forse</strong>nnati venerdì rock di Mixo, bring the noise!<br />

Che fare? Mi scapicollo fin giù al negozio d’elettrodomestici all’angolo<br />

che sta svendendo tutto? Ni hablar. Coi tempi che corrono, è meglio che<br />

mi tenga stretti quei quattro euro che serbo in banca. Orbene, ripiegherò su<br />

Kings of Oblivion dei parimenti eccessivi e drogatissimi Pink Fairies: la<br />

seconda canzone, stellare, s’intitola I Wish Y Was A Girl: vorrei essere una<br />

ragazza…<br />

Nel 1620 i Padri Pellegrini approdarono alla sponda rocciosa occidentale<br />

della baia di Cape Cod, nel Massachusetts sud-orientale; quella regione<br />

apparentemente inospitale era stata battezzata Plimouth in una mappa del<br />

New England disegnata da John Smith nel 1614: i coloni ne cambiarono il<br />

nome in Plymouth. “Non potremmo reggere per molto tempo un’ulteriore<br />

ricerca, avendo quasi finito i nostri viveri, specialmente la <strong>birra</strong>” scrisse<br />

William Bradford, secondo governatore di Plymouth, nel suo resoconto di<br />

prima mano History of Plimouth Plantation.<br />

Non che fossero dei beoni inveterati. In verità la <strong>birra</strong> ricopriva un ruolo<br />

fondamentale per la sopravvivenza, poiché l’acqua nella stiva delle navi<br />

diveniva presto rancida. Non molto tempo dopo il loro arrivo nella nuova<br />

terra, i Pellegrini introdussero i loro nuovi amici, gli indiani della tribù dei<br />

Wampanoag, alle gioie della <strong>birra</strong>. I Wampanoag ricambiarono facendo<br />

loro conoscere ciò che sarebbe diventato un ingrediente comune della <strong>birra</strong><br />

negli Stati Uniti: il grano.<br />

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Dopo essere sopravvissuti a una critica mancanza di <strong>birra</strong> durante i primi<br />

mesi seguenti il loro arrivo, i Pellegrini designarono l’edificazione di un<br />

birrificio quale priorità basilare. Come fu stabilita la colonia, le cucine<br />

<strong>casa</strong>linghe divennero fabbriche di <strong>birra</strong> e, in conformità alla tradizione, la<br />

mansione del brewing fu assegnata alle donne. Mi pare di vederle, quelle<br />

creature timorate di Dio e infaticabili, con le loro cuffie bianche inamidate<br />

e le gonne lunghe fino ai piedi, tenere d’occhio la fermentazione nei tini:<br />

B, La Lettera Dorata.<br />

Lo scorso gennaio, io e la mia fidanzata americana stavamo attaccando la<br />

prima di una lunga serie di Miller Lite da O’Leary Tiki Bar & Grill,<br />

Sarasota, Florida, quando due personaggi, sui 55-60 anni a occhio e croce,<br />

sopraggiunsero a impadronirsi dell’unico pezzo di bancone rimasto libero<br />

al momento, proprio di fianco a noi. I loro indumenti, camice hawaiane<br />

pantaloni corti e ciabatte infradito, erano un pelino leggeri perfino per un<br />

inverno clemente qual è quello della costa ovest della Florida, dov’è raro<br />

che la temperatura notturna scenda sotto i 12 gradi centigradi.<br />

Un’altra splendida giornata volgeva al termine. Era il mio primo viaggio<br />

in assoluto nei mitici (e mitizzati) Stati Uniti d’America e i sentimenti che<br />

provavo per Miss Jane Ann Thomas, sublime prodotto di Dna toscano – da<br />

parte di madre –, gallese e olandese, crescevano di giorno in giorno,<br />

totalmente ricambiati. Wow, stavo proprio una favola. La Miller Lite<br />

scendeva giù che era un piacere, fresca e corroborante. Lo stereo del bar<br />

all’aperto suonava Can’t Hardly Wait dei Replacements. La mia donna<br />

profumava di Pink Sugar. Don’t pinch me, I’m dreaming.<br />

L’accento dei due uomini mi suonava cinese. “Di dove sono?” domandai a<br />

Jane sottovoce. “Di Boston” sorrise lei. Dopodiché chiese loro conferma:<br />

“Ehi, ragazzi, siete di Boston, vero?” Creatura esuberante, la mia Jane.<br />

Il più anziano dei due almeno all’apparenza, barba bianca da capitano di<br />

lungo corso ed eritema etilico, partì subito in quarta a fare lo splendido; il<br />

suo compare, più austero e occhialuto, rimase seduto sul suo sgabello. Io<br />

dosavo sorrisetti di circostanza sforzandomi nel contempo di comprendere<br />

ciò che il Capitano Nemo andava dicendo. Chiamasi accento non-rotico:<br />

ossia, che omette e/o sostituisce la pronuncia della erre quando seguita da<br />

consonante o a fine parola. Se voi ordinaste un’aragosta nel Massachussets<br />

o nell’attiguo Maine come lobster, il cameriere potrebbe riprendervi con<br />

puntiglio: “It’s lobstah, sir, not lobster.” Colà lo schiaccianoci, nutcracker,<br />

si pronuncia nutcrackah.<br />

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Per deficit d’attenzione o mancanza d’interesse, non capii che accidenti ci<br />

facessero quei due a Sarasota; vacanze, lavoro sugli yacht, contrabbando<br />

di cocaina o di microchip militari da vendere ai cinesi, fate voi che sapete.<br />

Dopo un po’ anche il quattrocchi e due stanghette, anch’egli con lanugine<br />

canuta ma più alto e dinoccolato, venne a offrire il proprio contributo alla<br />

chiacchierata: hey, ma sei italiano?, mia nonna materna era italiana, che ci<br />

fai in Florida, sei uno chef? (un classico. Negli Stati Uniti me lo chiedono<br />

tutti; e, manco a dirlo, ogniqualvolta rispondo che faccio il copy bla bla<br />

bla mi guardano con gli occhi a palla) e così via.<br />

Tempo di bere un’altra <strong>birra</strong> leggera e i due soggetti levarono le ancore; io<br />

e Jane proseguimmo a sbronzarci, mentre l’aria rinfrescava sensibilmente<br />

e la notte calava sulle bianche spiagge della costa. Joe Perry, storica ascia<br />

solista degli Aerosmith, possiede una villa a Longboat Key, pochi minuti<br />

d’auto da Sarasota; pare sia un’emerita testa di minchia repubblicana, ma<br />

invero non ho mai nutrito dubbi al riguardo. Lo era anche Johnny Ramone,<br />

ciò nondimeno non ho smesso di amare i Ramones per quello. E neppure<br />

gli Aerosmith. Let the music do the talking.<br />

Il giorno seguente, in preda a un discreto mal di capoccia da doposbronza,<br />

stavo sorseggiando la mia seconda tazza di tè della mattinata, quando Miss<br />

Thomas, scalza, scarmigliata, stratosfericamente desiderabile, venne a me<br />

brandendo un pezzetto di carta quadrettata: “Ma tu guarda che ho trovato<br />

nella mia borsetta... ” Aggrottai la fronte e lessi; c’era su scritto un nome,<br />

Frederick, cioè Captain Nemo, seguito da un numero di telefono. Quello<br />

spudorato d’un bostoniano glielo aveva infilato nella borsetta a sua/nostra<br />

insaputa.<br />

“...e vuoi saperne un’altra? Mentre tu eri in bagno quello con gli occhiali<br />

gli ha bisbigliato nell’orecchio, convinto che non avrei sentito: hey Fred,<br />

cerca di non baccagliarti troppo ’sta donna ok?, che il suo uomo potrebbe<br />

anche essere della mafia.”<br />

Come no. Maury Soprano. Dissi: “Veramente? Ma vaffanculo loro e tutta<br />

la Citta' Fagiolo!” Jane rise con me, poi appallottolò il biglietto e lo gettò<br />

nel cestino dei rifiuti.<br />

Comunque sia, killer di Cosa Nostra o meno, se ribecco quel cascamorto a<br />

Sarasota gli faccio un didietro a capanna: anzi, a capannah.<br />

Se c’è almeno una cosa che ho appreso in quel biennio di servizio prestato<br />

all’ente Advertising & Promotion del gulag Basse di Stura, è che il mondo<br />

è ormai irrimediabilmente in mano agli esperti di marketing. La loro arma<br />

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di persuasione-vessazione preferita? Foeminae, ora più che mai. Meglio se<br />

svestita, allusiva, provocante. Il sedere muliebre è la vera icona di questo<br />

primo decennio del ventunesimo secolo.<br />

L’associazione mercantesca “<strong>birra</strong> e fascino venereo” ha più di due secoli<br />

di vita. Nella cruciale transizione tra l’Ottocento e il Novecento, i <strong>birra</strong>i si<br />

trovarono a fronteggiare l’esigenza di far conoscere i propri prodotti a una<br />

popolazione di consumatori ogni giorno più ampia. Bando agli eufemismi:<br />

essendo che il maggior fruitore di <strong>birra</strong> era, e rimane tuttora, l’uomo, si<br />

doveva prenderlo per le palle. Ecco allora gli intrepidi grafici pubblicitari<br />

dell’epoca sbizzarrirsi a illustrare le reclame con donzelle abbigliate come<br />

nel film Amore e ginnastica che porgevano, alzavano al cielo o servivano<br />

boccali traboccanti spuma. Il massimo del sexy lo offriva la reclame del<br />

birrificio americano Ringler & C., con una tizia ignuda dalla vita in su (e<br />

tutt’altro che anoressica) avvolta in un drappo a stelle e strisce.<br />

Lo stereotipo che abbina la <strong>birra</strong> chiara a una ragazza bionda dalle forme<br />

sensuali, possibilmente scandinava perché, si sa, gli uomini preferiscono le<br />

bionde boreali e i maschi mediterranei più di tutti, nasce con l’inizio dei<br />

turbolenti anni Settanta. La Stubing col vestitino di cui ho già accennato,<br />

oppure legata a una bottiglia di Peroni con un Nastro Azzurro: sottilmente<br />

fetish con una spruzzatina di bondage, molto prima che questi due termini<br />

ci sfruculiassero quotidianamente l’esistenza. Dopo la deliziosa omonima<br />

kartoffel dello scarsocrinito capitano di Love Boat, un diluvio di sventole<br />

d’ognidove di cui ho perso la contabilità, sempre meno vestite, sempre più<br />

ammiccanti. Sempre più bone, diciamocelo pure. Come la creatura dai<br />

meravigliosi occhi blu cobalto che, vestita più o meno di nulla, ci invita a<br />

bere la Viru, Premium Estonian Beer.<br />

E le birre scure? Le mie predilette brune? Le rosse? Vogliamo ostracizzare<br />

tutte quelle bellezze dai capelli tizianeschi solo per quella maldicenza da<br />

caserma circa il lezzo delle loro parti intime? Mi sono tuffato nella rete per<br />

cercare fotografie, poster, spot, “gnomi e cognomi”, come direbbe il Mago<br />

Gabriel. Ho scovato due mirabolanti ancorché antitetici ads della Guinness<br />

e una fotografia che ti scioglie il cuore come fosse una noce di burro.<br />

Vai col primo spot. Una ragazza bruna con tutta la passione del mondo<br />

racchiusa in una splendida bocca siede da sola in un pub, gli occhi bassi,<br />

tamburellando con le dita sul bancone. Tutt’a un tratto una mano introduce<br />

un gettone nel juke-box: ne scaturisce una bellissima canzone d’amore. Un<br />

sorriso radioso come una stella appena nata illumina il volto della ragazza:<br />

è arrivato il suo partner! Anche lui è un pivello mica male. S’abbracciano<br />

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con trasporto. Il barista serve loro due gagliarde pinte di Draught. Lei beve<br />

un sorso e le rimane un pizzico di schiuma sul nasino: lui gliela toglie via<br />

con un bacio. Lei allora beve un altro sorso e, a bella posta, ammiccando,<br />

si lascia le labbra bagnate di schiuma cremosa affinché lui le dia un altro<br />

bacio: che teneroni! Tutto questo avviene sotto lo sguardo trasognato di<br />

una nerd dai capelli biondo-ramati seduta più in là: a onor del vero se si<br />

togliesse gli occhiali e il maglione all’uncinetto sarebbe un bel fighino, ma<br />

si sa, l’iperrealismo è il sale e pepe della pubblicità. Il bonario bartender<br />

le allunga una pinta con una strizzata d’occhio, come dicendo: “Anche tu<br />

ce la puoi fare, ragazza.” Così, con un sorriso svenevole la bruttina fittizia<br />

si volge a sinistra laddove siede un magnifico esemplare di provola irish<br />

che, secondo copione, ricambia l’attenzione con visibile imbarazzo; quindi<br />

lei, colta da travolgente mimesi, ghermisce il boccale e vi sciaborda dentro<br />

il viso tornando a sorridergli tutta impiastricciata di schiuma. Il secchione<br />

peldicarota, dopo un momento d’esitanza, si catapulta a baciarla. I due<br />

finiscono abbracciati al suolo trascinandosi dietro bicchieri a campana e<br />

sgabelli: Guinness, a stout with love. Fantastico.<br />

Secondo spot. Il dorso nudo e lucido di sudore di una signorina appecorata<br />

con una bottiglia di Guinness poggiante in precario equilibrio sulla zona<br />

lombo-sacrale. Sullo sfondo, una tappezzeria da hotel d’infimo ordine.<br />

Motivetto imbecille da film porno vintage. Dall’oscillazione sincronica di<br />

bottiglia e corpo appare immantinente palese che qualcuno sta penetrando<br />

sessualmente la donna da dietro. Quel qualcuno dopo un po’ allunga una<br />

zampa, agguanta la bottiglia e ingolla un sorso fuori campo senza smettere<br />

di pompare, poi emettendo un “Ahh!” di piacere la riappoggia esattamente<br />

dov’era. Tempo due-tre buoni colpi di fianco e un’altra mano, dal lato<br />

sinistro dello schermo, entra in campo e tira su il vetro: multitasking, la<br />

ragazzotta! Ma non finisce lì… Nel momento in cui compare la scritta<br />

SHARE ONE WITH A FRIEND, una terza manaccia spunta all’orizzonte<br />

e prende la bottiglia. E il suggerimento si completa: OR TWO. O meglio:<br />

OR THREE. Alquanto spinto, ma divertente.<br />

La fotografia. Una bella ragazza dal look retromoderno, Randi Ingerman<br />

del Connemara, seduta a gambe distese e accavallate dietro la vetrina di un<br />

locale elegantemente arredato, il dorso appoggiato allo stipite, una mano<br />

sul davanzale nascosta dalla cornice, l’altra avvolta intorno a un boccale di<br />

Guinness – dita distanti, affusolate –, la testa riccioluta da una parte. Chi o<br />

cosa stai guardando, Randi Connemara? Il tuo ragazzo, o la tua migliore<br />

amica, è in ritardo? Provi interesse erotico per quel malpelo nerboruto che<br />

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sta scaricando fusti di <strong>birra</strong> dal bilico sul marciapiede di fronte? Magari ti<br />

piacciono le donne, e quella spilungona con l’impermeabile bianco sotto la<br />

pensilina dell’autobus somiglia davvero molto a Samantha Morton, la tua<br />

icona platonica: ti confesso che, sebbene non sia proprio il mio tipo, mi va<br />

parecchio a genio, anche come attrice. Oppure stai soltanto gustando la tua<br />

meritata pint of plain dopo una stressante giornata di lavoro, scrutando<br />

finalmente rilassata e libera d’ogni pensiero il calar della sera sul termitaio<br />

umano. Mi piacerebbe tantissimo offrirtene un’altra.<br />

Nell’antica Roma il consumo di vino era vietato alle donne: secondo i<br />

Romani, esso metteva in serio pericolo la condotta sessuale della donna,<br />

col rischio di condurla all’adulterio, ad inconcessam venerem. Col tempo<br />

le fu concesso di bere il vino passito e in genere i vini dolci, cioè tagliati<br />

con acqua o profumi.<br />

Più che due millenni abbondanti, sembra passato un eone da allora. Oggi<br />

le donne sbevazzano che è un piacere, ragazzine o mature che siano, per<br />

quanto preferiscano il vino e i cocktail alla <strong>birra</strong>, almeno qui nel Belpaese,<br />

per diversi motivi compreso quello meramente fisiologico: laddove a me<br />

ci vogliono tre-quattro birre medie per far scattare l’allarme alla cisterna, a<br />

loro è sufficiente un mojito e mezzo. Guai a essere prima di loro in coda<br />

per soddisfare l’acre necessità, soprattutto quando vi è un bagno solo nel<br />

locale! Talune fanno le caramellose per pungolare il gentiluomo che è in<br />

te, schiacciato sotto strati archeologici di disincanto. Le più screanzate ti<br />

passano davanti e quando escono manco ti chiedono scusa. E se ti tocca il<br />

turno prima di una brigata di ninfette suburbane conciate come le Pussycat<br />

Dolls, aspettati pure che prendano a tempestare di pugni la porta del cesso<br />

neanche quindici secondi dopo il tuo ingresso: vale a dire, appena il tempo<br />

di tirare giù la zip ed estrarre la pompa. Quest’ultimo è un comportamento<br />

che mi fa incazzare come un vaporetto del Mississipi.<br />

La femme! Il futuro potrebbe risolvere la sua atavica incontinenza. Nella<br />

quarta parte del suo grande romanzo Guerra eterna (“Maggiore Mandella,<br />

2458-3143 d.C.”) Joe Haldeman descrive fuggevolmente piccole capsule<br />

da rompere e accostare al naso per fiutarne il contenuto: l’ufficiale medico<br />

dell’astronave comandata da Mandella, la bellissima dottoressa Alsever,<br />

ne fa discreto uso. Fin troppo semplice è spingersi a ipotizzare una capsula<br />

mojito e una screwdriver o finanche una mini-capsula chupito de ron con<br />

zumo de fruta, per eterna pace della vescica femminile. Alsever è lesbica.<br />

Nel XXVI secolo sulla Terra essere gay è la norma: l’eterosessualità è<br />

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considerata una disfunzione emotiva, relativamente facile da correggere.<br />

Ma la <strong>birra</strong> esiste ancora, tant’è vero che a inizio capitolo prima di partire<br />

per l’ennesima campagna Mandella se ne scola ben otto prima di decidersi<br />

ad assaggiare un drink del momento: “Il rum Antares era un bicchiere alto<br />

e sottile, con un poco di ghiaccio che galleggiava sul liquido color ambra<br />

pallido. Sul fondo c’era un globulo rosso vivo, grosso quanto un’unghia,<br />

circondato da filamenti ondeggianti.” Pure la libido femminile, per quanto<br />

geneticamente “orientata”, conserva le sue caratteristiche salienti: una su<br />

tutte, l’arrapamento conseguente all’assunzione d’alcol. Cosicché durante<br />

la missione succede che la Alsever, dopo essersi inebriata di una robaccia<br />

prodotta nella distilleria improvvisata della Masaryk II, tenta di offrirsi al<br />

maggiore: “tenta”, sì, perché la desuetudine all’etanolo la stende sul più<br />

bello. Comunque beccatevi questo spoiler e zitti: verso la fine del romanzo<br />

Diana Alsever si fa convertire in eterosessuale. Ma non sarà Mandella ad<br />

approfittarne.<br />

Holy Fire (“Fuoco sacro”) è l’unico libro di Bruce Sterling che posseggo.<br />

Il Ventunesimo Secolo volge al termine e una Multinazionale nel campo<br />

della medicina domina il mondo economico grazie alle ultime scoperte nel<br />

campo del prolungamento della vita. Nella migliore tradizione cyberpunk<br />

è un mondo di droghe sintetiche, d’individualisti metropolitani che vivono<br />

di espedienti, di governi paternalistici. Il potere politico è nelle mani di<br />

una gerontocrazia che controlla le più avanzate tecnologie per ringiovanire<br />

e le masse si arrabattano alla bell’e meglio. Mia Ziemann, novantaquattro<br />

anni, californiana di San Francisco, di professione economista sanitaria, ha<br />

deciso di sottoporsi a un trattamento chiamato Disintossicazione Cellulare<br />

Dissipativa Neo-Telomerica, che la farà tornare giovanissima e vivere per<br />

sempre. Ma non vuole sottostare al susseguente programma di ricerca cui<br />

quelli della Multinazionale la sottoporrebbero per averne usufruito. Così,<br />

bellissima e post-umana, se ne scappa in Europa col nome mutato in Maya<br />

per vivere la sua nuova, sempiterna vita. Prima tappa del wanderjahr è<br />

Monaco di Baviera. Lì Maya conosce Ulrich, fascinoso anarcoide: “Vieni<br />

con me, e ti porto alla famosa Hofbrauhaus. Si mangia carne. E si beve<br />

<strong>birra</strong>!” Più o meno: Maya scopre che nel 2096 i <strong>birra</strong>ioli tracannano grossi<br />

boccali di malto bollente mentre l’alcol lo sniffano soltanto, tirando da<br />

piccoli inalatori con un preparato lipidico. Quella maniera stravagante di<br />

assumere l’alcol riduce il dosaggio, preservando il fegato dal contatto<br />

diretto con le sostanze tossiche. Per soddisfazione dei discendenti del prof.<br />

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Remuzzi. In ogni modo, Maya si rifiuta di provare la post-<strong>birra</strong>: è il sesso<br />

che desidera, tra le inumerevoli cose. Brava post-ragazza.<br />

Ma come spesso succede la realtà supera la fantasia. Un gruppo di studenti<br />

dell’Helicon Vocational Institute, vicino Amsterdam, ha realizzato l’alcol<br />

in polvere come progetto di fine anno. E le ha affibbiato anche un nome:<br />

Booz2Go. Disponibile in bustine da venti grammi dal costo di un euro e<br />

mezzo, aggiungendovi acqua si ottiene una bevanda al gusto di lime con<br />

tanto di bollicine dal tasso alcolico pari al 3%. Il problema è che, non<br />

essendo Booz2Go alcol in forma liquida, potrebbe essere smerciato anche<br />

ai minori senza infrangere la legge. Staremo a vedere. Io, per me, sto<br />

compiendo già eccessivi sforzi per rimanere al passo coi tempi; mi rifiuto<br />

categoricamente anche soltanto di immaginare che fra trenta-quarant’anni<br />

– anch’io, come il nostro corrente modestissimo Presidente del Consiglio<br />

Silvio Berlusconi, sono certo di campare centoventi anni, e bene! – potrei<br />

dovermi accostare al bancone di una birreria e chiedere a un androide “una<br />

bustina di Menabrea Booz e una media d’acqua naturale, grazie.” Finché è<br />

lievito marziano va ancora bene.<br />

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Figura 7. Io e Jane in azione da O’Leary.<br />

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GRAZIE CHE HO BEVUTO<br />

In una cultura come la nostra, abituata da tempo a frazionare e dividere ogni cosa<br />

al fine di controllarla, è <strong>forse</strong> sconcertante sentirsi ricordare che, per quanto<br />

riguarda le sue conseguenze pratiche, il medium è il messaggio.<br />

Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare.<br />

Mercoledì 5 novembre 20**, h 10.29 a.m., CET. Per uno come me, che<br />

respira e mangia libri dalla nascita, una biblioteca trabocca di tentazioni<br />

fuorvianti dal lavoro quasi come un Midsummer Night’s Dream Party alla<br />

Playboy Mansion per un predicatore evangelico. Oggi, per esempio, ho<br />

qui posato accanto al notebook The Complete Bowie di Nicholas Pegg,<br />

l’enciclopedia definitiva di Mr. David Jones alias Ziggy Stardust alias<br />

Thin White Duke alias David Bowie. Di quest’uomo amo essenzialmente<br />

cinque dischi: Station To Station, Low, Heroes, Lodger e Scary Monsters.<br />

Sono vittima di una vera e propria ossessione uditiva per tutti i chitarristi<br />

che lavorarono con lui durante quella fase abbagliante della sua carriera,<br />

ossia Carlos Alomar, Earl Slick, Ricky Gardiner, Robert Fripp, Chuck<br />

Hammer, Adrian Belew e Stacey Heydon. Fripp e Belew vengono da<br />

Urano. Alomar è uno dei più talentuosi chitarristi ritmici della storia del<br />

rock. Gardiner si presentava sul palco in salopette. Sia Carlos sia Ricky<br />

suonarono con Iggy Pop, in studio e dal vivo. Di Gardiner il produttore<br />

Tony Visconti disse: “Era completamente fuori di testa ed era un autentico<br />

mago degli effetti speciali. Verso di lui nutrivo una sorta di timore<br />

reverenziale” Il suo contributo a Low non è mai stato valutato nella giusta<br />

misura, cioè prezioso, ma il bravo chitarrista scozzese è comunque passato<br />

alla storia per aver ideato il riff di The Passenger “in un amabile mattino<br />

di maggio presso <strong>casa</strong> mia, guardando i meli in fiore”, com’egli stesso<br />

racconta in un’intervista risalente al 2000.<br />

Che personaggi. Che tempi. Ammassi globulari di richiami nella mia testa.<br />

Iggy e la sua band al Dinah Shore Show nel 1977: Hunt Sales alla batteria,<br />

Tony Sales al basso, Ricky Gardiner e il Duca seduto al pianoforte trattato<br />

con una paglia in bocca. Iggy all’Ippodromo di Parigi parlando in francese<br />

al pubblico. Iggy che al principio degli anni Novanta racconta ridendo a<br />

un giornalista nostrano: “A Berlino andavo avanti a polvere boliviana,<br />

salsicce e <strong>birra</strong>.” Diavolo d’un Totò Osterberg.<br />

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Fin dall’antichità l’uomo si è trovato a creare ruoli mistici e separati per<br />

l’atto del bere: benché spesso celebrato entro il generico rito di un pasto,<br />

esso rimane sempre appartato in un rituale a sé. Gli antichi Sumeri, ad<br />

esempio, si mantenevano a rispettosa distanza dalle loro bevande mediante<br />

lunghe cannucce di paglia. Il fatto che le cannucce permettessero a coloro<br />

i quali partecipavano al rituale di bere da un unico contenitore consentì<br />

l’affermazione di un evento comunitario. Uno poteva condividere un senso<br />

di profondo cameratismo con gli altri bevitori membri del suo gruppo di<br />

coppa. Quest’antico costume è ancora parte intrinseca dell’attività sociale<br />

di molte tribù africane odierne; in Occidente è stato ripristinato per i nuovi<br />

cerimoniali della sbronza collettiva. La paglia è stata sostituita dalla meno<br />

esotica plastica e i sempre più arzigogolati beveroni non hanno bisogno di<br />

essere passati al setaccio, ma di un fegato in lega di titanio!<br />

Da lì al brindisi il passo è breve. L’atto di offrire simbolicamente una<br />

bevanda a una divinità fu senz’altro una parte indispensabile delle offerte<br />

di preghiera e feste religiose fin dall’alba della storia in ambo le comunità<br />

pagane e giudaico-cristiane. In questo senso il moderno cincin può essere<br />

considerato come una derivazione dell’Eucarestia! In qualsiasi modo vi<br />

sono stati molti misteri associabili al consumo di pane e vino fra tutte le<br />

comunità religiose, inclusi i Nativi Americani. Anche i seguaci del Dalai<br />

Lama in Tibet celebrano in stile eucaristico. Gli Egizi festeggiavano ogni<br />

anno la resurrezione di Osiride consumando pane in forma di torta sacra<br />

od ostia dopo che era stato benedetto da un sacerdote e così divenuto carne<br />

della carne del dio; poi s’inzuppava il pane nel vino e si comunicava al<br />

fedele di aver mangiato il corpo e il sangue di Osiride. La lista potrebbe<br />

continuare per un bel pezzo.<br />

Nell’antica Grecia il brindisi tra due persone era chiamato proposis, “la<br />

bibita prima”. Colui che proponeva il brindisi dapprima sorseggiava, poi<br />

dava il recipiente che conteneva il resto del vino alla persona onorata; in<br />

occasioni di particolare rilevanza la tazza stessa era un regalo permanente<br />

al ricevitore. A uno sposalizio, per citare un caso, una coppa dorata piena<br />

di vino sarebbe passata in questa maniera da suocero a genero. La coppa<br />

diveniva un simbolo della sposa, “accompagnata all’altare” (com’è ancora<br />

in uso dire) da suo padre; i due uomini, le due famiglie erano ora una cosa<br />

sola nel vino condiviso.<br />

Notevolmente più a nord e avanti lungo la linea temporale, nelle notti di<br />

luna piena, i sacerdoti guerrieri di Odino offrivano brindisi al proprio dio<br />

nell’ambito di riti da connotati proto-heavy metal: niente vetro finemente<br />

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lavorato, solo metallo grezzo, cuoio e sangue. Più tardi essi svilupparono<br />

la pratica di usare il teschio di un nemico caduto come coppa d’offerta<br />

sacrificale, e alcuni studiosi sostengono che quest’uso diede origine al ben<br />

noto brindisi scandinavo “Skoal!”. Indubbiamente questa parola e skull<br />

(“teschio”) sono etimologicamente correlate, significando entrambe “una<br />

cosa cava”. È anche interessante notare che mentre il brindisi non è mai<br />

stato una tradizione molto forte nei paesi dell’area mediterranea fin dalla<br />

nascita del Cristianesimo, gli sono stati attribuiti termini germanici in<br />

francese, italiano e spagnolo. La forma teutonica del costume di brindare<br />

sembra essere stata reintrodotta in quei paesi in qualche periodo durante il<br />

sedicesimo secolo. Come risultato in italiano e spagnolo “brindare” si dice<br />

rispettivamente “brindare” e “brindar”, dal tedesco “ich bring dir’s”, un<br />

brindisi che significa “io lo porto a te”. Nella lingua francese la parola<br />

“trinquer” viene dal tedesco “trinken”, ossia “bere”.<br />

In lingua inglese “fare un brindisi” si dice to drink a toast. Questo modo di<br />

dire viene dalla pratica britannica di mettere a galleggiare sulla bevanda<br />

un pezzetto di pane tostato addolcito o aromatizzato. Un’usanza antica,<br />

derivante anch’essa dalla tradizione degli eventi religiosi eucaristici della<br />

storia: dopo che tutti gli ospiti avevano diviso la coppa, si attendeva che il<br />

padrone di <strong>casa</strong> ne sorbisse le ultime gocce in onore dei commensali e<br />

della devozione alla propria deità.<br />

Neanche a dirlo, la letteratura italiana classica e moderna sovrabbonda di<br />

libagioni. Ulisse brindò a Polifemo dopo che il ciclope ebbe divorato uno<br />

dei suoi compagni, e con un brindisi intriso di speranza si congedò da<br />

Alcinoo, re dei Feaci. Orazio invitò a levare i calici alla transitorietà del<br />

presente, il celeberrimo Carpe Diem dell’Ode a Leuconoe: “Afferra<br />

l’attimo e diffida del dubbio domani.” Tra il XII e la prima metà del XIII<br />

secolo ritroviamo l’atto del brindare con gli amici nelle liriche goliardiche:<br />

“Un brindisi lunghissimo sia per noi saluto: e duri questo uso per secoli<br />

infiniti. Amen.” Nel Rinascimento il brindisi ritorna nel Galateo di Mons e<br />

nella Canzone di Bacco e Arianna di Lorenzo il Magnifico, una bella<br />

ballata che invita a godersi l’esistenza che scorre via. Nel Settecento esso<br />

compare, a tinte più malinconiche, decisamente classicheggianti, nelle<br />

opere di due immensi letterati italiani: Alfieri e Parini. Nell’Ottocento è il<br />

Manzoni a descrivere ne I promessi sposi tre brindisi: il primo ha come<br />

protagonisti frà Cristoforo e i notabili a pranzo da Don Rodrigo; il secondo<br />

vede Renzo nell’osteria “Alla luna piena”; è ancora Renzo, sul carro dei<br />

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monatti, ad assistere al terzo brindisi. Altresì popolare è la bicchierata<br />

musicata da Verdi ne La Traviata: “Libiam ne’ lieti calici / che la bellezza<br />

infiora / E la fuggevol ora s’inebri a voluttà”, cantata da Alfredo cui<br />

risponde il coro dei commensali.<br />

Mercoledì 12 novembre 20**, h 10.06 a.m., CET. Ribadisco che un<br />

doposbornia moderato, diciamo le tre medie chiare e i due gin tonic che ho<br />

ingollato ieri sera al Lab, contribuisce a far fluire meglio le idee. I miei<br />

denigratori se la ghigneranno. Per quanto io sia uno scrittore enormemente<br />

trascurato, ne ho un discreto numero. Certuni sostengono che ho un lessico<br />

pietoso – tipo un paio di capisaldi della cultura torinese, il divertente è che<br />

entrambi sono straconvinti che io nutra per loro profonda stima. Altri mi<br />

accusano di sparare minchiate come un bazooka e addirittura di traviare le<br />

nuove generazioni con le mie narrazioni sul mondo del tifo organizzato.<br />

L’ex proprietaria veterofemminista di un pub che ero solito frequentare mi<br />

ha tacciato di misoginia: nel 1982 ti avrei dato ragione, bella mia. Io, per<br />

mio carattere, accetto molto volentieri i buoni consigli, ma nel momento in<br />

cui sento puzza di preconcetto prendo a eruttare zolfo fuso e biossido di<br />

zolfo come i vulcani di Io, l’infernale satellite di Saturno; inoltre, come già<br />

espresso all’inizio di questo libro per mezzo di una citazione colta, ho una<br />

pessima opinione dei critici d’arte. A loro e a tutti i miei stimatissimi<br />

nonché munifici editori ho dedicato sul mio sito una libera interpretazione<br />

di Crash Street Kidds, classico proto-punk dei Mott the Hoople:<br />

Guarda i miei pensieri, guarda le mie cicatrici, guarda i miei vestiti, sono vestito<br />

per uccidere<br />

Guarda il mio sangue, e guarda la mia pistola<br />

I Raga Casinari stanno venendo a prenderti<br />

(È meglio che corri, avanti corri, comincia a correre!)<br />

I Raga Casinari stanno venendo a prenderti<br />

(Sei fatto, sei fottuto, sei finito!)<br />

Considera i miei errori e considera la mia maledizione, considera la mia<br />

frustrazione<br />

Non sai proprio un cazzo<br />

Nuova Città un accidente, manda a chiamare il carro funebre<br />

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I Raga Casinari stanno venendo a prenderti<br />

(È meglio che corri, avanti corri, comincia a correre!)<br />

I Raga Casinari stanno venendo a prenderti<br />

(Solo per divertimento, per sballo, per sciambola!)<br />

Taglieremo i fili, ti bruceremo, sono stanco di resistere<br />

Ti tortureremo le piante dei piedi, ci tratti come dei topi di fogna, poi il resto<br />

Hai detto loro che siamo dei monelli e la repressione contorce i nostri pugni<br />

Fatemi uscire da questa nebbia…<br />

Sentimi imprecare, senti ogni parola, io non sono soltanto un numero<br />

Voglio essere ascoltato, il presentatore televisivo parla con la gentaglia<br />

I Raga Casinari stanno venendo a prenderti<br />

È meglio che corri<br />

I Raga Casinari stanno venendo a prenderti<br />

Morditi il pollice<br />

Sono stato tenuto all’oscuro, sono involuto, sono stato annullato<br />

E tu te ne sbatti i coglioni<br />

Tu sei così puro, tu conosci i rimedi, cioè mantenermi povero<br />

Il piccolo delinquente giovanile<br />

I Raga Casinari stanno venendo a prenderti<br />

Corri…<br />

I Raga Casinari stanno venendo a prenderti<br />

Uno è tuo figlio…<br />

I Raga Casinari stanno venendo a prenderti<br />

Nasconditi…<br />

I Raga Casinari stanno venendo a prenderti<br />

Fatti una corsa…<br />

I Raga Casinari stanno venendo a prenderti<br />

Troppo tardi…<br />

I Raga Casinari stanno venendo a prenderti<br />

Dove sono i tuoi amici?<br />

I Raga Casinari stanno venendo a prenderti<br />

Sei smascherato<br />

I Raga Casinari stanno venendo a prenderti<br />

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Ora sei accerchiato…<br />

I Raga Casinari stanno venendo a prenderti<br />

Ora sei morto… sei morto…<br />

SEI MORTO!!!<br />

DUE RAFFICHE DI AK47.WAV PER VOI, PREDATORI DI SOGNI!<br />

La biblioteca Bernaulo è quasi vuota oggi. Le foglie degli alberi intorno<br />

mostrano ormai tutte le malinconiche bellissime colorazioni della season<br />

of wither. Il cielo è un fulgore grigiastro, quasi uniforme. Le mie occhiaie<br />

fanno pendant col panorama: non avrò mica contratto l’epatite? Trascino<br />

nel Windows Media Player Aftermath dei Rolling Stones: nelle cuffiette<br />

rende molto bene, si apprezza soprattutto il fuzz bass di Bill Wyman, una<br />

scelta senz’altro originale quella di distorcere il suo strumento anziché le<br />

chitarre come facevano tutti nel 1966. Probabilmente Keith Richards non<br />

si sentiva ancora abbastanza a proprio agio con le sonorità motoristiche<br />

emesse da quelle portentose scatolette al germanio. Poi vi s’impratichì e<br />

già dal long playing seguente, Between the Buttons, la sua chitarra si fece<br />

più roboante, dura, piccante: e in Their Satanic Majesties Request, perfino<br />

cosmica. Con l’aiutino di una certa sostanza chimica scoperta da Albert<br />

Hoffman il 16 aprile 1943.<br />

Think, think. Porca miseria ladra, ma dov’è finito il video che m’interessa?<br />

Credevo d’averlo importato qui dal precedente computer che ho rottamato.<br />

Macché. Ecco un’altra vittima della sindrome da tabula rasa digitalizzata<br />

che mi affligge da qualche tempo. Dunque mi toccherà scaricarlo un’altra<br />

volta o andare a memoria. Scelgo la prima possibilità, quantunque potrei<br />

recitarne ogni singola battuta come neppure Quei bravi ragazzi di Martin<br />

Scorsese: un capolavoro che ho visto almeno trenta volte, e non mi stanca<br />

mai. Proprio come l’Età dell’Oro delle Pietre Rotolanti.<br />

Due anni e mezzo or sono, in un bel mattino di primavera, aprii l’Outlook<br />

Express e passato qualche minuto mi ritrovai a smadonnare: qualcuno mi<br />

aveva spedito una e-mail con un allegato troppo “pesante”. Io ero, e sono<br />

tuttora, un pitecantropo a 56K che saltuariamente ricorre al warwalking,<br />

cosicché dovetti far buon viso a cattivo gioco e attendere un altro quarto<br />

d’ora abbondante prima che il messaggio fosse scaricato completamente<br />

dal programma.<br />

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Il testo era il seguente: “Ciao Profiu (è uno dei miei due soprannomi da<br />

battaglia, l’altro è Messia N.d.A.), devi assolutamente guardare questo<br />

filmato, è un vero spasso!” Firmato, Daffy.<br />

Detto, fatto. Lanciai ulteriori imprecazioni nell’aria del mio studio poiché<br />

il video necessitava di un codec per essere riprodotto dal Windows Media<br />

Player, ma una volta scaricato quello potei finalmente scoprire di che si<br />

trattava.<br />

Scorsero tre secondi di schermo blue blue electric blue that’s the color of<br />

my room. Al quarto comparve un pannello elettorale: “Giovanni Bivona,<br />

Patto per la Sicilia, Elezioni Provinciali 25-26 maggio 2003, collegi di<br />

Agrigento-Favara/Canicattì. IO PROTESTO, E TU?”<br />

Già mi scappò un risolino dalle narici: il candidato era un faccione siculo<br />

dalla marcata calvizie fronto-occipitale ma con i capelli superstiti lunghi<br />

fino alle spalle a bottiglia e una camicia bianca dal colletto spropositato,<br />

come quelle che indossava il leggendario pornodivo Ron Jeremy nei suoi<br />

filmacci degli anni Settanta. Prometteva esplosioni di raggi gamma e<br />

supernove.<br />

Ancora qualche attimo e cominciò il filmato vero e proprio. Da una strada<br />

alberata di Favara, Agrigento o vai tu a sapere, Giovanni Bivona lanciava<br />

il suo proclama avanzando lentamente verso la telecamera: “La politica, è<br />

triste. Facciamola diventare allegra.” E poi, fermatosi: “Protestate, con<br />

me.” Camicia e volto stropicciati, come si fosse alzato appena tre minuti<br />

prima da una suntuosa siesta estiva profondo-italiana dopo una spanciata<br />

di melanzane alla parmigiana e cannolicchi annaffiata di Nero d’Avola.<br />

Seguì una ripresa al rallentatore del Sicilian Candidate stringendo la mano<br />

ai suoi sostenitori (per chiamarli in qualche modo) e un coro abborracciato<br />

degli stessi: “NOI PROTESTIAMO!!! NOI VOTIAMO GIOVANNI<br />

BIVONA!”<br />

Da lì in avanti, spettacolo! Bivona che sulle note introduttive all’inno di<br />

Mameli esce dal portone di un palazzo agitando scompostamente il pugno<br />

sinistro accompagnato da un doppio squillo di clacson: “Sto arrivando, sto<br />

arrivando!” Bivona che chiuso in una specie di camera anecoica snocciola<br />

il suo programma: “Io sono qui per... dirvi che dobbiamo lottare tutti uniti<br />

e assieme, uno per tutti e tutti per uno, perché non se ne può più di queste<br />

cose che manca il lavoro, manca… ehhh… il turismo, manca l’edilizia,<br />

manca… iiih… la serietà della gente in famiglia, manca la sicurezza del<br />

lavoro…” e tralignando nel dialetto siciliano “’Un si voglie spusare più<br />

nuggu perché manca u trabagghiu” Bivona esortante il popolo siculo alla<br />

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ibellione: “Protestiamo, protestiamo, protestiamo, protestiamo…” manata<br />

collerica al muro “…e protestiamo!” Bivona incazzato perché: “Manca<br />

l’acqua! Ha piovuto da maddina a sera, un inverno che chiuvi… e manca<br />

l’acqua!”<br />

E così via. Alle Provinciali il Patto per la Sicilia è stato polverizzato, ma<br />

Giovanni Bivona, di professione barbiere, ha ottenuto la classica rivincita<br />

del genio incompreso: il successo postumo. Il suo spot elettorale è finito in<br />

rete dove è stato visto e scaricato da migliaia di utenti, anno dopo anno,<br />

passando di forum in forum, fino a diventare un vero e proprio fenomeno<br />

di culto di cui si è interessato addirittura un quotidiano autorevole quale il<br />

Corriere della Sera. Perfino Google gli ha dedicato una recensione:<br />

A Sicilian television “presenter” (or pretending to be, while he’s a barber) in his<br />

promotional ad for a local electoral campaign in Sicily (Agrigento County<br />

elections).<br />

You should be sicilians to better get the meaning of the ad, but it’s funny even if<br />

you don’t understand the meaning: you won’t believe this man pretended to be<br />

elected!<br />

Io invece avrei voluto che l’eleggessero, fosse soltanto per la genuinità che<br />

promana: perché, in definitiva, ha ragione lui. La politica è triste, ogni<br />

giorno che passa lo è di più: eppure, anche se solo per tre minuti e diciotto<br />

secondi, lui ce la rende davvero più allegra. Ma come ci si sentirà Bivona<br />

nei panni del comico involontario? Protesterà? Magari gli sarà venuta la<br />

sarsa per colpa degli scarafaggi cinesi!<br />

Diciamo tutti inzieme…<br />

Ritorniamo al passaggio in cui l’incommensurabile Bivona protesta per la<br />

penuria d’acqua corrente. Subito dopo lo vediamo davanti a una fontana di<br />

marmo in compagnia di due tizi riproporre lo slogan scandendo le parole:<br />

“Protestate-con-me”. E di seguito: “Diciamo tutti inzieme… grazie che ho<br />

bevuto!” Intendendo: poiché manca sempre l’acqua, dobbiamo ringraziare<br />

il cielo ogni santa volta che riusciamo a berne una stilla.<br />

Quell’ultima frase è da due anni il brindisi ufficiale della mia compagnia.<br />

Dovunque noi siamo, allo stadio come al ristorante o al pub all’angolo,<br />

qualunque bevanda si sia tracannando tranne ovviamente l’acqua e i drink<br />

analcolici, brindiamo sempre così. Talvolta qualcuno confondendosi coi<br />

canti ultrà da curva dice: “Diciamo tutti in coro…” Al che io lo riprendo<br />

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aspramente perché la formula va pronunciata esatta, non sono ammesse<br />

bastardizzazioni. Devo ammettere che ho smarrito la contabilità di quanti<br />

brindisi abbiamo fatto in questo modo: mezzo migliaio?<br />

…grazie che ho bevuto! Protestate con me!<br />

Fortunatamente a Torino abbiamo acqua e <strong>birra</strong> in abbondanza, ma non si<br />

sa mai… Per come si stanno mettendo le cose, in un futuro neanche troppo<br />

remoto potremmo ritrovarci a fronteggiare un rincaro spropositato della<br />

nostra bevanda preferita per l’accresciuto ricorso globale ai biocarburanti:<br />

o peggio ancora, e tutt’altro che improbabile, un nuovo Proibizionismo.<br />

Bisogna prepararsi, creando siti, forum di discussione, social network,<br />

pubblicazioni cartacee ad hoc, perché quando il cielo si adombrerà e gli<br />

spillatori si seccheranno avremo bisogno di memoria storica, nonché fucili<br />

mitragliatori, coraggio e faccia tosta per procurarci orzo, luppolo e lievito.<br />

Mettete in rete i frutti della vostra inventiva alcolica! «Dobbiamo lottare<br />

tutti uniti e assieme, uno per tutti e tutti per uno.»<br />

Allora alziamo in alto i boccali e diciamo tutti insieme...<br />

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Figura 8. ...“GRAZIE CHE HO BEVUTO! ”<br />

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LA BIRRA E IL TAO<br />

Vedi anche: Punto di Gräfenberg.<br />

Vedi anche: Punto della Dea.<br />

Vedi anche: Punto sacro del Tantra.<br />

Vedi anche: Perla nera taoista.<br />

Chuck Palahniuk, Soffocare.<br />

L’illuminazione, secondo il Buddismo, è il completo sviluppo delle<br />

potenzialità e qualità naturali presenti nella vera natura della nostra mente;<br />

in più circoli buddisti essa è descritta come uno stato di “saggezza che<br />

sorge dall’esperienza diretta di ogni fenomeno svuotata dell’esperienza<br />

indipendente”. Quando una persona vede la luce, effettivamente vede o<br />

comprende la realtà a un livello molto più alto del terreno, non più limitata<br />

dalle transenne della ragione. L’illuminato è sagace e saggio riguardo alle<br />

sue relazioni, il proprio ruolo nella società e l’importanza d’ognuno e ogni<br />

cosa con cui egli interagisce. È dalla ricerca umana di questa luce figurata<br />

che tutte le nostre arti, scienze e religioni si sono sviluppate, originalmente<br />

un’unica ricerca di conoscenza e significato poi segmentatasi in distinte<br />

discipline specializzate.<br />

Come ad esempio la fabbricazione e il consumo della <strong>birra</strong>. Chissà quante<br />

volte avrete pronunciato questa frase: “Ho bisogno di bere un goccio per<br />

schiarirmi le idee”. Sappiate che codesto concetto viene da molto lontano:<br />

dal Tibet, esattamente. La tradizione buddista doha, infatti, contempla<br />

l’antica pratica di preparare e bere la cosiddetta “<strong>birra</strong> dell’illuminazione”.<br />

I tibetani sorseggiano la bevanda sciorinando nel contempo un repertorio<br />

di canzoni intitolate all’atto del bere. Vorrei raccontare ciò al nostro caro<br />

vecchio barman Nicky, colui per il quale Olivia Newton-John era la più<br />

bella mulatta del mondo, il bellissimo capoluogo delle Baleari è Parma di<br />

Maiorca (difatti è molto rinomato per il suo squisito prosciutto di mare), il<br />

telefono del bar funzionava a gin tonic e le birrerie “ondeggiavano”. Apro<br />

una parentesi per spiegarvi quest’ultima cosa. Una mattina d’estate io e<br />

Vito ci presentammo al locale per fare colazione dopo essere stati in giro<br />

tutta la notte a bere senza ritegno, lessi come polletti amburghesi. Nicky ci<br />

fece due cappuccini al gusto di esaclorofene, che accompagnammo con<br />

croissant e cannolicchi siciliani al solito raffermi, e attaccò a straparlare di<br />

vacanze future e passate. “Sapete, cinque anni fa sono andato in ferie a<br />

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Milano Marittima con mia moglie, e una sera siamo andati a cenare in una<br />

birreria grande e famosa, uno di quei bei posti dove i tedeschi quando sono<br />

belli ubriachi a tavola si prendono tutti a braccetto e si muovono cantando<br />

canzoni a squarciarsi la gola, così la birreria ondeggia.” Dio, gli saremmo<br />

esplosi a ridere in faccia già da sobri, figuratevi con la botta d’alcol che<br />

avevamo in corpo. Sì, vorrei proprio parlare a Nicky della <strong>birra</strong> illuminata.<br />

Purtroppo sono anni ormai che ha ceduto l’attività ad altri e per di più mi<br />

hanno confidato che negli ultimi tempi non è stato molto bene: tieni duro,<br />

roccia! Chiusa parentesi.<br />

Chhaang, o chang, è il nome della bevanda alcolica tradizionale del Tibet.<br />

Strettamente apparentata con la <strong>birra</strong>, viene prodotta usando orzo, miglio e<br />

riso. Procedimento e ingredienti variano secondo la zona; nei pressi del<br />

monte Everest, per esempio, la chang è ottenuta facendo passare acqua<br />

calda attraverso l’orzo fermentato, ed è poi servita in una grande pentola e<br />

sorbita mediante una cannuccia di legno. Il contenuto alcolico è piuttosto<br />

basso, ma essa produce un’intensa sensazione di calore e benessere, ideale<br />

per sopportare le temperature che da quelle parti in inverno scendono a<br />

livelli ben più che glaciali. Dicono che sia un toc<strong>casa</strong>na per affezioni quali<br />

raffreddore, febbre e rinite allergica. Dovrò farmene mandare qualche otre<br />

per il prossimo inverno sabaudo, insieme a dieci casse di Lhasa, la superpremium<br />

quality all-natural, all-malt lager tibetan beer fatta coi migliori<br />

ingredienti del mondo: acqua di fonte dell’Himalaya, luppolo Saaz, lievito,<br />

e la maggior quantità possibile d’orzo autoctono. Pedantissimi virus e<br />

batteri, avrete pane per i vostri microdenti!<br />

Il tempio buddista Wat Pa Maha Chedi Kaew, situato a circa quattrocento<br />

chilometri a nord-est di Bangkok nella città di Khun Han, è senz’altro il<br />

risultato di una fantastica illuminazione birrifica: i monaci Thai lo hanno<br />

edificato usando oltre un milione di bottiglie di <strong>birra</strong> usate (Wat Pa Maha<br />

Chedi Kaew significa, per l’appunto, “Tempio del Milione di Bottiglie”).<br />

Certamente non è il solo esempio al mondo di edificio costruito con questi<br />

particolarissimi “mattoni”, ma lo sviluppo intricato della struttura lo rende<br />

unico e inimitabile. Grazie al supporto della comunità prossima a questi<br />

monaci ingegnosi è stato possibile per essi raccogliere abbastanza bottiglie<br />

da realizzare l’idea: non è noto quanto tempo ci abbiano impiegato, ma il<br />

risultato è stupefacente. Un tempio Thai fatto interamente di bottiglie<br />

riciclate di Heineken e Chang Beer, dalle fondamenta al tetto, perfino la<br />

torre dell’acqua e il bagno dei turisti. E grazie a te che hai bevuto e mi hai<br />

donato la bottiglia.<br />

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I Lama sono bodhisattva. Sì, proprio come Patrick Swayze in Point Break.<br />

I bodhisattva sono persone che hanno raggiunto l’illuminazione ma hanno<br />

rifiutato di ascendere al successivo piano spirituale, essendo perciò rinati<br />

fino a che tutta la vita sulla Terra sia stata illuminata. Durante il gelido<br />

inverno del 1985 mi impegnai a teletrasportare le opere più belle di Jack<br />

Kerouac dalla biblioteca Bernaulo allo scaffale inchiodato al muro sopra il<br />

mio letto. Il primo volume che riuscii a fottere fu I vagabondi del Dharma,<br />

dove si parlava di bodhisattva alcolici alla ricerca della Verità per le strade<br />

d’America: il buddismo Zen che i Dharma bums professavano era una<br />

variante giapponese del buddismo indo-tibetano. In verità per tradizione i<br />

Lama erano responsabili del controllo religioso, politico ed economico<br />

(riscuotevano i tributi) delle vite di tutti i tibetani, fossero essi nomadi o<br />

coltivatori. Va da sé che l’anedottica buddista è assai corposa, oserei dire<br />

sterminata. E non mancano le storielle in cui si fa esplicito riferimento alla<br />

<strong>birra</strong>.<br />

C’era un praticante tantrico, uno di quei Lama che tengono i capelli lunghi<br />

e si fanno una crocchia sulla cima della testa – come Gene Simmons dei<br />

Kiss sul palco – il cui nome era Ngagpa. Costui esortava i suoi discepoli a<br />

non bere la chang, sostenendo che: “Codesta bevanda fa molto male,<br />

perché quando si beve troppo ci si ubriaca e si perde la consapevolezza di<br />

sé, non si riesce a ricordare e si fanno molte cose brutte, perfino cattive.”<br />

Sta di fatto che Ngagpa di <strong>birra</strong> ne tracannava, e come. Diversamente, i<br />

nomadi non bevono molto e preparano la bevanda soltanto in occasione<br />

dei festeggiamenti per il Capodanno tibetano. Così un giorno un nomade<br />

gli si rivolse in modo molto rispettoso chiedendo: “Ma com’è che tu bevi<br />

la chang?”. Ngagpa rispose con aria sicura: “Io mi visualizzo come una<br />

divinità di meditazione e considero la chang come se fosse del nettare,<br />

sicché quando bevo non sto trasgredendo alcuna regola.” Allora l’uomo<br />

gli rivolse un’altra domanda: “Va bene se gli yak – i simpatici buoi<br />

tibetani – bevono l’acqua? È uno sbaglio, un errore?”. E il Lama: “No, va<br />

bene, se gli yak bevono l’acqua va benissimo.” Così il nomade continuò:<br />

“Ah, grandissima cosa. Allora io posso visualizzarmi come uno yak e la<br />

<strong>birra</strong> la visualizzo come acqua, dunque sono in regola. In questo modo<br />

posso anch’io bere la chang”. Lama Simmons, preso in castagna, non poté<br />

controbattere quest’argomentazione. Bisogna essere coerenti con quello<br />

che si propone ad altri di fare: ma sopra ogni cosa, non predicare bene e<br />

razzolare male.<br />

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(Ah ah ah. Controllo antialcol in Piazza Vittorio Veneto. I pulotti vi fanno<br />

smontare dalla vettura per sottoporvi al pretest, ma voialtri, rivolgendo<br />

loro il più serafico dei sorrisi, dichiarate: “Io non sono ubriaco.” E quelli:<br />

“Questo lo verificheremo con l’etilometro.” “Oh, non serve, signori tutori<br />

della legge e dell’ordine in questa rifulgente città. Quando bevo <strong>birra</strong>, io<br />

visualizzo me stesso come un golden retriever e la <strong>birra</strong> come acqua che<br />

sgorga da una fontana alla quale mi abbevero. Pertanto non posso essere<br />

sbronzo, benché abbia bevuto sei birre, un mojito e un chupito di tequila.<br />

Non mi sottoporrò al test.” E i signori tutori della legge v’ammanettano<br />

senza tante cerimonie, totalmente zen.)<br />

Sukhasiddhi fu una saggia indiana del secolo XI venerata da una stirpe<br />

buddista tibetana come dakini – un essere magico che si dedica ad aiutare<br />

gli altri lungo la via per l’illuminazione. Sukhasiddhi è considerata la<br />

dimostrazione che chiunque può raggiungere l’illuminazione spirituale, a<br />

dispetto d’età, sesso, educazione, condizione sociale, o condizioni di vita.<br />

Ella è vista altresì come un’incarnazione di gentilezza e generosità, poiché<br />

il suo viaggio spirituale impernia su due atti di benevolenza.<br />

Il primo tale atto è il suo allontanamento da <strong>casa</strong> da parte di suo marito e<br />

sei figli adulti all’età di cinquantanove anni. La famiglia viveva in estrema<br />

indigenza, e un giorno, quando una pentola di riso era tutto quanto era<br />

rimasto loro da mangiare, il marito e i ragazzi si divisero e partirono alla<br />

ricerca di cibo. Mentre erano via, un mendico messo perfino peggio venne<br />

alla porta e chiese del cibo a Sukhasiddhi. Pensando che la sua famiglia<br />

sarebbe ritornata presto con dell’altro, lei diede tutto il riso al pover’uomo.<br />

Quando la famiglia fece ritorno, essi montarono in collera, e l’espulsero.<br />

Miseranda, Sukhasiddhi decise di dirigersi verso un’area conosciuta come<br />

patria di molti grandi santi e maestri, siccome lei era sempre stata devota.<br />

Ella sulla sua strada riuscì a acquistare un sacco di riso, e con esso fece<br />

della <strong>birra</strong>, smerciandola al suo arrivo. Investendo parte di quanto aveva<br />

ricavato, lei comprò più riso, e presto divenne un mercante di <strong>birra</strong> locale.<br />

Un giorno, la studentessa spirituale nonché consorte (però!) di un potente<br />

maestro buddista andò da lei per comprare cervogia per conto del marito.<br />

Quando la studentessa disse a Sukhasiddhi per chi era la <strong>birra</strong>, Sukie<br />

insistette perché lei prendesse la sua <strong>birra</strong> migliore gratuitamente – il suo<br />

secondo, importantissimo atto di generosità.<br />

La studentessa tornò dal suo insegnante e gli disse ciò che era accaduto.<br />

Egli all’istante percepì che Sukie era un’anima profondamente spirituale, e<br />

disse alla sua studentessa di portargliela per istruirla. Sukhasiddhi arrivò,<br />

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piena di gratitudine e devozione. Il maestro buddista le diede istruzione<br />

sulla meditazione e di seguito compì quattro “autorizzazioni” – iniziazioni<br />

buddiste e benedizioni per accelerare il suo progresso spirituale. Così, sul<br />

momento, senza meditare addirittura, Sukhasiddhi ottenne l’illuminazione<br />

all’età di sessantuno anni. Quel che succede quando si offre una <strong>birra</strong> a<br />

qualcuno!<br />

Ma della famiglia che l’aveva ripudiata, che ne fu? Sicuramente, morirono<br />

tutti quanti di sete vigliacca.<br />

Giovedì 11 dicembre 20**, h 04.16 p.m., CET. Stavo scrivendo l’ultimo<br />

rigo del capitolo precedente, quando alzando gli occhi per un istante dal<br />

computer ho incontrato il libro de I Ching, l’oracolo della saggezza cinese:<br />

qualche genialoide scansafatiche l’aveva riposto nella scansia dedicata alle<br />

scienze bibliotecarie. Essendo tanto tempo che desideravo consultarlo, per<br />

la precisione da diciannove anni quando lessi per la prima volta La<br />

svastica sul sole del sommo Philip K. Dick (un libro le cui situazioni sono<br />

orchestrate da due libri, I Ching, appunto, e il best-seller del momento, La<br />

cavalletta ci opprime, vietato in tutti i paesi del Reich che, secondo la<br />

visione allucinata di Dick, ha vinto la Seconda Guerra Mondiale grazie<br />

alla bomba atomica e si spartisce l’America con Giappone), ho fatto che<br />

prenderlo in prestito fino a Santo Stefano.<br />

I Ching, il Libro dei Mutamenti, o Chin Chin come lo chiama un amico<br />

mio negato per qualsiasi lingua che non sia il piemontese (peculiarità di<br />

tutti i piemontesi pure laine), è considerato il metodo di divinazione più<br />

antico al mondo. Dagli imperatori dell’antica Cina fino ai tifosi del Torino<br />

FC, molti uomini hanno consultato l’I Ching prima di prendere decisioni<br />

importanti o per trovare una risposta rapida alle loro domande. Da buon<br />

oracolo, i suoi responsi sono tutti da interpretare, ma Roderic e Amy Max<br />

Sorrell, autori di quest’edizione tascabile, hanno fatto veramente un ottimo<br />

lavoro nel rendere accessibile a tutti una materia estremamente ostica.<br />

I Ching opera sulla base di quella che il celeberrimo psicologo e filosofo<br />

svizzero Carl Gustav Jung definì “sincronicità”: nessuna coincidenza è<br />

casuale, tutti gli esseri viventi e coscienti dell’universo sono collegati tra<br />

loro sia materialmente sia spiritualmente. Ne ho avuta l’ennesima riprova<br />

non più tardi di un mese fa. Scrissi un post per El tardato vascofilo (tutto il<br />

mondo è paese) ispirato dal tormentone retrò del momento, Pop porno del<br />

duo pugliese Il Genio. L’incipit traeva spunto da un altro passo di Sueños y<br />

cadáveres il cui il protagonista, il colto e disincantato bidello Lucio del<br />

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Val, deplora la degenerazione qualitativa della musica nei bar di Logroño.<br />

Pochissimo tempo dopo aver inserito l’articolo ricevetti via e-mail questo<br />

colorito commento firmato: “Cazzarola, Javier Alonso è mio cugino!”<br />

Riconnettendomi prontamente al blog venni a scoprire che n’era autore un<br />

bilbaino, Carlos Benito, anch’egli titolare di un diario su El Correo. Vi<br />

andai su e lasciai due righe per lui e il cugino letterato riojano. Il collega<br />

blogger replicò che, per combinazione, entro sera Javier sarebbe venuto in<br />

visita a Bilbao, sicché gli avrebbe trasmesso di persona i miei complimenti<br />

per il suo impactante esordio letterario. Tempo due giorni lo stesso Javier<br />

m’inviò un messaggio: “<strong>Maurizio</strong>, ti ringrazio molto per l’apprezzamento<br />

e per essere una delle tre o quattro persone che hanno acquistato Sueños y<br />

cadáveres.” Ecco l’ennesimo talento incompreso in un pianeta infestato di<br />

ributtanti virtuosi dell’autopromozione.<br />

Ho appena ricevuto per posta la sua seconda opera, Síndrome. Javier<br />

Alonso è una persona squisita. Un giorno mi materializzerò a Logroño e lo<br />

sommergerò di Guinness, se corrisponde al vero che in quella birreria da<br />

lui descritta la spillano come si deve.<br />

[El tardato vascofilo (tutto il mondo è paese) è il mio blog in lingua<br />

spagnola cortesemente ospitato dal quotidiano basco on-line El Correo<br />

Digital. Tardato è il nuovo nomignolo coniato dagli spagnoli per noi del<br />

Belpaese: la sua origine risiede nella nostra frequente pessima dizione del<br />

participio passato del verbo tardar, ossia tardado – tardare, impiegare,<br />

metterci. Alzi la mano chi di voi, essendo alle prime armi con l’idioma<br />

della piel del toro, non ha mai pronunciato questa frase al cospetto di una<br />

Paqui, o Encarni, o Maruja, o Amaia: io ho tardato dos (o quince, o vai tu<br />

a sapere) hores.]<br />

Synchronicity è il titolo del quinto e ultimo album dei Police. Pubblicato<br />

nel 1983 all’inizio dell’estate, ci mandò tutti fuori di testa. Io, Alex e suo<br />

fratello Andrea non ascoltammo altra cosa per tre mesi buoni. Ad agosto<br />

partimmo per una vacanza sconclusionata, di quelle che soltanto a diciotto<br />

anni puoi farti, non smettendo mai di canterellare Every Breath You Take.<br />

La nostra meta originale doveva essere Senigallia, ma giunti là dopo soli<br />

tre giorni ci rompemmo le palle e ci risucammo l’Emilia Romagna in treno<br />

per andare a finire a… Diano Marina, laddove ci aspettava Pippo, il sosia<br />

torinese di Ric Ocasek dei Cars. Un viaggio allucinante. Faceva un caldo<br />

becco e delle modalità di trasmissione dell’AIDS non si sapeva ancora un<br />

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cacchio; così, quando una fricchettona popputa venne a chiederci un sorso<br />

d’acqua minerale noi glielo concedemmo, ma appena quella fu sparita in<br />

fondo al vagone sottoponemmo la bottiglia a un processo di sterilizzazione<br />

poco meno accurato di quello cui veniva sottoposta ogni persona in entrata<br />

a Wildfire, il laboratorio segreto sotterraneo nel Nevada che nel thriller<br />

tecnologico di Michael Crichton Andromeda veniva contaminato da un<br />

microrganismo extraterrestre portato sulla Terra da un satellite militare. A<br />

Diano piantammo le tende in un campeggio dove ora entrerei soltanto se<br />

mi staccassero un assegno da due milioni di euro ed entrammo una buona<br />

volta in clima vacanziero: sole, mare, birre, trombe, baccaglio di donzelle.<br />

Wrapped Around Your Finger, con le sue sonorità diafane, s’insediò al<br />

secondo posto nella mia personale classifica di preferenza delle canzoni di<br />

Synchronicity. Avvenne un cambiamento d’importanza fondamentale: da<br />

“cesso ambulante” fui promosso da una bella squinzia al rango di “strano”.<br />

Una mostrina che ancora oggi porto al bavero della giacca. Meccanica<br />

quantistica.<br />

Ai cinesi ci viene una malattia per ’sti scarafaggi. Naturale: entrambe le<br />

specie fanno parte del Tao, cosicché non possono esimersi dall’interagire.<br />

Che si possa tranquillamente fare a meno di codesta specifica interazione<br />

o che per puro distillato d’ignoranza si confonda l’influenza aviaria con la<br />

peste storpiandone l’acronimo in S.A.R.S.A., è un altro paio di maniche.<br />

Animali, piante, insetti, microrganismi, camicie non stirate, pozzi artesiani<br />

inariditi, pettini, rasoi, pennelli da barba, lozioni per capelli anteguerra,<br />

poltroncine girevoli, materassi Permaflex ed elettrodomestici vari gettati<br />

in una discarica dell’entroterra siciliano, libri spagnoli, bottiglie di vino<br />

rosso della Rioja, fusti di <strong>birra</strong> scura chiara rossa, luppolo orzo e camere<br />

mortuarie, siamo tutti immersi nell’immensa zuppa cosmica. Insieme nel<br />

tempo.<br />

Fino a questo momento ho interrogato I Ching cinque volte, tre delle quali<br />

per conto di una ragazza che è rimasta sorpresa dalla pressoché perfetta<br />

simmetria delle risposte con la sua vita corrente. Ecco l’ultima domanda in<br />

ordine di tempo:<br />

“Vi è una possibilità che io possa un giorno conoscere Francesca Mazzalai<br />

di persona, portarla a cena fuori e farla innamorare perdutamente di me?”<br />

Eh eh eh. La slanciata, disinvolta, semplicemente meravigliosa Francesca,<br />

nata a Trento il 27 marzo 1976, è attualmente conduttrice del programma<br />

Atlantide-Storie di Uomini e di Mondi su La7. Può anche darsi che cotanta<br />

102


spigliatezza nell’introdurci ad argomenti affascinanti quali la battaglia di<br />

Salamina e la Guerra Fredda sia merito di un prompter o di un auricolare<br />

induttivo, ma la dizione, perfetta, è una rigenerante boccata d’aria pura in<br />

uno schermo a cristalli liquidi contaminato di romanità, e la presenza, che<br />

ve lo dico a fare…<br />

Coi Sigur Rós in sottofondo, ho definito con chiarezza la domanda nella<br />

mia mente. L’ho scritta su un foglio di carta. Ho preso le monete, mi sono<br />

rilassato, ho respirato profondamente. Ho agitato le monete nella mano e<br />

le ho lanciate sulla scrivania. Con gesti misurati le ho ordinate in una<br />

colonna verticale e mi sono rivolto alla tabella riprodotta all’interno della<br />

copertina de I Ching per individuare il numero del mio esagramma.<br />

Esagramma 55. Pienezza, Raccolto, Abbondanza. Ogni cosa si svolge<br />

secondo i vostri desideri. E’ il vostro momento di gloria, l’opportunità di<br />

fare centro. Quest’occasione potrebbe non ripresentarsi. Siate decisi.<br />

Provocate gli eventi. Buttatevi.<br />

Linea 1 mobile. Incontrare il vostro compagno, bene per dieci giorni.<br />

Una persona importante vuole aiutarvi. Se usufruirete di questa generosità,<br />

considerate l’eventualità che possa volere qualcosa in cambio.<br />

Be’, carissima Francesca, se mi procurerai un impiego a La7 anche solo<br />

come uomo delle pulizie, io diverrò tuo schiavo per sempre!<br />

Va detto che, carpe diem, ho mandato senza indugio questa divinazione<br />

via posta elettronica alla medesima Mazzalai: sono ancora qui che attendo<br />

un riscontro. L’esistenza umana è tormento e desiderio. Lo yang è attivo:<br />

eccitato, fantasioso e deciso. Ma la donna è mobile.<br />

Eh? Ah, già. La <strong>birra</strong>.<br />

Potrei rivolgere una gragnola di domande a I Ching in merito alla nostra<br />

bevanda prediletta, ma faremmo notte e <strong>forse</strong> non è opportuno. Certi miei<br />

amici hanno un sacro terrore della negromanzia. Dopotutto Torino è nota<br />

in tutto il mondo come città magica: Fetonte, figlio di Iside, avrebbe scelto<br />

l’incrocio sacro tra i fiumi Dora e Po per erigere un centro di culto ad Api,<br />

il dio-toro. Una delle due statue esterne al tempio della Gran Madre di Dio<br />

indicherebbe il luogo dove riposa il Graal. Dagli alchimisti Paracelso e<br />

Fulcanelli al mitico Cagliostro, da Cesare Lombroso a Nostradamus, tutti<br />

scelsero di vivere a Torino. E non dimentichiamoci del Mago Gabriel. Ma<br />

I Ching non funziona come le sue strampalate previsioni “nell’antamento<br />

103


maggico o viceversa paranormale di questa supercittà Torino ovviamente<br />

piemontese”; è uno strumento straordinario e accessibile che ci consente di<br />

trovare nel nostro frastagliato territorio interiore quella fiducia necessaria<br />

per prendere una decisione e agire di conseguenza, per “attraversare il<br />

fiume”. Scorra in esso acqua di fonte o cervogia.<br />

E allora…<br />

Giovedì 16 dicembre 20**, h 10.30 a.m. “Quanti bicchieri di <strong>birra</strong> mi<br />

rimangono da bere su questa terra?”<br />

L’ultima domanda… entropia etilica.<br />

Stavolta metto su Every Picture Tells A Story, unanimemente considerato<br />

il più bel disco solista di Rod Stewart. Mi chiudo a doppia mandata nel<br />

mio studio. Scrivo in corsivo la domanda su un foglio di carta A4 preso<br />

dalla stampante. Prendo in mano le monete, cinque da 5 pesetas e una da<br />

10 franchi francesi. Le soppeso, respiro a fondo, distendo i nervi. Ron<br />

Wood entra nella canzone con la sua magica chitarra elettrica.<br />

Frullo le monete e le lancio sulla scrivania. Non mi è laborioso ordinarle<br />

nella canonica colonna verticale, grosso modo si sono posizionate già così.<br />

Vado a consultare la tabella per individuare l’esagramma corrispondente.<br />

Esagramma 21. Sforzo, determinazione, far funzionare le cose. I cinesi<br />

attribuiscono a questo esagramma il tema di una persona che aggredisce a<br />

morsi con grande determinazione un ostacolo. Le linee descrivono una<br />

persona che mastica qualità diverse di carne secca. Tradotto in termini<br />

concreti, è il momento di affrontare la situazione direttamente senza più<br />

evitarla.<br />

Linea 5 mobile. Mordete la carne secca pregiata, trovate l’oro, state<br />

attenti.<br />

La vostra azione risoluta vi ha procurato una ricompensa di valore. Se vi<br />

attaccherete troppo al premio sarà la vostra rovina. Un tempo si pensava<br />

che ingoiare l’oro potesse essere fatale.<br />

Devo confessarvi che l’esagramma 21 fotografa alla perfezione il mio qui<br />

e ora: gli sforzi erculei che sto compiendo per disincagliarmi dalle secche<br />

del disincanto. Quanto alla linea 5 mobile, credo si riferisca a un futuro<br />

prossimo in cui la mia pertinacia verrà premiata ma non dovrò tirarmela<br />

troppo per quello. Sicché, stimato oracolo, ho afferrato il concetto: “Berrai<br />

ancora molta <strong>birra</strong> nella tua vita, anzi da un certo momento in avanti potrai<br />

104


addirittura sguazzarci… ma non vanificare tutto il lavoro che hai fatto su e<br />

per te stesso perdendoti in fondo a un barile. Sia esso reale o metaforico.”<br />

Roger, Chin Chin.<br />

105


Figura 9. Wat Pa Maha Chedi Kaew.<br />

106


SCOPRENDO LESTER BANGS: UN TRIP ROCKALCOLICO.<br />

Ordunque… L’intenzione originale che mi aveva sospinto dentro quella<br />

sorta di sesquipedale scatola da calzature post-modernista chiamata Nuova<br />

Biblioteca Pubblica Ermenegildo Bernaulo era abbozzare una fantasia<br />

letteraria schiettamente rock’n’roll sul meraviglioso duo chitarristico degli<br />

Yardbirds Jimmy Page-Jeff Beck, qualcosa sul genere: “Che cosa sarebbe<br />

successo se i tre membri originali della band, cioè Keith Relf Chris Dreja e<br />

Jim McCarthy, non avessero licenziato il loro innovativo nonché psicotico<br />

chitarrista solista coi capelli tagliati a budino nell’ottobre del 1966 a Los<br />

Angeles, dandogli un’ultima chance di redenzione?”<br />

Be’, molto probabilmente il genio del raga-fuzztone avrebbe dato di testa<br />

un’altra volta ancora nel tempo di poche settimane, sicché i suoi esasperati<br />

colleghi l’avrebbero definitivamente mandato a fare là dove non batte il<br />

sole, ma nel mio cervello drogato di <strong>birra</strong> e vino rosso spagnolo e ginseng<br />

con molecole residue di MDMA (peccati di gioventù!) ancora rombanti fra<br />

un neurone a specchio e l’altro come bestie metalliche a due ruote montate<br />

da canuti e raggrinziti Hell’s Angels californiani si andava plasmando una<br />

linea temporale alternativa nella quale Jimmy e Jeff incidevano insieme<br />

una formidabile sequenza di platter straripanti gemiti chitarristici simili a<br />

sirene della polizia che avrebbero inondato ogni mio antro vitale, partendo<br />

dalla pubertà per arrivare alla cosiddetta età matura che così tanto disilluse<br />

Benjamin Disraeli-Gears, di stravaganti dissonanze e dinamiche sonorità.<br />

In quel differente piano di vibrazione molecolare, come si usava dire per<br />

iscritto molti decenni fa nel continuum di Gernsback, i Led Zeppelin non<br />

nascevano, o sarebbero nati più avanti, magari con Steve Marriott al<br />

microfono in luogo di Robert Riccioli D’Oro Plant. Immaginatevi Whole<br />

Lotta Love cantata con sguaiato accento cockney! Sì, le Harley Davidson<br />

biochimiche dei dissoluti Angeli Neurali dell’Inferno correvano ancora a<br />

tutto gas…<br />

…e le immani nubi grigio-verdastre vorticanti nel cielo pomeridiano di<br />

Nuova Augusta Taurinorum sembravano preludere alla devastante venuta<br />

dei Quattro Cavalieri dell’Apocalisse. Io flettei la schiena resa scattante da<br />

costanti e solitarie sessioni di pallamuro ed estrassi dalla sezione Cinema<br />

lo spesso blocco di memoria THE HAMMER OF GOD/Stephen Davis:<br />

ScaffHal non protestò. Poi andai a sedermi a un banco stranamente vuoto<br />

– questo posto è sempre pieno da far paura – nelle immediate vicinanze di<br />

107


due giovani studentesse dai capelli biondi platinati, entrambe in jeans a<br />

pinocchietto stracciati e jersey nerofumo a collo di cigno. Studiavano? Col<br />

cavolo, sguazzavano nel pettegolezzo accademico!<br />

Colei che mi dava le spalle, larghe e sottili come quelle di una nuotatrice<br />

provetta, ogni tanto interrompeva il suo bisbiglio sferzante per inferire una<br />

ditata proditoria alla tastiera di un notebook Aspire uguale al mio; l’altra,<br />

fornita di un assai meno tecnologico portablocco, possedeva un simpatico<br />

musetto da porcellina e un accattivante cobalt gaze. Immagina te e lei in<br />

un trendissimo cocktail lounge del centro città…<br />

Writer <strong>Maurizio</strong>: Conosci Jeff Beck?<br />

Piggy (inarcando un sopracciglio): Che diavolo è, una <strong>birra</strong> danese? Mai<br />

assaggiata finora.<br />

Ehm.<br />

Fuori, nel centro esatto di una piastrella del marciapiede in macadam che<br />

recingeva la biblioteca, un passerotto infliggeva guardinghe beccate a<br />

un’ape grassoccia le cui zampette lucide vibravano ancora, quantunque<br />

con debolezza; sicuro come il sole che l’industrioso insetto danzante era<br />

precipitato a terra disorientato dall’incipiente inquinamento da microonde<br />

e il volatile ne stava approfittando per sfamare una nidiata di bocche<br />

pipianti spalancate a rombo da qualche parte lassù, sui pioppi scorticati dai<br />

tossici in astinenza sparata. Con un sospiro imbevuto di dolore universale,<br />

attivai il blocco di carta interattiva e richiamai la pag. 26.<br />

Nel 1966 James Patrick Page si esibiva con una Telecaster del 1958 (un<br />

regalo della Birra Danese Coi Capelli a Budino di Malto) dipinta a spirali<br />

psichedeliche fosforescenti ricoperte di perspex che, colpito dalle luci<br />

della ribalta, rifletteva raggi a arcobaleno. Musicalmente gli Yardbirds<br />

erano al loro massimo, ma purtroppo Jeff Beck era di salute (fisica e<br />

psichica) piuttosto cagionevole; oltre a questo, gradualmente emerse la<br />

competizione fra le due primedonne. Quando gli effetti stereo e le duplici<br />

armonie delle chitarre non funzionavano, gli altri incolpavano l’instabile<br />

solista. “Tutto andava bene in teoria e durante le prove ma sul palco Jeff<br />

spesso voleva spaziare in qualcos’altro”, dichiarerà serafico Jimmy Page<br />

qualche anno dopo in un’intervista. Hai capito il magrone? Lui cercava di<br />

far funzionare le cose!<br />

Piggy: Ah, è un chitarrista! Ma di quanti secoli fa?<br />

108


Writer (vorrebbe morire d’infarto lì, in quello stesso istante): Era il<br />

musico personale di Enrico VIII.<br />

Cristiddio. Ragazzo, dammi un’altra Menabrea ambrata, per pietà.<br />

Jeff Beck deflagrò al terzo giorno di tour statunitense con la Carovana<br />

delle star di Dick Clark, una locura tipica degli anni Sessanta. Sbatté giù<br />

la sua colonna di amplificatori, sfasciò la chitarra e se ne scappò a Dead<br />

Loss Angeles dalla sua diletta Mary Hughes. Quando gli altri Yardbirds lo<br />

raggiunsero, Beck fece ammenda, ma la troika Relf-Dreja-McCarthy non<br />

volle sentir ragioni e lo licenziò. Beck si alzò per andarsene e chiese a<br />

Page se fosse intenzionato a seguirlo, ma Page gli rispose che sarebbe<br />

restato. In tal modo, seguendo un canovaccio tipicamente dostoevskyano,<br />

gli Yardbirds divennero il gruppo di Jimmy Page. Amen.<br />

L’uccellino delpieresco si era finalmente portato al nido l’ape moribonda.<br />

Piggy scoprì di nuovo il candore all’ossigeno attivo dei suoi denti: non era<br />

propriamente bella, direi piuttosto stuzzicante, come una tartina al paté<br />

d’olive sul bancone di una vineria del centro città per studenti universitari<br />

tiratardi. Pictures of Piggy made me feel so wonderful. Grufola, piccina<br />

mia, grufola.<br />

Uno dei centauri neurali frenò arrestandosi sul ciglio dell’accidentato e<br />

polveroso assone che conduceva alle Grandi Piane Pituitarie, tirò fuori un<br />

pacchetto stropicciato e sudaticcio di Lucky Strike da una tasca del suo<br />

giubbotto per la pelle, se ne accese una, sputò una nuvola di puro cancro<br />

da vero figaccione vissuto e disse: “Be Here Now.”<br />

“Oddio. Da quando in qua a voialtri piacciono gli Oasis?”, replicai con<br />

una smorfia di scherno.<br />

“Diamine, <strong>Maurizio</strong>, te la spacci da gran letterato ma sei più ignorante di<br />

una capra con la demenza senile! Be Here Now è il titolo di un libro di<br />

Richard Alpert, il partner lisergico di Timothy Leary. Significa…”<br />

“So perfettamente che cosa significa, scampolo di ferraglia metastatica! Il<br />

vecchio insegnamento vedico riciclato in salsa allucinogena. Soffermarsi<br />

sul passato o sul futuro significa essere morti nel presente. Non è roba un<br />

po’ troppo hippie per te? Che ne direbbe Sonny?” Il 16 ottobre 1965, gli<br />

Hell’s Angels di Sonny Barger attaccarono i diecimila dimostranti che<br />

marciavano da Berkeley a Oakland contro la guerra del Vietnam al grido<br />

di «traditori», «beatnik», e «comunisti»: così per caso, c’era un cugino<br />

californiano di Silvio Berlusconi a smarmittare con loro?<br />

109


Quella ciminiera propilaminica mi guardò torvo. “Ehi, lascia stare Sonny.<br />

Piuttosto, gli Oasis non sono un po’ troppo lagna-lagna per un fanatico dei<br />

grandi chitarristi beat inglesi come te?”<br />

“I giornali dicono che siamo i più grandi, ma io me ne frego… Io vivo<br />

adesso, now, e non importa se il prossimo anno non vendiamo un disco.”<br />

Noel Gallagher, Souhampton, 1994. Sicché, minchione americano, turn<br />

on, tune in, and please bugger off!<br />

L’Uomo dell’Organetto di Barberia arrivò da Donovan County alle prime<br />

gocce di pioggia. “Poiché Jeff Beck non poteva cantare e stentava così<br />

tanto a adattarsi a un gruppo”, canterellò lo straccione scarmigliato sulla<br />

punta del mio naso alla Jean-Paul Belmondo “Mickey Most gli organizzò<br />

una seduta di registrazione ancor prima della sua dipartita dagli Yardbirds.<br />

Ovviamente si trattava di un solo brano, poiché quel testa di minchia di<br />

produttore notoriamente riteneva che gli ellepì non avessero importanza,<br />

che fossero qualcosa da buttar fuori dopo il singolo.”<br />

Reso strabico dalla sua garrula presenza, crollai il capo. “Sì, l’idea era di<br />

registrare una mutazione per chitarra psichedelica del Bolero di Ravel. Ce<br />

l’avevo in una vecchia compilation su nastro della Fratelli Fabbri Editori<br />

ma quel fottutissimo registratore giap me l’ha fagocitato il mese scorso<br />

come un’ameba bulimica. Jimmy Page era l’arrangiatore e suonava la<br />

chitarra ritmica a 12 corde, al pianoforte c’era Nicky Hopkins, e la sezione<br />

ritmica fu composta da Keith Moon e John Paul Jones dopo che John<br />

Entwistle si era tirato indietro all’ultimo momento. Moon the Loon se la<br />

svignò dagli IBC studios travestito da cosacco beat perché per contratto<br />

non poteva registrare con nessuno all’infuori degli Who.” Beck’s Bolero<br />

venne fuori talmente bene che Moon, Jones, Page e Beck presero in seria<br />

considerazione l’idea di fondare un gruppo: ciò nonostante, avevano<br />

bisogno di un cantante.<br />

Il pene-sitar dell’Uomo emise una dolente onda sonora. “Già, già. Furono<br />

contattati Steve Winwood e Steve Marriott degli Small Faces, ma il primo<br />

scelse di fondare i Traffic e il manager del secondo addirittura minacciò<br />

Jimmy Page di rompergli tutt’e dieci le dita. Ciò che avrebbe potuto essere<br />

il prototipo dei Led Zeppelin non prese mai il volo.”<br />

Molto soddisfatto di sé, l’Uomo dell’Organetto decollò dal mio aeroporto<br />

maxillo-facciale per andare a scomparire nel fresco décolleté di Piggy con<br />

un effettaccio da cinema di serie Z. Per un lungo istante lo invidiai. Ora<br />

pioveva della grossa, un temporale tardo-primaverile coi controcazzi.<br />

110


Oh Piggy, Piggy, Piggy!!! She’s a big teaser: lei è una vera scocciatrice.<br />

She’s a prick teaser: è una stuzzicacazzi a tradimento. La parola “hippie”<br />

non fu coniata prima del 1966. La consapevolezza di sé come entità<br />

distinta si dissolve in ciò che Herr Jung definì “coscienza oceanica”: il<br />

senso che tutte le cose siano una cosa sola, e la coscienza consapevole<br />

individuale sia un’illusione.<br />

Se è così, perché accidentaccio sto perdendo tempo a trovare un incipit<br />

incident per la mia futile storiella ucronica? Nel primo rincalzo dei mondi<br />

possibili Page Beck Marriott Moon e Jones durerebbero al massimo fino al<br />

festival pop di Monterey; una bella scazzottata fra Steven M e Moon the<br />

Loon per qualche motivo britannico del kaiser (per esempio, l’essere nati e<br />

cresciuti in zone opposte di Londra) e ciao ciao ai New Yardbirds o Lead<br />

Zeppelin o come vuoi tu, bellezza. Oppure tirerebbero avanti per tutto il<br />

1967 e parte del 1968 proprio come in questo mondo, ma smerciandoci lo<br />

stesso quella porcheria di Little Games, magari parzialmente riscattato da<br />

qualche bell’intreccio chitarristico. O… bah, che montarozzo di stronzate.<br />

Il prototipo farraginoso del mio universo parallelo rockistico si dissolse in<br />

una patetica nuvoletta di elettroni neurali. Forse era meglio mollare tutto e<br />

andare a spararsi un’ipercinetica sessione di pelota, laggiù in fondo contro<br />

il Murale di Einstein…<br />

Pues no. Rimisi al suo posto Il Martello di Dio Zepp e liberai un blocco<br />

adiacente, di assai più ridotte dimensioni: GUIDA RAGIONEVOLE AL<br />

FRASTUONO PIÙ ATROCE/Lester Bangs. ScaffHal sempre silenzioso<br />

come un merluzzo cibernetico in orbita intorno a Giapeto. Piove, piove,<br />

grattati un coglione. Piggy mi omaggiò di una lumata presagante fantastici<br />

pompini fattimi ginocchioni davanti a uno specchio a tutta persona nella<br />

semioscurità del primo mattino augusto, ma era troppo tardi ormai: Leslie<br />

Conway Bangs detto “Lester” (1948-1982), il critico rock più squinternato<br />

e influente di tutti i tempi possibili, mi aveva sequestrato premendomi sul<br />

volto una pezzuola imbevuta di rockoformio. “Aiutoahmmm… Mmmnster<br />

Mmmgnet… mmmm… mmm... m.”<br />

Figlio di troia.<br />

A essere sinceri sono tanto alienato e schifato da chiedermi se davvero voglio<br />

fare qualcosa nei prossimi anni. Vedi, la questione è: sta diventando tutto come la<br />

rivista People. Tutta la radio, tutta la stampa, tutto quanto sta diventando così,<br />

anche l’industria editoriale. Ieri parlavo col mio agente e gli ho chiesto: “Pensi<br />

111


che di questo passo l’unica cosa vendibile sarà la biografia-marchetta di una<br />

celebrità?”, e lui mi ha risposto: “Non lo so.” Capisci, io me ne sto qui e mi<br />

chiedo se, come scrittore, non sarebbe meglio lasciar perdere tutta questa roba.<br />

Non mi metto certo a fare sviolinate strappalacrime perché, come ho detto prima,<br />

so che mi è andata bene, non devo alzarmi la mattina e andare a lavorare in<br />

fabbrica dalle nove alle cinque o qualcosa del genere. E ho delle entrature, e tante<br />

altre cose, quindi non dovrei far pena a nessuno. Ma allo stesso tempo, tutti quelli<br />

che conosco sono completamente alienati, scoglionati, nauseati da tutto, e so che<br />

gran parte di quelli che lavorano nei media e ci propinano questa roba sono<br />

alienati come lo è il pubblico. Il pubblico compra solamente perché non gli viene<br />

offerto qualcos’altro. E, personalmente, mi chiedo quand’è che la gente<br />

comincerà a dire: “NO! MI RIFIUTO, NON NE VOGLIO PIÙ!”<br />

Lester Bangs, intervista a News Blimp, 1980… 2007? 2070?<br />

Anche John Lennon è morto nel 1982…. O <strong>forse</strong> nel 2082… Hombre,<br />

no… nel 1980!<br />

Che diamine, ora ero completamente sveglio, neanche sgarrupato per la<br />

narcosi. E… be’, stavo galleggiando in assenza di peso sopra un quadro di<br />

navigazione che rassomigliava in modo allarmante a una pizza ai frutti di<br />

mare preparata da un pizzaiolo lituano strafatto di mescalina. Il modulo di<br />

Lester Bangs, con la sua copertina-mandala rosazzurrobianca, mi orbitava<br />

intorno indolentemente. Potevo essere a 2000 anni luce lontano da <strong>casa</strong><br />

come a duemila milioni, satellite di un satellite o viscida bilharzia di un<br />

buco nero, alla fine ciò che conta non è la scorta d’ossigeno puro o i<br />

tubetti di dieta mediterranea da spremersi in bocca, bensì sentirsi a proprio<br />

agio con le proprie scoregge.<br />

Parlez-vous français? Un peu, replicavo ai gendarmi le prime volte che mi<br />

fermavano ai caselli delle autostrade galliche di ritorno dalla penisola<br />

iberica: il che per costoro significava no, non ci capisco una beata mazza.<br />

Allora, esprimendosi qualche volta in un avvilente gramelot anglo-francoitaliano,<br />

i falchi della notte passavano a rovistarmi il borsone da viaggio e<br />

il vano portabagagli, o perfino a smembrarmi la vettura come seguendone<br />

la distinta base secondo la disposizione d’animo del momento, solitamente<br />

negativista perché, è naturale, les italiens son tout dopé. In seguito avevo<br />

imparato a dire je comprends quelques mots mais je ne le parle pas, lo<br />

capisco un po’ ma non lo parlo, oltre a qualche altra tiritera da biascicare<br />

negli autogrill o nella scalognatissima eventualità che fossi finito in panne.<br />

Ciononostante il risultato era sempre il medesimo: facce da Clouseau e<br />

112


occhettoni dell’aria divelti da mani rubate ai campi di tuberose. L’ultima<br />

volta che mi hanno bloccato, due estati fa sulla Languedocienne, mi sono<br />

giocato addirittura l’untuosa carta dell’adulazione: je voudrais apprendre<br />

votre splendide langue. E quelli per tutta risposta, con un riso beffardo<br />

sulle labbra rinsecchite dalla mostarda di Digione, mi hanno smontato<br />

pure il serbatoio della benzina. Bâtards.<br />

Ma di che vado blaterando? Che mi avete somministrato mentre dormivo?<br />

Synthemesc neutronico?<br />

Sample da 2001: Odissea nello Spazio, il libro in edizione tascabile,<br />

Longanesi & C. © 1972, Lire 450, pag. 241: «Ma questo è ridicolo, pensò<br />

David Bowman. Mi sorvegliano quasi certamente, e devo sembrare un<br />

idiota con questa tuta spaziale (per quanto mi concerne, con questi panni<br />

sgualciti da ultraquarantenne giovanilista). Se si tratta di una sorta di test<br />

dell’intelligenza, probabilmente ho già fatto fiasco.»<br />

Cristiddio!, diamoci da fare, allora. Mimiamo il cavaliere errante quantico.<br />

Leggiamo un po’ cosa Lester Gang Bang aveva da dire e stendiamo dei<br />

paralleli fra lui e te su questa sostanza lievemente increspata e biancastra<br />

che senza dubbio non è carta, anche se le somiglia moltissimo. Ma gli<br />

alieni sognano pioppi elettrici? Chi si sbatte Rachel Rosen adesso? Correte<br />

qui, nipotini biondissimi…<br />

Lester e i Count Five. Come c’era da aspettarsi, si parte dagli Yardbirds,<br />

vera Urmutter del rock metallico, e dall’incisione del loro singolo I’m A<br />

Man, una maionese impazzita di Bo Diddley, feedback e corde raschiate in<br />

maniera criminale. Il successo di questa canzone fu enorme. E seminale.<br />

Negli Stati Uniti, centinaia di ragazzini si affrettarono a plagiarne il sound<br />

trascinante con l’ausilio di quelle nuove scatolette elettroniche giapponesi<br />

che stravolgevano il suono della chitarra in un frastuono simil-motoristico.<br />

Lester guardava a quelle band di giovani sballati dei college con un misto<br />

d’ironia e incanto, finendo per innamorarsi perdutamente dei Count Five,<br />

“una combriccola di marmocchi che pestavano sulle chitarre e venivano da<br />

una qualche irrilevante provincia della California”, e della loro personale<br />

rilettura di I’m A Man: Psychotic Reaction.<br />

Psychotic Reaction inizia con un fuzz riff recisamente amatoriale ancorché<br />

più appiccicaticcio della resina che d’estate cola subdolamente dai pini giù<br />

sulla carrozzeria della vostra utilitaria corrodendola, lanciandosi poi in un<br />

testo la cui profondità fa sembrare Eros Ramazzotti un epigono del miglior<br />

Lou Reed: “Mi sento depresso, mi sento male / Perché tu sei la ragazza<br />

113


migliore che abbia avuto / Non riesco ad avere il tuo amore, non riesco ad<br />

avere affetto / Oh, quella ragazzina è una reazione psicotica.” Dopodiché, i<br />

Five partono in quarta con l’imitazione/clonazione di I’m A Man, con<br />

l’unica variante di un effetto di phasing innestato sulle grattate similbeckiane.<br />

Woosh-sgratch-sgratch-sgratch-woosh.<br />

Lester ammette che sulle prime odiò questa canzone, ma poi un giorno la<br />

misero alla radio mentre lui scorrazzava in macchina, stravolto come una<br />

mina anticarro, e cominciò a tirarsi sberle sulla testa: “Ma che cazzo mi<br />

ero messo in testa? Quella canzone era fantastica!” Scrive che il disco<br />

aveva una copertina galattica – la fotografia era stata scattata sull’orlo di<br />

una tomba, e i membri del gruppo stavano in piedi sull’orlo, guardando in<br />

basso con occhi sporgenti e malevoli verso gli acquirenti, idealmente in<br />

procinto di essere inumati. Ci recensisce le canzoni del loro primo e unico<br />

LP, comprato nello stesso giorno in cui acquistò Happy Jack degli Who:<br />

“Lo ascoltai spesso, gongolando, per un anno circa, finché dei biker non<br />

me lo trafugarono (accidenti a te, leccapistoni d’un Sonny!), e quando<br />

finalmente lo ritrovai nel 1971 in un negozio di dischi usati, ragazzi, mi<br />

misi a ballare per la gioia. Il tempo non aveva attenuato la grandezza del<br />

disco dei Count Five. Anzi, non l’ha attenuata nemmeno oggi. Suona<br />

ancora sporco e sgangherato come nel 1967.”<br />

Me, me stesso e io. Considera tutti i critici d’arte come inutili e dannosi…<br />

tranne la splendida eccezione che conferma la regola, chiaro. Ho comprato<br />

Nuggets Volume One: The Hits in un pomeriggio adolescenziale di bassa<br />

marea serotoninica, essendo stato incoraggiato all’acquisto dall’ascolto<br />

proprio della splendida canzone in questione a un programma radiofonico<br />

genuinamente rockettaro di Radio Torino Popolare intitolato Provocazioni<br />

e contaminazioni rock.<br />

Per il colto e l’inclita, la suddetta compilation comprende svariati altri<br />

brani killer con lampanti ascendenze Yardbirds, quali Talk Talk dei Music<br />

Machine (cantato nevrastenico, organo tragico e duplice brevissimo assolo<br />

di distorsore che minaccia di frantumarsi in globuli di suono, wow!) e<br />

l’ariosa Open My Eyes dei Nazz, nei quali militava un giovanissimo Todd<br />

Rundgren; c’è altresì I Had Too Much To Dream Last Night degli Electric<br />

Prunes, un safari psichedelico rinnovato in epoca punk da Wayne County<br />

& The Electric Chairs; e A Question Of Temperature dei Balloon Farm, un<br />

brano che più 1967 non si può – gustosissima pozione druidica di fuzz,<br />

feedback, vocals trasognati, theremin deliranti, organo e parti ritmiche da<br />

114


film psichedelico di terz’ordine. Nel 1982 i Lords Of The New Church di<br />

Stiv Bators ne registrarono una versione strabiliante per il loro omonimo<br />

album d’esordio (che adoro), benché con un sound quintessenzialmente<br />

anni Ottanta.<br />

Ciononostante c’è qualcosa che non mi torna. I più quotati annali del rock<br />

sostengono che la prima canzone rock con l’effetto phasing a entrare nella<br />

classifica di Billboard fu Itchycoo Park degli Small Faces. Ma Psychotic<br />

Reaction lo anticipa di una bella sporta di mesi! Come diavolo è questo<br />

fatto? I garage rockers non sono ritenuti meritevoli di essere menzionati<br />

nelle cronache elitarie della musica popolare? I Count Five non furono<br />

sufficientemente “alti”? Andiamo!<br />

Come dite? Devo esprimere una preferenza? Be’, Psychotic Reactions è<br />

realmente micidiale, ma io preferisco A Question Of Temperature, poiché<br />

meno epigonica. E comunque nessuna delle due vale un’oncia di Happy<br />

Jack, anche se Lester Bangs la mise sul piatto del suo giradischi non più di<br />

cinque volte. Gli Who sono gli Who, cari i miei Oscuri Scrutatori.<br />

Lester e gli Stooges. Qui il ragionamento si fa più complesso e polemico.<br />

Lester stigmatizza la cecità ignorante del pubblico hippy, che tratta la band<br />

di Iggy Stooge (al secolo, James Jewel Osterberg) col disprezzo dovuto<br />

all’ennesimo gruppo di volume freaks la cui trovata pubblicitaria, cioè un<br />

front-man pelle e ossa che si scortica il petto disgustosamente spalmato di<br />

burro d’arachidi sbattendosi il microfono sulle mascelle e rantolando testi<br />

esplicitamente nichilisti e antisociali, non basta a farli arrivare all’altezza<br />

di mostri sacri superventas come i Grand Funk Railroad, loro sì un gruppo<br />

al passo coi tempi selvaggi che corrono, capaci di riunire torme di giovani<br />

sballati capelluti sotto il palco in una baraccata simil-politicizzata, Tutti<br />

Insieme Appassionatamente Spaccando Tutto Fumando e Fottendo per il<br />

Movimento, figli di madre ignota! Chi ha bisogno di un gruppo che canta<br />

canzoni che parlano di occhi televisivi, del fatto che uno si sente come<br />

mondezza e che non si diverte proprio per un cazzo a stare da solo? Chi<br />

può idolatrare un adolescente mezzo irlandese mezzo svedese arrapato e<br />

antisociale del Middle West?<br />

Più gente di quanto pensi, cocco di mamma dei fiori.<br />

“Perché c’è molta aria malsana in giro, e dobbiamo spazzare via le banali<br />

tenebre dell’ignoranza e dell’incomprensione se vogliamo che le vere<br />

tenebre degli Stooges risaltino splendenti con tutti i loro prismi caotici,<br />

115


proprio come gli specchi delle case stregate che sono fatti apposta per<br />

confonderti.”<br />

Per Lester, Iggy Stooge è un idiota completo, sul palco e su vinile, ed è<br />

proprio questo uno degli aspetti fondamentali del suo mirabile genio. Iggy<br />

è l’antidoto all’epidemia di supermusicisti altezzosi che sta infettando la<br />

purezza della fonte del rock’n’roll. La “musica” volutamente monotona e<br />

semplicistica degli Stooges, questo caos analfabeta che prende forma per<br />

gradi e diventa uno stile totalmente personale, il giro di chitarra sudicia di<br />

due accordi, ripetuto macchinalmente, per tutta 1969, con rime di<br />

incantevole demenza, “compio ventidue anni tra poco / dico perbacco,<br />

buhu”, ci salveranno dal Nuovo Conformismo dei Piedi Scalzi e Neri di<br />

Sudiciume.<br />

Me, me stesso e io. Diversamente da Lester Bang Bang, non ho mai<br />

considerato Starship degli MC5 un fiasco imbarazzante, anche se mi ci è<br />

voluto un centinaio e passa di ascolti per apprezzarne appieno le nervature<br />

interstellari. E la prima volta che ho ascoltato Fun House degli Stooges,<br />

quand’ero ancora rospa o topo o missile che dirsivoglia per merito di una<br />

testa acidissima dell’hinterland meneghino che ascoltava anche i Joy<br />

Division i Bauhaus e le New York Dolls, sono venuto nei pantaloni kaki.<br />

È uno stupefacente crescendo d’intensità che si apre con Down In The<br />

Street (“Per la strada, dove i visi brillano… vedi una tipa carina / non c’è<br />

nessun muro!”), un riff circolare al plutonio straziato dalle urla lascive<br />

dell’Iguana. Neanche il tempo di riprendersi e sei già invischiato nella<br />

partouze ringhiante di Loose. Ron Asheton parte in distortissimo assolo<br />

suonando pressoché la stessa scala del pezzo precedente ma va benissimo<br />

così, chiamasi coerenza artistica. Poi arriva T.V. Eye, il capolavoro<br />

dell’album: “Guarda quel vitello / Sdraiato / Guarda quella ragazza /<br />

Sdraiata / Mi guarda con occhi da tivù…” La musica è un bordone<br />

sferragliante che ti prende subito per le palle e continua a crescere fino a<br />

che si raggiunge il vertice della tensione, ma non è ancora il momento di<br />

eiaculare… Lancinante schitarrata di chiusura di Ron Asheton, attimo di<br />

silenzio vinilico, rullata indolente di tamburi del fratello Scott ed ecco a<br />

voi Dirt, l’anticlimax alcaloide.<br />

La seconda facciata del disco è un altro esercizio d’eccitabilità, ma grazie<br />

al sassofonista Steve Mackay il suono è più stratificato, lambendo il free<br />

jazz di Coltrane seppure col contrappunto di una chitarra primordiale e<br />

assordante. 1970 è un brano influente in più di un senso: Deniz Tek, un<br />

116


giovane medico militare amico di Ron Asheton, ne prese a prestito una<br />

lirica per battezzare il suo gruppo di scatenati teppisti sonori australiani:<br />

Radio Birdman, up above. Fun House è un sexy-loquio funkeggiante e<br />

monotono, <strong>forse</strong> il pezzo dell’album che mi sconfinfera di meno, ma le<br />

liriche sono stupende: “Tutte le bambine sanno / cosa voglio dire / Vivere<br />

sul confine, nelle / sabbie mobili / Vi chiamo dalla <strong>casa</strong> stregata…”<br />

Infine, L.A. Blues. Orgasmo. Satori. Suonare la chitarra come Jackson<br />

Pollock. Esperimento Concettuale alla Yoko Ono. Marciume Sonoro.<br />

Feedback dei Feedback. Tutto ciò che volete. Una sera Lester si strafece di<br />

fenciclidina, lo riascoltò e gli parve un’immensa rete di carrucole dorate<br />

che si sollevavano nel cielo infinito. Per me potrebbe essere la perfetta<br />

rappresentazione in musica (sic) di quel che si prova quando si supera la<br />

velocità della luce. David Bowman proto-punk.<br />

Ora posso avere una <strong>birra</strong>? Magari una Pilsner?<br />

Lester e i Led Zeppelin. “Verso il 1973, un gruppo di damerini emaciati<br />

di nome Led Zeppelin tenne il suo ultimo concerto, durante il quale il<br />

chitarrista solista fu assassinato con una pistola rudimentale da un fan<br />

inferocito strafatto di stricnina, dopo soli cinquantotto minuti del suo<br />

virtuosistico assolo di due ore e mezzo su un’unica fottuta nota di basso.<br />

Dopodiché il pubblico catturò il cantante (talmente fatto di stramonio,<br />

comunque, che ormai riusciva solo a rigurgitare testi del tipo “Glip glip<br />

gag jargaruna fizzolfuck”) e gli tagliò tutti i riccioloni biondi e gli calpestò<br />

l’armonica, gli diede un cambio d’abito per mettersi in borghese (credo si<br />

trattasse di una versione per taglie forti dei Bodyjeans Lifetime Chainmail)<br />

e lo cacciò via. L’ultima volta che abbiamo sentito parlare di lui, pare che<br />

stesse cercando di cantare Whole Lotta Love a un mucchio di vecchi<br />

cannati sentimentali in un paesino dimenticato da Dio. Stucchevole da<br />

morire, direi.”<br />

Me, me stesso e io. Datemi pure del qualunquista, ma quand’ero un<br />

pivellino potevo saltabeccare tra Led Zeppelin, Stranglers, Police, Van<br />

Halen, Rolling Stones, Cheap Trick, Missing Persons, Who, Faces e Def<br />

Leppard senza essere afflitto dal benché minimo rimorso di coscienza. Del<br />

Dirigibile Bombato io apprezzavo (e continuo ad apprezzare) soprattutto<br />

Good Times, Bad Times, Comunication Breakdown, Ramble On, Living<br />

Loving Maid, Celebration Day, Tangerine, The Rover, Houses Of The<br />

Holy. Tutti brani abbastanza stringati, direi classicamente rock. I più<br />

117


lunghi e bombastici, tipo per l’appunto Whole Lotta Love, How Many<br />

More Times, Kashmir e In My Time Of Dying, mi mandavano in paranoia.<br />

Un giorno mi feci registrare su due nastri comprati al supermercato il livefilm<br />

autocelebrativo The Song Remains The Same, ma non durò più di<br />

quattro mesi: in pratica, ne ascoltavo a ripetizione solamente la title-track,<br />

indubitabilmente una splendida cavalcata elettrica. Però i venticinque<br />

minuti di Dazed & Confused, eh no, quello era davvero troppo; ruotava<br />

finanche il filmato in una tivù libera, ma a un certo punto le sviolinate<br />

megalomani di Jimmy Page venivano provvidenzialmente interrotte dallo<br />

scenario interamente bianco e le pennate impertinenti di Smash It Up dei<br />

Damned, una stravolgente sventagliata di novità.<br />

Ecco che divago ancora. Nel Guantanamo di Torino Nord, prima di essere<br />

trasferito all’ente Strategy & Development, ex Advertising & Promotion<br />

ex Pubblicità & Immagine, il sottoscritto aveva prestato servizio per un<br />

biennio alle Nuove Tecnologie, sotto un “sesto quadro” calabrese che, pur<br />

pagato lautamente, perseverava a guidare una tossicchiante Bianchina e<br />

consumare i pasti nel baracchino: pressoché negato per le lingue straniere,<br />

per tacere sull’italiano. Una volta, indimenticabile, aveva risposto così alla<br />

nazistoide segretaria di un fornitore tedesco: “No, ehm…, Mr. Mayer is not<br />

in ufficio. Is andato end a riunion.” E io a ridere sotto la scrivania come<br />

un matto felice. Ma allo S & D le cose non andavano poi così meglio.<br />

C’era chi comunicava in anglo-piemontese (“We arrive a London a un bot<br />

e mes”) e chi in italo-spagnolo (“Mucho bene, ci vedemos manana al<br />

aeropuorto”). Chiamasi meticciato aziendale. Il mio nuovo capufficio era<br />

una trottola dinoccolata con la faccia da lontra marina. Il suo fottuto<br />

telefono suonava quaranta volte al giorno ma quasi mai lui stava in ufficio,<br />

pertanto la stragrande maggioranza delle volte toccava a me sollevare la<br />

dannatissima cornetta: in pratica, fungevo pure da segretario. Buona parte<br />

delle chiamate proveniva dalla Francia e dal Québec, la belle province:<br />

uguale, anglofobia a palate. Di conseguenza, a <strong>casa</strong> mia come nei tempi<br />

morti aziendali, io cercavo di apprendere quanto più francese possibile.<br />

«Pour le lancement de ce produit sur notre marché il faudra une intense<br />

campagne pubblicitarie. Dans ce but pourriez-vous me procurer du<br />

matériel de propagande?» Sì. E tu puoi procurarmi un appuntamento con<br />

Emmanuelle Béart, grand-père? Fiche-moi la paix!”<br />

Eh sì. Davvero stucchevole il Dirigibile 1973. Gradirei sapere da Voi<br />

come sto andando. E… vi siete esentati finalmente dalla tirannia della<br />

materia?<br />

118


Lester, Metal Machine Music e Kiss Alive!. Punto 14 della Disamina<br />

Lesteriana in 17 punti di Metal Machine Music, doppio disco rumoristico<br />

di Lou Reed: “Quando io e Lisa Robinson siamo stati invitati in Uganda<br />

per intervistare il presidente Idi Amin Dada, per futuri articoli in copertina<br />

su Creem e Hit Parader, gliel’ho fatto ascoltare e a lui è piaciuto un sacco.<br />

Gliene ho regalata una copia e ora lui, con un editto speciale, lo fa<br />

trasmettere dai diffusori di musica di sottofondo in tutti i supermercati<br />

(tutti e trentacinque) e le sale d’aspetto dei medici (tutte e otto) del suo<br />

fantastico paese, in modo che i cittadini possano ricevere ispirazione per<br />

spingersi a vette di patriottismo ancora più alte nei riguardi del suo regime<br />

e di tutto ciò che esso rappresenta.”<br />

Punto 15. “MMM è l’anima di Lou. Se c’è qualcosa che vorrebbe vedere<br />

sepolto in una capsula del tempo, è proprio quello.”<br />

Punto 16: “Quando sono fatto di Romilar è meglio di qualsiasi altro disco<br />

io abbia mai ascoltato.”<br />

Punto 17: “È il disco più fantastico mai realizzato nella storia del timpano<br />

umano. Al secondo posto: Kiss Alive!”<br />

Me, me stesso e io. Il Romilar, o destrometorfano bromidrato, è un<br />

espettorante e sedativo broncopolmonare, prodotto in compresse dalla<br />

Roche, non più in commercio. Negli anni Settanta veniva usato e abusato<br />

come sostitutivo cheap della morfina. Richiedendo dosi piuttosto massicce<br />

per raggiungere l’effetto sballo, solitamente percezioni illusorie e frenesie<br />

sessuali, provoca enormi danni all’organismo, sicché oggigiorno è caduto<br />

in disuso. Lester ci ha lasciato a New York il 30 aprile 1982 per la fatale<br />

interazione di due farmaci, Darvon e Valium, con cui stava curando un<br />

banale raffreddore.<br />

Ho ascoltato Metal Machine Music solo una volta, a <strong>casa</strong> di un amico.<br />

Cinquanta minuti di detriti sonori; francamente, non mi fece venire alcuna<br />

voglia di comprarlo, anzi ricordo bene che commentai sprezzante: “Questa<br />

è merda per eroinomani allo stato puro!” Però qualche anno dopo, molto<br />

più avvezzo a frastuoni atonali e lancinanti retroazioni sonore grazie a<br />

Starship, L.A. Blues, Radio Ethiopia/Abissinia e 30 Seconds Over Tokyo<br />

dei Pere Ubu, ascoltai un altro album doppio di intrecci sonori magmatici,<br />

Daydream Nation dei Sonic Youth, e ne rimasi elettrizzato. «Hyperstation<br />

e` una jam free form capace di creare, con la sua ingarbugliata trama in<br />

119


crescendo, con le punteggiature metalliche delle chitarre e la pulsazione<br />

frenetica di piatti e tamburelli, quel clima di terrore e d’estasi che incrocia<br />

il degrado psichico di un eroinomane con una soundtrack iper-realista.»<br />

Oh yes. Ciononostante non so se comprerò mai Metal Machine Music.<br />

Kiss Alive!… Ostia, che cocente delusione provai quando venni a sapere<br />

che quest’epocale doppio disco dal vivo, tonante colonna sonora della mia<br />

adolescenza problematica e onanista, era stato largamente ritoccato in<br />

studio! È urgente delucidare questa scabrosa faccenda.<br />

2001. Nella sua vendutissima e acclamata autobiografia Kiss and Make-<br />

Up, Gene Simmons scrive: “Sono sempre corse voci che Alive! sia stato<br />

abbondantemente rimaneggiato in studio. Non è vero. Ritoccammo le parti<br />

vocali e sistemammo qualche assolo di chitarra, ma non avevamo né il<br />

tempo né il denaro per modificare completamente le incisioni. Ciò che<br />

volevamo, e che ottenemmo, fu la testimonianza della forza grezza e della<br />

potenza della band.”<br />

(Ouverture dello stesso libro, pag. 4: “In ogni caso, ecco la verità, tutta la<br />

verità, nient’altro che la verità, e che Dio mi aiuti.”)<br />

Secondo il libro di Dale Sherman Black Diamond e la rivista Goldmine,<br />

nei primi anni Novanta Eddie Kramer rese noto che in Alive! egli dovette<br />

ricorrere a un numero limitato di sovraincisioni (overdubs) per correggere<br />

gli errori più ovvi quali rotture di corde, parti vocali mancanti e note fuori<br />

chiave, entrambi piuttosto frequenti in un concerto “movimentato” quale<br />

era quello dei Kiss, che oltre a tutto non erano propriamente dei fenomeni<br />

in fatto di tecnica musicale.<br />

Tuttavia, in tempi più recenti, il celebre produttore/ingegnere del suono<br />

sudafricano ha dichiarato che l’unica registrazione dal vivo originale<br />

nell’album è la chitarra solista di Ace Frehley; successivamente, durante<br />

un’intervista televisiva, ha ulteriormente rettificato il tiro affermando che<br />

le uniche parti originali sono le percussioni di Peter Criss. Forse la<br />

memoria comincia a fargli difetto, o magari pazzeggia, chissà; ho letto che<br />

da giovane durante le sedute di registrazione hendrixiane si dilettava a<br />

deridere Chas Chandler per il suo marcato accento cockney. In qualunque<br />

modo, la controversia ha coinvolto anche il secondo album dal vivo della<br />

band newyorchese, Alive II, che risulterebbe quasi totalmente ricreato alla<br />

consolle, addirittura con due brani, Tomorrow And Tonight e Hard Look<br />

Woman, suonati in studio e in seguito mixati coi rumori della folla! Che<br />

pacchianata! Finalmente, nel recente DVD celebrante la storia dei Kiss,<br />

perfino gli stessi membri del gruppo ammettono sorridenti l’uso estensivo<br />

120


di overdubs nei loro cosiddetti dischi dal vivo. Bella forza, ormai si sono<br />

fatti i miliardi e hanno scopato tutto lo scopabile… Dico, avessero almeno<br />

avuto la dignità di proporsi: “Che importa se siamo una brigata di sacchi<br />

della spazzatura antropomorfi, fissiamoci su vinile così come veniamo e<br />

vaffanculo al mondo intero!”<br />

Mi ci è voluto un giro su Youtube, pochi mesi fa, per tornare ad amarli<br />

come una volta. Là ci sono i veri Kiss, le performance quasi mai perfette<br />

tecnicamente ma scoppiettanti d’energia rock’n’roll. Dal vivo pezzi come<br />

Black Diamond, Detroit Rock City e Cold Gin rendevano cinque volte più<br />

che su disco, realmente non c’era necessità di rappezzarli in studio. E<br />

quando Ace Frehley innestava l’octaver e il phaser e partiva in assolo, era<br />

come se una creatura sonica proveniente dallo spazio profondo erompesse<br />

dagli amplificatori per farti esplodere il cervello. Dal 1973 al 1977 i Kiss<br />

furono davvero la band più calda del mondo.<br />

(Fortissimo nonché scontatissimo dubbio: ma a Lester MMM e Alive!<br />

piacevano davvero, o ci voleva soltanto prendere tutti per i nostri fondelli<br />

tumefatti? Me lo figuro lassù, acciambellato su una nuvoletta di plasma<br />

con trentacinque nanocompresse di Proximax in corpo, sogghignando<br />

sotto il caschetto biondo alla Brian Jones.)<br />

Lester e Station To Station di David Bowie. “È difficile avere degli eroi.<br />

È la cosa più difficile del mondo. È perfino più difficile che essere un<br />

eroe. Di solito dagli eroi ci si aspetta che producano un qualcosa per<br />

riconfermare la presa delle loro dita altolocate sulle belle chiappe di quella<br />

stronza della Musa; e a volte arriva a un pelo dal somigliare a delle<br />

unghiate che scendono lungo il bordo di un precipizio d’argilla fino a<br />

cadere. Al tramonto, addirittura. E non c’è nessun banchetto aziendale,<br />

giovanotto.”<br />

David Bowie non era certamente l’eroe di Lester. Anzi, per dirla tutta non<br />

lo poteva vedere neanche dipinto. Considerava la sua fase Ziggy Stardust e<br />

i Ragni da Marte come una menata colossale, e più ad ampio raggio la sua<br />

musica come un mélange furbastro da professionista dell’industria dello<br />

spettacolo.<br />

Poi però uscì Young Americans e Lester inarcò un sopracciglio, ma fu<br />

Station To Station a fargli scrivere: “È uno dei più bei dischi di chitarra dai<br />

tempi di Rock’n’Roll Animal, ha una disinibizione e una pulsazione<br />

incessanti che calpestano completamente le parole. E quindi, chi se ne<br />

fotte di cosa significa TVC 15: è un gran pezzo rock. (…) È un disco rock<br />

121


talmente bello e con una tale potenzialità di durare nel tempo, perfino più<br />

di Young Americans, che mi sbilancio a dire: penso che Bowie abbia<br />

finalmente prodotto il suo (primo) capolavoro.”<br />

Me, me stesso e io. L’uomo che cadde sulla Terra. Ho letto il libro e visto<br />

il film: pregevole il primo, non completamente riuscito ma lo stesso<br />

affascinante il secondo. Nel 1976 un critico cinematografico scrisse al<br />

proposito su Robot che David Bowie non faceva molta fatica a recitare se<br />

stesso: anche se avevo soltanto undici anni, fui sostanzialmente d’accordo<br />

con lui. Mi è rimasta stampata in testa soprattutto questa scena: una donna<br />

e un uomo a letto, nudi bruchi; lei è una giovanissima bruna all-American<br />

sfrontata e opulenta, di quelle che ti scoperesti tutti i giorni dal tramonto<br />

all’alba, che dormono con la lingua fra le tue palle pelose e ingoiano tutto<br />

quello che c’è da ingoiare, sempre; lui è il dottor Nathan Bryce, libidinoso<br />

professore di college con un’inclinazione per le diciottenni e affascinato<br />

morbosamente dalla World Enterprises, la potente compagnia che Thomas<br />

Jerome Newton, l’alieno venuto sulla Terra da un pianeta morente di sete,<br />

ha creato dal nulla; parlano parlano, finché lei vogliosa non gli circonda i<br />

fianchi con quelle cosce sode da cheerleader spronandolo: “Avanti, fammi<br />

sentire quanto sei uomo!” Yummy.<br />

Young Americans mi serve come lassativo quando tralascio di assumere<br />

fibre vegetali. Station To Station ce l’ho in CD. La fotografia in copertina,<br />

di Steve Shapiro, è tratta da L’uomo che cadde sulla Terra. Le foto<br />

all’interno, sempre di Steve Shapiro e Jayne Fincher, dovrebbero essere<br />

mostrate ai giovinetti della plug generation nell’ambito di una campagna<br />

contro l’abuso di cocaina, soprattutto a Roma, laddove ultimamente il Cnr<br />

ha rintracciato la magica polverina perfino nell’aria: eppure, dato che è<br />

sniffata a tutto spiano perfino in Parlamento, non è considerata una vera<br />

emergenza. Ma lo è, diocristo.<br />

Sono d’accordo con Lester: Station To Station è un masterwork. La titletrack<br />

riprende brillantemente l’idea alquanto datata della suite, mentre<br />

TVC 15 è in effetti un gran pezzo, rozzo e sgangherato – a quanto pare il<br />

titolo deve molto a una storia raccontata a David da Iggy Pop nel 1975 a<br />

proposito della ragazza di Iggy inghiottita da una set televisivo… ahi,<br />

Sorella Morfina! Sono ottimamente congegnate le dinamiche funky-rock<br />

di Golden Years e Stay. Wild Is The Wind e Word On A Wing eccedono<br />

<strong>forse</strong> un tantino in pathos ducale, ma la seconda mi piace moltissimo, con<br />

quella vaporosa nota di sintetizzatore all’inizio che richiama realmente<br />

122


l’immagine di una parola in caduta libera dall’ala di un uccello libratosi in<br />

volo. Le chitarre, e qui do pienamente ragione a Lester, sono grandiose:<br />

Carlos Alomar, Earl Slick e Stacey Heydon, quest’ultimo presente nelle<br />

due bonus track registrate dal vivo, fanno veramente i fuochi d’artificio.<br />

Un’altra scena da un’altra pellicola, e un’altra bruna conturbante: Mathilda<br />

May, alias Space Girl (chiamarla semplicemente “aliena” pareva troppo<br />

ordinario?), percorre nudissima gli interminabili corridoi di un laboratorio<br />

governativo col passo vellutato di una mannequin.<br />

Space Vampires è uno di quei film talmente assurdi da divenire oggetto di<br />

culto. Ritengo che in cuor suo il regista Tobe Hooper volesse realizzare<br />

una sintesi modernista e sensuale dei buoni vecchi film di fanta-horror: ma<br />

il risultato, super-produzione effetti ultra-speciali e principesca campagna<br />

pubblicitaria a parte, mi richiama alla memoria piuttosto certe boiate girate<br />

nei primi anni Settanta da Jess Franco con Lina Romay e C. Le quali se<br />

non altro avevano il pregio dell’artigianalità.<br />

In ogni modo, Mathilda May era fantastica (lo è ancor più adesso, a 43<br />

anni compiuti). Esistessero davvero delle creature aliene così voluttuose!<br />

Ehm, nel caso ne conosceste una, magari nella Nube di Magellano dove si<br />

mormora siano tutte ciorgne, me la mandereste qui a bordo? Comincio a<br />

sentirmi un po’ solo…<br />

Drin-drin. Decimo squillo della mattinata. Ed erano soltanto le dieci e<br />

trentacinque!<br />

“<strong>Maurizio</strong> F.”<br />

“Je suis Nicholas Ercoreca. Est-ce je peux parler à monsieur Rama?”<br />

Santa Madonna del Pilone! “Ehm, oh, uhm... Monsieur Rama il n’est pa<br />

en bureau.”<br />

“D’accorj’appeleraiplustardtartufonjesuicathrindenevue.”<br />

“Sì, okkey, au revoir.” Le palle di fra Giulio che mi trovi qui quando<br />

richiamerai.<br />

Difatti, pochi minuti dopo il termine della pausa per il pranzo, avendo<br />

saputo dalle stressatarie di direzione che più o meno tutti i quadri dell’ente<br />

sarebbero rimasti in riunione dall’amministratore delegato fino alle quattro<br />

del pomeriggio come minimo, mi feci scribacchiare un permesso d’uscita<br />

anticipata dall’unico ravanello che contando quanto una caccola di naso<br />

non era stato convocato su nella fulgida stratosfera dirigenziale (non senza<br />

qualche brontolio da parte del fantozzi) e me la diedi a gambe. Adieu,<br />

maricons.<br />

123


Lester e i Clash. “E così, eccomi qui grazie alla cortesia aziendale della<br />

CBS International per vedere i Clash, per sentire i gruppi new wave alla<br />

radio (una festa per le orecchie di un americano) e trovare l’Impero,<br />

finalmente, di nuovo in preda a fermenti.” Per Lester, il cui pensiero era<br />

che il rock fosse sceso qualitativamente in picchiata dopo il 1968 avendo<br />

raggiunto il suo zenit nell’anno precedente (quando Keith Richards ancora<br />

non si arrampicava sulle palme da cocco e se n’andava a spasso per il<br />

Sistema Solare con gli occhiali da sole a occhio di mosca), il punk-rock<br />

rappresentò un’ipodermica per cavalli di nuova linfa esistenziale. Tant’è<br />

vero che la sua crepitante (al solito) recensione critica del gruppo inglese è<br />

strutturata in tre lunghe parti, che verranno pubblicate sul New Musical<br />

Express il 10, 17 e 24 dicembre 1977. Premettendo che, politicamente<br />

dissertando, non sa niente e non gliene potrebbe fregare di meno della<br />

struttura sociale inglese, il biondo scrive che il gruppo di Joe Strummer,<br />

Mick Jones e Paul Simonon “è giusto perché sotto il loro paesaggio sonoro<br />

teso e aspro si cela un persistente umanitarismo.” In più, gli aggradano<br />

come persone, molto più di ogni altro gruppo che abbia mai incontrato.<br />

Presumibilmente perché la sera che li conobbe essi rintuzzarono ogni sua<br />

provocazione con naturale arguzia britannica, senza mai tirarsela da rocker<br />

arroganti e spocchiosi.<br />

(“Be’, Lester”, disse Mick Jones, “non guardare me. Se ti dà tanto fastidio<br />

il genocidio culturale perché non fai tu qualcosa per cambiare le cose?”<br />

“Sì”, disse una delle fan, una ragazzina punk di colore carinissima, “ci stai<br />

facendo venire la depressione a tutti quanti!”)<br />

Lester B. finisce per montare sul carrozzone della band. Ci racconta di<br />

quando con nonchalance lasciò cadere che si era portato dietro la cassetta<br />

del nuovo album dei Ramones, Rocket To Russia, scatenando il genuino<br />

entusiasmo del gruppo. È molto felice di poter dire che i Clash sono fan<br />

accaniti dei Muppets, nonché gente relativamente sana (relativamente<br />

perché si fanno fior di cannoni, ma in dosi coscienziose il fumo integra il<br />

pensiero). “Non c’è neanche un affumicatore di cucchiai o un fricchettone<br />

malconcio. Oltre a ciò, non divorano groupie adolescenti come caramelle<br />

Zigulì, ammazzano il tempo e la noia sul tour bus leggendo libri impegnati<br />

e s’intrattengono spesso a parlare coi loro fan.” Magnifica il sex appeal<br />

misto di “monellaccio adolescente e primate del Paleolitico” di Paul<br />

Simonon. Trova “patetica e inadeguata” tutta la terminologia critica<br />

utilizzabile per descrivere le loro torrenziali esibizioni. Assiste a diatribe<br />

con titolari di locali pieni di mota e occhiate in cagnesco fra punksters<br />

124


sovraccarichi di spille e spillette e teddy boys perdutamente convinti della<br />

propria unicità. Non sente per nulla la nostalgia di New York, che l’aveva<br />

attanagliato in altre precedenti esperienze in Inghilterra. E di conseguenza<br />

riflette intensamente per la decimillesima volta sul suo controverso paese<br />

natio (“In America non sei tenuto a crescere. Sei tenuto a consumare.”)<br />

Il suo incarico avrebbe dovuto durare tre giorni, ma Lester è talmente<br />

preso bene che prosegue con i Clash fino a Coventry. Durante il concerto<br />

attacca bottone con una punkette “molto vivace, sana, giovane col suo<br />

giubbotto ricoperto di spallette coi nomi dei gruppi”, molto indispettita<br />

perché i Clash avevano chiesto al pubblico di non sputargli addosso.<br />

“Dopotutto, sono stati loro a cominciare”, dice.<br />

“Però suonano meglio quando non lo fate”, le rammenta Lester.<br />

“Non importa! Io voglio solo saltare! E anche i miei alunni!”<br />

Lester rimane basito. “I tuoi alunni? Aspetta un attimo, quanti anni hai?”<br />

“Ventiquattro. Faccio l’insegnante.”<br />

“Ma… allora… che ci fai qui? Cioè, perché ti piacciono i Clash?”<br />

“Perché mi fanno saltare!” E si è allontanata pogando.<br />

Me, me stesso e io. Nel 1983 le pareti della mia stanzetta erano adornate<br />

da un assortimento quanto meno eterogeneo di poster; Kiss, Iron Maiden,<br />

Richard Gere (oh, avrei voluto essere bello come lui!) la formazione del<br />

Torino Calcio 1982-83, Alice (!), Rod Stewart… e i Clash. Il mio primo<br />

loro album era stato Combat Rock, ma in seguito avevo fulmineamente<br />

percorso a ritroso tutta la loro discografia fino a quello juggernaut di suoni<br />

e intenti bellicosi che è The Clash, uno dei capolavori della storia del rock.<br />

Noel Gallagher una volta si è chiesto che diavolo ci trovasse la gente nello<br />

stile musicale del quartetto londinese. Io una miriade e fischia di volte mi<br />

sono chiesto che acciderba ci trovo io, nonché qualche altro milione di<br />

musicomani sparsi su quest’enorme sasso surriscaldato, negli Oasis. Una<br />

spiegazione può essere la loro propinquità al Ritmo Assoluto di Arthur C.<br />

Clarke: una volta che ti è penetrato nella capoccia vi resta per l’eternità,<br />

fagocitando ogni altro pensiero, addirittura i bisogni primari. Piuttosto<br />

inquietante, non trovate?<br />

I Clash invece sono il rock’n’roll ridotto alla propria pulsante ossatura e<br />

rilanciato nella stratosfera in un razzo a propulsione Molotov Cocktail.<br />

“Personalmente, non ricordo neanche di aver registrato il primo album,<br />

talmente ero intontito dagli spini”, rivelò poco prima di andarsene Joe<br />

Strummer a un rampante giornalista. Macché intontito, carissimo Joe: eri<br />

125


in stato di grazia! Flirtavi con la Musa nella Bottega dell’Arte, col Bob<br />

Marley in bocca e una mano fra le sue lunghissime gambe. E Il Capitale di<br />

Marx sul bancone.<br />

Julian Cope ha descritto efficacemente i concerti di questa pattuglia di<br />

uomini veri: “I Clash facevano pensare a un’immensa guerra nucleare.<br />

Avevi bisogno di movimenti che descrivessero le sparatorie sul delta del<br />

Mekong o i bombardamenti al napalm contro i bambini senzatetto.”<br />

He’s in love with rock and roll, woaahh!!! Non c’è una nota fuori posto in<br />

The Clash. L’unità d’intenti musicali e sociali è straordinaria, irripetibile<br />

quanto può esserlo Guernica di Picasso o Il Pensatore di Rodin, e Fun<br />

House. Non ti stanca proprio mai, e quando lo metti sul piatto o nel lettore<br />

laser o vattelappesca non è per enuclearne una canzone o due, exempli<br />

gratia ora mi ascolto London’s Burning e più tardi alla terza canna 48<br />

Hours e nel mentre le Pipettes: te lo spari nelle orecchie ininterrottamente<br />

dal principio alla fine.<br />

Esimi Conflitti, ho un buon amico che come me vi ha venerato e continua<br />

a venerarvi come divinità che hanno preso forma umana, tuttavia è così<br />

rockisticamente pignolo che mi rubatta regolarmente le scatole con la<br />

storia che l’assolo di Police & Thieves gli suona come se fosse stato<br />

eseguito con una moneta da 100 lire anziché un plettro. Sarà, ma proprio<br />

in ciò sta la sua attrattiva! Ascoltatelo a buon volume al volante del vostro<br />

cigolante macinino italiano in un pomeriggio soleggiato di mezza estate<br />

sulla strada per Lekeitio...<br />

Strobe-cut. E mi ritrovai al bar Patxon di Karraspio, col mio culetto sodo<br />

poggiato su uno sgabello davanti al bancone. Manco il tempo d’imprecare<br />

che un’adorabile sirena bionda attraccò al mio molo e cantò: “Kaixo! Ni<br />

Nerea naiz. Eta zu, nor zara zu?” Ciao! Io sono Nerea. E tu chi sei?<br />

Il Babbione Natale, mi veniva da risponderle. Per contro rimasi silenzioso<br />

a fissarla come un bue sedato con una vagonata di thorazina. Era Piggy<br />

versione Lea-Artibai, più alta e slanciata e con quei lineamenti peculiari<br />

dovuti alla progressiva secolare introduzione dell’orifizio occipitale nel<br />

cranio con conseguente ritrazione del volto e ingrossamento delle tempie.<br />

In qualunque modo desossiribonucleico un bel pezzo di legno giovane, coi<br />

suoi pantaloncini di cotone bianco, la blusa rosa confetto e le ciabattine<br />

infradito. L’esame successivo per ottenere il Patentino Intergalattico di<br />

Bambino Rock delle Stelle?<br />

“Nor zara zu?” ripeté sorridendo Nerea Piggistarain.<br />

126


Io parlo il basco, o meglio ne mastico una trentina di frasi utili per stupire<br />

il borghese locale, specialmente il tipico stronzone di buona famiglia che<br />

ritiene che gli italiani siano tutti cretini e cascamorti e berlusconiani come<br />

pure discendenti dei piloti fascisti che bombardarono a tappeto Gernika.<br />

“Ni <strong>Maurizio</strong> naiz, laztana. Arratsalde on!” L’ultima locuzione significava<br />

“buon pomeriggio”, ma eravamo davvero in quella parte del giorno? Mi<br />

voltai verso le lontane onde spumeggianti: surfisti torciati, lettori solitari,<br />

fette di anguria, cellulite navarra, perizomi castigliani. Sì, dovevano essere<br />

le cinque o giù di lì.<br />

Replica di Nerea: “Ottimo livello di euskera!” Anche lei usava parecchio<br />

le strisce sbiancanti per i fanoni. Dopodiché mi aspettavo una domanda del<br />

solito banale repertorio, tipo che ci fa un italiano a Lekeitio, com’è che<br />

parli così bene la nostra lingua, è nato prima l’uovo bilbaino o la gallina<br />

donostiarra e avanti parei fino al Big Crunch.<br />

Ma la neska mi spiazzò prendendomi delicatamente la mano e frusciando,<br />

in perfetto italiano: “Vieni. Andiamo in spiaggia a parlare un po’.”<br />

Non avendo tra tutt’e due un asciugamano (men che mai io!), ci sedemmo<br />

direttamente sulla sabbia, a metà cammino fra il bar e la battigia. Io mi ero<br />

fornito di una San Miguel Extra: molto diversa dalla Especial, è una strong<br />

lager ambrata con un retrogusto maltato ma molto persistente. Non proprio<br />

una <strong>birra</strong> da spiaggia, ma è noto che i baschi sono gente spessa che ama le<br />

emozioni forti. Non per niente si spingevano fino a Terranova per cacciare<br />

le balene.<br />

Nerea estrasse dalla sua pochette dorata uno spinello d’erba, se lo accese<br />

con scioltezza e dopo tre o quattro boccate me lo passò. Nessuno ci guardò<br />

di traverso. Karraspio era un contesto di dolce libertà estiva.<br />

L’erba era squisita, si sposava alla grande con la <strong>birra</strong>. La sera s’inclinava<br />

pigramente sui pescherecci alla fonda. Stavo come una spalmata di miele<br />

con una goccia d’olio d’oliva su una fetta di pane tostato e imburrato. Ora<br />

ci sarebbe stato a meraviglia un bacio tenero come cioccolato bianco sulla<br />

guancia rosea della ragazza, come quando avevo nove anni sul grado del<br />

portone con la mia fidanzatina delle elementari, la capa delle femmine.<br />

Ma mi aspettava ben altro.<br />

Tutt’a un tratto Nerea Piggiberria interruppe la contemplazione di un<br />

surfista particolarmente abile. “Hai portato indietro qualcosa dal Traforo,<br />

<strong>Maurizio</strong>?”<br />

127


“Quale Traforo?” Poi capii. Era il nomignolo che gli scienziati avevano<br />

appioppato alla Singolarità di Gibson. “Che intendi per qualcosa?”<br />

Le punte dei suoi piedini ben modellati, il più bel sogno per un feticista,<br />

smossero nervosamente la rena. “Intendo qualcosa, Mau. Qualsiasi cosa.”<br />

Guardandola in tralice, roteai l’indice della mano destra. “Tutto questo è<br />

vero, o è solo un dannato set della Nasa?”<br />

“È vero, Mauri.” Un gemito di rassegnazione.<br />

Cancellai la fantasia del bacio. Mi alzai, riducendole il sole a un alone.<br />

“Reale una merda secca. Quel cannone era per blandirmi, vero? Così ti<br />

consegnerei la qualsiasi cosa senza fare troppo i capricci, per il sommo<br />

godimento dei capoccioni incravattati lassù o quaggiù in Sala Controllo.<br />

Tuttavia, io non ho proprio niente da darvi. Nessun ninnolo extraterrestre<br />

o sconvolgente verità cosmica scritta in esperanto galattico su pergamena<br />

plasmatica. Nada. Ci facciamo un bagno?”<br />

Lei mi chiese ancora, questa volta attraverso una lente gravitazionale:<br />

“Cos’è successo dall’altra parte, Mauri?”<br />

“Non voglio sapere cosa fanno i ricchi. Non voglio andare dove vanno i<br />

ricchi. Si credono così furbi, si credono così giusti, ma la verità la sanno<br />

soltanto i poveracci.”<br />

“Zer da hori? Cos’è questo che dici?”<br />

Che accidenti avrei dovuto rispondere a quella megagnocca governativa<br />

cannaiola? “Senti, neska ederra, una razza benedetta mi ha fatto scoprire<br />

Lester Bangs, pirotecnico recensore di frastuoni rock e figura chiave della<br />

controcultura americana. Sono stato sottoposto a un confronto virtuale fra<br />

le sue esperienze e le mie in materia di rock’n’roll che mi ha arricchito<br />

l’esistenza.”<br />

Ma a Nerea e soprattutto ai suoi ingessati responsabili non avrebbe potuto<br />

fregagliene di meno. Essi volevano, anzi pretendevano l’oggetto, il reperto<br />

tangibile da analizzare, sezionare, fotografare, vezzeggiare, sodomizzare;<br />

non si spendono miliardi di soldi dei contribuenti per mandare un tizio<br />

dall’altro lato di un wormhole a dissertare di beat, hard rock e punk con gli<br />

ometti verdi, le piovre senzienti, i globi luminescenti o qualunque aspetto<br />

abbiano i nostri interlocutori.<br />

Fiato sprecato. E io, brillo, avevo una gran voglia di tuffarmi sotto quelle<br />

onde, vere o artificiali che fossero. Allora abbandonai un’interdetta Nerea<br />

sul suo piccolo monticello di sabbia e mi diressi ad ampie falcate verso il<br />

bagnasciuga, con indosso ancora i pantaloni e la camicia di tela. La sentii<br />

128


gridare qualcosa dietro di me, ma spallucciai. L’acqua era tiepida e pulita,<br />

perfetta. Strobe-cut.<br />

Aveva smesso di piovere: dopotutto, non può piovere per sempre. Ero<br />

tornato in sintonia con il mondo che gli uomini definiscono reale. Piggy<br />

Paradigmatica e Notebook Swimmer se n’erano andate.<br />

In loro luogo, un’adolescente molto somigliante a Eva Green, la libertina<br />

palliduccia e lentigginosa di The Dreamers. Eva Succedanea era intenta<br />

nella lettura di La strada del Kama-Sutra di Deepak Chopra. Di lì a<br />

qualche attimo fu raggiunta da un ragazzo alto e sottile coi tratti somatici<br />

inconfondibilmente indiani: il suo Bhagwan.<br />

ScaffHal colse quel momento per pronunciare le sue prime parole blasé<br />

della giornata: “Nel 1967, terminato il tour australiano degli Yardbirds,<br />

Jimmy Page se ne scappò in India: dichiarò che voleva ascoltare musica<br />

carnatica. Magari vi fosse tornato, e rimasto per sempre, al termine delle<br />

sessioni di Physical Graffiti.”<br />

Sorridendo sotto i baffi, calai lo sguardo al blocco di memoria cartaceo.<br />

Un altro cambiamento. Sul mio tavolo non c’era più la Guida Ragionevole<br />

al Frastuono, ma I CLASH/Arcana Editrice. Lo attivai.<br />

“Non stare alle regole / non fanno per te è roba da stupidi / E se non lo sai<br />

lo stupido sei tu / Allora stateci voi alle regole pezzi di idioti.”<br />

Sorrisi di nuovo. Il cielo si spalancò in un immenso lago azzurro. “Grazie,<br />

Lester: sei un grande. Stasera berrò un paio di Bud in tuo onore. Facciamo<br />

anche sei.”<br />

129


Figura 10. Keep your riches, gimme a Budweiser!<br />

130


EPILOGO<br />

Un martedì sera qualunque. Cementati davanti all’ingresso del Lab, io e la<br />

mia banda sorseggiamo la quarta o quinta <strong>birra</strong>, dopo un po’ uno perde il<br />

conto. Sotto i portici della piazza è tutto uno sfilare di ragazze mediamente<br />

giovani e attraenti, con frequenti bagliori d’eccellenza. Vito reitera spesso<br />

che quando noi eravamo dei pivellini le ragazze non erano così belle. Io<br />

credo che vi fossero anche meno ragazze a spasso per la città la sera: per<br />

dirla volgarmente, eravamo tutti cazzi e zero, o quasi, gnocche. In fin dei<br />

conti, non tutto il progresso viene per nuocere. Comunque io ora sono in<br />

una seria e felicissima relazione a distanza e, insomma, che ve lo dico a<br />

fare.<br />

Alla consolle DJ Naska, storico (Daffy, suo vecchio compagno di brigata<br />

modernista, correggerebbe in “anziano”) batterista degli Statuto, si lancia<br />

in un brillante mix di successi rock britannici. Ciò dà la stura all’ennesima<br />

discussione musicomaniaca:<br />

Vito: “Secondo te qual è il disco più bello dei Faces?”<br />

Io: “Mah, a me piacciono tutti. Certo che A nod is as good…”<br />

Giorgio Pitone (soprannominato così per i suoi forti appetiti): “Io sono<br />

più per gli Smiths e le band shoegazer. Carina quella biondina laggiù.”<br />

Daffy: “Dio c…, sempre con ’sta musica. Non avete più vent’anni!”<br />

Io: “Se è per questo, neanche trenta. E fra un po’, neanche quaranta.”<br />

Eh già.<br />

Di Soffocare, che per me è il miglior libro scritto da Mr. Chuck Palahniuk,<br />

mi ha colpito soprattutto una frase. Pag. 1, riga 7: “Tanto, ringiovanire non<br />

ringiovanisci.” Spietatissimo, ma vero. Puoi tingerti o trapiantarti i capelli,<br />

riempirti i lineamenti di botoina fino a sembrare uno scimpanzé bonobo,<br />

bere ettolitri di tè verde e passare tre quarti della tua giornata a pisciare nel<br />

cesso, gonfiarti le poppe con l’olio di colza dieci volte l’anno, massacrarti<br />

di step cinque sere su sette, fare Tai Chi ogni mattina presto al parco sotto<br />

<strong>casa</strong> in mezzo alle deiezioni canine e alle siringhe usate. Ma non smetti di<br />

invecchiare neanche per un fottuto nanosecondo.<br />

Tutto sta nel piantarla di rodercisi il fegato e il cervello. Cambiare canale<br />

ogni qual volta lo psicologo ospitato di turno si mette a pontificare sulla<br />

crisi di mezz’età. Fregarsene altamente di quella data stampata sulla carta<br />

d’identità. Far rottamare l’invidiometro dall’AMIAT. C’è ancora tanta,<br />

tantissima vita oltre il devastante doposbornia della gioventù. I brasiliani,<br />

131


che sono molto saggi, fanno del doposbornia una nuova festa. Anche gli<br />

spagnoli sostengono che non c’è niente di meglio che un bel boccale di<br />

<strong>birra</strong> chiara e fresca per toglierti la resaca. E ricominciare coi baccanali.<br />

Diciamo tutti insieme grazie che ho bevuto. Sempre e comunque.<br />

“Facciamo un altro giro?”<br />

“Ma naturalmente!”<br />

“Io veramente domani mi dovrei alzare presto…”<br />

“Dài. L’ultima birretta e <strong>andiamo</strong> a <strong>casa</strong>!”<br />

Forse.<br />

© 2011 <strong>Maurizio</strong> <strong>Ferrarotti</strong>. Tutti i diritti riservati.<br />

Figura 11. Già, <strong>forse</strong>...<br />

132


La pratica di una professione richiede disciplina, che per me intendeva<br />

la produzione di duemila parole in bella copia ogni giorno,<br />

fine settimana inclusi.<br />

Scoprii che, qualora cominciassi abbastanza presto,<br />

avrei potuto completare il lavoro quotidiano prima che aprissero i pub.<br />

Diversamente c’era un inebriante periodo della notte<br />

dopo l’orario di chiusura, coi vicini di <strong>casa</strong> battendo sui muri<br />

per protestare contro l’industrioso ticchettio della macchina da scrivere.<br />

Duemila parole al giorno significa<br />

un totale annuale di settecentotrentamila.<br />

Porta in su la percentuale e, senza indebito sforzo,<br />

puoi raggiungere il milione.<br />

Questo dovrebbe significare dieci romanzi<br />

di centomila parole per ciascuno.<br />

Naturalmente l’approccio quantitativo alla scrittura non è contemplato.<br />

E a causa di doposbornia, dispute coniugali,<br />

citazioni per incontrare funzionari statali, e pura torpida malinconia,<br />

io non fui capace di realizzare più di cinque romanzi e mezzo<br />

di dimensione molto moderata in quell’anno pseudo-terminale.<br />

Nondimeno, ciò era quasi prossimo all’intera produzione letteraria di<br />

E.M. Forster nella sua lunga vita.<br />

Anthony Burgess, celebre scrittore mancuniano, autore<br />

di una cinquantina di libri tra i quali A Clockwork Orange<br />

(“Arancia Meccanica”).<br />

A 43 anni gli fu erroneamente diagnosticato<br />

un tumore inoperabile al cervello con aspettativa di vita di un anno.<br />

Il “mezzo romanzo” era per l’appunto la prima stesura di<br />

A Clockwork Orange.<br />

133


Biblioteca personale e pubblica<br />

FONTI<br />

STERLING, Bruce, Fuoco sacro, Fanucci Editore, 1997.<br />

ELLISON, Harlan, Idrogeno e idiozia, Fanucci Editore, 1997.<br />

MCLUHAN, Marshall, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore<br />

Economici, 1995.<br />

ALONSO, Javier, Sueños y cadáveres, Pre-Textos, 2002.<br />

M. SANZ José «Loquillo», El chico de la bomba, Belacqva, 2002.<br />

THACKERAY, William Makepeace, La fiera delle vanità, Rizzoli<br />

Editore, 1954.<br />

HALDEMAN, Joe, Guerra eterna, Editrice Nord, 1996.<br />

SUSANN, Jacqueline, Una volta non basta, Edizione Euroclub Italia su<br />

licenza di Aldo Garzanti Editore, 1979.<br />

BANGS, Lester, Guida ragionevole al frastuono più atroce, Minimum<br />

Fax, 2005.<br />

PEGG, Nicholas, The complete Bowie, Arcana Libri, Fazi Editore, 2005.<br />

DAVIS, Stephen, Il Martello degli Dei: la saga dei Led Zeppelin, Arcana<br />

Libri, Fazi Editore, 2004.<br />

SPÄTH, Gino, Birra & Birra, Mistral Gruppo Demetra, 1994.<br />

GAMBERO ROSSO, Almanacco del Berebene Birra, Gambero Rosso<br />

Editore, 1999.<br />

MONTANARI & FLANDRIN, Storia dell’alimentazione, Laterza Editori.<br />

MUCK, Otto, I segreti di Atlantide, Edizione Euroclub su licenza di SIAD<br />

Edizioni, 1986.<br />

ELLIS BERRESFORD, Peter, A Dictionary of Irish Mythology, Oxford<br />

University Press, 1991.<br />

DAPINO, Cesare, Spagna settentrionale, Guide Edt su licenza di Lonely<br />

Planet Publications, 2000.<br />

BURGESS, Anthony, A Clockwork Orange, Penguin Books, 1996.<br />

BAS, Juan, Trattato sui postumi della sbornia, Castelvecchi Editore, 2004.<br />

ZELAZNY, Roger, Signore dei sogni e La pista dell’orrore, I Massimi<br />

della Fantascienza, Arnoldo Mondadori Editore, 1988.<br />

THOMPSON, Hunter S., Paura e disgusto a Las Vegas, Bompiani, 1998.<br />

GIBSON, William, La notte che bruciammo Chrome, Oscar Mondadori,<br />

2001.<br />

134


CERVERA, Rafa, Alaska y otras historias de la movida, Plaza & Janés<br />

Editores, 2002.<br />

Internet<br />

www.ateneodella<strong>birra</strong>.it<br />

www.area<strong>birra</strong>.it<br />

www.<strong>birra</strong>land.it<br />

www.marionegri.it<br />

www.winix.it<br />

www.vinoclub.info<br />

www.calodges.org<br />

www.dinodasandra.com<br />

www.multi<strong>birra</strong>.com<br />

www.zimbio.com<br />

www.inventorspot.com<br />

www.realbeer.com<br />

www.homebrewtalk.com<br />

www.sallys-place.com<br />

www.scaruffi.com<br />

…e naturalmente, Youtube e Wikipedia!<br />

135


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