Archivio 1/07 - link - Istituto ortopedico Gaetano Pini

lità di assunzione del farmaco.
Sebbene si sia assistito a
un miglioramento dell’aderenza
alla terapia con l’introduzione
dei bisfosfonati settimanali,
l’interruzione del
trattamento risulta ancora
essere di circa il 50%, quindi
evidentemente subottimale.
Ovviamente le alternative con
diversi schemi posologici
risultano valide opzioni terapeutiche
soprattutto quando
ci si trova di fronte a pazienti
con pluripatologie e costretti
a regimi terapeutici complessi
e gravosi, ma sicuramente
quello che il medico e il
paziente devono tenere presente
sono l’obiettivo finale
della terapia che si vuole
intraprendere e il tempo che
si intende impiegare nella
strategia terapeutica. Inoltre
si dovrebbe pensare a misurazioni
di marcatori che oggettivizzino
il miglioramento
della patologia, in maniera
accessibile soprattutto al
paziente che deve sopportare
il carico di una terapia lunga,
non scevra da effetti collaterali,
e senza benefici immediati,
o comunque non percepibili
nelle valutazioni del profano.
Per quanto riguarda il problema
dei non responder, un
ulteriore punto di riflessione
è il fatto che, di tutti i trattamenti
disponibili, nessuno è
in grado di abolire completamente
il rischio di frattura.
Nei molteplici studi effettuati
nessun farmaco va oltre il
50% di successo nel ridurre
l’incidenza dell’endpoint del
trattamento, che è la frattura.
Ovviamente questo è già un
ottimo risultato in medicina,
in quanto sono pochi i farmaci
che hanno dimostrato una
tale efficacia in qualsiasi altro
ambito terapeutico. Ma questa
osservazione apre alla
considerazione che probabilmente
i meccanismi che conducono
alla malattia osteoporotica
sono diversi. Numerosi
sono infatti i fattori in gioco
in un meccanismo di omeostasi
così perfetto quale è il
turnover osseo. Sicuramente
si deve distinguere la malattia
osteoporotica dell’anziano e
della post-menopausa da
quella idiopatica giovanile. In
quest’ultima infatti sono le
mutazioni genetiche che
archivio di
Ortopedia
e Reumatologia
vanno indagate e individuate,
mentre i meccanismi di senescenza
cellulare sono il target
degli studi nell’osteoporosi
post-menopausale e senile.
La senescenza cellulare consiste
in una incapacità replicativa
e post-mitotica: il primo
meccanismo tende a limitare il
numero di cellule che si replicano,
e quindi il numero di
unità di ricambio, mentre la
senescenza post-mitotica influenza
la biodisponibilità di
numerosi fattori endocellulari
ed extracellulari. In questo
campo molti studi sono stati
fatti sulla disponibilità e sull’influenza
degli ormoni sessuali
nel determinismo dell’osteopenia.
Attualmente sono
in corso numerosi studi che
tentano di determinare il ruolo
del ridotto funzionamento
in loco di citochine e fattori
di crescita. In particolare, numerosi
e importanti studi sono
stati centrati sul sistema di
comunicazione RANK-RANK
ligando fra osteoblasti e osteoclasti.
Questo sistema permette
la modulazione da parte degli
stessi osteoblasti della
trasformazione della linea ma-
La gestione conservativa del paziente polifratturato
C.Trevisan, M. Mattavelli
Clinica Ortopedica, Università degli Studi di Milano e Ospedale S. Gerardo, Monza
ABSTRACT Conservative treatment of patients with multiple vertebral
fractures
The treatment of patients with vertebral fractures is not standardized yet.
We can distinguish patients with a recent vertebral fracture and patients
with chronic back pain. In addition to the use of analgesic drugs and bracing,
many Authors demonstrated the efficacy of kinesitheraphy for the
treatment of these patients.
Introduzione
La letteratura sul trattamento
dell’osteoporosi è ricchissima
di studi clinici sulla prevenzione
e il trattamento farmacologico.
Anche le opzioni
chirurgiche delle fratture da
osteoporosi trovano largo
spazio nelle pubblicazioni di
carattere ortopedico, con
molteplici studi e revisioni.
Non si può dire che altrettanto
spazio venga riservato alla
gestione conservativa delle
fratture da fragilità, e ancora
più esigua è la trattatistica
sulla gestione conservativa in
senso lato del paziente osteoporotico.
In questa breve dissertazione
ci occuperemo di una precisa
categoria di pazienti affetti da
osteoporosi: i pazienti che
sono incorsi in più fratture.
Con questo ci riferiamo in
particolar modo ai pazienti
con molteplici fratture vertebrali,
per i quali si può affermare
vi sia una sostanziale
carenza di studi clinici basati
sull’evidenza, sebbene le problematiche
che sollevano
siano piuttosto complesse e
meritevoli di un approccio
multidisciplinare. Non entreremo
invece nel merito della
gestione conservativa delle
fratture da fragilità ossea
appendicolari, per le quali
esistono prassi terapeutiche
ben consolidate e meno problematiche.
Le fratture vertebrali su base
osteoporotica sono un problema
epidemiologicamente e
socialmente rilevante. In
Europa, l’incidenza annuale
di fratture vertebrali clinicamente
evidenziabili è pari a
117 per 100.000 individui
per anno, con 41.000 ospedalizzazioni
per anno e una
degenza media di 20 giorni
[1,2]. Dopo la prima frattura
il rischio di subire una nuova
frattura aumenta di 5 volte, e
dopo la seconda o più il
rischio aumenta di ben 12
volte [3]. Oltre alle prevedibili
conseguenze economicosociali,
le fratture vertebrali
hanno importanti conseguenze
sulla qualità di vita dei
pazienti che ne sono affetti.
Numerosi studi [4-6] dimostrano
una stretta correlazione
tra fratture vertebrali, sia a
livello toracico sia a livello
lombare, e mal di schiena,
indipendentemente dal tipo
di frattura vertebrale (cuneo,
biconcava o da scoppio). Le
fratture vertebrali sono sempre
associate a riduzione dell’altezza,
in particolar modo
per le fratture con un completo
collasso del corpo vertebrale.
Fattori spesso non considerati,
ma di grande rilievo
nella vita quotidiana dei
pazienti, sono le conseguenze
funzionali e psicologiche
delle fratture vertebrali.
Come dimostrato da Gold e
coll. [7], esistono tre comuni
reazioni all’osteoporosi e alle
conseguenti fratture da fragilità
ossea: ansia e paura di
crofagica in osteoclasti. In particolare,
è stata studiata la proteina
osteoprotegerina, prodotta
dagli osteoblasti, la
quale, come dice il nome, protegge
l’osso riducendo il reclutamento
degli osteoclasti attivi
nelle unità di turnover.
L’individuazione di queste molecole
e dei meccanismi molecolari
implicati nel metabolismo
osseo permette di
identificare potenziali target
terapeutici e di aprire la via a
trattamenti sempre più efficaci
e con azione mirata, riducendo
in tal modo la prevalenza
dei soggetti non
responder al trattamento dell’osteoporosi.
Bibliografia essenziale
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Tosteson AN, Grove MR, Hammond
CS et al (2004) Early dis-
successive fratture, depressione
con disturbi del sonno,
apatia, stanchezza, e infine
perdita dell’autostima causata
da cifosi, disabilità e dolore.
La gestione del paziente con
fratture vertebrali va però
distinta in due grandi capitoli:
da una parte la gestione in
acuto della frattura vertebrale,
dall’altra come affrontare il
problema della rachialgia cronica
in soggetti con plurime
fratture vertebrali.
Gestione conservativa
del paziente con frattura
vertebrale recente
La problematica primaria per
importanza e precocità di
manifestazione in seguito a
una frattura vertebrale è il
dolore. Nostro principale
compito è quello di dare sollievo
al dolore del paziente, e
in secondo luogo permettere
al più presto la ripresa delle
quotidiane attività ed evitare
il peggioramento della deformità
vertebrale. La terapia dei
pazienti con frattura vertebrale
recente è a tutt’oggi per lo
più empirica e poco codificata,
in quanto non esistono in
letteratura studi clinici basati
17
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Am J Bone Med
115:209-216
McCombs JS, Thiebaud P,
McLaughlin-Miley C, Shi J
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Adami S, Isaia G, Luisetto G et al
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in clinical practice. Osteporos
Int 2006; 17:914-921
Disponibile all’indirizzo: http://ecm-italy.springer.com
come corso FAD (attualmente senza erogazione di crediti)
DOI 10.1007/s10261-007-0184-4
sull’evidenza. Ciò che è
attualmente presente in letteratura
su tale argomento può
essere considerato per lo più
come parere di esperti, e proprio
per questo presenta
numerose contraddizioni.
Le raccomandazioni recentemente
pubblicate da un gruppo
di esperti [8] propongono,
per il trattamento del dolore
acuto, il riposo a letto, l’uso
di analgesici, di posture corrette,
l’utilizzo di corsetti solo
per soggetti selezionati e l’astinenza
da attività fisica di
resistenza e forza per 2 mesi
dopo la frattura. Secondo
Heggeness e coll. [9], invece,
andrebbe assolutamente evitato
il riposo a letto, incoraggiando
piuttosto il paziente a
svolgere esercizi di mobilizzazione.
L’utilizzo di tutori
ortopedici in fratture recenti
è controverso. Alcuni sostengono
che i pazienti anziani
non tollerano il corsetto nonostante
il dolore e che non
esistono presidi in grado di
trattare fratture del tratto
toracico alto. In un lavoro
viene consigliato l’uso del
corsetto solo per il controllo
della fase acuta del dolore e
non oltre.

18
Altri Autori [10] consigliano
riposo a letto per 2-5 giorni;
se il dolore persiste dopo 2-3
settimane, può essere indossato
un corsetto, rigido o
semirigido, ma sempre per
un breve periodo di tempo.
Esercizi di rinforzo muscolare
e incremento della resistenza
dei muscoli estensori della
colonna, degli addominali e
dei muscoli respiratori andrebbero
iniziati al più presto,
anche durante il trattamento
con corsetto.
Da quanto emerge dalla letteratura,
vediamo come sia
ancora in corso il dibattito
sull’opportunità e sulle modalità
di utilizzo del corsetto
ortopedico, e di quale corsetto,
dibattito che si svolge
nella stridente assenza di dati
di evidenza scientifica. Esiste
infatti un solo studio clinico
randomizzato controllato che
dimostra l’efficacia di un
tutore ortopedico sul controllo
del dolore, sulla riduzione
della disabilità e sul miglioramento
della postura in un
gruppo di pazienti con fratture
vertebrali non recenti [11].
Non vi è invece alcuno studio
sugli effetti in pazienti con
frattura vertebrale recente.
Nell’ultimo decennio ha
assunto un ruolo sempre più
importante il trattamento chirurgico
delle fratture vertebrali,
con lo sviluppo di tecniche
quali vertebroplastica
(VP) e cifoplastica (KP).
Entrambe queste tecniche
chirurgiche hanno ottimi
risultati sul dolore, con una
diminuzione dell’87% nella
VP e del 95% nella KP [12].
Risultati altrettanto buoni
ottengono nella riduzione
della disabilità (50% in VP e
KP) [13]. Vertebroplastica e
cifoplastica possono essere
considerate una possibile alternativa
al trattamento conservativo,
in pazienti selezionati
e con indicazioni la cui
definizione non rientra negli
scopi di questo articolo [14].
Dall’esame della letteratura a
oggi disponibile, possiamo
evincere che il trattamento di
fratture vertebrali recenti
deve essere finalizzato al raggiungimento
di tre obiettivi:
il controllo del dolore con
riposo a letto e analgesici, la
prevenzione dell’aggravamento
della deformità indossando
un tutore ortopedico
rigido e il precoce recupero
funzionale tramite esercizi
per la correzione della postura,
la stabilizzazione del rachide
e il recupero del decondizionamento.
In questa prospettiva, di particolare
interesse nel panorama
attuale ci sembra la proposta
di Frost [15]. Secondo
l’Autore, la storia naturale
delle fratture vertebrali va
suddivisa in tre fasi: la prima
fase “acuta” di tre settimane,
una seconda fase di “guarigione
ossea” di sei settimane, e
infine la fase del recupero
della durata media di 3 settimane.
Nella prima settimana
è indicato il riposo a letto,
seguito nella seconda settimana
dalla possibilità per il
paziente di alzarsi con l’applicazione
di un tutore rigido
per 10 minuti 10 volte al
giorno, fino ad arrivare a 20
minuti per 10 volte al giorno
nella terza settimana. Nella
fase della guarigione ossea il
paziente può riprendere la
stazione eretta con tutore e
viene previsto un riposo a
letto di 20 minuti ogni 2 ore
(Intermittent Horizontal Rest
Regimen, IHRR). Nella fase
del recupero, il paziente deve
gradualmente abbandonare il
corsetto, rimuovendolo 3 ore
prima di dormire nella prima
settimana, poi 6 e 9 ore nelle
2 settimane successive. Tale
protocollo di trattamento è
destinato alle fratture acute
con una significativa sintomatologia,
mentre può essere
semplificato nei casi con
deformità o sintomi di entità
più ridotta. La proposta di
Frost ha il pregio di riferirsi a
una tempistica razionale con
proposte adeguate. Inoltre,
nella nostra esperienza, la
proposta dell’IHRR può risultare
molto utile anche nei
soggetti con dolore cronico
per esiti di cedimenti vertebrali
multipli.
Siamo comunque concordi
sull’importanza attribuita alla
chinesiterapia precoce, effettuata
anche durante il trattamento
con corsetto rigido a
tre punti. In corsetto, il
paziente ha la possibilità di
mantenere il tono muscolare,
con esercizi di tonificazione
degli estensori del rachide,
degli addominali, dei glutei e
dei gruppi muscolari degli
arti inferiori. Lo svezzamento
dal corsetto avviene mediamente
in 3-4 settimane. Una
volta abbandonato il corsetto,
il paziente dovrebbe essere
invitato a effettuare ginnastica
antalgica e decontratturante
con esercizi di rilassamento
ed esercizi in estensione,
nonché esercizi di rieducazione
posturale al fine di migliorare
l’assetto sagittale della
colonna e permettere posture
in estensione. Nei pazienti
affetti da osteoporosi che già
una volta sono andati incontro
a frattura vertebrale,
appare di grande rilievo un
programma chinesiterapico
di tipo cognitivo, educativo e
comportamentale, per per-
archivio di
Ortopedia
e Reumatologia
mettere al soggetto di svolgere
tutte le quotidiane attività
evitando movimenti e posture
a rischio per nuove fratture
vertebrali, e soprattutto programmi
terapeutici tesi a
diminuire il rischio di nuove
cadute.
Gestione del paziente con
rachialgia cronica
La rachialgia cronica si presenta
frequentemente nei
soggetti che sono andati
incontro a una o più fratture
vertebrali. La prevalenza di
presentazione di rachialgia
cronica è infatti del 40-89%
nei pazienti con almeno una
pregressa frattura vertebrale,
mentre è presente solo nel
21-42% in assenza di fratture
vertebrali. Nei soggetti con
rachialgia cronica da pregresse
fratture vertebrali su base
osteoporotica il dolore viene
definito di livello moderatograve
nel 50% dei casi. Assolutamente
da non sottovalutare
sono le conseguenze
che il dolore cronico porta
nei soggetti che ne sono affetti.
Secondo Ismail e coll. [6],
nei soggetti con pregresse
fratture vertebrali la disabilità
diviene significativa nel 10-
15% dei pazienti. Tale disabilità
si presenta con diverse
caratteristiche, variabili da
soggetto a soggetto, ma
costanti nella popolazione in
esame. I problemi più frequentemente
riscontrati
vanno dai disturbi del sonno,
alla difficoltà nel lavarsi o nel
vestirsi, all’incertezza nella
deambulazione. Alla rachialgia
spesso si associano addominalgia,
disturbi della digestione
e dell’alvo. Alla luce di
tutto questo, è facile comprendere
come il problema
della rachialgia cronica porti
il paziente a una progressiva
diminuzione della mobilità e
delle attività quotidiane, con
elevata tendenza all’astenia e
alla depressione, isolamento
sociale, perdita dell’autostima
e della motivazione.
Il dolore cronico comporta,
come noto, una sovrastrutturazione
del dolore che arriva a
condizionare pesantemente la
vita quotidiana dei pazienti.
L’esperienza soggettiva del
dolore, la memoria ed episodi
ricorrenti di dolore sensibilizzano
l’individuo a prevenirlo
e ne innescano il timore, fino
a instaurare comportamenti
tesi a evitare il dolore. Il
paziente è perciò portato all’astensione,
alla rinuncia per
timore dell’esperienza dolore.
Il problema del “pain-avoidance
behavior” è ben descritto
in numerosi studi [16, 17].
Per la complessità di questo
quadro clinico, è evidente
come l’approccio al paziente
debba essere multidisciplinare,
per poter controllare non
solo il dolore, ma anche tutti i
diversi e numerosi problemi
che ne derivano.
Secondo Sinaki [18], l’obiettivo
primario deve essere il
miglioramento della postura,
quando possibile, e per questo
consiglia anche l’utilizzo
di un PTS (“posture training
support”, una piccola ortesi
con spalline) al fine di diminuire
l’inappropriato stiramento
dei legamenti. Inoltre
suggerisce di evitare attività
fisiche che incrementino le
forze di compressione sui
somi vertebrali e di istituire
invece un solido programma
di esercizi mirati. A questo
andrebbe associata anche
un’adeguata terapia medica.
Alcuni Autori [19] considerano
il deficit di forza degli
estensori una concausa di
rachialgie e deformità. La
postura in flessione, tipica
della cifosi dorsale, è in grado
di causare disabilità, indipendentemente
dalla presenza o
meno di fratture vertebrali.
Di conseguenza è la postura
in flessione la causa di dolore
cronico, depressione e perdita
della motivazione. Anche
in questa visione, la causa
strettamente ortopedica porta
a una condizione multidimensionale
che coinvolge
negativamente il soggetto in
diversi ambiti.
In una gestione ragionata del
paziente con rachialgia cronica,
gli obiettivi da perseguire
sono tre: gestire il dolore, stabilizzare
la deformità e curare
disabilità e depressione. Per
spezzare il circolo vizioso che
esita nel “pain-avoidance
behavior” dobbiamo innanzitutto
controllare il dolore, da
un lato con un’adeguata terapia
medica e dall’altro con
l’IHRR e con l’eventuale utilizzo
di un tutore ortopedico
per permettere una stabilizza-
Variazione Media
1
0,8
0,6
0,4
0,2
0
-0,2
zione della deformità. Per
ridurre la componente posturale
della deformità e il
decondizionamento del dolore
cronico, non si può prescindere
dalla programmazione
di un solido programma di
esercizi di rinforzo muscolare
e di rieducazione posturale.
Infine, anche per curare gli
aspetti psicologici del paziente
affetto da rachialgia cronica,
è fondamentale perseguire
una valorizzazione funzionale
e un rinforzo muscolare associati
a una terapia di tipo
cognitivo-comportamentale.
L’esercizio fisico non deve
essere teso, come si potrebbe
pensare, ad aumentare la
densità minerale ossea, bensì,
attraverso un miglioramento
dello stato di forma generale
(aumento della forza e della
resistenza) e un graduale
recupero dell’autonomia funzionale,
deve mirare a risolvere
la disabilità e a migliorare
la qualità di vita dei pazienti.
In uno studio randomizzato
controllato [20] due gruppi di
37 pazienti ciascuno, tutte
donne in post-menopausa con
almeno una frattura vertebrale,
sono stati sottoposti a un regime
di esercizi domiciliari di
“stretching”, allenamento della
forza e attività aerobiche una
volta al giorno per 3 volte alla
settimana per 6 mesi. A 6
mesi i risultati sono ottimi, con
riduzione della sintomatologia
dolorosa, miglioramento della
situazione psicologica e della
funzione fisica, nonché un
conseguente miglioramento
della vita sociale (Fig. 1).
Risultati analoghi e ben evidenti
anche a 22 mesi di follow-up
sono stati ottenuti da
Malmros e coll. [21] con esercizi
eseguiti ambulatorialmente
e al domicilio, comprendenti
esercizi di allenamento
isometrico degli estensori
e flessori del tronco, allenamento
dell’equilibrio, associati
a esercizi di rilassamento
e stretching (Fig. 2).
Risultati del OQLQ a 6 mesi
* * * *
Symptoms
Emotion
Physical Function
ADL
Leisure/Social
Total
control
exercise
(* = p

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6
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-2
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