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ATTI DEL CONVEGNO - Provincia di Lucca

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<strong>ATTI</strong> <strong>DEL</strong> <strong>CONVEGNO</strong>


Prefazione<br />

“Camminare interrogandosi” è la significativa espressione coniata dagli in<strong>di</strong>geni del Chiapas per<br />

in<strong>di</strong>care una nuova modalità <strong>di</strong> rapportarsi con l’altro, <strong>di</strong> fare cooperazione, <strong>di</strong> impegnarsi socialmente e<br />

politicamente lontano da vecchi dogmatismi ideologici.<br />

“Camminare interrogandosi” è un’espressione che ben sintetizza il senso ed il significato del “II°<br />

Forum della Solidarietà lucchese nel Mondo”, tenutosi a <strong>Lucca</strong> dal 22 al 25 aprile 2005. Il Forum è stato un<br />

momento molto importante per la nostra città, che ha ospitato alcuni gran<strong>di</strong> personalità del nostro tempo e<br />

molti testimoni provenienti da tante parti del mondo; grazie a loro abbiamo potuto “rileggere” la realtà<br />

globale o<strong>di</strong>erna, riportando la persona e l’etica comunitaria al centro dell’azione politica che ognuno <strong>di</strong> noi<br />

esercita, ogni giorno più o meno consapevolmente, con le proprie scelte. In quei giorni ci siamo quin<strong>di</strong><br />

“interrogati” sul senso della parola “solidarietà”, sul significato <strong>di</strong> “cooperazione”, su cosa significhi “l’altro<br />

visto con i suoi occhi”. Dal 22 al 25 aprile le sale <strong>di</strong> Palazzo Ducale sono state teatro <strong>di</strong> “incontri tra <strong>di</strong>gnità”,<br />

che tra loro, in maniera orizzontale e paritaria, hanno potuto <strong>di</strong>scutere e confrontarsi.<br />

Durante le giornate del Forum abbiamo ascoltato molti interventi veramente interessanti: da Adolfo<br />

Perez Esquivel, Premio Nobel per la Pace 1980, a Franco Cassano, professore <strong>di</strong> sociologia all’Università <strong>di</strong><br />

Bari, da Aldo Gonzales Rojas, in<strong>di</strong>geno della Sierra Juarez (Messico) a Jean Leonard Touadì, giornalista, e<br />

<strong>di</strong> tanti altri testimoni del sud del mondo, dei quali troverete gli interventi in questi atti. Purtroppo alcuni<br />

partner stranieri, ufficialmente invitati dalla <strong>Provincia</strong> <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong> a partecipare al Forum, hanno incontrato<br />

gran<strong>di</strong> <strong>di</strong>fficoltà per ottenere il visto <strong>di</strong> uscita dai singoli paesi da parte delle Ambasciate e dei consolati<br />

italiani, che, in molte situazioni, hanno considerato superflui i documenti ufficiali <strong>di</strong> invito esibiti. Un<br />

atteggiamento questo che deve spingerci ancor <strong>di</strong> più a riflettere sull’attuale sistema, che, ad ora, non<br />

permette una libera circolazione delle persone, nemmeno in presenza <strong>di</strong> inviti ufficiali.<br />

In questa prospettiva il “II° Forum della Solidarietà” lucchese nel Mondo è stato un momento<br />

particolarmente significativo per la <strong>Provincia</strong> <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong>, per le associazioni che hanno collaborato e per i<br />

testimoni stranieri. Per questo motivo l’Amministrazione <strong>Provincia</strong>le, così come per il I° Forum, ha ritenuto<br />

significativo pubblicare gli atti, perché le parole che abbiamo ascoltato in quei giorni vengano <strong>di</strong>ffuse a tutti.<br />

Andrea Tagliasacchi<br />

Presidente della <strong>Provincia</strong> <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong><br />

2


Introduzione<br />

Una lunga marcia verso l’incontro con l’altro<br />

La cooperazione, come la solidarietà, sono operazioni in genere concepite secondo una traiettoria che<br />

va dall’io all’altro o meglio dal noi agli altri. Un atto <strong>di</strong> coscienza onesto porterebbe molti <strong>di</strong> noi a<br />

riconoscere che questo è l’atteggiamento che guida il nostro operare: l’altro bisognoso, io il generoso, l’altro<br />

che aspetta <strong>di</strong> ricevere, io che decido <strong>di</strong> dare.<br />

Presentando questi atti del “II° Forum della Solidarietà lucchese nel mondo” vorrei partire dalle due<br />

frasi conclusive delle <strong>di</strong>chiarazioni finali del I° e del II° Forum, tutte e due forse non casualmente<br />

pronunciate nel corso dei due eventi da due rappresentanti del mondo a cui vorremmo in<strong>di</strong>rizzare la nostra<br />

“solidarietà” e che vorremmo fare oggetto della nostra “generosità”.<br />

La <strong>di</strong>chiarazione finale del I° Forum riprendeva l’auspicio espresso da Rosalina Tuyuc, in<strong>di</strong>gena del<br />

Guatemala, fondatrice e Presidente <strong>di</strong> CONAVIGUA, l’organizzazione delle vedove <strong>di</strong> guerra del<br />

Guatemala, “che questo forum <strong>di</strong> lavoro non solo serva per parlare delle sofferenze umane, bensì per<br />

unificare le speranze”<br />

La <strong>di</strong>chiarazione finale del II° Forum ha ripreso le parole con cui ha concluso il suo intervento Jean<br />

Leonard Touadì, giornalista e intellettuale africano: “prima <strong>di</strong> fare cooperazione con i popoli del Sud del<br />

mondo, impariamo a camminare con loro”.<br />

Nella prima <strong>di</strong> queste frasi non c’è richiesta <strong>di</strong> aiuto, c’è piuttosto l’invito a marciare insieme verso<br />

un orizzonte positivo. Nella seconda c’è l’invito concreto a conoscersi prima <strong>di</strong> presumere <strong>di</strong> sapere cosa<br />

dobbiamo fare per gli “altri”.<br />

A che punto è il nostro modo <strong>di</strong> praticare la solidarietà e <strong>di</strong> proporre la cooperazione? In quale<br />

misura ha fatto propri questi inviti pressanti? Queste sono le domande che dovremmo rivolgerci ogni volta<br />

che ci se<strong>di</strong>amo per progettare e programmare il nostro lavoro. Io credo che la marcia da compiere sia ancora<br />

lunga, a livello personale, a livello <strong>di</strong> associazioni, a livello <strong>di</strong> istituzioni. I due Forum della solidarietà<br />

lucchese nel mondo sono alle nostre spalle e sono stati due punti <strong>di</strong> transito, non <strong>di</strong> arrivo. Ci hanno dato<br />

degli orientamenti per il cammino a venire.<br />

Abbiamo voluto riunire in questo piccolo libro gli interventi dei relatori del II° Forum perché<br />

riteniamo importante rileggere e ripensare, da soli o in gruppo, il messaggio che essi ci hanno dato, che è <strong>di</strong><br />

una straor<strong>di</strong>naria ricchezza che vale la pena non <strong>di</strong>sperdere.<br />

Abbiamo poi inserito il testo <strong>di</strong> un successivo incontro con un operatore che da tempo lavora con<br />

sensibilità e intelligenza nel settore della cooperazione istituzionale, Giovanni Camilleri, per completare da<br />

un’altra angolazione la lettura fatta al Forum da Giulio Marcon, operatore nell’associazionismo<br />

in<strong>di</strong>pendente. Infine abbiamo incluso, per la loro pregnanza e affinità, tre testi <strong>di</strong> relatori ad incontri<br />

precedenti della Scuola per la Pace. Il primo, <strong>di</strong> Achille Rossi, ci richiama la necessità e la sfida<br />

rappresentata dal <strong>di</strong>alogo delle culture; il secondo, <strong>di</strong> Bruno Amoroso, ci invita ad andare al <strong>di</strong> là della<br />

ricerca in<strong>di</strong>viduale <strong>di</strong> un “vivere bene”, cercando piuttosto il “ben vivere”, curando quelli che sono i “beni<br />

comuni”; il terzo, <strong>di</strong> Majid Rahnema, ci offre uno sguardo penetrante e documentato sul povero e sulla<br />

povertà da <strong>di</strong>stinguere dalla miseria e dai miseri <strong>di</strong> cui oggi la nostra società è produttrice.<br />

Aldo Zanchetta<br />

Coor<strong>di</strong>natore della Scuola per la Pace della <strong>Provincia</strong> <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong><br />

3


Giornata <strong>di</strong> apertura<br />

22 aprile 2005<br />

Andrea Tagliasacchi<br />

Presidente della <strong>Provincia</strong> <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong><br />

Sono molto felice <strong>di</strong> potervi dare il benvenuto al 2° Forum della Solidarietà lucchese nel Mondo.<br />

Leggo un messaggio che considero molto importante, arrivatoci dal Segretario Generale della Presidenza<br />

della Repubblica, Gaetano Gifuni: “Signor Presidente faccio riferimento all’invito da Lei rivolto al Capo<br />

dello Stato ad intervenire al 2° Forum della Solidarietà Lucchese nel Mondo in programma a <strong>Lucca</strong> dal 22<br />

al 25 aprile 2005. Desidero anzitutto ringraziarla a nome del Presidente della Repubblica per il cortese<br />

inten<strong>di</strong>mento e farmi interprete del suo apprezzamento per le alte finalità solidaristiche dell’iniziativa<br />

organizzata dalla Scuola per la Pace della <strong>Provincia</strong> <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong>. Devo poi, mi creda con rammarico,<br />

comunicarLe che i numerosi impegni presidenziali già fissati in agenda per il periodo in<strong>di</strong>cato non<br />

consentono <strong>di</strong> accogliere il suo auspicio”.<br />

Con un altro telegramma, sempre il Segretario Generale della Presidenza della Repubblica ci<br />

informa: “Sono lieto <strong>di</strong> comunicarLe che il Presidente della Repubblica ha concesso l’Alto Patronato al 2°<br />

Forum della Solidarietà Lucchese nel Mondo sul tema “L’altro visto con i suoi occhi”. Formulo i migliori<br />

auguri per il successo dell’iniziativa, con cor<strong>di</strong>ale animo”.<br />

Credo che questo riconoscimento sia motivo <strong>di</strong> sod<strong>di</strong>sfazione.<br />

Ringrazio la Scuola per la Pace, il suo coor<strong>di</strong>natore Aldo Zanchetta per il lavoro che ha fatto e sta<br />

facendo, tutte le autorità presenti, il Vescovo Italo Castellani, i sindaci presenti. Una delle novità più<br />

importanti <strong>di</strong> questo Forum è proprio un maggior coinvolgimento dei comuni, del territorio e delle scuole.<br />

Ringrazio con un abbraccio tutti, perché la presenza delle amministrazioni comunali significa che stiamo<br />

acquisendo una sensibilità significativa ed importante verso le associazioni che sviluppano questo tipo <strong>di</strong><br />

attività.<br />

Come potete vedere, il programma del Forum è molto nutrito, molto ricco. Sono molto contento che<br />

le sale <strong>di</strong> questo palazzo si aprano al mondo. Dopo il 1° Forum ci eravamo posti l’obiettivo <strong>di</strong> continuare,<br />

perché abbiamo capito che è stato un’intuizione felice; è molto importante dare la parola, anche in una forma<br />

<strong>di</strong> autogestione, alle associazioni che hanno sviluppato iniziative a livello internazionale in Africa, Asia,<br />

America Latina, laddove si vive in maniera drammatica la realtà profonda dell’ingiustizia, del dolore e della<br />

solitu<strong>di</strong>ne. Uno degli obiettivi del Forum è quello <strong>di</strong> aprire le istituzioni locali al mondo della solidarietà<br />

internazionale, dare un segnale <strong>di</strong> <strong>di</strong>gnità istituzionale, far capire alle istituzioni l’importanza del lavoro delle<br />

associazioni. L’opera delle organizzazioni <strong>di</strong> volontariato deve attraversare anche le istituzioni e le<br />

responsabilità <strong>di</strong> chi ha ruoli <strong>di</strong> governo sul territorio e non solo.<br />

Le istituzioni dovrebbero aprirsi verso il mondo globale, soprattutto oggi, un periodo storico in cui la<br />

situazione internazionale ci pone <strong>di</strong> fronte ad enormi contrad<strong>di</strong>zioni. Oltre alle parole <strong>di</strong> denuncia delle<br />

ingiustizie, oltre a <strong>di</strong>re che forse un altro mondo è possibile, esistono dei luoghi dove questo altro mondo è<br />

già realizzato? Lo mettiamo in circuito questo mondo? Per questo suo respiro globale, sarebbe riduttivo<br />

considerare il Forum della solidarietà come semplice luogo d’incontro dell’attività del volontariato lucchese.<br />

Oggi qui con noi ci sono i rappresentanti <strong>di</strong> oltre trenta associazioni che vengono da tutto il mondo,<br />

associazioni ra<strong>di</strong>cate in esperienze concrete, che portano testimonianze e valori non enunciati ma vissuti<br />

quoti<strong>di</strong>anamente. Spesso queste scelte <strong>di</strong> vita coinvolgono tantissimi giovani e non. Pensiamo cosa può voler<br />

<strong>di</strong>re per una comunità come la nostra mettere in circuito questi vissuti, cosa può voler <strong>di</strong>re nel mondo <strong>di</strong> oggi<br />

mettere in comunicazione una comunità locale ricca <strong>di</strong> queste esperienze con altre comunità che vivono in<br />

altre parti del mondo.<br />

5


Nei due anni che sono intercorsi tra il 1° ed il 2° Forum, molto probabilmente non siamo sempre stati<br />

all’altezza. Abbiamo, alla fine del primo forum, assunto degli impegni, abbiamo cercato <strong>di</strong> portarli avanti e<br />

non sempre ci siamo riusciti, però il fatto che oggi voi siete qui testimonia che si può migliorare, che questo<br />

impegno va nuovamente ripreso, che questo patto va nuovamente rilanciato e che noi dobbiamo fino in fondo<br />

cercare <strong>di</strong> superare i limiti e i problemi legati alle risorse che dobbiamo mettere a <strong>di</strong>sposizione anche per<br />

progetti <strong>di</strong> questo tipo. Abbiamo la fortuna <strong>di</strong> vivere in una regione che ha creduto e crede molto in un’idea<br />

avanzata <strong>di</strong> cooperazione internazionale.<br />

L’altra cosa che vorrei <strong>di</strong>re è che trovo particolarmente bello, importante e significativo che questo<br />

secondo forum si concluda il 25 aprile, una data certo non casuale. Sono dell’idea che sia fondamentale<br />

educare i giovani all’idea <strong>di</strong> libertà anche per il nostro paese e per le nostre comunità. In questi giorni si<br />

stanno svolgendo molte manifestazioni per ricordare il 60° anniversario della liberazione del nostro paese, e<br />

penso che il Forum rappresenti una manifestazione, atipica e non celebrativa, per comunicare che questa<br />

nostra comunità crede fortemente nei valori della libertà, in quei principi contenuti anche nella nostra<br />

costituzione che rimotivano un patto <strong>di</strong> libertà e solidarietà fra i popoli. Il <strong>di</strong>alogo sta alla base <strong>di</strong> questo<br />

processo, <strong>di</strong>alogo, che non significa rinuncia alla propria cultura, ma acquisizione <strong>di</strong> una serenità interiore<br />

che ci aiuti a confrontarci con gli altri, per scambiare esperienze. A questo proposito credo che sia molto<br />

bello e importante che si coinvolgano i giovani e le scuole. Che questo Forum non sia una semplice serie <strong>di</strong><br />

conferenze in cui ci si limita a semplici enunciazioni verbali: i giovani devono infatti essere messi in<br />

con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> riflettere e <strong>di</strong> legare i valori nati dalla liberazione con quelli della solidarietà internazionale.<br />

Grazie e buon lavoro a tutti.<br />

6


Italo Castellani<br />

Arcivescovo della Diocesi <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong><br />

Mentre saluto tutti con molto affetto, grato dell’accoglienza del Presidente Tagliasacchi, vorrei<br />

rappresentare, per quello che mi è possibile, tutti gli uomini <strong>di</strong> speranza che, credenti e non credenti, <strong>di</strong> fatto<br />

vivono nel loro cuore questi gran<strong>di</strong> sentimenti e questi impegni reali e concreti <strong>di</strong> solidarietà. È la prima<br />

volta che partecipo a questa bella realtà, e ringrazio gli organizzatori ed i partecipanti. Mi ha colpito la<br />

grande varietà <strong>di</strong> persone presenti al Forum, noto che ci sono <strong>di</strong>verse realtà tra i promotori, e molti<br />

rappresentanti <strong>di</strong> organizzazioni popolari <strong>di</strong> base che, nei loro paesi, lottano per la <strong>di</strong>fesa della <strong>di</strong>gnità delle<br />

persone, per il <strong>di</strong>ritto all’autonomia delle proprie comunità, per il riconoscimento dei <strong>di</strong>ritti umani, che sono<br />

impegnati su fronti decisivi per la vita delle popolazioni che vanno dalla “non privatizzazione e<br />

ripubblicizzazione” dell’acqua o <strong>di</strong> altri servizi, alla liberazione dei prigionieri politici. Non posso far altro<br />

che ringraziare tutte quelle organizzazioni che quoti<strong>di</strong>anamente portano la loro testimonianza <strong>di</strong> giustizia,<br />

rischiando anche la vita.<br />

Cito Giovanni Paolo II, il quale nella prima sua lettera pastorale <strong>di</strong> ventisette anni fa, Redemptor<br />

Hominis, Cristo redentore degli uomini, definisce la persona in un modo semplice ma estremamente efficace,<br />

come “una, unica e irripetibile”: prendendo spunto da questo assunto possiamo <strong>di</strong>re che non solo ogni<br />

persona ma anche che ogni cultura è una, unica e irrepetibile nelle sue peculiarità. Ecco perché ritengo che<br />

siano fondamentali questi “incontri tra <strong>di</strong>gnità” e tra “pari irripetibilità” che propone il Forum.<br />

Mi viene spontaneo approfon<strong>di</strong>re questa irripetibilità della persona e <strong>di</strong> ogni cultura, razza e così via<br />

citando un’espressione della scrittura: “ognuno ha un dono per il bene <strong>di</strong> tutti”. Ciò significa che ogni<br />

persona ha un dono irripetibile per il bene <strong>di</strong> tutti, ma anche che ogni cultura ha un dono irripetibile per tutta<br />

l’umanità. Credo che questo convegno possa far incontrare i doni irripetibili <strong>di</strong> ciascuno, valorizzandoli ed<br />

arricchendo la <strong>di</strong>gnità <strong>di</strong> tutti. Ecco perchè il forum è un luogo importante per l’incontro tra la solidarietà<br />

lucchese ed i rappresentanti <strong>di</strong> altre culture e <strong>di</strong> altre realtà sociali.<br />

Vorrei inoltre richiamare, non per enfasi, il contributo che ha offerto e che offre la Chiesa lucchese al<br />

mondo della solidarietà internazionale. Quando parlo della Chiesa lucchese, vedo i volti <strong>di</strong> ogni uomo <strong>di</strong><br />

buona volontà, portatore <strong>di</strong> fede cristiana o comunque <strong>di</strong> un senso religioso che lo motiva nelle proprie scelte<br />

solidali. Un giornalista poc’anzi mi <strong>di</strong>ceva: “la Chiesa e il cristianesimo hanno dato un grande contributo<br />

perché si sviluppasse il senso della solidarietà tra gli uomini”. Questo è innegabile, è un dato storico che<br />

ovviamente non ci deve far “cullare sugli allori”, ma che ci deve impegnare maggiormente per non tra<strong>di</strong>re le<br />

nostre ra<strong>di</strong>ci.<br />

Permettetemi <strong>di</strong> fare una precisazione. In questo Forum parliamo <strong>di</strong> solidarietà, e siamo davvero tutti<br />

impegnati su questo fronte, ma da cristiani parliamo <strong>di</strong> “carità”: qual è la <strong>di</strong>fferenza? Cerco <strong>di</strong> spiegarlo con<br />

un esempio semplice: solidale è colui che ha due paia <strong>di</strong> scarpe, vede uno che è senza scarpe e <strong>di</strong>ce: “dono a<br />

questa persona un paio <strong>di</strong> scarpe”. Colui che da cristiano vive la carità, l’amore secondo Cristo, pur avendo<br />

un solo paio <strong>di</strong> scarpe <strong>di</strong>ce “ecco il mio paio <strong>di</strong> scarpe, pren<strong>di</strong>tele tu”. Questo naturalmente ci carica <strong>di</strong><br />

ulteriori responsabilità sia personali che <strong>di</strong> testimonianza.<br />

Voglio augurarmi che la partecipazione della Chiesa <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong>, dei cristiani <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong> - in<br />

collaborazione con ogni uomo <strong>di</strong> buona volontà - possa essere un contributo in opere, in azioni <strong>di</strong> fatto, e<br />

possa soprattutto garantire e donare un’anima alla solidarietà.<br />

Concludo <strong>di</strong>cendo che la Diocesi <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong> opera particolarmente in questo settore della solidarietà<br />

attraverso l’Ufficio per la Cooperazione Missionaria tra le Chiese, che sta offrendo un servizio <strong>di</strong><br />

informazione, formazione, progettazione ed interventi nelle varie realtà del mondo dove è presente. Vorrei<br />

inoltre ricordare brevemente, come segno <strong>di</strong> gratitu<strong>di</strong>ne a tutti coloro che - come credenti della chiesa <strong>di</strong><br />

<strong>Lucca</strong> - sono impegnati nelle varie realtà missionarie. Ho già citato il nostro Fratel Arturo Paoli, che è da<br />

oltre trent’anni in Brasile…un vero e proprio ragazzo <strong>di</strong> oltre novant’anni, un uomo che sta dando il meglio<br />

<strong>di</strong> sé, un testimone del nostro tempo, una ricchezza per la nostra comunità. Paolo VI <strong>di</strong>ceva che “noi non<br />

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abbiamo bisogno <strong>di</strong> maestri, ma abbiamo bisogno <strong>di</strong> testimoni”; credo che sia proprio questa la<br />

testimonianza che ci porta Fratel Arturo Paoli. Ci daranno inoltre i loro contributi il vescovo <strong>di</strong> Rio Branco in<br />

Brasile, Monsignor Joaquin Pertinez Fernandez, che ha accolto da anni sia i nostri preti lucchesi che un laico<br />

che lavora nella sua <strong>di</strong>ocesi, e Johanny Koanda un rappresentante del Vicario Generale della Diocesi <strong>di</strong> Kaya<br />

in Burkina Faso. Li ho già incontrati e li ringrazio. Sono presenti anche quattro laici che lavorano in una<br />

missione in Burkina Faso, offrendo il loro servizio in quella realtà. Infine per l’associazione “Amici del<br />

Perù” è presente un rappresentante laico che a nome <strong>di</strong> tutti noi lavora in Perù.<br />

Questi sono piccoli richiami <strong>di</strong> gratitu<strong>di</strong>ne a coloro che ci rappresentano in queste terre, donando la<br />

loro vita a servizio del Vangelo e della promozione umana.<br />

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Maria Eletta Martini<br />

Presidente del Centro Nazionale per il Volontariato<br />

Molti <strong>di</strong> noi ricordano il 1° Forum della Solidarietà <strong>di</strong> due anni fa, che permise un incontro tra<br />

lucchesi impegnati in azioni <strong>di</strong> solidarietà, in<strong>di</strong>geni e personalità <strong>di</strong> ONG del sud del mondo. Ci lasciammo<br />

con un arrivederci al successivo Forum.<br />

Questo secondo Forum è stato preparato da una ininterrotta serie <strong>di</strong> incontri organizzati dalla Scuola<br />

per la Pace coor<strong>di</strong>nata da Aldo Zanchetta. Questa preparazione ha arricchito la volontà <strong>di</strong> riflessione, e <strong>di</strong><br />

azione <strong>di</strong> tutti noi. Vorrei sottolineare che queste iniziative hanno avuto una importanza fondamentale, non<br />

solo perché in questi anni abbiamo riscoperto gli orrori <strong>di</strong> una guerra preventiva, nonostante gli appelli<br />

accorati <strong>di</strong> Giovanni Paolo II. La pace inizia dalle famiglie, dagli ambienti <strong>di</strong> vita e <strong>di</strong> lavoro, dai <strong>di</strong>versi che<br />

sono presenti nelle nostre città e nei nostri paesi. E’ chiaro quin<strong>di</strong> che la pace si costruisce dal basso, tra<br />

persone <strong>di</strong>verse. Tutto questo <strong>di</strong> fronte ad una globalizzazione economica che con le sue regole non accetta<br />

<strong>di</strong> recepire i principi della solidarietà. E’ un atto il nostro che deve partire dal basso ed incrociarsi con le<br />

istituzioni, stimolate e contestate dai citta<strong>di</strong>ni.<br />

La fase preparatoria del Forum si è svolta in un clima <strong>di</strong> collaborazione tra culture e storie <strong>di</strong>verse.<br />

Quest’incontro allora <strong>di</strong>venta un’occasione privilegiata per la crescita spirituale e culturale <strong>di</strong> tutti noi.<br />

L’azione solidale <strong>di</strong> questi atteggiamenti è <strong>di</strong> un’importanza primaria e riesce ad essere incisiva solo se<br />

partecipata. Il Forum deve creare un clima <strong>di</strong> collaborazione orizzontale che coinvolga le persone in<br />

con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> <strong>di</strong>fficoltà, i più giovani, che hanno imparato a scuola, nel rapporto con gli altri, a superare le<br />

barriere dei pregiu<strong>di</strong>zi.<br />

Credo che la parte principale <strong>di</strong> questo secondo forum sia la voce dei volontari, anche <strong>di</strong> quelli che<br />

agiscono nella nostra zona, vecchia “roccaforte” del volontariato. Il volontariato deve assumere una<br />

<strong>di</strong>mensione più culturale, più razionale, deve assumere scelte sociali e politiche, che non significa partitiche.<br />

Le scelte politiche ci permettono <strong>di</strong> determinare come vorremmo il nostro paese e la nostra città.<br />

Con l’autorevole invito <strong>di</strong> Monsignor Nervo costituimmo più <strong>di</strong> venti anni fa il Centro Nazionale per il<br />

Volontariato, dove potemmo unire esperienze e storie <strong>di</strong>verse.<br />

Il 2° Forum è caratterizzato non solo da un incontro alla pari con le culture altre, ma anche e<br />

soprattutto dal tentativo <strong>di</strong> mettersi dalla parte dell’altro. Certo, non è facile, perché ciò implica un<br />

ripensamento che va dal personale, al culturale, al collettivo. Per questo motivo sono dell’idea che il<br />

superamento dei conflitti può essere realizzato solo attraverso la solidarietà ed il <strong>di</strong>alogo; non esistono solo<br />

conflitti armati, ma anche conflitti tra popoli, culture ed etnie. E’ necessario che l’atteggiamento<br />

prevalentemente economicistico lasci il passo ad in<strong>di</strong>cazioni che provengano dalla sensibilità umana, dalle<br />

persone.<br />

Stiamo vivendo oggi in Italia un momento molto <strong>di</strong>fficile per le associazioni <strong>di</strong> volontariato: la solidarietà sta<br />

infatti cedendo il passo alle esigenze economiche e sociali. Penso che confrontare la nostra situazione con<br />

quella <strong>di</strong> altre associazioni ed organizzazioni non possa che far bene al movimento lucchese.<br />

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Aldo Zanchetta<br />

Coor<strong>di</strong>natore della Scuola per la Pace della <strong>Provincia</strong> <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong><br />

Dal 1° al 2° Forum della Solidarietà lucchese nel Mondo<br />

Signore e signori qui presenti benvenuti al nostro Forum, benvenuti a questo incontro <strong>di</strong> <strong>di</strong>gnità.<br />

Dignità è la parola che ho sentito usare con frequenza nei vari incontri cui ho partecipato negli ultimi<br />

mesi in America latina. Mio compito è ricordare il significato <strong>di</strong> questo Forum, i suoi obbiettivi, le modalità<br />

per un positivo svolgimento.<br />

Dispongo <strong>di</strong> 15 minuti per farlo: pochi per tutte le cose che vorrei <strong>di</strong>re ma, come <strong>di</strong>ceva Gandhi,<br />

riferendosi però ai beni materiali, “poco è sufficiente”. Mi scuserete però se in alcuni punti dovrò essere<br />

telegrafico rinviando l’approfon<strong>di</strong>mento <strong>di</strong> alcune affermazioni alle <strong>di</strong>scussioni <strong>di</strong> questi giorni.<br />

Vorrei iniziare col ringraziare tutti coloro che hanno collaborato alla preparazione <strong>di</strong> questo secondo<br />

Forum:<br />

- le associazioni che per vari mesi hanno lavorato per definirne i contenuti e gli obiettivi. Questo forum<br />

infatti, come già il primo, è cresciuto dal basso e non ha mai inteso effettuare esclusioni verso nessuna<br />

organizzazione che ne avesse titolo, come qualcuno ha pensato;<br />

- il gruppo <strong>di</strong> lavoro ristretto da queste espresso;<br />

- la staff tutto dell’Assessorato alle Politiche Sociali e la sua Dirigente Rossana Sebastiani;<br />

- quanti altri in modo vario hanno collaborato e che sarebbe lungo elencare.<br />

Consentitemi però <strong>di</strong> formulare ancora alcuni saluti specifici:<br />

- ai cari amici lucchesi che in varie parti del mondo, dal Burkina Faso al Perù, al Brasile e altrove stanno<br />

vivendo concretamente in situazioni e mo<strong>di</strong> <strong>di</strong>versi la loro pratica della solidarietà. Essi sono idealmente<br />

presenti e alcuni <strong>di</strong> loro hanno voluto scrivermi in questi giorni per ricordare la loro vicinanza a questo<br />

evento;<br />

- gli ospiti stranieri tutti e particolarmente coloro che provengono dalle realtà quoti<strong>di</strong>ane più <strong>di</strong>fficili. Non<br />

è facile fare una scelta ma permettetemi <strong>di</strong> ricordarne alcuni in particolare. John Jairo e Willinton che<br />

portano la voce delle coraggiose e martoriate Comunità <strong>di</strong> pace che - nel conflitto cinquantennale che<br />

insanguina la Colombia e sul quale i nostri me<strong>di</strong>a tacciono accuratamente - tentano <strong>di</strong> tracciare una via<br />

<strong>di</strong> uscita non violenta e degna. Nursel Aydogan che porta la voce del più numeroso fra i popoli della<br />

terra privi del <strong>di</strong>ritto ad un proprio stato: i 40 milioni <strong>di</strong> kur<strong>di</strong> <strong>di</strong>visi fra 4 paesi o <strong>di</strong>spersi nel mondo in<br />

una gigantesca <strong>di</strong>aspora. Ci parlerà delle loro in<strong>di</strong>cibili sofferenze, ricordate dal video proiettato pochi<br />

minuti fa. I rappresentanti degli zapatisti del Chiapas che con coraggio hanno riaperto il 1° gennaio del<br />

1994 le vie della speranza con il loro no al pensiero unico che si pretendeva come fine della storia.<br />

Devo con dolore ricordare un’assenza forzata segno dell’apartheid che viviamo. Mi riferisco a Maria<br />

Pomazunco, la rappresentante dei familiari dei prigionieri politici del Perù che avrebbe qui rappresentato<br />

idealmente tutti i prigionieri politici del mondo con il loro durissimo calvario, dalla Turchia alla Palestina<br />

agli altri 100 luoghi ove il <strong>di</strong>ssenso politico viene criminalizzato come terrorismo.<br />

Consentitemi anche un breve riferimento, data la presenza <strong>di</strong> Julio Portieles, alla recente condanna <strong>di</strong><br />

Cuba all’annuale sessione della commissione Diritti Umani, nella quale invece si è <strong>di</strong>menticato <strong>di</strong> occuparsi<br />

<strong>di</strong> altri paesi vicini e lontani e con colpe ben più gravi.<br />

E vengo ora al programma e al significato del II° Forum.<br />

In una epoca in cui si tende a valorizzare l’effimero, mi sembra importante ricordare l’esortazione <strong>di</strong> Gandhi<br />

a tutti i promotori <strong>di</strong> lotte per la <strong>di</strong>gnità delle persone e dei popoli e che suona più o meno così: quando<br />

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convocate delle persone ad un evento <strong>di</strong> lotta rifuggite dalla retorica e curate che quanto state facendo<br />

costituisca un passo avanti concreto verso gli obiettivi che vi siete proposti.<br />

E il nostro è un evento <strong>di</strong> lotta, anzi un atto rivoluzionario, come <strong>di</strong>ceva Emmanuel Mounier, filosofo<br />

a me caro <strong>di</strong> cui ricorre il centenario della nascita: “Affermare a viso aperto la nostra rottura col <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne<br />

stabilito. Il primo passo sta nel prendere coscienza del <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne. Ma una presa <strong>di</strong> coscienza che non<br />

conduca ad una presa <strong>di</strong> posizione, ad un cambiamento <strong>di</strong> vita e non solamente <strong>di</strong> pensiero, sarebbe un<br />

nuovo tra<strong>di</strong>mento sulla scia passata <strong>di</strong> tutti i tra<strong>di</strong>menti… …dovete rifiutarvi <strong>di</strong> sottomettervi ad un mondo<br />

così ben costruito da sembrare un mondo normale. Ciò vuol <strong>di</strong>re che dovete sottrarvi a tutti gli uomini<br />

normali che incontrerete oggi, a tutte le proposte normali che essi vi faranno, a tutti i sorrisi normali con cui<br />

essi accoglieranno le vostre prime proteste……è impossibile essere persone senza essere<br />

rivoluzionari……un cambiamento ra<strong>di</strong>cale si è sempre chiamato rivoluzione. Se si ha paura della parola<br />

temo che si abbia paura della cosa.”.<br />

Un evento <strong>di</strong> lotta culturale forse è una premessa in<strong>di</strong>spensabile <strong>di</strong> ogni altra rivoluzione, e quella <strong>di</strong><br />

un vero ascolto dell’altro, <strong>di</strong> tutti gli altri, può essere un obiettivo concreto <strong>di</strong> cambiamento in questi tre<br />

giorni. Noi dobbiamo batterci contro le politiche <strong>di</strong> <strong>di</strong>struzione del nostro pianeta (la questione ecologica è<br />

oggi centrale), contro la <strong>di</strong>struzione delle culture praticata dalla tentazione attuale <strong>di</strong> un pensiero unico,<br />

contro certi mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> fare cooperazione e solidarietà, paternalistici o assistenzialistici, vissuti spesso - citando<br />

un’espressione usata da Adriano Zamperini in questa sala - “come Prozac per una cattiva coscienza.”<br />

Questo Forum non deve essere letto come un episo<strong>di</strong>o isolato, e non solo perché viene dopo il I°<br />

Forum, esprimendo così una intenzione <strong>di</strong> continuità dell’Amministrazione Tagliasacchi e che speriamo<br />

verrà ripresa dai suoi successori, ma perché si iscrive in un percorso più ampio che la Scuola per la Pace sta<br />

proponendo ai suoi frequentatori abituali o occasionali. Da ormai tre anni stiamo “camminando<br />

interrogandoci”, come <strong>di</strong>cono i nostri amici zapatisti, accompagnati dalle stimolazioni <strong>di</strong> personaggi fra i<br />

più acuti del pensiero contemporaneo non allineato al potere dominante.<br />

Ricordo in primo luogo Ivan Illich, il cui pensiero “impertinente” ha sedotto alcuni <strong>di</strong> noi e sta<br />

alimentando la riflessione <strong>di</strong> un silenzioso, per ora, gruppo <strong>di</strong> lavoro nato all’interno del Centro Interculturale<br />

a lui de<strong>di</strong>cato. Un gruppo dal nome enigmatico per i più: i “granchi <strong>di</strong> Kuchenbuk”.<br />

Ricordo poi i molti stu<strong>di</strong>osi italiani <strong>di</strong> varie <strong>di</strong>scipline, dal <strong>di</strong>ritto alla psicologia alla scienza, come<br />

Raniero La Valle, Achille Rossi, Adriano Zamperini, Bruno Amoroso, Umberto Allegretti, Marcello Buiatti,<br />

Rodrigo Rivas, Manlio Dinucci e tanti altri ancora, per finire con Roberto Mancini e Franco Cassano, che<br />

hanno animato il percorso della Scuola per la Pace. Ricordo pure i numerosi pensatori o testimoni stranieri<br />

come Majid Rahnema, Wolfgang Sachs, Mons. Samuel Ruiz, Frei Betto, Eduardo Galeano e altri che hanno<br />

arricchito la nostra riflessione.<br />

Con loro abbiamo cercato <strong>di</strong> dare contenuto specifico a parole abusate e quin<strong>di</strong> svuotate <strong>di</strong> reale<br />

significato come Pace, Giustizia, Solidarietà, Globalizzazione, Progresso, Sviluppo. Illich parlava <strong>di</strong> parole<br />

“ameba” o “plastilina”, manipolabili a piacere, buone per ogni contesto ma lontane dal loro profondo<br />

significato. Esse richiedono <strong>di</strong> essere storicizzate e contestualizzate nella realtà cui apparteniamo, nei posti<br />

dove viviamo. E il loro sapore e contenuto variano se siamo in una favela <strong>di</strong> Korogocho, come il buon Alex<br />

Zanotelli ci ricorda, o sulle innevate montagne del Kur<strong>di</strong>stan del Nord <strong>di</strong>sseminate <strong>di</strong> mine, profondamente<br />

ferite dai quasi 4.000 villaggi bruciati, dove 15.000 uomini e donne resistenti aspettano da ormai 6 anni una<br />

risposta alle concrete offerte <strong>di</strong> pace del loro leader Ocalan, sulla cui cattura e dura prigionia anche l’Italia ha<br />

dato il suo amaro contributo. Qualcuno si stupirà <strong>di</strong> questo mio riferimento ad un “terrorista” ma vorrei<br />

ricordare che il processo che lo ha condannato a morte è stato giu<strong>di</strong>cato illegittimo nello svolgimento dalla<br />

stessa Corte Europea <strong>di</strong> Strasburgo. E “terroristi” a suo tempo furono molti artefici del Risorgimento. Vorrei<br />

inoltre ricordare che Ocalan è il leader, riconosciuto e amato, <strong>di</strong> un popolo in guerra per i propri <strong>di</strong>ritti.<br />

E consentitemi un cenno alla recente presenza - per il secondo anno - <strong>di</strong> una piccola delegazione<br />

lucchese al Newroz, la festa kurda della primavera; un momento unico in cui, sotto determinate e rigide<br />

con<strong>di</strong>zioni, è concesso a questo popolo <strong>di</strong> esprimere la propria identità.<br />

11


Ma in questo percorso più ampio che ho prima ricordato, il Forum occupa un momento preciso. Esso<br />

si rivolge – il titolo stesso <strong>di</strong> Forum della solidarietà lucchese nel mondo lo <strong>di</strong>ce – a quanti nella nostra terra<br />

con forme <strong>di</strong>verse praticano gesti <strong>di</strong> solidarietà, siano essi sotto forma organizzata e continuativa all’interno<br />

<strong>di</strong> associazioni o gruppi <strong>di</strong> volontariato oppure atti in<strong>di</strong>viduali abituali o occasionali, dal semplice acquisto<br />

dei prodotti del commercio equo all’obolo in occasione dello tsunami. Un mondo vasto, <strong>di</strong>fferenziato, talora<br />

confuso e contrad<strong>di</strong>ttorio.<br />

E lo fa affrontando un tema specifico: come rapportarsi con “l’altro”, questo talora immaginario e<br />

lontano “oggetto” del nostro “buon cuore”? E’ esso un oggetto oppure un soggetto responsabile da assumere<br />

come compagno <strong>di</strong> strada verso un mondo più giusto? Da qui il titolo “L’altro visto con i suoi occhi: un<br />

incontro <strong>di</strong> <strong>di</strong>gnità”. Ieri sera a Capannori Adolfo Perez Esquivel e Aldo Gonzales ricordavano come il<br />

mondo ricco decida autonomamente quali siano i bisogni degli altri e imponga le forme della loro soluzione<br />

senza interpellare gli interessati. A giorni uscirà l’e<strong>di</strong>zione italiana del libro <strong>di</strong> Majid Rahnema - questo sufi<br />

iraniano grande amico <strong>di</strong> Illich, che qui ha tenuto pochi mesi fa un incontro magistrale - dal titolo “Quando<br />

la miseria <strong>di</strong>venta povertà”. Un atto <strong>di</strong> accusa preciso, ragionato, documentato, delle politiche delle gran<strong>di</strong><br />

istituzioni multilaterali e dei governi dei paesi ricchi, volte, come lui <strong>di</strong>ce, non a sra<strong>di</strong>care la povertà ma a<br />

sra<strong>di</strong>care i poveri.<br />

Noi abbiamo qui presenti in<strong>di</strong>geni provenienti dall’Africa e dall’America Latina. Riferendosi<br />

all’atteggiamento storico dei conquistatori europei verso gli in<strong>di</strong>geni del Nuovo Mondo (ma non solo ad essi)<br />

Carlos Montemayor scrive: “Durante 500 anni ricercatori messicani o stranieri hanno raccontato ciò che<br />

gli in<strong>di</strong>geni sono, cosa pensano, come si comportano, in cosa credono. Ora sono sorti scrittori in<strong>di</strong>geni che,<br />

nelle loro proprie lingue, parlano <strong>di</strong> se stessi e da se stessi. Dopo 500 anni è la prima occasione che<br />

abbiamo per ascoltare questo Messico rimasto in silenzio……il loro risveglio letterario non è qualcosa <strong>di</strong><br />

isolato ma è parte <strong>di</strong> un risveglio politico….ora che essi hanno iniziato a parlare è bene ascoltarli prima <strong>di</strong><br />

intraprendere altre azioni.”<br />

E questo atteggiamento <strong>di</strong> ascolto vale non solo per gli in<strong>di</strong>geni latinoamericani ma per tutte le<br />

culture che resistono alla <strong>di</strong>struzione sistematica praticata dal cosiddetto pensiero unico, cioè dal nostro<br />

attuale modello <strong>di</strong> visione del mondo, che Raniero La Valle nel suo ultimo, breve e densissimo libro ha<br />

sintetizzato con tre parole: “produrre, appropriarsi, dominare”, concetti che sono all’origine <strong>di</strong> un apartheid<br />

globale che occultiamo con la manipolazione della parola globalizzazione.<br />

Il tempo incalza e non mi <strong>di</strong>lungo oltre su temi che saranno affrontati nei giorni seguenti.<br />

Domani pomeriggio sul tema della ricchezza delle culture e delle con<strong>di</strong>zioni per un <strong>di</strong>alogo veritiero<br />

e rispettoso con esse, compartiranno con noi la loro riflessione Franco Cassano e Roberto Mancini mentre ci<br />

porteranno preziose testimonianze delle proprie culture Aldo Gonzales e Jean Leonard Touadì.<br />

Domenica mattina le associazioni entreranno insieme ai rappresentanti dei loro partner al centro del<br />

<strong>di</strong>battito “Solidarietà: quale e come?” con la sollecitazione iniziale dell’amico Giulio Marcon sul tema “La<br />

cooperazione oggi: fra responsabilità e ambiguità”. Perché al centro? Perché oggi la cooperazione e la<br />

solidarietà rischiano <strong>di</strong> essere collaterali al sistema che <strong>di</strong>cono <strong>di</strong> voler combattere e <strong>di</strong> essere cooptate in<br />

politiche neocolonialiste. E’ una affermazione forte, che sarà sviscerata nel <strong>di</strong>battito al quale rinvio.<br />

Permettetemi, per illustrare meglio la mia affermazione, <strong>di</strong> citare un esempio: a conferma che<br />

qualcosa non va nelle politiche <strong>di</strong> cooperazione, cito l’accurata relazione fatta da Andrea Stocchiero in<br />

occasione della penultima Conferenza Regionale sulla Cooperazione, nella quale venivano analizzate le<br />

politiche <strong>di</strong> settore delle varie Regioni italiane. Pur nelle loro <strong>di</strong>fferenze legate alle <strong>di</strong>verse colorazioni<br />

politiche, una caratteristica comune, rileva il ricercatore, é però presente: l’assenza, nella definizione dei<br />

progetti, <strong>di</strong> <strong>di</strong>alogo coi destinatari finali.<br />

Forse a qualcuno non piacerà che la mia relazione non sia asettica e metta il <strong>di</strong>to in qualche piaga.<br />

Ma se vogliamo che il Forum sia l’occasione per fare dei passi avanti nella nostra riflessione e nella nostra<br />

prassi, i problemi vanno in<strong>di</strong>viduati e posti sul tappeto con chiarezza per misurarsi con essi. Consentitemi,<br />

12


per farlo, <strong>di</strong> usare le parole della grande scrittrice in<strong>di</strong>ana Arundhaty Roy che considero una delle menti più<br />

acute e meno inquadrate in schemi precostituiti del movimento mon<strong>di</strong>ale <strong>di</strong> resistenza al neoliberismo.<br />

Essa scrive: “La maggior parte delle ONG sono finanziate e patrocinate dagli organismi <strong>di</strong> aiuto allo<br />

sviluppo, i quali a loro volta ricevono i fon<strong>di</strong> dai governi occidentali, dalla Banca mon<strong>di</strong>ale, dalle Nazioni<br />

Unite e da alcune multinazionali. Anche se non si può fare <strong>di</strong> ogni erba un fascio, tutti questi organismi<br />

fanno indubbiamente parte <strong>di</strong> uno stesso contesto politico, dai contorni indefiniti, che presiede al progetto<br />

neoliberista……Cos'è che induce questi organismi a finanziare le OnG? E' possibile che siano mossi solo da<br />

zelo missionario vecchia maniera? O magari da sensi <strong>di</strong> colpa? Qualche altro motivo indubbiamente c'è.<br />

Le OnG danno l'impressione <strong>di</strong> colmare il vuoto lasciato da uno stato in via <strong>di</strong> smantellamento, e in qualche<br />

misura lo fanno, ma non certo in modo coerente. In realtà servono a <strong>di</strong>sinnescare la protesta politica,<br />

<strong>di</strong>stribuendo col contagocce, sotto forma <strong>di</strong> aiuti o <strong>di</strong> azioni <strong>di</strong> volontariato, ciò che normalmente dovrebbe<br />

spettare per <strong>di</strong>ritto ai citta<strong>di</strong>ni. (“I <strong>di</strong>ritti umani per i poveri, la giustizia per i ricchi”).<br />

In questo modo le OnG influiscono spesso sulla popolazione a livello psicologico, creando una con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong><br />

vittimismo e <strong>di</strong> <strong>di</strong>pendenza e smussando gli angoli della resistenza politica: in altri termini, fanno da<br />

ammortizzatore tra lo stato e la popolazione. O tra l'Impero e i suoi sud<strong>di</strong>ti. Svolgono un ruolo <strong>di</strong> arbitri, o<br />

anche <strong>di</strong> interpreti e <strong>di</strong> interme<strong>di</strong>ari.<br />

A lungo termine, le OnG devono rispondere ai donatori, non alla popolazione per la quale lavorano. Sono<br />

ciò che i botanici definiscono una “specie spia”: si <strong>di</strong>rebbe che la loro crescita sia <strong>di</strong>rettamente<br />

proporzionale alle devastazioni causate dal neoliberismo.<br />

Questo fenomeno emerge in maniera particolarmente drammatica nelle situazioni <strong>di</strong> guerra: ad esempio gli<br />

Stati Uniti che si preparano a invadere un paese, e sfornano simultaneamente le OnG che accorrono sul<br />

posto per ripulirlo dalle macerie. Preoccupate <strong>di</strong> garantire la continuità dei loro finanziamenti e <strong>di</strong> evitare<br />

contrasti con i governi dei paesi nei quali operano, le OnG devono presentare un basso profilo, più o meno<br />

neutro rispetto al contesto politico e storico. Soprattutto quando è scomodo. Le descrizioni apolitiche (e in<br />

quanto tali più che mai <strong>di</strong> parte) delle aree più povere e delle zone <strong>di</strong> guerra finiscono per presentare gli<br />

abitanti (neri) <strong>di</strong> quei paesi come vittime patologiche. Ancora in<strong>di</strong>ani denutriti, ancora etiopi affamati,<br />

ancora campi profughi, ancora sudanesi mutilati... e tutti bisognosi dell'aiuto dell'uomo bianco.<br />

Così, involontariamente, le OnG contribuiscono a rafforzare gli stereotipi razzisti, riaffermando le<br />

conquiste, i vantaggi e la bontà (severa ma compassionevole) della civiltà occidentale. Sono i missionari<br />

laici del mondo moderno. In definitiva - su scala minore, ma più insi<strong>di</strong>osa - il capitale con cui vengono<br />

finanziate le OnG gioca nelle politiche alternative un ruolo molto simile a quello dei capitali speculativi che<br />

entrano ed escono dalle economie dei paesi più poveri. Per prima cosa, questi finanziamenti dettano l'or<strong>di</strong>ne<br />

del giorno…….La vera resistenza politica non offre scorciatoie del genere.”<br />

Domenica pomeriggio Fratel Arturo Paoli ci racconterà la sua luminosa e quarantennale presenza in<br />

America Latina. Al suo, seguiranno gli interventi dei nostri ospiti stranieri che ci porteranno la testimonianza<br />

delle loro sofferenze e delle loro speranze.<br />

Per questo alcuni rappresentanti delle nostre organizzazioni lucchesi hanno chiesto, Presidente<br />

Tagliasacchi, che tu sieda fra noi, come par inter pares, come citta<strong>di</strong>no eletto da altri citta<strong>di</strong>ni a servire e<br />

“comandare obbedendo” secondo una espressione efficace in uso fra i popoli in<strong>di</strong>geni del Messico. Sedere<br />

fra noi per parlare e per ascoltare: invito che faccio mio e che estendo a tutti quegli amministratori che sono<br />

qui presenti. Lo faccio a te, Presidente Tagliasacchi perché ti so capace <strong>di</strong> questo, a <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> molti,<br />

troppi uomini politici. Perché ti do atto <strong>di</strong> aver reso possibili nuove prospettive alla Scuola per la Pace ed<br />

avere rispettato sempre, anche quando non con<strong>di</strong>visa, la mia libertà <strong>di</strong> iniziativa. Questa compartecipazione<br />

arricchirebbe te e tutti noi e rafforzerebbe la iniziativa che tu hai voluto. Non posso però non rilevare come le<br />

acquisizioni intellettuali della Scuola siano rimaste estranee alla prassi della Giunta in particolare per le<br />

operazioni istituzionali <strong>di</strong> cooperazione. Non abbiamo inciso, e questa la considero come una mia sconfitta.<br />

Più in generale questo problema <strong>di</strong> percorsi apparentemente paralleli ma in realtà <strong>di</strong>vergenti è un<br />

problema che avverto anche a livello <strong>di</strong> politiche regionali, nazionali ed europee. Un tema lungo e complesso<br />

che affronteremo già domenica ma che approfon<strong>di</strong>remo nei prossimi mesi a fondo, come prosecuzione <strong>di</strong><br />

questo Forum, sperando <strong>di</strong> trovare su questo il consenso con il futuro Assessore Regionale alla<br />

Cooperazione, Massimo Toschi, che sarà fra poco qui presente.<br />

Ancora due considerazioni prima <strong>di</strong> chiudere.<br />

13


La prima: io credo che chi organizzerà il terzo forum dovrà porsi il superamento <strong>di</strong> una limitazione<br />

<strong>di</strong> cui mi faccio carico. Esso dovrà essere organizzato non solo col <strong>di</strong>alogo fra l’Amministrazione e le realtà<br />

locali ma col coinvolgimento, fin dall’inizio della preparazione e non solo durante lo svolgimento, delle<br />

associazioni del sud del mondo.<br />

La seconda: voglio compartire una sensazione per ora ancora non precisata: che la tematica della<br />

cooperazione sia una tematica in via <strong>di</strong> superamento e che vada sostituita sempre più da esigenze <strong>di</strong> giustizia<br />

globale che veda al suo posto una scelta <strong>di</strong> campo, fra chi è con il sistema oppressore e chi lotta per un<br />

mondo <strong>di</strong> mon<strong>di</strong> <strong>di</strong>versi e liberi, in <strong>di</strong>alogo fra loro.<br />

Provo a esprimere questo concetto con un esempio. In un recente incontro con i responsabili<br />

dell’educazione autonoma zapatista nel Caracol <strong>di</strong> Oventic, negli Altos del Chiapas, per dare l’avvio ad un<br />

importante progetto <strong>di</strong> strutture scolastiche elaborato da loro stessi con un percorso esemplare <strong>di</strong> <strong>di</strong>alogo con<br />

tutte le loro comunità coinvolte, ci è stata posta una domanda preliminare: “siete impegnati come noi in una<br />

trasformazione <strong>di</strong> fondo delle strutture ingiuste del mondo attuale e passato? Avete una visione della cultura<br />

come crescita personale e come servizio e non come acquisizione <strong>di</strong> potere e strumento <strong>di</strong> dominio?<br />

Con<strong>di</strong>videte - non qua ma dove vivete - le nostre lotte ed i nostri obbiettivi? Solo in questo caso noi siamo<br />

interessati al vostro aiuto finanziario e anche al vostro apporto culturale, perché si può fare una buona<br />

scuola sotto un albero della foresta e una cattiva scuola in un e<strong>di</strong>ficio ben curato”.<br />

Ho parlato anche troppo a lungo e non voglio rubare ancora tempo ad Adolfo Perez Esquivel che ho<br />

conosciuto in molti incontri <strong>di</strong> lotta per la <strong>di</strong>gnità in America Latina, apprezzandone le doti <strong>di</strong> modestia, <strong>di</strong><br />

serenità, <strong>di</strong> ampiezza <strong>di</strong> visioni. Ricordo, ma è superfluo, il suo Premio Nobel 1980 ottenuto in<br />

riconoscimento della sua resistenza contro la <strong>di</strong>ttatura dei militari argentini, <strong>di</strong>ttatura che i movimenti<br />

popolari pagarono con oltre 20.000 desaparecidos, ma se Adolfo me lo consente, prima <strong>di</strong> passare a lui la<br />

parola vorrei ricordare Enrico Calamai, allora giovane Console italiano a Buenos Aires, il quale, mentre la<br />

nostra ambasciata sbarrava le porte ai perseguitati, apriva quelle del consolato a rischio della propria vita. In<br />

riconoscimento della sua opera l’attuale Presidente argentino Kirchner gli ha concesso la più alta<br />

onorificenza del paese. Enrico avrebbe voluto essere qui oggi ma non è potuto essere presente per motivi <strong>di</strong><br />

salute.<br />

14


Adolfo Perez Esquivel<br />

Premio Nobel per la Pace 1980<br />

Pace, giustizia e nonviolenza: un altro mondo è possibile<br />

Dopo aver ascoltato la presentazione <strong>di</strong> tutte le organizzazioni <strong>di</strong> cooperazione internazionale<br />

presenti a <strong>Lucca</strong>, mi è venuta in mente la canzone <strong>di</strong> un cantante argentino, Fito Pais, nella quale si <strong>di</strong>ce che<br />

tutto è perduto, ma che è possibile che ognuno offra il suo cuore per migliorare la situazione. Sono dell’idea<br />

che questi esempi <strong>di</strong> solidarietà costituiscano un segno <strong>di</strong> speranza, un “dare il cuore” per una giusta causa.<br />

Prima <strong>di</strong> venire in Italia ho partecipato ad una missione internazionale nel paese più povero <strong>di</strong> tutto il<br />

continente americano, forse il più povero al mondo: Haiti. I fratelli e le sorelle haitiani mi chiedevano<br />

“perché siete venuti qui?”. Io rispondevo “perché non vi rubino anche la speranza”. Il nostro mondo ha un<br />

gran bisogno <strong>di</strong> speranza; essa rappresenta quella forza che ci spinge, che ci stimola alla lotta, quella forza<br />

che ci da la possibilità <strong>di</strong> costruire un altro mondo, riecheggiando lo slogan del Forum Sociale Mon<strong>di</strong>ale.<br />

Non perdere la speranza significa avere la possibilità <strong>di</strong> costruire un mondo più giusto, umano e fraterno per<br />

tutti, non solo per alcuni.<br />

Facciamo parte tutti quanti della grande famiglia umana; un grande pensatore brasiliano affermava<br />

che tutti quanti siamo “figli delle stelle”, figli quin<strong>di</strong> dello stesso padre e della stessa madre. Per questo<br />

motivo tutti insieme riflettiamo su quale via debba percorrere l’umanità, su dove debba andare la famiglia<br />

umana. Vorrei con<strong>di</strong>videre con tutti voi alcune riflessioni. Viviamo in un mondo caratterizzato dalla<br />

violenza, dominato da conflitti, fame e guerre. La FAO nella sua ultima relazione sullo stato della fame nel<br />

mondo sostiene che in un solo giorno muoiono 35.000 bambini per fame; tutto ciò avviene in un mondo<br />

ricco, dove si spendono moltissimi milioni <strong>di</strong> dollari per le armi: ma non sorpren<strong>di</strong>amoci, questa è la società<br />

consumistica. Si tratta <strong>di</strong> una violenza sociale ma contemporaneamente strutturale al sistema.<br />

Accanto a questo tipo <strong>di</strong> problemi vi sono questioni legate alla crisi <strong>di</strong> valori politici, sociali,<br />

spirituali.<br />

Noi tutti ricor<strong>di</strong>amo il crollo del muro <strong>di</strong> Berlino. Prima che il muro cadesse era palpabile a Berlino la<br />

<strong>di</strong>sperazione ed il pianto <strong>di</strong> quel popolo <strong>di</strong>viso; abbiamo visto persone che avrebbero voluto far crollare quel<br />

muro togliendo ogni pietra con le proprie mani, per far comprendere che la loro volontà era quella <strong>di</strong> creare<br />

un’umanità <strong>di</strong>versa.<br />

Poi il muro è crollato e molti <strong>di</strong> noi sono stati pervasi dalla speranza che i rapporti internazionali si sarebbero<br />

evoluti verso la pace e la solidarietà: ci eravamo sbagliati. Nel frattempo sono infatti sorti altri muri:<br />

pensiamo al muro costruito da Israele per emarginare il popolo palestinese e per togliergli il <strong>di</strong>ritto<br />

all’autodeterminazione, al muro tra Corea del Nord e Corea del Sud, al muro che <strong>di</strong>vide Stati Uniti e<br />

Messico. Muri <strong>di</strong> acciaio attraverso i quali passano le merci ma non gli esseri umani, simboli della negazione<br />

della <strong>di</strong>gnità umana. Quando il Papa si è recato nella Repubblica Dominicana, il Governo ha innalzato muri<br />

per impe<strong>di</strong>rgli <strong>di</strong> vedere le favelas, i tuguri, la povertà. La miseria cambia nomi, ma in tutti i posti del mondo<br />

ha lo stesso volto: questo è l’aspetto più terribile.<br />

Tuttavia i muri che più <strong>di</strong>fficilmente si possono abbattere sono quelli che stanno dentro alle nostre<br />

menti e dentro i nostri cuori: se non sviluppiamo la capacità <strong>di</strong> far crollare quei muri, non potremo mai<br />

cambiare il mondo e la famiglia umana. Nei nostri rapporti personali, sociali e politici, bisogna che non<br />

esistano muri.<br />

Credo che oggi siamo <strong>di</strong> fronte ad una grande sfida contro l’intolleranza, contro l’arroganza, contro il<br />

potere <strong>di</strong> dominio. Credo che quando una superpotenza come gli Stati Uniti <strong>di</strong>sconosce i patti, i protocolli<br />

internazionali, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e costruisce un muro fatto <strong>di</strong> menzogne, sia<br />

necessario combattere perché tutto ciò non avvenga. Le menzogne vengono costruite affinchè l’opinione<br />

pubblica accetti le guerre che sono state scatenate non certo per motivazioni umanitarie.<br />

15


Mi sono recato in Afghanistan prima della guerra, ho poi attraversato la Giordania e l’Iraq fino ad<br />

arrivare a Baghdad. Ho potuto toccare la sofferenza <strong>di</strong> questi popoli. Dopo questo viaggio ho stretto <strong>di</strong>versi<br />

rapporti che mi hanno permesso <strong>di</strong> incontrarmi, nel <strong>di</strong>cembre scorso a Roma, con cinque rappresentanti della<br />

città <strong>di</strong> Falluja (Iraq), dove vengono continuamente perpetrati gravi massacri, occultati però dai mezzi <strong>di</strong><br />

comunicazione internazionali. Questi sono i muri <strong>di</strong> cui parlavo prima, muri che vanno abbattuti; muri<br />

costruiti con la <strong>di</strong>sinformazione, con la mancanza <strong>di</strong> trasparenza, con la complicità.<br />

Per cambiare il mondo dobbiamo comprendere bene cosa significano parole come pace, <strong>di</strong>ritti<br />

umani, cooperazione.<br />

Cosa è la pace? La pace non è certo l’assenza <strong>di</strong> conflitti, ma è caratterizzata da una <strong>di</strong>namica complessa, da<br />

un intersecarsi <strong>di</strong> relazioni umane. I conflitti sono inevitabili, perché non è possibile, né auspicabile, che tutte<br />

le persone pensino nello stesso modo; esiste infatti una grande <strong>di</strong>versità a livello <strong>di</strong> pensiero, <strong>di</strong><br />

comprensione, <strong>di</strong> espressione. Quello che serve è una <strong>di</strong>versità che sia parte <strong>di</strong> un’unità; nessuno possiede<br />

infatti la verità, ma tutti siamo portatori <strong>di</strong> una piccolissima parte <strong>di</strong> verità. Se la con<strong>di</strong>vi<strong>di</strong>amo possiamo<br />

costruire una verità che appartiene a tutti.<br />

Cosa è invece la giustizia? Nel 1848, Henry Thoreau, un grande pensatore, si espresse sulla resistenza contro<br />

le <strong>di</strong>ttature e sulla <strong>di</strong>sobbe<strong>di</strong>enza civile con queste parole “ogni persona che ama la libertà deve rispettare la<br />

legge; non possiamo vivere senza leggi, la società stessa costruisce le leggi, perché il modo <strong>di</strong> convivere e <strong>di</strong><br />

mettersi gli uni <strong>di</strong> fronte agli altri obbliga a questo. Ogni persona che ama la libertà non deve solo<br />

rispettare le leggi, ma anche farle rispettare. Questa è la base su cui si costruisce la convivenza. Ma non<br />

tutte le leggi sono giuste e le leggi ingiuste non possono essere accettate, bisogna resistervi fino ad<br />

annullarle: la persona deve essere coerente tra ciò che <strong>di</strong>ce e ciò che fa. Deve rifiutarsi <strong>di</strong> pagare l’imposta<br />

<strong>di</strong> guerra contro il Messico”. La persona deve accettare anche la prigione come una testimonianza, come<br />

Gandhi, nella sua lotta per la liberazione dell’In<strong>di</strong>a o come Martin Luther King, nella sua lotta per le libertà<br />

civili.<br />

Ci sono molte persone che si ribellano contro le leggi ingiuste che ci schiacciano e ci emarginano, noi<br />

vogliamo essere uomini liberi. Sopportiamo molte ingiustizie e ci ren<strong>di</strong>amo in molti casi complici <strong>di</strong> queste<br />

ingiustizie. Come possiamo trasformare tutto questo? Questo è il lavoro della coscienza critica.<br />

Prima <strong>di</strong> venire a <strong>Lucca</strong> ho incontrato a Roma Giuliana Sgrena, la giornalista italiana de “Il<br />

Manifesto” sequestrata per un mese in Iraq, che ha rischiato <strong>di</strong> venire assassinata dagli statunitensi, che<br />

hanno invece ucciso il suo liberatore, Nicola Calipari. Come possiamo far fronte a tutto questo? Come far<br />

rinascere la speranza <strong>di</strong> cui parlavo all’inizio? Un insegnamento ci arriva dalle comunità <strong>di</strong> pace della<br />

Colombia, che stanno subendo numerose violenze da parte delle truppe paramilitari che spadroneggiano nel<br />

loro paese, oppure dalle comunità in<strong>di</strong>gene, che mi raccontano dell’oppressione che subiscono<br />

quoti<strong>di</strong>anamente; tutti sostengono la necessità della resistenza, l’esigenza <strong>di</strong> “far camminare le parole”. E’<br />

importante “far camminare le parole”, perché la parola è energia se seguita dai fatti. Il fatto che segue la<br />

parola rappresenta la coerenza <strong>di</strong> cui parlava anche Thoreau, la coerenza tra il <strong>di</strong>re e il fare. Bisogna quin<strong>di</strong><br />

essere coerenti, non bisogna mentirci e mentire. E’ necessaria un’unione tra la teoria e la pratica.<br />

Vorrei con<strong>di</strong>videre con tutti voi le riflessioni <strong>di</strong> Don Samuel Ruiz e dei fratelli Maya. Domandai ai<br />

fratelli Maya: “voi cosa pensate dello sviluppo?”, ma loro mi risposero “lei cosa vuole sviluppare? Più<br />

macchine, più computer? Nella nostra cultura non esiste la parola “sviluppo” come viene intesa<br />

nell’occidente tecnologizzato. Noi abbiamo la parola “equilibrio”, equilibrio con noi stessi, con la terra, con<br />

l’universo, con Dio. Quando questo equilibrio viene meno si scatena la violenza, prova ne è la <strong>di</strong>ttatura del<br />

mercantilismo che calpesta la <strong>di</strong>gnità ed i <strong>di</strong>ritti delle persone e dell’ambiente”. Penso che queste parole dei<br />

Maya siano molto chiare: in che modo possiamo ristabilire l’equilibrio nella nostra vita, nei nostri cuori,<br />

nella nostra mente e nelle relazioni umane? Solo seguendo questo solco possiamo costruire la pace; pace<br />

intesa non come assenza <strong>di</strong> conflitti ma come <strong>di</strong>namica orientata verso la verità.<br />

Un grande teologo peruviano, Gustavo Gutierrez, afferma che è necessario bere nel proprio pozzo<br />

per tornare alle ra<strong>di</strong>ci più profonde dell’identità, dei valori, della coscienza critica, del senso profondo della<br />

libertà. Il pensiero unico ci impone invece una sola via: o si esalta l’io o c’è la per<strong>di</strong>zione. Possiamo<br />

umanizzare il cosiddetto “capitalismo selvaggio” - non dovremmo usare questo aggettivo, perché i selvaggi<br />

altro non sono che gli abitanti della selva, che hanno un rapporto privilegiato con la natura - riformandolo?<br />

16


Penso che il nostro sistema economico non sia “umanizzabile”, perché è nato senza cuore, quin<strong>di</strong> non può<br />

<strong>di</strong>ventare più umano. Il mercantilismo ha cambiato il Dio della vita nel Moloc.<br />

Dobbiamo resistere a questo sistema economico. Ciò che sta nascendo nel mondo della solidarietà,<br />

rappresenta una risorsa molto importante che può cambiare il modo <strong>di</strong> pensare. Siamo sottoposti ad una<br />

cultura della violenza che deve essere trasformata in una cultura <strong>di</strong> pace e cooperazione, l’economia <strong>di</strong><br />

sfruttamento deve essere trasformata in economia solidale; questo abbiamo ripetuto durante il Social Forum<br />

Mon<strong>di</strong>ale. I valori, la memoria e l’identità culturale dei popoli devono essere conservate; i popoli che non<br />

hanno memoria sono destinati a scomparire. La memoria ci permette <strong>di</strong> avere una maggiore capacità <strong>di</strong><br />

resistenza; cosa, se non la memoria, ha permesso ai popoli in<strong>di</strong>geni <strong>di</strong> resistere a qualsiasi dominazione? La<br />

memoria non ha la funzione <strong>di</strong> riprendere il passato, ma <strong>di</strong> illuminare il nostro presente, perché attraverso il<br />

presente potremo costruire, con coraggio, il nostro futuro. Non ci sono altre strade. Se piantiamo mais<br />

raccoglieremo mais, se piantiamo patate raccoglieremo patate, se piantiamo violenza raccoglieremo violenza,<br />

se piantiamo in<strong>di</strong>fferenza nulla cambierà in questo mondo.<br />

In che maniera possiamo agire? Vorrei fare alcune considerazioni ad esempio sulla democrazia.<br />

Molti <strong>di</strong>cono che siamo in democrazia perché votiamo i nostri rappresentanti; ma questo è falso perché la<br />

democrazia non si esaurisce nel solo atto del voto, perché la democrazia non può considerarsi tale se non è<br />

intimamente legata ai <strong>di</strong>ritti umani. Pren<strong>di</strong>amo il caso della Colombia: lì si vota ma i <strong>di</strong>ritti umani sono<br />

continuamente e sistematicamente violati. Pensiamo invece a come sta agendo l’Amministrazione Bush che<br />

utilizza senza remore il terrorismo <strong>di</strong> stato, che tortura ed uccide (pensiamo alle carceri irachene ed afghane,<br />

oppure a Guantanamo). Non è possibile che una potenza che si comporta così voglia insegnarci cosa è la<br />

democrazia.<br />

In una lettera inviata a Bush ho scritto che quando il Presidente americano prega, Dio si tappa le orecchie per<br />

non ascoltarlo.<br />

Per questo sono dell’idea che la democrazia ed i <strong>di</strong>ritti umani siano valori in<strong>di</strong>visibili, e l’educazione<br />

liberatrice deve costituire la coscienza dei popoli: noi tutti dobbiamo educare alla libertà, alla creazione <strong>di</strong><br />

una coscienza critica, alla nonviolenza. Desidero chiarire il concetto <strong>di</strong> nonviolenza che da molti è percepito<br />

come passività; questo è sbagliato, perché passività significa non fare assolutamente niente, mentre la<br />

nonviolenza permette <strong>di</strong> costruire nuove tipologie <strong>di</strong> relazioni umane, e<strong>di</strong>ficate sul rispetto, sulla solidarietà,<br />

sul rispetto delle culture altre.<br />

Molte volte i popoli non conoscono la loro forza. Vi faccio un esempio: un mio amico africano mi<br />

raccontava che nei loro villaggi esiste il consiglio degli anziani, che detiene la sapienza, la saggezza, la<br />

memoria. Gli anziani insegnavano ai giovani che “se non sai dove andare torna in<strong>di</strong>etro per sapere da dove<br />

vieni”. Noi sappiamo da dove veniamo? Sappiamo dove an<strong>di</strong>amo? Dobbiamo certamente guardare avanti e<br />

sono dell’idea che se i popoli scoprono il loro potenziale, possono esercitare la resistenza civile, pensiamo<br />

alla non cooperazione con le ingiustizie, proprio come Gandhi o come noi argentini quando abbiamo resistito<br />

alla <strong>di</strong>ttatura.<br />

I popoli in<strong>di</strong>geni stanno seguendo proprio questa strada perché venga rispettata la loro cultura e la loro<br />

spiritualità. I popoli in<strong>di</strong>geni affermano che non sono stati sconfitti, nonostante alcune battaglie siano state<br />

perse.<br />

I popoli possono quin<strong>di</strong> conoscere il loro potenziale solo se hanno viva la memoria della propria storia, della<br />

propria identità, della propria cultura.<br />

Non dobbiamo rispondere alla violenza con la violenza, perché questo innescherebbe un circolo<br />

vizioso e molto deleterio per l’umanità. Il Vangelo è molto chiaro quando <strong>di</strong>ce “porgi l’altra guancia”,<br />

questo non significa inerzia e passività, ma resistere non rispondendo al male con il male: la resistenza<br />

politica, sociale, culturale ci permette <strong>di</strong> trasformare la realtà. Dobbiamo avere chiara questa tipologia <strong>di</strong><br />

resistenza.<br />

Non dobbiamo aver paura, perché questo sentimento paralizza ogni azione: se ci vengono imposte<br />

determinate cose e noi, spaventati, <strong>di</strong>ventiamo vigliacchi, per<strong>di</strong>amo il senso dell’essere persona e della<br />

libertà. Il primo punto <strong>di</strong> qualsiasi processo <strong>di</strong> liberazione è il riconoscerci come persone; questa è la parte<br />

straor<strong>di</strong>naria, il senso della libertà. Per questo motivo <strong>di</strong>ciamo che è possibile costruire un mondo <strong>di</strong>verso.<br />

17


Voglio citare infine l’insegnamento del popolo Guarani, dal quale ho appreso molto, perché mia<br />

nonna era una Guarani. Ho imparato molto da lei che era una donna analfabeta ma molto saggia.<br />

Comunicava perfettamente con la natura, parlava con gli animali e con le piante: ad un certo punto arrivai a<br />

pensare che fosse un po’ pazza. In realtà viveva in perfetta armonia con l’universo che per lei era in ogni<br />

pianta, in ogni animale, in ogni zolla <strong>di</strong> terra. Il popolo Guarani ha una cultura magnifica, come testimoniato<br />

da Don Pedro Casaldaliga, che ha parlato della ricerca da parte dei Guarani della “terra senza mali”. La terra<br />

senza mali altro non è che la terra della libertà, della fratellanza, della solidarietà, all’interno della quale ci<br />

possiamo riconoscere come fratelli e sorelle, come parte della grande famiglia umana.<br />

Queste sono le strade della liberazione, che non è solo liberazione dall’oppressione economica, che<br />

ha il suo “braccio armato” nel debito estero, un debito che rappresenta un ricatto verso molti paesi del sud<br />

del mondo. L’unico modo per costruire una società <strong>di</strong>versa è quella della con<strong>di</strong>visione del pane e della<br />

libertà.<br />

Grazie per avermi ascoltato.<br />

La trascrizione <strong>di</strong> questo intervento non è stata rivista dal relatore<br />

18


Massimo Toschi<br />

Allora Consigliere del Presidente della Regione Toscana per la pace, la cooperazione e i <strong>di</strong>ritti umani<br />

oggi Assessore per la cooperazione internazionale, il perdono e la riconciliazione tra i popoli della Regione<br />

Toscana<br />

Credo che la riflessione <strong>di</strong> Perez Esquivel ci abbia permesso <strong>di</strong> fare un salto <strong>di</strong> qualità. Oggi resistere<br />

significa spezzare definitivamente la cultura della guerra, è finito il tempo in cui si resisteva con le armi, che<br />

appartengono pur sempre alla cultura della guerra. La vera resistenza domanda altri strumenti, perchè oggi<br />

non è più possibile costruire la pace attraverso la guerra, le armi, il terrorismo, la lotta armata, quella<br />

stagione è davvero finita. La vera questione che oggi si apre, e che Perez Esquivel porta dentro <strong>di</strong> sé, nella<br />

sua storia, è che la vera alternativa non è tra la guerra e la pace, perché tutti sono per la pace, la vera<br />

alternativa è tra la guerra e le vittime e se guar<strong>di</strong>amo la storia dalla parte delle vittime la guerra non è più<br />

proponibile.<br />

Io sono felicissimo stasera <strong>di</strong> avere ascoltato le cose che ha detto Perez Esquivel, perché in<strong>di</strong>cano<br />

una strada per un lavoro straor<strong>di</strong>nario, che ovviamente non si deve fermare a <strong>Lucca</strong> ma riguardare tutta la<br />

nostra regione.<br />

19


Seconda Giornata<br />

23 aprile 2005<br />

Per un rapporto <strong>di</strong> <strong>di</strong>gnità tra i popoli del mondo<br />

Elio Rossi<br />

Responsabile Progetti <strong>di</strong> cooperazione <strong>di</strong> Me<strong>di</strong>cina Naturale PDHL Viareggio<br />

Buon pomeriggio, ripren<strong>di</strong>amo con la sessione plenaria del 2° Forum della Solidarietà lucchese nel<br />

Mondo, introducendo la <strong>di</strong>scussione <strong>di</strong> oggi che ha per titolo Per un rapporto <strong>di</strong> <strong>di</strong>gnità tra i popoli del<br />

mondo.<br />

Come moderatore della sessione, non farò un’introduzione generale su questo tema, che è ampissimo<br />

e che i relatori svilupperanno con ottiche <strong>di</strong>verse, ciascuno a partire dalla propria esperienza. Approfitterei<br />

per presentare brevemente una serie <strong>di</strong> attività <strong>di</strong> cooperazione internazionale che ho condotto<br />

personalmente, in collaborazione con il Comune <strong>di</strong> Viareggio, con la <strong>Provincia</strong> <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong> e con il supporto<br />

dell’ASL n. 2 <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong> sul tema della me<strong>di</strong>cina naturale. In particolare colgo l’occasione per presentare un<br />

programma del quale siamo partner che si chiama Programma IDEASS, un’esperienza credo interessante,<br />

che in qualche modo rientra nel tema trattato oggi. Il programma concerne il tentativo <strong>di</strong> agevolare uno<br />

scambio <strong>di</strong> conoscenze, tra i paesi del nord e del sud del mondo. Esiste da qualche anno - è poco conosciuto<br />

perché si sta attivando proprio in quest’ultimo periodo - un sistema che cerca <strong>di</strong> mettere in collegamento<br />

<strong>di</strong>verse esperienze <strong>di</strong> <strong>di</strong>versi paesi del mondo, perché si riesca a scambiare questo tipo <strong>di</strong> innovazioni in vari<br />

settori, dalla me<strong>di</strong>cina, all’ambiente alla tecnologia (il requisito fondamentale della tecnologia “socializzata”<br />

è la sua sostenibilità).<br />

Queste erano le attività <strong>di</strong> cooperazione dell’ambulatorio <strong>di</strong> omeopatia dell’Azienda Sanitaria Locale<br />

<strong>di</strong> <strong>Lucca</strong>, che è centro <strong>di</strong>visionale <strong>di</strong> riferimento. Abbiamo cominciato già da <strong>di</strong>versi anni a lavorare con il<br />

Comune <strong>di</strong> Viareggio, con il sostegno della Regione Toscana, in <strong>di</strong>verse zone <strong>di</strong> Cuba, sempre a supporto<br />

dello sviluppo della me<strong>di</strong>cina naturale ed in particolare della me<strong>di</strong>cina omeopatica. La modalità <strong>di</strong> intervento<br />

in queste situazioni è quella della cooperazione decentrata - descentralizada in spagnolo - che prevede la<br />

formazione <strong>di</strong> comitati locali che intervengono nella prima fase <strong>di</strong> ideazione e <strong>di</strong> scrittura del progetto,<br />

attraverso un lavoro comune. Successivamente l’attività e la messa in opera del progetto è a carico del paese<br />

che riceve i fon<strong>di</strong> da parte della cooperazione ed è gestito dalle Nazioni Unite, dall’UNDP (Programma delle<br />

Nazioni Unite per lo Sviluppo) e dall’UNOPS (Ufficio delle Nazioni Unite per il Servizio ai Progetti).<br />

L’attività nell’ambito della me<strong>di</strong>cina naturale è iniziata circa 10 anni fa e fino al 2002 sono stati<br />

investiti circa 302mila euro. Sono tanti gli enti coinvolti: dall’OMS: le Nazioni Unite, la <strong>Provincia</strong> <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong>,<br />

il Comune <strong>di</strong> Viareggio.<br />

Lo scorso anno è stata inaugurata una clinica <strong>di</strong> me<strong>di</strong>cina naturale a l’Avana Vecchia.<br />

Per quanto riguarda il Progetto IDEASS <strong>di</strong> cui vi parlavo prima, abbiamo proposto, sempre<br />

nell’ambito della me<strong>di</strong>cina naturale, la moxibustione, una tecnica cinese, una variante dell’agopuntura, che<br />

prevede il riscaldamento <strong>di</strong> punti dell’agopuntura con un sigaro fatto <strong>di</strong> artemisia, una pianta facilmente<br />

rintracciabile a tutte le latitu<strong>di</strong>ni, in tutti i continenti, che consente <strong>di</strong> promuovere il rivolgimento del feto che<br />

si presenta in posizione podalica nelle donne gravide dalla 36esima settimana. Questa innovazione, che è<br />

parte della cultura cinese da migliaia <strong>di</strong> anni, è molto importante, perché il cesareo è una delle principali<br />

cause <strong>di</strong> morte neonatale nei paesi del sud del mondo e quin<strong>di</strong> evitare o anche soltanto ridurre l’incidenza del<br />

cesareo è una grande misura <strong>di</strong> prevenzione e <strong>di</strong> tutela della salute. In che cosa consiste questo programma?<br />

Nel sollecitare i paesi del sud del mondo in queste pratiche, nello stimolare i rapporti e gli scambi <strong>di</strong><br />

conoscenze tra nord e sud del mondo. Il sito web <strong>di</strong> del Progetto IDEASS è www.ideassonline.org. Andando<br />

20


sul sito potrete vedere le <strong>di</strong>verse brochure che sono state preparate su svariati temi: la governance, il<br />

patrimonio ambientale, problemi sociali e <strong>di</strong> salute, educazione e cultura, sviluppo economico locale. Tanto<br />

per fare un esempio, oltre a quello della moxibustione, la prima brochure era centrata sul metodo della<br />

“madre-canguro”, sviluppato in Colombia, che sostituisce degnamente, a mio parere - lo sostiene anche la<br />

comunità scientifica che ha fatto lavori <strong>di</strong> verifica scientifica, <strong>di</strong> prove <strong>di</strong> efficacia <strong>di</strong> questo metodo -<br />

l’incubatrice nei nati pre-termine. Questa è la me<strong>di</strong>cina tra<strong>di</strong>zionale.<br />

Cuba è uno dei più recenti e moderni esempi <strong>di</strong> integrazione tra la me<strong>di</strong>cina “scientifica” e la<br />

me<strong>di</strong>cina tra<strong>di</strong>zionale. In giugno, a partire da questa iniziativa, una missione della Regione Toscana e dei<br />

centri <strong>di</strong> riferimento sulla me<strong>di</strong>cina naturale sarà in Serbia, a partire da una richiesta che la città <strong>di</strong><br />

Craculevic, vicino a Belgrado, ha fatto alla Regione Toscana perché fosse fatta formazione su questo tema.<br />

L’iniziativa è stata agevolata dall’agenzia dell’UNDP delle Nazioni Unite. La missione avrà luogo<br />

tra il 12 e il 20 <strong>di</strong> giugno <strong>di</strong> quest’anno. Sono previsti incontri e formazione sia a Craculevic che a Belgrado.<br />

Tutta questa attività è stata presentata alla citta<strong>di</strong>nanza lucchese un paio <strong>di</strong> anni fa, nel settembre del<br />

2003, in un congresso sulle me<strong>di</strong>cine tra<strong>di</strong>zionali nelle priorità sanitarie dei paesi in via <strong>di</strong> sviluppo.<br />

L’obiettivo è dare sostegno e impulso allo sviluppo della me<strong>di</strong>cina tra<strong>di</strong>zionale nei paesi in via <strong>di</strong> sviluppo e<br />

<strong>di</strong>fendere il <strong>di</strong>ritto delle popolazioni locali ad avere una propria cultura.<br />

Ieri si parlava <strong>di</strong> pensiero unico: esiste un pensiero unico anche nella scienza, pensiero che<br />

solitamente non viene mai criticato. Si dà per scontato che la scienza sia “a parte”, fuori dal conflitto. Esiste<br />

un pensiero unico anche nella scienza, che è quello dominante, ma non necessariamente è quello vero. E’<br />

invece proposto come tale. Esistono invece un patrimonio <strong>di</strong> esperienze che le nostre attività vogliono in<br />

qualche modo sostenere e possibilmente sviluppare.<br />

Concludo qua la mia relazione, lasciando la parola al prof. Franco Cassano.<br />

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Franco Cassano<br />

Professore <strong>di</strong> Sociologia e Sociologia della conoscenza all’Università <strong>di</strong> Bari<br />

Un relativismo ben temperato<br />

Il titolo <strong>di</strong> questa chiacchierata è lo stesso <strong>di</strong> un saggio che ho scritto sette anni fa e contiene una<br />

parola che si trova in questi giorni su tutti i giornali, sulla quale tutti ritengono <strong>di</strong> dover prendere posizione:<br />

la parola relativismo. Siccome il tempo che ho a <strong>di</strong>sposizione non è molto, vorrei <strong>di</strong>re solo alcune cose. Il<br />

modo con cui propongo <strong>di</strong> riflettere, anche in positivo, sul relativismo ha poco a che fare con la <strong>di</strong>scussione<br />

presente, che si tiene - a proposito e a sproposito - sui giornali. Proverò ad esporre in che senso ritengo che<br />

una certa dose <strong>di</strong> relativismo sia utile, se non necessaria. Anche perché credo che spesso proprio quelli che<br />

“pontificano”(mai verbo fu più adeguato) contro il relativismo praticano due pesi e due misure; mentre<br />

tolgono alla propria visione ogni <strong>di</strong>sturbo soggettivo e la rappresentano come lo specchio della realtà, nei<br />

riguar<strong>di</strong> dell’altro usano procedure <strong>di</strong> relativizzazione senza alcuno scrupolo. Quando sentiamo qualcuno <strong>di</strong><br />

cui non con<strong>di</strong>vi<strong>di</strong>amo le idee, pensiamo sia affetto da qualche deficit mentale o spinto da risentimento:<br />

relativizziamo il suo punto <strong>di</strong> vista. Gli uomini - questo è il problema - spesso relativizzano gli altri ed<br />

assolutizzano se stessi. Così fanno anche le culture: gli appartenenti ad esse vengono rappresentati come<br />

prigionieri <strong>di</strong> alcune circostanze e con<strong>di</strong>zionamenti, che impe<strong>di</strong>scono loro l’accesso alla verità, cioè alla<br />

nostra rappresentazione della realtà. Bene, credo si debba far saltare questo gioco, perché è un gioco duro,<br />

pericoloso e nocivo, che rappresenta come forza etica una forma <strong>di</strong> incomprensione dell’altro.<br />

Per far capire quello che voglio <strong>di</strong>re, partirei da una parola che oggi viene usata anch’essa spesso e<br />

abbastanza a sproposito: la parola fondamentalismo. Noi tutti in Occidente ci basiamo su un’idea molto<br />

precisa <strong>di</strong> che cosa sia fondamentalista: fondamentalista è il seguace <strong>di</strong> una religione con particolari<br />

caratteristiche. Quasi sempre il fondamentalista è una persona che appartiene alla religione islamica, ha il<br />

turbante ed una serie <strong>di</strong> connotazioni molto precise. Credo che, se si ritiene che il fondamentalismo sia<br />

riducibile a questa immagine, non abbiamo neanche cominciato non <strong>di</strong>co a ragionare, ma neanche a provare<br />

a far finta <strong>di</strong> ragionare. Io credo che la parola fondamentalismo possa essere molto utile soltanto se ne<br />

allarghiamo il significato, se si prova a vedere che il fondamentalismo non insi<strong>di</strong>a una sola cultura, ma abita<br />

tutte le culture, in primo luogo la nostra.<br />

Che cos’è, dunque, il fondamentalismo? Il fondamentalismo nasce dalla sovrapposizione, dalla<br />

somma <strong>di</strong> due elementi: il primo è la naturale tendenza etnocentrica che caratterizza tutte le culture e che<br />

porta ogni cultura a ritenere se stessa superiore alle altre, più vicina all’or<strong>di</strong>ne del mondo, alla volontà <strong>di</strong> Dio.<br />

Il nome antico della Cina è “paese <strong>di</strong> mezzo”: l’idea sottesa, presunzione e assunto <strong>di</strong> moltissime, <strong>di</strong> tutte o<br />

quasi le culture, è quella <strong>di</strong> essere al centro del mondo.<br />

Stamattina, parlando con i ragazzi, mi veniva in mente l’esempio <strong>di</strong> un famoso mito dei pellerossa<br />

americani circa l’origine del mondo: Manitù decide <strong>di</strong> creare l’uomo. Fabbrica pertanto un pupazzo <strong>di</strong> pasta<br />

con sembianze umane, lo mette a cuocere, ma lo <strong>di</strong>mentica sul fuoco. Lo toglie troppo tar<strong>di</strong>, quando ormai è<br />

nero. L’uomo nero non è buono. Fa allora un altro pupazzo, lo mette a cuocere, ma lo toglie troppo presto,<br />

quando è ancora bianco: nemmeno questo va bene. Ne fa alla fine un altro e lo tira fuori al momento giusto,<br />

quando è rosso: ecco, <strong>di</strong>ce Manitù, questo con la pelle rossa è l’uomo perfetto. Questa storia, nella sua poesia<br />

e bellezza, mostra la tendenza spontanea che probabilmente ogni cultura ha <strong>di</strong> costruire le sue “colonne<br />

portanti” conferendo a se stessa un’immagine <strong>di</strong> perfezione, delineandosi come superiore alle culture che<br />

sono al <strong>di</strong> là del confine. Questo è il “mistero”, il luogo attorno al quale lavora tutto l’universo simbolico <strong>di</strong><br />

una cultura.<br />

Un altro esempio: la parola “barbari” è, come sapete, un termine onomatopeico, che mima il balbettio. I<br />

Greci chiamavano gli altri, i non elleni, “barbari”, cioè “coloro i quali non sanno parlare” e, per l’appunto,<br />

balbettano.<br />

Ora, noi sappiamo bene che tutto questo non è vero, che è semplicemente l’estraneità a venir letta<br />

come una inferiorità dell’altro, come un suo non saper parlare. E che questo meccanismo funzioni in modo<br />

molto <strong>di</strong>ffuso è confermato anche dal fatto che la parola “ottentotti” sia usata da alcune culture africane per<br />

22


designare i confinanti come balbuzienti: l’altro è ancora una volta colui che non sa parlare. Questa è la<br />

gerarchia, questo lo statuto che noi assegniamo agli altri: ci mettiamo al centro del creato e, man mano che ci<br />

si allontana da noi, la perfezione si riduce. E’ una tendenza spontanea, che si può trovare in mille forme e<br />

che, se vogliamo, è anche umanamente comprensibile.<br />

Ovviamente non basta questo per avere il fondamentalismo, che nasce quando questo etnocentrismo<br />

decide <strong>di</strong> <strong>di</strong>ventare attivo ed espansivo, quando la <strong>di</strong>fferenza altrui <strong>di</strong>venta un problema che va eliminato,<br />

poiché si tratta <strong>di</strong> una patologia, rispetto alla quale definisco me stesso come colui che deve “curare” la<br />

<strong>di</strong>fferenza dell’altro, facendola sparire, convertendo l’altro a me. E’ un programma che vuole eliminare<br />

l’alterità e ridurre all’identico: chi è <strong>di</strong>fferente da me appartiene ad uno sta<strong>di</strong>o ontologico inferiore e<br />

pericoloso, soprattutto per chi è “affetto” da questa <strong>di</strong>fferenza. Quasi sempre, infatti, il fondamentalismo<br />

pensa <strong>di</strong> essere nobile, orientato alla salvezza <strong>di</strong> colui che va a convertire.<br />

Siamo partiti da un’immagine del fondamentalismo, ma ora, parlando, ne abbiamo dato una<br />

definizione più ampia. L’Occidente dovrebbe a questo punto riconoscere se stesso in questo specchio, poiché<br />

da questo fondamentalismo non è - non siamo - certo stati immuni. Come può essere stata immune dal<br />

fondamentalismo, come può non aver avuto questo limite una cultura che ha dominato per alcuni secoli<br />

l’intero pianeta, facendone la periferia <strong>di</strong> se stessa? Dividendo l’Africa, al <strong>di</strong> là delle <strong>di</strong>visioni degli stati<br />

nazionali, e facendola <strong>di</strong>ventare portoghese, belga, francese, facendo <strong>di</strong>ventare olandesi le Antille, inglese<br />

l’In<strong>di</strong>a e via <strong>di</strong>cendo? Tutto questo sulla base dell’idea che la <strong>di</strong>fferenza altrui sia una forma <strong>di</strong> inferiorità e<br />

che noi siamo la cura; pertanto abbiamo <strong>di</strong>ritto ad espanderci. Questo è stato il grande fardello dell’uomo<br />

bianco: vedendo se stesso come la misura dell’umanità, come ha valutato la <strong>di</strong>fferenza altrui? L’ha gettata<br />

in<strong>di</strong>etro nel tempo: le altre culture non erano (non sono) a noi contemporanee, bensì arretrate, sottosviluppate<br />

e via <strong>di</strong>cendo. E dunque che cosa bisogna fare nei riguar<strong>di</strong> <strong>di</strong> coloro che sono arretrati, barbari,<br />

sottosviluppati? Bisogna aiutarli a <strong>di</strong>ventare come noi. Questa è la logica del fondamentalismo. Ed è questo<br />

fondamentalismo il primo che dobbiamo vedere, prima <strong>di</strong> parlare dell’altro. Quando la <strong>di</strong>fferenza dell’altro<br />

<strong>di</strong>venta una patologia ed io propongo l’espansione <strong>di</strong> me come cura, auspicando la scomparsa dell’identità<br />

dell’altro, la sua conversione a me, la riduzione dell’altro all’identico, mi situo all’interno <strong>di</strong> un programma<br />

<strong>di</strong> sopraffazione sistematica. Colui che mette in campo tale programma spesso non riesce neanche a vederlo<br />

e si può sentire ad<strong>di</strong>rittura investito in qualche modo da una missione, mandato da qualcuno, come <strong>di</strong>ce<br />

l’etimologia stessa della parola missione.<br />

Di tutto questo abbiamo una documentazione sterminata. Non posso <strong>di</strong>menticare che il primo gesto<br />

che ha fatto Cristoforo Colombo quando è arrivato in America è stato quello <strong>di</strong> baciare la terra e <strong>di</strong><br />

battezzarla. Questo gesto del battezzare presuppone l’idea che l’altro non abbia parola per nominare quel<br />

posto: sono io il primo a farlo e quel posto è come un bambino appena nato. Non ha importanza se lì c’erano<br />

dei nativi, che chiamavano quel posto in qualche modo.<br />

Devo quin<strong>di</strong> sapere che quel mio battezzare, intestando al nome <strong>di</strong> Cristo (San Salvador) quel luogo, è un<br />

atto <strong>di</strong> violenza simbolica.<br />

Si potrebbero moltiplicare gli esempi della non innocenza del nostro linguaggio: “America Latina” consta <strong>di</strong><br />

due parole, una delle quali deriva dal nome <strong>di</strong> un italiano e l’altra dai colli del Lazio, una regione dell’Italia.<br />

Dobbiamo ricostruire questa forma <strong>di</strong> dominio che noi mettiamo in atto, prima <strong>di</strong> cominciare a parlare degli<br />

altri, altrimenti la polemica circa il fondamentalismo <strong>di</strong>venta pura mistificazione, <strong>di</strong>venta il ridurlo ad<br />

un’immagine comoda che riproduce noi in una determinata posizione.<br />

Gli esempi potrebbero essere tanti. Un esempio classico è la definizione formulata da Truman, il<br />

Presidente degli Stati Uniti usciti vincitori dalla seconda guerra mon<strong>di</strong>ale, nell’imme<strong>di</strong>ato dopoguerra.<br />

Truman decise che il mondo si <strong>di</strong>videva in un centro rappresentato dal mondo sviluppato, probabilmente più<br />

vicino non <strong>di</strong>co a Dio ma quantomeno a tutti i criteri <strong>di</strong> perfezione, e un insieme <strong>di</strong> tutti gli altri popoli,<br />

definiti come sottosviluppati. Provate a pensare e vedrete che <strong>di</strong>etro a questo meccanismo c’è una forma <strong>di</strong><br />

potere feroce, che getta in<strong>di</strong>etro nel tempo un mio contemporaneo, un uomo che vive in Africa, in In<strong>di</strong>a, ecc.,<br />

riducendolo ad una specie <strong>di</strong> bambino che, se vuole, potrà <strong>di</strong>ventare come me. Ovviamente non è più il<br />

missionario quello che lo va a convertire, bensì i tecnici dello sviluppo, i funzionari della Banca Mon<strong>di</strong>ale.<br />

Ma l’altro non <strong>di</strong>venterà mai come me, perché questa nostra cultura occidentale è frutto <strong>di</strong> una<br />

determinata costruzione, essendo stata e<strong>di</strong>ficata sulla base <strong>di</strong> parametri propri e specifici della nostra storia.<br />

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Diventa pertanto universale solo nella misura in cui getta gli altri, i <strong>di</strong>versi, coloro che hanno un <strong>di</strong>verso<br />

rapporto, per esempio, con la natura, nello sconcerto, in una situazione <strong>di</strong> grande <strong>di</strong>fficoltà. Pensate alla<br />

<strong>di</strong>fferenza che c’è fra il nostro rapporto con la natura e quello presente in altre tra<strong>di</strong>zioni culturali. Come si fa<br />

ad ignorare che il rapporto con la natura ha, in linea <strong>di</strong> massima, per le tre le religioni del libro, così come per<br />

la cultura secolarizzata, un significato <strong>di</strong>verso rispetto ad altre culture? Per noi la natura è fondamentalmente<br />

oggetto <strong>di</strong> conoscenza, trasformazione e controllo da parte della scienza che si espande. Le altre tra<strong>di</strong>zioni<br />

culturali non hanno lo stesso rapporto con la natura: per molte <strong>di</strong> esse la natura non è altro rispetto all’uomo,<br />

non è oggetto <strong>di</strong> dominio, ma è al contrario un luogo dentro il quale si sta, un “far parte”, allo stesso tempo,<br />

del suo metabolismo.<br />

Cosa pensate voglia <strong>di</strong>re sottosviluppo? Vuol <strong>di</strong>re gettare via questa <strong>di</strong>versità culturale come un<br />

fardello. La propria identità <strong>di</strong>venta un han<strong>di</strong>cap. Si tratta <strong>di</strong> un’operazione <strong>di</strong> enorme e feroce sottomissione<br />

simbolica delle culture altre e della loro <strong>di</strong>versità, <strong>di</strong> quella <strong>di</strong>versità che potrebbe essere invece una cura per<br />

le nostre malattie, quelle che non ve<strong>di</strong>amo, e che curiamo come fanno certi me<strong>di</strong>ci quando si limitano ad<br />

aumentare le dosi <strong>di</strong> quella stessa me<strong>di</strong>cina che ha prodotto il male. Mi rifaccio, per in<strong>di</strong>viduare i problemi e<br />

le patologie del mondo, a <strong>di</strong>versi stu<strong>di</strong>osi, per esempio a Gregory Bateson, il quale ci ha detto che noi siamo<br />

parte della natura e che dovremmo cominciare a pensarci anche come natura, stando attenti a quel dualismo<br />

che mette l’uomo contro <strong>di</strong> essa e ne fa colui che la vuole possedere e sottomettere. La proposta <strong>di</strong> Bateson è<br />

molto chiara: bisogna ricominciare a pensare in chiave olistica, pensarsi all’interno <strong>di</strong> un equilibrio più<br />

grande. Questa non è arretratezza, ma solo saggezza, ecologia della mente.<br />

In quest’ottica plurale, allora, non è vero che certe culture si trovano in una situazione <strong>di</strong> arretratezza:<br />

hanno i loro problemi, certo (non è giusto fare della cultura altrui - come del resto della propria - un i<strong>di</strong>llio),<br />

ma sicuramente, dentro a quello che noi gettiamo via come se fosse un residuo <strong>di</strong> arretratezza, c’è invece una<br />

saggezza che abbiamo perso. Qual è infatti il messaggio che ci arriva ormai da trenta, quaranta anni da una<br />

<strong>di</strong>sciplina totalmente laica, come è l’ecologia? «Attento, uomo occidentale, tu che canti le magnifiche sorti e<br />

progressive della tua cultura: non ti ren<strong>di</strong> conto dell’enorme massa <strong>di</strong> effetti perversi e dell’enorme quantità<br />

<strong>di</strong> inquinamento ambientale che essa produce?». Questo ci <strong>di</strong>ce l’ecologia, facendo semplicemente un<br />

calcolo non apologetico della situazione. E qual è il messaggio? Che siamo solo una parte, per <strong>di</strong> più<br />

infinitamente piccola, <strong>di</strong> un universo.<br />

Nel penultimo libro che ho scritto, un libro su Leopar<strong>di</strong>, sono rimasto straor<strong>di</strong>nariamente affascinato<br />

da un sogno infantile <strong>di</strong> Giacomo Leopar<strong>di</strong>, un sogno che secondo me poi struttura per intero la sua poesia.<br />

Quand’era bambino Leopar<strong>di</strong> immaginava <strong>di</strong> salire su, nel cielo, e <strong>di</strong> guardare la terra da lontano; salendo<br />

sempre più in alto, fino a vederla -questa è la sua espressione- come un “globetto”, una piccolissima sfera.<br />

Credo che questo sia l’orizzonte della filosofia, ma anche della poesia <strong>di</strong> Leopar<strong>di</strong>, ma non è <strong>di</strong> questo che<br />

voglio parlarvi. Il sogno esemplifica il riuscire a guardarsi da così lontano fino a capire che la vita su questo<br />

pianeta è qualcosa <strong>di</strong> gracile, che si è costruito probabilmente sulla base <strong>di</strong> una combinazione <strong>di</strong> fattori<br />

estremamente <strong>di</strong>fficile da riprodurre e che nessuno ha il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> far saltare, proponendosi come unico<br />

sistema <strong>di</strong> vita per il mondo. Dovremmo pensare ad alcune delle esperienze che si stanno facendo in Africa<br />

non solo come ad uno strumento <strong>di</strong> solidarietà e <strong>di</strong> amicizia con gli africani, ma anche come un elemento <strong>di</strong><br />

riflessione critica per quello che riguarda la nostra cultura. L’Africa non è solo quel cumulo <strong>di</strong> guerre e <strong>di</strong><br />

malattie che viene dalle rappresentazioni dominanti, è anche una nozione <strong>di</strong> saggezza che non condanna la<br />

vita al primato della produzione.<br />

Vorrei <strong>di</strong>re ancora qualcosa sul tema della relatività. Il movimento cognitivo che ho provato a fare, e<br />

in base al quale vedo i meccanismi <strong>di</strong> potere che mi guidano, si basa su un processo <strong>di</strong> riflessione, <strong>di</strong> autorelativizzazione.<br />

Io credo che questo sforzo <strong>di</strong> auto-relativizzazione possieda una straor<strong>di</strong>naria <strong>di</strong>mensione<br />

etica. Questo ce l’ha insegnato anche qualcuno, che ci ha lasciati da poco: credo che il gesto del “chiedere<br />

scusa” abbia una forza straor<strong>di</strong>naria perché significa: «io allora sbagliavo! Non sono quello! Voglio essere<br />

un’altra cosa». E’ un elemento <strong>di</strong> riflessione critica che ha un profilo etico altissimo perché implica apertura<br />

all’altro. L’auto-relativizzazione è appunto questo: è apertura alle ragioni dell’altro; è comprensione del fatto<br />

che la storia che l’altro racconta non è una storia sbagliata, che devo correggere, ma è invece un’altra forma<br />

<strong>di</strong> accesso al mondo dalla quale posso e devo apprendere. Questo perché, se è vero che la forma più o<strong>di</strong>osa <strong>di</strong><br />

ogni fondamentalismo si realizza quando si invade e si decide <strong>di</strong> bombardare unilateralmente, c’è un'altra<br />

forma <strong>di</strong> fondamentalismo altrettanto o<strong>di</strong>osa, la quale ha come presupposto l’idea che l’altro, quando parla,<br />

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non debba interessarmi, poiché non ha nulla da <strong>di</strong>rmi. Questo è in realtà il presupposto <strong>di</strong> ogni<br />

fondamentalismo: io non sto a sentire l’altro, poiché sono convinto <strong>di</strong> avere l’esclusiva del bene e del vero,<br />

sono convinto <strong>di</strong> possedere la verità. Io mi autodefinisco come il maestro dell’altro, che può essere soltanto<br />

uno studente.<br />

C’è un’immagine del rapporto tra le culture che ripropongo continuamente, perché la reputo molto<br />

significativa: l’immagine che gli africani hanno costruito per cercare <strong>di</strong> configurare i rapporti tra essi stessi e<br />

gli europei. In questa immagine sono presenti due maschere: la maschera dell’europeo ha la bocca grande e<br />

le orecchie piccole; la maschera dell’africano ha le orecchie gran<strong>di</strong> e la bocca piccola. Qui troviamo il<br />

rapporto <strong>di</strong> potere, qui l’ignoranza del fondamentalismo: io non credo <strong>di</strong> dover apprendere. L’occidentale,<br />

l’europeo, parla e non ascolta. Ha solo da <strong>di</strong>re. E dall’altra parte c’è una bocca piccola, che non ha niente da<br />

<strong>di</strong>re, e ci sono orecchie gran<strong>di</strong>, perché il non-europeo deve solo ascoltare.<br />

Combattere il fondamentalismo vuol <strong>di</strong>re rendere uguali le maschere. Vuol <strong>di</strong>re, per esempio, essere capaci<br />

<strong>di</strong> apprendere dall’altro, capire che l’altro non è una forma sbagliata o minore <strong>di</strong> noi, bensì un’altra voce,<br />

importante quanto la nostra, perché l’universale al quale bisogna mirare è un universale nel quale tutte le<br />

voci sono essenziali. Questo anche perché l’unica vera forma <strong>di</strong> universale possibile, e quella alla quale si<br />

perviene da più parti, è formata da più voci. Solo da questa somma, da questa costruzione a più mani, nella<br />

quale ognuno porta il suo contributo culturale al bene comune dell’umanità, potrà venire un futuro più giusto<br />

e pacifico, un futuro fondato sul reciproco riconoscimento.<br />

Credo quin<strong>di</strong> che occorra imparare, volendo avviare una riflessione molto attuale sul<br />

fondamentalismo, a leggere la nozione <strong>di</strong> frontiera e <strong>di</strong> confine con l’altro in un modo completamente<br />

<strong>di</strong>verso rispetto al modo in cui il fondamentalismo la propone. Faccio un esempio: qual è il modo nel quale il<br />

cantore dell’identità pensa al confine? Il confine è il punto nel quale si situa la <strong>di</strong>fferenza fra me e gli altri,<br />

ovvero quelli che devono <strong>di</strong>ventare come me. Devo espandere la mia identità: mi sento sicuro solo se il<br />

mondo <strong>di</strong>venta tutto identico a me. Voi capite quanta violenza c’è in questo meccanismo, perché basta che<br />

dall’altra parte ci siano altri che la pensano allo stesso modo e si scatena la guerra.<br />

Ma al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> questo: che cos’è l’identità, da questo punto <strong>di</strong> vista? Faccio un altro esempio -<br />

perdonatemi l’esasperazione <strong>di</strong>dattica - per parlare <strong>di</strong> questo tema, della superiorità del confine. Chi ama<br />

l’identico è il punto bianco che sta al centro <strong>di</strong> questo foglio. Il punto bianco si guarda intorno, vede tanti<br />

altri punti bianchi e <strong>di</strong>ce: «Ah, ma come è bello essere punti banchi. Evviva la “bianchità”! La bianchità ha<br />

<strong>di</strong>ritto al mondo! Forse Dio ha <strong>di</strong>segnato il mondo per darlo ai punti bianchi». “Evviva la bianchità!” si canta<br />

in coro; si parla delle proprie vittime. Cosa sono i punti che non sono bianchi? Sono punti sporchi, che<br />

magari, con un po’ <strong>di</strong> energia, possiamo pulire. Questo è il vero, forte, fondamentalismo.<br />

Ora, allontaniamoci un attimo dal centro, da questa “apologia del centro”, ed an<strong>di</strong>amo verso il<br />

confine: chi sta sul confine è un punto bianco, appartiene alla “bianchità”, ma si affaccia sull’altro. E chi sta<br />

sul confine ha per lo meno due <strong>di</strong>mensioni: la <strong>di</strong>mensione che ha in comune con gli altri punti bianchi, ma<br />

anche la <strong>di</strong>mensione <strong>di</strong> apertura all’altro. Da questo punto <strong>di</strong> vista ospita quin<strong>di</strong> dentro <strong>di</strong> sé molto più<br />

mondo del fondamentalista, <strong>di</strong> colui che sta chiuso dentro l’identità. Dunque non solo lavora <strong>di</strong> più per la<br />

comprensione, ma conosce <strong>di</strong> più, perché ha due lingue con le quali può parlare, perché ha visto che l’altro<br />

prega in un altro modo e capisce che l’uomo può essere in un altro modo. Magari - anche questo è un<br />

elemento che bisogna sottolineare - vuole costruire con lui un rapporto <strong>di</strong> comunicazione.<br />

Molti oggi parlano delle culture come se fossero dei monoblocchi: credo invece che le cose stiano<br />

molto <strong>di</strong>versamente. Huntington, per esempio, parla <strong>di</strong> conflitti tra civiltà, tra identità quasi impermeabili<br />

l’una all’altra, e mette poi i confini a modo suo: chissà perché <strong>di</strong>vide l’Europa in due e la <strong>di</strong>vide inoltre dal<br />

Me<strong>di</strong>terraneo. Questo, storicamente, non è poi del tutto vero, sebbene rientri sicuramente nei desideri<br />

dell’”impero americano”. Nel libro <strong>di</strong> Huntington, Lo scontro delle civiltà, l’Europa è dunque <strong>di</strong>visa in due,<br />

pensando al rapporto tra Cristianesimo occidentale e Cristianesimo orientale. In realtà oggi la geopolitica è<br />

cambiata e forse oggi Huntington riscriverebbe in maniera <strong>di</strong>versa il suo libro.<br />

Il punto è che le culture non sono monolitiche, ma sono piene <strong>di</strong> <strong>di</strong>mensioni mobili, sono molteplici,<br />

ricche, in movimento, piene <strong>di</strong> interpreti che in qualche modo lavorano all’interno <strong>di</strong> esse. Il meccanismo<br />

tramite il quale le si riduce ad un monolite scatta nel momento in cui si percepisce l’altro come una minaccia.<br />

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Dunque il monolitismo culturale è un’operazione <strong>di</strong> guerra. L’Islam non è quel ritratto che noi ne facciamo,<br />

(riducendolo a semplice appen<strong>di</strong>ce <strong>di</strong> alcune sue componenti) e che in qualche modo usiamo: l’Islam ha una<br />

storia ricca, plurale, <strong>di</strong>versificata e, leggendone la storia, recente o anche più lontana, ci si accorge che le<br />

voci che lo abitano sono tante. Perché dunque si è affermata questa voce che lo riduce ad una forma <strong>di</strong><br />

integralismo aggressivo? Questa specie <strong>di</strong> “purismo duro”, che poi non è per niente un fenomeno antico, ma,<br />

per molti versi, moderno? Si tratta in buona misura <strong>di</strong> un fondamentalismo reattivo rispetto al<br />

fondamentalismo <strong>di</strong> chi è più potente. Come si <strong>di</strong>strugge il fondamentalismo islamico se non cambiando il<br />

modo in cui il soggetto più potente si atteggia nei riguar<strong>di</strong> dell’altro? E’ cosi che si toglie l’acqua attorno al<br />

“pesce fondamentalismo”: costruendo rapporti <strong>di</strong> pace e <strong>di</strong> comprensione.<br />

Si vedrà allora che il monolitismo, così come non c’è nella nostra storia - perché siamo molto <strong>di</strong>versi,<br />

abbiamo tante facce - non è presente neanche dall’altra parte. E questa scoperta apre enormi possibilità <strong>di</strong><br />

comunicazione e <strong>di</strong> cambiamento.<br />

Vivendo in una città che sta affacciata sul Me<strong>di</strong>terraneo, mi batto da anni su questo punto, devo <strong>di</strong>re<br />

anche con una qualche sod<strong>di</strong>sfazione: il governatore uscito dalle ultime elezioni ha proclamato <strong>di</strong> voler<br />

istituire un assessorato al Me<strong>di</strong>terraneo e <strong>di</strong> proporlo a tutte le regioni meri<strong>di</strong>onali. Secondo me ciò non<br />

dovrebbe avvenire solo per le regioni meri<strong>di</strong>onali, perché il Me<strong>di</strong>terraneo è qualcosa che riguarda la storia <strong>di</strong><br />

tutta l’Italia: è impensabile il nostro paese senza il rapporto complesso tra Europa e Me<strong>di</strong>terraneo. Si può<br />

pensare alla storia d’Italia senza la Magna Grecia, la cultura ellenica? Si può pensare alla nostra storia senza<br />

Roma? Senza due pellegrini, due “pazzi”, Pietro e Paolo, che partirono da est e arrivarono a Roma? Si può<br />

capire la nostra storia senza quel falegname al quale improvvisamente venne in mente <strong>di</strong> <strong>di</strong>re «figlio <strong>di</strong> Dio»,<br />

per cui noi contiamo il tempo a partire da quando è nato? Si può pensare la nostra storia senza Venezia o<br />

Genova? No, non è pensabile: rimuovere questa <strong>di</strong>mensione costituirebbe una mutilazione, in primo luogo <strong>di</strong><br />

noi stessi.<br />

Riscoprire il Me<strong>di</strong>terraneo come un mare <strong>di</strong> pace, battere la linea del conflitto <strong>di</strong> civiltà, è vitale, non<br />

solo per il sud del nostro paese, ma per il paese intero e, vorrei <strong>di</strong>re, per l’Europa, per mettere in movimento<br />

quella parte della sua tra<strong>di</strong>zione che vuole <strong>di</strong>alogare, che vede l’altro come una risorsa, come una ricchezza<br />

per accrescere la propria esperienza.<br />

Si tratta dell’esatto contrario del fondamentalismo e dell’immagine banale del relativismo: «l’altro non ha<br />

valori». E’ invece una strategia etica complessa, all’interno della quale la voce dell’altro è importante, fa<br />

parte <strong>di</strong> una <strong>di</strong>namica che mi arricchisce, senza la quale non vivo. Del resto, scusate, ma vi sembra possibile<br />

pensare una cultura senza il prima che l’ha abitata? E’ pensabile, al fondo, nelle sue origini, il Cristianesimo,<br />

senza una straor<strong>di</strong>naria contaminazione? Diceva Camus che il Cristianesimo è stato capace <strong>di</strong> addolcire la<br />

durezza ebraica dei deserti attraverso il mare, il Me<strong>di</strong>terraneo. Anch’esso è dunque il risultato, se lo si vuole<br />

vedere da questo punto <strong>di</strong> vista, <strong>di</strong> questa <strong>di</strong>mensione <strong>di</strong> contaminazione; non c’è un’origine pura. Quando<br />

mi chiamano nella mia città, Bari, a tenere qualche lezione sull’intercultura, inizio <strong>di</strong>cendo che la città è<br />

piena <strong>di</strong> nomi spagnoli, greci, ecc. Perché siamo questo: il nostro noi è pieno <strong>di</strong> altri. E questo per fortuna:<br />

vuol <strong>di</strong>re che siamo in<strong>di</strong>sponibili a qualsiasi pulizia etnica, a quella ferocia stupida e sanguinaria che è la<br />

pulizia etnica. Credo sia un messaggio in questa <strong>di</strong>rezione, ma occorre, per andare avanti su questa strada,<br />

che in qualche modo la giustizia abiti <strong>di</strong> più il mondo. Stamattina, in chiave paradossale, <strong>di</strong>cevo: «possiamo<br />

pensare che sia un mondo giusto quello nel quale le risorse petrolifere del globo sono nelle mani <strong>di</strong> una parte<br />

soltanto del globo?». Sappiamo che il petrolio c’è anche in Texas: abbiamo mai pensato che i mujahed<strong>di</strong>n<br />

dovessero andare a presi<strong>di</strong>are i pozzi petroliferi a Dallas, per intenderci?<br />

Un mondo giusto è un mondo nel quale tutti collaborano e non c’è qualcuno che pensa <strong>di</strong> poter<br />

esportare le proprie istituzioni. Come uomo che ama la democrazia, <strong>di</strong>co anche che la democrazia la si<br />

esporta con una strategia molto <strong>di</strong>versa: dando autonomia <strong>di</strong> movimento ai soggetti, autonomia e capacità <strong>di</strong><br />

decisione all’altro, imparando dall’altro, rompendo i cordoni militari, rompendo la chiusura identitaria e<br />

favorendo la comunicazione. Non credo che questo sia relativismo; ritengo invece che rappresenti l’idea <strong>di</strong><br />

un’etica allargata, nella quale non sono io che esporto presso gli altri, ma tutti insieme cerchiamo <strong>di</strong><br />

collaborare per rendere questo mondo più giusto e soprattutto più ricco, poiché credo che la relazione con<br />

l’altro sia una <strong>di</strong>mensione che ci arricchisce e che dalle culture degli altri popoli abbiamo ancora da<br />

apprendere. Non è vero che dall’altra parte c’è solo il nostro passato: per certi versi, riguardo a certe nozioni<br />

<strong>di</strong> equilibrio e <strong>di</strong> rispetto della natura che esistono in Africa, abbiamo solo da apprendere. E’ la riscoperta <strong>di</strong><br />

un’origine, <strong>di</strong> una terra che ci contiene, <strong>di</strong> una terra materna. Bene, questo “maschietto”, l’Occidente, che<br />

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pretende <strong>di</strong> sottoporre tutto a se stesso, ha bisogno <strong>di</strong> un bagno <strong>di</strong> umiltà. Credo che questa sia la strada della<br />

saggezza del pianeta e che noi dobbiamo apprendere questa saggezza dalla nostra tra<strong>di</strong>zione, ma soprattutto<br />

dal rispetto dell’altro ed imparando dall’altro.<br />

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Jean-Léonard Touadì<br />

Giornalista, co-autore del programma <strong>di</strong> approfon<strong>di</strong>mento <strong>di</strong> tematiche internazionale<br />

“C’era una volta” in onda su Rai 3<br />

Un’esperienza africana: l’economia del dono<br />

Buonasera a tutti e bentrovati. Mi vergogno un po’ a prendere la parola in questo momento, appena<br />

arrivato, infrangendo in questo un tratto importante della mia cultura: non si parla prima <strong>di</strong> non aver<br />

ascoltato gli altri. Però eserciterò questa virtù in seguito, nel resto del pomeriggio, perché davvero le cose<br />

che ho sentito dal professor Cassano -e, sono sicuro, anche quelle che sentirò dopo- sono <strong>di</strong> grande interesse,<br />

dato che riguardano le sfide che la nostra epoca, la nostra era, così tormentata, però anche così promettente,<br />

deve affrontare. Vorrei <strong>di</strong>re intanto questo: quando si parla della nostra epoca come <strong>di</strong> un’epoca apocalittica -<br />

e <strong>di</strong>pingere le cose in termini apocalittici piace soprattutto a noi giornalisti, perché così possiamo<br />

spettacolarizzare, proporre immagini forti e via <strong>di</strong>cendo- occorre sempre ricordare che il vero senso<br />

dell’apocalisse è che da un lato succedono cose terribili (fine <strong>di</strong> un mondo), ma, dall’altro, l’apocalisse è<br />

soprattutto rivelazione <strong>di</strong> cose nuove. Questo è il vero senso dell’apocalisse, che dà anche tutto il suo senso e<br />

la sua pregnanza alla rivelazione cristiana.<br />

Nel mio piccolo, quin<strong>di</strong>, durante questa chiacchierata che mi hanno detto dovrà durare circa trenta<br />

minuti, (è sempre terribile quando ad un africano il tempo viene contingentato: bisogna, in chiave<br />

multiculturale, guardare l’orologio!), vorrei riuscire a raccontarvi che cosa <strong>di</strong> nuovo sta avvenendo in Africa<br />

riguardo al tema dell’economia, il tema che mi è stato affidato, con particolare riferimento all’economia del<br />

dono. Non posso però farlo senza costringervi -e me ne scuso- ad un piccolo tuffo nel passato, nella storia,<br />

aiutato in questo dalle bellissime parole del professor Cassano, il quale mi ha spianato la strada con le analisi<br />

che ha fatto circa la storia dell’incontro tra l’Europa e gli altri popoli. Dal punto <strong>di</strong> vista economico -poiché è<br />

questo il punto <strong>di</strong> vista che vorrei proporre- il 1492, per l’America Latina, e il 1498 per noi africani (è la data<br />

della cosiddetta circumnavigazione dell’Africa da parte <strong>di</strong> Vasco de Gama) segnano l’ingresso a pieno titolo<br />

dell’Africa nell’economia internazionale, mon<strong>di</strong>ale. Siamo entrati nella modernità economica, <strong>di</strong>rebbe<br />

qualcuno. Questo nostro ingresso nella modernità economica non è stato un ingresso da noi negoziato, cioè<br />

non abbiamo avuto il tempo <strong>di</strong> negoziare i termini e la sostanza del nostro essere dentro l’economia<br />

moderna. Siamo stati immersi dentro questa economia con la forza, con la violenza, pagando costi molto<br />

elevati in termini <strong>di</strong> flussi umani dall’Africa verso l’America. La schiavitù e la colonizzazione come due<br />

momenti fondamentali, drammatici, tragici, del nostro ingresso nella modernità economica, attraverso il<br />

commercio triangolare. Il commercio triangolare, non c’è bisogno <strong>di</strong> ricordarlo, si svolgeva nel seguente<br />

modo: le merci lasciavano i porti europei, arrivavano in Africa, dove erano scambiate con gli schiavi, i quali<br />

venivano portati nelle Americhe e lì lavoravano cotone, canna da zucchero, ecc. Tutta questa merce ritornava<br />

poi a foraggiare il grande slancio economico europeo che iniziava proprio in quel periodo e sarebbe poi<br />

culminato nella rivoluzione industriale.<br />

Siamo entrati quin<strong>di</strong> nella modernità economica con “mani e pie<strong>di</strong> giunti”, legati, senza mai aver<br />

avuto il tempo <strong>di</strong> negoziare i termini <strong>di</strong> questo ingresso. Un economista che stu<strong>di</strong>a da vicino queste cose<br />

parla <strong>di</strong> “economie subalternizzate”: siamo economie subalterne, lo siamo stati, lo siamo ancora. Lavoriamo<br />

per foraggiare la locomotiva dell’economia mon<strong>di</strong>ale, che nel passato era l’Europa, mentre oggi possiamo<br />

identificarla con quella che agli occhi nostri potrebbe apparire (in termini economici) come un’associazione<br />

a delinquere: il G7.<br />

Qualcuno si spinge fino a <strong>di</strong>re che il tipo <strong>di</strong> economia che è stata imposta all’Africa -e in una certa<br />

misura anche all’America latina- non soltanto implica una netta subalternizzazione, ma nemmeno può essere<br />

definita in senso stretto “economia”. Quin<strong>di</strong> in Africa ci troviamo in un’era <strong>di</strong> non economia. Che cos’è,<br />

banalmente, l’economia? Si potrebbe <strong>di</strong>re che è una risposta in termini <strong>di</strong> beni e <strong>di</strong> servizi ai bisogni <strong>di</strong> una<br />

comunità, <strong>di</strong> un territorio, delle persone che vivono in un territorio. Le caratteristiche dell’economia<br />

triangolare, della nostra subalternizzazione, ci <strong>di</strong>cono invece che queste economie lavorano per bisogni<br />

extra-africani. Hanno sempre lavorato per dei bisogni extra-africani e non hanno mai risposto ai bisogni dei<br />

popoli dell’Africa. La colonizzazione, la schiavitù, la conquista coloniale, quello che un grande romanziere<br />

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africano, Cheick Anta Diop, chiama l’arte <strong>di</strong> vincere senza avere ragione, introducono in Africa la non<br />

economia.<br />

Si è parlato della colonizzazione anche come usurpazione del tempo e dello spazio: un filosofo<br />

camerunese, mio maestro, <strong>di</strong>ceva che la colonizzazione è l’usurpazione dello spazio e del tempo, dello<br />

spazio materiale, della terra. Desmond Tutu, il vescovo anglicano <strong>di</strong> Johannesburg, ama raccontare questa<br />

boutade, ridendo (ed ha un riso fragoroso; è un uomo estremamente gioviale): state attenti a questa gente -ed<br />

è un vescovo che parla, quin<strong>di</strong> non può essere tacciato <strong>di</strong> essere anti-cristiano- perché, quando loro sono<br />

arrivati, noi avevamo la terra e loro la Bibbia; dopo pochi anni noi avevamo la Bibbia e loro la terra.<br />

La colonizzazione, quin<strong>di</strong>, come un momento <strong>di</strong> usurpazione dello spazio, dello spazio materiale, della terra.<br />

Ma più importante dell’usurpazione dello spazio materiale è quella dello spazio simbolico. Le due<br />

cose in Africa coincidono in modo perfetto: lo spazio materiale e lo spazio simbolico, lo spazio degli<br />

universi <strong>di</strong> significato, lo spazio dei valori antropologici. E qui cito un altro bel romanzo, Il crollo (Things<br />

fall apart), <strong>di</strong> Chinua Achebe, che ci racconta come l’arrivo <strong>di</strong> Mr. Smith in un villaggio abbia coinciso con<br />

una violazione palese dello spazio simbolico e dello spazio valoriale dell’Africa. Mr. Smith decide <strong>di</strong><br />

costruire il suo tempio proprio nella foresta sacra degli antenati, portando le male<strong>di</strong>zioni più terribili su quel<br />

villaggio, perché la violazione della terra degli antenati interrompe un pacchetto <strong>di</strong> intesa tra gli antenati e gli<br />

abitanti del villaggio. Spazio materiale e spazio simbolico violati, quin<strong>di</strong>.<br />

Siamo stati, attraverso quella che Serge Latouche chiama L’occidentalizzazione del mondo, inseriti<br />

nell’economia globalizzata. E cosa succede ora con la globalizzazione? Ho detto che la modernità non<br />

l’abbiamo negoziata. Ma voi pensate che abbiamo avuto tempo e modo <strong>di</strong> negoziare l’ingresso nella<br />

globalizzazione? Stiamo rischiando <strong>di</strong> entrare nella globalizzazione con le stesse modalità con le quali siamo<br />

entrati nella modernità: mani e pie<strong>di</strong> legati. Senza avere lo spazio <strong>di</strong> negoziare checchessia. Questa<br />

introduzione dell’economia occidentale, dell’economia moderna, <strong>di</strong>ciamo, me<strong>di</strong>ante la forza, l’arte <strong>di</strong> vincere<br />

senza avere ragione, purtroppo non ha prodotto in Africa i risultati che tutti si aspettavano. Eravamo<br />

selvaggi, eravamo primitivi, eravamo miserabili…Andate a vedere oggi qualunque statistica della Banca<br />

Mon<strong>di</strong>ale, qualunque rapporto dell’UNDP o <strong>di</strong> un qualsiasi altro organismo multilaterale: il fallimento <strong>di</strong><br />

questo tipo <strong>di</strong> economia è sotto gli occhi <strong>di</strong> tutti. L’economia ufficiale in Africa ha fallito e continuare a<br />

parlare ancora <strong>di</strong> sviluppo in Africa è come parlare <strong>di</strong> un morto che cammina: dead man walking. Lo<br />

sviluppo è morto. E questa certificazione della morte dello sviluppo è visibile agli occhi <strong>di</strong> tutti:<br />

l’allargamento della geografia della miseria in questo continente, il continente para<strong>di</strong>gma della povertà e<br />

della miseria nel mondo. Quin<strong>di</strong> quest’economia ha fallito. Ma noi l’abbiamo sempre saputo, non dovevamo<br />

aspettare James Wolfensohn oppure Michel Camdessus, l’uno presidente della Banca Mon<strong>di</strong>ale, l’altro per<br />

se<strong>di</strong>ci anni presidente del Fondo Monetario Internazionale. Entrambi -guardate caso - hanno fatto queste<br />

analisi dopo aver lasciato il loro incarico, non mentre sono in carica. Oggi sono i feroci critici <strong>di</strong> questa<br />

impostazione economica che ha le sue ra<strong>di</strong>ci nel commercio triangolare e che ha avuto mutamenti nel corso<br />

degli anni: dalle teorie sviluppiste degli anni ’60-’70, ai piani <strong>di</strong> aggiustamento strutturale e chi più ne ha più<br />

ne metta.<br />

Quest’economia ha fallito. Di che cosa hanno vissuto allora gli africani fino ad adesso, se questa<br />

economia non ha saputo dare le risposte che prometteva, quando si pensava che bastasse allargare lo spazio<br />

del capitalismo all’Africa per regalare il benessere a tutti? Ci stiamo rendendo conto che non c’è un<br />

meccanismo automatico tra l’espansione del capitalismo e l’arretramento della povertà. Anzi, ci sono fior <strong>di</strong><br />

esempi in vari paesi africani -se volete ci possiamo tornare durante il <strong>di</strong>battito- che <strong>di</strong>mostrano tutto il<br />

contrario: più cresce il PIL, il famigerato Prodotto Interno Lordo. Quando voi o i vostri governanti <strong>di</strong>cono:<br />

“cresciamo troppo poco”, io per l’Africa paradossalmente <strong>di</strong>rei: “Bisogna smettere <strong>di</strong> crescere!”. Almeno <strong>di</strong><br />

crescere in questo modo. La stragrande maggioranza delle popolazioni africane è costretta alla<br />

“clochar<strong>di</strong>zzazione” 1 <strong>di</strong> massa, dovuta proprio a questi meccanismi economici. Meccanismi che Papa<br />

Giovanni Paolo II, che non era notoriamente un militante <strong>di</strong> Rifondazione Comunista- non ha esitato a<br />

chiamare “le strutture <strong>di</strong> peccato” nella Solicitudo Rei Socialis. Le strutture <strong>di</strong> peccato, il peccato che lascia<br />

la soggettività in<strong>di</strong>viduale, ma che si annida nelle strutture che nel loro funzionamento creano oppressione,<br />

dominio e miseria, che aggravano la non <strong>di</strong>gnità dell’uomo, per <strong>di</strong>rla con Sant’Ireneo. Di che cosa hanno<br />

1 Da “clochard” - barbone<br />

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vissuto i nostri popoli in questi ultimi tempi? Io appartengo a quella generazione nata più o meno negli anni<br />

sessanta che ha ricevuto il compito <strong>di</strong> venire in Europa, mandata in Europa, proprio in seguito all’arte <strong>di</strong><br />

vincere senza ragione, per rubare agli occidentali il segreto della loro potenza.. Come una specie <strong>di</strong> missione<br />

prometeica, per rubare il fuoco agli dei, il fuoco dello sviluppo economico, della crescita, della tecnologia,<br />

della scienza, per portarlo ai popoli. Eravamo in tanti, alcuni sono tornati, sono i governanti <strong>di</strong> adesso,<br />

estremamente sedotti da questo modello economico e politico. E lo hanno applicato, hanno cercato <strong>di</strong><br />

applicarlo come hanno potuto, chi con più intelligenza, chi con meno intelligenza. Chi non è ricco, in quella<br />

scala <strong>di</strong> valori del modello unico, è solo in ritardo. Bisogna solo aiutarlo a colmare questo ritardo. E’ uscito<br />

anche un libro che ha fatto molto, molto scalpore, Et si l’Afrique refusait le développement? (E se l'Africa<br />

rifiutasse lo sviluppo?). Ci è stato detto da una giovane sociologa camerunese che dobbiamo finirla, noi<br />

africani, <strong>di</strong> rifugiarci nella sindrome della vittimizzazione <strong>di</strong> cui siamo a volte anche preda. C’è qualcosa in<br />

noi che ci impe<strong>di</strong>sce <strong>di</strong> approdare allo sviluppo. Quin<strong>di</strong> dobbiamo promuovere un rinnovamento interno<br />

nella nostra cultura per approdare allo sviluppo. Ci dobbiamo convertire, una specie <strong>di</strong> conversione culturale,<br />

per metterci all’altezza delle sfide dello sviluppo economico. Questo modo <strong>di</strong> pensare -il libro che ho citato è<br />

uscito circa vent’anni fa- oggi non ha più presa: non cre<strong>di</strong>amo più -nessuno crede più in Africa, a parte i<br />

<strong>di</strong>rigenti africani che da questo sistema hanno giovamento e ne fanno parte- che lo sviluppo sia uno sviluppo<br />

unico, uguale per tutti, lo stesso applicabile a Dakar, applicabile a Durban, in Sudafrica, applicabile a<br />

Lusaka, applicabile a Iringa, in Tanzania. E questo ce l’hanno insegnato i nostri popoli, che in questi<br />

quaranta anni <strong>di</strong> fallimento dell’Africa ufficiale hanno costituito dei circuiti economici, delle reti <strong>di</strong><br />

produzione e riproduzione dei beni, non solo al <strong>di</strong> fuori dell’ufficialità economica, ma contro le logiche <strong>di</strong><br />

questa ufficialità Questa è la grande parabola <strong>di</strong> resistenza dell’Africa <strong>di</strong> oggi.<br />

Quello che mi ha fatto rifiutare il titolo, per l’ultimo libro che ho pubblicato: qualcuno voleva<br />

intitolarlo Il sogno tra<strong>di</strong>to, io ho detto no: l’Africa non è un sogno tra<strong>di</strong>to, l’Africa è una pentola che bolle,<br />

un po’ in questo senso. Ma per vedere questa pentola dobbiamo lasciare le tabelle della Banca Mon<strong>di</strong>ale e<br />

del Fondo Monetario Internazionale, dobbiamo inoltrarci dentro i meandri dell’informale economia popolare,<br />

laddove la gente si inventa quoti<strong>di</strong>anamente la propria sopravvivenza, la gymnastique de la survivance. Ecco,<br />

se noi entriamo all’interno <strong>di</strong> questi meandri, meandri che non sono scintillanti, certamente, non stiamo<br />

parlando <strong>di</strong> Malin<strong>di</strong> o Mombasa o Zanzibar. Per vedere questi aspetti bisogna sporcarsi le mani, i pie<strong>di</strong>, non<br />

bisogna essere in giacca e cravatta ma dobbiamo andare nei villaggi, impiegare due ore per fare cinquanta<br />

chilometri. Allora lì ci ren<strong>di</strong>amo conto che questa occidentalizzazione forzata dell’Africa ha toccato una<br />

certa superficie, ma non ha intaccato il cuore culturale del rapporto dell’Africa con l’economia, con i sol<strong>di</strong>,<br />

con la natura e così via. La nostra cultura -io parlo almeno delle culture bantu, dalla quale provengo; bantu è<br />

il plurale <strong>di</strong> muntu, l’uomo- poggia sulla forza vitale, la forza vitale come centro dell’antropologia bantu.<br />

Questa forza vitale si trasmette dall’essere supremo, Nzambi Mpungu. Anche qui i missionari hanno detto<br />

che noi eravamo dei popoli politeisti: non è vero, eravamo monoteisti, ma che consideravano questo Dio<br />

troppo lontano e quin<strong>di</strong> creavano tra Dio e gli uomini degli interme<strong>di</strong>ari. Questa forza vitale che si trasmette<br />

attraverso le generazioni, attraverso lo spazio e il tempo, che non conosce <strong>di</strong>fferenza tra il sacro e il profano,<br />

perché c’è una cultura intrisa <strong>di</strong> religiosità nelle varie culture africane, soprattutto, sottolineo, in quella bantu,<br />

alla quale appartengo. Questa cultura che non conosce una <strong>di</strong>visione netta tra uomo e natura, croce e delizia<br />

per noi; qualcuno <strong>di</strong>ce: “proprio per questo motivo non vi svilupperete mai. Noi, a <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> voi, ci siamo<br />

sviluppati perché abbiamo oggettivizzato la natura e quin<strong>di</strong> siamo stati in grado <strong>di</strong> trasformarla”. Bene, noi<br />

abbiamo scelto da sempre <strong>di</strong> vivere con la natura in un rapporto simbiotico, rispettandola, attendendo che le<br />

sue leggi e le sue logiche <strong>di</strong>ano quello che devono dare. E infine, non sacro/profano, non rapporto uomonatura<br />

-sono cose che andrebbero approfon<strong>di</strong>te, però vado veloce perché il tempo scorre- ma la nozione <strong>di</strong><br />

ubuntu. Una nozione molto importante E mi ricordo come fosse ieri che, ogni volta che facevo qualche cosa,<br />

mio nonno, mio padre, mia madre, mi <strong>di</strong>cevano: attenzione, dove sta il tuo ubuntu? Allora che cos’è questo<br />

ubuntu? E’ quello che fa dell’uomo, l’uomo che è, in tutta la completezza delle sue stratificazioni culturali,<br />

spirituali, materiali. Ma soprattutto l’ubuntu <strong>di</strong>ce: io sono perché gli altri sono. Non sono se gli altri non<br />

sono. Non vivo, non consumo se gli altri non hanno consumato.<br />

Questa filosofia bantu, questa forza vitale, questo forte ra<strong>di</strong>camento culturale multi-secolare, <strong>di</strong>rei<br />

quasi multi-millenario africano grazie a Dio non è morta del tutto con l’occidentalizzazione del mondo<br />

portata dalla modernità economica. E’ sopravvissuta assumendo forme molto strane, per nascondersi, per<br />

non accettare <strong>di</strong> morire. E anche qui, così come siamo stati in grado <strong>di</strong> addomesticare il Cristianesimo -<br />

attraverso i vari sincretismi che hanno prodotto quello che hanno prodotto in America Latina, ma in Africa<br />

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stessa- anche l’economia occidentale, moderna, è stata addomesticata. E’ stata letta dalle culture africane,<br />

dove formalmente l’attività economica è la stessa, ma sostanzialmente ha delle valenze <strong>di</strong>verse. L’economia<br />

informale oggi in Africa ci insegna prima <strong>di</strong> tutto che i popoli sanno essere protagonisti dei processi<br />

economici quando questi processi riguardano la loro vita, i bisogni essenziali, quando l’economia ritorna ad<br />

essere oikos nomos , ritorna alle cose <strong>di</strong> casa, ciò che non è più stata dal 1498 in poi. L’economia informale,<br />

popolare, ci insegna la capacità della gente <strong>di</strong> partecipare, attraverso varie forme, ma ci insegna soprattutto<br />

una cosa <strong>di</strong> cui qui possiamo <strong>di</strong>scutere: che è possibile immettere nell’economia dei valori che l’economia<br />

moderna ha espulso. Valori come la solidarietà, la relazione. E a me colpisce sempre e colpirà fino a quando<br />

vivrò il fatto <strong>di</strong> mia nonna che, una mattina in cui al mercato la sua vicina <strong>di</strong> banco si ammalò, invece <strong>di</strong><br />

approfittarne per guadagnare <strong>di</strong> più, si alzò un’ora prima, prese la sua <strong>di</strong> merce e quella della sua amica,<br />

tenendo così aperto anche il banco della sua amica ammalata. Non fu un guadagno economico, anzi, ma un<br />

importante investimento sociale e relazionale.<br />

Alla fine della sanguinosa guerra che ha insanguinato il Congo, finalmente riuscì a rintracciare i<br />

miei, che mi stilarono un elenco <strong>di</strong> ciò <strong>di</strong> cui avevano bisogno, <strong>di</strong> cose che mancavano. Decido allora <strong>di</strong><br />

inviargli un po’ <strong>di</strong> sol<strong>di</strong>, attraverso i meccanismi che noi <strong>di</strong> solito utilizziamo -Western Union (14% <strong>di</strong><br />

interessi)- che arrivano regolarmente. Chiamo mia mamma per chiedere se i sol<strong>di</strong> sono arrivati e mi sento<br />

rispondere: “non solo sono arrivati, ma ieri ho chiamato le mie amiche, abbiamo fatto una grande festa e ce li<br />

siamo mangiati tutti”. Che cosa ha fatto? Allora, in un primo momento uno pensa: “ma come, mi ha detto<br />

che c’erano dei bisogni da sod<strong>di</strong>sfare…”, ma poi, ripensandoci bene ho riflettuto “vedete, i miei sol<strong>di</strong> a volte<br />

arrivano, a volte non arrivano, ma le sue amiche ci sono sempre”. Si capisce quin<strong>di</strong> l’importanza<br />

dell’investimento relazionale, anche nel modo <strong>di</strong> vivere il rapporto con i sol<strong>di</strong>, con l’economia. Il dono come<br />

punto nodale <strong>di</strong> tutta la rete relazionale, <strong>di</strong> tutta la rete <strong>di</strong> produzione e <strong>di</strong> riproduzione dei beni. Questo tipo<br />

<strong>di</strong> economia che non è teorizzata dai poveri (non hanno mai scritto un libro per trarre le logiche conseguenze<br />

<strong>di</strong> come vivono), questa cattedra dei poveri oggi dovrebbe essere utile anche per i popoli dell’opulenza.<br />

Prima <strong>di</strong> tutto per i <strong>di</strong>rigenti africani, che hanno avuto il coraggio <strong>di</strong> elaborare un progetto, il NEPAD<br />

(Nuovo Partenariato per lo Sviluppo dell’Africa), “tropicalizzando” i principi dei piani <strong>di</strong> aggiustamento<br />

strutturale della Banca Mon<strong>di</strong>ale, senza tener conto <strong>di</strong> come i popoli, nel corso <strong>di</strong> questi quaranta anni hanno<br />

sviluppato tutto un altro tipo <strong>di</strong> economia, quello che possiamo chiamare “cultura dell’in<strong>di</strong>sciplina<br />

economica”, dove la gente ha imparato ad ottimizzare l’anarchia economica dell’Africa. Quin<strong>di</strong>, attraverso<br />

questa ottimizzazione dell’anarchia, i nostri popoli, sia in città che in campagna, hanno rimesso in<br />

circolazione dei saperi economici, ante-coloniali, ovvero precedenti alla colonizzazione, ciò che alcuni<br />

antropologi come Malinowski e non solo, chiamavano l’economia sostantivistica. Un’economia che non<br />

metteva in primo piano la ricerca e la massimizzazione del profitto, l’efficienza, (be competitive!), ma dove<br />

l’ubuntu, quel concetto che ho messo al centro delle culture bantu, faceva sì che la produzione e la<br />

riproduzione dei beni fossero strumenti al servizio della relazione, del benessere e della coesione sociale.<br />

Oggi però siamo ad un bivio. I popoli dell’opulenza (voialtri) vogliono crescere, perché crescono poco (la<br />

Fiat non vende? Tutti preoccupati. Ma dove mettiamo tutte queste macchine? Non ha importanza: la Fiat<br />

deve vendere!). I popoli dell’opulenza, cioè coloro che, per <strong>di</strong>rla come Marx, hanno superato il regno della<br />

necessità, hanno i beni essenziali, oppure sono riusciti, come <strong>di</strong>ce Paolo VI nella Populorum progressio, a<br />

passare da con<strong>di</strong>zioni infra-umane a con<strong>di</strong>zioni umane. I popoli dell’opulenza oggi si rendono conto che il<br />

loro benessere inteso come cumulo quantitativo <strong>di</strong> beni, non corrisponde ad un “essere bene”, a un “essere<br />

bene relazionale”, a un “essere bene in termini <strong>di</strong> qualità ambientale”, ad un “essere bene in termini <strong>di</strong><br />

socialità”. Queste cose l’Africa le ha: la relazione, la solidarietà, la qualità ambientale.<br />

Quel tipo <strong>di</strong> economia africana lavora ancora su dei parametri che sono ambientalmente compatibili. Quin<strong>di</strong><br />

l’Europa ha una cosa e gliene mancano altre; l’Africa ne ha alcune ma manca l’uscita dal regno della<br />

necessità.<br />

Quin<strong>di</strong> siamo in presenza <strong>di</strong> due schiavitù: la schiavitù del consumo infinito, che colpisce i popoli<br />

dell’opulenza, e la schiavitù del regno della necessità, dove i beni primari non sono ancora assicurati e non<br />

sono ancora <strong>di</strong>ventati <strong>di</strong>ritti primari (basic needs are basic rights: questa è un po’ la consapevolezza che<br />

stiamo maturando). Assicurare i bisogni elementari dei popoli poveri non è una gentile concessione, ma è un<br />

riconoscere un loro <strong>di</strong>ritto. Siamo quin<strong>di</strong> in presenza <strong>di</strong> due schiavitù, ma forse esiste il modo <strong>di</strong> liberarsene?<br />

Come? Secondo me sì, anche parafrasando il titolo provocatorio <strong>di</strong> un libro che è appena uscito e non è<br />

ancora stato tradotto in italiano, L'Afrique au secours de l'Occident, L’Africa in aiuto all’Occidente. Come,<br />

noi aiutiamo, noi esportiamo l’aiuto, e questi vogliono venirci ad aiutare? Che cosa hanno da darci? Che cosa<br />

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hanno da portare i popoli africani all’occidente? Bellissimo il fatto che ricordava il prof. Cassano: l’uomo<br />

occidentale ha la bocca grande e le orecchie piccole: dovrebbe assottigliare la sua bocca e spalancare le<br />

orecchie. In questa specie <strong>di</strong> pedagogia dell’ascolto reciproco tra le culture, che speriamo nasca anche da<br />

iniziative come questa, che cosa può portare l’Africa all’Europa? Io mi rifiuto sempre <strong>di</strong> accettare l’idea<br />

dell’Africa povera, perchè va contro la <strong>di</strong>gnità stessa dell’Africa. L’Africa non è povera; l’Africa ha dei<br />

problemi economici, è <strong>di</strong>verso. Ha dei problemi economici, anche grossi, ma l’Africa non è povera. Non è<br />

povera nel senso unilaterale in cui voi, l’Europa, l’Occidente, ha deciso, perchè la povertà e la ricchezza non<br />

si misurano solo in termini <strong>di</strong> Prodotto Interno Lordo, in termini <strong>di</strong> consumi quantitativi. Io mi rifiuto <strong>di</strong><br />

accettare questa nozione riduttiva della povertà.<br />

E allora parlo della ricchezza dell’Africa, questa ricchezza che ho cercato un po’ <strong>di</strong> delinearvi. Il<br />

Papa parlava dell’Africa come <strong>di</strong> una specie <strong>di</strong> “serbatoio antropologico”. Questi valori cocciuti, tenaci, che<br />

nonostante cinquecento anni <strong>di</strong> colonizzazione e <strong>di</strong> schiavitù hanno ancora un’esistenza non sotterranea, ma<br />

reale, perché risolvono i problemi della concretezza. L’Africa quin<strong>di</strong> potrebbe portare molto ai popoli<br />

dell’opulenza, a con<strong>di</strong>zione che questi popoli sappiano ri<strong>di</strong>mensionare l’aspetto economico: l’homo<br />

oeconomicus, che l’Occidente ha portato avanti anche alle estreme conseguenze non è il sogno <strong>di</strong> tutti i<br />

popoli. E allora, in questo appuntamento del dare e del ricevere, il prof. Franco Cassano -che<br />

auspicava…Senghor, il presidente Senghor, il poeta senegalese- descriveva il Me<strong>di</strong>terraneo come un mare<br />

aperto, un luogo privilegiato per le rendez-vous du donner et du recevoir, l’appuntamento del dare e del<br />

ricevere, dove tutti i popoli, quelli greco-romani, quelli arabo-berberi, quelli negro-africani potranno portare<br />

qualche cosa. Ebbene, in questo rendez-vous del dare e del ricevere l’Africa porta la possibilità <strong>di</strong><br />

un’economia <strong>di</strong>versa, la possibilità <strong>di</strong> un’economia che non <strong>di</strong>strugge l’ambiente e che non allarga le<br />

<strong>di</strong>suguaglianze tra gli uomini.<br />

Nonostante gli assalti della colonizzazione, della neo-colonizzazione ed ora della globalizzazione,<br />

questi valori non sono morti, grazie a Dio. E chiunque viaggia in Africa, chiunque sa guardare l’Africa con<br />

occhi <strong>di</strong>versi, è la prima cosa <strong>di</strong> cui si rende conto. Si rende conto <strong>di</strong> una estrema povertà, materiale, che<br />

colpisce, dove i gesti banali non sono più tali; ma nel minuto successivo si rende conto <strong>di</strong> una grande<br />

ricchezza antropologica, valoriale, relazionale, anche nei processi economici. Ebbene, questo aspetto, prima<br />

che muoia completamente, l’Africa vorrebbe portarlo a tutti quanti. Termino, davvero, perché ho veramente<br />

superato i limiti della vostra pazienza.<br />

Però non posso non <strong>di</strong>re, in un forum che si chiama Forum della Solidarietà, che cosa vuol <strong>di</strong>re oggi<br />

incontrare l’Africa, andare a fare progetti in Africa, andare a cooperare con l’Africa. Significa innanzitutto,<br />

secondo me, sviluppare quella che qualcuno ha chiamato la “pedagogia <strong>di</strong> Emmaus”: prima ancora <strong>di</strong> fare<br />

delle cose con gli africani, impariamo a camminare con gli africani, a camminare con loro. Per cui la<br />

con<strong>di</strong>visione del pane <strong>di</strong>venta un momento secondo, rispetto al camminare insieme. La con<strong>di</strong>visione del pane<br />

vista come approdo del camminare insieme. Il progetto viene dopo, perché prima dobbiamo imparare a<br />

camminare insieme. E ai giovai europei che vanno in Africa, che vogliono andare in Africa, <strong>di</strong>co: se proprio<br />

ve l’ha consigliato il me<strong>di</strong>co, se proprio ci dovete andare, questo vostro andarci può avere senso solo se<br />

imparate una volta tanto non a dare, ma ad essere -quin<strong>di</strong> con<strong>di</strong>videndo anche il vostro essere con altri esseri<br />

umani- non a insegnare, ma ad imparare, non a parlare, ma ad ascoltare. Se facciamo questo il nostro mondo<br />

del volontariato potrebbe portare oltre ai progetti -oggi portano tutti i progetti in Africa; anche Bill Gates<br />

porta progetti, anche Unicre<strong>di</strong>t porta progetti, hanno tanti sol<strong>di</strong>, più sol<strong>di</strong> delle ONG- anche il valore<br />

aggiunto della capacità <strong>di</strong> camminare insieme, <strong>di</strong> ascolto reciproco. Questa pedagogia dell’ascolto che ci<br />

porterà un giorno, smentendo Huntington, all’appuntamento del dare e del ricevere.<br />

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Aldo Gonzales Rojas<br />

Consiglio In<strong>di</strong>geno della Sierra Juarez - Oaxaca (Messico)<br />

Realtà e sfide future del movimento in<strong>di</strong>geno amerin<strong>di</strong>ano<br />

Proverò a parlare in castigliano e questo rappresenta un problema, perché la maggioranza <strong>di</strong> voi parla<br />

italiano. Speriamo <strong>di</strong> poter comunque stabilire una comunicazione.<br />

Stamattina, durante la conversazione che abbiamo avuto con alcuni studenti, ho fatto loro una<br />

domanda che vorrei girare anche a voi: vorrei che immaginaste <strong>di</strong> alzarvi un giorno, all’alba, però che fosse<br />

un giorno <strong>di</strong>verso, nel quale non ci siano né elettricità né benzina. Che succederebbe nelle vostre case?<br />

Voglio farvi questa domanda perché in molte comunità in<strong>di</strong>gene, tanto del Messico, quanto <strong>di</strong> altri paesi<br />

dell’America e del mondo, non ci sono strade, non v’è necessità <strong>di</strong> avere automobili, né <strong>di</strong> consumare<br />

benzina; neppure c’è energia elettrica e, nonostante ciò, la gente ha potuto vivere in questi luoghi per<br />

migliaia <strong>di</strong> anni. Credo che se compariamo il consumo <strong>di</strong> energia che si ha presso i popoli in<strong>di</strong>geni con il<br />

consumo <strong>di</strong> energia che si ha nelle città, non solamente quelle del Primo Mondo, bensì tutte le città, ve<strong>di</strong>amo<br />

che esiste una <strong>di</strong>fferenza enorme.<br />

Credo che questo, il consumo <strong>di</strong> energia, rappresenti un elemento chiave delle <strong>di</strong>fferenze culturali.<br />

Questo comporta una gran quantità <strong>di</strong> conseguenze, tanto per i popoli in<strong>di</strong>geni che per l’umanità intera. Oggi<br />

viviamo problemi enormi a livello mon<strong>di</strong>ale, poiché il consumo <strong>di</strong> gran<strong>di</strong> quantità <strong>di</strong> energia sta provocando<br />

il riscaldamento globale. Ed arrivano alcuni ecologisti nelle nostre comunità a <strong>di</strong>re che non dobbiamo più<br />

tagliare gli alberi. La maggior parte dell’energia che si consuma nelle comunità in<strong>di</strong>gene è prodotta tagliando<br />

gli alberi, per poterli bruciare e poter cucinare gli alimenti; è questa la fonte principale. Perciò sono molto<br />

preoccupati circa il fatto che noi in<strong>di</strong>geni stiamo <strong>di</strong>struggendo l’ambiente. Però nessuno si preoccupa <strong>di</strong><br />

ridurre il consumo delle altre fonti <strong>di</strong> energia che si consumano in altri luoghi che non sono comunità<br />

in<strong>di</strong>gene.<br />

Credo che dovremmo riflettere circa il fatto che non possiamo risolvere la questione delle <strong>di</strong>fferenze<br />

economiche, cercando <strong>di</strong> far sviluppare i popoli in<strong>di</strong>geni. Che significa la parola “sviluppo”? Se la parola<br />

“sviluppo” significa che i popoli in<strong>di</strong>geni si convertiranno in consumatori <strong>di</strong> energia, allora stiamo<br />

incamminando l’umanità verso la sua <strong>di</strong>struzione totale. Questo pianeta non è in grado <strong>di</strong> sopportare che<br />

tutto il mondo consumi l’energia che oggi si sta consumando nelle città. Abbiamo già grossi problemi per il<br />

consumo <strong>di</strong> acqua; abbiamo già gran<strong>di</strong> problemi per la contaminazione atmosferica, per l’emissione <strong>di</strong> gas;<br />

però oggi si stanno cercando altre fonti <strong>di</strong> energia, anche per poter continuare a consumare sempre <strong>di</strong> più.<br />

Il petrolio sta esaurendosi. Quin<strong>di</strong>, cosa verrà dopo il petrolio? Come farà questa società, che consuma così<br />

tanta energia, a continuare a mantenere questo livello <strong>di</strong> consumo, se il petrolio si esaurirà nel giro <strong>di</strong><br />

cinquanta o cento anni? Ha pensato, la società occidentale, a quanto tempo vuol vivere su questo pianeta?<br />

Alcuni scienziati <strong>di</strong>cono che hanno trovato la soluzione, perché in<strong>di</strong>vidueranno fonti alternative <strong>di</strong> energia,<br />

per cui non dovremo più utilizzare il petrolio. Del sole non vogliono parlare, poiché, dato che il sole appare<br />

in tutti i luoghi del pianeta, sarebbe <strong>di</strong>fficile metterlo in una cassettina e far pagare per riceverlo. Tuttavia<br />

stanno pensando anche a questo!<br />

Stanno comunque pensando, questo sì, alla bio<strong>di</strong>versità come nuova fonte <strong>di</strong> energia e stanno perciò<br />

cercando campioni <strong>di</strong> organismi microscopici che siano capaci <strong>di</strong> produrre energia, perché si possa sostituire<br />

il petrolio, perché si possa sostituire l’elettricità.<br />

Nel frattempo i popoli in<strong>di</strong>geni <strong>di</strong> questo pianeta si trovano in una situazione <strong>di</strong>fficile; se cerchiamo<br />

in un planisfero i luoghi nei quali sono collocati i popoli in<strong>di</strong>geni e in un altro i luoghi nei quali si trova la<br />

più ampia bio<strong>di</strong>versità, ci ren<strong>di</strong>amo conto che questi praticamente coincidono.<br />

Cosa significa ciò? Che i popoli in<strong>di</strong>geni hanno saputo mantenere una relazione rispettosa con la natura e ciò<br />

ha permesso alla bio<strong>di</strong>versità, che esiste da tempo immemorabile, <strong>di</strong> continuare ad esistere in quei luoghi.<br />

Occorre ricordare anche che nei momenti della colonizzazione i nostri popoli furono espulsi dai territori che<br />

più interessavano ai colonizzatori, principalmente per motivi legati all’agricoltura ed all’allevamento, che in<br />

quel momento (o quantomeno in un primo momento) erano il motore dell’economia occidentale. E le nostre<br />

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comunità, cacciate nelle zone considerate inospitali dai colonizzatori, seppero adattarsi a questi luoghi,<br />

sopravvivere e stabilire un rapporto <strong>di</strong> rispetto con la natura. Ma oggi questa situazione deve cambiare <strong>di</strong><br />

nuovo, in base a nuovi piani <strong>di</strong> sviluppo.<br />

Oggi noi popolazioni in<strong>di</strong>gene occupiamo terre nelle quali esiste questa “ricchezza” -metto fra virgolette il<br />

termine “ricchezza”- chiamata bio<strong>di</strong>versità, della quale gli occidentali hanno bisogno per convertirla in<br />

denaro. Quin<strong>di</strong>, per potersi appropriare <strong>di</strong> questi beni comuni, come <strong>di</strong>ceva un momento fa Franco Cassano,<br />

è necessario cacciare da queste terre le popolazioni in<strong>di</strong>gene. Si tratta dunque <strong>di</strong> una nuova colonizzazione,<br />

<strong>di</strong> una nuova re-ubicazione: devono portarci in altri posti. E questo già sta succedendo.<br />

Sono pienamente d’accordo con Leonard quando <strong>di</strong>ce che presso i popoli africani, come presso le<br />

popolazioni in<strong>di</strong>gene d’America, la gente ha un modo <strong>di</strong>verso <strong>di</strong> vivere, un modo che non necessariamente è<br />

vincolato alle ricchezze economiche, poiché sono le ricchezze spirituali, principalmente, quelle che<br />

stabiliscono le forme <strong>di</strong> relazione tra le persone. Quin<strong>di</strong> si sta rompendo la relazione dei popoli in<strong>di</strong>geni coi<br />

loro luoghi, dato che oggi vogliono spostarci <strong>di</strong> nuovo.<br />

Nei piani <strong>di</strong> sviluppo concernenti l’America, uno dei progetti che si stanno promuovendo è quello<br />

della creazione <strong>di</strong> <strong>di</strong>ghe per la produzione dell’energia elettrica. Le <strong>di</strong>ghe realizzate negli Stati Uniti<br />

trent’anni fa già risultano antiquate e minacciano <strong>di</strong> rompersi e gli ecologisti nord-americani sono contrari<br />

alla costruzione <strong>di</strong> nuove <strong>di</strong>ghe in questo paese, perché si sono resi conto che, collocando una <strong>di</strong>ga lungo un<br />

fiume, quel fiume muore. Pertanto non vogliono che i fiumi del Nordamerica muoiano o continuino ad essere<br />

morti; il fatto però che possano morire tutti i fiumi situati tra Messico e Patagonia è per loro privo <strong>di</strong><br />

importanza. Inoltre non ha importanza che sulle sponde dei fiumi viva gente -normalmente gente <strong>di</strong> comunità<br />

in<strong>di</strong>gene- e che questa debba essere spostata in altri luoghi.<br />

Uno degli elementi centrali della cultura dei popoli in<strong>di</strong>geni è la terra. Le culture si sono identificate<br />

esattamente coi luoghi nei quali le nostre popolazioni vivono. E se la gente viene trasferita in altri luoghi<br />

viene meno un elemento centrale dell’identità culturale, ovvero il rapporto con la terra.<br />

Ora ci <strong>di</strong>cono anche che noi abitanti delle comunità in<strong>di</strong>gene siamo gente improduttiva. In Messico,<br />

per esempio, si <strong>di</strong>ce che noi che viviamo nelle aree rurali siamo il 25% della popolazione, però produciamo<br />

soltanto il 5% del PIL nazionale. Quin<strong>di</strong> un 20% della popolazione nazionale <strong>di</strong> queste aree è <strong>di</strong> troppo: con<br />

il 5% della popolazione delle aree rurali sarebbe possibile produrre gli alimenti necessari al paese. Questo<br />

significa che 20 milioni <strong>di</strong> persone delle aree rurali messicane dovrebbero sparire. E questo modello viene<br />

riproposto in vari paesi: ren<strong>di</strong>amo efficiente l’agricoltura, innalziamone il livello tecnologico, in modo che<br />

produca gli alimenti necessari perché tutto il mondo possa mangiare, però “in maniera efficiente”.<br />

Noi, gente delle comunità in<strong>di</strong>gene, quando seminiamo il mais, i fagioli, la zucca, non stiamo<br />

pensando al commercio: pensiamo a seminare gli alimenti necessari per sfamarci e se poi qualcosa avanza,<br />

allora si potrà vendere, principalmente nei mercati locali, più che in quelli esteri.<br />

Negli ultimi anni, però, con la Prima e la Seconda Rivoluzione Verde, quella dei transgenici, si cerca <strong>di</strong><br />

imporci modelli <strong>di</strong> produzione che non corrispondono ai nostri modelli culturali.<br />

Con la Prima Rivoluzione Verde, per esempio, si possono elevare i ren<strong>di</strong>menti agricoli: in un ettaro <strong>di</strong> terra<br />

in Messico, in regioni <strong>di</strong> montagna, si producono circa 700 Kg <strong>di</strong> mais. Con l’impiego <strong>di</strong> fertilizzanti ed<br />

agrochimici si può elevare la produzione a 5 tonnellate per ettaro. Al che si potrebbe <strong>di</strong>re: perché non li<br />

utilizzano? In tal modo produrrebbero più alimenti e ciò ridurrebbe la necessità <strong>di</strong> comprarli, <strong>di</strong> acquistarli<br />

altrove.<br />

Ma da quando la gente ha cominciato ad utilizzare agrochimici per produrre alimenti è successo che, nel giro<br />

<strong>di</strong> tre mesi, il mais è <strong>di</strong>ventato polvere (non regge nemmeno un anno) e sono sopraggiunte alcune malattie. Il<br />

mais che si produce in questo modo, dunque, deve necessariamente essere venduto. Nella cultura dei popoli<br />

in<strong>di</strong>geni il mais non serve per essere venduto, serve per essere mangiato, e noi abbiamo bisogno <strong>di</strong> avere<br />

mais durante tutto l’anno.<br />

Pertanto questo modello <strong>di</strong> produzione non ci serve, perché non si adatta alle con<strong>di</strong>zioni culturali dei nostri<br />

popoli. Stanno dunque imponendoci regole <strong>di</strong> mercato, al fine <strong>di</strong> farci produrre i vostri alimenti. Questa<br />

situazione rompe con la cosmovisione, <strong>di</strong>ciamo così, dei popoli in<strong>di</strong>geni.<br />

Adesso, con la Seconda Rivoluzione Verde, quella del transgenico, ci <strong>di</strong>cono che dobbiamo<br />

comprare i semi. In Messico il mais si è contaminato, perché il governo messicano, come accade in molti<br />

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altri paesi dell’America, dell’Africa e dell’Asia, ha ridotto i sussi<strong>di</strong> ai conta<strong>di</strong>ni messicani, mentre negli Stati<br />

Uniti e nell’Unione Europea gli agricoltori ricevono alti sussi<strong>di</strong>.<br />

All’interno della OMC (Organizzazione Mon<strong>di</strong>ale del Commercio) molti paesi del Sud -o i governi <strong>di</strong> alcuni<br />

paesi del Sud- hanno proposto che si eliminino i sussi<strong>di</strong> all’agricoltura dei paesi del Nord, con alcune<br />

garanzie per Nord e Sud. I paesi del Nord <strong>di</strong>cono che, sì, i sussi<strong>di</strong> verranno ridotti ed è appena stato firmato<br />

un accordo per la loro riduzione, però non si è stabilita alcuna data. Quando, dunque, verranno ridotti questi<br />

sussi<strong>di</strong>? Potrebbe essere fra un anno come fra <strong>di</strong>eci anni!<br />

Noi riteniamo che Stati Uniti ed Unione Europea vogliano avere il monopolio, il controllo degli<br />

alimenti <strong>di</strong> tutto il mondo. In questo modo i nostri paesi non potranno prendere le decisioni necessarie in<br />

tema <strong>di</strong> alimenti, come anche in altri ambiti, perché se non riusciamo a produrre quello che consumiamo<br />

siamo ogni giorno più <strong>di</strong>pendenti. E rileviamo anche molti inganni, molte finte, come si <strong>di</strong>ce in gergo<br />

calcistico, in queste regole che si stanno stabilendo nella OMC, poiché, se si è stabilito che si vogliono<br />

ridurre i sussi<strong>di</strong>, ma non sono state fissate date, forse questo vuol <strong>di</strong>re che si ha intenzione <strong>di</strong> ridurre i sussi<strong>di</strong><br />

una volta che i nostri paesi non saranno più in grado <strong>di</strong> produrre da soli i propri alimenti, in modo tale che,<br />

una volta tolti i sussi<strong>di</strong> ai produttori dei paesi del Nord, a quel punto salgano ulteriormente i prezzi degli<br />

alimenti. Così i nostri paesi saranno ancora più <strong>di</strong>pendenti <strong>di</strong> quanto non lo siano ora.<br />

Bene, ci tengono dunque ben stretti da ogni lato: è una situazione molto <strong>di</strong>fficile. Ci sono però<br />

ancora altre situazioni che si presentano presso le popolazioni in<strong>di</strong>gene, situazioni legate dall’adozione del<br />

modello economico neo-liberale come base per l’economia mon<strong>di</strong>ale.<br />

Alcuni anni fa, quando ero piccolo, a casa mia, mia nonna, mia madre, mi <strong>di</strong>cevano: «Figlio, a nessuno si<br />

nega un bicchiere d’acqua». Questa era una norma e credo che, come succedeva nella mia comunità,<br />

succedesse in tutto il mondo: a nessuno si doveva negare un bicchiere d’acqua. Oggi però l’acqua è<br />

imbottigliata e dobbiamo pagare per l’acqua. Ma l’acqua è un bene comune. Chi può <strong>di</strong>re <strong>di</strong> essere<br />

proprietario dell’acqua? Cade dal cielo. Però oggigiorno esistono alcune imprese trans-nazionali interessate<br />

all’imbottigliamento dell’acqua. Ed i nostri paesi, i governi dei nostri paesi, sono fortemente interessati a<br />

cambiare le leggi nazionali per permettere che questi beni vengano privatizzati.<br />

Il prossimo anno si terrà in Messico il IV° Forum Mon<strong>di</strong>ale dell’Acqua, promosso dalle imprese transnazionali,<br />

principalmente. Ed hanno scelto il Messico perché è un paese che sta svolgendo bene il suo<br />

compito, come <strong>di</strong>cono ora i governanti dei nostri paesi. Di questo si tratta: <strong>di</strong> svolgere un compito, ovvero <strong>di</strong><br />

realizzare le riforme strutturali che ci chiedono la Banca Mon<strong>di</strong>ale ed il Fondo Monetario Internazionale,<br />

perché possano continuare a farci prestiti e noi possiamo investire nello sviluppo dei nostri paesi.<br />

Si stanno dunque generando le con<strong>di</strong>zioni perché queste imprese possano appropriarsi <strong>di</strong> uno dei<br />

beni vitali dell’umanità. Manca poco che privatizzino l’aria e che dobbiamo pagare per poter respirare.<br />

La cosa peggiore è che già lo stanno facendo: arrivano presso le nostre comunità alcune ONG che ci <strong>di</strong>cono<br />

che ci pagheranno se ci pren<strong>di</strong>amo cura del bosco e non tagliamo gli alberi, <strong>di</strong> modo che questi trattengano<br />

l’acqua e il biossido <strong>di</strong> carbonio, dato che le emissioni <strong>di</strong> gas (<strong>di</strong> biossido <strong>di</strong> carbonio in particolare) nel<br />

pianeta hanno bisogno <strong>di</strong> essere ridotte. E chi ha la possibilità <strong>di</strong> farlo? I popoli che hanno boschi. E quali<br />

sono questi popoli? I popoli in<strong>di</strong>geni.<br />

Dunque vogliono comprarci la coscienza, <strong>di</strong>cendo che ci pagheranno per sederci a guardare come crescono<br />

gli alberi. Coloro che producono l’inquinamento sono gli stessi che vogliono pagare i “servizi ambientali”<br />

(hanno messo tale nome a tutto questo meccanismo). Questa gente non è <strong>di</strong>sposta a ridurre le emissioni <strong>di</strong><br />

gas contaminanti, però vuol lavarsi le mani dando poche briciole alle comunità perché non taglino gli alberi.<br />

Ma l’affare non finisce qui: in molti luoghi stanno comprando estensioni <strong>di</strong> terra per creare piantagioni <strong>di</strong><br />

alberi esotici (almeno per molti luoghi), come la palma africana, la tecca, la melina e molte altre piante che si<br />

stanno impiantando in gran<strong>di</strong> coltivazioni, per creare le quali spesso è necessario abbattere i boschi o le<br />

selve. Perché? Perché questi alberi crescono rapidamente e dunque catturano anidride carbonica molto<br />

rapidamente. Dunque, a chi le ONG pagano i suddetti “servizi ambientali”? A loro stesse! Questo è uno dei<br />

nuovi affari mon<strong>di</strong>ali che si fanno per simulare che si stanno proteggendo ambiente e natura.<br />

Vi <strong>di</strong>co che manca poco perché ci facciano pagare anche per uscire a prendere il sole, dato che, con le<br />

emissioni <strong>di</strong> gas che ci sono in tutto il pianeta, riceviamo sempre più ra<strong>di</strong>azioni. Ma già stanno facendo<br />

investigazioni, basandosi sulla bio<strong>di</strong>versità, per riuscire a ripristinare l’ozono che si è perso nelle calotte<br />

polari. Prestandoci questo servizio, dunque, essi ricomporrebbero il <strong>di</strong>sequilibrio che si è creato nel pianeta<br />

ed anche questo avrebbe un costo.<br />

35


Per questo vi <strong>di</strong>co che manca poco che ci facciano pagare anche per poter godere della primavera, dell’estate,<br />

dell’autunno e dell’inverno.<br />

Tutte queste situazioni si ripercuotono <strong>di</strong>rettamente sui popoli in<strong>di</strong>geni, perché è nei luoghi, nei<br />

territori nei quali vivono i popoli in<strong>di</strong>geni che esiste una enorme bio<strong>di</strong>versità, <strong>di</strong> micro-organismi come <strong>di</strong><br />

organismi più gran<strong>di</strong> che possono essere utilizzati nell’ambito delle nuove tecnologie che si stanno<br />

sviluppando. La biotecnologia tra esse, oltre alla nanotecnologia e ad altre tecnologie che ancora non<br />

sappiamo quali effetti avranno. Nonostante i pericoli, queste tecnologie progettano ad<strong>di</strong>rittura <strong>di</strong> generare<br />

organismi vivi artificiali. Già hanno realizzato il primo organismo vivo artificiale e stanno realizzando robot<br />

artificiali a partire da organismi vivi e davvero non sappiamo cosa ci vada preparando il futuro. Quello che<br />

prima era fantascienza si sta oggi convertendo in una realtà molto dolorosa, a prezzo dell’inquinamento della<br />

natura in cui abitiamo ed a prezzo <strong>di</strong> noi che viviamo nei luoghi nei quali ancora la natura si è conservata.<br />

Che cosa sta accadendo con le organizzazioni in<strong>di</strong>gene? Una delle principali riven<strong>di</strong>cazioni dei<br />

popoli in<strong>di</strong>geni dell’America e del mondo è il <strong>di</strong>ritto alla libera determinazione, espressa come autonomia -<br />

come nel caso del Messico- che rispetta, <strong>di</strong>ciamo, la situazione dello stato nazionale. Non vogliamo essere<br />

in<strong>di</strong>pendenti, perché questo causerebbe a noi stessi dei problemi.<br />

Nelle negoziazioni che si svolgono in seno alle Nazioni Unite i principali paesi che si oppongono a questa<br />

situazione sono i paesi più potenti. L’Italia ha appena rifiutato <strong>di</strong> riconoscere l’accordo 169 dell’OIL circa<br />

popoli in<strong>di</strong>geni e tribali, motivando il rifiuto col fatto che in Italia non ci sono popoli in<strong>di</strong>geni.<br />

Ma a livello dell’ONU non si vuol riconoscere la Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli In<strong>di</strong>geni. Si<br />

è stabilita, a partire dal 1994, una Decade dei Popoli In<strong>di</strong>geni e la decade è terminata senza che si approvasse<br />

la Dichiarazione. Ora hanno decretato un’altra Decade dei Popoli In<strong>di</strong>geni e noi pensiamo che passeranno<br />

altri <strong>di</strong>eci anni ed è molto probabile che la Dichiarazione non sarà approvata dai vari paesi.<br />

Pertanto, quando nei nostri paesi, in Messico, in Colombia, in Ecuador, si riformano le Costituzioni e le leggi<br />

per riconoscere i <strong>di</strong>ritti dei popoli in<strong>di</strong>geni, si sta solo giocando con le parole. Si <strong>di</strong>ce: «Riconosciamo <strong>di</strong>ritti<br />

ai popoli», però solo per mostrare al resto del mondo che si riconoscono <strong>di</strong>ritti collettivi ai popoli, mentre<br />

nella pratica, quand’anche si arrivi a riconoscerli, questi <strong>di</strong>ritti non <strong>di</strong>verranno effettivi.<br />

Forse il paese nel quale più recentemente sono stati riconosciuti questi <strong>di</strong>ritti e che ha maggiori possibilità <strong>di</strong><br />

vederli tradotti in realtà è il Venezuela, perché questo paese sta vivendo una situazione molto <strong>di</strong>versa dagli<br />

altri dell’America Latina. Ve<strong>di</strong>amo però che i <strong>di</strong>ritti dei popoli vengono sistematicamente violati, soprattutto<br />

i <strong>di</strong>ritti <strong>di</strong> accesso alla terra.<br />

In Messico in particolare, il secondo articolo della Costituzione <strong>di</strong>ce che i popoli in<strong>di</strong>geni hanno <strong>di</strong>ritto alla<br />

libera determinazione, nel senso <strong>di</strong> autonomia, e che sono i governi statali a dover stabilire queste forme <strong>di</strong><br />

autonomia. Questo vuol <strong>di</strong>re che questo <strong>di</strong>ritto alla libera determinazione non è una garanzia identica per tutti<br />

i popoli in<strong>di</strong>geni, poiché, in rapporto alla loro forza, questi ultimi potranno negoziare gra<strong>di</strong> <strong>di</strong> autonomia<br />

maggiori o minori nei rispettivi stati. Però si <strong>di</strong>ce anche, per esempio, che si proteggeranno i <strong>di</strong>ritti <strong>di</strong> terzi<br />

all’accesso alle risorse naturali nelle terre dei popoli in<strong>di</strong>geni. Cosa significa questo? Chi sono i “terzi”<br />

interessati alle risorse naturali dei popoli in<strong>di</strong>geni? Altri non sono che le imprese trans-nazionali, che ci<br />

aggre<strong>di</strong>scono permanentemente.<br />

Quin<strong>di</strong>, in apparenza si riconoscono <strong>di</strong>ritti ai popoli, ma in realtà si stanno riconoscendo <strong>di</strong>ritti alle imprese<br />

trans-nazionali, perché possano intervenire nei nostri territori.<br />

E questo per quanto concerne la legge. Nella pratica ci sono moltissimi casi nei quali si sta<br />

permettendo a imprese trans-nazionali <strong>di</strong> occupare terre <strong>di</strong> popoli in<strong>di</strong>geni. I Mapuche si trovano quasi al<br />

punto <strong>di</strong> non avere più boschi; praticamente non c’è più vegetazione attiva in Argentina. Questo fenomeno è<br />

avvenuto soprattutto in Cile, perché nelle terre che il governo cileno non ha voluto riconoscere come territori<br />

del popolo Mapuche sono state create gran<strong>di</strong> piantagioni. In Amazzonia, in Ecuador, in Colombia, imprese<br />

come Ecopetroleo, stanno cacciando le comunità in<strong>di</strong>gene per prelevare il petrolio. In altri luoghi<br />

dell’Amazzonia si stanno spostando intere comunità per impossessarsi <strong>di</strong> pietre preziose, smeral<strong>di</strong> e d’oro.<br />

Anche in Perù si stanno spostando forzatamente comunità in<strong>di</strong>gene con l’intenzione <strong>di</strong> creare miniere a cielo<br />

aperto, ovvero <strong>di</strong>struggere completamente le montagne per poterne estrarre i minerali.<br />

Si vuole inoltre cacciare la gente che vive nei luoghi dove ha sempre vissuto, come i boschi, con l’intenzione<br />

<strong>di</strong> far sì che coloro i quali sanno sfruttare le risorse naturali (ovvero i centri <strong>di</strong> investigazione superspecializzati)<br />

possano avere accesso alle risorse genetiche che esistono in questi luoghi. Questo è il caso dei<br />

Montes Azules, in Chiapas.<br />

36


L’offensiva delle imprese trans-nazionali si realizza dunque permanentemente nel trasferimento<br />

forzato dei popoli in<strong>di</strong>geni. Ma il problema non viene vissuto solo in questo modo: non credo che le nostre<br />

popolazioni in<strong>di</strong>gene siano povere; piuttosto <strong>di</strong>co che i popoli in<strong>di</strong>geni sono stati impoveriti, poiché anche<br />

noi, nella situazione <strong>di</strong> sviluppo nella quale ci troviamo, abbiamo bisogno <strong>di</strong> risorse economiche per lo meno<br />

per comprare vestiti per i bambini, libri per la scuola e alcune cose da mangiare necessarie in casa. I prezzi<br />

dei prodotti agricoli delle regioni in<strong>di</strong>gene però sono crollati, quin<strong>di</strong> la nostra gente, la gente delle nostre<br />

comunità, si trova nella necessità <strong>di</strong> migrare verso altri luoghi. I fenomeni <strong>di</strong> migrazione, dunque, non sono<br />

dovuti ad una povertà propria dei popoli in<strong>di</strong>geni, bensì ad un impoverimento prodotto da cause esterne,<br />

impoverimento che le nostre comunità si trovano a subire.<br />

Si ha dunque una migrazione forzata e la percentuale <strong>di</strong> popolazione presente nelle aree rurali del nostro<br />

paese <strong>di</strong>minuisce.<br />

Tutte queste situazioni che stiamo vivendo rattristano i nostri popoli. Ma noi siamo <strong>di</strong>sposti a<br />

realizzare ogni azione necessaria per poter vivere come vogliamo, come i nostri padri, come i nostri nonni ci<br />

hanno insegnato a farlo.<br />

Oggi però ciò è molto <strong>di</strong>fficile perché gli organismi internazionali tengono sottomessi i nostri governi. Li<br />

obbligano praticamente a ricevere prestiti, per continuare ad indebitarli e a far loro pagare -o ridurli al punto<br />

<strong>di</strong> non poter pagare- i debiti esterni che hanno acquisito. Però non si fermano a questo: cercano <strong>di</strong> convincere<br />

alcuni <strong>di</strong>rigenti dei popoli in<strong>di</strong>geni a negoziare, <strong>di</strong>cono, con i governi, a negoziare con le imprese, con<br />

l’obiettivo che si stabiliscano trattati nei quali si abbia ripartizione <strong>di</strong> benefici per i popoli in<strong>di</strong>geni. Molti<br />

<strong>di</strong>rigenti in<strong>di</strong>geni vengono istruiti perché vadano a questi spazi multilaterali e possano <strong>di</strong>re loro soltanto <strong>di</strong> sì.<br />

La maggior parte <strong>di</strong> questi rappresentanti in<strong>di</strong>geni non rappresentano la comunità: sono stati formati dagli<br />

stessi organi <strong>di</strong> potere, perché possano accettare quello che essi stanno proponendo.<br />

Ci preoccupa, per esempio, quando la cooperazione <strong>di</strong>ce che finanzierà il lobbying o l’advocacy perché<br />

questo significa in molti casi -sebbene non in tutti- che intendono prepararci perché an<strong>di</strong>amo a parlare con gli<br />

organismi multilaterali. «Andate e <strong>di</strong>scutete con le organizzazioni internazionali». Noi rispon<strong>di</strong>amo: «Non<br />

possiamo parlare con loro, perché sappiamo che le nostre richieste non verranno ascoltate». Gli organismi<br />

internazionali, le imprese trans-anzionali hanno molto chiaro quello che vogliono e l’unica cosa che<br />

intendono conseguire è la nostra approvazione. A questo scopo inventano commissioni e non so quante cose,<br />

tutto al fine <strong>di</strong> veder approvati i loro piani <strong>di</strong> sviluppo, <strong>di</strong>mostrando che i popoli in<strong>di</strong>geni sono stati<br />

consultati, poiché questo è uno dei principali problemi. Esse <strong>di</strong>cono: «No, qui si è avuta consultazione, qui è<br />

stato stilato un documento. Quin<strong>di</strong> non potete <strong>di</strong>re che non siete stati consultati!». Al che noi rispon<strong>di</strong>amo:<br />

«Sì, dovete consultarci, però in accordo con i nostri proce<strong>di</strong>menti. Non accetteremo proce<strong>di</strong>menti <strong>di</strong><br />

consultazione che non siano in accordo col nostro modo <strong>di</strong> essere, che non siano <strong>di</strong>segnati da noi stessi».<br />

Bene, cosa resta allora ai popoli in<strong>di</strong>geni? Abbiamo chiesto <strong>di</strong> poter esercitare il nostro <strong>di</strong>ritto alla<br />

libera determinazione e in pratica questo è stato negato. Le leggi non lo hanno riconosciuto: gli organismi<br />

internazionali non vogliono riconoscere i <strong>di</strong>ritti dei popoli in<strong>di</strong>geni a livello internazionale. Quello che a noi<br />

resta da fare, allora, è costruire i nostri processi <strong>di</strong> autonomia nei fatti. E a questo stiamo lavorando.<br />

Credo che uno degli esempi più chiari che abbiamo in Messico siano le Giunte del Buon Governo che stanno<br />

costruendo gli zapatisti. Ma ci sono numerosi altri popoli in<strong>di</strong>geni, tanto in Messico quanto nel resto<br />

dell’America, che stanno costruendo i loro processi <strong>di</strong> autonomia dalla comunità, dalla base, dal basso. Non<br />

vogliamo il potere; vogliamo fare le cose in accordo con i nostri criteri.<br />

La trascrizione <strong>di</strong> questo intervento non è stata rivista dal relatore<br />

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1. Il luogo da cui cerchiamo<br />

Roberto Mancini<br />

Professore <strong>di</strong> Ermeneutica filosofica all’Università <strong>di</strong> Macerata<br />

Un’etica interculturale della <strong>di</strong>gnità<br />

Mentre ascoltavo gli interventi <strong>di</strong> oggi sentivo una sorta <strong>di</strong> sfasatura: da una parte l’evidente<br />

consenso nei confronti delle idee, delle analisi, delle testimonianze, dello sguardo sulla realtà, dall’altra la<br />

realtà vera e propria. Questo consenso è palpabile: è questo lo sguardo giusto sul mondo, sia dal punto <strong>di</strong><br />

vista dell’esperienza delle persone che portano il peso <strong>di</strong> conflitti, ingiustizie, oppressione, sia, in positivo,<br />

dal punto <strong>di</strong> vista dei valori e del riconoscimento della verità, <strong>di</strong> un altro modo <strong>di</strong> esistere. Uno sguardo,<br />

quin<strong>di</strong>, sul quale possiamo convergere e sentire che rappresenta un modo più umano <strong>di</strong> stare al mondo.<br />

Perché, però, una sfasatura, uno scarto? Perché, d’altra parte, basta guardare fuori da questa sala,<br />

fuori da questa iniziativa così pregevole e coraggiosa della <strong>Provincia</strong> <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong>, per constatare quanto sia<br />

facile che, nel normale funzionamento delle istituzioni civili e religiose, nel normale funzionamento<br />

dell’economia, della politica, perfino della scuola e delle <strong>di</strong>namiche educative, tutto questo sia<br />

semplicemente non visto. Una sfasatura che vede da un lato un consenso per questa percezione della giustizia<br />

e della mancanza <strong>di</strong> giustizia oggi; dall’altro lato tale consenso viene espresso in un paese in cui chi, per<br />

esempio, vuole mettere mano alla Costituzione e mo<strong>di</strong>ficarla in chiave antidemocratica, ad<strong>di</strong>rittura<br />

autocratica, non trova grosse <strong>di</strong>fficoltà.<br />

Nel luogo storico da cui cerchiamo un mondo più umanizzato c’è un problema, allora, posto proprio<br />

da questa arte del dominare senza aver ragione. E quali sono le ragioni, invece che possono <strong>di</strong>ventare<br />

energia, perché appunto rappresentano un altro sguardo sul mondo, una cultura capace <strong>di</strong> ospitare la verità,<br />

senza impadronirsene? Una cultura non nel senso unificante per cui basterebbe un solo pensiero, bensì nel<br />

senso, appunto, <strong>di</strong> uno sguardo <strong>di</strong>verso che, aprendo a molti tipi <strong>di</strong> pensiero, orienta nell’esistere e nell’agire,<br />

anche nell’agire collettivo, nel funzionamento delle istituzioni.<br />

A me pare che una delle ragioni, sebbene non l’unica, della sfasatura cui ho accennato sia quella per<br />

cui ci mancano, non <strong>di</strong>co delle sintesi culturali in senso stretto (le quali rischierebbero <strong>di</strong> <strong>di</strong>ventare quasi<br />

un’ideologia, che magari utilizza il meccanismo del capro espiatorio, <strong>di</strong>stinguendo mentalmente tra buoni e<br />

cattivi, tra coloro che devono vincere e coloro che devono perdere: questo, l’abbiamo visto, è uno schema<br />

che non funziona se il nostro scopo è quello <strong>di</strong> generare liberazione, giustizia, nonviolenza), ma un orizzonte<br />

nel quale trovare le categorie, le parole che danno poi spazio per pensare, spazio per vedere. Un orizzonte nel<br />

quale siano presenti delle ragioni che hanno l’arte, il modo, la capacità <strong>di</strong> farsi strada senza violenza<br />

all’interno <strong>di</strong> un mondo così squilibrato, così affezionato a meccanismi <strong>di</strong>struttivi.<br />

Il senso del mio intervento è un po’ questo: non è una testimonianza dall’interno <strong>di</strong> esperienze <strong>di</strong><br />

frontiera -come lo sono invece altri interventi che abbiamo ascoltato- bensì è una riflessione, <strong>di</strong>rei, sull’etica<br />

interculturale della <strong>di</strong>gnità.<br />

Perché questo tipo <strong>di</strong> riflessione? Perché a me pare che costituisca il nucleo essenziale <strong>di</strong> questa forza <strong>di</strong><br />

pensiero nonviolenta che risiede nella capacità <strong>di</strong> vedere la realtà. E mi pare che le trage<strong>di</strong>e, le <strong>di</strong>fficoltà, le<br />

ingiustizie <strong>di</strong> cui abbiamo parlato derivino dal fatto che, mentre c’è una porzione trasversale del mondo che<br />

vede l’umanità e il mondo della natura e vede la possibilità <strong>di</strong> una giustizia, c’è invece una larga fetta <strong>di</strong><br />

umanità che, non perché sia più cattiva, ma “non si vede”, non vede l’altro, non vede la vita, non vede il<br />

mondo e cade allora in un delirio: il delirio della nostra economia, del nostro rapporto <strong>di</strong> sfruttamento<br />

assoluto nei confronti della natura e via <strong>di</strong>cendo.<br />

2. Dalla globalizzazione all’inter<strong>di</strong>pendenza<br />

Qual è il senso <strong>di</strong> un’etica interculturale della <strong>di</strong>gnità? E’ quello <strong>di</strong> un risveglio, dell’aprirsi, <strong>di</strong> uno<br />

sguardo, certo non nuovo -Gandhi <strong>di</strong>rebbe: antico come le montagne- eppure, ancora una volta, nuovo per<br />

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noi, perché non è secondo questo sguardo che organizziamo le istituzioni, la vita collettiva e i rapporti<br />

interpersonali. E’ chiaro che ci serve una fonte culturale, nel senso <strong>di</strong> una <strong>di</strong>versa chiave <strong>di</strong> lettura della<br />

realtà, e il nucleo etico mi pare <strong>di</strong>venga allora essenziale.<br />

Uso la parola etica, non come sinonimo <strong>di</strong> morale, intesa come elenco <strong>di</strong> norme, <strong>di</strong>vieti, in<strong>di</strong>catori<br />

(normalmente la morale viene alla ribalta in questo senso, un po’ “alienato”): non si tratta <strong>di</strong> un modo <strong>di</strong><br />

citare i valori per poi, magari, sacrificare le persone. Questo si può fare e lo si fa facilmente: pensate per<br />

esempio alla politica, che, almeno qui da noi in Occidente, fa spesso pessime cose, anche in nome dei valori<br />

cristiani. In realtà l’etica è un’altra cosa: è quella zona <strong>di</strong> confine tra il pensiero -che riconosce il valore <strong>di</strong><br />

qualcosa- e la relazione concreta tra i viventi, tra gli esseri umani. L’etica, cioè, non è solo una concezione<br />

della morale e dei rapporti: l’etica è il luogo massimo, è il crocevia <strong>di</strong> tutte le relazioni, perché è il punto in<br />

cui io, <strong>di</strong> fronte all’altro che vedo e rispetto al terzo, all’altro che non vedo (perché magari sta dall’altra parte<br />

del mondo), mi chiedo dove sono io, a che punto sono e qual è la mia responsabilità. L’etica è sia pensiero<br />

che relazione concreta. E’ il crocevia effettivo su cui si giocano le nostre forme <strong>di</strong> convivenza.<br />

A me pare allora che uno sguardo sull’etica della <strong>di</strong>gnità ci <strong>di</strong>a alcuni riferimenti essenziali proprio<br />

dal punto <strong>di</strong> vista delle fonti culturali per un processo stratificato, multipolare, corale, <strong>di</strong> liberazione, che non<br />

proverrà da una sola parte e che non può essere esportato. Non ha senso nobilitare la parola globalizzazione,<br />

<strong>di</strong>cendo che bisogna globalizzare la pace, la giustizia, i <strong>di</strong>ritti, perché pace, giustizia e <strong>di</strong>ritti, se crescono,<br />

possono farlo solo attraverso l’inter<strong>di</strong>pendenza <strong>di</strong>alogica, ovvero da più fonti, da più centri. Non può esistere<br />

un centro che esporta le cose buone in ogni parte del mondo.<br />

La globalizzazione è piuttosto l’esportazione <strong>di</strong> una logica, <strong>di</strong> un qualcosa che, da un centro, viene<br />

esportato in tutto il mondo. E’, in termini <strong>di</strong> patologia me<strong>di</strong>ca, una sorta <strong>di</strong> metastasi. Non c’è modo <strong>di</strong><br />

risanarla adottando e sposando la stessa logica, proprio non c’è modo. La globalizzazione non è neutrale: non<br />

se ne possono valutare in negativo o in positivo gli effetti in base a come viene usata e pertanto neppure la si<br />

può interpretare in senso riformista, pensando <strong>di</strong> prenderne i vantaggi e <strong>di</strong> rigettarne gli svantaggi. Questo<br />

“buon senso riformista”, trasversale anche presso quasi tutte le nostre forze politiche e culturali, non può<br />

applicarsi alla globalizzazione.<br />

L’unica possibilità è quella <strong>di</strong> un’alternativa ra<strong>di</strong>cale alla globalizzazione, un’alternativa che si<br />

chiama inter<strong>di</strong>pendenza e che richiede più fonti ed una crescita delle culture, anche oltre le culture costituite.<br />

Il filosofo Lévinas <strong>di</strong>ce che c’è una giustizia che è oltre le culture, poiché le culture, nella loro <strong>di</strong>fferenza,<br />

nella loro originalità, nella loro umanità, sono anche un impasto <strong>di</strong> riconoscimento e <strong>di</strong> oppressione, <strong>di</strong><br />

liberazione e <strong>di</strong> misconoscimento della <strong>di</strong>gnità umana. Abbiamo bisogno <strong>di</strong> attingere a fonti culturali che ci<br />

<strong>di</strong>ano il senso dell’orizzonte <strong>di</strong> questo cammino, ad un pensiero che sia luce per il cammino, che serva in<br />

pratica a toglierci <strong>di</strong> qui e a rimetterci in cammino. Per farlo dobbiamo avere un orientamento e questo non<br />

sarà costituito da un pensiero unico, da un’ideologia, né potrà trattarsi <strong>di</strong> un progetto già completato, rispetto<br />

al quale dovrò eliminare chiunque si opponga (questa è piuttosto la grande illusione del terrorismo <strong>di</strong> casa<br />

nostra).<br />

Si tratterà invece <strong>di</strong> un pensiero che è tutt’uno con l’essere in relazione e la cui universalità non<br />

nasce dal concetto, ma dalle relazioni che noi sappiamo rintracciare. Sarà un pensiero nel quale la parola<br />

greca democrazia può <strong>di</strong>ventare, come <strong>di</strong>ceva Aldo Capitini, omnicrazia; oppure può sposarsi con la parola<br />

africana che abbiamo sentito, ubuntu, essere persone attraverso altre persone, e può accogliere il principio<br />

gandhiano del khaddar, del filatoio, che non serve solo per filare il cotone, bensì ci insegna a tessere la<br />

convivenza senza lacerarla, senza ricorrere a mezzi <strong>di</strong>struttivi.<br />

Quali sono, rispetto a questa <strong>di</strong>rezione, a questo orizzonte, a questo sguardo che ha lo spazio per essere<br />

con<strong>di</strong>viso da parte dei tanti che si muovono in questa <strong>di</strong>rezione, senza omologare, i riferimenti orientativi sui<br />

quali possiamo contare? Poiché non partiamo da zero: c’è già, a suo modo, una tra<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> questo sguardo,<br />

<strong>di</strong> questa capacità <strong>di</strong> vedere l’umanità, <strong>di</strong> vedere il mondo, <strong>di</strong> non <strong>di</strong>struggere ciecamente tutto questo. Quali<br />

sono, allora, i riferimenti?<br />

3. Il co<strong>di</strong>ce della <strong>di</strong>gnità<br />

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Il primo riferimento è dato dal co<strong>di</strong>ce della <strong>di</strong>gnità, nel senso <strong>di</strong> un or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> significati correlati, che<br />

in qualche modo contiene lo spazio <strong>di</strong> una antropologia: “antropologia” non come concezione dell’uomo<br />

tipica dell’Occidente o <strong>di</strong> qualche altra parte del mondo, ma nel senso <strong>di</strong> rivelazione dell’umano, <strong>di</strong><br />

liberazione dell’umano dentro la storia. Noi siamo mistero a noi stessi: usiamo parole come “persona”,<br />

“uomo”, “donna”, “in<strong>di</strong>viduo”, come se sapessimo perfettamente <strong>di</strong> che cosa si tratta. In realtà c’è una<br />

<strong>di</strong>stanza da noi stessi, per cui non riusciamo a definire, a calcolare, a quantificare l’eccedenza <strong>di</strong> valore che è<br />

presente nella persona umana, nell’essere umano e nell’umanità complessivamente considerata. In questo<br />

co<strong>di</strong>ce della <strong>di</strong>gnità -che è un <strong>di</strong>venire dell’antropologia, della rivelazione dell’umano- incontriamo dei<br />

significati correlati.<br />

La grande svolta della metà del Novecento, realizzatasi tra il 1945 e il 1948, che spesso viene<br />

<strong>di</strong>menticata a vantaggio <strong>di</strong> altre date, ha visto, non <strong>di</strong>co l’invenzione del concetto <strong>di</strong> <strong>di</strong>gnità (questo concetto<br />

è antico e già esisteva nelle culture, nelle religioni), ma quantomeno una svolta <strong>di</strong> enorme portata, a fronte<br />

delle <strong>di</strong>struzioni della seconda guerra mon<strong>di</strong>ale, dell’uso della bomba atomica, dello sterminio, dei campi <strong>di</strong><br />

concentramento, nonché <strong>di</strong> generazioni che si chiedevano: qual è una cultura che non riproduca Auschwitz?<br />

A fronte <strong>di</strong> tutto questo emerge in quegli anni come fatto giuri<strong>di</strong>co, politico, etico (in senso interculturale:<br />

non si tratta <strong>di</strong> un’etica dell’Occidente, né <strong>di</strong> qualche altro soltanto), un significato fondamentale: la <strong>di</strong>gnità è<br />

il valore intrinseco -questo umile aggettivo viene usato appunto nella Dichiarazione del ’48 dei <strong>di</strong>ritti<br />

dell’uomo- dell’essere umano. Intrinseco è una parola piccola, un piccolo aggettivo <strong>di</strong> fondamentale<br />

importanza: <strong>di</strong>re che la <strong>di</strong>gnità è valore intrinseco dell’essere umano significa <strong>di</strong>re che quest’ultimo lo<br />

possiede originariamente, non lo conquista, non lo consegue a <strong>di</strong>ciotto anni, né arriva a possederlo per<br />

merito, perché ha successo o perché si impone in qualche modo. Valore intrinseco significa anche che non si<br />

tratta <strong>di</strong> una proprietà che si possa vendere o comprare, sebbene io in qualche modo incarni questo valore. Si<br />

tratta <strong>di</strong> un valore irriducibile, che va al <strong>di</strong> là dei nostri consueti schemi <strong>di</strong> calcolo <strong>di</strong> interesse, <strong>di</strong> merito o <strong>di</strong><br />

colpa.<br />

Riconoscere il valore incon<strong>di</strong>zionato dell’essere umano vuol <strong>di</strong>re invece imparare a riconoscere in<br />

questo valore un criterio che va oltre quei criteri che normalmente usiamo per stabilire situazioni <strong>di</strong> dominio.<br />

Noi occidentali siamo soliti <strong>di</strong>re che abbiamo inventato il valore della persona umana, ma, se an<strong>di</strong>amo a<br />

verificare in base a quali logiche costruiamo normalmente la quoti<strong>di</strong>anità, scopriamo che si tratta delle<br />

logiche del merito, della colpa, del calcolo, dello schema buoni vs. cattivi. Anche per questo quando <strong>di</strong>ciamo<br />

che ci sono state delle vittime dobbiamo sempre aggiungere che si tratta <strong>di</strong> “vittime innocenti”, come se<br />

invece ci fossero delle vittime che è giusto siano tali. Abbiamo sempre bisogno <strong>di</strong> calcolare se queste vittime<br />

abbiano o meno meritato il loro destino. Ancora, per <strong>di</strong>re quanto <strong>di</strong>stante sia per noi la percezione del valore<br />

incon<strong>di</strong>zionato dell’essere umano, non solo nell’economia, nella politica, nel rapporto tra le religioni, (che<br />

<strong>di</strong>alogano, ma nel profondo si o<strong>di</strong>ano), ma anche nei rapporti interpersonali. E’ sufficiente che ciascuno<br />

pensi alla sua storia personale: quanto è raro che qualcuno ci <strong>di</strong>ca «ti voglio bene» o «ti riconosco» o «ti<br />

accolgo» senza “se”? Normalmente <strong>di</strong>ciamo «ti voglio bene se» (pensate ai rapporti genitori-figli) o «ti<br />

riconosco se». Siamo abituati al “se”, a porre con<strong>di</strong>zioni, anche dentro la più profonda intimità delle relazioni<br />

interpersonali d’amore. E se succede in questo tipo <strong>di</strong> relazioni, figurarsi nei rapporti economici, politici, tra i<br />

popoli.<br />

Già solo il primo significato <strong>di</strong> essere umano è per noi <strong>di</strong>stante: non è affatto un nostro possesso e<br />

non ci serve una filosofia borghese dei <strong>di</strong>ritti umani per <strong>di</strong>re che essi sono nostra proprietà, per riven<strong>di</strong>carli e<br />

magari fare delle guerre per arrivare ad affermarli, assieme al nostro modello <strong>di</strong> libertà. Questo significato<br />

relativo al valore della persona umana è realmente irriducibile e ci giu<strong>di</strong>ca: pone un criterio rispetto al quale,<br />

in qualche modo, riconosciamo che dobbiamo cambiare. C’è consenso attorno a queste idee e circa il fatto<br />

che ci sia una trasformazione da fare, una trasformazione che deve investire sia i rapporti interpersonali che<br />

quelli politici.<br />

C’è però un secondo significato, poiché il valore della <strong>di</strong>gnità -si <strong>di</strong>ceva: una specie <strong>di</strong> co<strong>di</strong>ce- non<br />

può limitarsi a questo: è un altro sguardo sulla con<strong>di</strong>zione umana del mondo intero. La <strong>di</strong>gnità umana è il<br />

legame interumano originario. E’ l’appartenenza senza esclusioni alla comunità umana, prima della famiglia,<br />

prima del sangue, prima <strong>di</strong> avere un’identità etnica o religiosa, prima del riconoscersi in una determinata<br />

cultura, anche <strong>di</strong> quelle culture che vogliamo salvare dall’omologazione della globalizzazione. Un essere<br />

umano è tale senza aggettivi: è un nudo essere umano. Rispetto a questo non è più possibile interpretare in<br />

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chiave in<strong>di</strong>vidualista la <strong>di</strong>gnità ed i <strong>di</strong>ritti umani, declinazione plurale della <strong>di</strong>gnità stessa. La <strong>di</strong>gnità è del<br />

singolo e, nello stesso tempo, della comunità umana, dell’umanità in tutte le sue espressioni collettive. Così<br />

usciamo da un pensiero gerarchico -chi viene prima: il singolo o la comunità?- imparando invece che quello<br />

tra il singolo e le comunità, tra il singolo e l’umanità, è un rapporto <strong>di</strong> doppia eccedenza. Perché il singolo<br />

vale più <strong>di</strong> ogni comunità: non c’è comunità al mondo -nemmeno le Nazioni Unite - che si possa arrogare il<br />

<strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> pena <strong>di</strong> morte o <strong>di</strong> tortura o <strong>di</strong> sacrificare un singolo. Allo stesso tempo è però vero che la comunità,<br />

l’umanità, vale più del singolo, nel senso specifico che non c’è un singolo che possa arrogarsi il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong><br />

sacrificare una comunità o ad<strong>di</strong>rittura l’umanità intera al suo volere, al suo arbitrio.<br />

Si tratta <strong>di</strong> due valori da correlare: l’in<strong>di</strong>viduo è più della comunità; la comunità è più dell’in<strong>di</strong>viduo,<br />

contemporaneamente. Non è una facile gerarchia; non è una classifica. Ciò significa che non è concessa<br />

alcuna interpretazione in<strong>di</strong>vidualistica e già in questo verifichiamo che non si tratta affatto <strong>di</strong> un parto<br />

occidentale: ci sono culture <strong>di</strong> altre latitu<strong>di</strong>ni, in America Latina, in Africa, in Asia, che possiedono questo<br />

senso del valore della comunità e non idolatrano, non idealizzano l’in<strong>di</strong>viduo come un valore assoluto, bensì<br />

come un valore in relazione con altri.<br />

Qual è l’altro grande guadagno <strong>di</strong> questa svolta? Che cominciamo a vedere che i valori che contano<br />

non sono tanto i concetti, <strong>di</strong> giustizia, <strong>di</strong> libertà o quant’altro, poiché quando riduco il valore ad un concetto<br />

la morale è già alienata. In nome <strong>di</strong> Dio, in nome della patria, in nome della famiglia, posso torturare,<br />

sterminare, fare guerre, mentre continuo ad andare a messa. Diverso è quando invece correlo i valori<br />

astrattivi -importanti, ma funzionali- ai valori viventi, incarnati nelle persone, nelle comunità umane, nelle<br />

forme <strong>di</strong> vita della natura, nelle relazioni, nel futuro. Quando a scuola si capisce che i veri valori non sono<br />

quelli espressi nei voti, nei giu<strong>di</strong>zi, nei cre<strong>di</strong>ti e nei debiti formativi, bensì nelle persone, lì faccio<br />

un’esperienza del valore. Dico: tu sei il valore; il valore è l’essere umano concreto, incarnato; il valore è<br />

costituito dalle relazioni, dalle comunità. Questo ci insegna il co<strong>di</strong>ce della <strong>di</strong>gnità: i valori fondamentali sono<br />

vivi, sono viventi. E i valori astrattivi sono sani se sono correlati ai valori viventi, mentre se vanno contro<br />

questi valori allora davvero <strong>di</strong>ventano <strong>di</strong>struttivi.<br />

Il terzo significato <strong>di</strong> questo co<strong>di</strong>ce della <strong>di</strong>gnità è altrettanto importante: è sicuramente inscritto<br />

nella nostra <strong>di</strong>gnità (quella, si <strong>di</strong>ceva, che incarniamo senza esserne i proprietari nel senso oggettivante della<br />

parola) <strong>di</strong> non esistere da schiavi, da oppressi, ma a maggior ragione -proprio qui risiede la maggior gravità-<br />

<strong>di</strong> non esistere da sfruttatori, da dominatori, da <strong>di</strong>struttori <strong>di</strong> altri, <strong>di</strong> noi stessi, del mondo naturale. Ecco che<br />

salta allora un altro pregiu<strong>di</strong>zio: che il co<strong>di</strong>ce della <strong>di</strong>gnità sia una forma <strong>di</strong> antropocrazia, ovvero che ponga<br />

l’uomo al centro <strong>di</strong> ogni cosa. L’idea che l’uomo valga perché domina la natura è un altro esempio <strong>di</strong><br />

pensiero gerarchico. Un altro esempio è l’idea che, all’interno del genere umano, chi vale <strong>di</strong> più sia il<br />

maschio, perché la femmina, la donna, in qualche modo è un uomo mancato. Ecco i danni del pensiero<br />

gerarchico, un pensiero che non regge le relazioni, che non sa correlare. In questo è proprio analfabeta: non<br />

riesce a tenere insieme senza <strong>di</strong>struggere qualcosa e valorizzare qualcos’altro.<br />

Mi accorgo a questo punto che sono chiamato ad esistere creativamente. Per questo motivo <strong>di</strong>ciamo: non più<br />

l’ossessione dello sviluppo, bensì l’equilibrio, l’armonizzazione. Esistere creativamente vuol <strong>di</strong>re, per noi<br />

che siamo fatti <strong>di</strong> relazione, portare ad armonia tutte le relazioni che viviamo, compresa quella con il mondo<br />

della natura, compresa quella con la <strong>di</strong>gnità del mondo della natura, che non è solo ambiente, cornice della<br />

vita umana, bensì attraversa e dà carne alla stessa vita umana. Siamo anche noi natura, sebbene<br />

misteriosamente eccedenti in questo valore, che non ci dà però un primato nel senso <strong>di</strong> un potere <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>struzione, ma semmai un primato <strong>di</strong> responsabilità. Siamo responsabili non solo degli altri, ma anche <strong>di</strong><br />

questo mondo che ci è affidato.<br />

Così illustrato il co<strong>di</strong>ce della <strong>di</strong>gnità può sembrare ancora tutto interno ad un quadro concettuale, ma<br />

in realtà ciascuno <strong>di</strong> noi può fare l’esperienza della <strong>di</strong>gnità dentro un percorso <strong>di</strong> appren<strong>di</strong>mento: la <strong>di</strong>gnità si<br />

scopre. Non è affatto automatico assumerla: l’egocentrismo ed il narcisismo, sono caricature, sono mancati<br />

incontri con la propria <strong>di</strong>gnità. Non sono vere assunzioni della libertà: sono ricerca casomai <strong>di</strong> potenza, che è<br />

altra cosa rispetto alla libertà. La potenza è tendenzialmente <strong>di</strong>struttiva; la libertà tendenzialmente<br />

relazionale. Pensare che libertà e potenza siano la stessa cosa sarebbe come confondere un passo <strong>di</strong> danza<br />

con un colpo <strong>di</strong> spada. La <strong>di</strong>gnità, allora, <strong>di</strong>venta concreta, si incarna, nella misura in cui noi la<br />

sperimentiamo, la scopriamo. E non posso pensare <strong>di</strong> scoprirla prima per me e, poi, semmai, andare<br />

dall’altro. In realtà si tratta <strong>di</strong> un processo simultaneo, intrecciato: prendo coscienza della mia <strong>di</strong>gnità nella<br />

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misura in cui pratico la relazione, credo nella relazione. Noi non solo abbiamo relazione: siamo relazione, al<br />

punto che, per essere relazione, dobbiamo credere nelle relazioni. Se infatti tolgo la fiducia ad una relazione<br />

la <strong>di</strong>struggo: quella relazione è finita. Educarsi, essere educati ed educare significa allora fare insieme questa<br />

scoperta della <strong>di</strong>gnità, <strong>di</strong>gnità che non è soltanto un vincolo, bensì un orizzonte che rappresenta il vero<br />

percorso dell’umanizzazione.<br />

4. Dignità e bene comune<br />

Mi pare a questo punto necessaria un’ultima sottolineatura circa il co<strong>di</strong>ce della <strong>di</strong>gnità. Si <strong>di</strong>ceva<br />

prima che l’umanità è chiamata a farsi responsabile dei beni comuni (non solo <strong>di</strong> quelli privati): rispetto ad<br />

essi, collocati fuori <strong>di</strong> noi, noi non solo siamo in un punto neutro, in un punto zero, ma, se la <strong>di</strong>gnità è il<br />

legame interumano originario, è già la comunità umana, ciò significa che l’umanità stessa è appunto il primo<br />

bene comune. Questo bene lo incarniamo, non è fuori <strong>di</strong> noi. Ci chiede cura per le relazioni, per le persone,<br />

perché incarnano questo bene comune fondamentale, insieme alla terra, insieme all’aria, insieme all’acqua.<br />

La <strong>di</strong>gnità umana è il primo dei beni comuni rispetto ai quali siamo responsabili, anzi, corresponsabili<br />

sarebbe la parola giusta. Si tratta <strong>di</strong> un secondo sguardo al quale il co<strong>di</strong>ce della <strong>di</strong>gnità ci apre.<br />

E’ chiaro dunque che la <strong>di</strong>gnità è un co<strong>di</strong>ce che ci dà in<strong>di</strong>cazioni rispetto al valore. E qual è per noi,<br />

ormai a livello mon<strong>di</strong>ale, la teoria del valore, la scienza del valore, il sistema <strong>di</strong> organizzazione del valore?<br />

E’ l’economia, che nell’ultima modernità -in questa che chiamiamo globalizzazione- ha la portata <strong>di</strong> una<br />

metafisica, è una metafisica. Con la <strong>di</strong>fferenza che nel passato le metafisiche potevano fare più o meno<br />

danno, ma rimanevano dentro i libri dei filosofi, mentre oggi questa metafisica viene veicolata in modo semiautomatico<br />

nei comportamenti <strong>di</strong> tutti e non richiede affatto riflessione, lettura, <strong>di</strong>alogo, pensiero critico,<br />

consenso, <strong>di</strong>ssenso. E’ come un binario unico nel quale siamo immessi, per cui è <strong>di</strong>fficile che qualcuno possa<br />

smarcarsi da questo tipo <strong>di</strong> logica, una logica che finisce anche col darci lo sguardo, le categorie, le parole,<br />

con cui noi leggiamo la realtà. Ecco perché, tanto per fare un esempio, se vogliamo <strong>di</strong>re che uno si impegna<br />

per gli altri, <strong>di</strong>ciamo che si spende per gli altri; se vogliamo <strong>di</strong>re che qualcuno è utile lo chiamiamo risorsa, il<br />

che non è una bella cosa. Diciamo che i giovani sono una risorsa, che gli stranieri sono una risorsa. Quello<br />

che oggi è una risorsa, tra l’altro, ben presto sarà <strong>di</strong>chiarato esubero. E in una società come la nostra se sei un<br />

esubero non solo sei fuori dall’economia, ma sei, <strong>di</strong>rei, fuori dalla società, sei totalmente irrilevante.<br />

Non<strong>di</strong>meno c’è un piccolo frammento <strong>di</strong> verità in questa follia, cioè nel fatto che l’economia abbia una<br />

portata metafisica. Si tratta, da un lato, <strong>di</strong> una nostra patologia, appunto <strong>di</strong> una follia. Oltretutto stiamo<br />

parlando <strong>di</strong> un’economia fondata su quella logica della competizione esasperata che <strong>di</strong>venta un fine, una<br />

logica in base alla quale non starebbero insieme né una famiglia né un condominio, figurarsi il mondo, se lo<br />

fon<strong>di</strong>amo su questa logica <strong>di</strong> competizione. Rispetto a questo, qual è il momento <strong>di</strong> verità? Che in una<br />

economia c’è una legge <strong>di</strong> amministrazione della casa, <strong>di</strong> quella casa che è il mondo. Noi siamo ospiti del<br />

mondo, siamo ospiti del tempo, siamo ospiti dello spazio. E’ chiaro allora che ci serve un orientamento <strong>di</strong><br />

valore. La parola “valore” è sinonimo <strong>di</strong> “senso”, <strong>di</strong> “significato”, <strong>di</strong> qualcosa che ci motiva. E’ certo che noi<br />

cerchiamo il valore: ci sono valori morali, valori estetici, cognitivi, economici.<br />

Ecco, quin<strong>di</strong>, il senso del co<strong>di</strong>ce della <strong>di</strong>gnità: esso ci dà un altro orientamento, oltre questo cerchio<br />

chiuso <strong>di</strong> un’economia che conosce appena il valore d’uso (un oggetto mi serve ad una funzione, perciò ha<br />

un valore relativo a quest’uso) e soprattutto il valore <strong>di</strong> scambio, connesso al valore astratto del denaro.<br />

Posso misurare il valore delle persone, il valore delle relazioni, il valore del mondo vivente, come valore<br />

d’uso o valore <strong>di</strong> scambio? Una società che fa questo è folle. Letteralmente non vede i valori. Abbiamo<br />

bisogno <strong>di</strong> un’economia che riconosca il valore del legame, cioè il valore delle relazioni, delle persone, che<br />

faccia della persona intera il soggetto economico, rifuggendo da questo spettro che è l’homo oeconomicus,<br />

un’astrazione pericolosissima.<br />

Rispetto a questo sguardo, allora, riusciamo a riconoscere i valori viventi e riusciamo a riconoscere<br />

quello che per noi ha senso e quello che è invece inaccettabile, non degno della nostra umanità. Il co<strong>di</strong>ce<br />

della <strong>di</strong>gnità è un co<strong>di</strong>ce critico, perché ci mostra tutto quanto è inaccettabile, e nel contempo ha un valore<br />

euristico, ovvero, dal calco greco della parola, ha la capacità <strong>di</strong> trovare strade alternative. Non basta infatti<br />

parlare male della globalizzazione: la contesto davvero se trovo dei percorsi alternativi. Un’alternativa è<br />

sviluppare le forme <strong>di</strong> inter<strong>di</strong>pendenza, <strong>di</strong> economia sociale, <strong>di</strong> recupero e tutela, anche sul piano economico,<br />

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dei <strong>di</strong>ritti umani. Ci serve a questo scopo un altro sguardo; ci serve, vorrei <strong>di</strong>re, una guarigione da questo<br />

delirio dell’economia.<br />

5. Verso una spiritualità del ra<strong>di</strong>calmente Altro<br />

L’ultimo riferimento che vorrei introdurre si può forse chiamare una spiritualità del ra<strong>di</strong>calmente<br />

Altro. Può suonare <strong>di</strong>fficile, però non lo è ed è una cosa che possiamo capire insieme. Che vuol <strong>di</strong>re<br />

spiritualità? Non il contrario del corpo; non significa neanche ritiro, né un posto particolarmente sacro. La<br />

spiritualità è forse la <strong>di</strong>mensione della correlazione tra l’essere umano e la verità che può dare luce alla sua<br />

esistenza. Nei molti nomi <strong>di</strong> questa verità, nelle molte forme <strong>di</strong> questa ricerca, le culture non rappresentano<br />

solo il folklore, attraverso i <strong>di</strong>versi mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> cucinare, <strong>di</strong> vestirsi, <strong>di</strong> organizzare l’economia: sono risposte a<br />

un senso dell’esistenza che per noi resta misterioso. I molti nomi del <strong>di</strong>vino, la natura, la vita: ogni cultura,<br />

ogni filosofia, ogni fede cerca il proprio nome. Ma allora, nella <strong>di</strong>rezione in cui si cerca, c’è comunque un<br />

ra<strong>di</strong>calmente altro (che è altro, ma è ra<strong>di</strong>ce, fondamento, per noi) che ci invita a scoprire che il mondo non è<br />

oggetto <strong>di</strong> conquista, che non è prodotto da noi, come non lo è l’uomo. Quest’ultimo, non è un self-mademan:<br />

quello è uno spettro che non esiste da nessuna parte. Tutto quello che ci è dato -chiunque ce l’abbia<br />

dato- è un dono che ci costituisce come responsabili. La parola dono non ingentilisce la con<strong>di</strong>zione umana,<br />

però ci costituisce come responsabili ed è questa responsabilità che, una volta assunta, ci fa veramente esseri<br />

umani.<br />

Lo ripeto: non serve necessariamente avere un rimando teologico, credere in qualche Dio. Il poeta<br />

portoghese Pessoa, in un verso, <strong>di</strong>ce: «poco gli dèi ci danno e quel poco è falso. Però, se ce lo danno,<br />

l’offerta è vera. Accetto». Ecco, è un modo <strong>di</strong> stare al mondo, senza nessuna fede religiosa, ma riconoscendo<br />

che quello che siamo e quello che abbiamo intorno a noi è dono che ci costituisce responsabili.<br />

Senza questo sguardo <strong>di</strong> gratuità del mondo, anziché <strong>di</strong> possesso, <strong>di</strong> conquista <strong>di</strong> tutto ciò su cui mettiamo<br />

mano, non è possibile esercitare un’autentica responsabilità, che sia all’altezza dei compiti che la storia ci<br />

presenta. Questo co<strong>di</strong>ce, <strong>di</strong>cevo, non è puramente teorico: è un percorso <strong>di</strong> appren<strong>di</strong>mento; è un risveglio al<br />

mondo e <strong>di</strong>venta percorso attraverso la prassi, <strong>di</strong>venta azione storica. Assumere questi riferimenti significa<br />

allora impegnarsi a vivere secondo quella creatività che prima richiamavo, cioè rinunciare, nella vita<br />

interiore, interpersonale, pubblica e poi nel rapporto con la natura, a mezzi <strong>di</strong>struttivi. La non violenza non<br />

scende da Marte: è violenza guarita, è violenza attraversata. Tutti noi, a causa <strong>di</strong> frustrazioni, ingiustizie,<br />

arroganze, angosce, deliri, siamo esposti a questa tragica illusione <strong>di</strong> esercitare potenza sulla realtà e dunque<br />

sugli altri. Allora la non violenza scaturisce come guarigione, come percorso <strong>di</strong> attraversamento <strong>di</strong> questa<br />

illusione tragica. Se la non violenza è questo, siamo chiamati a vivere come persone, nella nostra<br />

in<strong>di</strong>vidualità, la creatività, la generatività <strong>di</strong> questo modo <strong>di</strong> stare al mondo, sia nelle micro-relazioni <strong>di</strong> cui<br />

facciamo parte, sia anche nella prassi politica, nella prassi sociale, in modo che quello scarto tra ciò che<br />

riconosciamo vero ed il modo in cui ci adattiamo a vivere non sia più così grande, non sia più così stridente,<br />

così contrad<strong>di</strong>ttorio.<br />

A partire da questo sguardo, credo allora si possa generare una prassi <strong>di</strong> restituzione dei <strong>di</strong>ritti umani,<br />

ben lontana dai nostri progressismi e dai nostri riformismi, così illusi <strong>di</strong> cambiare il mondo, mentre al<br />

massimo arrivano a chi ci sta più vicino, ma non arrivano mai ai penultimi e gli ultimi: nemmeno li vedono.<br />

Ben altro è una prassi <strong>di</strong> restituzione che parte da coloro che portano il peso <strong>di</strong> questa convivenza, per<br />

trasfigurarla in modo non violento e renderla abitabile da tutti. Questo vuol <strong>di</strong>re mettere i <strong>di</strong>ritti umani al<br />

centro dell’agenda politica, ma anche al centro dell’agenda personale, perché, come <strong>di</strong>ceva per esempio<br />

Gandhi, in un paese in cui i <strong>di</strong>ritti umani si citano, ma nessuno li percepisce come dovere in prima persona,<br />

in un paese in cui i <strong>di</strong>ritti umani sono solo i miei <strong>di</strong>ritti, ma non sono mai i <strong>di</strong>ritti dell’altro, dello straniero,<br />

del cosiddetto nemico, i <strong>di</strong>ritti umani, sono carta straccia, non hanno corso, non cambiano le politiche, non<br />

figurano nemmeno nelle campagne elettorali, insomma, non fanno testo.<br />

Occorre perciò una svolta, che è, certo, globale, ma è anche affidata a ciascuno <strong>di</strong> noi ed alle nostre<br />

realtà e ci ridà quin<strong>di</strong> in mano un potere che è energia <strong>di</strong> cooperazione, non potenza dominativa. Una<br />

prospettiva del genere non ci assicura soluzioni, naturalmente, né ci dà automatismi in base ai quali avremo<br />

l’happy end in qualche modo garantito. Direi che essa ci richiede invece tutta quella luci<strong>di</strong>tà, quella capacità<br />

<strong>di</strong> vedere, che raccoglie in sé l’intelligenza della speranza e l’energia della compassione attiva. A me pare<br />

che Franz Kafka, in un appunto sul suo <strong>di</strong>ario, abbia condensato nel modo più <strong>di</strong>retto questa luci<strong>di</strong>tà,<br />

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scrivendo: «puoi astenerti dalle sofferenze del mondo, sei libero <strong>di</strong> farlo e risponde alla tua natura. Ma forse<br />

proprio questo astenersi è la sola sofferenza che potresti evitare».<br />

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Terza Giornata<br />

24 aprile 2005<br />

Solidarietà: quale e come?<br />

Roberto Sensi<br />

Associazione Mani Tese - <strong>Lucca</strong><br />

Farò una brevissima premessa sul tema che oggi verrà trattato al Forum. Penso che in qualche modo<br />

l’obiettivo del 2° Forum sia quello <strong>di</strong> far sì che le organizzazioni ed i loro partner si confrontino, <strong>di</strong>scutano,<br />

<strong>di</strong>aloghino e soprattutto verifichino ciò che è stato fatto rispetto al 1° Forum.<br />

Inizio da una frase emblematica che spiega a mio avviso in modo efficace ciò che dovrebbe<br />

rappresentare questo momento; è una frase che è stata pronunciata da Perez Esquivel durante l’inaugurazione<br />

del Forum: “se non riusciamo a capire il futuro dobbiamo fermarci e guardare da dove veniamo”.<br />

Credo che il forum debba e possa essere un momento in cui ci guar<strong>di</strong>amo dentro per capire se gli errori che<br />

commettiamo abbiano in qualche modo un’origine che non riusciamo a comprendere a fondo, soprattutto in<br />

questo periodo in cui la cooperazione sembra minacciata da più fronti. La solidarietà <strong>di</strong> base, cioè quella<br />

sostenuta dal basso, deve chiedersi in che <strong>di</strong>rezione stiamo andando.<br />

Ieri J.L. Touadì ha affermato che “prima <strong>di</strong> cooperare insieme, camminiamo insieme”; questo è un<br />

invito a conoscersi. Penso quin<strong>di</strong>, alla luce <strong>di</strong> questa frase, che il Forum rappresenti un momento d’incontro e<br />

<strong>di</strong> conoscenza, un invito soprattutto a capire da dove arrivano le istanze <strong>di</strong> riscatto, <strong>di</strong> riven<strong>di</strong>cazione, la<br />

necessità <strong>di</strong> riconoscimento <strong>di</strong> <strong>di</strong>gnità.<br />

Questo forum è proprio un incontro tra <strong>di</strong>gnità e sarebbe il caso <strong>di</strong> capire quanto a volte il nostro modo <strong>di</strong><br />

operare, anche se inconsapevolmente, possa essere letto come una mancanza <strong>di</strong> rispetto nei confronti <strong>di</strong> chi<br />

vogliamo aiutare. In fin dei conti noi esistiamo perché esistono i poveri, se non esistessero poveri o non<br />

esistesse chi dal sud del mondo porta avanti lotte <strong>di</strong> riven<strong>di</strong>cazione, probabilmente noi dovremmo ridefinire<br />

tutta la nostra agenda, forse dovremmo anche ridefinire noi stessi, cosa siamo e che cosa vogliamo.<br />

Portando avanti questa provocazione potremmo <strong>di</strong>re che noi esistiamo finché esisteranno in qualche modo<br />

realtà <strong>di</strong> riven<strong>di</strong>cazione; ma se il forum è un incontro tra <strong>di</strong>gnità, credo che anche noi dobbiamo aver chiare<br />

quali sono le nostre riven<strong>di</strong>cazioni, i nostri principi, le nostre linee guida <strong>di</strong> azione.<br />

Questo 2° Forum ha trovato, rispetto a due anni fa, un metodo più organico per tratare gli argomenti.<br />

Gli incontri <strong>di</strong> ieri, soprattutto le quattro relazioni <strong>di</strong> Touadì, Cassano, Mancini e Gonzales Rojas, sono state<br />

un prelu<strong>di</strong>o fondamentale a questo momento, un’introduzione necessaria, perché ci hanno permesso in<br />

qualche modo <strong>di</strong> guardarci dentro e <strong>di</strong> ripensare anche a quello che è la cultura della solidarietà, una cultura<br />

che deve confrontarsi con culture <strong>di</strong>verse, con mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> agire <strong>di</strong>fferenti. Spesso la nostra cultura <strong>di</strong>venta, pur<br />

essendo probabilmente peggiore, vincente. Quando <strong>di</strong>co peggiore intendo le sue forme più unilaterali,<br />

chiaramente non credo peggiore in senso assoluto.<br />

La relazione introduttiva <strong>di</strong> Giulio Marcon, che rappresenta una voce critica nel mondo della<br />

solidarietà internazionale, verterà sull’ambiguità e le responsabilità della cooperazione internazionale, intesa<br />

sia come cooperazione promossa da Istituzioni sia come cooperazione portata avanti da Organizzazioni Non<br />

Governative (OnG). Credo che dal punto <strong>di</strong> vista della responsabilità, la cooperazione possa essere analizzata<br />

in due mo<strong>di</strong>: da una parte è necessario considerare la responsabilità dell’esistente, ovvero il processo che ha<br />

portato il mondo delle OnG nella situazione attuale, causato dall’eccessiva professionalizzazione, dalla<br />

mancanza <strong>di</strong> autonomia nelle scelte, ecc, dall’altro lato però dobbiamo <strong>di</strong>re che responsabilità significa anche<br />

opportunità, cioè potere. In fin dei conti noi siamo artefici del nostro futuro.<br />

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Credo che l’intervento <strong>di</strong> Giulio Marcon potrà in questo senso aiutarci davvero a fare il punto della<br />

situazione attuale. Ringrazio Giulio Marcon per aver accettato l’invito a partecipare al 2° Forum della<br />

solidarietà e lascio a lui la parola.<br />

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Giulio Marcon<br />

Presidente <strong>di</strong> Lunaria<br />

La cooperazione oggi: fra ambiguità e responsabilità<br />

E’ un piacere per me essere <strong>di</strong> nuovo a <strong>Lucca</strong>, perché è sempre un’occasione <strong>di</strong> confronto con una<br />

realtà viva, significativa e originale rispetto alle iniziative più tra<strong>di</strong>zionali <strong>di</strong> solidarietà internazionale. Il<br />

Forum è pervaso da uno spirito critico e aperto, col quale ci si interroga su alcuni temi fondamentali. Credo<br />

che il tema <strong>di</strong> questa mattina -la cooperazione con le sue ambiguità e responsabilità- sia <strong>di</strong> grande interesse<br />

ed importanza anche per la situazione <strong>di</strong> <strong>di</strong>fficoltà e <strong>di</strong> incertezza che oggi vive il mondo non governativo<br />

impegnato nella solidarietà internazionale.<br />

Cooperazione è una bella parola: significa operare, lavorare insieme. Presuppone un rapporto <strong>di</strong> pari<br />

<strong>di</strong>gnità, camminando insieme e costruendo forme <strong>di</strong> intervento e <strong>di</strong> crescita comune: un operare che serve a<br />

fare avanzare i <strong>di</strong>ritti, la democrazia, la solidarietà nel nostro pianeta. Cooperazione è una bella parola anche<br />

perché è contrapposta al concetto <strong>di</strong> competizione. La cooperazione è, o dovrebbe essere, antitetica alla<br />

competizione, principio sul quale si sono costruite le politiche economiche neoliberiste degli ultimi<br />

trent’anni. Nonostante la cooperazione abbia nobili origini, dobbiamo interrogarci su cosa oggi è <strong>di</strong>ventata e<br />

su come certe parole cambiano <strong>di</strong> significato nel corso del tempo a seguito delle trasformazioni della realtà.<br />

Qualcuno ha parlato <strong>di</strong> morte della cooperazione, altri <strong>di</strong> crisi irreversibile delle politiche pubbliche<br />

<strong>di</strong> cooperazione nel momento in cui si sono affermate le politiche neoliberiste, centrate sull’esclusività del<br />

mercato, sulle privatizzazioni, sulla riduzione dell’intervento pubblico e dello Stato, sulla riduzione dei<br />

<strong>di</strong>ritti, ridotti a merce.<br />

Si usa spesso l’espressione “cooperazione allo sviluppo”, ma ultimamente la parola “sviluppo” è<br />

“sotto inchiesta” e messa in <strong>di</strong>scussione. Un’altra espressione molto criticata è “crescita”, ovvero l’idea che<br />

l’aumento <strong>di</strong> valore quantitativo della <strong>di</strong>mensione economica porti maggiori <strong>di</strong>ritti, maggiore benessere,<br />

maggiore eguaglianza. Insomma, il senso delle parole che usiamo e anche il senso della parola cooperazione<br />

oggi deve essere rimesso in <strong>di</strong>scussione, analizzato, interpretato. Dobbiamo interrogarci, perché l’uso delle<br />

parole è importante, ed il significato <strong>di</strong> <strong>di</strong>versi concetti non è più quello <strong>di</strong> 15-20 anni fa. C’è da sottolineare<br />

il fatto che il mondo della cooperazione ha conosciuto negli ultimi anni un moltiplicarsi <strong>di</strong> gruppi ed<br />

organizzazioni che si sono fortemente impegnati in questo campo. Il loro impegno è rivolto anche alla ricerca<br />

<strong>di</strong> un nuovo para<strong>di</strong>gma, <strong>di</strong> nuove strade, dopo il terremoto neoliberista degli ultimi anni.<br />

Credo che da questo punto <strong>di</strong> vista parlare <strong>di</strong> cooperazione porti a <strong>di</strong>scutere <strong>di</strong> politica economica, <strong>di</strong><br />

relazioni internazionali, <strong>di</strong> pace e <strong>di</strong> guerra, <strong>di</strong> questioni che sono strettamente connesse tra loro. Uno degli<br />

errori fondamentali che si fa <strong>di</strong> solito è quello <strong>di</strong> separare la cooperazione dal contesto delle altre politiche<br />

(commerciali, finanziarie, ecc.). In questo caso la cooperazione rischia <strong>di</strong> ridursi a testimonianza, <strong>di</strong> limitarsi<br />

ad una serie <strong>di</strong> interventi -magari vali<strong>di</strong> politicamente ed eticamente- ma sempre all’interno <strong>di</strong> un contesto<br />

che ne snatura fortemente il senso. Il problema è quin<strong>di</strong> quello della coerenza delle altre politiche con le<br />

scelte e con le iniziative che stanno sotto il nome <strong>di</strong> cooperazione. Senza la coerenza con le altre politiche la<br />

cooperazione rischia <strong>di</strong> essere ridotta a puro atto testimoniale, ad intervento residuale che non incide sulle<br />

trasformazioni del nostro pianeta.<br />

Questo è dunque un primo dato fondamentale con il quale fare i conti.<br />

C’è un dato allarmante dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico),<br />

che è il club dei paesi più ricchi del nostro pianeta, (<strong>di</strong> cui fa parte anche l’Italia) che 10 giorni fa ci ha detto<br />

che l’Italia è scesa dal penultimo all’ultimo posto, tra tutti i paesi più ricchi del pianeta, in quanto a<br />

percentuale sul PIL destinata alla cooperazione: siamo passati dallo 0,17% dello scorso anno allo 0,15% <strong>di</strong><br />

quest’anno 2 . Lo scorso anno occupavamo il penultimo posto davanti agli Stati Uniti. In realtà la percentuale<br />

dello 0,15% destinata alla cooperazione è ancora più esigua: all’interno <strong>di</strong> questa irrisoria percentuale è<br />

2 Con la finanziaria 2006 questa percentuale è scesa sotto lo 0,1%<br />

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infatti compresa la cancellazione del debito (quin<strong>di</strong> un’operazione contabile in cui si fa risultare come risorse<br />

destinate alla cooperazione la cancellazione <strong>di</strong> cre<strong>di</strong>ti per gran parte solamente virtuali) e una serie <strong>di</strong><br />

trasferimenti ad organismi internazionali come l’Unione Europea e la Banca Mon<strong>di</strong>ale. Al netto <strong>di</strong> tutto ciò,<br />

la percentuale effettiva destinata alla cooperazione è lo 0,04% del PIL; siamo veramente a livelli infimi in<br />

una situazione aggravata tra l’altro dall’inefficienza e dall’incapacità nella gestione <strong>di</strong> queste risorse. Il<br />

Ministero degli Esteri, la Direzione Generale della Cooperazione allo Sviluppo (DGCS) -che sovraintende la<br />

gestione in materia <strong>di</strong> interventi <strong>di</strong> cooperazione- sono organismi burocratici ed inefficienti.<br />

I fon<strong>di</strong> per la cooperazione stanno quin<strong>di</strong> <strong>di</strong>minuendo, ma aumentano i fon<strong>di</strong> per le spese militari<br />

come è successo negli ultimi tre anni, durante i quali sono cresciute in Italia <strong>di</strong> oltre il 10%. L’Italia spende<br />

per la missione militare in Iraq il doppio <strong>di</strong> quanto ogni anno la DGCS spende per la cooperazione allo<br />

sviluppo. Inoltre ogni anno vengono aumentati i fon<strong>di</strong> per sostenere l’export delle imprese nei paesi in via <strong>di</strong><br />

sviluppo attraverso la SACE che copre i rischi per le imprese che intervengono all’estero. Ultimamente la<br />

SACE ha assicurato i rischi che le imprese italiane (<strong>di</strong> cui non conosciamo il nome) hanno corso in Iraq<br />

durante il regime <strong>di</strong> Saddam Hussein.<br />

Eppure nel campo della cooperazione le promesse sono state tante. L’attuale Presidente del<br />

Consiglio tre anni fa al convegno della FAO a Roma promise l’1% del PIL per la cooperazione allo sviluppo.<br />

Il documento <strong>di</strong> programmazione economica e finanziaria (DPEF), un documento scritto dal Governo e<br />

approvato dal Parlamento, impegnava l’Italia al raggiungimento <strong>di</strong> cifre significative per la cooperazione e lo<br />

sviluppo; tutte promesse completamente <strong>di</strong>sattese. Al vertice dei G8 a Genova nel 2001, l’Italia si impegnò a<br />

sostenere il Fondo Globale e la lotta per la prevenzione dell’AIDS ed altre malattie endemiche del nostro<br />

pianeta. Fino ad oggi il nostro paese non ha contribuito a quel fondo.<br />

Il problema non riguarda semplicemente la quantità <strong>di</strong> risorse destinate alla cooperazione, ma anche<br />

e soprattutto la filosofia che le ispira. Forse parlare <strong>di</strong> “morte della cooperazione” è eccessivo, ma<br />

sicuramente possiamo definire la situazione attuale come una “crisi drammatica”, che non riguarda<br />

solamente l’Italia, ma anche gli altri paesi dell’OCSE. Stiamo quin<strong>di</strong> attraversando una crisi della filosofia<br />

d’intervento della cooperazione, che è stata ferita in modo molto grave dalle scelte <strong>di</strong> politica economica e<br />

dalle scelte generali che sono state compiute in questi anni. La cooperazione è in crisi non solo perché ci<br />

sono meno fon<strong>di</strong> <strong>di</strong>sponibili, ma anche perché l’attuale forma delle relazioni economiche internazionali (il<br />

neoliberismo) è antitetico ai principi, ai valori, agli obiettivi della cooperazione. Il neoliberismo ha<br />

ra<strong>di</strong>calmente messo in <strong>di</strong>scussione l’utilità, i principi, i valori, gli obiettivi che una cooperazione allo<br />

sviluppo sana avrebbe dovuto raggiungere.<br />

Quando le istituzioni internazionali che hanno realizzato i principi del neoliberismo -Banca<br />

Mon<strong>di</strong>ale, Fondo Monetario Internazionale, Organizzazione Mon<strong>di</strong>ale del Commercio ed i governi-<br />

affermano che la centralità è il mercato, che è prioritario ridurre il ruolo dello Stato, che bisogna ridurre la<br />

spesa pubblica anche per i servizi <strong>di</strong> prima necessità, che i mercati dei paesi in via <strong>di</strong> sviluppo si devono<br />

aprire completamente agli investimenti o alla colonizzazione dei paesi del nord, è inevitabile un conflitto con<br />

la filosofia della cooperazione allo sviluppo. In questo contesto ecco che la cooperazione ha assunto un ruolo<br />

residuale, perdendo la capacità <strong>di</strong> influenzare le scelte politiche ed economiche. Se il centro dell’azione<br />

politica è occupato dalle politiche neoliberiste, fondate sulle privatizzazioni e sui tagli alla spesa pubblica,<br />

che spazio può avere una cooperazione che fa del partenariato e dell’intervento pubblico il proprio punto <strong>di</strong><br />

riferimento? E’ quin<strong>di</strong> ovvio che negli ultimi 25 anni l’avanzare del neoliberismo abbia portato ad una<br />

<strong>di</strong>minuzione dei fon<strong>di</strong> destinati alla cooperazione più genuina e ad un aumento dei fon<strong>di</strong> per altri tipi <strong>di</strong><br />

interventi in qualche modo funzionali al sistema neoliberista.<br />

Di fronte a questa situazione la comunità internazionale -ovvero i governi dei paesi più ricchi, e le<br />

istituzioni internazionali- hanno ricalibrato l’uso delle risorse e degli interventi destinati alla cooperazione,<br />

verso forme meno impegnative dal punto <strong>di</strong> vista politico ed economico e con una resa me<strong>di</strong>atica maggiore.<br />

Non è un caso che alla crisi della cooperazione allo sviluppo, intesa sia in termini economici che politici, sia<br />

corrisposta una crescita del cosiddetto aiuto umanitario, una forma <strong>di</strong> intervento a breve termine “mor<strong>di</strong> e<br />

fuggi”, soggetto ad una forte strumentalizzazione politica e militare. Basta pensare, a questo proposito, alla<br />

guerra umanitaria e a tutte quelle forme <strong>di</strong> intervento umanitario in situazioni <strong>di</strong> emergenza. Negli anni ’90<br />

questi interventi a forte resa me<strong>di</strong>atica hanno avuto maggiore visibilità e attenzione; non è un caso che alcuni<br />

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organismi internazionali siano nati proprio negli anni ’90, come l’Ufficio Europeo per gli Aiuti Umanitari<br />

(ECHO), sorto nel 1992, l’Ufficio <strong>di</strong> Coor<strong>di</strong>namento delle Nazioni Unite per gli Aiuti Umanitari (OCHA),<br />

nato nel 1992, il Dipartimento ONU degli Affari Umanitari (DHA), nato per coor<strong>di</strong>nare l’attività<br />

dell’OCHA, senza contare le molte ONG che si occupano solo <strong>di</strong> emergenza. Sappiamo che gli anni ’90 sono<br />

stati caratterizzati dalle guerre in ex-Jugoslavia, in Somalia, in Rwanda, emergenze che hanno avuto grande<br />

visibilità, captando progressivamente l’attenzione politica e me<strong>di</strong>atica ed i fon<strong>di</strong> transitati dalla cooperazione<br />

all’intervento umanitario. A livello <strong>di</strong> società civile i fon<strong>di</strong> per gli interventi umanitari sono stati raccolti<br />

attraverso molte campagne <strong>di</strong> comunicazione e pubblicità, che in alcuni casi <strong>di</strong> umanitario avevano ben poco,<br />

riducendo le vittime ad oggetti, a vite biologiche da sfamare o da curare dentro una logica <strong>di</strong>sumanizzante.<br />

Su questa riduzione della vita a dato biologico, un pensatore come Illich ha riflettuto e detto molto nel corso<br />

della sua vita.<br />

Dunque il neoliberismo, come opzione politica ed economica, mette ra<strong>di</strong>calmente in crisi ed in<br />

<strong>di</strong>scussione l’idea <strong>di</strong> cooperazione: neoliberismo è competizione, mercato, concorrenza, quin<strong>di</strong> totalmente<br />

antitetico all’idea stessa <strong>di</strong> cooperazione. Dall’altro lato, l’idea <strong>di</strong> aiuto umanitario è ridotta a forma <strong>di</strong> aiuto<br />

erogato a seconda delle esigenze dell’agenda politica. Neoliberismo e sostituzione della cooperazione con<br />

l’aiuto umanitario hanno prodotto la definitiva debacle della cooperazione allo sviluppo.<br />

Citavo prima l’Ufficio Europeo degli Aiuti Umanitari; il 60% dei fon<strong>di</strong> <strong>di</strong> questa istituzione viene<br />

gestito dalle ONG. Lo stesso vale anche per molti paesi europei. A fronte <strong>di</strong> questo scenario c’è da registrare<br />

la crescita dell’importanza della realtà delle ONG, che sono aumentate in modo significativo in questi anni:<br />

si calcola che nel mondo siano oltre 30.000 le ONG che fanno attività specifiche <strong>di</strong> cooperazione allo<br />

sviluppo e <strong>di</strong> aiuto umanitario. In Italia le ONG sono oltre 170 (riconosciute dal Ministero degli Esteri), ma<br />

l’ISTAT ci informa che in Italia ci sono oltre 1.400 organizzazioni che non sono ONG, ma gruppi, comitati,<br />

realtà <strong>di</strong> base che fanno attività prevalente <strong>di</strong> solidarietà internazionale. Siamo quin<strong>di</strong> in presenza <strong>di</strong> una<br />

grande realtà <strong>di</strong>ffusa, importante e sicuramente significativa.<br />

Molte ONG sono nate negli anni ’60, dall’esperienza del volontariato cattolico e delle missioni, ed<br />

anche dalle esperienze dell’associazionismo laico (campagne, comitati impegnati per la solidarietà e per<br />

l’appoggio ai movimenti <strong>di</strong> liberazione, ecc). Da quei movimenti sono nate successivamente le ONG. In<br />

questi anni ci sono state leggi che hanno permesso l’erogazione <strong>di</strong> fon<strong>di</strong> a queste organizzazioni.<br />

Successivamente le ONG si sono istituzionalizzate e trasformate da movimenti e da realtà <strong>di</strong> base, in<br />

organizzazioni professionali e agenzie specializzate nella gestione <strong>di</strong> progetti. Ovviamente in questo percorso<br />

sono state fatte molte cose buone e positive; sono stati elaborati molti progetti utili con effetti positivi nelle<br />

realtà locali e nel rapporto con le istituzioni.<br />

La crisi della cooperazione porta con sé anche la crisi del mondo delle ONG. Molti sono gli aspetti <strong>di</strong><br />

questa crisi delle ONG che vanno analizzati: la per<strong>di</strong>ta <strong>di</strong> ra<strong>di</strong>camento e <strong>di</strong> rapporti con la società civile, la<br />

deriva verso una professionalizzazione estrema, l’istituzionalizzazione. Le ONG si sono adattate a fare solo<br />

progetti senza continuare a svolgere quel ruolo <strong>di</strong> sensibilizzazione politica, culturale e sociale che prima<br />

avevano. La <strong>di</strong>pendenza dalle istituzioni e dai fon<strong>di</strong> pubblici è <strong>di</strong>ventata quasi totale: <strong>di</strong>verse ONG sono<br />

<strong>di</strong>pendenti al 90-95% dei loro bilanci dalle istituzioni pubbliche, con conseguente per<strong>di</strong>ta <strong>di</strong> autonomia<br />

politica, economica e culturale. Inoltre molte ONG si sono prestate ad essere strumenti <strong>di</strong> quella<br />

privatizzazione del settore pubblico che è stata praticata in alcuni paesi nel sud del mondo. Si sono dunque<br />

prestate a essere gestori <strong>di</strong> attività, iniziative e progetti, rivolti al trasferimento delle funzioni pubbliche verso<br />

soggetti privati. Tutto questo in una logica <strong>di</strong> incertezza, insicurezza e beneficenza. Altra tendenza negativa è<br />

rappresentata dall’autoreferenzialità dentro una logica <strong>di</strong> pura sopravvivenza. Questo ha con<strong>di</strong>zionato lo<br />

sviluppo, l’impegno e l’attività <strong>di</strong> una parte del mondo non governativo. Lo si è visto anche recentemente<br />

sulla vicenda dello tsunami, o prima ancora con la “Missione Arcobaleno”. Queste ed altre mobilitazioni<br />

hanno <strong>di</strong>mostrato una <strong>di</strong>pendenza crescente dal quadro istituzionale, dove per avere fon<strong>di</strong>, una parte delle<br />

ONG si è trovata costretta a fare una serie <strong>di</strong> scelte contrad<strong>di</strong>ttorie con la filosofia della cooperazione. In<br />

molti casi inoltre le ONG del nord del mondo hanno avuto con le ONG del sud del mondo un rapporto<br />

strumentale, neocolonialista, senza un’idea <strong>di</strong> partenariato vero, <strong>di</strong> costruzione <strong>di</strong> un percorso comune, <strong>di</strong><br />

crescita e <strong>di</strong> solidarietà.<br />

49


Oggi il problema del futuro della cooperazione non è solo italiano; è la comunità internazionale nel<br />

suo complesso che oggi si interroga <strong>di</strong> fronte al fallimento delle politiche <strong>di</strong> cooperazione allo sviluppo. Il<br />

2005 è l’anno in cui la campagna sui cosiddetti “obbiettivi del millennio” -ovvero gli obiettivi fissati dalle<br />

Nazioni Unite nel 2000 per la riduzione della povertà, l’accesso dei bambini alle scuole, la riduzione della<br />

<strong>di</strong>ffusione dell’AIDS- è entrata nel vivo ed ha evidenziato le contrad<strong>di</strong>zioni della comunità internazionale su<br />

questi temi. Gli obbiettivi <strong>di</strong> questa campagna saranno ri<strong>di</strong>scussi a settembre in un’assemblea generale delle<br />

Nazioni Unite; purtroppo c’è da segnalare che non c’è una volontà politica in grado <strong>di</strong> risolvere questi<br />

problemi. Gli anni ’90 sono stati gli anni delle gran<strong>di</strong> conferenze delle Nazioni Unite: la Conferenza <strong>di</strong> Rio<br />

del 1992, la Conferenza sullo Sviluppo a Copenaghen del 1995, la Conferenza sulla con<strong>di</strong>zione femminile a<br />

Pechino ed una serie <strong>di</strong> altre conferenze che le Nazioni Unite hanno promosso, pensando che attraverso il<br />

coinvolgimento dei paesi nella costruzione <strong>di</strong> una politica globale, si potessero raggiungere risultati<br />

significativi <strong>di</strong> riduzione della povertà e delle <strong>di</strong>suguaglianze. Ma questo non è avvenuto.<br />

E’ necessario allora che le ONG costruiscano un legame con quell’arcipelago <strong>di</strong> movimenti sociali<br />

che è nato a Seattle e poi ha avuto grande visibilità a Porto Alegre e che pone il problema della critica <strong>di</strong><br />

fondo alle scelte neoliberiste, imponendo all’agenda politica il complesso delle scelte necessarie per<br />

trasformare ra<strong>di</strong>calmente l’economia e le relazioni internazionali del nostro pianeta. Ci sono sette virtù<br />

capitali che dovrebbero essere perseguite dal mondo non governativo per rigenerarsi, trovare nuove strade,<br />

una nuova ispirazione, una nuova filosofia, una sua riforma interna.<br />

1. La prima virtù consiste nel criticare l’attuale modello <strong>di</strong> sviluppo del nord del mondo attraverso<br />

un’azione rigorosa nei nostri paesi, per rimettere in <strong>di</strong>scussione stili e comportamenti <strong>di</strong> vita, scelte<br />

economiche, la qualità dello sviluppo. Rimettere in <strong>di</strong>scussione il modello <strong>di</strong> sviluppo del nord del<br />

mondo <strong>di</strong>venta una questione fondamentale. Sembra banale, ma nell’azione delle ONG manca questo<br />

tipo <strong>di</strong> azione continua. Non è sufficiente chiedere solo più fon<strong>di</strong> per la cooperazione, dobbiamo fare <strong>di</strong><br />

più, dobbiamo occuparci della coerenza delle politiche economiche e finanziarie, <strong>di</strong> quella coerenza<br />

fondamentale affinché la cooperazione allo sviluppo non sia semplicemente testimonianza residuale.<br />

2. Bisognerebbe applicare una sorta <strong>di</strong> principio <strong>di</strong> sussi<strong>di</strong>arietà verso i paesi in cui si interviene: le ONG<br />

del Nord del mondo non dovrebbero mai fare quello che le ONG del Sud sanno fare benissimo da sole.<br />

Oggi tale principio non è applicato, le ONG del Nord del mondo hanno spesso un rapporto strumentale,<br />

se non coloniale, con il Sud del mondo. Credo che il principio <strong>di</strong> sussi<strong>di</strong>arietà dovrebbe essere un punto<br />

fermo e coerente della cooperazione. Facciamo un esempio concreto: come ricorderete, alcuni mesi fa, in<br />

occasione dello tsunami, vennero raccolti 45 milioni <strong>di</strong> euro tramite sms, caso simile alla “Missione<br />

Arcobaleno”, <strong>di</strong> ricorso alle risorse dei citta<strong>di</strong>ni per finanziare interventi umanitari. Avevamo richiesto<br />

che una parte significativa <strong>di</strong> quei sol<strong>di</strong> venisse gestita da associazioni <strong>di</strong> base come le organizzazioni dei<br />

pescatori e dei conta<strong>di</strong>ni dello Sri Lanka o dell’Indonesia. Ci è stato detto <strong>di</strong> no, e per l’ennesima volta<br />

quei sol<strong>di</strong> sono stati dati ad organizzazioni che non conoscevano il sud-est asiatico. Per l’ennesima volta<br />

è stato perpetrato un atteggiamento sbagliato, volto ad estromettere le comunità e le ONG locali.<br />

3. Bisogna rimettere al centro la politica, che progressivamente è stata espulsa dal mondo delle ONG.<br />

Ovviamente quando parlo <strong>di</strong> politica la intendo del significato più alto del temine, come ricerca del bene<br />

comune, come azione rivolta a cambiare le con<strong>di</strong>zioni generali che causano <strong>di</strong>suguaglianza, ingiustizia e<br />

povertà. Nel nostro paese esiste un movimento <strong>di</strong> ONG molto forte, ma contemporaneamente abbiamo<br />

visto decrescere progressivamente i fon<strong>di</strong> destinati alla cooperazione ed aumentare i fon<strong>di</strong> destinati alle<br />

imprese <strong>di</strong> import/export. Ebbene, <strong>di</strong> fronte a questo desolante scenario, non c’è stata una sola<br />

manifestazione promossa dalla ONG italiane per criticare e denunciare questo stato <strong>di</strong> cose. E’<br />

intollerabile che si accetti silenziosamente lo status quo. Credo che <strong>di</strong> fronte alle motivazioni con cui<br />

sono nate le ONG, questo comportamento sia incoerente e grave.<br />

4. Dobbiamo capire che cooperazione significa costruire politiche <strong>di</strong> pace; pace intesa non come assenza <strong>di</strong><br />

guerra ma come insieme <strong>di</strong> valori, <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritti, <strong>di</strong> contenuti. Questo aspetto è oggi assente nell’opera <strong>di</strong><br />

molte delle ONG.<br />

5. Autonomia ed in<strong>di</strong>pendenza. Oggi molte ONG non sono più autonome e in<strong>di</strong>pendenti, né<br />

economicamente né politicamente. Stiamo assistendo ad una rincorsa delle ONG e della società civile.<br />

50


Oggi la Banca Mon<strong>di</strong>ale sta cercando <strong>di</strong> cooptare la società civile e le ONG. Questa politica <strong>di</strong><br />

cooptazione si attua me<strong>di</strong>ante l’offerta <strong>di</strong> contributi, collaborazioni e finanziamenti, ovviamente a scapito<br />

dell’autonomia e dell’in<strong>di</strong>pendenza. Le ONG devono recuperare i valori dell’in<strong>di</strong>pendenza e<br />

dell’autonomia: non possono essere accettati sol<strong>di</strong> dai governi che hanno fatto la guerra in Iraq, non si<br />

possono accettare i fon<strong>di</strong> <strong>di</strong> organizzazioni responsabili <strong>di</strong> politiche neolibieriste che altro non hanno<br />

fatto se non aumentare il <strong>di</strong>vario Nord-Sud. Non si possono mettere insieme scelte e meto<strong>di</strong> che<br />

contrastano con i fini e gli obiettivi delle ONG.<br />

6. E’ necessario un principio <strong>di</strong> umanità <strong>di</strong>verso che gui<strong>di</strong> le ONG. Esiste infatti un atteggiamento culturale<br />

<strong>di</strong>sumanizzante, quasi neocoloniale; basta pensare a tante pubblicità umanitarie che spettacolarizzano il<br />

dolore e la sofferenza, banalizzandole e metabolizzandole. Il principio <strong>di</strong> umanità che dovrebbe guidarci<br />

è esattamente il contrario <strong>di</strong> quel principio <strong>di</strong>sumanizzante che riduce la vita ad un dato biologico, che<br />

porta a ridurre le persone a vittime da sfamare e curare. Tutto ciò senza interrogare ed interrogarci su<br />

cosa sta <strong>di</strong>etro quella persona, quella vita. Non possiamo ridurre le persone ad immagini strumentali ad<br />

ingrossare un conto corrente; la solidarietà non può ridursi ad una raccolta fon<strong>di</strong>. Dobbiamo rimettere al<br />

centro il volto delle persone, dobbiamo fare un’altra comunicazione, <strong>di</strong>versa da quella attuale. Ci serve<br />

un nuovo principio <strong>di</strong> umanità, che ci aiuti ad agire rispettando i valori della con<strong>di</strong>visione e della<br />

sobrietà, che ci <strong>di</strong>a una mano a rimettere al centro del nostro agire il volto delle persone fuori da ogni<br />

logica strumentale e accattivante.<br />

7. Uno dei punti fondamentali è la costruzione <strong>di</strong> una nuova solidarietà internazionale, <strong>di</strong> un nuovo<br />

impegno rivolto alla trasformazione generale delle con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> ingiustizia che affliggono il nostro<br />

pianeta. Questa “missione” deve riportare le ONG alla loro origine, quando riuscivano a coinvolgere la<br />

società civile. All’inizio le ONG erano animate da un principio <strong>di</strong> giustizia e <strong>di</strong> trasformazione; non<br />

erano ridotte a “progettifici”, entità burocratiche gestori in subappalto <strong>di</strong> attività ed iniziative. E’<br />

necessario recuperare quei valori etici che fanno delle ONG veri e propri soggetti del cambiamento e<br />

della trasformazione. Gestire le attività è importante ma tutto questo non può essere fine a se stesso, tutto<br />

deve infatti ricollegarsi all’idea che “un altro mondo è possibile”, come ci hanno insegnato i movimenti<br />

sociali sviluppatisi in questi anni.<br />

In che maniera il mondo della cooperazione internazionale contribuisce a costruire alternative <strong>di</strong><br />

carattere economico, politico, culturale e sociale rispetto all’or<strong>di</strong>ne esistente? Come costruire l’idea <strong>di</strong> una<br />

economia <strong>di</strong> giustizia? Come far nascere relazioni alternative? Come unire, in una frase, solidarietà e<br />

politica? Qualcuno <strong>di</strong>ceva che la solidarietà è la tenerezza dei popoli, e in parte è vero. Ma la solidarietà è<br />

anche la politica dei popoli che dal basso cercano <strong>di</strong> costruire un modello <strong>di</strong>verso, un insieme <strong>di</strong> pratiche che<br />

possano rendere possibile quel mondo migliore che tutti noi in questi anni abbiamo cercato <strong>di</strong> costruire. Per<br />

far questo è necessario che il mondo della solidarietà internazionale si rimetta in <strong>di</strong>scussione e si incammini<br />

su nuove strade.<br />

51


Fratel Arturo Paoli<br />

Piccolo Fratello del Vangelo<br />

Dall’essere all’altro<br />

Vorrei iniziare da un ricordo lontano che purtroppo è ancora presente nella mia mente. Subito dopo<br />

la Seconda Guerra Mon<strong>di</strong>ale, in tutto il mondo corse un pensiero “Cosa significa pensare dopo Auschwitz?”.<br />

L’Europa e tutto l’Occidente hanno cancellato, oserei <strong>di</strong>re “<strong>di</strong>gerito”, questa domanda, senza dare nessuna<br />

risposta. Se pensiamo che muoiono quoti<strong>di</strong>anamente più persone rispetto a quelle che morirono ad<br />

Auschwitz, a causa della violenza economica e militare, ma soprattutto a causa della nostra in<strong>di</strong>fferenza,<br />

possiamo comprendere come la domanda “cosa pensare dopo Auschwitz” sia ancora estremamente attuale.<br />

L’Olocausto fu il risultato non <strong>di</strong> una violenza istintiva, animalesca, ma <strong>di</strong> una violenza strutturata,<br />

organizzata e sostenuta da uomini della dottissima Germania, il centro mon<strong>di</strong>ale della filosofia. Intere<br />

generazioni, donne, uomini, anziani e bambini finirono nei forni crematori per il fatto <strong>di</strong> appartenere ad un<br />

popolo considerato inferiore.<br />

Molti pensatori, a <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> politici, teologi e uomini d’affari, raccolsero la domanda “Cosa<br />

pensare dopo Auschwitz”? ed impressero una svolta al pensiero che era arrivato a pianificare guerre e<br />

<strong>di</strong>struzioni. Anche la Chiesa accolse questa domanda: il Concilio Vaticano II°, fortemente voluto da<br />

Giovanni XXIII, fu convocato perché la Chiesa doveva capire cosa il mondo si aspettava da lei; un mondo<br />

ferito dalla Seconda Guerra Mon<strong>di</strong>ale, un mondo pieno <strong>di</strong> ingiustizie. La Chiesa trovò una risposta, che però<br />

non è mai stata messa in pratica, perché noi siamo ere<strong>di</strong> <strong>di</strong> una cultura che ha determinato secoli <strong>di</strong> pensiero<br />

e <strong>di</strong> dominazione.<br />

La modernità è stata caratterizzata da una frase profetica <strong>di</strong> Lévinas che parla della morte della<br />

filosofia, perché il pensiero che doveva accompagnare il cammino evolutivo dell’umanità e della storia fu<br />

responsabile della violenza che insanguinò l’Europa e che ancora oggi continua a insanguinare il mondo in<br />

maniera solo apparentemente meno violenta. Bisogna cominciare ad assumere che ciò che determina la storia<br />

è il pensiero umano, per cui pensare in maniera <strong>di</strong>fferente dopo Auschwitz è la con<strong>di</strong>zione perché cessiamo<br />

<strong>di</strong> essere responsabili <strong>di</strong> tanta violenza. Insisto nel <strong>di</strong>re che la violenza non riguarda solo la guerra; esiste<br />

anche la violenza economica e politica, quando la politica invece <strong>di</strong> essere al servizio del benessere umano<br />

rimane schiava dell’avi<strong>di</strong>tà <strong>di</strong> pochi. Quin<strong>di</strong> è necessario pensare in maniera <strong>di</strong>fferente. Questo vuol <strong>di</strong>re che<br />

la filosofia deve abbandonare la sua caratteristica metafisica per avvicinarsi sempre <strong>di</strong> più all’etica. Il<br />

pensiero metafisico è il pensiero che si interessa solamente delle idee, del mondo invisibile, e che non si<br />

occupa della realtà materiale e visibile. Il metafisico non si interessa della con<strong>di</strong>zione umana e lascia ai<br />

politici, agli uomini “concreti”, il destino dell’umanità. Questo tipo <strong>di</strong> filosofia oggi è finita; questo fatto è<br />

molto importante, perché muta profondamente il nostro essere uomini, il nostro essere cristiani. Il pensiero<br />

post metafisico mira principalmente ad un’ontologia dell’indebolimento che riduca il peso delle strutture<br />

oggettive e la violenza dei dogmatismi. Cosa sono infatti i fondamentalismi? Il fondamentalismo è<br />

l’affermazione <strong>di</strong> alcune verità come essenziali e fondamentali, verità che sono considerate superiori alla vita<br />

umana: in quest’ottica è quin<strong>di</strong> lecito uccidere una persona che non crede in un dogma. Il filosofo deve<br />

compiere una inversione rispetto al metodo platonico, oggi deve richiamare l’uomo alla sua storicità: noi non<br />

siamo responsabili dell’eternità, ma del nostro tempo, della nostra storia, <strong>di</strong> un determinato periodo. La<br />

filosofia sembra essere interessata all’e<strong>di</strong>ficazione progressiva dell’umanità, più che allo sviluppo del sapere.<br />

Questa è la nostra grande speranza, la nostra rivoluzione.<br />

La filosofia non è quin<strong>di</strong> interessata ad una verità astratta, ma all’esistenza umana. Grazie a questa<br />

evoluzione siamo potuti arrivati a <strong>di</strong>re che l’essere in<strong>di</strong>viduale non esiste, che il “penso dunque sono” è<br />

molto pericoloso: l’uomo è infatti politica, pensiero, economia, socialità, responsabilità, alterità.<br />

Non siamo stati gettati nel mondo irresponsabilmente; viviamo in piena e assoluta responsabilità. Viviamo in<br />

mezzo agli altri, ogni nostro gesto ha effetti sugli altri: quando in un supermercato acquistiamo merci<br />

prodotte senza rispettare i <strong>di</strong>ritti delle persone, noi causiamo la morte <strong>di</strong> uomini, donne, bambini. La terra è<br />

un dono, è <strong>di</strong> tutti, l’in<strong>di</strong>vidualismo è destinato a finire.<br />

Nei mesi passati si è <strong>di</strong>scusso molto se mettere o meno un riferimento alle ra<strong>di</strong>ci cristiane del<br />

Vecchio Continente nella Costituzione Europea. Evidentemente se si pensa al cristianesimo guardando le<br />

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cattedrali, le opere d’arte <strong>di</strong> cui sono piene le chiese, le gran<strong>di</strong> biblioteche, questa religione appare come<br />

“gridante”, appare così forte da rendere necessario un suo inserimento nelle basi fondanti della Carta. Ma mi<br />

domando: questo è il cristianesimo <strong>di</strong> Cristo? E’ il Cristianesimo del Vangelo? Oppure è il Cristianesimo <strong>di</strong><br />

Platone, Aristotele, Hegel? Hegel e Marx stu<strong>di</strong>arono teologia, nelle loro teorie misero al posto <strong>di</strong> Dio<br />

l’ideologia, il mercato, lo Stato, vere e proprie astrazioni che hanno assunto il valore dell’assoluto. La nostra<br />

storia, recente e non, è stata guidata dall’obbe<strong>di</strong>enza agli assoluti, perché la filosofia greca dalla quale<br />

<strong>di</strong>scen<strong>di</strong>amo ci ha insegnato che le cose della terra non hanno valore, che l’empirismo è indegno per la mente<br />

umana, che l’uomo deve astrarsi dalla realtà e <strong>di</strong>menticare <strong>di</strong> avere un corpo.<br />

Il comunismo è stato una delle gran<strong>di</strong> astrazioni europee. Marx, passeggiando per le vie <strong>di</strong> Londra,<br />

dove stu<strong>di</strong>ava economia, si sentì profondamente commosso nel vedere bambini mutilati impiegati<br />

nell’industrialismo nascente che chiedevano l’elemosina. Questi bambini lavoravano anche 12-14 ore al<br />

giorno, senza dormire, senza mangiare, fino al punto che si addormentavano davanti alla macchina, perdendo<br />

gli arti, se non la vita. Da questi sentimenti è nato il manifesto <strong>di</strong> Londra del 1848, un grido dei popoli<br />

oppressi. Ad un certo punto questo grido è <strong>di</strong>ventato pensiero, poi sistema. Dalla pietà, dalla richiesta <strong>di</strong><br />

giustizia, dalla <strong>di</strong>fesa degli ultimi, pensieri quin<strong>di</strong> con molti tratti evangelici, siamo arrivati ad un sistema<br />

hegeliano. Gli uomini hanno così iniziato a trovarsi in <strong>di</strong>saccordo sul pensiero marxista.<br />

Questo pensiero lo possiamo definire, a seconda delle epoche storiche, Dio, partito, mercato, razza, nazione.<br />

Sull’altare del pensiero, <strong>di</strong> queste costruzioni astratte, sono state sacrificate milioni <strong>di</strong> vite umane<br />

nell’Occidente, nei paesi asiatici e africani. L’uomo non è solo pensiero: è anche istinto, emozioni,<br />

passionalità. Desidero però sottolineare che la fine della filosofia metafisica non significa la <strong>di</strong>struzione<br />

dell’uomo come pensiero, come idea. Noi vogliamo ricostruire l’uomo che è alterità, che non è mai solo, che<br />

è responsabile degli altri. Un uomo “tri<strong>di</strong>mensionale”.<br />

Questa sera un sacerdote in<strong>di</strong>geno terrà una cerimonia <strong>di</strong> saluto al sole, alcuni <strong>di</strong>cono che questa è<br />

una cerimonia pagana, ma questo non è vero: noi siamo pagani, noi che consideriamo la Pacha Mama 3 come<br />

un oggetto privato, perché il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> proprietà è talmente assoluto che è più che religioso. Il sacerdote<br />

in<strong>di</strong>geno ci <strong>di</strong>rà che questa filosofia è sbagliata, perché la terra ci alimenta, come d’altronde sosteneva<br />

Francesco d’Assisi. Noi abbiamo perduto completamente il senso della nostra <strong>di</strong>pendenza dalla natura: ci<br />

sentiamo autarchici, dei padroni assoluti che sono legittimati a fare tutto ciò che è possibile per vivere meglio<br />

e sfruttare al massimo il tempo a <strong>di</strong>sposizione. Il nostro modo <strong>di</strong> pensare ci <strong>di</strong>ce che non dobbiamo<br />

rispondere a nessuno del nostro comportamento: né a Dio, né agli uomini, né alle cose. Ora i filosofi ed i<br />

pensatori stanno ripensando l’uomo, considerato come essere le cui caratteristiche principali sono la<br />

responsabilità e l’alterità.<br />

Il Dio che oggi può essere ancora creduto è il Dio dell’esodo, il Dio debole, il Dio che si commuove.<br />

Gli Ebrei ci hanno detto che nessuno può conoscere Dio, che interviene quando l’uomo è soggiogato dalla<br />

schiavitù. Gesù ha percorso sempre le strade della Palestina, andando incontro agli esseri umani che non<br />

erano capaci <strong>di</strong> vivere, a causa <strong>di</strong> malattie o dell’oppressione. Gesù dà la vita a queste persone e afferma ad<br />

ogni incontro che Dio è lì; un Dio non trascendente ma un Dio compassionevole e misericor<strong>di</strong>oso.<br />

E’ necessario pensare all’uomo concreto e responsabile. Iniziamo col <strong>di</strong>re responsabilità economica;<br />

non è vero che posso usare i beni della terra senza limiti, perché il nostro pianeta è <strong>di</strong> tutti, anche dei posteri.<br />

Non posso usare la terra come voglio, perché essa è la Pacha Mama che deve dare da mangiare a tutti. Se<br />

sottraggo alla terra questa possibilità io sono un assassino. Questo non è un atto <strong>di</strong> fede o un atto artificiale <strong>di</strong><br />

pensiero, ma è l’essenza dell’essere umano. Un’altra <strong>di</strong>mensione umana è quella politica. Dobbiamo<br />

sviluppare la nostra <strong>di</strong>mensione politica, perché tutti siamo incaricati <strong>di</strong> tutelare il benessere comune: se i<br />

nostri fratelli non sono felici, significa che noi avveleniamo la loro felicità, e se non tutti possono essere<br />

felici, significa che la democrazia non esiste (esiste solo la democrazia formale). Cosa è infatti la democrazia<br />

se non la partecipazione <strong>di</strong> tutti per <strong>di</strong>fendere i <strong>di</strong>ritti <strong>di</strong> ciascuno, la realizzazione del benessere che ci faccia<br />

star bene? Non è vero che noi cristiani sosteniamo che nel mondo sia necessario star male, perché staremo<br />

bene nell’Al<strong>di</strong>là. Questo tipo <strong>di</strong> cristianesimo è quello che ha tra<strong>di</strong>to Cristo. Cristo ha parlato <strong>di</strong> fraternità, <strong>di</strong><br />

amore, <strong>di</strong> giustizia; l’ultima frase che ci ha lasciato non è “soffrite e poi vedrete il cielo”, ma “amatevi come<br />

io vi ho amato”. Questo amore non è egoistico, ma altruista fino all’estremo.<br />

3 Pacha Mama: Madre Terra<br />

53


In questi giorni mi hanno chiesto se credevo nella solidarietà Io non credo nella solidarietà, sono<br />

solidarietà. Gli uomini non devono credere nella solidarietà, devono essere solidarietà: io sono<br />

necessariamente solidale con la mia gamba fratturata, perché mi dà fasti<strong>di</strong>o, quin<strong>di</strong> sono solidale anche con<br />

gli altri uomini, perché sono parte <strong>di</strong> me. Solidarietà significa quin<strong>di</strong> essere uniti in<strong>di</strong>ssolubilmente agli altri,<br />

responsabili degli altri. Qualcuno mi <strong>di</strong>ce che questo può portare ad una vita tormentata, vissuta solo<br />

preoccupandosi dei problemi altrui. Questo non è vero: prova ne è il fatto che le crisi depressive colpiscono<br />

le persone che non hanno trovato il senso del vivere, che si trova nella solidarietà. Chi soffre della solitu<strong>di</strong>ne<br />

ha paura <strong>di</strong> se stesso. La fuga da se stessi porta ad un’ansia da comunicazione, a servirsi continuamente dei<br />

telefonini per “comunicare”. Ma questa comunicazione non è comunione, questa comunicazione <strong>di</strong>strugge la<br />

comunione. La comunione è realmente vivere per gli altri, pensando agli altri, fino a dare la nostra vita per<br />

gli altri.<br />

Dobbiamo fare le nostre scelte pensando sempre che queste influiscono sul benessere o sul malessere<br />

degli altri. Se l’altro paga con la miseria il mio piacere, allora significa che questo piacere è sbagliato<br />

ontologicamente, per il fatto che non ho <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> far soffrire gli altri, ma ho il dovere <strong>di</strong> aiutare gli altri a<br />

conquistare il benessere ed essere felici.<br />

Esiste poi un’altra <strong>di</strong>mensione -e qui mi rivolgo soprattutto ai giovani- che forse è la più importante e<br />

<strong>di</strong>fficile, che definirei <strong>di</strong>mensione erotica: l’amore, il sesso, l’amicizia. In questa <strong>di</strong>mensione risiede tutto<br />

quello che costituisce il nostro bisogno assoluto <strong>di</strong> affettività, <strong>di</strong> realizzarci affettivamente. L’uomo che non<br />

si realizza affettivamente è molto pericoloso.<br />

Per quanto riguarda la <strong>di</strong>mensione economica, non sono del tutto d’accordo con Cassano, il quale<br />

affermava che è necessario cancellare la parola povertà. Secondo me bisogna comprendere questa parola,<br />

chiamandola sobrietà. Le insi<strong>di</strong>e rappresentate dai supermercati, dalla televisione, in una parola dal<br />

consumismo, uccidono la gioventù, toglie il senso critico. Bisogna vivere criticamente, non lasciarci vestire<br />

dagli altri, non lasciarci convincere a mangiare quello che vogliono gli altri, non lasciarci travolgere dalle<br />

mode, non essere passivi e succubi della pubblicità. Bisogna ribellarci a questo dominio, iniziare ad essere<br />

uomini liberi.<br />

La <strong>di</strong>mensione erotica ci deve portare a realizzare l’amicizia, il rispetto dell’altro. Il sesso quando<br />

non è accompagnato dall’amicizia è un’appropriazione indebita, un dominio. Bisogna che il sesso sia il<br />

trionfo dell’amore e dell’amicizia. Oggi la gioventù ha perso il senso dell’amicizia, ha perduto il senso <strong>di</strong><br />

sacrificarsi per gli altri, <strong>di</strong> donarsi. E’ necessario riscoprire l’amicizia, un sentimento che fa sentire giovani<br />

anche quando si è anziani.<br />

La persona umana è un essere in <strong>di</strong>venire permanente. Questo <strong>di</strong>venire è con<strong>di</strong>zionato dalle tre<br />

<strong>di</strong>mensioni che ho citato prima. Tutte e tre devono convergere verso un valore cristiano e umano: la libertà.<br />

“Se siete veri sarete liberi”, Cristo ci ha chiamato alla libertà. La libertà è un sentimento che ognuno porta<br />

dentro <strong>di</strong> sé e che deve raggiungere attraverso il progresso della vita.<br />

Concludo con le belle parole del marxista Theodor W. Adorno: “dopo Auschwitz, c’è posto soltanto<br />

per un pensiero della vigilanza insonne, capace <strong>di</strong> lasciarsi provocare dai traumi della storia, dalle<br />

lacerazioni dell’umano”. Cominciamo a pensare che questa trasformazione del nostro pensiero deve essere<br />

determinata soprattutto dalla coscienza che pren<strong>di</strong>amo <strong>di</strong> tante sofferenze umane.<br />

In molti convegni a cui ho partecipato si parla in cifre delle sofferenze dell’umanità. Dobbiamo uscire da<br />

questa pietà stupida, inutile e sterile per domandarci cosa possiamo fare.<br />

Prima <strong>di</strong> tutto dobbiamo cambiare noi stessi, nelle tre <strong>di</strong>mensioni a cui ho accennato prima. Dobbiamo<br />

mutare le nostre relazioni interpersonali: uomo-donna, marito-moglie, amico-amica, amico-amico. Questo<br />

<strong>di</strong>scorso lo faccio anche agli omosessuali: è molto bella anche l’amicizia tra due uomini o tra due donne,<br />

purchè abbia il fine del perfezionamento personale ed il raggiungimento <strong>di</strong> ideali comuni. Tali ideali<br />

crescono nella misura in cui ne facciamo l’oggetto del nostro <strong>di</strong>alogo.<br />

Importante è crescere nella sobrietà, usando i beni della terra e pensando sempre che sono un dono. Vivere<br />

questi beni come dono significa viverli nella gioia, nell’accoglienza. Noi siamo ospiti, siamo stati accolti dal<br />

mondo ed accogliamo la vita che ci viene data continuamente.<br />

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Bisogna vivere la nostra <strong>di</strong>mensione politica esigendo dalla società la realizzazione dei <strong>di</strong>ritti degli oppressi,<br />

delle minoranze, i <strong>di</strong>ritti assoluti degli esuli, che noi chiamiamo extracomunitari, ma che sono nostri fratelli,<br />

carne della nostra carne, corpo del nostro corpo; non sono oggetti, rifiuti, delinquenti. Dobbiamo accoglierli.<br />

Tanta violenza cesserebbe nel mondo se avessimo questo atteggiamento <strong>di</strong> accoglienza.<br />

Questa deve essere la nostra antropologia. Lévinas affermava: “muore la filosofia ma nasce l’etica”.<br />

Se muore una certa filosofia non significa che ca<strong>di</strong>amo nel caos e nell’istintività, ma che troveremo valori<br />

più reali <strong>di</strong> quelli che immaginiamo con la nostra mente. Vorrei fare un’esortazione a tutti i cristiani: tutto<br />

questo teologicamente e filosoficamente è già preparato. Pensiamo alla Teologia della Liberazione che parla<br />

dell’uomo come soggetto <strong>di</strong> liberazione, <strong>di</strong> Dio come liberatore. Io porterò questi ideali fino alla morte.<br />

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Quarta giornata<br />

25 aprile 2005<br />

L’altro visto con i suoi occhi: incontri tra <strong>di</strong>gnità<br />

Patrizio Petrucci<br />

Assessore ai Rapporti con il Volontariato - <strong>Provincia</strong> <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong><br />

Mi sembra che questi giorni siano stati molto intensi e produttivi, con un forte coinvolgimento<br />

emotivo grazie alle tante personalità che sono intervenute in questa assise.<br />

Questo evento è stato reso possibile grazie al lavoro <strong>di</strong> Aldo Zanchetta e della Scuola per la Pace. Voglio<br />

anche ringraziare quelle trentacinque associazioni che hanno partecipato all’organizzazione <strong>di</strong> questo forum,<br />

organizzazioni nazionali e locali che ci hanno permesso <strong>di</strong> relazionare con i loro partner, espressioni <strong>di</strong><br />

culture <strong>di</strong>verse dalla nostra. Credo che vadano ringraziate molto queste associazioni, che recentemente si<br />

sono impegnate nell’emergenza tsunami nello Sri Lanka. Ancora oggi molte <strong>di</strong> loro continuano a sostenere<br />

un progetto <strong>di</strong> ricostruzione <strong>di</strong> parte <strong>di</strong> questa regione. Mi auguro che questo progetto, portato avanti insieme<br />

alla Regione Toscana, sia rispettoso della identità delle popolazioni e che non sia calato dall’alto, come più<br />

volte è stato sottolineato in quest’assise.<br />

Questa mattina molti <strong>di</strong> noi erano impegnati nelle manifestazioni del 25 aprile. Per noi questa data<br />

significa la liberazione dalla <strong>di</strong>ttatura del nazifascismo; non vorrei fare equiparazioni azzardate, ma mi<br />

sembra che i temi che avete affrontato in questi giorni in qualche maniera si ricolleghino ai concetti della<br />

resistenza e della liberazione, resistenza soprattutto per quei paesi vittime <strong>di</strong> occupazioni militari, ai quali va<br />

la nostra solidarietà, ma anche liberazione rispetto ad un modello economico-politico che crea così profonde<br />

<strong>di</strong>suguaglianze e ingiustizie sociali nel nostro pianeta.<br />

Credo che ci sia questa riflessione <strong>di</strong> fondo, una riflessione che investe in qualche maniera anche il<br />

volontariato italiano, che negli ultimi anni ha perso un po’ <strong>di</strong> politicità e ha bisogno oggi <strong>di</strong> recuperare i<br />

concetti <strong>di</strong> solidarietà e <strong>di</strong> giustizia sociale, perché anche in un paese come il nostro c’è sempre bisogno <strong>di</strong><br />

non <strong>di</strong>menticare che esiste una fascia sociale debole che non può essere marginalizzata dal meccanismo <strong>di</strong><br />

sviluppo socio-economico.<br />

Consentitemi ora <strong>di</strong> leggervi un messaggio che arriva da Luca Bianucci, che sta seguendo a Rio<br />

Branco, in Brasile, un progetto coor<strong>di</strong>nato alla Diocesi <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong>, sostenuto anche dalla <strong>Provincia</strong> <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong>. Il<br />

progetto ha permesso la costruzione <strong>di</strong> un lebbrosario e la fornitura <strong>di</strong> una serie <strong>di</strong> servizi sociali. Ecco la<br />

lettera <strong>di</strong> Luca.<br />

“Amici ed Amiche del II° Forum della Solidarietá Lucchese nel mondo, un carissimo saluto a tutti<br />

quanti i presenti ed un buon lavoro.<br />

Due anni fa ero presente alla prima e<strong>di</strong>zione e l’aspetto che più mi impressionò fu il constatare il<br />

coinvolgimento <strong>di</strong> molte associazioni, gruppi, persone, in favore <strong>di</strong> molti popoli sparsi nei vari confini del<br />

pianeta: Brasile, Perù, Filippine, Cuba, Messico, Burkina Faso, Rwanda, Magreb, ecc. Rimasi<br />

semplicemente impressionato, non pensavo fosse <strong>di</strong> tal portata il coinvolgimento dei lucchesi nelle realtà<br />

<strong>di</strong>fficili del mondo.<br />

Ed in questa e<strong>di</strong>zione la presenza tra voi dei nostri partner internazionali<br />

sia <strong>di</strong> stimolo per due atteggiamenti fondamentali affinché si costruisca una collaborazione veramente<br />

solidale: ascolto e con<strong>di</strong>visione.<br />

E’ attraverso il porsi umilmente in ascolto dell’altro che possiamo <strong>di</strong>ventare collaboratori <strong>di</strong> una<br />

trasformazione vera nei luoghi <strong>di</strong> questo mondo dove ci troviamo a collaborare. Ascoltare non é imporre le<br />

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nostre idee; ascoltare non é essere poi noi a decidere azioni, progetti nei luoghi dove cerchiamo <strong>di</strong> essere<br />

solidali; ascoltare é farsi fratello, compagno <strong>di</strong> viaggio nella costruzione <strong>di</strong> una realtà nuova.<br />

E la con<strong>di</strong>visione <strong>di</strong>venta la vera azione che permette la realizzazione <strong>di</strong> azioni e progetti.<br />

Con<strong>di</strong>videre i sogni, le speranze, le gioie, le tristezze, il lavoro, gli aspetti programmatici, economici, <strong>di</strong><br />

qualsiasi progetto; evitare cosí <strong>di</strong> essere noi le “guide occidentali” <strong>di</strong> progetti, che -appena ce ne an<strong>di</strong>amo-<br />

crollano o non hanno una struttura solida per poter auto sostenersi.<br />

La nostra azione solidaria deve essere <strong>di</strong> costruzione <strong>di</strong> realtá nuove, non attraverso la nostra<br />

supposta scienza o capacitá occidentale, ma attraverso una unione <strong>di</strong> intenti, <strong>di</strong> programmi, <strong>di</strong> azioni, dove,<br />

con estrema umiltá, ci mettiamo alla pari con i nostri amici sparsi nel mondo.<br />

Si uniscono ai miei saluti e auguri <strong>di</strong> buon Forum, Don Massimo Lombar<strong>di</strong>, Don Luigi Pieretti, Don Luigi<br />

Paolinelli, Padre Gabriele Camagni, impegnati qui in Rio Branco nella costruzione <strong>di</strong> una nuova realtá<br />

sociale ed umana.<br />

Da una solidarietà nuova, più vera e autentica, nasce un nuovo mondo!”<br />

Luca Bianucci (Rio Branco - Acre, Brasile)<br />

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Tom Lenoir<br />

a nome delle persone detenute all’interno della Casa Circondariale <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong><br />

Buonasera, mi è stato chiesto <strong>di</strong> <strong>di</strong>re due parole da parte del mondo che sta <strong>di</strong>etro le sbarre. Voglio<br />

essere breve ma chiaro nei miei ringraziamenti, voglio raggiungere i cuori che ci stanno accanto e che<br />

credono in un futuro migliore.<br />

Sono in tanti, anche adesso in questa aula, a darci la speranza e l’opportunità <strong>di</strong> riconoscere gli<br />

aspetti più belli.<br />

Avremmo voluto essere in tanti qui oggi, perché in nessun altro posto come nel carcere, si recepisce la parola<br />

solidarietà. Avremmo voluto essere in tanti a ringraziarvi, purtroppo, problemi burocratici e giuri<strong>di</strong>ci hanno<br />

fatto sì che solo uno <strong>di</strong> noi oggi sia potuto essere presente.<br />

In nessun altro luogo, che non sia il carcere, c’è la solidarietà vera, tra persone <strong>di</strong>verse, tra etnie<br />

<strong>di</strong>verse, tra religioni <strong>di</strong>verse, tutti insieme convinti e decisi ad ottenere un futuro migliore.<br />

Noi chie<strong>di</strong>amo che cadano le barriere, i pregiu<strong>di</strong>zi, che ci venga offerta ancora una possibilità,<br />

vogliamo <strong>di</strong>mostrare a tutti, ma prima <strong>di</strong> tutto a noi stessi, che ce la possiamo fare!!<br />

E vi prego, continuate il vostro lavoro, credete in ciò che fate, perché noi cre<strong>di</strong>amo in voi!! Grazie.<br />

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Aldo Zanchetta<br />

Coor<strong>di</strong>natore della Scuola per la Pace della <strong>Provincia</strong> <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong><br />

Oltre il II° Forum<br />

Le parole <strong>di</strong> Luca Bianucci mi sono particolarmente care perché con lui esiste una vecchia amicizia,<br />

con lui ho vissuto i passi successivi della sua esperienza brasiliana e della sua grande crescita intellettuale ed<br />

umana. Credo che oggi Luca costituisca per tutti noi, per la solidarietà lucchese, un punto <strong>di</strong> riferimento<br />

obbligatorio. Il suo messaggio appena letto dovrà essere messo negli atti del forum.<br />

All’apertura avevo detto che Gandhi ammoniva che quando si organizza un incontro, un evento <strong>di</strong><br />

lotta, una qualche azione per fare avanzare il mondo verso certi obiettivi, bisogna abbandonare la retorica e<br />

privilegiare il fatto che si debbano fare concreti passi in avanti. Ogni incontro deve essere un piccolo passo<br />

avanti; noi abbiamo compiuto un piccolo passo avanti nella nostra sensibilità, nella nostra comprensione dei<br />

problemi del mondo, nella nostra visione <strong>di</strong> quello che sta accadendo. Questo grazie a relatori magistrali,<br />

grazie a tutti voi, grazie ai nostri partner stranieri, che ci hanno portato qui la voce <strong>di</strong> quello che accade nel<br />

mondo e che noi spesso <strong>di</strong>mentichiamo.<br />

Il Forum si concluderà con una <strong>di</strong>chiarazione finale che mi ha entusiasmato. Me l’hanno fatta<br />

leggere perché non ho partecipato alla stesura per sottolineare l’in<strong>di</strong>pendenza delle associazioni e dei loro<br />

partner nel percorso che stiamo facendo. Mi pare una <strong>di</strong>chiarazione finale più organica, più avanzata <strong>di</strong><br />

quella del I° Forum, grazie anche alla presenza dei nostri partner: ho infatti sentito in molti punti la loro voce<br />

all’interno della <strong>di</strong>chiarazione. Penso che iniziative come questa potrebbero fare <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong> una provincia<br />

pilota nella cooperazione e nella elaborazione della solidarietà internazionale.<br />

Accanto ai meriti riconosciuti, ho fatto anche qualche critica al presidente Tagliasacchi e sono certo<br />

che ora possiamo riprendere il cammino. Grazie alla <strong>Provincia</strong> <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong> che ha consentito questo libero<br />

percorso alla Scuola per la Pace, credo che oggi siamo fra le province che possono recepire in maniera più<br />

organica i messaggi che ci giungono dal sud del mondo. Lo <strong>di</strong>cevo all’inizio e lo ripeto: il Forum è stato il<br />

risultato <strong>di</strong> un percorso esemplare dal basso, la stessa elaborazione della <strong>di</strong>chiarazione finale è nata ieri in tre<br />

tavoli <strong>di</strong> lavoro che hanno operato autonomamente e che hanno poi sintetizzato i loro tre documenti in una<br />

<strong>di</strong>chiarazione organica che mi pare molto avanzata.<br />

Devo anche dolermi che qualche associazione, che pur ha ottenuto i finanziamenti per far arrivare il<br />

proprio partner a <strong>Lucca</strong> per quest’occasione, si è poi <strong>di</strong>leguata. Ci sono macchie d’in<strong>di</strong>vidualismo<br />

nell’associazionismo della solidarietà internazionale lucchese che vanno cancellate.<br />

Vorrei insistere sul tema del nostro modo <strong>di</strong> lavorare come associazioni <strong>di</strong> cooperazione<br />

internazionale: la completa trasparenza del nostro operare, la completa coerenza fra quello che proclamiamo<br />

e quello che facciamo è un requisito fondamentale. Dico questo perché ieri ho ricevuto una tristissima<br />

notizia: alcune gran<strong>di</strong> ONG italiane sono sotto inchiesta della magistratura per <strong>di</strong>strazione <strong>di</strong> fon<strong>di</strong> dai fini<br />

per cui li avevano ricevuti, cioè per gestione non corretta. Voi capite che se questa notizia <strong>di</strong>verrà pubblica,<br />

sarà per tutti noi un danno enorme e questo era presumibile già da tempo perché i fatti li conoscevamo e le<br />

critiche “fraterne” non sono servite. Noi dobbiamo rispondere a tutto questo aumentando la nostra<br />

trasparenza, la nostra coerenza fra ciò che <strong>di</strong>ciamo e ciò che facciamo. Fortunatamente nessuna delle ONG<br />

qui presenti è fra queste incriminate.<br />

Una piccola <strong>di</strong>gressione: mi sono versato poco fa l’acqua da questa bottiglia e so che fra qualche<br />

mese nei locali pubblici non sarà più possibile usare delle bottiglie, ma bisognerà usare monodosi<br />

confezionate, che aumenteranno i costi, portando profitti a pochi. Qualcuno qui ha proposto che nei prossimi<br />

incontri della Scuola per la Pace si usi acqua <strong>di</strong> rubinetto, che a <strong>Lucca</strong> è eccellente; inoltre una delle persone<br />

<strong>di</strong> servizio che stava versando una Coca Cola mi ha detto: “ma non troverebbe più corretto che noi<br />

eliminassimo la Coca Cola da questi incontri?”. Faccio mia questa richiesta, anche per rispetto dei nostri<br />

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amici colombiani che sanno bene come in Colombia la Coca Cola non sia esente da sospetti <strong>di</strong> connivenza<br />

per l’assassinio <strong>di</strong> alcuni sindacalisti, fatto questo che ha avuto eco perfino nei tribunali degli Stati Uniti.<br />

Vorrei fare un’altra raccomandazione. Capisco che gli eventi devono avere visibilità, però vorrei che<br />

le prossime attività della Scuola per la Pace si <strong>di</strong>stinguano per la sobrietà. E’ bello mangiare insieme, è anche<br />

utile e comodo perché snellisce le giornate. Si può mangiare anche in un monopiatto. Credo che questi<br />

piccoli segni debbano <strong>di</strong>ventare <strong>di</strong>stintivi delle nostre attività, perché noi continuiamo a ascoltare delle belle<br />

conferenze, torniamo a casa commossi ma continuiamo a fare come abbiamo sempre fatto. E allora,<br />

Presidente Tagliasacchi, berremo acqua <strong>di</strong> rubinetto!<br />

Sfortunatamente il terzo forum non vedrà Andrea Tagliasacchi come Presidente della <strong>Provincia</strong>; con<br />

tutta probabilità non vedrà più neanche me come coor<strong>di</strong>natore della Scuola per la Pace. Ma abbiamo dato<br />

alcune in<strong>di</strong>cazioni da lasciare per chi ere<strong>di</strong>terà il Forum. Abbiamo realizzato una collaborazione fra<br />

istituzioni e associazioni, una costruzione dal basso del Forum, ma abbiamo anche capito che i nostri partner<br />

-che nel corso del Forum, credo e mi auguro, siano stati integrati con molta fraternità e comunicazione-<br />

dovranno dal prossimo forum essere interpellati fin dalla scelta dell’argomento da trattare. Il terzo forum<br />

dovrà nascere da noi insieme a loro. Mi sto battendo per la trasparenza e la nascita dal basso delle iniziative<br />

riguardanti la cooperazione internazionale, e spero che anche le ONG lucchesi si battano perché tali<br />

caratteristiche siano introdotte nelle politiche della Regione Toscana. Avrei gra<strong>di</strong>to, a questo proposito, che<br />

fosse presente Massimo Toschi, che assumerà importanti incarichi in Regione e mi riprometto <strong>di</strong> affrontare<br />

questo argomento con lui. Vi ho citato la relazione <strong>di</strong> Andrea Stocchiero alla Conferenza Regionale della<br />

Cooperazione; il fatto che un osservatore professionale in<strong>di</strong>pendente abbia detto che l’unico punto comune a<br />

tutte le forme <strong>di</strong> cooperazione approntate dalle regioni italiane sia l’assenza della voce dei destinatari finali<br />

dei progetti, rappresenta un fatto <strong>di</strong> una gravità eccezionale, sintomo dell’esportazione del nostro modello<br />

culturale.<br />

I tre obiettivi del forum che il Presidente Tagliasacchi ci dette quando iniziammo a lavorare erano: la<br />

crescita delle realtà locali <strong>di</strong> solidarietà internazionale, la crescita del legame con i nostri partner stranieri, la<br />

crescita della cultura della solidarietà internazionale sul territorio provinciale. Certamente con lacune e<br />

secondo le nostre modeste capacità abbiamo cercato <strong>di</strong> raggiungere questi obiettivi, anche con l’aiuto <strong>di</strong> una<br />

efficiente èquipe <strong>di</strong> lavoro: voglio qui ricordare la <strong>di</strong>rigente Sebastiani, i suoi collaboratori e collaboratrici e<br />

le associazioni locali che tanto hanno dato a questo Forum. Siamo riusciti a portare una riflessione<br />

approfon<strong>di</strong>ta sulla solidarietà sul nostro territorio: lo <strong>di</strong>mostrano i numerosi incontri che abbiamo fatto nei<br />

giorni scorsi in varie località della provincia. E’ molto importante che la cultura della cooperazione e della<br />

solidarietà si ramifichi sul territorio e non rimanga confinata in ambienti elitari per “addetti ai lavori”, come<br />

noi oggi siamo. La <strong>di</strong>ffusione sul territorio deve restare un obiettivo primario per il futuro della Scuola per la<br />

Pace.<br />

Il futuro della Scuola per la Pace è nelle vostre mani. Io personalmente -che a questa ho de<strong>di</strong>cato<br />

molte energie, qualche volta fin oltre i limiti del ragionevole- l’ho fatto sperando che voi tutti esigiate dalla<br />

prossima amministrazione che il percorso continui e si migliori. Ci sono persone che la potranno condurre<br />

meglio <strong>di</strong> me, ma ripeto, il futuro della Scuola per la Pace è nelle vostre mani.<br />

Vi ringrazio.<br />

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Don Luciano Mendes<br />

Vescovo <strong>di</strong> Mariana (Brasile) e già<br />

Presidente della Conferenza Episcopale Brasiliana<br />

(in collegamento telefonico)<br />

La saluto con molto affetto, Presidente Tagliasacchi, così come tutte le altre autorità presenti, in<br />

particolare l’Arcivescovo e tutta la Diocesi <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong>. Sono molto contento <strong>di</strong> partecipare, anche se a<br />

<strong>di</strong>stanza, ad un Forum portatore <strong>di</strong> idee così avanzate, un Forum che sta facendo molto per il Brasile.<br />

L’appuntamento del Forum è fondamentale, in quanto è espressione <strong>di</strong> una stretta collaborazione tra<br />

uomini e donne <strong>di</strong> <strong>di</strong>verse parti del mondo, persone impegnate nel costruire un mondo più equo, anche alla<br />

luce <strong>di</strong> quello che la nostra generazione ha lasciato in ere<strong>di</strong>tà alle nuove; un’ere<strong>di</strong>tà molto negativa, <strong>di</strong><br />

miseria, violenza ed esclusione.<br />

La collaborazione apre la prospettiva <strong>di</strong> un lavoro in comune che esige una grande capacità <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>alogo e <strong>di</strong> mutua intesa, un elemento, quello del <strong>di</strong>alogo, che si presenta aprendo nuove possibilità <strong>di</strong><br />

un’umanità radunata, in cui le persone conservano le loro <strong>di</strong>fferenze mettendo però in comune i loro valori.<br />

Solo per questo penso che sia fondamentale un incontro come quello che si è verificato a <strong>Lucca</strong>, un incontro<br />

che ricerca questi valori comuni che permettono un cambiamento <strong>di</strong> mentalità. Il nostro mondo ha<br />

sicuramente caratterizzato la storia recente con una ricerca esagerata dei beni materiali, del potere; è<br />

necessario trovare la via aperta per la fraternità, in cui riconosciamo la <strong>di</strong>gnità <strong>di</strong> ogni essere umano. Questo<br />

forum mi pare che sia veramente un qualcosa che ci apre orizzonti <strong>di</strong> con<strong>di</strong>visione e <strong>di</strong> concor<strong>di</strong>a.<br />

Sicuramente, Presidente Tagliasacchi, siamo molto riconoscenti con la vostra comunità, perché la<br />

presenza lucchese -ed in particolare la presenza quoti<strong>di</strong>ana <strong>di</strong> Alfredo Bandoni- è molto importante per noi.<br />

Tale presenza è riuscita a stabilire un rapporto <strong>di</strong> cooperazione positiva grazie al lavoro quoti<strong>di</strong>ano, alla<br />

conoscenza delle nostre fragilità e delle nostre speranze; una collaborazione che unisce quin<strong>di</strong> le persone.<br />

Forse l’Italia in questo momento sta dando al mondo un esempio realmente positivo, un esempio dato dalla<br />

presenza fisica in Brasile <strong>di</strong> molte persone che riescono a far sì che la cooperazione non sia solo materiale,<br />

ma anche culturale, sociale e caratterizzata da rapporti <strong>di</strong> amicizia.<br />

Un altro elemento in<strong>di</strong>spensabile del forum è guardare non solo il protagonismo dei giovani e<br />

l’importanza del cambiamento della mentalità, ma arrivare ad elaborare principi che possano guidare<br />

l’umanità. Tali principi sono la <strong>di</strong>gnità e l’inviolabilità della persona umana. Dobbiamo rispettare ed esigere<br />

rispetto verso le nazioni ed i gruppi più deboli, che necessitano <strong>di</strong> una mano fraterna; penso all’Africa ed al<br />

sud-est asiatico.<br />

Vorrei ringraziare ancora il Forum, che ci permette <strong>di</strong> guardare il futuro con più speranza. “Un altro<br />

mondo è possibile”, questo è il messaggio del Forum: un messaggio che presuppone un ra<strong>di</strong>cale<br />

cambiamento, una conversione interna. Abbraccio fraternamente il nuovo arcivescovo, Mons. Italo<br />

Castellani, con il quale siamo uniti nell’amicizia, nel lavoro e nella preghiera.<br />

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Andrea Tagliasacchi<br />

Presidente della <strong>Provincia</strong> <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong><br />

Conclusioni<br />

Ai concetti espressi -e che con<strong>di</strong>vido- da Aldo Zanchetta, vorrei aggiungere alcune considerazioni.<br />

Intanto desidero ringraziare tutte le associazioni a nome della <strong>Provincia</strong> <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong>. Quest’anno<br />

finalmente siamo riusciti a coinvolgere molte amministrazioni comunali al Forum, e questo era uno degli<br />

obiettivi che ci eravamo prefissati. Quest’incontro è stato qualche cosa <strong>di</strong> profondo per il nostro territorio e<br />

per la nostra comunità e credo che questo sia molto importante anche per il futuro.<br />

Certe iniziative sono possibili perché ci sono delle persone che ci credono fortemente. Vorrei a<br />

questo proposito ringraziare Aldo Zanchetta per come ha lavorato e per come sta lavorando. Lo faccio<br />

veramente fuori da ogni formalismo perché credo molto in queste cose, credo che una delle ricchezze<br />

fondamentali <strong>di</strong> ciascuno <strong>di</strong> noi e della politica sia l’incontro fra persone, anche <strong>di</strong>verse, che però sanno<br />

ascoltarsi. Le persone possono anche litigare talvolta, ma sanno anche cogliere la sensibilità dell’altro.<br />

Questa non è una questione che riguarda soltanto il Forum, ma la vita <strong>di</strong> tutti i giorni. Quello dell’ascolto<br />

dell’altro è l’unico auspicio che possiamo fare perché le persone che si impegnano in politica, nelle nostre<br />

istituzioni, possano essere all’altezza dei tempi.<br />

Quin<strong>di</strong> grazie davvero per questo lavoro, un lavoro veramente prezioso e importante. Permettetemi<br />

un ringraziamento alla dottoressa Sebastiani, responsabile delle Politiche Sociali della <strong>Provincia</strong> <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong> e a<br />

tutte le persone che lavorano con lei. L’organizzazione <strong>di</strong> un evento come il Forum non è formalmente<br />

scritto nelle competenze <strong>di</strong> un’amministrazione provinciale, è però presente dentro un modo <strong>di</strong> sentire e <strong>di</strong><br />

vedere la nostra comunità. Noi sentivamo pulsare nella nostra comunità qualche cosa <strong>di</strong> bello e <strong>di</strong><br />

importante, uno slancio verso la solidarietà che stava fuori da ogni forma <strong>di</strong> retorica. Ci siamo sentiti in<br />

dovere non <strong>di</strong> istituzionalizzare questo movimento, ma <strong>di</strong> “farlo respirare”, <strong>di</strong> dargli visibilità e coraggio.<br />

Queste cose si possono fare perché dentro alle strutture <strong>di</strong> un ente ci sono delle persone che, oltre ad<br />

interpretare il loro lavoro in maniera formale, lo interpretano mettendoci le cose in cui credono. Io voglio<br />

ringraziare tutte quelle persone che hanno lavorato e lavorano in questa maniera.<br />

Un ringraziamento a tutte le associazioni e a tutte le testimonianze <strong>di</strong> quelle persone fisiche che sono<br />

venute qui a <strong>Lucca</strong> per raccontarci i loro <strong>di</strong>sagi, i loro problemi, le loro lotte, i loro desideri ed i loro sogni;<br />

un ringraziamento a quelle che stanno spendendo o hanno speso la loro vita -anche rischiandola- al servizio<br />

degli altri. In questi giorni abbiamo avuto la fortuna <strong>di</strong> ascoltare idee, emozioni e testimonianze <strong>di</strong> persone<br />

che hanno speso la loro vita in atti concreti, a fianco dei più bisognosi. Abbiamo il dovere <strong>di</strong> far conoscere<br />

queste esperienze.<br />

Vorrei aggiungere una considerazione sul futuro: quello che abbiamo vissuto in questi giorni è<br />

qualche cosa che va al <strong>di</strong> là delle responsabilità e delle competenze temporanee <strong>di</strong> ciascuno <strong>di</strong> noi. Dopo<br />

queste giornate sappiamo che in qualsiasi agenda dell’amministrazione, della politica, <strong>di</strong> un programma,<br />

deve esserci la cultura della solidarietà e della cooperazione. Non dobbiamo né possiamo tornare in<strong>di</strong>etro.<br />

Non abbiamo assistito semplicemente all’impegno <strong>di</strong> un’istituzione, ma al tentativo che abbiamo fatto <strong>di</strong><br />

assumere il messaggio del Forum nella nostra cultura politica. La cultura politica <strong>di</strong> cui parlo deve impe<strong>di</strong>rci<br />

<strong>di</strong> pensare solamente a noi stessi, non possiamo rinchiuderci dentro le nostre mura.<br />

Credo che nel mondo globale o<strong>di</strong>erno, la comunità locale, più <strong>di</strong> ieri, abbia gran<strong>di</strong> responsabilità.<br />

Molti temi che abbiamo ascoltato in questi giorni, che sembra abbiano solo una valenza globale, in realtà<br />

riguardano anche la vita delle nostre comunità locali. Quando parliamo <strong>di</strong> ambiente e delle gran<strong>di</strong><br />

contrad<strong>di</strong>zioni del mondo globale, sappiamo che le scelte -non solo quelle della coerenza personale ma anche<br />

quelle della politica amministrativa- che deve fare ogni comunità locale non possono prescindere dagli<br />

argomenti <strong>di</strong>scussi in questo forum.<br />

62


Questo forum ha valicato i confini <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong>, assumendo un carattere regionale ed internazionale; ciò<br />

significa che stiamo seminando qualcosa che può <strong>di</strong>ventare un punto <strong>di</strong> riferimento per il nostro paese.<br />

Questa è un’esperienza molto <strong>di</strong>versa dalle altre, un’esperienza che nasce dal bisogno <strong>di</strong> innovazione della<br />

cultura politica e amministrativa, che ci chiama in causa tutti. E’ un’idea <strong>di</strong>versa dalla semplice<br />

contestazione dell’attuale globalizzazione, è qualcosa <strong>di</strong> <strong>di</strong>verso da un’idea tra<strong>di</strong>zionale <strong>di</strong> solidarietà, è<br />

un’intuizione che nasce dal protagonismo <strong>di</strong> associazioni che non praticano la solidarietà come pietismo o<br />

come assistenza, ma che cercano, attraverso progetti concreti, <strong>di</strong> in<strong>di</strong>viduare i motivi per cui ci sono delle<br />

ingiustizie e come si possono cambiare i modelli <strong>di</strong> organizzazione delle società perché si superino queste<br />

ingiustizie. Stiamo quin<strong>di</strong> parlando <strong>di</strong> una solidarietà che va ben al <strong>di</strong> là del teatrino della solidarietà ipocrita<br />

a cui assistiamo tutti i giorni e che ha ben illustrato Giulio Marcon.<br />

La solidarietà nel mondo globale o<strong>di</strong>erno chiama in causa il nostro modo <strong>di</strong> essere, il nostro modo <strong>di</strong><br />

agire, il nostro modo <strong>di</strong> vivere. Non c’è una solidarietà che ci può far semplicemente star bene perché<br />

possiamo dare un piccolo contributo a qualcuno; ecco perché in questi giorni noi abbiamo fatto la scelta <strong>di</strong><br />

dare la parola alle associazioni. Caro Aldo, noi cre<strong>di</strong>amo in questa idea <strong>di</strong> solidarietà, anche se non è<br />

semplice soprattutto per chi ricopre ruoli istituzionali. Non voglio cadere in un semplicismo, però il fatto <strong>di</strong><br />

aver dato la parola a tutte le associazioni rappresenta un fatto nuovo molto importante. Questo è accaduto<br />

durante il Forum. È successo che attraverso un lavoro <strong>di</strong> rispetto nei confronti delle associazioni, abbiamo<br />

attivato una rete che ha prodotto un meccanismo <strong>di</strong> conoscenza, <strong>di</strong> visibilità <strong>di</strong> progetti, <strong>di</strong> relazioni fra<br />

associazioni locali e associazioni che stanno nell’altra parte del mondo, un andare e tornare che dal punto <strong>di</strong><br />

vista della ricchezza, dello scambio, della comunicazione e dell’agire concreto, è qualcosa <strong>di</strong> straor<strong>di</strong>nario.<br />

Non dobbiamo avere esitazioni sul fatto che al <strong>di</strong> là della collocazione delle singole persone, noi<br />

dobbiamo costruire sul nostro territorio la consapevolezza che questo lavoro deve continuare. Ci sarà un<br />

terzo Forum che dovrà crescere, come è cresciuto questo secondo, con problemi, con contrad<strong>di</strong>zioni, però<br />

cercando <strong>di</strong> sviluppare questa ricchezza straor<strong>di</strong>naria che riguarda la nostra comunità locale. Costruire, come<br />

ci viene chiesto, un meccanismo trasparente <strong>di</strong> finanziamento dei progetti, sapere che il contributo non<br />

finisce sull’aspetto semplicemente economico, ma è qualche cosa <strong>di</strong> molto più forte e <strong>di</strong> molto più<br />

impegnativo.<br />

Questo è stato un forum del <strong>di</strong>alogo, dell’ascolto, dello scambio <strong>di</strong> esperienze. Questa mattina alle<br />

celebrazioni del 25 aprile, nel mio intervento ho voluto citare quest’aspetto perché penso che se vogliamo<br />

attualizzare i valori che mettono al centro la <strong>di</strong>gnità e la libertà della persona, dobbiamo ripensare alla nostra<br />

storia, al 60° della liberazione, in un’ottica globale. Attualizzare questi valori significa mettere al centro della<br />

nostra vita gli input dati dal Forum, uno su tutti, quello della nonviolenza: il mondo può cambiare attraverso<br />

questo meccanismo <strong>di</strong> messa al centro del coraggio, dell’interiorità, della mitezza e della ricchezza<br />

dell’essere umano. L’idea della nonviolenza è profondamente ra<strong>di</strong>cata nel tessuto della nostra città, ma è<br />

oggi purtroppo messa in <strong>di</strong>scussione dalla violenza dello scenario internazionale. Non è un caso che<br />

testimonianze <strong>di</strong> personaggi come Arturo Paoli siano legate al messaggio della nonviolenza che ha permesso<br />

alla nostra comunità <strong>di</strong> sviluppare una forte iniziativa <strong>di</strong> lotta per la libertà durante gli anni dell’occupazione.<br />

Credo che questo sia il punto, siamo chiamati tutti in causa. Innovare la cultura politica significa<br />

mettere in <strong>di</strong>scussione le proprie certezze, avere la capacità <strong>di</strong> mettersi in <strong>di</strong>scussione. Mi sento un po’<br />

<strong>di</strong>verso dopo questa esperienza, se non ci fosse stata la Scuola per la Pace, se non ci fosse stato il lavoro che<br />

è stato fatto, che è stato portato avanti e se non ci fossero stati il primo ed il secondo forum, molto<br />

probabilmente l’esperienza della cooperazione e della solidarietà sarebbero state marginali, solo istituzionali,<br />

come tante. Questo non è avvenuto. La solidarietà è stata una delle gran<strong>di</strong> esperienze <strong>di</strong> questa<br />

amministrazione, non possiamo quin<strong>di</strong> tornare in<strong>di</strong>etro. Questo è il primo impegno che mi sento <strong>di</strong> assumere<br />

come persona, prima ancora che come Presidente della <strong>Provincia</strong>. Devo <strong>di</strong>re che il fatto che molti<br />

amministratori abbiano partecipato insieme al Forum, significa che questa consapevolezza sta crescendo, un<br />

risultato quin<strong>di</strong> molto importante <strong>di</strong> cui sono sinceramente sod<strong>di</strong>sfatto. Vi ringrazio.<br />

63


Documenti approvati dal<br />

2° Forum della Solidarietà lucchese nel Mondo<br />

Primo documento<br />

Nel corso dei lavori del Forum della solidarietà lucchese nel mondo sono emerse nella loro<br />

drammaticità le realtà delle popolazioni vittime <strong>di</strong> una occupazione armata del territorio della Colombia, del<br />

Chiapas, della Palestina, del Kur<strong>di</strong>stan, del Sahara occidentale.<br />

In queste situazioni i <strong>di</strong>ritti delle persone vengono sistematicamente violati e la loro stessa<br />

sopravvivenza è minacciata; viene negata la possibilità <strong>di</strong> uno sviluppo economico, <strong>di</strong> una libera circolazione<br />

all’interno del proprio territorio, viene resa <strong>di</strong>fficile se non impossibile l’educazione e l’assistenza sanitaria<br />

delle popolazioni.<br />

Le comunità locali sono costrette a sfollare dal territorio <strong>di</strong> appartenenza e molte sono ormai a rischio <strong>di</strong><br />

estinzione.<br />

In una situazione che si rende ogni giorno più <strong>di</strong>fficile, si fa appello a tutte le istituzioni coinvolte<br />

perché si organizzino, su precisa richiesta delle popolazioni interessate, missioni <strong>di</strong> osservatori<br />

internazionali, accompagnatori sul campo, che contribuiscano a <strong>di</strong>fendere i <strong>di</strong>ritti umani delle comunità<br />

vittime dell’oppressione delle armi delle forze <strong>di</strong> occupazione.<br />

Si fa inoltre appello per la liberazione dei prigionieri politici dello stato <strong>di</strong> Oaxaca, la cui<br />

<strong>di</strong>fficilissima situazione è stata illustrata al Forum e per la liberazione <strong>di</strong> Armando e Marcelino Miranda,<br />

leader ecologisti dell’Honduras, condannati a 23 anni <strong>di</strong> prigione per avere organizzato la <strong>di</strong>fesa dei boschi<br />

della Montagna Verde.<br />

La Fondazione Neno Zanchetta e l’Associazione Mani Tese denunciano il progetto Prodesis,<br />

cofinanziato dall’Unione Europea in Chiapas, che nella sua definizione e applicazione non rispetta gli<br />

impegni assunti dalla stessa Comunità Europea per le sue politiche verso i popoli in<strong>di</strong>geni. Questo progetto,<br />

non con<strong>di</strong>viso da molte popolazioni e da molte OnG locali, ha tutti i connotati <strong>di</strong> un progetto <strong>di</strong>retto contro le<br />

comunità in<strong>di</strong>gene zapatiste e <strong>di</strong> apertura all’appropriazione delle ricchezze biologiche e dei saperi<br />

tra<strong>di</strong>zionali della comunità in<strong>di</strong>gena da parte <strong>di</strong> multinazionali europee.<br />

Si richiede alla <strong>Provincia</strong> <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong> <strong>di</strong> farsi tramite e latore del presente appello agli organismi<br />

internazionali, ai governi dei paesi interessati e a tutte le realtà che possono contribuire in modo positivo a<br />

sostenere la <strong>di</strong>fesa delle popolazioni minacciate.<br />

Si chiede alla <strong>Provincia</strong> <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong> <strong>di</strong> far propri esplicitamente i contenuti della Dichiarazione finale<br />

del II° Forum e <strong>di</strong> accogliere le proposte e gli appelli ad essa allegati.<br />

Si chiede altresì, da parte delle organizzazioni firmatarie, <strong>di</strong> avere al più presto un incontro con il<br />

Presidente della <strong>Provincia</strong> per <strong>di</strong>scutere i contenuti della lettera a lui in<strong>di</strong>rizzata ed altri elementi emersi nel<br />

corso del <strong>di</strong>battito, e qui non riportati, riguardanti la messa in opera della modalità <strong>di</strong> assegnazione dei<br />

contributi economici erogati in qualsiasi forma, a progetti <strong>di</strong> solidarietà internazionale”.<br />

65


Secondo documento<br />

Alcuni partner stranieri, ufficialmente invitati dalla <strong>Provincia</strong> <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong> a partecipare al 2° Forum<br />

della solidarietà lucchese nel mondo, hanno incontrato gran<strong>di</strong> <strong>di</strong>fficoltà per ottenere il visto <strong>di</strong> uscita dai<br />

singoli paesi da parte delle Ambasciate e dei consolati italiani, che, in molte situazioni, hanno considerato<br />

superflui i documenti ufficiali <strong>di</strong> invito esibiti.<br />

Fra gli altri, alcuni casi possono essere considerati emblematici:<br />

1. per l’associazione Ghassan Kanafani, il caso <strong>di</strong> Buthayna Dawoud rappresentante dell’Unione dei<br />

Comitati delle Donne Palestinesi, che nonostante possedesse i visti necessari, è stata bloccata dalle<br />

autorità militari israeliane <strong>di</strong> occupazione e non ha potuto arrivare in Italia.<br />

2. Per l’Associazione Nuova Solidarietà - Equinozio, Maria Pomazunco, ex detenuta politica peruviana,<br />

partner del progetto Mariposa, non ha potuto ottenere il visto dall’Ambasciata italiana <strong>di</strong> Lima, per<br />

motivi <strong>di</strong> carattere economico. Le è stato richiesto infatti <strong>di</strong> presentare un conto corrente bancario con i<br />

movimenti degli ultimi tre mesi e che tale conto fosse a pegno e garanzia per la sua uscita dal paese. In<br />

mancanza <strong>di</strong> tale conto, Maria non ha potuto raggiungere il Forum.<br />

3. Per l’associazione Nutripa, Charlotte Kankin<strong>di</strong> del Ruanda non è riuscita a ottenere il visto dal<br />

Consolato italiano <strong>di</strong> Kigali e ha dovuto rivolgersi all’Ambasciata <strong>di</strong> Kampala, Tanzania, dove ha dovuto<br />

esibire una garanzia bancaria appoggiata ai conti correnti dell’associazione Nutripa <strong>di</strong> Torino e <strong>Lucca</strong>,<br />

problema che ha causato un ritardo notevole nell’arrivo a <strong>Lucca</strong>.<br />

4. Per l’associazione Rete Ra<strong>di</strong>é Resch, Marc Karangaze della Repubblica Centrafricana è arrivato solo<br />

grazie all’emissione <strong>di</strong> una garanzia bancaria <strong>di</strong> una famiglia <strong>di</strong> Savona che lo aveva invitato e con la<br />

limitazione del soggiorno esclusivamente ai giorni del Forum.<br />

I partecipanti al 2° Forum della solidarietà lucchese nel mondo rivolgono la più ferma protesta nei<br />

confronti <strong>di</strong> chi ha così operato, creando enormi <strong>di</strong>fficoltà agli ospiti provenienti da <strong>di</strong>fferenti continenti,<br />

invitati ufficialmente a partecipare a questo evento; esprimono la piena e affettuosa solidarietà agli ospiti<br />

colpiti da tali persecuzioni e chiedono alla <strong>Provincia</strong> <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong> <strong>di</strong> intervenire presso le autorità competenti per<br />

trasmettere la protesta in oggetto.<br />

66


Proposte concrete emerse dai lavori del<br />

II° Forum della Solidarietà lucchese nel Mondo<br />

1) Redazione <strong>di</strong> un appello in favore delle popolazioni dei paesi rappresentati nel Forum vittime <strong>di</strong><br />

un’occupazione militare del territorio.<br />

2) Documento <strong>di</strong> valutazione della <strong>Provincia</strong> <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong> in merito all’assegnazione dei contributi economici<br />

per i progetti <strong>di</strong> solidarietà internazionale per l’anno 2005.<br />

3) Creazione all’interno del prossimo Forum <strong>di</strong> momenti seminariali, workshop, per favorire lo scambio fra<br />

esperienze maturate nelle <strong>di</strong>verse realtà rappresentate su temi specifici <strong>di</strong> comune interesse come per<br />

esempio la resistenza civile non violenta.<br />

4) Creazione <strong>di</strong> un spazio all’interno del sito internet della Scuola per la Pace della <strong>Provincia</strong> <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong> e<br />

una rete informatica <strong>di</strong> comunicazione fra le associazioni ed i partecipanti per l’organizzazione <strong>di</strong> un<br />

Forum telematico permanente.<br />

5) Creazione <strong>di</strong> un sistema <strong>di</strong> allarme rapido, Alerta Rapida, e <strong>di</strong> un sistema <strong>di</strong> imme<strong>di</strong>ata attivazione delle<br />

associazioni appartenenti al forum, in particolare in caso <strong>di</strong> palesi violazioni dei <strong>di</strong>ritti delle popolazioni<br />

rappresentate al Forum su segnalazione delle associazioni.<br />

6) Rinforzare l’azione già iniziata dal Sevizio Politiche Sociali della <strong>Provincia</strong> <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong> per una soluzione<br />

<strong>di</strong>gnitosa del problema delle code dei migranti <strong>di</strong> fronte alla Questura <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong>.<br />

7) Denuncia al Presidente della Repubblica -ringraziandolo per avere concesso il Suo Alto Patronato a<br />

questo Forum- delle <strong>di</strong>fficoltà interposte dalle Autorità Italiane ed Europee competenti, alla presenza dei<br />

nostri partner al Forum.<br />

8) Accettare la richiesta dell’Associazione Italia-Marocco <strong>di</strong> solidarizzare con Salah Chfouka per fargli<br />

ottenere il <strong>di</strong>ritto al ricongiungimento familiare impe<strong>di</strong>to da omissioni applicative <strong>di</strong> sentenze giu<strong>di</strong>ziarie<br />

già emesse.<br />

67


Dichiarazione finale<br />

del 2° Forum della Solidarietà lucchese nel Mondo<br />

Il 2° Forum della solidarietà lucchese nel mondo ha visto riunite a <strong>Lucca</strong> nei giorni 22-23-24-25 aprile 2005,<br />

37 organizzazioni <strong>di</strong> volontariato e gruppi <strong>di</strong> sostegno internazionali insieme alle donne e agli uomini che<br />

lavorano nelle realtà locali da loro sostenute.<br />

Premessa<br />

In<strong>di</strong>viduiamo nell’attuale sistema politico-economico neoliberale dominante l’artefice delle sofferenze dei<br />

popoli delle periferie del mondo: guerre, carestie, miseria, emergenze ambientali e repressione causano la<br />

morte fisica e culturale <strong>di</strong> moltissimi popoli.<br />

Non ci sarà pace senza giustizia economica e sociale ed il riconoscimento del <strong>di</strong>ritto all’autodeterminazione<br />

dei popoli.<br />

Il concetto <strong>di</strong> pace è espresso dalle popolazioni in<strong>di</strong>gene amerin<strong>di</strong>e con tre parole che significano “buon<br />

sentimento”, “reciprocità”, “buona vita”. Lo con<strong>di</strong>vi<strong>di</strong>amo profondamente e vogliamo realizzarlo<br />

camminando insieme ai popoli <strong>di</strong> tutto il mondo.<br />

Ritenendo ancora vali<strong>di</strong> e necessari i principi emersi nella prima <strong>di</strong>chiarazione in merito all’urgenza <strong>di</strong> un<br />

cambiamento culturale e <strong>di</strong> mentalità <strong>di</strong> chi opera nella cooperazione solidale, il secondo Forum ha<br />

in<strong>di</strong>viduato le seguenti priorità nell’agire solidale.<br />

Solidarietà per il cambiamento<br />

Il sostegno politico e culturale alle riven<strong>di</strong>cazioni dei popoli del mondo è una <strong>di</strong>mensione fondamentale della<br />

relazione solidale.<br />

La solidarietà non può essere slegata dall’impegno civile, in<strong>di</strong>viduale e collettivo, sul proprio territorio. Non<br />

avverrà nessun cambiamento se non facciamo nostro l’invito dei popoli delle periferie del mondo a lottare<br />

per cambiare anche il nostro contesto, inserito in una cultura della dominazione e dell’oppressione, a partire<br />

anche dai nostri stili <strong>di</strong> vita.<br />

Caratteristiche della cooperazione solidale<br />

Dare priorità a tutti quei progetti che nascono dal basso e che vedono protagonisti nella loro elaborazione e<br />

realizzazione le comunità coinvolte.<br />

Valorizzare e sostenere la coerenza politica ed etica dei comportamenti <strong>di</strong> tutte quelle realtà oppresse che<br />

rifiutano il compromesso con i poteri dominanti (economici e politici) e pagano quoti<strong>di</strong>anamente il prezzo<br />

della propria libertà e dell’autonomia <strong>di</strong> azione.<br />

Orientare l’agire delle ONG e dei gruppi solidali ai principi dell’autonomia, dell’in<strong>di</strong>pendenza politica,<br />

culturale ed economica dai soggetti pubblici e privati che potrebbero con<strong>di</strong>zionare il loro agire.<br />

Settori <strong>di</strong> intervento<br />

Privilegiare i progetti nei settori:<br />

• alfabetizzazione ed educazione popolare: costruzione <strong>di</strong> scuole, sostegno ai progetti educativi locali e<br />

all’autoformazione sui <strong>di</strong>ritti inalienabili <strong>di</strong> ogni essere umano;<br />

• protagonismo femminile: delle donne per le donne;<br />

• <strong>di</strong>ritto alla salute: sviluppo della prevenzione e accesso ai farmaci essenziali;<br />

68


• ecologico: maggiore attenzione alle tematiche ambientali, sostegno alle lotte delle comunità locali in<br />

<strong>di</strong>fesa del loro ambiente, denuncia <strong>di</strong> quegli interventi che mascherano <strong>di</strong>etro alla <strong>di</strong>fesa dell’ambiente<br />

l’obiettivo <strong>di</strong> <strong>di</strong>slocare le popolazioni che da migliaia <strong>di</strong> anni conservano quegli spazi; <strong>di</strong>fesa dei saperi<br />

tra<strong>di</strong>zionali e della bio<strong>di</strong>versità;<br />

• agricolo: <strong>di</strong>fesa delle colture locali attraverso meto<strong>di</strong> <strong>di</strong> lavoro tra<strong>di</strong>zionali, per il conseguimento<br />

dell’autosufficienza e sicurezza alimentare;<br />

• <strong>di</strong>ritti umani: <strong>di</strong>fesa delle minoranze, denuncia delle violazioni in tutta la loro estensione, <strong>di</strong>ffusione<br />

della cultura dei <strong>di</strong>ritti umani all’interno <strong>di</strong> una più amplia lotta per la giustizia.<br />

L’umanitario deve lasciare ampio spazio al ritorno <strong>di</strong> pratiche <strong>di</strong> cooperazione solidale che vadano ad agire<br />

sulle cause strutturali dei problemi che si pretende <strong>di</strong> risolvere. E’ necessario un ritorno alla sobrietà ed alla<br />

efficacia della cooperazione in contrapposizione alla spettacolarizzazione dell’intervento emergenziale.<br />

Riba<strong>di</strong>amo il ripu<strong>di</strong>o della guerra in tutte le sue forme e l’impegno a favorire la pace, con<strong>di</strong>zione essenziale<br />

per la crescita e lo sviluppo equilibrato dell’umanità.<br />

Sottolineiamo la necessità che lo Stato italiano si impegni:<br />

• per un aumento della quantità e della qualità degli aiuti internazionali portando allo 0,7% del PIL l’entità<br />

degli APS (Aiuti Pubblici allo Sviluppo) del paese, rispettando, così l’impegno assunto a Copenaghen<br />

nel 1995;<br />

• per la cancellazione totale e incon<strong>di</strong>zionata del debito estero dei paesi del Sud;<br />

• per un cambiamento delle regole inique del commercio internazionale.<br />

Esprimiamo grande preoccupazione per l’attuale sistema <strong>di</strong> accoglienza dei migranti che provengono da<br />

situazioni <strong>di</strong> povertà, guerra ed oppressione e riba<strong>di</strong>amo il nostro impegno affinché ci sia piena accoglienza e<br />

sostengo nella loro integrazione. Sollecitiamo il Parlamento ed il Governo italiano ad approvare una<br />

legislazione in materia <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> asilo.<br />

Ringraziamo la <strong>Provincia</strong> <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong> e la Scuola per la Pace per aver reso possibile questo libero incontro, e<br />

tutti i partecipanti, in particolar modo gli amici e le amiche provenienti dai vari continenti con cui lavoriamo<br />

per la costruzione <strong>di</strong> un altro mondo possibile.<br />

Facciamo nostra l’esortazione <strong>di</strong> Jean Leonard Touadì che ci invita, prima <strong>di</strong> fare cooperazione con i popoli<br />

del Sud del mondo, ad imparare a camminare con loro.<br />

69


Presentazione dei relatori del 2° Forum della Solidarietà lucchese nel Mondo<br />

Adolfo Perez Esquivel<br />

Perez Esquivel è nato a Buenos Aires il 26 novembre del 1931. Negli anni ’60 inizia a lavorare con<br />

organizzazioni <strong>di</strong> base dei movimenti cristiani, nei settori più poveri della società.<br />

Nel 1974, a Medellín (Colombia) viene nominato coor<strong>di</strong>natore generale per l’America Latina dei gruppi e<br />

movimenti che lavorano per la liberazione dei popoli attraverso la non violenza. Nasce così il Servicio Paz y<br />

Justicia (SERPAJ), <strong>di</strong> cui Pérez Esquivel è uno dei fondatori. Il colpo <strong>di</strong> stato militare argentino del 1976,<br />

porta ad una repressione sistematica rivolta a tutti i settori sociali, con sequestro e sparizione <strong>di</strong> persone,<br />

torture ed assassini. In questo contesto Pérez Esquivel contribuisce alla nascita <strong>di</strong> movimenti <strong>di</strong> <strong>di</strong>fesa dei<br />

<strong>di</strong>ritti umani (Assemblea Permanente per i Diritti Umani, Movimento Ecumenico per i Diritti Umani) e<br />

sostiene le organizzazioni delle famiglie colpite dalla ferocia della <strong>di</strong>ttatura (Madres de Plaza de Mayo,<br />

Nonne <strong>di</strong> Plaza de Mayo, Familiares).<br />

Incarcerato più volte e torturato, rimane in prigione - senza nessun tipo <strong>di</strong> processo - per 14 mesi, e in libertà<br />

vigilata per altri 14 mesi. Nel 1980 riceve il Premio Nobel per la Pace per il lavoro svolto nella <strong>di</strong>fesa dei<br />

<strong>di</strong>ritti umani. Ricevendo il premio <strong>di</strong>ce: “...lo ricevo a nome dei popoli dell’America Latina, in particolare<br />

dei poveri e <strong>di</strong> tutti quelli che hanno lavorato per aiutare questi popoli”. Nel 1987 il SERPAJ, <strong>di</strong> cui Pérez<br />

Esquivel è Presidente, riceve il Premio “Educazione alla Pace”, dell’UNESCO. Ha pubblicato “El Cristo del<br />

Poncho” e “Caminar junto a los Pueblos” (1995) sulle esperienze della non violenza in America Latina.<br />

Aldo Gonzales Rojas<br />

Aldo Gonzales Rojas è un <strong>di</strong>rigente in<strong>di</strong>geno nelle comunità della Sierra Juarez nello stato<br />

messicano <strong>di</strong> Oaxaca. Impegnato da molti anni nella lotta per l’affermazione dei <strong>di</strong>ritti e della <strong>di</strong>gnità delle<br />

popolazioni in<strong>di</strong>gene della Sierra, è anche membro del Consejo Nacional In<strong>di</strong>gena messicano e ha<br />

accumulato una ricca esperienza a livello nazionale e internazionale nella <strong>di</strong>fesa del mais originario dalle<br />

contaminazioni transgeniche provocate illegalmente dalle gran<strong>di</strong> transnazionali del settore, subendo ripetute<br />

minacce. Lo stato <strong>di</strong> Oaxaca, insieme a quelli del Chiapas e del Guerrero, è uno degli stati con maggioranza<br />

in<strong>di</strong>gena, dove la repressione colpisce da anni le comunità in lotta per la <strong>di</strong>fesa dei propri territori e dei<br />

propri boschi. Questo avviene in varie zone dello stato, dalla zona <strong>di</strong> Cintalapa alla zona abitata dai Lozicha,<br />

alla Sierra Juarez ed alla stessa città.<br />

Fratel Arturo Paoli<br />

Fratel Arturo Paoli è nato a <strong>Lucca</strong> nel 1912 ed è sacerdote dal 1940. Partecipò alla lotta partigiana, fu<br />

membro del Comitato <strong>di</strong> liberazione operando in favore degli ebrei. E’ uno dei 281 italiani "Giusti delle<br />

Nazioni", onorificenza conferita da un apposita commissione dello Stato <strong>di</strong> Israele a chi, non ebreo, mettendo<br />

a repentaglio la propria vita e la libertà, si adoperò per salvare singoli ebrei, o famiglie o talvolta intere<br />

comunità.<br />

È stato viceassistente centrale della GIAC dal 1946 al 1954, durante le presidente <strong>di</strong> Carlo Carretto e Mario<br />

Rossi. Successivamente è entrato nel noviziato dei Piccoli fratelli <strong>di</strong> Gesù, per poi <strong>di</strong>ventare Piccolo Fratello<br />

del Vangelo che si ispira a Charles De Foucauld. Nel 1959 dopo aver fatto il cappellano sulle navi degli<br />

emigranti, parte per l'America Latina. E' stato per 25 anni in Venezuela e da 16 è in Brasile, dove ha fondato<br />

A.F.A. (Associazione Fraternità Alleanza), che è una comunità <strong>di</strong> laici impegnati in alcuni progetti <strong>di</strong> aiuto<br />

alle famiglie delle favelas: progetto Latte, Educazione, Salute, Donna, Informatizzazione Informatica.<br />

70


Franco Cassano<br />

Franco Cassano è nato ad Ancona nel 1943 e insegna Sociologia della conoscenza nell’Università <strong>di</strong><br />

Bari. È stato intellettuale <strong>di</strong> punta del marxismo meri<strong>di</strong>onale, ma ha iniziato, negli anni Ottanta, una<br />

riflessione che, senza rinnegare quelle ra<strong>di</strong>ci, si apriva a nuovi orizzonti.<br />

Ne Il pensiero meri<strong>di</strong>ano (Laterza, 1996), il suo libro più celebre che ha posto le basi teoriche <strong>di</strong> un nuovo<br />

meri<strong>di</strong>onalismo in cui il Sud del mondo viene pensato a partire da parametri nuovi, valorizzandone prima <strong>di</strong><br />

tutto l’osmosi con il mare, l’«andar lenti», contro il mito moderno dell’«homo currens», la sua <strong>di</strong>mensione <strong>di</strong><br />

frontiera.<br />

In Modernizzare stanca (Il Mulino, 2001) raccoglie una serie <strong>di</strong> saggi in cui Cassano riflette con sobrietà e<br />

ironia su una gran varietà <strong>di</strong> aspetti del vivere umano. La modernità - questa la tesi <strong>di</strong> fondo - presenta dei<br />

coni d’ombra: esistono degli aspetti che non riesce a risolvere in modo sod<strong>di</strong>sfacente, esistono dei valori<br />

(favole, preghiere, ricor<strong>di</strong> infantili, passioni, relazioni affettive) che essa, a volte colpevolmente, trascura, e<br />

che possono essere proficuamente riattivati per renderci meno nevrotici.<br />

Altre sue opere sono Paeninsula (Laterza, 1998), Oltre il nulla (Laterza, 2003), Homo civicus (Dedalo,<br />

2004)<br />

Cassano appare come uno dei pensatori più liberi ed originali del panorama intellettuale italiano, grazie<br />

anche alla sua passione e alla sua inesausta curiosità intellettuale, che rompe barriere tra <strong>di</strong>scipline e<br />

ideologie. Fa parte del comitato scientifico del Laboratorio Progetto Poiesis e della redazione della rivista da<br />

Qui. Presiede a Bari il movimento <strong>di</strong> citta<strong>di</strong>nanza attiva “Città plurale”.<br />

Giulio Marcon<br />

Giulio Marcon è stato fino a pochi mesi fa Presidente del Consorzio Italiano <strong>di</strong> Solidarietà (ICS),<br />

coor<strong>di</strong>namento <strong>di</strong> intervento sulla questione balcanica che raggruppa oltre cento organizzazioni. Ha scritto<br />

“Volontariato italiano” (Lunaria 1996) e “Il Paese nascosto. Storie <strong>di</strong> volontariato” (1993), "Ambiguità degli<br />

aiuti umanitari - indagine critica sul Terzo Settore".<br />

Ha curato il volume “Fare la pace” (Kaos 1992) ed è tra gli ispiratori del progetto “Sbilanciamoci”.<br />

Come Presidente <strong>di</strong> ICS, è stato tra i promotori insieme alla Scuola per la Pace, del Convegno "Dove va<br />

l'aiuto umanitario? - Ascesa e crisi dell'aiuto umanitario tra ambiguità e solidarietà", tenutosi a <strong>Lucca</strong> nel<br />

novembre 2003.<br />

Ha partecipato anche al 1° Forum della Solidarietà lucchese nel Mondo. Oggi è coor<strong>di</strong>natore <strong>di</strong> "Lunaria".<br />

Jean Leonard Touadì<br />

Jean Leonard Touadì è nato a Brazzaville (Congo) e vive in Italia da oltre vent’anni. Laurea in<br />

Filosofia presso l’Università Gregoriana <strong>di</strong> Roma, ha un Master post laurea in Giornalismo e Comunicazioni<br />

<strong>di</strong> Massa presso la Facoltà <strong>di</strong> Scienze Politiche della Libera Università degli Stu<strong>di</strong> Sociali (L.U.I.S.S.) <strong>di</strong><br />

Roma.<br />

Entrato in Rai come stagista nel 1992, ha lavorato presso la redazione degli Esteri del TG3.<br />

Successivamente ha condotto l’e<strong>di</strong>zione estiva del programma ra<strong>di</strong>ofonico <strong>di</strong> Ra<strong>di</strong>orai “Permesso <strong>di</strong><br />

Soggiorno”. Nello stesso periodo è stato con<strong>di</strong>rettore della rivista “Africa Panorama” specializzata nelle<br />

tematiche legate all’immigrazione africana (1992-95) e corrispondente a Roma della Ra<strong>di</strong>o Panafricana<br />

“Africa N° 1” fino al 1997.<br />

Consulente scientifico ed e<strong>di</strong>torialista <strong>di</strong> numerose riviste italiane ed estere specializzate sui temi<br />

dell’immigrazione, della multicultura e dei rapporti Nord/Sud, ha al suo attivo numerose pubblicazioni,<br />

anche <strong>di</strong> carattere <strong>di</strong>vulgativo, su geopolitica, problemi culturali e sociali legati ai fenomeni migratori e sugli<br />

aspetti comunicativi nella società multiculturale.<br />

Ha pubblicato recentemente i libri Africa la pentola che bolle (EMI) e Congo, Ruanda, Burun<strong>di</strong> - Le parole<br />

per conoscere (Ed. Riuniti).<br />

71


Roberto Mancini<br />

Roberto Mancini è nato a Macerata il 28 <strong>di</strong>cembre 1958 ed è residente a Civitanova Marche (MC).<br />

E’ professore or<strong>di</strong>nario <strong>di</strong> Ermeneutica filosofica e <strong>di</strong> Filosofia teoretica dell’Università <strong>di</strong> Macerata. Nella<br />

suddetta Università è Presidente del Corso <strong>di</strong> Laurea in Filosofia. Presso la Cittadella e<strong>di</strong>trice <strong>di</strong> Assisi <strong>di</strong>rige<br />

la collana “Orizzonte Filosofico”.<br />

Ha pubblicato, tra gli altri, i seguenti volumi: “L’uomo quoti<strong>di</strong>ano. Il problema della quoti<strong>di</strong>anità nella<br />

filosofia marxista contemporanea”, Torino, Marietti, 1985; “Linguaggio e etica. La semiotica trascendentale<br />

<strong>di</strong> Karl-Otto Apel”, Genova, Marietti, 1988; “Comunicazione come ecumene. Il significato teologico e<br />

antropologico dell’etica comunicativa”, Brescia, Queriniana, 1991; “L’ascolto come ra<strong>di</strong>ce. Teoria <strong>di</strong>alogica<br />

della verità”, Napoli, E.S.I., 1995; “Esistenza e gratuità. Antropologia della con<strong>di</strong>visione”, Assisi, Cittadella<br />

e<strong>di</strong>trice, 1996; “Etiche della mon<strong>di</strong>alità. La nascita <strong>di</strong> una coscienza planetaria”, Assisi, Cittadella e<strong>di</strong>trice,<br />

1997 (in coll. con altri); “Il dono del senso. Filosofia come ermeneutica”, Assisi, Cittadella e<strong>di</strong>trice, 1999;<br />

“Senso e futuro della politica. Dalla globalizzazione a un mondo comune”, Assisi, Cittadella e<strong>di</strong>trice, 2002;<br />

“Il silenzio, via verso la vita”, Magnano, E<strong>di</strong>zioni Qiqajon, 2002; “L’uomo e la comunità”, Magnano,<br />

E<strong>di</strong>zioni Qiqajon, 2004.<br />

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Associazioni<br />

- AGESCI - Gruppo <strong>Lucca</strong> 4<br />

- Associazione Amani Nyayo<br />

- Associazione Amatafrica Solidarietà<br />

Internazionale - Valle del Serchio<br />

- Associazione Amici del Perù<br />

- Amici della Missione <strong>di</strong> Novaliches<br />

- Amnesty International - Sezione <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong><br />

- AMREF - <strong>Lucca</strong><br />

- ARCI N.A. - Comitato territoriale <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong><br />

- A.Te.Mis. - <strong>Lucca</strong><br />

- Casa delle donne - Viareggio<br />

- Associazione Culturale Valleriana - Villa Basilica<br />

- Associazione Ghassan Kanafani<br />

- Associazione Ghibli<br />

- Ce.I.S.<br />

- Centro Nazionale per il Volontariato<br />

- Centro Sviluppo Umano - Viareggio<br />

- Diocesi <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong> - Ufficio per la Cooperazione<br />

Missionaria tra le Chiese<br />

- Emergency - Gruppo <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong><br />

- Equinozio - Associazione Nuova Solidarietà<br />

- Fondazione Internazionale Lelio Basso<br />

- Fondazione Neno Zanchetta<br />

- Gruppi <strong>di</strong> sostegno al Popolo Saharawi<br />

(Associazione “Frig” Versilia, Associazione<br />

“Kalama” <strong>Lucca</strong>, Comitato “Khaima” Valle del<br />

Serchio)<br />

- Gruppo Missionario Parrocchia dell’Arancio<br />

- Gruppo <strong>di</strong> solidarietà con il Kur<strong>di</strong>stan turco<br />

- Gruppo Volontari Carcere<br />

- Il Rigagnolo - AIFO<br />

- Associazione NutriPa<br />

- Associazione Solidarietà nel Mondo - Camaiore<br />

- Mani Tese - Gruppo <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong><br />

- Movimento Shalom - Sezione <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong><br />

- Progetto Boa Esperança<br />

- Rete Ra<strong>di</strong>é Resch - Viareggio<br />

Comuni<br />

- Comune <strong>di</strong> Barga<br />

- Comune <strong>di</strong> Capannori<br />

- Comune <strong>di</strong> Castelnuovo <strong>di</strong> Garfagnana<br />

- Comune <strong>di</strong> Castiglione <strong>di</strong> Garfagnana<br />

- Comune <strong>di</strong> Gallicano<br />

- Comune <strong>di</strong> Porcari<br />

- Comune <strong>di</strong> Stazzema<br />

- Comune <strong>di</strong> Viareggio<br />

- Comune <strong>di</strong> Villa Basilica<br />

Scuole<br />

- Circolo Didattico Montecarlo - Porcari<br />

- Direzione Didattica Altopascio (Scuola<br />

Elementare “G. Pascoli”, Scuola Elementare<br />

“Lorenzini”, Scuola Elementare Marginone)<br />

Collaborazioni<br />

- Direzione Didattica <strong>Lucca</strong> 4 (Scuola Elementare<br />

Vallebuia)<br />

- Direzione Didattica <strong>Lucca</strong> 7 (Scuola Elementare<br />

San Macario, Scuola Elementare “Martini” San<br />

Marco)<br />

- Direzione Didattica Statale 3 - Circolo <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong><br />

(Scuola Elementare Don Milani)<br />

- IPSIA “G. Giorgi” - <strong>Lucca</strong><br />

- ISPIA “Simoni” - Castelnuovo Garfagnana<br />

- IPSS “M. Civitali” - <strong>Lucca</strong><br />

- ISI Barga<br />

- ISIS “Machiavelli” - <strong>Lucca</strong><br />

- IC Borgo a Mozzano (Scuola Elementare<br />

Decimo)<br />

- IC Camaiore 2° (Scuola Me<strong>di</strong>a “M. Rosi”)<br />

- IC Camaiore 3° (Scuola Elementare Paduletto)<br />

- IC Camigliano (Scuola Me<strong>di</strong>a Camigliano)<br />

- IC Camporgiano<br />

- IC “C. Piaggia” - Capannori (Scuola Elementare<br />

“A. Bertolucci Del Fiorentino”, Scuola<br />

Elementare “San Giovanni Bosco”, Scuola<br />

Elementare Lunata, Scuola Elementare Pieve San<br />

Paolo, Scuola Me<strong>di</strong>a)<br />

- IC Castelnuovo Garfagnana (Scuola Elementare<br />

Fosciandora, Scuola Me<strong>di</strong>a)<br />

- IC Castiglione Garfagnana (Scuola Elementare<br />

“C. De Stefani” Pieve Fosciana)<br />

- IC Darsena - Viareggio (Scuola Elementare<br />

Tenuta <strong>di</strong> Borbone)<br />

- IC “Lenci” - Viareggio (Scuola Elementare “Don<br />

Beppe Socci”)<br />

- IC Massarosa 2° (Plesso coor<strong>di</strong>nato Corsanico-<br />

Bargecchia)<br />

- IC Piazza al Serchio (Scuola Elementare “Talani”<br />

- Sillano)<br />

- IC Stazzema (Scuola Elementare Terrinca, Scuola<br />

Me<strong>di</strong>a “Martiri <strong>di</strong> Stazzema”)<br />

- IC Torre del Lago (Scuola Elementare “G.<br />

Puccini”, Scuola Elementare “Tomei”, Scuola<br />

Me<strong>di</strong>a “M. Gragnani”)<br />

- ITCG “Campedelli” - Castelnuovo Garfagnana<br />

- ITCG “Lazzeri” - Pietrasanta<br />

- ITCG “Nottolini” - <strong>Lucca</strong><br />

- ITCS “F. Carrara” - <strong>Lucca</strong><br />

- ITIS “Fermi” - <strong>Lucca</strong><br />

- Liceo Artistico - <strong>Lucca</strong><br />

- Liceo Scientifico “A. Vallisneri” - <strong>Lucca</strong><br />

- Liceo Scientifico “E. Majorana” - Capannori<br />

- Scuola Me<strong>di</strong>a <strong>di</strong> Altopascio<br />

- Scuola Me<strong>di</strong>a “C. De Nobili - C. Del Prete -<br />

Mutigliano” - <strong>Lucca</strong><br />

- Scuola Me<strong>di</strong>a “Carducci-Buonarroti” - <strong>Lucca</strong><br />

- Scuola Me<strong>di</strong>a “I. Calvino” - Montecarlo<br />

- Scuola Me<strong>di</strong>a “L. Da Vinci-Chelini” - <strong>Lucca</strong><br />

- Scuola Paritaria “S.Dorotea” - <strong>Lucca</strong><br />

- ALERR S.r.l.<br />

Con l’adesione <strong>di</strong><br />

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- Associazione Villaggio Globale - Bagni <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong><br />

- Azienda USL n° 2 - <strong>Lucca</strong><br />

- Azienda USL n° 12 - Versilia<br />

- Comitato Ilio Micheloni<br />

- Comitato Pace e Cooperazione del Comune <strong>di</strong><br />

Viareggio<br />

- UNICEF - Gruppo <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong><br />

Si ringrazia inoltre<br />

- COOP - Unicoop Firenze<br />

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Appen<strong>di</strong>ce<br />

Presentiamo ora quattro interventi <strong>di</strong> alcune personalità che nel corso <strong>di</strong> questi anni hanno<br />

tenuto conferenze presso la Scuola per la Pace.<br />

Forum:<br />

Sono stati scelti, tra i tanti, gli interventi maggiormente attinenti alle tematiche trattate dal<br />

1. “L’altro e noi: possibilità e rischi dell’incontro fra le culture”<br />

<strong>di</strong> Don Achille Rossi<br />

2. “Oltre lo stato del benessere: quali obiettivi per una buona società”<br />

<strong>di</strong> Bruno Amoroso<br />

3. “Quando la miseria caccia la povertà”<br />

<strong>di</strong> Majid Rahnema<br />

4. “Assumere la complessità” - Quale ruolo per i <strong>di</strong>versi attori: organismi internazionali, ONG,<br />

enti locali, associazioni e società civile<br />

<strong>di</strong> Giovanni Camilleri<br />

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Don Achille Rossi<br />

Al <strong>di</strong> là del mito del mercato: suggerimenti per un’altra immagine dell’uomo<br />

(Conferenza tenutasi il 22 ottobre 2004)<br />

Don Achille Rossi è parroco in una parrocchia <strong>di</strong> periferia a Città <strong>di</strong> Castello. Ma non è solo un parroco.<br />

Tutti i giorni gestisce in prima persona un nutrito doposcuola pomeri<strong>di</strong>ano. Ma non è tutto. Anni fa ha dato<br />

vita a una piccola, ma preziosa casa e<strong>di</strong>trice “L’altrapagina”, che sta crescendo e producendo libri <strong>di</strong> grande qualità<br />

con scritti <strong>di</strong> Raimon Panikkar, Susan George, Bruno Amoroso, Rodrigo Rivas, Raniero La Valle, Giulietto Chiesa e<br />

altri ancora. Questa attiva casa e<strong>di</strong>trice ha inoltre pubblicato atti <strong>di</strong> convegni che perio<strong>di</strong>camente organizza in varie<br />

città dell'Umbria. “L’altrapagina” è anche il nome <strong>di</strong> una rivista ra<strong>di</strong>cata nella realtà locale ma avente anche un<br />

respiro globale.<br />

Ricor<strong>di</strong>amo che Don Achille Rossi propiziò la venuta a <strong>Lucca</strong> nel 2002 <strong>di</strong> Ivan Illich.<br />

Introduzione<br />

“Al <strong>di</strong> là del mito del mercato: suggerimenti per un’altra immagine dell’uomo”. Vi chiederete perché<br />

questo titolo e perché un prete parli <strong>di</strong> simili tematiche. Mai, in gioventù, avrei pensato <strong>di</strong> trovarmi a<br />

<strong>di</strong>scutere <strong>di</strong> tali argomenti. Ho ricevuto, infatti, una formazione filosofico-teologica che “snobbava” i<br />

problemi sociali ed economici. Da giovane prete iniziai a lavorare con i giovani e rimasi colpito dalla realtà<br />

della povertà e della fame che affligge la maggior parte dell’umanità. Iniziammo allora, con i ragazzi della<br />

parrocchia, a stu<strong>di</strong>are questa drammatica situazione. Fondammo anche un’associazione citta<strong>di</strong>na, che tentava<br />

<strong>di</strong> legare il lavoro pratico <strong>di</strong> raccolta <strong>di</strong> carta e <strong>di</strong> stracci per finanziare microprogetti nel sud del mondo, con<br />

l’approfon<strong>di</strong>mento teorico delle <strong>di</strong>sparità Nord-Sud.<br />

Negli anni ’70, quando fui assegnato ad un’altra parrocchia, cominciai a tenere un doposcuola (che<br />

prosegue ancora oggi) destinato ai ragazzi delle scuole me<strong>di</strong>e inferiori e superiori. L’esperienza <strong>di</strong> quel<br />

periodo mi ha fatto capire che il fattore determinante nell’educazione dei ragazzi non era la famiglia o la<br />

scuola, ma il funzionamento del sistema economico. Negli anni della maturità queste due intuizioni si sono<br />

come saldate, portandomi alla convinzione che il nostro sistema, che esclude gran parte dell’umanità, altro<br />

non è che una sorta <strong>di</strong> grande mito in cui si crede per fede, che s’identifica con la realtà e che stabilisce fini e<br />

mete sociali. Nessuna ideologia esplicita, nessuna teorizzazione alla luce del sole, ma semplicemente un<br />

funzionamento che veicola una certa immagina dell’uomo, capace <strong>di</strong> modellare la società e gli esseri umani.<br />

E si tratta <strong>di</strong> un’immagine monca e <strong>di</strong>storta. Ecco ciò che voglio esplicitare.<br />

Una descrizione del sistema<br />

Prima però vorrei proporre alcuni dati su come funziona il sistema attuale. I sociologi ci <strong>di</strong>cono che<br />

un miliardo <strong>di</strong> esseri umani vedono i loro <strong>di</strong>ritti garantiti e vivono nell’abbondanza, due miliar<strong>di</strong> fanno parte<br />

<strong>di</strong> una sorta <strong>di</strong> “periferia”, i restanti tre miliar<strong>di</strong> <strong>di</strong> persone sono totalmente esclusi dal commercio mon<strong>di</strong>ale e<br />

sono considerati “esuberi”.<br />

Se <strong>di</strong>amo un’occhiata al modo in cui sono ripartite le risorse del mondo, otteniamo un grafico che i<br />

sociologi definiscono “grafico della coppa <strong>di</strong> champagne”, per la forma caratteristica che assume.<br />

1. il primo 20% della popolazione mon<strong>di</strong>ale consuma l’82,7% delle risorse mon<strong>di</strong>ali (questi sono i<br />

paesi della cosiddetta triade: Stati Uniti, Europa occidentale, Giappone);<br />

2. il secondo 20% consuma l’11,7% delle risorse;<br />

3. il terzo 20% consuma il 2,3%;<br />

4. il quarto 20% consuma l’1,9%;<br />

5. il quinto 20%consuma l’1,4%.<br />

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Per fare maggior chiarezza sull’attuale situazione mon<strong>di</strong>ale, possiamo aggiungere altri dati: il 15%<br />

dell’umanità si accaparra l’85% dell’energia, il 92% dei risparmi, il 99% delle spese per la ricerca. Lo<br />

scenario offertoci da queste fredde statistiche è angosciante. Il Presidente della FAO, in occasione <strong>di</strong> un<br />

incontro tenutosi a Roma due anni fa (al quale non partecipò nessun capo <strong>di</strong> stato), affermo che “questo<br />

or<strong>di</strong>ne mon<strong>di</strong>ale è immorale”.<br />

Dinanzi a questo scenario mi sono posto la domanda: come mai più cresce lo sviluppo più aumenta<br />

la povertà, più si espande il mercato più cresce la sperequazione tra i ceti sociali, più aumenta l’espansione<br />

più aumenta il saccheggio della natura? C’è qualcosa <strong>di</strong> perverso all’interno del sistema. Le spiegazioni<br />

puramente politiche, le quali sostengono che sia in atto un accaparramento delle risorse da parte <strong>di</strong> coloro<br />

che detengono il potere, sono vere, ma mi paiono insufficienti. Se il sistema funziona in questa maniera,<br />

<strong>di</strong>pende non solo dagli assetti politici, ma dall’esser fondato su una certa immagine dell’essere umano e<br />

soprattutto dal fatto che, col suo stesso funzionamento, ne produce una molto <strong>di</strong>scutibile. Il problema<br />

dell’economia non è perciò esclusivamente tecnico, ma anche antropologico.<br />

Un aspetto mitico<br />

Il sistema svolge, a mio avviso, un ruolo molto particolare: sostiene l’umanità delle persone. Noi<br />

esseri umani siamo tali non solo perché siamo stati generati da un padre e da una madre, ma anche perché c’è<br />

una funzione essenziale che ci sostiene e ci permette <strong>di</strong> non sprofondare nei terrori e nella follia. La civiltà -<br />

ne abbiamo esempi quoti<strong>di</strong>ani - non ci protegge dalla barbarie. Questa funzione fondamentale deve essere<br />

riempita perché ci sia vita umana. Nelle società antiche e in quelle non raggiunte dalla modernità tale ruolo è<br />

svolto dal sacro. Quando mi capita <strong>di</strong> visitare qualche villaggio dell’interno dell’In<strong>di</strong>a, vengo a contatto con<br />

una povertà terribile e sconvolgente. Eppure le persone, nonostante la loro con<strong>di</strong>zione, riescono a mantenersi<br />

umane e a percepire che la vita ha un qualche significato e una qualche bellezza. La loro umanità è tenuta in<br />

pie<strong>di</strong> dal senso del sacro.<br />

Nel Me<strong>di</strong>oevo in Occidente Dio svolgeva il ruolo <strong>di</strong> funzione fondamentale. La sua realtà era<br />

“un’evidenza”: ogni corporazione, ogni gruppo <strong>di</strong> mestiere aveva la sua chiesa, il suo spazio sacro, perché<br />

Dio era considerato la luce essenziale senza la quale l’umanità dell’uomo sprofonda.<br />

Nell’epoca dell’Illuminismo, quando Dio perde il suo ruolo centrale, ciò che sostiene l’umanità della gente<br />

sono le ideologie. Se leggiamo le lettere dei condannati a morte della Resistenza, ad esempio, non possiamo<br />

non notare i gran<strong>di</strong> valori e le gran<strong>di</strong> idee che permeavano i loro scritti: la speranza in un mondo migliore, la<br />

ricerca della giustizia, l’impegno per l’uguaglianza. A proposito della forza dell’ideologia, mi è rimasto<br />

impresso nella memoria il film “La confessione” <strong>di</strong> Costas Gavras, sui processi staliniani in Cecoslovacchia<br />

nel 1948. Gli accusati erano spinti ad ammettere <strong>di</strong> aver “tra<strong>di</strong>to la causa”, e alla fine si convincevano a farlo,<br />

perché mantenerla in pie<strong>di</strong> era più importante che perdere la vita personale.<br />

Oggi che le gran<strong>di</strong> ideologie sono entrate in crisi, quello che sostiene l’umanità è il funzionamento<br />

della “megamacchina” economica. Noi siamo interni a un grande meccanismo che <strong>di</strong>amo per scontato e che<br />

consideriamo “la realtà”. Qui accade un fenomeno curioso: il sistema, nel ruolo <strong>di</strong> sostenitore dell’umanità<br />

dell’uomo, <strong>di</strong>venta invisibile e alla fine mitico. Nel suo aspetto esteriore (produzione, imprese transnazionali,<br />

scambi commerciali e finanziari, ecc.) esso è fin troppo visibile, ma esiste anche un ruolo nascosto in forza<br />

del quale il sistema definisce l’orizzonte <strong>di</strong> realtà, il possibile e l’impossibile. È a questo livello che esso è<br />

<strong>di</strong>ventato un mito nel senso vero e proprio della parola. Intendo per mito ciò in cui cre<strong>di</strong>amo con una<br />

intensità tale che non siamo nemmeno consapevoli <strong>di</strong> crederci.<br />

La forza del mito risiede nella fede: il mito infatti non va pensato, ma creduto. La realtà è quin<strong>di</strong><br />

l’orizzonte economico in cui viviamo: la competitività, le cosiddette leggi economiche, lo sviluppo sfrenato.<br />

Tutto appartiene a un funzionamento mitico che determina le regole del gioco, che non possono essere messe<br />

in <strong>di</strong>scussione. Infatti se qualcuno prova a esprimere una idea <strong>di</strong>versa, viene subito tacciato <strong>di</strong> utopismo. Il<br />

mito è come l’orizzonte: siamo talmente interni ad esso che non riusciamo a vederlo. Panikkar usa<br />

un’immagine simpatica per spiegare che il mito ci è invisibile: è come se due signore si parlassero in uno<br />

stretto vicolo <strong>di</strong> Napoli; ognuna vede il vano della finestra da cui parla l’altra, ma non vede il proprio. Io non<br />

posso vedere il mito su cui mi fondo, sono gli altri a rivelarmelo. E tutte le culture riposano su una base<br />

mitica. Se, ad esempio, vado in In<strong>di</strong>a e vedo che le persone fino alle 10 del mattino non vanno in ufficio, io,<br />

77


stupito, mi domando come mai. Ignoro che nel mito dell’Induismo le prime ore della giornata sono de<strong>di</strong>cate<br />

alla preghiera ed alla me<strong>di</strong>tazione. Quando qualsiasi non occidentale arriva nella nostra società e si accorge<br />

che ogni cosa è ridotta a merce, che tutto è monetizzato, si chiede che razza <strong>di</strong> civiltà è la nostra, dove tutto<br />

può essere acquistato o venduto. La realtà è quin<strong>di</strong> determinata dall’orizzonte del mito.<br />

Ogni mito si esprime in un racconto, come ben sanno gli storici delle religioni. È fondamentale allora<br />

chiedersi qual è il racconto della nostra modernità e com’è articolato il mito contemporaneo. Il desiderio,<br />

meglio sarebbe <strong>di</strong>re la voglia, è al centro del funzionamento del sistema: la voglia <strong>di</strong> comprare, <strong>di</strong> acquistare<br />

da parte del consumatore. La bramosia <strong>di</strong> possedere e <strong>di</strong> consumare separa gli uomini e determina la nascita<br />

della competizione, parola meno brutale <strong>di</strong> guerra, <strong>di</strong> cui è l’espressione accettabile e quasi universalmente<br />

accolta. La competitività universalizzata sembra la realizzazione della visione hobbesiana dell’homo homini<br />

lupus, o della darwiniana lotta per la sopravvivenza in cui qualcuno deve soccombere perché l’altro viva. La<br />

voglia quin<strong>di</strong> separa e rende avi<strong>di</strong> e introduce la guerra nel cuore del sistema.<br />

Ma il desiderio non è statico, va tenuto sempre vivo. Questa funzione è svolta dalla pubblicità, che<br />

crea sempre nuovi bisogni, in modo che la voglia non cali e la megamacchina non s’inceppi.<br />

Cosa accade esistenzialmente all’uomo della modernità? Esso è sostanzialmente vuoto, perché il suo unico<br />

scopo è quello <strong>di</strong> possedere: un autore francese afferma ironicamente che noi siamo “il Terzo Mondo della<br />

spiritualità”, dato che abbiamo ridotto l’essere umano a pura naturalità.<br />

Dei tre pronomi personali, che costituiscono l’intelaiatura della vita umana prima che della grammatica, la<br />

società contemporanea declina solo il terzo, la cosa. Gli altri due sono eliminati in partenza .<br />

Non c’è posto per l’io, cioè per tutto il mondo dell’interiorità e della spiritualità, quell’io che le<br />

civiltà dell’Oriente percepiscono come il “tu” del grande Io <strong>di</strong> cui non si può <strong>di</strong>re niente. La sensibilità<br />

dell’Oriente non si permetterebbe <strong>di</strong> dare del “tu” a Dio, ma <strong>di</strong>rebbe che c’è un unico Io e che noi siamo i<br />

suoi “tu”. E’ l’Io che ci identifica.<br />

Anche il pronome “tu” non se la passa bene sotto la <strong>di</strong>ttatura dell’economico, perché <strong>di</strong>venta sempre<br />

più spesso oggetto: <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>o, <strong>di</strong> analisi, magari <strong>di</strong> cura, ma sempre oggetto rimane. L’altro assurge raramente<br />

a soggetto <strong>di</strong> autocomprensione e fonte <strong>di</strong> iniziativa. Vorrei illustrare questa linea <strong>di</strong> caduta raccontando un<br />

aneddoto che mi è realmente accaduto. Un giorno una ragazzina del doposcuola mi ha confessato <strong>di</strong> essere<br />

anarchica. Quando le ho chiesto che cosa significasse per lei questa parola, mi ha risposto con una frase<br />

stupefacente, che descrive a pennello l’in<strong>di</strong>vidualismo della società in cui stiamo vivendo: «essere anarchici<br />

significa che ognuno fa quello che gli pare». Ma una società del genere, in cui la voglia del singolo è<br />

scatenata, non può che sfociare nella violenza. Ecco dove ci conduce la povertà relazionale coltivata dal<br />

sistema dominante.<br />

Nemmeno il pronome “noi” esiste più, in una società composta da in<strong>di</strong>vidui atomizzati, tutti intenti a<br />

occuparsi del proprio particulare. Una sommatoria <strong>di</strong> in<strong>di</strong>vidui non può realizzare una comunità, né avere<br />

una visione del bene comune. Questo ci fa capire che anche la politica, intesa come l’arte <strong>di</strong> costruire la<br />

polis, sia ormai finita. Non è un caso che oggi la politica sia ridotta all’arte <strong>di</strong> accaparrarsi e gestire il potere,<br />

e dunque a pura tecnica, senza nessun sussulto etico. I pronomi personali su cui è costruita la realtà vengono<br />

quin<strong>di</strong> svuotati e la comunità svanisce.<br />

L’antropologia del sistema<br />

Vorrei chiedermi ora che cosa è l’uomo secondo il funzionamento del sistema dominante.<br />

Schematizzerei così la mia descrizione:<br />

• L’uomo appare connotato come un fascio <strong>di</strong> bisogni che si sod<strong>di</strong>sfano attraverso il possesso e il<br />

consumo. Nessuna apertura ra<strong>di</strong>cale, nessuna percezione che l’uomo è anche l’essere dell’apertura<br />

infinita. Quando nella vita umana si ottura lo spazio della trascendenza, sorgono idoli d’ogni specie. Ha<br />

ragione il poeta brasiliano ad affermare che “il verbo avere è la morte <strong>di</strong> Dio”. E probabilmente la sua<br />

intuizione è più profonda <strong>di</strong> quella <strong>di</strong> Nietzsche.<br />

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• I bisogni umani vengono considerati oggettivabili, quantificabili: sono matematizzati, misurati, calcolati.<br />

Dunque tutto si può vendere e comprare e tutto può entrare nel mercato: persone, organi, sessualità,<br />

sanità, scuola, servizi. Questo, secondo me, è il vero materialismo, che ha spogliato la realtà della sua<br />

<strong>di</strong>mensione simbolica e l’ha ridotta a semplice cosa. Nel simbolo non c’è <strong>di</strong>stinzione tra soggetto ed<br />

oggetto: conosco perché partecipo, non perché razionalizzo. Se questo modo <strong>di</strong> leggere la vita, il corpo<br />

umano e la sessualità va in crisi, si sprofonda nel materialismo più gretto. Purtroppo anche la Chiesa non<br />

si è accorta della pericolosità <strong>di</strong> questo atteggiamento. Smarrire la <strong>di</strong>mensione simbolica significa<br />

avviarsi verso una sorta <strong>di</strong> “prostituzione generalizzata”, dove tutto è ridotto a oggetto e si spalancano le<br />

derive patologiche.<br />

• I bisogni dell’uomo sono in espansione infinita e la pubblicità li incentiva in maniera incessante. L’uomo<br />

rincorre bisogni sempre più velocemente e nevroticamente. La corsa verso il possesso e il consumo è<br />

inarrestabile. Non c’è più nemmeno il tempo <strong>di</strong> pensare e, alla fine, <strong>di</strong> essere. L’uomo contemporaneo è<br />

un uomo “scoppiato”, oppresso dal giogo del sistema, che produce, come frutti avvelenati, stanchezza e<br />

rassegnazione.<br />

Una prospettiva<br />

Lo scopo <strong>di</strong> questa descrizione non è <strong>di</strong> paralizzare l’ascoltatore inchiodandolo alla sua impotenza,<br />

ma <strong>di</strong> far chiarezza sulla situazione dalla quale partiamo, perché sono convinto che sia possibile cambiare<br />

<strong>di</strong>rezione. Per farlo credo che sia necessaria una grande rivoluzione della cultura, che permetta <strong>di</strong> leggere la<br />

realtà con occhi <strong>di</strong>fferenti e renda possibile una sua trasformazione ra<strong>di</strong>cale.<br />

Il problema che ci inquieta è come uscire dalle spire del sistema per non rimanervi soffocati. Questa<br />

operazione ha bisogno <strong>di</strong> articolarsi attraverso due momenti essenziali, una fase <strong>di</strong> decostruzione che i<br />

me<strong>di</strong>oevali chiamavano pars destruens, e una fase propositiva, la pars construens.<br />

Uscire dal mito<br />

La prima cosa da fare è quin<strong>di</strong> destrutturare una certa immagine dell’uomo e del mondo. E’<br />

necessario iniziare a leggere con luci<strong>di</strong>tà la realtà in cui ci muoviamo, anche con pensieri e parole nuovi.<br />

Confucio, nel VI° secolo a.C., a chi gli chiedeva come portare la pace nei regni cinesi del sud insanguinati da<br />

continue lotte e guerre civili, rispondeva che il processo verso la pace doveva iniziare con il cambiamento<br />

del linguaggio. Anche oggi chi ha potere sulle parole ha potere sulla realtà. Basti pensare a chi controlla in<br />

Italia il sistema massme<strong>di</strong>atico.<br />

Faccio alcuni esempi <strong>di</strong> decostruzione linguistica iniziando dalla parola “sviluppo”. Tutti oggi<br />

parlano <strong>di</strong> sviluppo, dagli industriali agli ambientalisti, che aggiungono a questo termine l’aggettivo<br />

“sostenibile”. Ma lo sviluppo non può essere infinito, perché le risorse della Terra sono limitate. «Chi crede<br />

che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un folle oppure un<br />

economista» recitava l’esergo <strong>di</strong> un recente libro sulla decrescita. Lo sviluppo, anche quello sostenibile, è<br />

una contrad<strong>di</strong>zione in termini. Il concetto stesso <strong>di</strong> sviluppo non è universale. Panikkar qualche tempo fa, nel<br />

corso <strong>di</strong> un seminario con alcuni politici italiani, sosteneva che la parola “sviluppo” in Oriente è<br />

incomprensibile. Se invece <strong>di</strong> parlare <strong>di</strong> “sviluppo dei popoli” avessimo parlato <strong>di</strong> “illuminazione dei<br />

popoli”, la mentalità orientale avrebbe potuto comprendere meglio.<br />

Analizziamo un’altra mistificazione delle parole: la libertà <strong>di</strong> mercato è stata scambiata per la libertà<br />

tout court; ma questa è un’appropriazione indebita, perché questo tipo <strong>di</strong> libertà può essere esercitato solo da<br />

chi ha i mezzi per stare sul mercato. E chi non ce li ha? Abbiamo definito come libertà una possibilità che<br />

può essere goduta da un ristretto numero <strong>di</strong> persone. Quale libertà <strong>di</strong> mercato ha l’Africa, ad esempio, con i<br />

suoi 650 milioni <strong>di</strong> persone?<br />

Un altro aspetto da demitizzare è l’identificazione tra interesse privato e amore verso il prossimo. Per<br />

oltre 200 anni - da Adam Smith in poi - è stato detto che chi persegue il profitto personale è un benefattore<br />

dell’umanità. Ci pensa poi la “mano invisibile” della Divina Provvidenza a trasformare i nostri vizi privati in<br />

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pubbliche virtù. Si è potuto camuffare l’interesse privato come la migliore forma <strong>di</strong> amore del prossimo solo<br />

perché “l’etica si è appisolata” e ha permesso uno stravolgimento ra<strong>di</strong>cale del Vangelo.<br />

Un ulteriore punto car<strong>di</strong>ne del mito dominante è la naturalizzazione delle regole del mercato. Gli<br />

economisti neoliberali tentano <strong>di</strong> convincerci che le regole del mercato sono regole naturali, che devono<br />

essere accolte senza interventi correttivi, che sarebbero autentici sacrilegi. Hayek, il caposcuola del<br />

neoliberismo, affermava che <strong>di</strong>scutere <strong>di</strong> giustizia sociale significava parlare <strong>di</strong> una realtà senza senso. In<br />

questa concezione il mercato viene visto come una <strong>di</strong>vinità <strong>di</strong> fronte alla quale tutti si devono inchinare e<br />

qualcuno deve essere sacrificato. Banca Mon<strong>di</strong>ale e Fondo Monetario Internazionale sono i guar<strong>di</strong>ani <strong>di</strong> tale<br />

<strong>di</strong>vinità.<br />

E’ necessario quin<strong>di</strong> destrutturate il mito del mercato, rendere evidente che la libertà non equivale<br />

alla libertà <strong>di</strong> mercato, che l’interesse privato non s’identifica con l’amore per il prossimo, che le regole del<br />

mercato non scaturiscono dalla natura, che lo sviluppo è una concezione tipicamente occidentale.<br />

Un’altra visione della vita<br />

Ma l’atteggiamento critico non è sufficiente. Occorre una visione della vita <strong>di</strong>fferente. Bisogna<br />

ripartire da quella luce che sostiene davvero l’umanità delle persone e che sta nella relazione <strong>di</strong> amore tra gli<br />

esseri umani. Pensiero, parola e azione vivono <strong>di</strong> questa luce. Se l’uomo abita questa chiarezza primor<strong>di</strong>ale<br />

può amare se stesso, il volto dell’altro sarà dono e non minaccia, la voce parola umana, il corpo espressione<br />

d’amore. Il luogo dell’inaccessibile è la relazione tra gli uomini: i primi cristiani <strong>di</strong>cevano che solo chi ama è<br />

nato da Dio e conosce Dio, perché Dio è amore. E l’amore, scrive Paolo, non avrà fine.<br />

Se c’è questa capacità <strong>di</strong> accogliersi reciprocamente, tutto può funzionare. In questa ottica anche il<br />

poco cibo può nutrire. C’è un episo<strong>di</strong>o della storia me<strong>di</strong>oevale, non so se storico o leggendario, che mi ha<br />

molto colpito. Federico II <strong>di</strong> Svevia, sovrano molto curioso, voleva sapere come facevano i bambini ad<br />

imparare a parlare. Or<strong>di</strong>nò allora a <strong>di</strong>eci nutrici <strong>di</strong> allattare <strong>di</strong>eci bambini con l’obbligo però <strong>di</strong> non proferire<br />

mai parola. I bambini mangiano, ricevono il latte, ma dopo un certo tempo muoiono tutti. Questo <strong>di</strong>mostra<br />

che l’uomo non vive solo <strong>di</strong> cibo, ma, se manca quell’alimento essenziale che è l’amore, sprofonda. È la<br />

tenerezza il vero nutrimento degli umani.<br />

Come si può tradurre questa prospettiva nel campo dell’economia e della società? Dobbiamo<br />

sostituire i car<strong>di</strong>ni della cultura dominante, la quale afferma che tutto è monetizzabile, che si deve competere<br />

per vincere, che l’espansione è inarrestabile. Occorre quin<strong>di</strong> iniziare a sottrarre al mercato ciò che non è<br />

mercificabile: l’amicizia, l’amore, la fede, la scienza, la saggezza, la cultura, la salute, l’istruzione non sono<br />

mercificabili. Lo scopo della vita non è arricchirsi, ma <strong>di</strong>ventare più umani. Dobbiamo reagire a questa<br />

cultura della competitività, che insinua che la vita umana è la lotta <strong>di</strong> tutti contro tutti in cui solo i più forti<br />

hanno il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> sopravvivere.<br />

All’assioma dell’esclusione dovremmo contrapporre quello della solidarietà, iniziando a costruire<br />

legami <strong>di</strong> reciproca accoglienza. I veri benefattori dell’umanità oggi sono le persone che tessono legami, che<br />

si occupano <strong>di</strong> solidarietà, che rafforzano i rapporti tra le persone. Occorre riven<strong>di</strong>care la responsabilità<br />

collettiva nel governare la società, non delegando questo compito solo ai ricchi. Ancora: è urgente ricreare<br />

uno spazio simbolico comune attraverso pratiche <strong>di</strong> relazione. Mi ha sempre colpito un’affermazione degli<br />

storici secondo la quale gli In<strong>di</strong>os sono stati sterminati dagli spagnoli, perché tra loro e i conquistatori non<br />

c’era uno spazio simbolico comune: come <strong>di</strong>re che se non esiste un minimo <strong>di</strong> pensiero comune gli uomini si<br />

uccidono a vicenda.<br />

All’espansione illimitata dovremmo contrapporre il rispetto dei beni comuni dell’umanità: e a coloro<br />

che presentano la privatizzazione come panacea universale, possiamo ricordare che l’acqua, l’aria, la terra<br />

sono beni <strong>di</strong> tutti! Ivan Illich affermava che è necessario creare una “società conviviale”, io, molto più<br />

modestamente, penso che sia urgente incamminarsi verso una “decrescita conviviale”.<br />

La grande trasformazione<br />

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È necessario promuovere una grande trasformazione culturale e sociale. Se ci sorregge l’ispirazione<br />

che nasce da una più profonda visione della vita, tutto può essere trasformato, anche gli assiomi del sistema<br />

dominante, che nel loro nucleo più profondo non <strong>di</strong>cono quello che il sistema li costringe a <strong>di</strong>re. Il concetto<br />

<strong>di</strong> espansione, ad esempio, è sbagliato se lo inten<strong>di</strong>amo in senso quantitativo, ma non se lo interpretiamo in<br />

senso qualitativo: più arte, più scienza, più cultura, più rapporti umani, più contemplazione. In quest’ottica la<br />

competitività non sarebbe la guerra per <strong>di</strong>struggerci reciprocamente o per fare più sol<strong>di</strong>, ma la gara per<br />

lottare contro ciò che ci <strong>di</strong>sumanizza, una sorta <strong>di</strong> emulazione per riuscire ad essere più umani. In un’ottica<br />

simile il mercato è necessario e ha una sua funzione ben precisa e positiva: esprime il vero ritmo della vita,<br />

dare e ricevere. Donando, l’uomo riconosce la sua vera potenza, ricevendo ammette il suo limite. Ma il<br />

mercato non deve <strong>di</strong>ventare una <strong>di</strong>vinità, a cui sacrificare vite umane.<br />

Lo stesso ragionamento possiamo farlo per il denaro, che non dovrebbe essere né demonizzato né<br />

<strong>di</strong>sonorato, perché rappresenta un’apertura <strong>di</strong> possibilità. Oserei prendere le <strong>di</strong>stanze dall’atteggiamento<br />

suggerito da un apologo riportato dalle Fonti Francescane. Francesco era così convinto che il verbo avere<br />

rappresentasse la morte <strong>di</strong> Dio, che una volta costrinse un suo frate a gettare una moneta d’oro, donata da un<br />

signore, sullo sterco <strong>di</strong> vacca. Un gesto che esprime il desiderio <strong>di</strong> mantenersi liberi dall’idolatria del denaro,<br />

ma che non ne riconosce gli aspetti positivi. Non si tratta <strong>di</strong> rifiutarlo per principio, ma <strong>di</strong> liberarlo<br />

dall’onnipotenza delirante del sistema<br />

Insomma, la grande trasformazione, <strong>di</strong> cui sto tentando <strong>di</strong> delineare il profilo, è un lavoro a lungo<br />

termine che punta alla conversione del desiderio umano, impedendo che sia ridotto a voglia compulsiva. Per<br />

realizzare un cambiamento del genere occorre recuperare il reale nell’integralità delle sue <strong>di</strong>mensioni: <strong>di</strong>vina<br />

<strong>di</strong> trascendenza e libertà, umana <strong>di</strong> coscienza e relazionalità, cosmica <strong>di</strong> appartenenza alla terra. Senza<br />

<strong>di</strong>mensione <strong>di</strong>vina c’è asfissia e <strong>di</strong>sperazione, senza <strong>di</strong>mensione umana solitu<strong>di</strong>ne e funzionalismo, senza<br />

rapporto con la terra si <strong>di</strong>venta meccanici e violenti. In questa prospettiva l’uomo non è un oggetto, ma il<br />

punto dove cosmico e <strong>di</strong>vino si incontrano. Il cosmo altro non è che il nostro corpo più grande; perciò la<br />

natura va trattata con mitezza, come facevano gli antichi. Gli in<strong>di</strong>ani, ad esempio, chiedevano scusa prima <strong>di</strong><br />

tagliare un albero: un atteggiamento che si coniuga perfettamente con l’esigenza <strong>di</strong> sod<strong>di</strong>sfare i bisogni, ma<br />

non con la prospettiva dell’accumulo.<br />

La grande trasformazione non è una palingenesi che piomberà dal cielo, ma una mutazione che<br />

comincia dappertutto là dove noi abbiamo un potere reale. Siamo in effetti poco consapevoli delle nostre<br />

possibilità. Abbiamo il potere <strong>di</strong> parlare, <strong>di</strong> comunicare, <strong>di</strong> scegliere cosa acquistare, <strong>di</strong> tenere un determinato<br />

stile <strong>di</strong> vita, <strong>di</strong> risparmiare, <strong>di</strong> fare politica. Noi deleghiamo tutti questi poteri, ecco perché spesso siamo<br />

scoraggiati e rassegnati. «Siate nella vostra vita quel cambiamento che vorreste veder realizzato nel mondo»,<br />

aveva ammonito Gandhi, legando l’aspetto sociale con quello interiore.<br />

La grande trasformazione che tento <strong>di</strong> proporre è un vero e proprio viaggio, che, come scrive Proust<br />

in una elegia, “non consiste nell’andare verso nuovi orizzonti, ma nell’avere altri occhi”.<br />

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Bruno Amoroso<br />

“Oltre lo stato del benessere: quali obiettivi per una buona società”<br />

Conferenza tenutasi il 21 giugno 2004<br />

Bruno Amoroso é docente <strong>di</strong> economia internazionale e dello sviluppo all'Università <strong>di</strong> Roskilde (Danimarca),<br />

coor<strong>di</strong>na programmi <strong>di</strong> ricerca e cooperazione con paesi dell'Asia e del Me<strong>di</strong>terraneo, è promotore del Gruppo <strong>di</strong><br />

Lugano, un osservatorio sugli effetti della globalizzazione ed infine è attivo nella cooperazione internazionale, avendo<br />

promosso <strong>di</strong>verse iniziative e progetti <strong>di</strong> cooperazione <strong>di</strong> ONG italiane e straniere in Vietnam.<br />

Autore <strong>di</strong> vari testi fra i quali ricor<strong>di</strong>amo “Della Globalizzazione” (1996), uno dei primi testi <strong>di</strong> analisi e<br />

<strong>di</strong>vulgazione sugli effetti della globalizzazione, “L'apartheid Globale” (1999), “Europa e Me<strong>di</strong>terraneo” (2000).<br />

Recentemente ha pubblicato “La stanza rossa - riflessioni scan<strong>di</strong>nave <strong>di</strong> Federico Caffè”. Ricor<strong>di</strong>amo anche la sua<br />

pubblicazione danese “Vredens Ar” (Gli anni della rabbia) (1982), una raccolta <strong>di</strong> scritti politici <strong>di</strong> Pisolini.<br />

Dagli anni ’90 ad oggi nel Mondo e quin<strong>di</strong> anche in Europa, abbiamo assistito a molti cambiamenti<br />

economici e tecnologici, alla nascita <strong>di</strong> nuovi poli economico-finanziari e ad una sempre maggior<br />

inter<strong>di</strong>pendenza tra aree <strong>di</strong>verse…in una parola alla genesi della globalizzazione.<br />

Nel 1998, quando descrissi questo scenario, che definivo <strong>di</strong> “apartheid globale”, tentavo <strong>di</strong> mettere in<br />

luce i possibili rischi <strong>di</strong> un processo <strong>di</strong> globalizzazione economica incentrato solo ed esclusivamente su<br />

alcune aree del mondo, cioè i paesi della Triade: Stati Uniti, Giappone ed Unione Europea. Quando alla fine<br />

degli anni ’90 descrivevo i rischi derivanti da una gestione esclusiva della globalizzazione, trasformata, come<br />

già detto, in “apartheid globale”, venivo spesso accusato <strong>di</strong> eccessivo ed ingiustificato pessimismo. Penso<br />

però che quello che è accaduto dal 2000 in poi non possa che confermare le mie previsioni, da considerare<br />

oggi, semmai, troppo possibiliste rispetto agli scenari alternativi che allora cercavo <strong>di</strong> configurare.<br />

Questa sera però non voglio descrivere le miserie dell’esistente ma concentrarmi sulle ragioni<br />

dell’ottimismo (l’ottimismo della ragione) e sulle prospettive possibili. E’ possibile pensare ad un futuro,<br />

poiché, nonostante i <strong>di</strong>sastri prodotti da un certo tipo <strong>di</strong> sviluppo, il nostro pianeta <strong>di</strong>mostra ogni giorno <strong>di</strong><br />

avere le risorse per migliorare. Le capacità <strong>di</strong> resistenza, della natura e dei popoli, si stanno rivelando ancora<br />

forti e vitali anche se si tenta <strong>di</strong> svilirli e denigrarli riducendoli a fenomeni <strong>di</strong> “terrorismo” o <strong>di</strong> “fanatismo<br />

religioso”.<br />

Al <strong>di</strong> fuori del nostro mondo, quello occidentale, esistono fortunatamente altri mon<strong>di</strong> non statici ma<br />

<strong>di</strong>namici.<br />

Molte aree asiatiche sono in continua crescita (pensiamo alla Cina, al sud est asiatico ed in parte all’In<strong>di</strong>a) ed<br />

anche determinati paesi dell’America Latina stanno riscoprendo una nuova vitalità. Lo scenario mon<strong>di</strong>ale ci<br />

rende quin<strong>di</strong> consapevoli dei rischi della globalizzazione, ma anche delle occasioni che essa offre: vie<br />

<strong>di</strong>verse verso la crescita ed il risveglio dei popoli e delle comunità che si vanno delineando rappresentano il<br />

bisogno <strong>di</strong> <strong>di</strong>fesa e <strong>di</strong> risposta nei confronti della globalizzazione. Iniziamo quin<strong>di</strong> ad analizzare insieme<br />

prospettive e possibilità future.<br />

La <strong>di</strong>scussione sullo stato sociale sembra si vada arenando su problemi e conflitti <strong>di</strong> bilancio e <strong>di</strong><br />

ripartizione delle risorse, mentre restano sempre più in ombra la <strong>di</strong>scussione e la ricerca su quale tipo <strong>di</strong><br />

benessere e quale società vogliamo. I problemi <strong>di</strong> bilancio sono certamente importanti, purché alla base ci sia<br />

un progetto riconosciuto ed organico <strong>di</strong> riforma dello stato sociale ed un’idea <strong>di</strong> società e <strong>di</strong> comunità, senza<br />

le quali, invece <strong>di</strong> uscire dai problemi e dalle contrad<strong>di</strong>zioni che si sono generate si finisce con “incartarsi”<br />

sempre <strong>di</strong> più all’interno <strong>di</strong> esse.<br />

Non sono affatto convinto che il problema dell’istruzione pubblica sia unicamente un problema <strong>di</strong><br />

reperimento <strong>di</strong> fon<strong>di</strong>, ma <strong>di</strong> quale tipo <strong>di</strong> scuola vogliamo. Nessuno ci <strong>di</strong>ce quale sia il concetto <strong>di</strong><br />

educazione da attuare. Durante i recenti <strong>di</strong>battiti sulla riforma della scuola non ho mai sentito citare alcuni<br />

dati che dovrebbero farci riflettere: in Italia il 37% della popolazione non ha la licenza elementare, mentre<br />

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quasi il 50% non possiede la licenza me<strong>di</strong>a. A questo aggiungete i noti fenomeni <strong>di</strong> analfabetismo <strong>di</strong> ritorno<br />

degli adulti e ne ricaverete un quadro inquietante per una popolazione adulta che non ha <strong>di</strong> fatto i mezzi per<br />

una partecipazione libera, attiva e democratica alla vita politica, e non solo, del paese.<br />

Perché poi sorprenderci del ruolo predominante svolto dai mezzi <strong>di</strong> informazione, del loro livello <strong>di</strong><br />

“qualità”, della deriva presa dalla vita politica sia per quanto riguarda i contenuti che per le forme?<br />

Presentare i fenomeni della politica e della comunicazione come degenerazioni estranee alla cultura del paese<br />

è inesatto. Estranei alla cultura del paese sono le chiacchiere vuote sulla democrazia, la partecipazione,<br />

l’etica, ecc. <strong>di</strong> cui si alimentano i club della borghesia liberale e <strong>di</strong> sinistra per riba<strong>di</strong>re l’importanza del loro<br />

ruolo <strong>di</strong> privilegiati e <strong>di</strong> consiglieri del principe (al quale non rinunciano in tutte le stagioni).<br />

Un problema <strong>di</strong> emancipazione, anche culturale, riguarda oggi la totalità del paese (e non solo<br />

dell’Italia). Per questo la riforma della scuola non riguarda solamente i bambini, ma tutta la popolazione. Le<br />

scuole dovrebbero stare aperte tutto il giorno, dovrebbero essere a <strong>di</strong>sposizione anche dei genitori. Non si<br />

tratta <strong>di</strong> <strong>di</strong>scutere le ore <strong>di</strong> insegnamento dell’inglese o dell’italiano per questa o quella classe, ma <strong>di</strong><br />

ritrasformare le scuole e le università in cantieri sociali aperti, giorno e notte, dove lavoro retribuito e lavoro<br />

volontario si incontrano, scambiando i propri ruoli. Una scuola senza un legame territoriale al quartiere, alla<br />

vita quoti<strong>di</strong>ana e priva <strong>di</strong> un legame materiale con le persone che ci vivono, non è auspicabile.<br />

E’ necessario pensare a una scuola che preveda percorsi paralleli <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>o per bambini e genitori, una scuola<br />

dove insegni solo chi ha la passione e la voglia <strong>di</strong> farlo, dove il mestiere dell’insegnante sia una scelta <strong>di</strong><br />

impegno sociale, decisa da chi nei quartieri vive e vuole starci.<br />

La scuola non può essere affidata a protocolli burocratici ed a pratiche <strong>di</strong> reclutamento dove il<br />

formalismo della selezione si sostituisce al rapporto sociale e culturale che ogni insegnante deve avere con la<br />

realtà in opera. Se è vero, come siamo <strong>di</strong> certo tutti d’accordo, che la scuola non è una “azienda”, dobbiamo<br />

anche con<strong>di</strong>videre l’idea che la scuola non può essere amministrata attraverso pratiche burocratiche e<br />

sindacali adatte, forse, ad altri organismi e strutture.<br />

Problemi analoghi riguardano anche altri settori chiave della vita dei citta<strong>di</strong>ni come, ad esempio, la<br />

sanità.<br />

La devoluzione del settore pubblico e dei beni pubblici, iniziata ben prima che la Lega introducesse questo<br />

tema (e nel silenzio <strong>di</strong> tutti), è il risultato del graduale impoverimento dei concetti <strong>di</strong> bene comune e <strong>di</strong> bene<br />

pubblico, della loro graduale sostituzione con il bene privato con i beni <strong>di</strong> consumo che una alleanza<br />

perversa tra biechi interessi impren<strong>di</strong>toriali e corporativi ha introdotto.<br />

In Italia esiste l’esigenza delle riforme che però, un po’ per cause endogene, un po’ per vincoli<br />

derivanti dall’Unione Europea, non riescono quasi mai ad essere approntate. Dobbiamo anche riconoscere<br />

che ci troviamo in un doppio imbarazzo poiché <strong>di</strong> fronte alla prudenza ed all’opportunismo <strong>di</strong> una sinistra<br />

che non sa più proporre riforme (parlo <strong>di</strong> quelle vere, derivanti dalla tra<strong>di</strong>zione storica del movimento<br />

operaio e della sinistra) ci troviamo in assenza <strong>di</strong> nostre proposte ed in presenza <strong>di</strong> proposte <strong>di</strong> riforma che<br />

vengono da altre sponde e anzitutto dall’Unione Europea, proposte che però non ci convincono.<br />

Penso che tutti noi siamo d’accordo sulla necessità <strong>di</strong> conservare il meglio del modello sociale<br />

europeo, un modello che deriva dalla secolare aspirazione europea alla coesione sociale. L’accordo sul<br />

modello non deve ovviamente rendere ciechi sui suoi limiti. E non certo per motivi <strong>di</strong> perfezionismo ma<br />

perché i suoi limiti ne minano alla lunga la sua sostenibilità ed i meccanismi del consenso sul quale deve<br />

reggersi. Così come puntualmente sta avvenendo. Riaffermare significa ripensare.<br />

Quali obbiettivi quin<strong>di</strong>, per una buona società? Cosa è la buona società? Quali caratteristiche<br />

dovrebbe avere? Sono dell’idea che sia necessario ragionare con il termine “buona società”, perché non è<br />

detto che lo stato sociale, e quin<strong>di</strong> lo Stato, rappresenti totalmente la buona società. Lo Stato non è altro che<br />

uno strumento della buona società. Ma oltre allo strumento è necessario (ri)pensare ai suoi obiettivi<br />

Mettere a fuoco gli obbiettivi è il fine <strong>di</strong> un progetto al quale stiamo lavorando a livello europeo e<br />

mon<strong>di</strong>ale. E’ un progetto nato dall’ispirazione <strong>di</strong> Riccardo Petrella, <strong>di</strong>rigente nei primi anni ’90 della sezione<br />

scienza e tecnologia dell’Unione Europea (FAST_MONITOR). Nel 1995 Petrella dette inizio ad una vasta<br />

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icerca destinata a tracciare gli scenari futuri dell’Europa: l’idea era quella <strong>di</strong> pensare ad un modello <strong>di</strong><br />

società adatto a 6 miliar<strong>di</strong> <strong>di</strong> abitanti, <strong>di</strong> riflettere su un sistema europeo compatibile con la crescente<br />

internazionalizzazione e mon<strong>di</strong>alizzazione. Un progetto che voleva già allora delineare alternative al modello<br />

<strong>di</strong> apartheid della globalizzazione che si andava delineando.<br />

Petrella fu cacciato dall’Unione Europea dal socialista Jacques Delors, a quel tempo Presidente<br />

dell’Unione. Erano <strong>di</strong>fficili i primi del ’90 a causa delle prospettive future derivanti dalla caduta del muro <strong>di</strong><br />

Berlino, avvenuta nel 1989. Nacque uno scontro all’interno dell’UE su quale tipo <strong>di</strong> Europa costruire. Quale<br />

modello seguire? Nacquero due scuole <strong>di</strong> pensiero:<br />

o Secondo Delors ed altri l’Europa Occidentale avrebbe dovuto stabilire rigi<strong>di</strong> criteri ai quali i paesi<br />

dell’ex blocco comunista si sarebbero dovuti attenere per entrare a far parte dell’UE (questa linea <strong>di</strong><br />

pensiero ha continuato a dominare incontrastata fino all’attuale presidenza Pro<strong>di</strong>). L’Europa occidentale<br />

avrebbe quin<strong>di</strong> dovuto estendere i propri “valori” fino agli Urali. La proposta quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> un modello<br />

eurocentrico e occidentale <strong>di</strong> crescita europea (l’Europa franco-carolingia secondo la definizione <strong>di</strong><br />

Massimo Cacciari), esteso anche ad aree esterne rispetto a quella <strong>di</strong> appartenenza geografica e culturale.<br />

o Petrella ed altri ricercatori, me compreso, affermavano invece che l’artificiale <strong>di</strong>visione in due blocchi<br />

(occidentale ed orientale) che l’Europa aveva dovuto patire fino al 1989 aveva provocato limiti culturali<br />

molto forti, sia ad est che ad ovest. L’Europa del futuro avrebbe quin<strong>di</strong> dovuto essere il risultato <strong>di</strong> un<br />

mix culturale, tecnologico e scientifico tra Europa occidentale, centrale, nor<strong>di</strong>ca, me<strong>di</strong>terranea ed<br />

orientale. La proposta era quella <strong>di</strong> un modello policentrico, basato su una struttura federale dell’UE, nel<br />

rispetto e nella valorizzazione delle varie culture che compongono il mosaico europeo.<br />

Vinse la prima scuola <strong>di</strong> pensiero, quella “occidentalo-centrica”, quella dell’ “l’Europa siamo noi”.<br />

Petrella fu quin<strong>di</strong> cacciato dall’Unione Europea e successivamente costituì il cosiddetto “Gruppo <strong>di</strong> Lisbona”<br />

che produsse un documento intitolato “I limiti della crescita”, uno dei primi contributi forti alla critica della<br />

globalizzazione.<br />

Negli ultimi anni Petrella ha costruito un gruppo <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>o internazionale basato sull’idea del Bene<br />

Comune: quali obiettivi per una buona società? E’ stata costituita anche un’accademia, chiamata “Università<br />

del bene comune” che cerca <strong>di</strong> pensare ad un modello che non riguar<strong>di</strong> solamente i 600 milioni <strong>di</strong> persone<br />

più ricche del pianeta. L’obiettivo è quello <strong>di</strong> riscoprire le potenzialità dell’economia mondo, <strong>di</strong> un sistema<br />

che riguarda 6 miliar<strong>di</strong> <strong>di</strong> persone. Il concetto <strong>di</strong> bene comune è globale, non conosce confini.<br />

L’Università del bene comune prevede una serie <strong>di</strong> elaborazioni e ricerche ispirati a tre concetti<br />

fondamentali:<br />

o Immaginare. Il primo passo per riscoprire i saperi è quello <strong>di</strong> immaginare il mondo creando gruppi <strong>di</strong><br />

stu<strong>di</strong>o che si pongano il fine <strong>di</strong> pensare. Immaginare significa assumere come dato <strong>di</strong> fatto che il presente<br />

va superato attraverso forme nuove <strong>di</strong> esistenza e <strong>di</strong> convivenza. Ecco perché l’immaginazione deve<br />

andare “oltre lo stato del benessere”: il benessere non è sufficiente. Dobbiamo immaginare un nuovo<br />

sistema sanitario, un nuovo sistema scolastico, una nuova economia, un nuovo modo <strong>di</strong> vivere e stare<br />

insieme.<br />

o Con<strong>di</strong>videre. Immaginare non basta, bisogna con<strong>di</strong>videre e socializzare le idee e le conoscenze.<br />

o Agire. In questo contesto il fare <strong>di</strong>venta la verifica delle nostre idee. L’Università del bene comune non è<br />

quin<strong>di</strong> rivolta agli studenti, ma a persone che già fanno e che possono quin<strong>di</strong> tradurre le idee in decisioni<br />

aventi valenza politica.<br />

Questo tipo <strong>di</strong> università, come si può ben comprendere, rappresenta qualcosa <strong>di</strong> estremamente nuovo,<br />

rompendo mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> fare e prassi dell’ambiente accademico, economico e sociale.<br />

Questo progetto vuole articolarsi su quattro temi che riteniamo importanti:<br />

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1. Tema dell’acqua. L’argomento è estremamente interessante e attuale, se pensiamo che in futuro le guerre<br />

verranno combattute non più per “l’oro nero” ma per “l’oro blu”.<br />

Circa 15 anni fa Riccardo Petrella fu invitato alla nostra università, a Roskilde, e affermò che i conflitti<br />

del futuro sarebbero stati causati dalla lotta per l’acqua. Dopo questa affermazione, l’Ambasciatore<br />

italiano in Danimarca che era presente alla lezione, mi espresse tutta la sua sorpresa e lo scetticismo <strong>di</strong><br />

fronte a questa affermazione.<br />

Il tema dell’acqua è interessante, perché è <strong>di</strong>venuto la metafora del nostro tempo, il mezzo per narrare il<br />

presente (le città, le industrie, ecc.). Chiunque legga argomenti legati al tema acqua, può capire come le<br />

varie culture la considerano: un popolo che vive nel deserto ha sicuramente un rapporto <strong>di</strong>verso con<br />

l’acqua rispetto a quello che hanno le popolazioni della Danimarca, dove piove molto spesso.<br />

2. Tema dell’immaginazione. La scelta <strong>di</strong> fare dell’immaginazione uno dei temi portanti dell’Università del<br />

bene comune deriva dall’importanza che nella nostra vita quoti<strong>di</strong>ana hanno assunto i nuovi mezzi <strong>di</strong><br />

conoscenza come i mass-me<strong>di</strong>a.<br />

Molte delle cose che noi oggi percepiamo ci arrivano attraverso i messaggi e le immagini dei mass<br />

me<strong>di</strong>a. Come dobbiamo interagire con queste immagini?<br />

3. Tema dell’alterità. Molti dei ragionamenti che da tempo portiamo avanti si basano su un’idea<br />

policentrica del mondo. L’idea che l’Occidente sia l’unico polo democratico e progressista del mondo è<br />

trasversale sia alla destra che alla sinistra. Noi pensiamo invece che non esista un solo centro ma tanti<br />

poli, senza cadere ovviamente in un in<strong>di</strong>stinto relativismo. Siamo convinti che ciascuna comunità abbia<br />

un suo potenziale ed una sua cultura con la quale è necessario <strong>di</strong>alogare e rapportarci.<br />

Ecco che questo modo <strong>di</strong> pensare ci pone molti problemi riguardo alle metodologie <strong>di</strong> educazione. Non<br />

esistono modelli “standard” esportabili in ogni dove. Faccio un esempio: recentemente in Danimarca un<br />

partito <strong>di</strong> sinistra ha proposto una legge che vieta la presenza <strong>di</strong> un bambino in una scuola per più <strong>di</strong> 5<br />

ore al giorno. Il sistema moderno ci ha portato ad un alto livello <strong>di</strong> alienazione (pensiamo ad un bambino<br />

che sta tutto il giorno a scuola o a una coppia che non si vede mai a causa dei molteplici impegni<br />

lavorativi). Questa proposta <strong>di</strong> legge è a mio avviso giustissima, perché, come ho già detto, il sistema<br />

cosiddetto moderno rischia <strong>di</strong> organizzare la nostra vita in funzione delle istituzioni e <strong>di</strong> impe<strong>di</strong>rci la<br />

comunicazione con i nostri vicini.<br />

Il tema dell’alterità esiste solamente nell’Occidente: pensiamo ad un bambino <strong>di</strong> una tribù desertica che<br />

impara a leggere e a scrivere dai genitori. Con questo non voglio <strong>di</strong>re che una cultura è meglio dell’altra<br />

ma che ogni cultura trova le sue risposte. Esistono quin<strong>di</strong> altre culture rispetto ai temi della famiglia,<br />

dell’educazione, dei mercati. Su questo dovremmo riflettere, perché oggi noi pensiamo che il mercato sia<br />

solo uno, ovvero quello capitalistico. Ma cosa è il mercato capitalistico? Dobbiamo tornare alle ra<strong>di</strong>ci del<br />

capitalismo per capirlo.<br />

4. Tema della mon<strong>di</strong>alità. Abbiamo scelto il termine “mon<strong>di</strong>alità” e non “globalizzazione”, perché<br />

globalizzare significa in-globare, standar<strong>di</strong>zzare le <strong>di</strong>fferenze ad un modello precostituito (ovviamente il<br />

nostro), annullare le alterità. Per questo motivo, invece <strong>di</strong> parlare <strong>di</strong> globalità/globalizzazione, che<br />

presuppone un modello verso il quale tutti tendono, preferiamo parlare <strong>di</strong> mon<strong>di</strong>alità/mon<strong>di</strong>alizzazione.<br />

Come Università <strong>di</strong> Roskilde, siamo maggiormente interessati al quarto tema, quello della<br />

mon<strong>di</strong>alità. Abbiamo comunque in<strong>di</strong>viduato tre aree <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>o, sulle quali ci impegneremo nei prossimi anni:<br />

1. Concetto <strong>di</strong> bene comune (o <strong>di</strong> beni comuni). In Occidente il concetto <strong>di</strong> bene comune è stato formulato<br />

agli inizi del secolo. In Italia tale concetto è nato negli anni 30-40 e successivamente, come conseguenza,<br />

nacque l’industria pubblica: lo Stato, attraverso le imprese, doveva far fronte ai cosiddetti bisogni<br />

strategici.<br />

Pensare che oggi, nel 2004, il concetto <strong>di</strong> bene pubblico e <strong>di</strong> bene strategico sia lo stesso dei primi anni<br />

del secolo è quantomeno improbabile. Anche le società si sono evolute ed è quin<strong>di</strong> necessario ripensare<br />

ai beni strategici che devono essere assolutamente pubblici. L’acqua, la salute e la scuola devono essere<br />

beni pubblici. Questo non significa che debbano necessariamente appartenere allo Stato ed essere gestite<br />

come nel periodo post bellico. Una statalizzazione oggi risolverebbe tutti i problemi? Su questo punto<br />

nutriamo molti dubbi.<br />

85


2. Concetto <strong>di</strong> economia sociale. Oggi stiamo assistendo, nel campo del sociale, ad una grande crescita <strong>di</strong><br />

attività informali (cooperative, attività volontaristiche, lavori saltuari/continui come quello delle badanti,<br />

ecc.). Tali attività non sono considerate come grandezze economiche. Questa grande area,<br />

sostanzialmente illegale, quantomeno in Italia, deve emergere, deve essere riconosciuta ed aiutata. Tali<br />

attività vanno quin<strong>di</strong> rese visibili attraverso politiche coor<strong>di</strong>nate che le aiutino a mettersi in rete ed a<br />

creare veri e propri “<strong>di</strong>stretti sociali” alla stregua dei cosiddetti “<strong>di</strong>stretti industriali”.<br />

Come è possibile aiutare questo enorme settore sommerso? Attraverso la creazione <strong>di</strong> “zone franche” del<br />

sociale: è necessario, ad esempio, permettere a certi settori <strong>di</strong> non pagare le tasse per 5 anni, <strong>di</strong> essere<br />

esentati, per un determinato periodo, dal rispetto dei contratti nazionali.<br />

3. Concetto <strong>di</strong> mercato. Oggi il mercato è inquinato dalla speculazione, dalle attività criminali,<br />

dall’industria <strong>di</strong> guerra, dalla produzione dei cosiddetti “costi sociali” come ad esempio l’inquinamento.<br />

E’ necessario ritrovare il significato autentico della parola mercato. Qual è la base sana e vera <strong>di</strong><br />

un’economia <strong>di</strong> mercato che non esternalizza i costi sociali, che si fa carico <strong>di</strong> una responsabilità sociale<br />

ed ambientale? E’ necessario riportare l’etica nell’impresa e nel mercato.<br />

Per ognuno <strong>di</strong> questi tre temi verrà creato un gruppo <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>o che produrrà un documento <strong>di</strong> 8-10<br />

pagine. Successivamente in vari paesi del mondo si formeranno altri gruppi <strong>di</strong> lavoro con il compito <strong>di</strong><br />

riflettere sui documenti preparati in rapporto alle singole situazioni nazionali.<br />

L’idea è quella <strong>di</strong> creare 8-9 gruppi <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>o anche in Italia, che, partendo da questi documenti<br />

iniziali, li arricchisca. Successivamente, il documento nuovamente rielaborato sarà ulteriormente analizzato e<br />

eventualmente mo<strong>di</strong>ficato da altri gruppi <strong>di</strong> persone. Ecco l’importanza dell’immaginazione, della<br />

con<strong>di</strong>visione e della concreta richiesta politica.<br />

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Majid Rahnema<br />

“Quando la miseria caccia la povertà”<br />

(Conferenza tenutasi il 24 settembre 2004)<br />

Majid Rahnema, iraniano, già ministro della cultura nel suo paese, poi rappresentante presso l’ONU e<br />

successivamente membro del Consiglio Esecutivo dell'UNESCO, da più <strong>di</strong> 20 anni si è de<strong>di</strong>cato allo stu<strong>di</strong>o dei<br />

problemi della povertà nel mondo ed al drammatico problema della sua crescente degenerazione in forme <strong>di</strong><br />

abbrutente miseria malgrado o forse proprio a causa dei gran<strong>di</strong> progetti <strong>di</strong> lotta alla povertà costruiti su premesse<br />

irrealistiche. Nel suo libro più importante, che Einau<strong>di</strong> pubblicherà a primavera in Italia ed il cui titolo francese è<br />

“Quand la misère chasse la pauvreté” (Fayard 2003), Rahnema, che, come lui stesso ricorda all'inizio ed alla fine del<br />

libro, fu grande amico <strong>di</strong> Illich, col quale <strong>di</strong>batté a lungo le tesi ivi esposte, afferma: “La propagazione generalizzata<br />

della miseria e dell'in<strong>di</strong>genza è uno scandalo sociale evidentemente inammissibile, soprattutto in società perfettamente<br />

in grado <strong>di</strong> evitarlo...ma non è aumentando la potenza della macchina per produrre beni e prodotti materiali che questo<br />

scandalo avrà fine, perché la macchina messa in azione a questo scopo è la stessa che fabbrica sistematicamente la<br />

miseria. Si tratta oggi <strong>di</strong> cercare <strong>di</strong> comprendere le ragioni multiple e profonde dello scandalo".<br />

(La trascrizione dell’incontro non è stata rivista dal relatore)<br />

Intervento <strong>di</strong> Majid Rahnema<br />

Sono molto contento ed emozionato <strong>di</strong> essere con voi questa sera per molte ragioni. Mi emoziona<br />

vedere una candela accesa qui davanti a noi, perché Illich affermava che la luce della candela rappresenta noi<br />

stessi. E’ grazie ad Illich se questa sera sono qui. E’ grazie a lui se ho scritto il libro che presenterò questa<br />

sera “Quando la miseria caccia la povertà”.<br />

Ero molto amico <strong>di</strong> Ivan Illich, un’amicizia esigente, come dovrebbero essere tutte le amicizie.<br />

Voglio raccontare un aneddoto: una sera con Ivan stavamo <strong>di</strong>scutendo dell’amore e dell’amicizia. Io gli <strong>di</strong>ssi<br />

che l’amicizia forse era più esaltante e <strong>di</strong>fficile dell’amore, perché è vero che nell’amore c’è la passione ed il<br />

cuore, ma nell’amicizia c’è la possibilità <strong>di</strong> vedersi come ad uno specchio, ed è estremamente <strong>di</strong>fficile<br />

vedersi in uno specchio. In amore non possiamo con<strong>di</strong>videre alcuni “giar<strong>di</strong>ni segreti”, perché rischiamo <strong>di</strong><br />

perdere l’amore. Ho cercato <strong>di</strong> farvi capire che nell’amore c’è una fiducia assoluta tra due persone che si<br />

amano, ma esistono “piccole infedeltà”, rappresentate da questi “giar<strong>di</strong>ni segreti” che non sono fatti<br />

conoscere all’altro. Nell’amicizia invece due persone sono in grado <strong>di</strong> accettarsi totalmente per quello che<br />

sono, con<strong>di</strong>videndo anche i giar<strong>di</strong>ni segreti. Ivan mi <strong>di</strong>sse che era vero e capì come mai l’amore è un<br />

progetto stupendo ma <strong>di</strong>fficile da realizzare.<br />

Vorrei sottolineare il posto vuoto che Ivan ha lasciato nel mio cuore, perché la nostra, come già<br />

detto, era un’amicizia esigente, era una persona che ci stimolava a vederci per quello che in realtà uno è, non<br />

faceva concessioni. Se gli mostravo un testo, poteva tranquillamente <strong>di</strong>rmi che ciò che avevo scritto non<br />

andava bene. Illich mi ha quin<strong>di</strong> aiutato a ricercare la verità, che per un intellettuale è il fine ultimo.<br />

Passo ora a parlare del mio ultimo libro. Il tema della povertà mi ha perseguitato per tutta la vita, ho<br />

sempre sentito parlare <strong>di</strong> povertà e questo mi faceva sorgere sempre più forte la domanda “Cosa è la<br />

povertà?”. Quando parliamo <strong>di</strong> questo concetto, inten<strong>di</strong>amo in molti casi, cose <strong>di</strong>verse. Se ad ognuno <strong>di</strong> voi<br />

chiedessi cosa è la povertà, sono convinto che riceverei risposte <strong>di</strong>versificate ed opposte. Molto spesso<br />

quando affermo questa cosa, molte persone mi criticano affermando che è chiaro cosa sia la povertà e che<br />

filosofeggiare su questo concetto è un puro esercizio intellettuale. Per confermarvi che questi non sono meri<br />

esercizi intellettuali, vi fornisco alcuni dati concreti: la Banca Mon<strong>di</strong>ale, <strong>di</strong> cui Stiglitz è stato vicepresidente,<br />

afferma che una persona è da considerare povera se ha un red<strong>di</strong>to giornaliero minore <strong>di</strong> un dollaro. Una volta<br />

che questa “verità assoluta” è stata affermata, essa è stata accettata da tutti. Ma la stessa Banca Mon<strong>di</strong>ale sa<br />

perfettamente quanto tale affermazione sia assurda: bisogna considerare i vari paesi, i <strong>di</strong>versi costi della vita.<br />

87


La Banca Mon<strong>di</strong>ale ci informa inoltre che oggi nel mondo esistono un miliardo e 200mila persone<br />

con un red<strong>di</strong>to inferiore ad un dollaro al giorno; ci sono poi due miliar<strong>di</strong> e 800 milioni <strong>di</strong> persone nel mondo<br />

che vivono con meno <strong>di</strong> due dollari al giorno. Smettiamo quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> filosofeggiare sulla povertà, afferma la<br />

Banca Mon<strong>di</strong>ale, in un mondo in cui 4 miliar<strong>di</strong> <strong>di</strong> persone, quin<strong>di</strong> 2/3 dell’umanità, vivono con meno <strong>di</strong> due<br />

dollari al giorno.<br />

Sfortunatamente oggi i ragionamenti semplicistici della Banca Mon<strong>di</strong>ale funzionano bene. Lo stesso<br />

schematismo e semplicismo oggi viene applicato in toto anche nella lotta al terrorismo. Non c’è quin<strong>di</strong><br />

spazio per <strong>di</strong>scutere sulle cause del terrorismo, sulla sua genesi e sulla sua filosofia. Un paese ricco come gli<br />

Stati Uniti decide quin<strong>di</strong>, in poco tempo, <strong>di</strong> investire molte delle sue risorse nella lotta al terrorismo: basti<br />

pensare che negli ultimi due anni sono stati spesi circa 400 miliar<strong>di</strong> <strong>di</strong> dollari contro il terrorismo.<br />

Questo linguaggio semplicistico quin<strong>di</strong> fa breccia tra l’opinione pubblica che pensa che la povertà<br />

sia unicamente un problema economico (è povero solo chi vive con meno <strong>di</strong> due dollari al giorno) da<br />

risolvere aumentando i red<strong>di</strong>ti <strong>di</strong> 4 miliar<strong>di</strong> <strong>di</strong> persone. Per combattere la povertà, la prima cosa che ci viene<br />

in mente è quella <strong>di</strong> favorire lo sviluppo dell’economia, attraverso l’industria, il sistema bancario, ecc. Ecco<br />

che il mito della crescita come soluzione a tutti i problemi mon<strong>di</strong>ali riesce ad offuscare le vere esigenze<br />

dell’umanità.<br />

E’ molto <strong>di</strong>fficile parlare <strong>di</strong> questi temi, perché questi argomenti sono talmente vasti, che è molto<br />

<strong>di</strong>fficile sintetizzare il concetto <strong>di</strong> povertà, <strong>di</strong> progresso ecc.<br />

L’idea del mondo “progressivo”, l’idea che il denaro e la tecnologia rendano tutto possibile ha reso migliore<br />

il mondo per le persone che non hanno mezzi economici adeguati? Per millenni e millenni 2/3 della<br />

popolazione mon<strong>di</strong>ale era veramente più infelice rispetto ai poveri <strong>di</strong> oggi? Il passato ci può insegnare<br />

qualcosa? Ho stu<strong>di</strong>ato la storia della povertà, con qualunque significato si intenda. Mi sono quin<strong>di</strong> interessato<br />

alla storia <strong>di</strong> questo concetto e sono rimasto molto sorpreso nello scoprire che per l’antropologia moderna il<br />

concetto <strong>di</strong> povertà non è esistito per millenni nel lessico delle popolazioni. Perché? Sahlins, antropologo<br />

americano ed autore dell’interessante saggio “L’età della pietra e dell’abbondanza” afferma che la parola<br />

povertà è una invenzione della civiltà.<br />

Durante l’età della pietra le persone vivevano con molto poco: non c’era il concetto <strong>di</strong> accumulo. Un<br />

altro scienziato, Albert Gelin, ha portato avanti uno stu<strong>di</strong>o nel quale si afferma che nemmeno nella Bibbia<br />

troviamo traccia del concetto <strong>di</strong> povertà. L’apparizione della parola “povertà” avviene tra il IX-VIII sec. a.C.,<br />

con le prime monarchie. A quell’epoca un piccolo gruppo <strong>di</strong> proprietari fon<strong>di</strong>ari molto avi<strong>di</strong> costrinse altri<br />

conta<strong>di</strong>ni a vendere loro terreni, privandoli quin<strong>di</strong> della loro unica fonte <strong>di</strong> sostentamento e rendendoli<br />

poveri. L’aggettivo “povero” esisteva: si <strong>di</strong>ceva povero <strong>di</strong> qualcuno o qualcosa che non aveva le<br />

caratteristiche attese, ma il sostantivo “povero” non esisteva. Le persone generalmente designate come<br />

povere, rispondevano a delle particolari con<strong>di</strong>zioni delle loro civiltà. Per farvi un esempio: tra le popolazioni<br />

del Sud Africa i poveri si riconoscevano dai potenti (in origine non c’era l’opposizione povero/ricco, bensì<br />

povero/potente) perché si rallegravano dell’arrivo delle cavallette, che erano una fonte insperata <strong>di</strong><br />

nutrimento che veniva dal cielo, mentre i potenti vedevano una minaccia nelle cavallette che mangiavano<br />

l’erba che nutriva il loro bestiame.<br />

Sappiamo perfettamente che in ogni civiltà, in ogni luogo c’erano persone considerate povere. Tutti<br />

coloro che stu<strong>di</strong>ano il problema della povertà sono giunti alla conclusione che non si può dare una<br />

definizione universale <strong>di</strong> povertà. E’ impossibile dare una definizione della realtà che sia accettabile per tutti.<br />

Se si parla <strong>di</strong> povertà, dunque, non si devono tentare definizioni, ma cercare <strong>di</strong> capire perché in molteplici<br />

situazioni, spazi e tempi, alcune persone hanno una con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> vita <strong>di</strong>fferente dagli altri.<br />

Personalmente sono giunto a determinate categorizzazioni, ma la prima cosa da chiarire è la grande<br />

<strong>di</strong>fferenza che esiste tra “povertà” e “miseria”. In italiano queste due parole sono simili, ma in realtà ci sono<br />

molte <strong>di</strong>fferenze tra i due concetti. Per San Tommaso la povertà era la mancanza del superfluo, mentre la<br />

miseria era la mancanza del necessario. Il filosofo francese Proudhon affermava che la povertà era la<br />

con<strong>di</strong>zione naturale dell’umano, Péguy nel XX° sec. ha parlato della povertà come un rifugio contro la<br />

miseria, lo storico Michel Mollat sosteneva che la miseria, almeno fino alla rivoluzione industriale, era<br />

episo<strong>di</strong>ca, non un fenomeno <strong>di</strong>ffuso.<br />

88


Secondo me la povertà è una con<strong>di</strong>zione umana fondata sui principi della frugalità, della<br />

con<strong>di</strong>visione e della semplicità. Nella cultura persiana il mondo non è dominato dalla “rarità”, ma<br />

dall’abbondanza, un mondo in cui tutto è <strong>di</strong> origine cosmica, un mondo in cui tutti gli umani dovrebbero<br />

avere una parte dell’abbondanza. Questa definizione è il contrario della concezione economica, che sostiene<br />

che il mondo è caratterizzato dalla rarità; toccherebbe quin<strong>di</strong> all’economia trasformarla in abbondanza.<br />

La povertà dovrebbe essere un’etica, una volontà <strong>di</strong> vivere insieme basata su criteri culturali come la<br />

giustizia, la solidarietà e la coesione sociale. Per tanti millenni la povertà ha rappresentato il mezzo per<br />

lottare contro la miseria: era un vero e proprio equilibrio della vita sociale. Nel momento in cui questa lotta<br />

<strong>di</strong>venta inefficace, allora si cade nella miseria, in una situazione non più controllabile. La con<strong>di</strong>zione della<br />

miseria si può paragonare a quella <strong>di</strong> un naufrago in mezzo al mare, al quale sono stati tolti tutti i mezzi per<br />

salvarsi.<br />

Distinguo tre tipi <strong>di</strong> povertà che sono in<strong>di</strong>pendenti tra loro: povertà volontarie, povertà conviviali e<br />

povertà modernizzate.<br />

La povertà volontaria è una scelta <strong>di</strong> vita che esiste in tutte le società, senza eccezioni. Nella storia<br />

molti hanno fatto questa scelta: pensiamo a Socrate, a Gesù, a San Francesco d’Assisi. Le motivazioni <strong>di</strong><br />

questa scelta sarebbero incomprensibili per un economista: la ricerca <strong>di</strong> libertà, la ricerca <strong>di</strong> una ricchezza<br />

assoluta, che sono le cause che portano a questa decisione, non sono certo contemplate dalle teorie<br />

economiche. San Francesco apparteneva ad una delle famiglie più ricche <strong>di</strong> Assisi, era bello, era giovane,<br />

eppure decide <strong>di</strong> vivere nella povertà. La non <strong>di</strong>pendenza dalle cose terrene e quin<strong>di</strong> la libertà assoluta sono<br />

alla base <strong>di</strong> questa scelta.<br />

La povertà conviviale è quella <strong>di</strong> cui parlava Proudhon quando affermava che è la con<strong>di</strong>zione<br />

normale dell’umano in civiltà. Questo tipo <strong>di</strong> povertà è classica delle società vernacolari, termine coniato da<br />

Ivan Illich. Illich trovava che il termine “società tra<strong>di</strong>zionale” comunicasse un concetto <strong>di</strong> staticità<br />

immutabile, per questo usò la parola vernacolare. La società vernacolare si basa su principi <strong>di</strong> con<strong>di</strong>visione,<br />

<strong>di</strong> solidarietà, <strong>di</strong> rispetto del prossimo; questa caratteristica non è il risultato <strong>di</strong> una vera scelta ma <strong>di</strong> una<br />

sorta <strong>di</strong> “semiscelta” dettata dal semplice buon senso. Come fare, ci suggerisce il buon senso, a vivere in<br />

comunità? Come creare una società con più coesione possibile per lottare contro la necessità? L’ospitalità e<br />

la con<strong>di</strong>visione, permettono alle società vernacolari <strong>di</strong> lottare contro lo stato <strong>di</strong> necessità in momenti <strong>di</strong>fficili.<br />

Nelle società vernacolari il concetto <strong>di</strong> “io” non esiste: è sostituito dal “noi” e, come in una famiglia, nessuno<br />

soffre la fame, perché il vicino lo aiuta. In questo tipo <strong>di</strong> società ogni persona si sente membro del corpo<br />

sociale ed anche se ovviamente non tutti godono della medesima buona posizione, la società nel suo<br />

complesso funziona come un corpo umano che sa sviluppare le proprie <strong>di</strong>fese immunitarie. Quin<strong>di</strong>, d’istinto,<br />

ciascuno sa che è necessario essere generosi, solidali, rispettosi. L’esigenza non è quin<strong>di</strong> quella <strong>di</strong><br />

massimizzare le risorse, ma quella <strong>di</strong> creare un equilibrio sociale ed ambientale.<br />

La concezione <strong>di</strong> ricchezza <strong>di</strong> queste società è molto <strong>di</strong>versa dalla nostra ed in questo senso esse sono molto<br />

più intelligenti. La ricchezza non è considerata solo sulla base del possesso <strong>di</strong> beni materiali, ma si esplicita<br />

nell’equilibrio con l’ambiente e nella forza dei rapporti sociali. Il povero non è quin<strong>di</strong> inteso come colui che<br />

ha mancanza <strong>di</strong> beni materiali: l’in<strong>di</strong>viduo cade in miseria nel momento in cui le con<strong>di</strong>zioni sociali e<br />

culturali mutano. Quando la filosofia in<strong>di</strong>vidualista prende il sopravvento, gli in<strong>di</strong>vidui vedono cambiare i<br />

rapporti sociali e si trovano a vivere solo per se stessi, non potendo più contare sulla solidarietà degli altri.<br />

La povertà modernizzata costituisce una rottura epistemologica e sociale nella maggior parte delle<br />

attività umane. All’origine c’è un cambio ra<strong>di</strong>cale <strong>di</strong> ciò che era definito come povertà e ricchezza e queste<br />

ultime non vengono più percepite nello stesso modo. Anche i bisogni ed i mezzi per sod<strong>di</strong>sfarli sono<br />

percepiti in modo <strong>di</strong>verso. La macroeconomia decide per conto delle persone e detta la fine delle società<br />

vernacolari. La norma non scritta che <strong>di</strong>stingueva l’in<strong>di</strong>spensabile dal superfluo cambia definitivamente.<br />

L’homo oeconomicus è il responsabile <strong>di</strong> questo cambiamento. Prima del capitalismo non esisteva un<br />

in<strong>di</strong>viduo così utilitarista, che cura solo il proprio interesse. Molto spesso questo personaggio si infiltra tra i<br />

più deboli e li convince a <strong>di</strong>menticarsi della sfera collettiva per chiudersi in quella in<strong>di</strong>viduale. L’homo<br />

oeconomicus sostiene l’esigenza <strong>di</strong> costruire una nuova economia, che permetta a ogni in<strong>di</strong>viduo <strong>di</strong><br />

accumulare profitti. Finisce quin<strong>di</strong> la società in cui si viveva <strong>di</strong> doni e nascono così nuove forme <strong>di</strong> economia<br />

e <strong>di</strong> industrializzazione.<br />

89


La filosofia che sostiene la nuova economia si concentra sulla produzione e sull’accumulo, però<br />

contemporaneamente essa non ha i mezzi per sod<strong>di</strong>sfare i bisogni <strong>di</strong> tutti. L’economia moderna, anzi, mentre<br />

afferma <strong>di</strong> avere soluzioni per ogni problema, è essa stessa causa <strong>di</strong> tutti i problemi, ma non siamo più in<br />

grado <strong>di</strong> rendercene conto perché siamo tutti “drogati” –perdonate il paragone- dai bisogni indotti<br />

dall’economia attuale. Abbiamo l’idea che l’economia sia in grado <strong>di</strong> salvarci e <strong>di</strong> farci stare bene, ma si<br />

tratta <strong>di</strong> una falsa impressione, proprio come accade per il tossico<strong>di</strong>pendente rispetto alla droga. Non<br />

possiamo fermarci e non siamo neanche più in grado <strong>di</strong> chiederci se davvero questa società ci faccia stare<br />

bene o se invece si vada verso il momento nel quale se ne perderà del tutto il controllo.<br />

Quin<strong>di</strong> è importante innanzitutto cercare <strong>di</strong> pensare, per arrivare a capire che le ricchezze materiali<br />

non ci danno davvero quello che vogliamo e che c’è bisogno, invece, <strong>di</strong> ristabilire e mantenere un equilibrio<br />

fra le ricchezze che vengono dall’esterno ed il nostro “tempio interiore”, cosa che del resto già tutte le culture<br />

hanno a suo tempo capito. Se questo equilibrio fra esterno ed interno si rompe, si spezza il cerchio positivo<br />

che esso rappresenta e l’in<strong>di</strong>viduo si trova invece all’interno <strong>di</strong> un circolo negativo che lo rende sempre più<br />

debole e lo priva delle capacità <strong>di</strong> controllo. Accade allora che la società non sia più in grado <strong>di</strong> decidere<br />

dell’economia, bensì che sia quest’ultima a controllare la società.<br />

E’ <strong>di</strong>fficile a questo punto ipotizzare una soluzione, tuttavia è già molto importante rendersi conto <strong>di</strong> questo<br />

stato <strong>di</strong> fatto e cercare <strong>di</strong> riflettere in proposito.<br />

Mi potreste a questo punto domandare quale sia la soluzione e potrei allora rispondervi <strong>di</strong> fare la<br />

rivoluzione, perché per la mia generazione era questa la soluzione proposta, sul modello della rivoluzione<br />

sovietica. Il capitalismo, al contrario, afferma <strong>di</strong> essere esso stesso la soluzione, in risposta, tra l’altro, al<br />

fallimento <strong>di</strong> rivoluzioni quali quella avvenuta in Unione Sovietica settanta anni fa. Si tratta <strong>di</strong> un fenomeno<br />

ancora più pericoloso delle fallite rivoluzioni proletarie. Se fossi un politico, dunque, intenzionato a vincere<br />

le elezioni con le bugie, potrei rispondervi che esiste una soluzione semplice a tutti i problemi, mentre non è<br />

così: non ci sono risposte facili per chi chiede soluzioni per la situazione attuale. Alcune persone potrebbero<br />

anche chiedermi se io sia ottimista o pessimista: risponderei a questo punto con una frase <strong>di</strong> Deleuze che <strong>di</strong>ce<br />

che non bisogna temere o sperare, ma piuttosto cercare delle nuove armi. D’altra parte, se certamente non si<br />

può confidare nel fatto che qualcuno dall’esterno (un partito politico, ad esempio) ci <strong>di</strong>a queste armi, neppure<br />

prendere il potere sembra essere una soluzione. Bisogna piuttosto stare lontani dal potere, poiché quando si è<br />

interni ad esso è facile perdere <strong>di</strong> vista la realtà delle cose.<br />

Anziché poggiare su elementi esterni, dunque, la “rivoluzione” necessaria nella società attuale deve<br />

essere innanzitutto una rivoluzione interna, come nell’esempio del drogato che citavo precedentemente.<br />

Occorre instaurare nuovi rapporti col potere e a questo scopo è importante che all’interno della società si<br />

costituisca, rispetto al “potere” centrale rappresentato dai politici e dai partiti, un contropotere basato per<br />

esempio su piccoli gruppi, sui circuiti dell’amicizia. Ciascuno <strong>di</strong> noi deve contribuire alla costruzione <strong>di</strong> una<br />

nuova etica, in assenza della quale le cose non possono che andare sempre peggio.<br />

90


Giovanni Camilleri<br />

Assumere la complessità: la sfida per la cooperazione allo sviluppo<br />

Quale ruolo per i <strong>di</strong>versi attori: organismi internazionali, ONG, enti locali e società<br />

civile<br />

(Conferenza tenutasi il 4 ottobre 2005)<br />

Giovanni Camilleri è dal giugno 2005 Coor<strong>di</strong>natore presso l‘UNDP <strong>di</strong> Ginevra <strong>di</strong> ART International (si tratta <strong>di</strong><br />

programmi quadro che promuovono la partecipazione <strong>di</strong> città , province e regioni alle strategie <strong>di</strong> sviluppo locale e<br />

governance che l’UNDP appoggia in <strong>di</strong>versi paesi). Dal 1999 al 2005 è stato responsabile del settore sviluppo locale<br />

presso l’UNDP <strong>di</strong> Cuba. Camilleri ha inoltre ricoperto ruoli, sempre in seno a <strong>di</strong>verse Agenzie ONU con particolare<br />

riferimento a programmi in campo sanitario, <strong>di</strong> preparazione e riabilitazione dopo <strong>di</strong>sastri naturali e procurati<br />

dall’uomo, <strong>di</strong> interventi in situazione <strong>di</strong> conflitto, <strong>di</strong> pacificazione e <strong>di</strong> applicazione <strong>di</strong> accor<strong>di</strong> <strong>di</strong> pace.<br />

Inizio con una considerazione: quando noi promuoviamo un’azione <strong>di</strong> cooperazione, sul territorio “<strong>di</strong><br />

partenza” - quin<strong>di</strong> ad esempio l’Italia - verrà vista in un certo modo, la comunità destinataria percepirà la<br />

cooperazione in un altro.<br />

Da quasi 17 anni lavoro nell’Agenzia delle Nazioni Unite specializzata nello sviluppo. L’UNDP,<br />

questo il nome dell’agenzia, ha il mandato da parte dell’Assemblea Generale dell’ONU <strong>di</strong> operare sui temi<br />

dello sviluppo sociale ed economico e <strong>di</strong> intervenire in caso <strong>di</strong> emergenze. Stasera rifletterò sulla<br />

cooperazione a partire quin<strong>di</strong> dalla mia esperienza <strong>di</strong> lavoro. Sono dell’idea che il ripensare il ruolo della<br />

cooperazione possa interessare tutti coloro che operano nel campo della solidarietà internazionale, ma anche<br />

i citta<strong>di</strong>ni che oramai quoti<strong>di</strong>anamente ascoltano pareri non certo positivi sulla cooperazione.<br />

Gestire la complessità, nuova sfida per la cooperazione allo sviluppo<br />

Perché é stato Pizarro a conquistare le civiltà precolombiane e gli Incas non Atahualpa ad invadere la<br />

Spagna? perché Pizarro con 26 cavalieri ha battuto l’esercito <strong>di</strong> 80.000 soldati <strong>di</strong> Atahualpa? Le risposte a<br />

queste domande sorprendenti le potete trovare in un libro molto interessante <strong>di</strong> Diamond, “Armi, ferro,<br />

malattie”. A me serve questo esempio per ricordare che situazioni complesse che richiamano e sorprendono<br />

l’attenzione dell’opinione pubblica, al <strong>di</strong> là della buona o cattiva informazione che le accompagnano, ci<br />

vengono proposte per “fotogramma”, per “fermo immagine”, senza tenere conto <strong>di</strong> elementi e fattori a noi<br />

sconosciuti o poco conosciuti, che “ci sono ma non si vedono”, e che, come nel caso della battaglia della<br />

Comajarca, risultano in realtà determinanti per capire l’eziologia, le <strong>di</strong>namiche ed i fenomeni, per stabilire<br />

come rapportarci, e soprattutto come intervenire per far sì che l’intervento <strong>di</strong> cooperazione abbia un effetto<br />

positivo e <strong>di</strong> lunga durata.<br />

Purtroppo nella norma le azioni <strong>di</strong> cooperazione sono espressione e conseguenza della logica del<br />

“fotogramma” che appiattisce e semplifica la realtà eliminando il prima ed il dopo, le cause e gli effetti,<br />

inducendo ad operare più sull’onda dell’emozione che suscita il “fotogramma” che sulla complessità<br />

effettiva della situazione.<br />

Questa presentazione propone, a partire da esperienze <strong>di</strong> campo, una riflessione su alcuni limiti (e<br />

possibili alternative) che riducono l’impatto della cooperazione internazionale per operare su temi attuali che<br />

preoccupano fortemente l’opinione pubblica dei paesi del nord e del sud del mondo e quin<strong>di</strong> la<br />

consapevolezza, da parte dei decisori politici ed amministrativi, dell’importanza <strong>di</strong> questo strumento.<br />

Per questo la campagna per il raggiungimento dell’obiettivo dello 0,7% del PIL destinato all’aiuto allo<br />

sviluppo deve essere accompagnata da un coraggioso ripensamento <strong>di</strong> logiche, modalità e procedure del<br />

funzionamento della cooperazione internazionale. Infatti sempre più spesso questo strumento è invocato per<br />

operare su temi particolarmente articolati e complessi come sono la prevenzione dei conflitti, i processi <strong>di</strong><br />

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pace, i movimenti massivi <strong>di</strong> popolazioni, l’economia illegale, il cambio climatico, le conseguenze dei<br />

<strong>di</strong>sastri naturali e provocati dall’uomo, il non rispetto dei <strong>di</strong>ritti umani, solo per citarne alcuni. A fronte della<br />

complessità <strong>di</strong> queste tematiche c’è la tendenza però a scomporre e semplificare la realtà, sezionandola<br />

chirurgicamente per settori, gruppi <strong>di</strong> popolazione, per poi gestirne separatamente i <strong>di</strong>versi frammenti tra i<br />

multipli soggetti specialisti ognuno <strong>di</strong> uno specifico frammento.<br />

Un immaginario collettivo basato su stereotipi tanto ra<strong>di</strong>cati quanto lontani dalla realtà: la<br />

cooperazione deve “aiutare i buoni” (<strong>di</strong>menticando la necessità <strong>di</strong> “gestire i cattivi”). E soprattutto chi sono i<br />

“buoni ed i cattivi”? Come i buoni <strong>di</strong>ventano cattivi e viceversa? Gli stati e le istituzioni sono “cattive”? Ed<br />

allora a che servono le elezioni quale basamento dello stato democratico? Come sostituire il para<strong>di</strong>gma <strong>di</strong><br />

beneficiari e beneficiati con una logica <strong>di</strong> “soci e colleghi”, che in contesti anche molto <strong>di</strong>versi assumono la<br />

sfida <strong>di</strong> operare per un “comune interesse”, quali sono per esempio le mete del Millennio? Quale<br />

partecipazione se il “marco logico” applicato rigidamente, predefinisce, quale requisito per l’approvazione<br />

del progetto, le priorità che dovrebbero essere invece stabilite dai “<strong>di</strong>agnostici partecipativi“? Ed ancora,<br />

come le rigide procedure per la formulazione dei progetti rendono possibile, o no, che le comunità locali del<br />

nord e del sud partecipino alle iniziative <strong>di</strong> cooperazione che li riguardano <strong>di</strong>rettamente?<br />

C’è bisogno <strong>di</strong> ripensare alla cooperazione come ad uno strumento reale che, se assume e gestisce la<br />

complessità dei processi <strong>di</strong> sviluppo e <strong>di</strong> non sviluppo, può essere incre<strong>di</strong>bilmente efficace: per prevenire i<br />

conflitti piuttosto che optare per i conflitti preventivi, per operare con continuità su processi complessi,<br />

piuttosto che utilizzarli per giustificare moltitu<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> progetti puntuali, nell’operare in “vivo” e non in<br />

“vitro” in modo tale che la logica del territorio dove si opera e la logica amministrativa dove si gestiscono le<br />

procedure, si conoscano, si parlino ed operino per lo stesso fine.<br />

Commentiamo con 11 esempi le molteplici complessità che l’azione internazionale si trova<br />

comunemente ad affrontare:<br />

1. Progetto o processo?<br />

2. Azione locale o azione nazionale?<br />

3. Cooperazione tra uguali o tra <strong>di</strong>fferenti? Settoriale o territoriale?<br />

4. Integralità rispetto al territorio o rispetto al documento <strong>di</strong> progetto?<br />

5. Partecipazione. Si, ma…<br />

6. Beneficiari e beneficiati? O soci e colleghi per le sfide degli obiettivi <strong>di</strong> sviluppo del Millennio?<br />

7. Società civile e responsabilità pubblica.<br />

8. Cooperare utilizzando il meglio che si ha a <strong>di</strong>sposizione: innovazione.<br />

9. Identificare i buoni ed i cattivi ed aiutare i buoni: quali strategie per interventi in aree <strong>di</strong> conflitto ed<br />

in situazioni complesse?<br />

10. Formazione senza pratiche e pratiche senza formazione.<br />

11. Valutazione del fine o del mezzo?<br />

1. Progetto o processo: lo sviluppo locale<br />

Dal punto <strong>di</strong> vista <strong>di</strong> un paese e <strong>di</strong> un territorio (del nord e del sud) il decentramento è un processo <strong>di</strong><br />

me<strong>di</strong>a lunga durata (20-25 anni) per la complessità tecnico amministrativa che richiede. La cooperazione<br />

internazionale funziona con “progetti” della durata <strong>di</strong> uno o due anni. Questo <strong>di</strong>fferente approccio esprime<br />

una <strong>di</strong>fficoltà della cooperazione internazionale nel sostenere per limitata continuità sfide determinanti come<br />

per esempio è lo sviluppo locale e la governabilità. Come conseguenza si generano alcune tipiche<br />

semplificazioni dello sviluppo locale quali:<br />

• azione da realizzarsi in uno spazio locale molto piccolo;<br />

• tipo <strong>di</strong> cooperazione da realizzarsi con fon<strong>di</strong> ridotti;<br />

• azione da realizzarsi con interlocutori in<strong>di</strong>viduali del territorio senza articolare con le istituzioni ed<br />

amministrazioni locali del paese.<br />

Il rischio è <strong>di</strong> non collegare l’iniziativa <strong>di</strong> cooperazione al quadro amministrativo locale e nazionale<br />

del paese dove si opera. La conseguenza imme<strong>di</strong>ata è che una volta terminati i fon<strong>di</strong> <strong>di</strong> cooperazione<br />

92


terminano gli effetti positivi prodotti dal progetto. Il gruppo <strong>di</strong> beneficiari che ha registrato miglioramenti<br />

delle proprie con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> vita vive una grande frustrazione, mentre il processo <strong>di</strong> decentramento proprio del<br />

paese si mantiene immutato o peggiora.<br />

Proposta: collegare l’azione <strong>di</strong> cooperazione al quadro tecnico amministrativo del paese permette la<br />

continuità dell’azione <strong>di</strong> cooperazione e l’approccio integrale sul territorio.<br />

Per questo pensare a programmi quadro pluriennali in appoggio a politiche nazionali <strong>di</strong> decentramento e <strong>di</strong><br />

governabilità permette <strong>di</strong> collegare progetti specifici in risposta a bisogni puntuali con processi articolati e<br />

complessi <strong>di</strong> me<strong>di</strong>a e lunga durata. I programmi quadro definiscono: processi prioritari, aree geografiche<br />

dove si concentra l’azione <strong>di</strong> cooperazione, strutture operative, metodo <strong>di</strong> programmazione locale<br />

partecipativa, tetti finanziari. Cioè il come si lavora, mentre il che cosa si fa è prodotto della partecipazione<br />

dei <strong>di</strong>versi soggetti tanto nazionali come internazionali.<br />

2. Cooperazione locale o azione nazionale?<br />

Questa falsa alternativa si presenta con frequenza: con determinate linee si finanziano a ministeri<br />

programmi per trasformazioni nel campo economico, ambientale <strong>di</strong> modernizzazione dello stato e con altre si<br />

finanziano azioni locali ad associazioni e ONG su tematiche che ne sono <strong>di</strong>retta espressione nel territorio. Il<br />

punto è che le due iniziative che si realizzano nello stesso territorio e rispetto allo stesso tema non si<br />

conoscono, sono programmate da persone <strong>di</strong>verse in tempi <strong>di</strong>versi: in una parola non fanno strategia. Questa<br />

logica inevitabilmente espone al rischio <strong>di</strong> acutizzare incomprensioni tra le ragioni centrali e quelle locali, gli<br />

uni nella parte dei burocrati gli altri in un ruolo oggettivamente marginale rispetto ai temi strutturali.<br />

Proposta: i programmi quadro permettono <strong>di</strong> concepire azioni che si realizzano simultaneamente a<br />

livello locale, nazionale ed internazionale, cioè ai vari livelli in cui temi come il decentramento, cambio<br />

climatico, processi <strong>di</strong> pacificazione sono effettivamente strutturati e quin<strong>di</strong> permettendo <strong>di</strong> operare sulla testa<br />

e sulla coda del problema. In questa maniera è possibile coniugare la imprescin<strong>di</strong>bile necessità da parte della<br />

cooperazione <strong>di</strong> contribuire al miglioramento delle con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> vita della popolazione con l’altrettanto<br />

bisogno <strong>di</strong> operare su processi <strong>di</strong> me<strong>di</strong>a e lunga durata particolarmente articolati e complessi come quelli<br />

citati.<br />

3. Relazione tra “uguali” o tra “<strong>di</strong>fferenti”? Approccio settoriale o territoriale?<br />

La logica e le conseguenti procedure semplificanti generano iniziative <strong>di</strong> università con università, <strong>di</strong><br />

OnG con OnG, <strong>di</strong> ministeri con ministeri, sindacati con sindacati ed impresari con impresari, ossia si<br />

concepisce un’azione <strong>di</strong> cooperazione tra “omologhi e non tra <strong>di</strong>fferenti”. Eppure una delle maggiori<br />

complessità della realtà <strong>di</strong> un territorio è quella <strong>di</strong> essere abitata da attori <strong>di</strong>versi: i loro interessi sono <strong>di</strong>versi,<br />

in molti casi opposti e questo è tanto più marcato quanto più sono <strong>di</strong>fficili le con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> vita. Questo<br />

approccio semplificante “sta in pie<strong>di</strong>” teoricamente, ma all’atto pratico può concretarsi in un gran numero <strong>di</strong><br />

iniziative finanziate nello stesso territorio che, seppur <strong>di</strong>rette a finalità comuni, possono generare<br />

sovrapposizioni senza creare spazi ed opportunità <strong>di</strong> <strong>di</strong>scussione necessari per “mettersi d’accordo” sul<br />

“comune interesse”. Si può arrivare al paradosso per cui sia i <strong>di</strong>versi attori del territorio sia gli attori <strong>di</strong><br />

cooperazione perdono <strong>di</strong> vista il fine, per esempio l’obiettivo <strong>di</strong> pacificazione, rispetto al mezzo, cioè<br />

l’assicurasi i finanziamenti <strong>di</strong>sponibili.<br />

Qualcosa <strong>di</strong> molto simile avviene con i progetti settoriali. Il citta<strong>di</strong>no ragiona naturalmente in termini<br />

“integrali”, le amministrazioni quanto più si allontanano fisicamente dal citta<strong>di</strong>no quanto più ragionano in<br />

termini settoriali perché è più semplice. Spesso la cooperazione internazionale operando con progetti<br />

settoriali non aiuta lo sforzo del sindaco <strong>di</strong> far prevalere la logica territoriale e <strong>di</strong> aumentare la sua<br />

negozialità coi ministeri e rafforza quella settoriale.<br />

Proposta: le possibilità <strong>di</strong> sviluppo, <strong>di</strong> prevenzione o la soluzione <strong>di</strong> conflitti <strong>di</strong> quel territorio è<br />

anche funzione della possibilità <strong>di</strong> generare una <strong>di</strong>namica <strong>di</strong> concertazione attorno a “comuni interessi” quali<br />

sono per esempio l’acqua, il lavoro, la sicurezza, solo per citarne alcuni. Quando la cooperazione opera con<br />

la logica semplificante perde una grande opportunità: quella <strong>di</strong> destinare i pochi fon<strong>di</strong> <strong>di</strong>sponibili per<br />

stimolare la concertazione dei <strong>di</strong>versi soggetti su interessi comuni, attivando ciò che si <strong>di</strong>spone del territorio,<br />

93


isultati che, se raggiunti, determinano a cascata emozioni e effetti positivi che nessun progetto od invio <strong>di</strong><br />

cibo e me<strong>di</strong>cine può ottenere.<br />

4. Formazione senza pratiche e pratiche senza accademia<br />

Molto <strong>di</strong>fficile rispondere alla domanda se è più importante l’azione o la formazione.<br />

Pensare ad un corso <strong>di</strong> formazione che non sia seguito dall’applicazione nel contesto in cui operano i<br />

partecipanti del contenuto dello stesso non è molto incoraggiante. Pensare che l’azione sia il senso ultimo<br />

dell’azione <strong>di</strong> cooperazione va nel senso opposto all’obiettivo <strong>di</strong> creazione e rafforzamento <strong>di</strong> capacità locali<br />

e determina una logica assistenzialista.<br />

Proposta: è possibile concepire una componente <strong>di</strong> formazione che accompagna le pratiche che si<br />

realizzano in un determinato territorio? In questa maniera le pratiche sarebbero costantemente aggiornate ed i<br />

risultati della loro applicazione apporterebbe alla formazione. L’esperienza “Univesitas”, programma<br />

realizzato con la OIT, in <strong>di</strong>versi paesi ha <strong>di</strong>mostrato che è possibile.<br />

5. Azione integrale rispetto al progetto <strong>di</strong> cooperazione o rispetto al territorio?<br />

Come conseguenza della tendenza a finanziare progetti attraverso “linee” o “sportelli” organizzati<br />

per entità cooperanti (per università, per OnG, per agenzie Nazioni Unite, per bilaterali, per imprese, ecc.) si<br />

genereranno una moltitu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> progetti che una volta “atterrati” nello stesso paese, nello stesso territorio ed<br />

a fronte dello stesso problema non si conoscono tra <strong>di</strong> loro. Difficile che possano essere quin<strong>di</strong> espressione <strong>di</strong><br />

una strategia per operare sulle cause <strong>di</strong> fenomeni complessi come per esempio “los ninos de la calle”, che<br />

sono conseguenza <strong>di</strong> politiche pubbliche <strong>di</strong> abbandono o inefficienza educativa. Tali progetti sono<br />

immancabilmente “integrati” ossia prevedono moduli od attività <strong>di</strong> carattere sociale, produttivo, ambientale,<br />

<strong>di</strong> genere, con l’effetto che “tutti fanno un poco <strong>di</strong> tutto” confondendo ancora una volta la necessaria<br />

integralità ed armonizzazione che richiede il territorio per rispondere ai bisogni dei suoi abitanti.<br />

Proposta: è possibile adottare procedure che prevedano finanziamenti perché soggetti <strong>di</strong>versi<br />

possano conoscere, <strong>di</strong>scutere il tema che si vuole affrontare con i referenti del paese dove si coopera ed<br />

insieme formulare ed operare in un progetto comune “collegando pezzi” per liberare nuove risorse ed<br />

ottenere maggiore impatto?<br />

6. Partecipazione? Si, ma...<br />

La partecipazione è la parola sacra che appare in tutti i documenti della cooperazione: dalla legge, ai<br />

meto<strong>di</strong>, ai criteri <strong>di</strong> presentazione <strong>di</strong> proposte, ai testi <strong>di</strong> formulazione dei progetti. Ciononostante le<br />

procedure ed i relativi “formati” complicano enormemente l’effettiva applicazione <strong>di</strong> questo importante<br />

enunciato. Infatti si richiede nel giusto nome della trasparenza <strong>di</strong> definire prima della <strong>di</strong>namica partecipativa<br />

che cosa si finanzierà e quin<strong>di</strong> i costi definiti al dettaglio. In questa maniera si vanifica la partecipazione e<br />

con essa la concertazione che abbiamo visto essere l’elemento determinante, il fine ultimo dell’azione stessa.<br />

Proposta: finanziare il programma quadro che preveda due tempi: un primo periodo <strong>di</strong> 6/8 mesi <strong>di</strong><br />

programmazione locale nella quale realizzare <strong>di</strong>agnostici e <strong>di</strong>namiche partecipative, conoscere ciò che già<br />

esiste e prevedere possibili coor<strong>di</strong>namenti con i processi del paese e con altre cooperazioni. Prodotto <strong>di</strong> tale<br />

fase è un Piano <strong>di</strong> sviluppo locale reale espressione della concertazione tra gli attori del territorio. Tale piano<br />

è presentato e <strong>di</strong>scusso nel paese con le varie parti responsabili del progetto. All’atto dell’approvazione si<br />

libera il finanziamento necessario che era già stato depositato dal donante all’atto <strong>di</strong> firma del programma<br />

quadro.<br />

7. Società civile e responsabilità pubblica<br />

Le iniziative generalmente si <strong>di</strong>rigono al rafforzamento della società civile identificandola come<br />

interlocutore delle proprie iniziative. Questo a mio parere è assolutamente positivo perché dà maggiori<br />

garanzie che l’iniziativa sia collegata ai bisogni delle comunità locali e che l’aiuto non si paralizzi nella<br />

94


urocrazia, che nel sud come nel nord oggettivamente limita l’operatività. Però, a parte la <strong>di</strong>fficoltà <strong>di</strong><br />

identificare “chi è la società civile”, è bene ricordare che la cooperazione dovrebbe appoggiare sia la<br />

propositività dei citta<strong>di</strong>ni, ma anche parallelamente la responsabilità pubblica delle amministrazioni locali e<br />

nazionali, senza le quali è <strong>di</strong>fficile pensare alla sostenibilità per esempio dei servizi ed alla effettività ed<br />

efficienza delle politiche sociali. Questo è un passaggio molto delicato, che, se non considerato, può avere<br />

effetti opposti a quelli che la cooperazione, i cooperanti ed i citta<strong>di</strong>ni della località dove si opera si<br />

attendono.<br />

Esempio Aguablanca Colombia - Località dove vivono circa 1,5 milioni <strong>di</strong> abitanti accumulatisi<br />

come prodotto della guerra civile e dei <strong>di</strong>sastri naturali nella periferia <strong>di</strong> Cali. Vi operano oltre 300 organismi<br />

<strong>di</strong> solidarietà, ma Aguablanca non ha un sistema educativo, un sistema sanitario, non esiste nel catasto della<br />

città.<br />

8. “Donanti e beneficiati” o soci e colleghi per sfide comuni?<br />

Oggi esiste, ed é percepita in forma più <strong>di</strong>retta e tangibile, un’inter<strong>di</strong>pendenza tra la quoti<strong>di</strong>anità e<br />

ciò che avviene a livello mon<strong>di</strong>ale (terrorismo, petrolio, riscaldamento globale/inondazioni, guerre, povertà e<br />

migrazioni) tanto nei suoi aspetti positivi come in quelli negativi.<br />

É nata pertanto l´esigenza <strong>di</strong> un nuovo para<strong>di</strong>gma <strong>di</strong> cooperazione capace <strong>di</strong> rispondere alla crescente<br />

domanda <strong>di</strong> partecipazione degli agenti sociali ed economici delle realtà locali che possono cosi<br />

intercambiare le migliori rispettive esperienze amministrative, organizzative, gestionali, tecniche,<br />

scientifiche e tecnologiche relazionate all’applicazione delle Mete del Millennio. Come a <strong>di</strong>re, che la<br />

cooperazione per lo sviluppo può essere uno strumento utile affinché le comunità del nord e sud del mondo<br />

affrontino insieme, come temi d’interesse comune, l’applicazione degli MDG’s.<br />

Proposta: è possibile prevedere nel <strong>di</strong>segno e nella gestione dei programmi <strong>di</strong> cooperazione, quella<br />

sartoria capace <strong>di</strong> far sì che il collegamento e l’intercambio continuo <strong>di</strong> esperienze tra comunità locali sia un<br />

componente sistematico e non episo<strong>di</strong>co?<br />

9. Cooperare utilizzando il meglio che si ha a <strong>di</strong>sposizione: l’innovazione IDEAS<br />

10. Identificare i buoni ed i cattivi ed aiutare i buoni: quali strategie per interventi in aree <strong>di</strong> conflitto<br />

ed in situazioni complesse?<br />

In un paese a rischio in rapporto ai <strong>di</strong>ritti umani è meglio chiudere l’azione <strong>di</strong> cooperazione<br />

internazionale? È meglio essere presenti o assenti in un paese che opprime un paese vicino con occupazione<br />

militare? Che fare? Sostenere il paese occupato ed aiutarlo nella sua causa contro il paese occupante? In<br />

quali paesi l’embargo é stata una misura che ha determinato un risultato? Che costi fisici e morali silenti ha<br />

determinato sulla popolazione civile? È chiaro che il conta<strong>di</strong>no peruviano o colombiano che produce coca<br />

non ha nulla a che vedere con il narcotraffico e con la piaga della droga, così come il viticoltore nostrano non<br />

è responsabile delle morti per cirrosi epatica o degli incidenti mortali per eccesso <strong>di</strong> velocità da abuso<br />

alcolico. Se sì, che senso ha inondare l’Amazzonia <strong>di</strong> veleni e <strong>di</strong>serbanti <strong>di</strong> cui le generazioni presenti e<br />

future pagano e pagheranno le conseguenze?<br />

La decisione <strong>di</strong> chiudere tout court l’azione <strong>di</strong> cooperazione internazionale in risposta, per esempio,<br />

ad una situazione a rischio, od a conclamato mancato rispetto dei <strong>di</strong>ritti umani in un paese determinato, può<br />

apparire inizialmente come una presa <strong>di</strong> posizione logica, ferma, coerente e determinata.<br />

Tale posizione però riflette una concezione della cooperazione internazionale, prevalente fino agli<br />

inizi degli anni ‘90, che la vedeva in sostanza come un sostegno, perlomeno oggettivo, un premio, al governo<br />

destinatario dei programmi. Nell’ultima decade è emerso un <strong>di</strong>verso para<strong>di</strong>gma che invece la percepisce<br />

come uno strumento internazionale con gran<strong>di</strong> potenzialità per promuovere un ruolo attivo delle comunità<br />

locali e dell’opinione pubblica internazionale per stimolare il <strong>di</strong>alogo e la concertazione su temi <strong>di</strong> specifico<br />

reciproco interesse, nonché un contributo <strong>di</strong>retto ai bisogni <strong>di</strong> base della popolazione <strong>di</strong> un determinato<br />

paese.<br />

95


Chiudere un rapporto <strong>di</strong> cooperazione ogni qualvolta nei <strong>di</strong>versi scenari del mondo si materializza il<br />

rischio del non rispetto dei <strong>di</strong>ritti umani o si sia sommariamente stabilito chi siano i “cattivi” <strong>di</strong> certo non<br />

aiuta. L’effetto certo è che si penalizza due volte la popolazione <strong>di</strong> quel paese: la prima per i <strong>di</strong>ritti<br />

eventualmente non rispettati; e la seconda per il venir meno della presenza internazionale che può denunciare<br />

la situazione e limitarne gli effetti e contribuire a migliorare le <strong>di</strong>fficili con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> vita della stessa.<br />

Questa posizione rischia anche <strong>di</strong> portare al paradosso <strong>di</strong> una cooperazione internazionale che opera<br />

con continuità solo in quei paesi (sempre meno) in relative buone con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> democrazia, abbandonando<br />

quelli (sempre <strong>di</strong> più) in cui la complessità ed i fattori <strong>di</strong> rischio per la democrazia si esprimono in forme<br />

sempre più preoccupanti. Alimenta anche l’idea che il rispetto dei <strong>di</strong>ritti umani, la partecipazione, la<br />

governabilità sono una necessità dei paesi in via <strong>di</strong> sviluppo e non del primo mondo ricco e democratico.<br />

Quin<strong>di</strong> porre la questione in termini <strong>di</strong> “cooperazione sì o cooperazione no” a mio parere non centra<br />

il nucleo del problema, che forse dovrebbe essere il seguente: “<strong>di</strong> che cosa si occupa l´azione <strong>di</strong><br />

cooperazione? Come si eseguono le iniziative? Chi le gestisce? Che benefici <strong>di</strong>retti determinano per la<br />

popolazione? Che capacità <strong>di</strong> negozialità induce? Che spazi <strong>di</strong> <strong>di</strong>alogo si avviano?”.<br />

Si tratta cioè <strong>di</strong> iniziative che sono espressione <strong>di</strong> una logica tra<strong>di</strong>zionale che riflette priorità commerciali e<br />

politiche accordate tra un governo donante ed un governo beneficiario, oppure <strong>di</strong> programmi che hanno<br />

come finalità l´applicazione delle Mete del Millennio sottoscritte dai paesi del nord e del sud per lo sviluppo<br />

sociale ed economico, per il rafforzamento <strong>di</strong> processi <strong>di</strong> governabilità locale, per il rispetto dei <strong>di</strong>ritti umani,<br />

dell’ambiente, della <strong>di</strong>versità?<br />

11. Evaluacion: se evalua el fin o el me<strong>di</strong>o?<br />

Un altro aspetto determinate della separazione tra logiche e proce<strong>di</strong>menti è la valutazione. Come<br />

effetto del patron sostitutivo ed assistenzialista, della tendenza semplificante e dell’operare sul frammento,<br />

anche la valutazione generalmente valuta se stessa piuttosto che analizzare quale effetto il progetto ha avuto<br />

sui processi <strong>di</strong> sviluppo del paese e del territorio in cui si opera. Per esempio, tanto in termini <strong>di</strong> costo come<br />

<strong>di</strong> rispetto dei tempi necessari per l’esecuzione, la costruzione <strong>di</strong> una scuola programmata da un gruppo<br />

ristretto <strong>di</strong> tecnici, lontano dal luogo interessato, pensata e costruita senza partecipazione sarà probabilmente<br />

valutata come un buon progetto. Invece la stessa scuola programmata come “comune interesse” tra i <strong>di</strong>versi<br />

attori sociali ed economici della zona o tra gli ex combattenti che come citta<strong>di</strong>ni tornano a mischiarsi nel<br />

territorio, con attivazione delle risorse esistenti, che riducono del 50% i costi previsti, potrebbe essere<br />

valutata negativamente, in quanto la concertazione ha richiesto tempi maggiori <strong>di</strong> quanto previsto nel<br />

documento <strong>di</strong> progetto.<br />

In questo momento stiamo portando avanti il progetto IDEAS, un’iniziativa che usa risorse della<br />

cooperazione per promuovere innovazione tra paesi del sud in <strong>di</strong>versi campi, che possono essere<br />

estremamente utili, perché non necessitano <strong>di</strong> risorse finanziarie spropositate. Faccio un esempio concreto:<br />

abbiamo finanziato in Colombia spazi <strong>di</strong> incontro tra scienza e tecnologia, per fare <strong>di</strong> queste un sapere<br />

socializzato con le comunità locali; in alcuni paesi abbiamo finanziato un prodotto chimico cubano che<br />

permette al latte <strong>di</strong> conservarsi per quattro giorni (una cooperazione sud-sud quin<strong>di</strong>); abbiamo promosso la<br />

<strong>di</strong>ffusione <strong>di</strong> un larvicida contro le zanzare, veicoli naturali della malaria (la prima causa <strong>di</strong> morte oggi sulla<br />

terra); abbiamo promosso la moxibustione, tecnica cinese che permette il rivolgimento del feto messo in<br />

posizione negativa per il parto.<br />

Veniamo a noi. Il territorio lucchese quali ricchezze ha? Quale settore altamente competitivo del<br />

territorio lucchese può essere utilizzato in programmi <strong>di</strong> cooperazione internazionale? Questa, secondo me, è<br />

la nuova frontiera della cooperazione, questo significa partecipazione territoriale ad un progetto. Le migliori<br />

esperienze devono essere socializzate, devono essere la punta della cooperazione, ovviamente sempre in un<br />

quadro <strong>di</strong> riferimento. Questi sono i programmi <strong>di</strong> cooperazione decentrata che oggi sono attivi in 16 paesi.<br />

Ovviamente a questa tendenza devono affiancarsi risorse finanziarie. Come UNDP promuoviamo questi tipi<br />

<strong>di</strong> programmi, stimolando l’attivazione dei territori, chiedendo il luogo dove vogliono operare, conoscendo<br />

le forze migliori presenti sul territorio.<br />

96


Concludo citando un articolo apparso il 14 novembre 2004 sul giornale spagnolo El Pais, che,<br />

riportando uno stu<strong>di</strong>o condotto da un pool <strong>di</strong> personalità <strong>di</strong> <strong>di</strong>versa estrazione politica, analizza la situazione<br />

sociale in America Latina. Tra le varie conclusioni, una <strong>di</strong>ce che quasi la metà della popolazione<br />

latinoamericana sarebbe <strong>di</strong>sposta a rinunciare alla libertà in cambio <strong>di</strong> benessere. Questo dato è interessante e<br />

contemporaneamente sconcertante, perché ci apre una grande riflessione sulla democrazia. Cosa è la<br />

democrazia? Certamente non può ridursi solo al momento elettorale. Operare sulla sostenibilità dei servizi,<br />

sullo sviluppo dell’economia locale per esempio vuol <strong>di</strong>re anche operare concretamente per i processi<br />

democratici.<br />

97


In<strong>di</strong>ce<br />

Prefazione<br />

Andrea Tagliasacchi 2<br />

Introduzione<br />

Aldo Zanchetta 3<br />

2° Forum della Solidarietà lucchese nel Mondo<br />

Prima giornata: 22 aprile<br />

Saluti <strong>di</strong> benvenuto<br />

Andrea Tagliasacchi 5<br />

Italo Castellani 7<br />

Maria Eletta Martini 9<br />

Aldo Zanchetta<br />

“Dal I° al II° Forum della solidarietà lucchese nel Mondo” 10<br />

Adolfo Perez Esquivel<br />

“Pace, giustizia e nonviolenza: un altro mondo è possibile” 15<br />

Massimo Toschi 19<br />

Seconda giornata: 23 aprile<br />

“Per un rapporto <strong>di</strong> <strong>di</strong>gnità tra i popoli del mondo”<br />

Introduzione <strong>di</strong> Elio Rossi 20<br />

Franco Cassano<br />

“Un relativismo ben temperato” 22<br />

Jean Léonard Touadì<br />

“Un’esperienza africana: l’economia del dono” 28<br />

Aldo Gonzales Rojas<br />

“Realtà e sfide future del movimento in<strong>di</strong>geno amerin<strong>di</strong>ano” 33<br />

Roberto Mancini<br />

“Un’etica interculturale della <strong>di</strong>gnità” 38<br />

Terza giornata: 24 aprile<br />

“Solidarietà: quale e come?”<br />

Introduzione <strong>di</strong> Roberto Sensi 45<br />

Giulio Marcon<br />

“La cooperazione oggi: fra ambiguità e responsabilità” 47<br />

Fratel Arturo Paoli<br />

“Dall’essere all’altro” 52<br />

98


Quarta giornata: 25 aprile<br />

“L’altro visto con i suoi occhi: incontri tra <strong>di</strong>gnità”<br />

Introduzione <strong>di</strong> Patrizio Petrucci 56<br />

Tom Lenoir 58<br />

Aldo Zanchetta<br />

“Oltre il II° Forum” 59<br />

Don Luciano Mendes 61<br />

Conclusioni <strong>di</strong> Andrea Tagliasacchi 62<br />

Documenti approvati dal 2° Forum della Solidarietà lucchese nel Mondo<br />

Primo documento 65<br />

Secondo documento 66<br />

Proposte concrete emerse dai lavori del II° Forum della Solidarietà<br />

lucchese nel Mondo 67<br />

Dichiarazione finale del<br />

2° Forum della Solidarietà lucchese nel Mondo 68<br />

Presentazione dei relatori 70<br />

Collaborazioni, adesioni e ringraziamenti 73<br />

Appen<strong>di</strong>ce agli atti del 2° Forum della Solidarietà<br />

lucchese nel Mondo 75<br />

Don Achille Rossi<br />

“Al <strong>di</strong> là del mito del mercato:<br />

suggerimenti per un’altra immagine dell’uomo” 76<br />

Bruno Amoroso<br />

“Oltre lo stato del benessere: quali obiettivi per una buona società” 82<br />

Majid Rahnema<br />

“Quando la miseria caccia la povertà” 87<br />

Giovanni Camilleri<br />

“Assumere la complessità: la sfida per la cooperazione allo sviluppo” 91<br />

In<strong>di</strong>ce 98<br />

99


PER INFORMAZIONI<br />

Dipartimento Servizi alle Persone<br />

Servizio Politiche Sociali e Sport<br />

tel. 0583 417490 - fax 0583 417334<br />

Scuola per la Pace della <strong>Provincia</strong> <strong>di</strong> <strong>Lucca</strong><br />

Centro <strong>di</strong> documentazione interculturale “Ivan Illich”<br />

Via Santa Giustina, 21 - <strong>Lucca</strong><br />

tel. 0583 433451-433452 - fax 0583 433450<br />

email: scuolapace@provincia.lucca.it<br />

web: www.provincia.lucca.it/scuolapace<br />

100

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