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The Ladies Of Rhythm - Sentireascoltare

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Squarepusher<br />

Love To Hear You Baby<br />

<strong>The</strong> <strong>Ladies</strong><br />

<strong>Of</strong> <strong>Rhythm</strong><br />

digital magazine | luglio/agosto 2012 | n. 93/94<br />

Afterhours<br />

Barbagallo<br />

Saint Etienne<br />

Roses Gabor<br />

Kevin<br />

SaunderSon


p. 4<br />

p. 10<br />

p. 22<br />

Turn On<br />

Ty Segall, Krewella, Bear In Heaven, Nguzunguzu, Monki<br />

Tune-In<br />

Barbagallo, Saint Etienne, Roses Gabor<br />

Drop Out<br />

Love To Hear You Baby: <strong>The</strong> <strong>Ladies</strong> <strong>Of</strong> <strong>Rhythm</strong><br />

Afterhours<br />

Kevin Saunderson<br />

Squarepusher<br />

Recensioni p. 82<br />

Campi magnetici » 126<br />

Classic album » 127<br />

sentireascoltare<br />

93/94<br />

luglio/agosto<br />

Direttore<br />

Edoardo Bridda<br />

Direttore Responsabile<br />

Antonello Comunale<br />

Ufficio Stampa<br />

Alberto Lepri, Teresa Greco<br />

Coordinamento<br />

Gaspare Caliri<br />

Progetto Grafico<br />

Nicolas Campagnari<br />

Redazione<br />

Alberto Lepri, Antonello Comunale, Edoardo Bridda, Fabrizio Zampighi,<br />

Gabriele Marino, Gaspare Caliri, Marco Braggion, Nicolas Campagnari,<br />

Stefano Pifferi, Stefano Solventi, Teresa Greco<br />

Staff<br />

Nino Ciglio, Carlo Affatigato, Marco Boscolo, Viola Barbieri, Fabrizio Gelmini,<br />

Antonio Laudazi, Simone Caronno, Diego Ballani, Antonio Cuccu,<br />

Giulia Antelli, Federico Pevere<br />

Copertina<br />

Donna Summer<br />

Guida spirituale<br />

Adriano Trauber (1966-2004)<br />

SentireAscoltare<br />

online music magazine<br />

Registrazione Trib.BO N° 7590<br />

del 28/10/05<br />

Editore: Edoardo Bridda<br />

Provider NGI S.p.A.<br />

Copyright © 2012 Edoardo Bridda.<br />

Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con<br />

qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare.


Ty Segall<br />

In love with the sixties<br />

alla luce dell’ennesimo ottimo album - il recente Slaughterhouse - è<br />

arrivato il momento di mettere un pò d’ordine nella discografia del<br />

garager più in vista della Bay area<br />

Lo stereotipo californiano è probabilmente un qualcosa<br />

che va avanti dai tempi dei Beach Boys. La terra promessa<br />

del surf, le spiagge da sogno al crepuscolo, e poi<br />

le ragazze, i party eccetea eccetera, un’immagine che è<br />

rimasta indissolubile nel mondo occidentale. Il suo corollario<br />

è quello di un luogo consacrato alla culture giovanili<br />

(e quante ne son passate nel corso dei decenni, tra<br />

surf, rivoluzioni hippie, psichedelia, punk hardocore e chi<br />

più ne ha più ne metta), che oggi sembrano giungerci<br />

cristallizzate tra i programmi teen di Mtv e quell’approcccio<br />

sfrontato, scazzato, assolutamente gioioso alla vita<br />

che in fin dei conti è lo stesso del surf. Ma questo non<br />

lo dico io, è la storia di Ty Segall a raccontarlo. Guardatevi<br />

il video Teeny Boppers, imitazione ironica delle<br />

superpatinate sit-com adolescenziali realizzata da una<br />

band liceale, al secolo gli Epsilons, e ditemi se non è<br />

così. Siamo nel 2006, Ty Segall è il biondino al centro<br />

della mise en scène.<br />

Parte da qui la sua avventura: un ragazzo di Laguna Beach<br />

che, come tanti altri, salta tra una band e l’altra, se<br />

la spassa, e impara quello che serve per diventare un<br />

musicista. In un paio d’anni, dal 2006 al 2008, i gruppi<br />

all’attivo sono già tre: gli Epsilons, i Traditional Fools, i<br />

Party fowl. Tutta roba che suona lo-fi e garage con varianti<br />

a piacere: gli Epsilons per esempio - con all’attivo<br />

due album - sono la formazione più punk e probabilmente<br />

anche la importante del lotto, perché un paio di<br />

amici seguiranno Segall fino al recente Slaughterhouse:<br />

nello specifico Mikal Cronin, autore anche di un ottimo<br />

esordio solista nel 2011, e Charles Moothart dei Charlie<br />

& the Moonhearts. I tre diventano come una piccola<br />

famiglia, condividono un bagaglio musicale che va a pescare<br />

dai ‘50 ai ‘70 senza dimenticare l’update ai Black<br />

Lips e al catalogo In the red, mentre Ty si sbizzarisce con<br />

la brillantina rockabilly dei Party Fowl e le trame surf dei<br />

Traditional Fool, sfornando dischi buoni ma, nel complesso,<br />

trascurabili.<br />

Il momento di provarci in solo arriva proverbialmente<br />

subito dopo. Horn the Unicorn esce nel 2008 per la<br />

poco conosciuta Wizard Mountain, label che aveva già<br />

dato alle stampe il lavoro dei Traditional Fool. E’ una<br />

cassetta con 9 brani dal lo fi approssimativo e mal regi-<br />

strato, tanto che la Captcha Records ha già provveduto<br />

a ristampare il tutto a tempo di record in una versione<br />

completa di qualche outtakes. Per la serie: qualcuno che<br />

ama recuperare vecchie lost tape si trova sempre. Lo spirito<br />

appare ancora punk e l’operazione all’insegna del<br />

divertimento (vedi la cover in falsetto di Bike dei Pink<br />

Floyd), ma alcuni pezzi lasciano intravedere già una buona<br />

dimestichezza con il pop: su tutti <strong>The</strong> Drag, che pur<br />

non muovendosi dal contesto Black Lips è comunque<br />

tra le migliori cose dell’album.<br />

E’ sempre il 2008, Ty Segall ha i cassetti colmi di canzoni<br />

già pronte, e puntuale arriva il secondo album. Questa<br />

volta è John Dwyer dei <strong>The</strong>e Oh Sees a notarlo e produrre<br />

il disco omonimo, Ty Segall, per la personale Castle<br />

Face. Le cose girano subito a dovere: l’approccio do<br />

it yourself ha finalmente una logica, un fascino, così il<br />

nostro può iniziare a esplorare con più dedizione anche<br />

la fase di scrittura, subendo in prima istanza l’influenza<br />

sixties di Sonics, Beatles, Tyrannosaurus Rex, e poi lasciandosi<br />

andare al primo episodio acustico, An ill Jest,<br />

e qualche influenza blues riciclata dai Black Keys come<br />

Don’t do it, anticipando, tra l’altro, l’hipsteria di Lonely Boy<br />

con il più o meno ufficiale video di So Alone.<br />

A questo punto, l’agenda degli avvenimenti si intensifica.<br />

Segall si sposta a San Francisco, città fondamentale<br />

per la crescita del ragazzo che salda nuove e vecchie<br />

amicizie con varie collaborazioni, prima su tutte un 7?<br />

con <strong>The</strong>e Oh Sees e una ottima cassetta con Mikal Cronin,<br />

Reverse Shark Attack, prodotta da Kill Shaman e<br />

probabilmente uno dei lavori più interessanti del suo<br />

2009. Il disco, rumoroso e pieno di fuzz, da una parte affina<br />

il gusto sixities, dall’altra prova a esplorare i territori<br />

che potrebbero essere di un Beefheart o dei Mothers of<br />

invention, specie nei dieci minuti finali di Reverse Shark<br />

Attack. La prova fa da contraltare al terzo disco solista,<br />

Lemons, uscito qualche settimana prima su Goner records,<br />

lavoro che rappresenta invece il momento più<br />

pop della sua discografia, se vogliamo, il momento in<br />

cui s’inizia a parlare di Ty come di un nuovo Jay Reatard<br />

(vedi It #1 ma soprattutto Cents). Dodici canzoni strofa<br />

ritornello della durata media di due minuti, in cui l’unica<br />

novità rilevante dal punto di vista musicale è ancora<br />

l’influenza del Capitano in un paio di tracce, In your car<br />

e la cover omaggio di Drop out Boogie, tutto comunque<br />

ricondotto ai classici binari garage.<br />

Arriviamo così al 2010, a Melted, il quarto disco solista in<br />

due anni. Un ritorno all’approccio ruvido e fuzzato degli<br />

esordi. Tornano i Beatles di Rubber Soul, ancora massacrati<br />

da distorsioni di ogni tipo e sommersi in un mare<br />

di psichedelia che ogni tanto sfocia nella paranoia dei<br />

<strong>The</strong>e Oh Sees (Finger) ma, più spesso, finisce in territori<br />

psych pop (Alone), passando quasi per casa Ariel Pink<br />

(Mike D’s coke). Non è un cambiamento sostanziale, ma il<br />

songwriting viene fuori con più personalità: la questione<br />

non riguarda più la riproduzione del modello sixties, ma<br />

la ricerca di una chiave di lettura personale. La cosa funziona,<br />

il disco piace tanto al pubblico quanto alla critica,<br />

e il ragazzo comincia ad essere chiamato con insistenza<br />

nel panorama underground americano (e non solo).<br />

La frenesia di Segall aumenta di conseguenza: si cimenta<br />

alla corte dei Sic Alps e intensifica l’attività dal vivo<br />

scalpitando tra i palchi di mezza America, aumentando<br />

la forza d’urto live e lasciando alle registrazioni in studio<br />

il compito meticoloso di ricreare una grana sonora<br />

adatta al proprio sound. Da questa ricerca nasce Goodbye<br />

Bread, il disco che lo consacra anche in Europa,<br />

una summa di quello che è stato, quasi a chiudere un<br />

capitolo di vita musicale. Ty prende casa presso la prestigiosa<br />

Drag City, la più lesta a metterlo sotto contratto<br />

per un nuovo disco, ovviamente senza contare i soliti 7?<br />

seminati in giro ancora una volta con <strong>The</strong>e Oh Sees e<br />

poi con Jeff the Brotherhood. Si abbassano i volumi e<br />

le distorsioni ma dentro c’entra tutto il mondo made in<br />

Segall dei vari Reatard, Strage Boys, <strong>The</strong> Standelles ma<br />

anche, a conti fatti, il suo modo garagista di frullare pop,<br />

psichedelia e good vibes. E’ il disco più lento dell’intera<br />

carrira, con molte ballads elettrificate, l’incedere della<br />

batteria in costante downtempo e più spazio alla voce,<br />

che arriva finalmente in chiaro. Se Melted era un disco<br />

con più idee, Goodbye bread lo sdogana ed è anche<br />

tempo di prendersi una meritata pausa. Nel 2011 si conta<br />

solo un tour accompagnato dai Feeling of love con cui<br />

Ty incide un 7?per Permanent Records. Il resto invece è<br />

storia di quest’anno.<br />

Il ragazzo ritorna in pista con due album. Hair, in collaborazione<br />

con il losangelino White Fence (nessuna<br />

novità: la valigia garage sixties con un pizzico di paisley<br />

underground) e Slaughterhouse, un disco che è il disco,<br />

quello giusto. Conferma ad altissimi livelli di un personaggio<br />

che ora può confrontandosi sia con il protopunk<br />

di Stooges, Mc5 sia con il progressive, che ora si firma<br />

Ty Segall Band mettendo in ragione sociale la famiglia<br />

d’amici con i quali è partito da Laguna Beach.<br />

In soli sei anni, il (quasi) venticinquenne Ty Segall è diventato<br />

più di un culto. E’ già una star.<br />

Stefano Gaz<br />

4 5


Bear<br />

In Heaven<br />

Watch <strong>The</strong> Drone<br />

dai cambi di lineup alle bizzarre mosse anti-promozionali, dalle arti visive<br />

al bel “i Love You, it’s Cool”, ultimo album della band.<br />

due chiacchiere con adam Wills<br />

I Bear In Heaven negli Stati Uniti spopolano: oltre 200<br />

date a seguire il disco della ribalta Beast Rest Forth Mouth,<br />

tutte sold out. Il successo italiano invece è tutto da costruire.<br />

La band resta un hype indie e nulla più, nonostante<br />

che Beast Rest Forth Mouth e il recentissimo I Love<br />

You, It?s Cool siano dischi più che solidi e con tanto di<br />

blogosfera al seguito. Abbiamo raggiunto telefonicamente<br />

il bassista e chitarrista della band Adam Wills, per<br />

approfondire il quadro attuale di una formazione che<br />

proprio in questi giorni è in Italia per la promozione di<br />

un ultimo album caratterizzato da valanghe di turbinanti<br />

synth, psichedelia e stravaganze, cultura dello spazio e<br />

del dancefloor. Siamo sempre in zona 80s ma con un<br />

colto taglio revisionista.<br />

Potresti dirci della storia che sta dietro al titolo del<br />

vostro ultimo album, I Love You, It?s Cool? Ne ho trovate<br />

differenti versioni online. Sono piuttosto sicuro<br />

che sia coinvolto il vostro ex compagno di band Sadek<br />

Bazarra...<br />

Adam Wills: Quando devi dare un nome a un disco, il<br />

suo titolo o ti viene immediatamente o hai da lottarci<br />

un po?. Sadek, che era con noi da tanti anni, ha lasciato<br />

la band subito dopo il disco precedente (Beast Rest Forth<br />

Mouth, ndr). È finito per ritrovarsi troppo impegnato e<br />

ha altri suoi progetti in corso, ma resta parte dei Bear In<br />

Heaven in molti sensi. Ha realizzato la cover, il design<br />

del nuovo album ed il merchandise. È passato in studio<br />

una notte e ha lasciato a John (Philpot) e Joe (Stickney)<br />

un paio di note nascondendole sotto i loro strumenti:<br />

una di queste recitava ?I love you, it?s cool?. All?epoca<br />

stavamo lavorando davvero troppo, scrivendo troppo<br />

ed eravamo tutti ultra-stressati, persino vicini al sentirci<br />

addirittura stanchi di stare in una band. Quella nota risuonò<br />

per noi anche a livello emozionale. Ci siamo messi<br />

quindi a dircelo a vicenda di continuo, fino a chiamare<br />

così anche il disco.<br />

Sempre a proposito della fuoriuscita di Sadek: come<br />

ha influenzato le dinamiche della band?<br />

AW: Ha cambiato le nostre dinamiche in positivo. Come<br />

abbiamo detto, Sadek è balzato fuori dalla band giusto<br />

prima che partissimo per il tour dello scorso disco. Ci ha<br />

costretti a trovare il modo di suonare dal vivo come trio<br />

un disco che testimoniava quattro persone. Non avevamo<br />

soldi per assumere un turnista e abbiamo quindi do-<br />

vuto imparare un mucchio di nuovi trick durante il tour.<br />

Questi hanno finito per influenzare ciò che facciamo ora<br />

in più d?una maniera.<br />

Avete rallentato lo streaming ufficiale di I Love You,<br />

It?s Cool del 400,000%, dandogli un ciclo vitale di<br />

2700 ore. Quale è stata la motivazione dietro a questa<br />

strategia? Volevate semplicemente provocare, è<br />

stata una mossa in risposta al leak precoce subìto dal<br />

disco o intendevate indicare o criticare altro?<br />

AW: Provocare era decisamente secondario. Puoi vederla<br />

in altro modo e a me starebbe bene, ma amiamo la musica<br />

ambient e quel che mi stavo chiedendo era come<br />

fare a realizzare una versione ambient del disco. Mi sarei<br />

effettivamente fermato a scriverne una, ma stavamo<br />

finendo sia il tempo che il denaro. Il slowed-down streaming<br />

era un?idea ludica completamente realizzabile,<br />

per cui siamo andati avanti con quella. Alcune persone<br />

hanno pensato fosse arte, come pensiamo anche noi,<br />

altri ci hanno visto una critica all?industria musicale e<br />

altre cose ancora. Resta musica prima di tutto.<br />

Mettete anche in vendita un ?super-deluxe<br />

bundle?da 350$ che include un disco rigido contenente<br />

tutte le 2,700 ore del drone...<br />

AW: Sì, e abbiamo pure piccole chiavette USB contenenti<br />

ognuna cinque ore di una sezione casuale del drone.<br />

(ride)<br />

La mia ipotesi riguardo al messaggio dietro allo streaming<br />

rallentato prendeva in considerazione una<br />

metafora della natura grower dell?album. Vedo infatti<br />

I Love You, It?s Cool come un disco più ambizioso<br />

del precedente Beast Rest Forth Mouth, un disco che<br />

funziona al meglio come entità intera piuttosto che<br />

colpire immediatamente con forze singole. Da qui la<br />

mia domanda: era questo ciò a cui volevate puntare?<br />

Avete deliberatamente evitato singoli istantanei<br />

quali erano Wholehearted Mess o Lovesick Teenager<br />

per raggiungere questo obbiettivo?<br />

AW: Per quanto ci riguarda siamo soliti ascoltare i dischi<br />

dall?inizio alla fine. Siamo però pure DJ e quindi comprendiamo<br />

perfettamente l?importanza di un hit single.<br />

Quando sei intento a fare un disco vorresti realizzare entrambi<br />

ed effettivamente avevamo entrambe le cose in<br />

mente. Certo è però che fare un disco da mettere su e<br />

da ascoltare per intero prima di passare all?artista successivo,<br />

era comunque il nostro obbiettivo principale.<br />

Sono interessato al vostro processo compositivo: ho<br />

letto che è perlopiù sottrattivo. Potresti spiegare?<br />

AW: Sì, la sua parte maggiore è sottrattiva e abbiamo<br />

usato tantissimo questo metodo di lavoro per I Love<br />

You, It?s Cool. Nello spazio dove lavoriamo abbiamo<br />

la possibilità di scrivere e registrare musica contempo-<br />

raneamente. Funziona così per ogni pezzo: John porta<br />

50/60 parti di synth, io altre 40 bassline diverse e poi lavoriamo<br />

all?indietro: muta questa layer, filtra quest?altro,<br />

riascolta e eventualmente riparti, togli altro, filtra ancora<br />

e così via.<br />

So che tu e John avete fatto anche qualche lavoro di<br />

video-editing in passato. Continuate a lavorare ancora<br />

su questo genere di cose?<br />

AW: L?editing è una grossa parte di me e John. Io l?ho<br />

studiato a scuola e John ha lavorato come film-maker<br />

per più di una decade. L?essere musicisti a tempo pieno<br />

è arrivato come una enorme sorpresa per tutti noi, non è<br />

qualcosa a cui abbiamo sempre aspirato. La musica era<br />

più che altro un hobby, una passione che portavamo<br />

avanti. Per cui sono certo che torneremo all?editing, a<br />

un certo punto.<br />

Dimmi anche degli aspetti visivi di uno show dei Bear<br />

In Heaven. Usate multimedia anche durante i vostri<br />

concerti?<br />

AW: Sì. Ci preoccupiamo degli aspetti visivi di ogni cosa.<br />

Forse non quanto ci preoccupiamo della musica, ma<br />

vengono comunque immediatamente dopo. Lavoriamo<br />

davvero duro per rendere i nostri concerti anche una<br />

personale esperienza visiva. Abbiamo quindi assunto<br />

un paio di amici a lavorare sulla programmazione e la<br />

sincronizzazione dei light-shows. Al momento stanno<br />

combattendo con qualche power issue tutto europeo:<br />

nel giro di due show abbiamo già fatto saltare le centraline<br />

di due location. Spero ci sia qualcuno pronto a tutto<br />

questo in Italia... (ride)<br />

Avete appena terminato il vostro tour negli Stati Uniti<br />

con Blouse e Doldrums. Conosciamo tutti i Blouse<br />

ma... potresti introdurci a Doldrums?<br />

AW: Doldrums è sbalorditivo. Non c’è nemmeno bisogno<br />

che sia io a presentarvelo: ne sentirete parlare senz?altro<br />

nei prossimi sei mesi. Ad ogni modo, Doldrums suona<br />

dal vivo con suo fratello e un altro ragazzo e fa musica<br />

come nessun altro in questo momento. Sai, noi scegliamo<br />

davvero minuziosamente le band che ci accompagnano<br />

in tour e questo non solo perchè ci interessa che<br />

abbiano musicalmente senso accanto a noi, ma anche<br />

perchè vogliamo assistere alle loro performance ogni<br />

singola notte. Ebbene, Doldrums lungo sei settimane<br />

di tour, non ha mai replicato lo stesso set. È genuino e<br />

originale, mi aspetto davvero grandi cose per lui.<br />

MaSSiMo Rancati<br />

6 7


nguzunguzu, MonkI<br />

Strani intrecci si verificano a volte dietro la consolle. Personaggi<br />

provenienti da percorsi e contesti diversissimi,<br />

l’uno accanto all’altro rivolti allo stesso pubblico, per trasmettere<br />

le stesse sensazioni liberatorie gettando nella<br />

mischia qualsiasi stile/pezzo/mood capiti a tiro, seppur<br />

in modi diversi tra loro. È così che presumibilmente andrà<br />

il 9 Giugno per i festeggiamenti dei 5 anni di attività<br />

DJing without limits<br />

Monki da rinse FM, nguzunguzu dal producing più arty, personaggi di diversa<br />

estrazione si incontrano alla consolle dopo un’esperienza comune: il supporto<br />

a grandi tour accanto a M.i.a. e Katy B.<br />

di Trash-Dance, la serata elettronica vicentina appena reduce<br />

dalla spettacolare serata con Rustie e Nightwave,<br />

di cui vi abbiamo raccontato di persona.<br />

Protagonista stavolta sarà una scuderia di personaggi<br />

femminili dal carattere differente: Monki, 19 anni, londinese,<br />

già con una sua etichetta (la Zoo Music), è la ragazzina<br />

terribile che in soli due anni è passata dall’anonima-<br />

to alla Rinse FM, dove al momento ha una finestra fissa<br />

settimanale, il mercoledì pomeriggio; e Nguzunguzu,<br />

l’inafferrabile coppia di producers statunitensi che negli<br />

ultimi due anni sta facendo colpo in diverse riviste<br />

specializzate per le loro affascinanti produzioni a base<br />

di ritmi sghembi, spazi emozionanti e oscurità assortite.<br />

Della prima è sotto gli occhi di tutti l’ebbrezza dei suoi djset,<br />

riscontrabile in uno qualsiasi dei dj-mix che circolano<br />

in rete, sempre coi piedi ben piantati nei meccanismi<br />

house ma ricca di svariati spunti euforici che coinvolgono<br />

tutto quel che di divertente e irriverente può essere<br />

abbinato ai 4/4. Per farvene un’idea, vi consigliamo proprio<br />

il podcast Rinse di Maggio, che ben rappresenta le<br />

smanie bass, funky e mainstream della ragazza. I secondi<br />

invece si fanno notare per una serie di EP pubblicati dal<br />

2010 ad oggi, capaci di ogni sorta di salto stilistico, dalla<br />

soft techno ipnotica di Mirage al bass-dubstep di Got<br />

U, dalla frenetica tech-house tribale di Unfold alla più<br />

recente piega thrilling suggestiva di Wake Sleep. Senza<br />

dimenticare che Dj Asma, metà del duo, è anche abile<br />

ed eclettica DJ: la prova? Scopritela da soli nello show<br />

per Red Bull Music Academy.<br />

Caratteristiche differenti eppure una grande esperienza<br />

in comune, quella di supporto al tour di due delle star<br />

più chiacchierate della dance-mainstream di oggi: Monki<br />

ha fatto da opening DJ per i concerti di Katy B, Dj Asma<br />

invece per quelli di M.I.A. Abbiam chiesto anche di queso<br />

alle due protagoniste, oltre a farci raccontare l’essenza<br />

dei loro stili e del loro carattere. Ecco a voi le loro parole<br />

esclusive per SA.<br />

A proposito: quella sera sarà presente anche un altro<br />

personaggio di lusso: Roses Gabor. Ma questa è tutta<br />

un’altra storia...<br />

Ciao ragazzi, benvenuti su SA.Ci fate le presentazioni?<br />

Monki: Ciao, mi chiamo Monki! Vengo da Londra e faccio<br />

parte di Rinse FM!<br />

DJ Asma: Noi siamo Asma Maroof e Daniel Pineda, da<br />

Los Angeles.<br />

Due parole a Monki.Una delle caratteristiche peculiari<br />

che emergono dai tuoi podcast Rinse è la flessibilità<br />

con cui ti muovi dalla house a tutto quel che di<br />

funky/pop/divertente gli gira intorno. È questo che<br />

dovrà aspettarsi il pubblico al tuo dj-set?<br />

Monki: Yeah! Aspettatevi un po’ di tutto: house, hip-hop<br />

e qualsiasi frangia di musica elettronica possibile... mi<br />

piace molto mischiare le cose quando affronto i diversi<br />

generi.<br />

Cosa significa essere una new entry alla Rinse? Lavori<br />

vicino ai pezzi grossi della label?<br />

Monki: ero già sulla scena da un paio di anni. Ora ho<br />

preso l’abitudine di lavorare in ufficio alla Rinse, per cui<br />

conosco tutti i ragazzi che gestiscono la stazione radio<br />

e l’etichetta.<br />

Raccontaci della tua esperienza a supporto del tour<br />

di Katy B. Com’è mettere i dischi al pubblico di un<br />

suo concerto?<br />

Monki: Sì, ho supportato il suo tour e devo ammettere<br />

che è stato strano, ti capitava di suonare anche alle<br />

sette di pomeriggio, quindi non era esattamente come<br />

un rave ma più come un concerto. Però ho comunque<br />

avuto ottimi feedback su twitter e dal pubblico. È stata<br />

un’esperienza diversa ma molto cool!<br />

Due parole a DJ Asma.Le vostre produzioni sono molto<br />

interessanti: a volte siam vicini al sound dubstep,<br />

altre volte è qualcosa di molto più arty, in entrambi<br />

i casi è sempre uno stile trasversale, ricco di groove,<br />

atmosfere e beats stimolanti. Quali sono le vostre<br />

radici musicali?<br />

DJ Asma: Beh sì, amiamo ogni tipo di musica da ogni<br />

parte del mondo, e anche di annate diverse. Abbiamo<br />

studiato entrambi all’istituto d’arte di Chicago e frequentanto<br />

le stesse lezioni sul suono, quindi la nostra<br />

formazione concettuale influenza il modo in cui facciamo<br />

musica.<br />

Beats, bass, loops, samples, spaces... cosa deve<br />

aspettarsi il pubblico italiano dal vostro dj-set?<br />

DJ Asma: Esatto, tutte le cose che hai detto! Grande<br />

energia, atmosfere rilassate, beat tristi/sensuali/paurosi...<br />

aspettatevi l’inaspettato!<br />

Asma, raccontaci della tua partecipazione al tour di<br />

M.I.A. Cosa significa fare il set prima di un suo live?<br />

DJ Asma: È stata un’esperienza incredibile. Folle tanto<br />

enormi da non crederci! E che impianti, sub, favolosi!<br />

A entrambe: avete una manciata di secondi per convincere<br />

il pubblico italiano a venire il 9 Giugno. Cosa<br />

volete dirgli?<br />

Monki: Venite, divertitevi e gettatevi in pista!<br />

DJ Asma: Its time for the perculator!<br />

caRlo affatiGato<br />

8 9


BarBagallo<br />

Poliedrico, imprendibile, astratto,<br />

sanguigno. Uno e molti. Carlo<br />

Barbagallo è uno dei segreti meglio<br />

sfaccettati in circolazione.<br />

“Cerco di sopravvivere con la musica, per evitare di sprecare<br />

il mio tempo in altre attività”. Carlo Barbagallo sa essere<br />

laconico, se vuole. Più spesso però è un profluvio di<br />

parole, idee, prese di posizione, spesso segnate da un<br />

entusiasmo generoso fino al romanticismo. Quando gli<br />

chiedo chi siano i musicisti cui più si ispira, mi spara una<br />

sessantina di nomi (da Brian Eno a Charles Mingus passando<br />

da Wilco, Mulatu Astatke, Frank Zappa, Polvo,<br />

Claude Debussy, Kurt Vile, Swervedriver...) specificando<br />

che si tratta di una lista riferita solo agli ascolti degli<br />

ultimi mesi. Soprattutto, ci tiene a sottolineare quanto<br />

preferisca “approfondire storicamente la vita e le opere<br />

degli artisti, delle scene, dei movimenti che scopro e che<br />

mi colpiscono particolarmente”. Attività che da sola, ne<br />

converrete, potrebbe riempire un’intera esistenza.<br />

Invece stiamo parlando di un siracusano classe ‘85 che<br />

già da una decina d’anni mette lo zampino in svariati<br />

progetti (i blues-rock La Petroliera, gli avant jazz Les<br />

Dix-huit Secondes, gli ultra-popadelici Albanopower,<br />

i grunge in acido Suzanne’Silver, i bluesy Tempestine<br />

e i più matematici La Moncada...) senza contare l’attività<br />

solista e un certo numero di partecipazioni in veste di<br />

strumentista, sound engineer o produttore (per Colapesce,<br />

Mapuche e Loners tra gli altri). “Oltre a fare e studiare<br />

musica non faccio quasi nient’altro. Sacrifico spesso tutto<br />

il resto.Certo, non è una passeggiata organizzarsi tra tutti<br />

ossessione in progress<br />

testo: Stefano Solventi<br />

gli impegni, come non è semplice tenersi continuamente<br />

predisposti agli stimoli, cogliere le idee e saper trovare il<br />

modo migliore per realizzarle. Impegno e costanza ripagano,<br />

ma la pigrizia è sempre in agguato”. Pigrizia è l’ultima<br />

parola che avrei pensato di utilizzare per questo articolo.<br />

Sapevo invece che avrei scritto “anomalia”: perché anomala<br />

è la presenza di un musicista tanto sfaccettato,<br />

iperattivo a dispetto dei santi, talmente immerso nella<br />

propria ossessione da scordarsi di segnalare la propria<br />

presenza nel pur asfittico shobiz italiano.<br />

Caroselli alieni<br />

“Mio padre comprò la Fender Redondo, che uso tuttora, più<br />

o meno nello stesso periodo in cui sono nato. Era il mio giocattolo<br />

preferito, insieme alle armoniche, i vinili e un piccolo<br />

registratore con il quale ho accumulato una quantità enorme<br />

di cassette”. Il tono e l’atteggiamento sono disarmanti<br />

rispetto alla fertilità poliedrica, al talento febbrile. Che<br />

nel repertorio solistico diventa imprendibile. Già <strong>The</strong> EP<br />

del 2008 era antipasto intrigante, ribadito l’anno successivo<br />

da quel Floppy Disk che sbalordiva per la visione<br />

psych espansa, un carosello denso e frizzantello di pop<br />

alieno e mollezze blues, di estrosa sperimentazione coi<br />

piedi cementati in un umbratile retroterra. All’epoca mi<br />

venne spontaneo associarne la cifra espressiva a quella<br />

di Richard Swift, un tipo anch’egli dall’indole piuttosto<br />

10 11


proteiforme. “Sai che non lo conoscevo? Lo citasti nella tua<br />

recensione di Floppy Disk, e per questo ti ringrazio La sua<br />

discografia è stata una sorprendente scoperta”.<br />

Il bello però sarebbe venuto due anni più tardi, con quel<br />

Quarter Century (corposamente anticipato da un Quarter<br />

Century EP) che sgranava la calligrafia tra art-rock e<br />

lo-fi, tra astrazioni ambient e vampe jazz-prog, una trama<br />

mutante e sierosa come avrebbero potuto tessere<br />

Faust, Syd Barrett, Nino Rota, Flaming Lips e Gastr<br />

Del Sol tutti assieme. “Ascolto tantissima musica diversa,<br />

adoro accostarmi a tutti gli approcci del fare musica<br />

e non apprezzo molto le categorizzazioni, anche se sono<br />

cosciente che possano essere utili”. E infatti. Tempo un<br />

paio di mesi ed ecco uscire Live At Yoko Ono, incisione<br />

di un concerto risalente al marzo 2010 con Barbagallo<br />

one man band assieme alla fidata semiacustica. Sorta<br />

di ritorno al futuro del folk blues basale, con esiti non<br />

troppo distanti dagli Alice In Chain unplugged marezzato<br />

di trepido smarrimento Howe Gelb. Un grado zero<br />

barbagalliano, potremmo dire, che mette l’accento sul<br />

suonare proprio quando lo facevamo animale da studio.<br />

E invece, tutt’altro.<br />

Qui Carlo fa una tirata che vale la pena leggere fino in<br />

fondo. “Il concerto e l’incisione sono entrambi aspetti fondamentali,<br />

il cui equilibrio varia a seconda dell’entità del<br />

progetto. Per quanto riguarda Suzanne’Silver e La Moncada,<br />

ad esempio, la configurazione da band, in cui ogni elemento<br />

porta il suo contributo in maniera eguale all’interno<br />

di uno spazio (la sala) e in un tempo definito (le prove), fa<br />

si che l’aspetto live sia costitutivo del progetto. I dischi si<br />

configurano spesso come delle fotografie documentarie,<br />

anch’esse circoscritte in un tempo e in un luogo definito,<br />

dell’attività del gruppo. In Les Dix-Huit Secondes invece il<br />

rapporto tra dimensione dal vivo e dischi è ancora diversa:<br />

essendo un progetto di totale improvvisazione ogni disco è<br />

live e ogni live un possibile disco. Per quanto riguarda invece<br />

la mia attività solista dischi e live si trovano sue due piani<br />

complementari. La produzione di musica esclusivamente<br />

registrata è la dimensione nativa, l’aspetto live è venuto<br />

solo successivamente. Da sempre registro continuamente<br />

e periodicamente raccolgo in opere unitarie ciò che ho prodotto,<br />

seguendo delle idee astratte o sonore. A circoscrivere<br />

il contenuto possono essere i cambiamenti nella vita o nelle<br />

condizioni di produzione, le caratteristiche del materiale<br />

o i processi messi in atto, similarità o contrapposizioni. I<br />

concerti mostrano tutt’altri aspetti: le idee di partenza spogliate<br />

di tutto ma esasperate da ciò che è non è proprio delle<br />

forme fisse, ovvero strutture labili o non definite, imprevedibilità<br />

e imprecisione nell’esecuzione, improvvisazione<br />

e istintività. Spesso suono da solo (come nel Live At Yoko<br />

Ono) ma nel prossimo futuro spero di riuscire a coinvolgere<br />

svariati musicisti in modo che, se le situazioni lo permetteranno,<br />

potrò organizzare degli ensembles sempre diversi in<br />

cui ognuno potrà apportare la propria creatività in totale<br />

libertà al repertorio”.<br />

Estremismi e utopie<br />

Un approccio decisamente jazzistico di quelli che fanno<br />

venire dei gran mal di testa ai cosiddetti imprenditori<br />

della musica. Alla maggior parte di loro, almeno. Un bel<br />

handicap, in effetti. Oppure una rara qualità. In ogni<br />

caso, non resta che farsene una ragione. “Promuovo i miei<br />

lavori rigorosamente DIY, prediligo il free download a cui<br />

affianco un po’ di tirature limitate, spesso autoprodotte o in<br />

collaborazione con piccole ma sincere etichette quali la Bloody<br />

Sound Fucktory, che ha stampato Quarter Century in<br />

musicassetta”. Cavalcare il presente insomma, adeguarsi<br />

al futuro dietro l’angolo, per quanto sia complicato sbirciare,<br />

calcolare dove vanno a parare queste benedette<br />

prospettive. “Penso che per quanto si discuta molto a riguardo,<br />

il problema è che ancora oggi non si fa altro che<br />

cercare di rinnovare o celare modi di vivere la musica non<br />

molto lontani da quelli dello scorso secolo, anziché sperimentare<br />

e abbracciare approcci profondamente differenti.<br />

Personalmente spero che le circostanze si estremizzino, in<br />

modo che si possa spingere verso il crollo definitivo di tutte<br />

le infrastrutture e schemi mentali che reggono i legami tra<br />

musica e intrattenimento, marketing, popolarità, immagine.<br />

Abbastanza utopico, lo ammetto”.<br />

Anche utopia è un termine che non avevo preventivato,<br />

ma forse avrei dovuto. In fondo, la carriera del musicista<br />

indipendente italiano è una corrida tra utopie - appunto<br />

- e bocconi amari, felicità a momenti come diceva quel<br />

tale. E poi tante, troppe difficoltà. “Credo che le difficoltà<br />

in cui ci s’imbatte dipendano dagli obiettivi che ci si pone.<br />

In un qualsiasi step di un percorso, più si cerca di andare<br />

oltre, ricercare, rinnovarsi e approfondire, maggiori sono<br />

le difficoltà che si incontrano, e nell’impegnarsi a superarle<br />

si apriranno nuove possibilità di creazione-produzione che<br />

inevitabilmente porranno di fronte ad altre difficoltà. Un<br />

musicista indipendente dovrebbe continuamente mettersi<br />

in discussione, nel modo a lui più congeniale. E’ insensato,<br />

secondo me, in particolare in quanto indipendente, puntare<br />

all’assestamento delle condizioni per tentare di escludere<br />

le problematiche, per assicurarsi l’apprezzamento altrui”.<br />

Due personaggi che corrispondono abbastanza a questo<br />

identikit del musicista indie ideale - poco incline al carezzevole,<br />

all’addomesticato - sono Colapesce e Mapuche,<br />

nelle cui recenti prove Barbagallo ha suonato. Anche se<br />

non possiamo fare a meno di pensare che dimensioni<br />

piuttosto lontane si siano soltanto sfiorate. “Sia nel primo<br />

EP di Lorenzo che nel primo album di Enrico, entrambi<br />

conterranei, colleghi e amici, ho collaborato per caso, in<br />

circostanze identiche ma in periodi diversi. Entrambi i lavori<br />

sono stati prodotti al Vertigo di Toti Valente (Albanopower)<br />

dove mi capitava spesso di passare il tempo. Tra un paio<br />

di birre ho messo giù, rispettivamente, un coretto muto e<br />

una slide guitar. Personalmente, però, non sono mai stato<br />

un ascoltatore attento di musica cantata in italiano, è un<br />

ambito che conosco molto poco e al quale non mi sono mai<br />

particolarmente interessato. In generale, non seguo quello<br />

accade. Sono sempre alla ricerca di nuova musica, al di là<br />

dei tempi e dei luoghi. Devo dire però che spesso le cose più<br />

interessanti le trovo al di fuori delle scene più chiacchierate”.<br />

In effetti, come si dice, le chiacchiere stanno a zero, soprattutto<br />

di fronte al lirismo impetuoso delle ultime prove<br />

di La Moncada (In <strong>The</strong> Kennel, uno split coi notevoli<br />

Gentless 3) e Suzanne’Silver (l’eccellente Deadband).<br />

In(contenibile) progress<br />

Questi ultimi sono appena rientrati da un tour europeo,<br />

esperienza di cui sono palpabilmente fieri, anzi entusiasti.<br />

“Al di là delle location,” interviene Mauro, il batterista,<br />

“delle singole date, delle montagne attraversate, dei<br />

chilometri fatti, dei cimiteri visti, dall’odore del formaggio<br />

francese, della ruota anteriore sinistra che ogni 24 ore cadeva<br />

in depressione, al di là del nostro look improbabile,<br />

del caffè dal gusto improbabile, al di là dell’invidia per non<br />

essere delle mucche al pascolo... Al di là di tutto, la cosa che<br />

più ci ha impressionato è stato il fatto che fuori dall’italia<br />

conta solo una cosa: LA MUSICA. Se ne infischiano di chi<br />

sei e di cosa hai fatto, se la tua musica vale, allora sei ok.<br />

La cosa bella, soprattutto nel nostro caso, è stata il fatto di<br />

aver frequentato, in questo tour, ambienti in cui il nostro<br />

lavoro ha una dignità. In cui il nostro essere musicisti non<br />

è valutato da quanto è figa la nostra camicia o da quanta<br />

frutta fresca chiediamo durante il soundcheck, da chi<br />

ci ha promosso, da chi ci ha supportato, da quante date<br />

abbiamo fatto, con chi abbiamo collaborato o chi abbiamo<br />

pagato. Tutto questo non conta un cazzo, conta solo<br />

ed ESCLUSIVAMENTE quello che sappiamo fare strumenti<br />

alla mano. Ti dirò che, per noi che non ci siamo mai piegati<br />

alle italiche usanze del do ut des, è stato come, finalmente,<br />

trovare una casa”. Chiarissimo.<br />

Come è chiaro che la cosa non si ferma qui. Un lavorìo<br />

costantemente in fieri. Tumultuoso. Irrefrenabile. State<br />

un po’ a sentire: “ho un pò di materiale completato,” riprende<br />

Barbagallo, “registrato in parte al Blue Record Studio,<br />

e molto altro in-progress. Ho in mente, però, di abbandonare<br />

per un pò il formato album, anche se ancora non ho<br />

certezze sulla modalità più opportuna. Parallelamente sto<br />

lavorando a delle composizioni di musica elettroacustica,<br />

conseguenti ai miei attuali studi. Quando sarà il momento<br />

le raccoglierò insieme e spero avremo modo di parlarne.<br />

Con Suzanne’Silver abbiamo in programma di registrare un<br />

EP al più presto e farlo uscire insieme al breve delirante libro<br />

che abbiamo scritto durante l’ultimo tour europeo. Anche<br />

con La Moncada siamo alla prese con l’arrangiamento dei<br />

brani per il prossimo album. E presto uscirà anche il secondo<br />

volume di In <strong>The</strong> Kennel”. Ah, ok, abbiamo capito. Roba<br />

da perderci la testa. Benedetto ragazzo.<br />

“24 ore sono poche per una giornata, non sono abbastanza<br />

per fare tutto quello che servirebbe per soddisfare la propria<br />

passione-ossessione”. Già, proprio così.<br />

12 13


Saint EtiEnnE<br />

Phoner con Sarah, voce e mente<br />

angelica del trio londinese<br />

Un ritorno inatteso e un album inaspettatamente dance<br />

per dei rinati Saint Etienne. A distanza di ben sette anni<br />

dal precedente Tales From <strong>The</strong> Turnpike House, Words And<br />

Music li ripropone in quel misto di dance, indie, folk ed<br />

elettronica squisitamente anglosassone che da sempre li<br />

contraddistingue, eppure rinnovati nei suoni e nelle sensibilità.<br />

L’incrocio di correnti, come più volte ripetuto in<br />

questi anni, è ancora quello tra 80s e 90s ed è senz’altro<br />

merito di un team di rodati produttori e collaboratori se<br />

l’artigianato pop del trio si è spostato su di un terreno<br />

d’azione familiare a Kyle Minogue e Madonna. Sarah,<br />

sentita al telefono una mattina dello scorso maggio, non<br />

lo nega ma conosce bene la differenza tra i Saint Etienne<br />

e il pop da classifica degli ultimi vent’anni almeno. E’<br />

questione di portarsi dentro quel senso di malinconia,<br />

ci racconta. Avete mai parlato di sesso o sessualità in<br />

una vostra canzone? Glielo chiediamo retoricamente ma<br />

il tono della risposta ci interessa. Certo che no, ma attenzione<br />

ai luoghi comuni: il sound della band è tutt’altro<br />

che freddo o impostato. E’ il regno del sublime. Ed<br />

è anche un luogo molto terreno dove ogni raptus pop<br />

comprende il proprio opposto. Come se ogni canzone<br />

sapesse di durare il tempo di un vecchio 45 giri...<br />

(English interview follows)<br />

Iniziamo parlando dell?ultimo album. E? curioso che<br />

inizi con Over <strong>The</strong> Border quando nel vostro penuti-<br />

Intervista<br />

a Sarah Cracknell<br />

testo: Edoardo Bridda<br />

mo lavoro finivate con Teenage Winter. I due spoken<br />

word, come giustamente ha notato il Guardian, sono<br />

quasi gemelli. Il segno di una rinascita il primo e il<br />

preludio di una fine il secondo. All?epoca del vostro<br />

penultimo Tales from Turnpike House erano circolate<br />

numerose voci di uno split...<br />

Non analizziamo noi e le nostre canzoni così tanto. Penso<br />

che sia compito degli ascoltatori dare un giudizio o formarsi<br />

un?opinione. Ma capisco benissimo cosa intendi...<br />

Nell?ultimo album, ho letto nella vostra press: parlate<br />

del pop come di un?espressione d?amore<br />

Sì, in un certo senso penso che lo sia. Il pop ti fa sentire<br />

l?amore in molti modi diversi. Amore per un?altra persona.<br />

“Love for a bella vista” o per un ricordo fantastico.<br />

Una canzone può raccontare diverse sfaccettature<br />

dell?amore.<br />

In Words and Sound i testi hanno un denominatore<br />

comune: il modo in cui la musica ti influenza fin da<br />

piccolo, la sua centralità nelle nostre vite...<br />

Esattamente, è il filo rosso dell?intero album. Parla di<br />

come la musica influenzi la tua vita, la vita di quanto<br />

eri un bambino o un teenager o anche quando sei<br />

già trentenne. Quanto una canzone possa trasportare<br />

l?ascoltatore indietro nel tempo e nello spazio.<br />

Words and Sound e Tales From <strong>The</strong> Turnpike House<br />

sono molto diversi. Dance il primo e pop-folk il se-<br />

14 15


condo. Credi che aver riarrangiato il vostro primo<br />

album - Foxbase Alpha - abbia influenzato il vostro<br />

ultimo lavoro?<br />

E? possibile, certamente. Non ci ho mai pensato ma credo<br />

che sia così. Credo che abbiamo avuto un pool di<br />

producer con i quali abbiamo lavorato negli ultimi sette<br />

anni e sarebbe stato un peccato non continuare la collaborazione.<br />

Richard X, Tim Powell, Nick Coler e Tim Larkin<br />

erano attorno a noi e in paraticolare gli ultimi tre, dopo<br />

la dipartita dall?agenzia Xenomania nel 2010, avevano<br />

voglia di buttarsi in qualche nuovo progetto. E dunque<br />

perché non lavorare con noi? Loro sono veramente fantastici<br />

Tutti loro, con Xenomenia, avevano lavorato con, tra<br />

gli altri, Kyle Minogue e Pet Shop Boys e questo si<br />

sente senz?altro nel vostro album. Del resto se è vero<br />

che Words and Sound è mainstream pop, è vero anche<br />

che è ha un sound molto più centrato di quanto<br />

non si ascolti nelle ultime prove di Kyle e di Madonna...<br />

Beh ti ringrazio. Io credo che i contenuti lirici e il senso<br />

di melanconia caratterizzino i St Etienne e li differenzino<br />

dalle produzioni pop delle chart.<br />

Tutti i riferimenti sessuali che si trovano nei singoli<br />

delle chart sono assenti nei St Etienne giusto? Avete<br />

mai fatto una canzone con quei contenuti?<br />

No mai. Non che sia una cosa negativa. Ma non credo<br />

sia la nostra cosa, sai.<br />

Che ruolo ha avuto Tim Powell in quest’album?<br />

Noi siamo bravi con i testi e la melodia, Tim con la musica...<br />

E gli altri co-writer del team?<br />

Con Rob Davis abbiamo fatto Popular e Last Days <strong>Of</strong> Disco.<br />

Con Debsey Wykesabbiamo fatto Haunted Jukebox<br />

nella quale lei canta con me oltre ad aver partecipato alla<br />

melodia. Mark Waterfield ha un co-write in I Threw It All<br />

Away. In quest?album abbiamo lavorato con un sacco di<br />

persone. Mai così tante nella nostra carriera.<br />

A parte tutti i guest, come nasce una canzone tra voi<br />

tre?<br />

E? piuttosto random, ma scriviamo tutti e tre. Qualche<br />

volta scriviamo assieme dall?inizio alla fine. Qualche volta<br />

qualcuno viene con qualche idea forte. E la seguiamo.<br />

In generale contribuiamo tutti con qualcosa all?interno<br />

di una canzone. Non credo che succeda spesso di sentire<br />

una band dove tutti e tre i membri scrivono nella stessa<br />

canzone.<br />

Suoni ogni tanto qualche strumento o lasci Bob<br />

e Pete la parte musicale? E con i producer come vi<br />

comportate?<br />

Faccio un po? di tutto in verità. Non tanto quanto loro<br />

ma qualche strumento lo suono. Per esempio, con Tim<br />

Powell che si porta dietro delle backing tracks e della<br />

musica sua, noi mettiamo sopra le melodie cambiando<br />

le sue strutture<br />

Nei vostri passati album c?erano molti sample di vecchi<br />

film e canzoni. Cosa c?era di speciale in questa<br />

pratica? Li usate ancora?<br />

Li usiamo ancora. Alcune delle nuove canzoni ne contengono.<br />

Ed è sempre così bello prendere delle cose e<br />

cambiarle. Del remixing mi piace proprio questa caratteristica.<br />

Pure se alla fine il risultato è irriconosibile rispetto<br />

all?originale.<br />

Sempre parlando del passato: vieni anche tu da<br />

Croydon come Bob e Pete? C?era una scena rave lì?<br />

La frequentavi?<br />

Vengo da Old Windsor. E sì, c?era una scena rave da quelle<br />

parti. C?erano un paio di club e poi, si, c?erano quelle<br />

cose che si facevano e ti trovavi in un campo. Ho conosciuto<br />

quella scena alla fine degli 80s.<br />

All?inizio la vostra musica è stata senz?altro influenzata<br />

dall?house e dalla rave scene...<br />

La cosa più bella è che la gente che non sapeva suonare<br />

nulla poteva fare un disco. Eri in grado di prendere<br />

dei vecchi dischi degli anni 60 e trovare ottimi loop e<br />

drum beat da suonare. Prendere pezzi di cose di altra<br />

gente e poi metterli assieme. Penso che sia stato molto<br />

liberatorio per Bob e Pete. Pensa che loro due volevano<br />

avere una band da quando andavano a scuola assieme.<br />

Hanno pensato al nome da dargli e a tutto il resto. Il fatto<br />

che all?epoca non sapessero suonare alcuno strumento<br />

avrebbe potuto bloccarli, se non ci fosse stata questa<br />

grande rivoluzione.<br />

Questa filosofia DIY era anche una caratteristica del<br />

post-punk. Sei cresciuta con la musica dei 70s/80s e<br />

mi riferisco alle band che citi nella canzone ?On <strong>The</strong><br />

Border?, che è autobiografica no?<br />

Assolutamente vero. Loro sono nati a Croydon e io a Windsor,<br />

che sono entrambi giusto fuori Londra. Abbiamo<br />

avuto esperienze molto simili durante l?adolescenza. E<br />

anche uno stesso background musicale.<br />

Avete registrato Sound of Water - il vostro album ambient<br />

pop - a Berlino con i To Rococo Rot. Cosa ricordi<br />

di quei giorni?<br />

E? stato bello lavorare con loro. Siamo arrivati a Berlino<br />

con delle idee appena abbozzate e loro si sono seduti lì<br />

e hanno aggiunto il loro contributo. Batteria, synth, basso<br />

e sequencer. Sembrava che stessero improvvisando,<br />

eppure è stato un processo molto organico. E quando<br />

siamo tornati a casa abbiamo finito il lavoro in bellezza.<br />

Tales from Turnpike House è basato su un quartiere<br />

reale. Come si sono svolte le session?<br />

E? un vero condominio di venticinque piani nel centro<br />

di Londra ma la Turnpike House, in cui le nostre storie<br />

sono ambientate, ne ha soltanto tre ed è locato in una<br />

zona più suburbana. I personaggi raccontati sono completamente<br />

fittizi. L?album racconta il quotidiano di<br />

queste persone e di come le loro vite, a un certo punto,<br />

si incrocino.<br />

Questo aspetto fictional ha sempre fatto parte delle<br />

vostre canzoni?<br />

Sì, abbiamo sempre raccontato storie immaginarie in terza<br />

persona. O inventato storie a proposito di persone.<br />

Molto raramente sono autobiografiche. Over <strong>The</strong> Border<br />

è semi-autobiografica.<br />

Sentendo i vostri spoken word mi vengono sempre<br />

in mente i Pet Shop Boys di West And Girls. Avete mai<br />

lavorato con loro?<br />

Non abbiamo mai collaborato ma abbiamo molte persone<br />

in comune. Io e Neil Tennant condividiamo lo stesso<br />

monotono (trad. da dead pan voice), la volontà di non<br />

drammatizzare le storie e lo stesso modo di raccontarle.<br />

Puoi raccontarci della parte visuale dei St Etienne.<br />

Dal vivo proietterete molti video?<br />

Avremo un sacco di visual e corti da proiettare. Alcuni<br />

fatti proprio per il tour. Preferiamo lavorare sui film piut-<br />

tosto che sui videoclip. Ci hanno dato i soldi per fare<br />

videoclip, ma con la stessa cifra siamo riusciti a fare dei<br />

film che verranno proiettati più volte di un videclip canonico<br />

da MTV. Ci piace molto farli ma non starci dentro!<br />

In quanti sarete on stage?<br />

Normalmente siamo noi tre più Debsey Wykes, occasionalmente,<br />

negli stage più grandi, chiamiamo James, un<br />

chitarrista che ci da una mano in queste occasioni<br />

Prima del brit pop eravate la next big thing, poi sono<br />

arrivati Blur Oasis ecc. Come hai vissuto quel periodo?<br />

Beh ci hanno provato a metterci dentro al mazzo ma non<br />

credo centrassimo molto. Certamente ci sentivamo affini<br />

o simili, in un certo senso, ai Pulp con i quali siamo amici<br />

da molto tempo e siamo stati anche in tour assieme.<br />

Con Oasis, Blur, Sleeper non abbiamo ma avuto nulla in<br />

comune ma in generale, brit pop a parte, per noi è stato<br />

un periodo molto eccitante e pieno di tour.<br />

Words and sound si colloca in un periodo storico particolare,<br />

tra synth pop, house e eurodance. Credo che<br />

il singolo Tonight lo rappresenti al meglio...<br />

Ciò che mi piace di più di quella canzone sono i tre cori,<br />

che sono piuttosto strani. Abbiamo sempre voluto che<br />

fosse il primo singolo. E? molto euforica<br />

16 17


oSES gaBor<br />

È un momento particolarmente propizio per la figura<br />

femminile nell’universo dance. Ok, da sempre i producers<br />

ricorrono a vocalist femminili per mandare le proprie<br />

hit a un livello superiore, e in passato ci son stati interi<br />

filoni dance che hanno eretto tale pratica a metodo<br />

di successo (la disco, i sample estatici dei rave nei 90s, i<br />

giochi pop-erotici dell’electroclash nei primi 2000), ma<br />

solo in tempi recenti la piena autonomia di produzione<br />

del gentil sesso si sta diffondendo a tappeto. Sarà il progredire<br />

delle tecnologie ora aperte a tutti, sarà una nuova<br />

apertura mentale che parte da dentro. Sarà che questo<br />

rifiorire deep sta riscuotendo il successo che meritava,<br />

sarà che le recenti euforie per lo UK funky han riscoperto<br />

un’efficacia della voce femminile che non sentivamo da<br />

parecchio tempo.<br />

Fatto sta che son sempre più i producer che rincorrono<br />

le nuove dive dance per far svoltare le proprie hit, e si<br />

va formando una cerchia sempre più ampia di protagoniste<br />

femminili dal tocco inconfondibile, che passano<br />

da una hit all’altra lasciando sempre il segno nelle<br />

memorie degli ascoltatori. “Quella voce l’ho già sentita”,<br />

magari su dischi, generi e artisti completamente differenti,<br />

perché certi tocchi di fino riescono bene ovunque.<br />

Vedi Ms Dynamite, letteralmente risorta nel 2010<br />

grazie alle collaborazioni con Zinc (Wile Out), Redlight<br />

(What You Talking About) e Magnetic Man (Fire) oppure<br />

I Know<br />

That Voice<br />

Arriva in Italia Roses Gabor ed<br />

è l’occasione per far quattro<br />

chiacchiere con una delle vocalist<br />

più richieste dai producers dance<br />

moderni: Gorillaz, SBTRKT, Redlight,<br />

Buraka Som Sistema... testo: Carlo Affatigato<br />

Katy B, l’invenzione di casa Rinse passata dalle ospitate<br />

su Geeneus e DJ NG a diventare la stella della popular<br />

dance londinese, sempre dopo due splendidi trampolini<br />

di lancio insieme ai Magnetic Man (Perfect Stranger e<br />

Crossover). E ancora, Jessie Ware (vista negli album di<br />

SBTRKT e Joker), Anneka (tirata in barca da pezzi da<br />

novanta come Vex’d, Starkey, iTAL tEK e Phaeleh) e<br />

Lily McKenzie (già sotto l’ala di FaltyDL, FunkyStepz<br />

e Brackles), senza voler nominare la “everybody wants<br />

me” Nicki Minaj, che le sue attenzioni le ha già ricevute,<br />

o M.I.A., da sempre spinta da un fidanzato di lusso come<br />

Diplo.<br />

Roses Gabor non è solo una delle più richieste, ma è<br />

soprattutto la voce più flessibile del mosaico che stiamo<br />

descrivendo. Un calore carico di soul che si lascia ispirare<br />

dalla tradizione r’n’b classica (ce lo dice lei stessa),<br />

capace di linee vocali dalla melodia ispiratissima come<br />

quelle di Pharaohs, la hit di SBTRKT dell’estate scorsa,<br />

ma anche di quei tocchi irresistibili senza i quali un pezzo<br />

funky come Stupid, fatto con Redlight, non sopravviverebbe.<br />

Tra le collaborazioni di Roses ci sono anche i<br />

Buraka Som Sistema (quel concentrato di euforia che è<br />

(We Stay) Up All Night) e Shy FX della Digital Soundboy<br />

(piccola parte in Raver), ma la più prestigiosa rimane probabilmente<br />

quella coi Gorillaz, che l’han voluta come<br />

voce live della loro big hit Dare.<br />

18 19


Ha ancora tante frecce nel proprio arco, la Gabor, e un<br />

cantiere pieno di nuovi progetti in arrivo, sui quali non ci<br />

sono ancora anticipazioni. Un riuscitissimo stato dell’arte<br />

sulla malleabilità della cantante londinese, però, ce l’ha<br />

già offerto il fedelissimo DJ Martelo, col mixtape <strong>The</strong><br />

Wonderful World of Roses Gabor, che sa cogliere in 45 minuti<br />

tutte le affinità elettive alla portata della sensibilità<br />

che di lei sappiamo.<br />

Proprio insieme a Martelo, Roses Gabor il 9 Giugno sarà<br />

in Italia, ai 5 anni di Trash-Dance, con un’esibizione che<br />

potrà farvi toccare con mano il talento e la comunicatività<br />

di cui stiamo parlando. Nell’intervista che segue,<br />

intanto, potrete scoprirne l’umiltà e la simpatia, oltre<br />

che le radici stilistiche e certi accenni a possibili mosse<br />

future. La dance diva in piena ascesa, naturalmente in<br />

esclusiva su SA.<br />

Ciao Roses, benvenuta su SA magazine.Stiamo seguendo<br />

da tempo le tue collaborazioni nelle varie<br />

hit recenti: Gorillaz, Shy FX, Redlight, SBTRKT, Buraka<br />

Som Sistema... con chi ti è piaciuto di più lavorare?<br />

Forse mi son divertita di più coi Gorillaz e i Buraka perché<br />

ormai sono come una seconda famiglia. Ma in generale<br />

amo ogni singolo pezzo che ho registrato insieme<br />

agli altri, sinceramente non ho dei veri preferiti. Voglio<br />

solo cantare i miei pargoli sempre e ovunque!<br />

Raccontaci delle tue preferenze musicali. Artisti, generi<br />

preferiti...<br />

Generi preferiti... hmmm ho sempre amato l’hip-hop. Ma<br />

anche artisti come Bjork, Emiliana Torrini, la Mary J.<br />

Blige di una volta, Madness, Metronomy... i miei gusti<br />

sono un tantino eclettici, immagino.<br />

Le collaborazioni tra producers elettronici e voci femminili<br />

hanno sempre dato risultati notevoli. È sempre<br />

interessante osservare come il calore di una voce<br />

femminile come la tua si leghi all’energia dei beats<br />

dance. Spiegaci un po’ i segreti di questo connubbio:<br />

cosa significa aggiungere le parti cantate a una hit<br />

dance? È difficile catturare l’essenza della canzone?<br />

Quando sento un pattern strumentale generalmente<br />

non penso “questa è una hit”, ma “mi piace lavorarci sopra”,<br />

oppure (di solito il giorno dopo, se va bene) “mi piace la<br />

resa d’ascolto finale”, indipendentemente dal fatto che<br />

diventi un pezzo per club, o un assolo chitarra/voce o altro.Vado<br />

molto a istinto, non ho un vero segreto. O forse<br />

il segreto è proprio questo.<br />

L’efficacia della voce femminile nella musica dance<br />

ha una lunga storia alle spalle. Dai 70s disco agli 80s<br />

della house/techno e del pop, le hit jungle/d’n’b dei<br />

90s, l’electroclash, la deep, il funky, il mainstream,<br />

l’hip-hop... è una formula senza tempo, vero? Quali<br />

sono le tue dive dance preferite del passato?<br />

Le mie dive dance preferite? Ti stupirò, non ascolto musica<br />

dance con parti vocali di solito. Non ho familiarità con<br />

le dive dance, eccetto forse Chaka Khan, che è davvero<br />

stupefacente.Mi piace però in generale la musica che<br />

ti induce a ballare: Buraka, gran parte della roba soca,<br />

Diddy - Dirty Money, Rick Ross, Metronomy... al momento<br />

mi fanno un grande effetto.<br />

Qualche artista femminile che ti ha ispirato?<br />

Mary J. Blige. Anche se non canto per niente come lei,<br />

adoro letteralmente la sua emozione. Riecheggia davvero<br />

dentro di me.Mi hanno anche presentato a Chanté<br />

Moore, che ha una voce dolce e bellissima. Guardando-<br />

mi indietro, penso sia stata lei ad insegnarmi che non<br />

devi essere una bomba di energia perché il tuo mood<br />

abbia successo.<br />

Con chi ti piacerebbe lavorare in futuro?<br />

Mi piacerebbe lavorare con un sacco di producers! Da<br />

Kanye a Bjork... c’è così tanta roba eccitante in giro al<br />

momento. E a me piace sperimentare. L’altra settimana<br />

ho avvicinato Flying Lotus in un club a Londra, chissà,<br />

forse faremo qualcosa insieme presto...<br />

Ti senti solo una cantante? O ti vedi come parte attiva<br />

in fase di produzione?<br />

Sicuramente mi sento più dentro alla produzione. Non<br />

so suonare nulla, a parte forse... il piano a livelli da principianti<br />

[ride], ma ho piena fiducia nel mio istinto verso<br />

il sound che funziona meglio, e mi piace molto sperimentare.<br />

Quindi sì, mi sento molto più affine alla fase<br />

di produzione.<br />

Come sono le tue performance nei club? Dj-set o live?<br />

Che genere di musica fai?<br />

Al momento faccio show live, soprattutto in uptempo<br />

insieme al mio fantastico DJ Martelo. Spero in futuro<br />

di poter avere una band e probabilmente starò alle percussioni!<br />

Prossime collaborazioni?<br />

Oooohh, vorrei tanto parlartene ma davvero non posso.<br />

Sto lavorando su dei pezzi personali insieme a gente<br />

straordinaria e non vedo l’ora di poterle cantare ai miei<br />

fan, ma non posso davvero dirti nulla ora...<br />

20 21


<strong>The</strong> <strong>Ladies</strong><br />

<strong>Of</strong> RhyThm<br />

LovE To HEAr You BABY<br />

La scomparsa di Donna Summer<br />

ci spinge a ripercorrere il ruolo<br />

decisivo della figura femminile<br />

nella storia della dance.<br />

Un viaggio, player alla mano,<br />

lungo le hit storiche rese grandi<br />

dalle donne.<br />

intro<br />

È proprio vero, la reale importanza delle cose la<br />

si capisce solo quando le si perde. E la recente<br />

scomparsa di Donna Summer non è solo un pezzo<br />

del nostro amore per la bellezza che scopre<br />

il vuoto, ma anche l’occasione per riflettere su<br />

quanto importante sia stata la figura della donna<br />

nei corsi e ricorsi dance da quarant’anni a questa<br />

parte. Perché la donna è armonia, eleganza, stile.<br />

È il pepe che da solo può far svoltare un pezzo.<br />

È la testa d’ariete per far presa sul pubblico più<br />

ampio, il modo più efficace per abbattere le barriere<br />

all’ingresso nella fruibilità di una canzone.<br />

Qualsiasi producer che ambisca a raggiungere il<br />

successo della platea lo sa, avere la giusta voce<br />

femminile accanto è un asso della manica di formidabile<br />

efficacia.<br />

Quella della diva è una figura trasversale che nella<br />

storia ha toccato diversi generi, stili ed energie.<br />

Interi filoni dance hanno eretto un monumento<br />

alla centralità del vocalizzo femminile, ma anche<br />

quei generi che per propria natura sono più<br />

lontani dalla gentilezza di un cantato femminile<br />

(vedi la techno) hanno avuto in realtà i loro apici<br />

di successo grazie alla figura della donna vocalist.<br />

E allora facciamo insieme questo viaggio emozionato<br />

e nostalgico lungo le tracce che han segnato<br />

22 23<br />

Testo: Carlo Affatigato


la storia della dance, seguendo il filo conduttore del cantato offerto dal<br />

gentil sesso. Player alla mano, vedremo i tanti modi in cui l’evoluzione dance<br />

ha fatto risaltare l’importanza della donna. E attenzione, perché scorrendo<br />

le tracce che han segnato anche la nostra storia personale, il rischio è che<br />

scappi anche la lacrimuccia.<br />

Good Times: disCo seduCtion<br />

Se parliamo di figure femminili dance, non si può non cominciare da quella<br />

che per eccellenza è stato il filone estetico fondato sul ruolo delle divas, dunque<br />

la disco. Lungo tutti i 70s la disco music ha fatto della cantante femminile<br />

il suo perno cardine, proprio per quel carattere che la donna portava al<br />

genere: disco significava divertimento, svago e spensieratezza, la distrazione<br />

dalla quotidianità che non cercava (ancora) ossessioni o alienazioni, ma che<br />

puntava semplicemente alla riconciliazione collettiva. La donna allora diventa<br />

l’immagine estrosa su cui puntare, sempre luccicante e gioiosa, sorridente<br />

e mai distaccata, simbolo di quanto anche la musica prodotta voleva essere<br />

coinvolgente, allettante e, in fondo, facile da amare.<br />

Got To Be Real, dunque, e una Cheryl Lynn dalla voce morbida e sinuosa che<br />

fa di tutto per accarezzarti e coinvolgerti in una delle hit disco più famose di<br />

sempre. Ma anche l’energia frizzante della Diana Ross di I’m Coming Out che<br />

ti chiama dalla pista, o gli Chic nello stato di grazia di Good Times e Le Freak,<br />

con le voci di Luci Martin e Alfa Anderson a dare compiutezza a un suono<br />

altrimenti insoluto. La donna e l’energia dei brani sono un tutt’uno, e conti<br />

alla mano una voce forte e graffiante basta da sola a fare la hit, come nel<br />

caso di <strong>The</strong>ma Houston e della cover di Don’t Leave Me This Way, identica<br />

alla versione di Harold Melvin & <strong>The</strong> Blue Notes ma innegabilmente con<br />

una marcia in più.<br />

La storia prevede anche i passaggi obbligati su Vicki Sue Robinson (Turn<br />

<strong>The</strong> Beat Around), A Taste <strong>Of</strong> Honey (Boogie Oogie Oogie), Anita Ward (Ring<br />

My Bell) e ovviamente Blondie, col sempreverde acuto di Heart <strong>Of</strong> Glass. Ma<br />

due sono le fuoriclasse del filone. Una è Gloria Gaynor, che di quell’energia<br />

era la quintessenza: due pezzi letteralmente immortali come I Will Survive e<br />

Never Can Say Goodbye, la forza di un’impronta vocale determinata che punta<br />

l’obiettivo (cioè tu) senza distrazioni o temporeggiamenti, rappresentano<br />

il volto più lucido e convinto di quell’estetica, e proprio per questo anche<br />

l’oggetto delle caricature più ciniche. L’altra ovviamente è Donna Summer,<br />

ossia l’abbandono senza freni al virtuosismo, al contatto sensoriale. In pratica<br />

al sesso. Dietro c’era Giorgio Moroder a tirare le fila, ma l’interprete ha avuto<br />

i suoi eccellenti meriti nel dar vita all’immagine più hot dei 70s: tre botte da<br />

panico, una Hot Stuff che era puro invito alla trasgressione e al godimento,<br />

la Love To Love You Baby che esplicita il gioco in un tripudio di versi orgasmici<br />

e la meravigliosa I Feel Love, sfondo sintetico vivacissimo e linea vocale dal<br />

languore ineguagliabile, la resa definitiva a lasciarsi scivolare tra le curve<br />

sonore più amate del decennio. L’icona delle dive a seguire è servita.<br />

L’era disco è stata apice e metro di continuo paragone con tutto ciò che è<br />

venuto a seguire, e in tanti modi i volti dance han voluto confrontarsi, scontrarsi<br />

e rivaleggiare con quell’immagine, passando dagli omaggi sinceri ai<br />

metodi più dissacranti. Ancora oggi persiste un modo di far musica dance<br />

devoto a quel tipo di sentire, con frutti più o meno saporiti come i Tiger<br />

& Woods di Don’t Hesitate, gli Scissor Sisters di I Don’t Feel Like Dancing o<br />

gli Alcazar di Crying At <strong>The</strong> Discoteque. Eppure l’aspetto più interessante è<br />

stato osservare come le generazioni successive siano andate passando costantemente<br />

dalla vicinanza alla repulsione verso quel mondo: come stiamo<br />

per vedere, il senso della competizione delle dive post-disco è stato ben<br />

agguerrito.<br />

someThinG Unreal: raves & peripheries<br />

Fai un salto nel tempo che attraversa una decade, ed è già cambiato tutto.<br />

Nei ‘90 impazza la furia degli elementi, l’eco dei rave assorda l’aria coi breakbeat<br />

acidi di jungle e d’n’b e l’intenzione distruttiva è lampante: siamo<br />

agli ultimi strascichi di vero futurismo, l’ossessione per il progresso assume<br />

i connotati di una decostruzione della forma e l’accelerazione incontrollata<br />

rade al suolo il pattern ritmico canonico. Piacevolezza, svago, armonia? Al<br />

diavolo. L’ardkore è furore per le masse e ha la precisa intenzione di travolgere<br />

tutto. Comprese le voci femminili, che rappresentano un’occasione<br />

d’oro per sotterrare lo storicismo: il vocalizzo così diventa sample, estratto,<br />

gettato nella mischia e rielaborato in una pletora di distorsioni, allungamenti<br />

e slabrature in ecstasy. Ecco quindi che il campione allucinato diventa il simbolo<br />

della meteora acid, sopravvivendo ancora oggi nelle varie produzioni<br />

tech-house, dubstep e dnb.<br />

All’inizio il campionamento era il pretesto perfetto per creare sound di rottura:<br />

Nightmares On Wax nel 1990 tira fuori uno dei sample isterici più<br />

imitati dalla scena rave, Aftermath con quel “there’s something unree-ee-eeal”<br />

che diventa spirale di follia mentale su una colata di bassi LFO potenziati<br />

e sincopi pre-jungle. C’era un certo senso di rispetto per l’immagine diva<br />

classica, che conduceva a citazioni eccellenti e cover in breakbeat. Tra gli<br />

omaggi più in vista c’è il ritorno di Donna Summer, nella I Feel Love ripresa<br />

da Messiah, Jill Francis, con la versione incendiaria di Make Love To Me di<br />

Lewi & Chopper, Angie Brown, insieme ai Bizarre Inc. nelle due top chart<br />

hits I’m Gonna Get You e Took My Love, ma anche la versione al femminile di<br />

Everybody’s Got To Learn Sometime dei Korgis virata acid da N.R.G.<br />

24 25<br />

Donna Summer


Tutto come previsto e facilmente apprezzabile da tutti. Se non fosse che a<br />

un tratto arriva la vena dissacrante e la cosa si trasforma nell’hysteria della<br />

seconda ondata rave, dove la voce viene caricata di elio per simulare l’allucinazione<br />

MDMA, partorendo quel tappeto di hit underground che ha<br />

rappresentato la pietra angolare delle estati ‘ardkore: questa la frenesia che<br />

ha partorito i pezzi più amati nel segno della distorsione vocale, la Velocity<br />

Funk di E-Dancer/Kevin Saunderson (il malessere dell’E-sound martellato<br />

nella Detroit nera), You Got To Slow Down di Tek 9 (l’apoteosi dell’estetica<br />

cartoonized), My Mind di Noise Factory (l’inno per le notti lunghe 20 ore),<br />

giusto per fare solo pochissimi esempi.<br />

Non solo campioni e dive virtuali, però: le donne in carne ed ossa c’erano<br />

anche in piena moda jungle e han provveduto a produrre alcuni dei pezzi<br />

più duraturi degli hard nineties: Baby D nel 1994 pubblica Let Me Be Your<br />

Fantasy, il capolavoro jungle eclettico al punto giusto per il pubblico ad<br />

ampio raggio, un meraviglioso assetto soul-r’n’b da classifica (infatti è #1 UK<br />

per due settimane), il breakbeat formalmente perfetto e refrain analogico da<br />

cardiopalma. Ancora più soulful melody è Sweet Love di M-Beat e Nazlyn,<br />

il black soul intrecciato ad arte nel tessuto jungle, mentre quello di Ursula<br />

Rucker su Loveless dei 4 Hero lo ricordiamo come un efficace stream of<br />

consciousness sul breakbeat intelligente. A farne una questione di gusto,<br />

invece, è uno dei personaggi femminili più duraturi del continuum, Diane<br />

Charlemagne, quando con una besta come Goldie tira fuori una collezione<br />

di pezzi intelligent-d’n’b dalla fortissima presa mentale quali What You<br />

Diane Charlemagne<br />

Won’t Do For Love (impronta jazz infallibile), Believe (that’s chill emotion) e<br />

ovviamente Inner City Life, una ferita disperata e senza punti fermi su spazi<br />

alieni da vertigine.<br />

Impossibile completare il quadro in questa sede. Il vocalizzo è stato uno dei<br />

fili conduttori più affascinanti ed estranianti dell’era rave, ma la cosa più curiosa<br />

è che tutto questo accadeva mentre, poco più in là, altri attori stavano<br />

(ri)costruendo i grandi fasti dell’immagine delle dive...<br />

maGic sUmmers: an eurodanCe odyssey<br />

Siam sempre nei ‘90, parallelamente al rave sound ma esteticamente agli<br />

antipodi: l’ondata eurodance invade le radio col suo carattere spigliato<br />

(diciamo pure sfacciato) e la sua attitudine “commerciale” (così chiamiamo<br />

proprio la zona dance che deriva da quello stile). E di nuovo il ruolo del<br />

cantante, quasi sempre femminile, torna ad essere il perno su cui tutto gira.<br />

In quanto pop-dance al cubo, la parte vocale è protagonista e artefice del<br />

sound, lo sforzo di produzione qui non si concentra su strutture sintetiche,<br />

ritmi o velocità, ma sulla realizzazione dell’hook infallibile, del What Is Love<br />

indimenticato (in questo caso anche le voci maschili han dato soddisfazioni,<br />

Haddaway è solo un esempio). Qui si gioca a carte scoperte: l’obiettivo è<br />

marchiare a fuoco l’immaginario dei giovani del tempo e la generazione dei<br />

trentenni di oggi è quella più coinvolta.<br />

I primi colpi grossi arrivano già nell’89, diciamo C’mon and Get My Love di D<br />

Mob e Cathy Dennis e Pump Up <strong>The</strong> Jam dei Technotronic, entrambe ben<br />

consapevoli della loro vicinanza hip-hop per tempi ed energia. Poi, pochi<br />

giri di parole, non c’è altro da fare se non scegliere i pezzi più amati del lotto:<br />

nel ‘92 gli Snap! fanno <strong>Rhythm</strong> Is A Dancer, un ipnotismo trancey che da loro<br />

non ti aspettavi, soprattutto con un refrain così puntuale; l’anno prima era<br />

stata Rozalla con Everybody’s Free ad agganciare i posti alti delle classifiche;<br />

il ‘93 è la volta di All That She Wants degli svedesi Ace <strong>Of</strong> Base, tocco nordico<br />

dunque meno club e più radio (e infatti finisce in tutte le auto in coda per il<br />

mare); i La Bouche arrivano un po’ più tardi, tra ‘94 e ‘95, ma tiran fuori due<br />

successi da capogiro, Sweet Dreams (un inno rimasto scolpito nelle notti<br />

estive su un background electrodisco che vorresti non finisse mai) e Be My<br />

Lover (successo ben maggiore nonostante un mood più invernale); infine,<br />

Bailando dei belgi Paradisio, anno 1997, la festosità all’ennesima potenza<br />

che chiude se vogliamo il lustro d’oro del filone.<br />

Eppure dall’Italia stavolta abbiamo avuto molto da dire (come presto avverrà<br />

agli inizi del 2000 per l’ondata italo di Gigi D’Agostino & co.), esportando<br />

una spettacolare serie di successi in tutta Europa. Anche qui possiamo iniziare<br />

nell’89 coi Black Box di Ride On Time e il campione di Love Sensation di<br />

Loleatta Holloway direttamente dagli anni disco (e il cerchio si chiude), ma<br />

i fuochi d’artificio iniziano a partire dal ‘93: i toscani Corona hanno alla voce<br />

l’asso brasiliano Olga Sousa e di centri ne fanno due, <strong>Rhythm</strong> <strong>Of</strong> <strong>The</strong> Night<br />

prima (è la progressive age), Baby Baby dopo (più radiofonica ma funzionale<br />

allo scopo), l’esplosione dei Cappella avviene invece con U Got 2 Let <strong>The</strong> Music<br />

(sempre ‘93) e Move On Baby (‘94) ed è quel tipo di euforia che piace tanto<br />

anche al pubblico acid house UK. <strong>The</strong> Summer Is Magic, dei Playahitty, è<br />

sempre del ‘94, altro urlo memorabile e altro “pezzo da novanta” prog dance.<br />

Nel percorso vanno citate anche la prima Alexia di <strong>The</strong> Summer Is Crazy<br />

(ovvio che uno stile caldo e solare come l’eurodance abbia l’estate come<br />

tema centrale) e un act fuori concorso ma di grande spessore: Gala, cantante<br />

26 27


milanese emersa su album nel 1997 con Come Into My Life, prodotto da<br />

Molella. La titletrack è un trip languidissimo cantato con una sensualità<br />

dismessa che è quasi Martina Topley-Bird, tra gli altri singoli estratti la più<br />

euroclassic Freed From Desire, una Suddenly veloce e precisa e la tenuta intima<br />

e essenziale di Let A Boy Cry.<br />

L’epopea eurodance è stato il bagliore del sole dritto negli occhi, la luminosità<br />

massima che l’intervento femminile può assumere quando si tratta di<br />

affrontare la cifra popular. La dance commerciale è donna ben più di disco e<br />

pop, e lo era in un modo giocoso e colorato che non si è più ripetuto. Anche<br />

perché presto verrà presa una piega diversa: c’è già una manciata di bad girls<br />

che ha in mente qualcosa di più trasgressivo.<br />

madame hollywood: eleCtroClash means<br />

transgression<br />

All’alba del nuovo millennio, passata la sbornia del party di fine mondo e<br />

scongiurato il millennium bug, la sensazione naturale è che sia necessario<br />

andare oltre. La semplice seduzione è diventata troppo oldie e prende piede<br />

una tendenza più esplicita, che abbraccia ad occhi chiusi gli aspetti della<br />

modernità recente e punta dritto alla trasgressione. L’electroclash diventa<br />

così pornografia musicale, provocazione dell’immagine sbattuta in faccia,<br />

il matrimonio definitivo con i prodotti elaborati dallo star system, la moda<br />

e la coca, i party e l’alcol, Mtv e Hollywood. “To be famous is so nice / Suck My<br />

dick / Lick my ass”: ci stiamo arrivando.<br />

Stilisticamente parliamo di un figlio ribelle della disco e del synth-pop, ma a<br />

guardarla dritto in faccia riconosci nei protagonisti una nuova sfrontatezza<br />

post-moderna, uno sputo in faccia alla dignità artistica per rappresentare<br />

La Bouche<br />

quanto di più esplicito lo spettatore dell’era televisiva vuol vedere. Miss Kittin<br />

è ovviamente la perfetta impersonificazione di tutto ciò, occhi da gatta<br />

incorniciati dallo spesso eyeliner, immagine sexy che prima di sedurti vuol<br />

portarti nel backstage, posa giovane e irriverente con un teorema semplice,<br />

“tutto ciò che è ora, è fresco ed ha successo è cool, tutto il resto non vale<br />

niente”. Bastano in fondo due tracce per capire la filosofia del personaggio:<br />

Frank Sinatra, la celebrazione del vizio unita all’arroganza storica (“Every night<br />

with my star friends / We eat caviar and drink champagne / Sniffing in the VIP<br />

area / We talk about Frank Sinatra / You know Frank Sinatra? / He’s dead. Dead!<br />

Ahahahahah..”) su un tagliente pattern electro, e la Madame Hollywood insieme<br />

a Felix Da Housecat, la voce supponente di chi non ha voglia di<br />

rilasciare interviste e ha in mente solo l’altare supremo del successo di oggi,<br />

Hollywood, ovvero la prova inoppugnabile che si è arrivati.<br />

Diverse altre personalità femminili si muovono in questo contesto, ognuna<br />

con una propria attitudine peculiare: Peaches è la punk girl della dance<br />

esplicita dei primi noughties, incazzata e dissacrante come la sappiamo in<br />

Lovertits, AA XXX o nella più recente Talk To Me; gli ADULT. sono i più scatenati,<br />

assetto acidissimo, velocità oltre i limiti, e una voce femminile metallica<br />

che ruba la scena in Hand To Phone o Human Wreck; i belgi Vive la Fête<br />

sono essenziali, melodici di un sapore retrò, solidamente centrati sul carisma<br />

cantato di Els Pynoo rintracciabile nella loro Nuit Blanche. Più tardi arriverà<br />

anche la nostra Tying Tyffany, nuda e lasciva nei singoli di Undercover I’m<br />

Not A Peach e I Wanna Be Your Mp3.<br />

28 29<br />

Miss Kittin


L’electroclash lancia un messaggio netto e fa della donna il campo di gioco<br />

su cui ruotano i temi caldi del sesso, del successo e della sfrenatezza. La<br />

chicca del genere la realizza il francese Vitalic, che in Ok Cowboy realizza<br />

un viaggio interamente sintetico dove la diva femminile c’è, ma di fatto non<br />

esiste: la voce è in realtà di Brigitte, un programma di sintesi vocale per Mac<br />

usato per la prima volta nel singolo My Friend Dario, freddo e energico come<br />

uno sprint in autostrada su una decappottabile d’inverno. È la conferma definitiva<br />

che la voce femminile è il mezzo ineguagliabile per il successo pop,<br />

al punto da spingere chiunque a far di tutto per averla. Ma, come stiamo per<br />

vedere, questo la storia l’aveva già ampiamente dimostrato.<br />

Material Girls: pop conjunctions & electro feelings<br />

Non è questo ovviamente il posto giusto per discutere della donna lungo il<br />

pop (se per l’argomento trattato oggi ci vorrebbe un libro, per quell’altro non<br />

ne basterebbero tre). Però è doveroso far risaltare quanto spesso gli artisti<br />

abbiano converso sulla linea di confine tra pop e dance, perché di fatto la<br />

figura femminile è l’anello di congiunzione perfetto tra la semplicità di meccanismi<br />

della musica popolare e l’energia seduttiva di quella da ballo, oltre<br />

che il caldo e morbido contraltare al taglio sovente freddo e pungente delle<br />

sonorità elettroniche. E qui non parliamo di vecchie volpi come la Madonna<br />

di Material Girl e Vogue, la Kylie Minogue di Can’t Get You Out <strong>Of</strong> My Head, gli<br />

ABBA di Gimme! Gimme! Gimme! o la Lady Gaga di Poker Face, entertainers<br />

che han sempre abilmente (e furbescamente) accarezzato il sottile confine<br />

della dance pur restando piantate sull’orizzonte pop.<br />

No, qui vogliamo dar rilievo a quei casi in cui l’artista ha cavalcato intenzionalmente<br />

il potere femminile con obiettivi dance dal risvolto dichiarato pop,<br />

magari cambiando pelle per l’occasione, o sacrificando le proprie attitudini,<br />

o ancora vendendosi l’anima al diavolo. Come Cher, che dopo oltre 30 anni<br />

di onorata carriera discografica nel ‘98 si ripresenta al pubblico tirata (tiratissima)<br />

a nuovo e tira fuori Believe, suo malgrado una delle hit più popolari<br />

degli anni ‘90, di sicuro l’autotune pop per eccellenza. Ma anche le Bananarama<br />

di Venus, il pezzo pop ‘80 studiato apposta per gli irriducibili della<br />

disco e la consegna definitiva delle tre londinesi a un’immagine da seduttrici<br />

che non avevano mai avuto, o ancora gli Eurythmics di Sweet Dreams, con<br />

la Lennox prestata appositamente per fabbricare uno dei pezzi più cantati,<br />

ballati, remixati e rielaborati di sempre.<br />

E quante altre volte, poi, son stati esponenti di stili e generi differenti a voler<br />

ricorrere al modello femminile per raggiungere il pubblico pop. Gli alfieri<br />

nordici Röyksopp l’han fatto ben due volte, prima con la Andersson dei <strong>The</strong><br />

Knife in What Else Is <strong>The</strong>re e poi con Robyn in <strong>The</strong> Girl And <strong>The</strong> Robot, non<br />

a caso le loro hit di maggior successo. I Groove Armada han voluto farlo<br />

nel 2001, mettendo un attimo da parte il percorso big beat e coinvolgendo<br />

Celetia Martin per My Friend, una voce celestiale e cristallina a cui vien concesso<br />

lo spazio assoluto (quando canta lei, tutt’intorno è silenzio), per poi<br />

riempire il refrain di chitarre per addolcire il ritmo. Dal suo hip-hop Kanye<br />

West era sfuggito più volte per un pelo al “pericolo” pop, ma quando nel<br />

2008 fa coppia con Estelle è il botto definitivo e American Boy sfodera un<br />

cantato femminile strepitoso e impossibile da mandar via.<br />

Incrociare electro, pop e dance è un gioco che troppo bene si presta alla<br />

voce femminile. Ancora qualche esempio? Saltando di palo in frasca: Girls<br />

Just Want To Have Fun e Cyndi Lauper che urla uno degli inni più scanzonati<br />

e liberatori del decennio di plastica, riacchiappando l’eredità disco che il<br />

pop stava assorbendo a quel tempo; Samantha Fox e quel Touch Me innocente<br />

e malizioso che ha incantato la generazione ‘80; i Propellerheads di<br />

tutt’altra sponda su History Repeating, con Shirley Bassey che tira fuori un<br />

cantato poderoso e graffiante che legge il big beat agli antipodi rispetto alla<br />

My Friend di pocanzi; il nostro Spiller che sfonda nel 2000 il mercato discografico<br />

con Groovejet insieme all’astro nascente Sophie Ellis-Bextor nella<br />

sua prova più aggraziata; i La Roux di Bulletproof, con una Elly Jackson così<br />

leggera che non poteva non spopolare nel pubblico indie; le Sugababes<br />

che nel 2002 toccano un mostro sacro come Gary Numan campionando<br />

Are Friends Electric in Freak Like Me, con un’efficacia del cantato che quasi fa<br />

sfigurare l’originale.<br />

Questo per dire che quando la dance ha voluto essere commerciale ne ha<br />

avuto le piene potenzialità, ed erano tutte femminili. Pensate allora quando<br />

veniamo proprio al mainstream spinto...<br />

who’s ThaT chick: the mainstream affair<br />

Forse il capitolo potenzialmente più fastidioso del nostro excursus, che dopo<br />

aver toccato nomi più o meno nobili della storia della musica al femminile<br />

si appresta a gettarsi nel marasma delle tracce del sistema Mtv. Eppure la<br />

cosa mainstream è il terreno di gioco ideale in cui confrontare e misurare<br />

l’efficacia del genere femminile quando parliamo di dance. Le prove più<br />

lampanti arrivano quando producers provenienti da un ambito apparentemente<br />

estraneo a questi meccanismi, come la trance, si tuffano a pesce nel<br />

30 31<br />

Sophie Ellis-Bextor


mondo radiofonico, scegliendosi compagne eccellenti al microfono (e trasformando<br />

in parte l’immaginario collettivo del sound trance verso i risvolti<br />

di marketing meno nobili).<br />

Lo san benissimo due pezzi grossi dell’arena come Tiësto e Armin Van Bureen,<br />

da anni sempre ai primi posti delle top DJ chart eppure ogni anno<br />

sempre così attenti a non perdere il treno mainstream. E sempre con nomi<br />

femminili eccellenti: con Tiësto ci son finite addirittura Nelly Furtado e Anastacia,<br />

piega melodica per la prima in Who Wants To Be Alone, taglio graffiante<br />

su synth grasso per la seconda in What Can We Do, mentre insieme a<br />

Van Bureen scorriamo tra le altre la sognante Sharon Den Adel dei Within<br />

Temptation in In And Out <strong>Of</strong> Love (che a dirla tutta non rinnega neanche<br />

troppo lo spirito originario del genere), di nuovo la Ellis-Bextor in posa<br />

sciantosissima in Not Giving Up On Love e la diva del genere Jennifer Rene<br />

nella autunnale Fine Without You.<br />

Capitolo a parte andrebbe fatto per il mostro più cattivo David Guetta, che<br />

interamente immerso nel sistema commerciale da un decennio (curioso che<br />

il figlio più compiuto dell’electroclash sia un divo) ormai ne conosce ogni<br />

meccanismo, e forte del valore catalizzatore del suo nome non fatica a trovare<br />

le collaborazioni più clamorose possibili. Nell’ordine, e parlando solo<br />

di tempi recenti: Kelly Rowland (When Love Takes Over), Estelle (One Love),<br />

Fergie (Gettin’ Over You), Rihanna (Who’s That Chick) e Nicki Minaj (Turn Me<br />

On), sound sempre sfacciato e arrogante (“F**k Me I’m Famous”, d’altronde...),<br />

costantemente fondato su facili effetti e citazioni ad hoc per far scattare la<br />

scintilla e rimuovere gli ostacoli alla larga fruizione.<br />

Estelle<br />

Fergie<br />

Si potrebbe continuare trattando il nuovo gettonato nome della videomusic<br />

culture Wynter Gordon (già all’attivo tre hit come Dirty Talk, Til Death e<br />

Buy My Love, un album personale e anche l’ospitata sull’ultimo Steve Aoki<br />

in Ladi Dadi) oppure le frequenti collaborazioni di un’altra colonna come<br />

Martin Solveig con i Dragonette di Martina Sorbara (pezzi riuscitissimi<br />

quali Hello, Boys & Girls, Big In Japan e Can’t Stop), ma qui vogliam chiudere<br />

con un pezzo storico della dance italica nel suo momento di culmine assoluto:<br />

il Benny Benassi degli inizi, quello che con la sua electro-house senza<br />

fronzoli ha contribuito al varco dei confini italiani verificatosi nei primi 2000.<br />

Quel Benassi ha partorito eccellenti pezzi rimasti fissi nella memoria di molti,<br />

e le voci femminili erano sempre a dir poco perfette: i lavori più calzanti<br />

al nostro discorso nei Benassi Bros, insieme a Sandy nel suo capolavoro<br />

Illusion, uno dei simboli più compiuti della migliore onda italo-dance, e con<br />

Dhany in pezzi altrettano epocali come Rocket In <strong>The</strong> Sky, Every Single Day<br />

e Make Me Feel.<br />

Ma adesso torniamo a questioni più serie.<br />

BiG FUn: house, teChno & girl power<br />

Anche quando il dancing è stato pienamente orientato al club, e dunque<br />

doveva fondarsi soprattutto sull’incisività ritmica, le opportunità delle figure<br />

femminili non sono state sprecate. Persino un genere come la techno, nato<br />

sotto il segno della durezza, della meccanicità e dell’alienazione, il suo apice<br />

di successo assoluto l’ha vissuto proprio nel momento in cui ha incontrato<br />

la giusta vocalist: la mente responsabile della rivoluzionaria intuizione è<br />

proprio il Kevin Saunderson che abbiamo intervistato recentemente, il terzo<br />

anello della trinità fondante e colui che con gli Inner City ha raggiunto un<br />

nuovo livello di percezione del sound. La voce soulful di Paris Grey è stato<br />

il gancio per raggiungere l’orecchiabilità techno-soul definitiva e con due<br />

hit planetarie come Good Life e Big Fun il genere esce prepotentemente dal<br />

meccanismo club e guarda la luce del sole, restando impresso come una<br />

delle cose memorabili degli ‘80. Qualcosa che alla techno successe soltanto<br />

in queta sua prima fase, poi mai più.<br />

Lato house, le cose andarono un po’ meglio: una delle vocalist più presenti<br />

nell’ascesa dei 4/4 è stata Kym Mazelle, che a cavallo tra gli 80 e i 90 ha<br />

dato voce ad alcune big hit house come I’m A Lover (in una bella combinazione<br />

acid-soul), Taste My Love (già più psichica), Was That All I Was (prodotta<br />

da Marshall Jefferson, che la taglia su misura per la linea vocale) e Don’t<br />

Scandalize My Name (vicinissima agli Inner City), per poi gettarsi anche lei<br />

nella mischia eurodance (Love Me <strong>The</strong> Right Way). Menzione d’onore anche<br />

per le Jomanda di Got A Love For You (pieno USA style, fianco a fianco alla<br />

hip-house), gli S’Express del loro <strong>The</strong>me (bravi a unire vigore acid house e<br />

assetto pop full ‘80), Cookie Watkins con I’m Attracted To You (la deep che<br />

va aprendosi sempre più al soul), ed Helen Bruner con Gimme Real Love<br />

(come sopra ma più spigliata), mentre Robin S è quella che nel ‘93 ha fatto<br />

impazzire il Regno Unito con Show Me Love, pattern così acido che è già<br />

trance e linea vocale praticamente eurodance.<br />

In tempi più recenti abbiam visto la riscoperta dei 4/4 su un versante più<br />

emotivo, nostalgico e referenziale, che partiva spesso da prerogative fatte<br />

per l’ascolto sposando però senza grosse preoccupazioni (anzi, con rinnovata<br />

grinta) la materia house. Sempre con le voci femminili protagoniste: nella<br />

line-up dei primi Hercules And Love Affair ad esempio c’era Nomi Ruiz,<br />

32 33


che con la sua voce melodiosa e importante dava uno smalto irreprensibile<br />

a You Belong o virava sul lascivo Hercules <strong>The</strong>me, quando non partiva per la<br />

tangente errebì-soul nello storicismo acido di I’m Telling You. E la Ruiz è la<br />

stessa che poi, come Jessica 6, tirerà fuori altri due pezzi drittissimi come<br />

White Horse e Fun Girl, due risvolti fashion & erotic della stessa medaglia.<br />

I Gus Gus, invece, la brava Earth l’han sempre avuta, ma il meglio del suo<br />

profilo più esplicitamente tech-house l’han tirato fuori in Forever del 2007,<br />

con una manciata di pezzi da insegnare a scuola di clubbing come Hold You<br />

(implacabile e serratissima), You’ll Never Change (la ragazza che si diverte<br />

mentre il producer gli dà di cassa) o Need In Me (reminescenze trance sotto<br />

un cantato sempre caldo e accorto). E parlando sempre di glacial act danceoriented,<br />

per correttezza van citati anche gli SCSI-9 di <strong>The</strong> Line <strong>Of</strong> Nine: la<br />

voce fredda è di Katya Ryba, il resto è ghiaccio russo.<br />

Il vero colpo di coda della house al femminile però avviene proprio ai giorni<br />

nostri: un gruppetto di ragazze terribili negli ultimi anni han preso in mano<br />

il sound deep, donandogli una gentilezza e una dolcezza delle forme che<br />

nessun esponente maschile poteva toccare. I nomi li abbiam già fatti, e son<br />

quelli da tenere d’occhio per i mesi a venire: Steffi è la donna di cuore, prima<br />

splendida nelle cadute emotive malinconiche di Sadness, poi decisiva<br />

nell’impronta dritta di Yours; Deniz Kurtel è la virtuosa capace sia del tocco<br />

duro che del fascino enigmatico, e Music Watching Over Me è ancora il suo<br />

pezzo più avvolgente, una base fatta per il club e i sottili interventi vocali a<br />

ribadire presenza e gusto; Nina Kraviz è la forza dell’underground che alza<br />

Nina Kraviz<br />

Deniz Kurtel<br />

la testa, capace di una Ghetto Kraviz sporca e cattiva o di tocchi raffinati come<br />

Taxi Talk, ma sempre attentissima a non invadere l’efficacia del ritmo con<br />

eccessi di protagonismo; infine, Maya Jane Coles è il faro che illumina chi le<br />

sta vicino, con una collezione di riconoscimenti alle spalle che la rende vero<br />

personaggio di riferimento, una trentina di pezzi di clubbing irresistibile nel<br />

repertorio e certi interventi vocali personali da urlo, come in Nobody Else,<br />

dove viene fuori il vero senso del groove reso vocale sotto un trip delicato<br />

e deciso allo stesso tempo, o Senseless, dove lei è sempre presente ma da<br />

dietro il telo, aggiungendo solo i tocchi indispensabili per stregare.<br />

Ovunque ti giri, trovi sempre la donna che mette l’ingrediente segreto e fa<br />

luccicare l’intero genere. È successo a filoni come techno e house, quando<br />

han deciso di potenziare la recettibilità del sound, ed è successo anche sotto<br />

altri generi, che proprio appena han scoperto le opportunità a disposizione,<br />

han partorito una vera e propria generazione di vocalist flessibili e sempre<br />

pronte a cantare la next big hit. Siam proprio alle battute del presente, seguiteci.<br />

riGhT ThinGs To do: dubstep, funky & post-stuff<br />

Vogliamo parlare del dubstep? Per anni un filone fondato su un’oscurità<br />

intransigente, un suono duro, netto e cattivo che non prevedeva strappi<br />

alla regola. Poi, è inevitabile, vien fuori la tangente che ammorbidisce il<br />

passo e punta ad ampliare l’offerta: “il maledetto post-dubstep”, pensarono i<br />

puristi; l’unica possibilità per tener davvero vivo il genere, osserviamo noi<br />

guardandoci alle spalle.<br />

Ed ecco che il contributo femminile si è subito fatto vivo: Katy B è stata una<br />

delle prime ad aver bucato il dubstep con la sua femminilità, lo stacco netto<br />

delle due tracce coi Magnetic Man, Perfect Stranger e Crossover, a far da<br />

trampolino di lancio per il breakthrough definitivo del 2011, e On A Mission<br />

diventa fabbrica di singoli come Katy On A Mission, Witches Brew o Broken<br />

Record. I tratti unici? Un approccio controllato e metodico che si adatta sempre<br />

perfettamente al mood, nella durezza o nella melodia.<br />

Tolto il tappo, l’intuizione diventa fenomeno. Ms. Dynamite risorge dalle<br />

ceneri di nuovo coi Magnetic Man e produce uno dei pezzi più esaltanti<br />

del nuovo dubstep, Fire, l’aggressività di marchio Skream che incontra la<br />

fierezza dell’hip-hop. La nuova arrivata Jessie Ware conquista la scena nella<br />

poppissima (troppo, probabilmente) <strong>The</strong> Vision di Joker e in un asso futuregarage<br />

come Right Things To Do, con SBTRKT a disegnare il nuovo astro della<br />

dancing d’ascolto. Anneka presta la sua voce a una serie di pezzi di grande<br />

suggestione con Vex’d (Heart Space), Starkey (Stars), iTAL tEK (Restless<br />

Tundra), Falty DL (Gospel <strong>Of</strong> Opal) e Phaeleh (Unwanted), diventando così<br />

la voce più riconoscibile del dubstep moderno, mentre Roses Gabor vien<br />

chiamata da SBTRKT per l’altra sua hit, Pharaohs, un tocco sottile e arguto<br />

per un ritmo incontestabile.<br />

Il bello è che viene a formarsi un serbatoio di voci femminili condiviso con<br />

l’altra grande tendenza dance di oggi, vale a dire lo UK funky: lo stile eclettico,<br />

frizzante e variopinto è il terreno ideale per far crescere le circonvoluzioni<br />

delle voci femminili, al punto che una hit modello funky non può più prescindere<br />

dalla presenza di un’artista donna. Le stesse Ms. Dynamite, Katy B e<br />

Roses Gabor han fatto parte della scena, la prima tramite Redlight (pirotecnica<br />

What You Talking About) e Zinc (Wile Out e la maestria di un inventore),<br />

la seconda con DJ NG (Tell Me What It Is) e con lo stesso Geeneus che poi<br />

34 35


produrrà il suo album (As I), la terza ancora con Redlight (nell’immancabile<br />

Stupid). La parabola funky comprende comunque diverse altre dive, quali<br />

Lily McKenzie (la personalità più completa del filone, coinvolta da Falty<br />

DL, FunkyStepz e Brackles), Anesha (in bilico tra dubstep e funky in I Need<br />

Love di Roska, tra i pezzi più noti dei tempi recenti), Fatima (fenomenale<br />

voce gospel-soul, Traveller con Zinc ma anche Mind con Floating Points) e<br />

le varie Natalie May, Egypt e Meleka.<br />

In tutti questi casi la donna è stata indispensabile per riempire di vitalità stili<br />

che altrimenti risulterebbero monchi. Il contributo femminile quasi sempre<br />

ruba la scena e cattura l’attenzione per tutta la traccia, lasciando al producer<br />

il solo compito di esaltarne le venature e spingerne le prerogative ritmiche.<br />

Non solo la donna che valorizza la ballabilità del pezzo, ma la dance che si<br />

inchina sotto ogni aspetto all’efficacia offerta dalla diva. Altro che maschilismo:<br />

questo è amore, baby.<br />

outro<br />

Il quadro ovviamente non può dichiararsi esaustivo e durante il tragitto<br />

son rimasti fuori tanti esempi importanti (siam colpevoli sicuramente sulla<br />

Neneh Cherry di Buffalo Stance e su Last Night a D.J. Saved My Life, lo sappiamo).<br />

Quello che abbiamo fatto resta comunque un viaggio significativo,<br />

che tocca uno degli spunti di riflessione più importanti e affascinanti che<br />

la musica può offrire: fermo restando che le discriminazioni sessiste esistono<br />

ovunque, in arte (e dunque in musica) c’è sempre stata un’intelligenza<br />

intellettuale capace di accogliere ciò che di interessante ha da offrire ogni<br />

attore. E il percorso seguito oggi serve a mettere in risalto il tocco decisivo<br />

che la donna ha saputo dare sempre alla musica dance: quel passo felino,<br />

aggraziato e sensuale, luccicante o colorato, estroso o languido, attraente,<br />

folle e istintivo, senza il quale nulla, che sia la musica o la vita in generale,<br />

varrebbe la pena di essere vissuto.<br />

Female-addicted dance: the essentials<br />

Donna Summer - I Feel Love (1977)<br />

Cheryl Lynn - Got To Be Real (1978)<br />

Blondie - Heart <strong>Of</strong> Glass (1979)<br />

Indeep - Last Night a D.J. Saved My<br />

Life (1982)<br />

Samantha Fox - Touch Me (I Want<br />

Your Body) (1986)<br />

Inner City - Good Life (1988)<br />

Snap! - <strong>Rhythm</strong> Is A Dancer (1992)<br />

Baby D - Let Me Be Your Fantasy<br />

(1993)<br />

Ace <strong>Of</strong> Base - All That She Wants<br />

(1993)<br />

La Bouche - Sweet Dreams (1994)<br />

Gala - Come Into My Life (1997)<br />

Miss Kittin & <strong>The</strong> Hacker - Frank Sinatra<br />

(2001)<br />

Groove Armada feat. Celetia Martin<br />

- My Friend (2001)<br />

Benassi Bros feat. Sandy - Illusion<br />

(2003)<br />

Röyksopp feat. Karin Dreijer Andersson<br />

- What Else Is <strong>The</strong>re (2005)<br />

GusGus - Hold You (2007)<br />

Kanye West feat. Estelle - American<br />

Boy (2008)<br />

Hercules And Love Affair - You Belong<br />

(2008)<br />

Redlight feat. Roses Gabor - Stupid<br />

(2010)<br />

Maya Jane Coles - Nobody Else<br />

(2010)<br />

Magnetic Man feat. Katy B - Crossover<br />

(2010)<br />

SBTRKT feat. Jessie Ware - Right<br />

Things To Do (2011)<br />

Brackles feat. Lily McKenzie - Never<br />

Coming Down (2012)<br />

sentireascoltare.com<br />

36 37


La parabola degli Afterhours,<br />

ovvero un’anormale vicenda di<br />

rock (in) italiano.<br />

fTeRhOuRs<br />

HAi pAurA dEL pop?<br />

Testo: Stefano Solventi<br />

prologo: Come volevamo essere<br />

Che dagli anni Ottanta non si potesse uscire vivi è una palese esasperazione<br />

di un concetto che ha un certo fondamento, come sa chiunque ci sia passato<br />

attraverso. Tra le molte prove a carico, c’è un film del 1992 tratto da uno spettacolo<br />

teatrale del 1989, Volevamo essere gli U2 di Umberto Marino. La vicenda<br />

di un gruppo di amici che prova a metter su una band si dipana con la tessitura<br />

farraginosa delle fiction televisive a basso budget, ma quel che è peggio la<br />

musica “suonata” dai ragazzi è una insulsa parata di cover, il minimo sindacale<br />

38 39


per far armeggiare gli strumenti e pagare pegno al plot. Come dire, il rock<br />

resta fuori campo. Niente male per una pellicola che reca nel titolo la band<br />

che segnò come poche altre l’immaginario collettivo rockista del periodo.<br />

In quella stessa cuspide tra 80s e 90s, poco visibile ma formicolante, in Italia<br />

accadeva un movimento alternativo che tentava di parlare il linguaggio del<br />

rock con padronanza rinnovata. Il post punk si era rivelato un’onda lunga capace<br />

di dare vita alla scena bolognese, fiorentina, romana e milanese. Proprio<br />

nel capoluogo meneghino sul finire degli 80’s presero vita gli Afterhours,<br />

per volontà di un cantante e chitarrista dal timbro graffiante e impetuoso,<br />

il classe ‘66 Manuel Agnelli.<br />

strategie anglofone<br />

Il quartetto faceva perno su un’idea rock dal lirismo ruvido e volitivo, segnatamente<br />

USA, come è palpabile nel mini album d’esordio All <strong>The</strong> Good<br />

Children Go To Hell (Toast Records - 1988, 6.6/10), vuoi per l’approccio da<br />

Dylan elettrico e scontroso di Billie’s Serenade e Independent Houses, vuoi per<br />

la cover di Green River dei Creedence Clearwater Revival. Ben presto però la<br />

proposta si struttura e diversifica. Dalla Toast Records passarono alla Vox Pop,<br />

etichetta allestita in proprio, tanto per ribadire lo spirito fieramente alieno<br />

tanto al mainstream quanto ai circuiti diversamente istituzionali delle band<br />

engagée. Quindi, col mini During Christine’s Sleep (Vox Pop, 1990 - 6,8/10)<br />

approfondirono l’attitudine a stelle e strisce: c’è una Plastic che chiama sua<br />

Bobbità ad incrociare corde unghiose con X e Dream Syndicate, mentre<br />

la calligrafie dimostra sorprendente versatilità aprendo alla ballad opalina<br />

vagamente Alex Chilton di Icebox e al crossover stradaiolo di Tina’s Got a<br />

Brand New Boy. Un’acida e sognante Inside Marilyn Three Times sarà il canovaccio<br />

di Dentro Marilyn, un lustro più tardi - ma sembra un’era geologica<br />

- reinterpretata da Mina col titolo di Tre Volte Dentro Me.<br />

Dopo la partecipazione ad un tributo ai Joe Division organizzato dalla Vox<br />

Pop (reinterpretarono in chiave minimale Shadowplay), arrivò un ep dal piglio<br />

ben più tumultuoso e bizzarro come Cocaine Head (Vox Pop - 1991,<br />

7.0/10), riconducibile per molti versi al coevo lavoro dei Red Hot Chili Peppers,<br />

di certo post punk versante Cramps o volendo del coevo grunge con<br />

fregole sincopate. Non stupisce che al plauso della stampa specializzata<br />

italiana si aggiungessero gli elogi di testate straniere autorevoli come Alternative<br />

Press. A quel punto gli After erano una band col rock indocile,<br />

mutevole e mutante nel mirino, senza le tipiche sudditanze e gli scimmiottamenti<br />

delle band italiane, il linguaggio crudo e disturbato, l’indole indie<br />

senza compromessi. Siamo quindi già ad un passo dalla chiave di volta.<br />

Negazione ed attrazione<br />

Tra il ‘92 e il ‘95 la band matura il nocciolo poetico attorno a cui graviterà<br />

tutta la successiva produzione: dopo l’ep che ribadisce l’estro ingrugnito e<br />

visionario che prende le mosse dal grunge solo per esplorarne il retaggio<br />

(in coincidenza del quale entra in formazione il batterista Giorgio Prette), è<br />

tempo di avere a che fare con l’estro pop che divide l’anima, cioè del secondo<br />

album Pop Kills Your Soul (Vox Pop, 1993 - 7.2/10). Canzoni costruite attorno<br />

a melodie accattivanti e trovate d’impatto, una vena che pulsa beffarda,<br />

impetuosa e struggente per un miscuglio eterogeneo che riesce a sintonizzarsi<br />

sulla stessa frequenza portante, rock disturbato che pure vuole far parte<br />

delle tue frequentazioni quotidiane perché, casomai non te ne fossi accorto,<br />

il quotidiano è disturbato. Un gioco di negazione e attrazione tra rock e pop<br />

che di fatto li salda in una stessa cifra espressiva, tesa fino al disequilibrio e<br />

perciò viva, insidiosa, rapace.<br />

Si continua a guardare alla scena d’oltreoceano, prediligendo però gli spasmi<br />

losangelini dei Red Hot Chili Peppers (Terry Fill Me Up, On Time) o la Cincinnati<br />

grondante soul degli Afghan Whigs (Coalition), ma è particolarmente significativa<br />

la cover della beatlesiana Hey Bulldog, in una versione tirata che non<br />

avrebbe sfigurato nel coevo Vs. dei Pearl Jam. Gli Afterhours a quel punto<br />

eccedono se stessi, capiscono di non bastarsi confinati nella sottoghettizzazione<br />

“indie” italiana. Soprattutto, vedono nel cantato in inglese un limite<br />

masochistico da cui decidono di smarcarsi. Due le mosse che precedono<br />

il nuovo corso della band: la partecipazione a E cantava le canzoni (EMI,<br />

1993), album tributo a Rino Gaetano di cui interpretano una trasfigurata,<br />

commossa e psicotica Mio fratello è figlio unico, prima prova in italiano della<br />

band; altra partecipazione ad un tributo, stavolta è I Disertori (Columbia,<br />

1994) dedicato ad Ivano Fossati, del quale interpretano la opening track,<br />

una quanto mai turgida e impetuosa La canzone popolare.<br />

Quindi arrivò la svolta vera, quel Germi (Vox Pop, 1995 - 7.5/10) che li vide<br />

ripensarsi in lingua italiana. Non a caso ai pezzi nuovi si affiancarono le riletture<br />

di quattro cavalli di battaglia dei precedenti lavori. Da un lato Ossigeno,<br />

Pop (una canzone pop) e Vieni dentro sono in sostanza le taduzioni<br />

di Oxygen, Come inside e Pop Kills Your Soul, dimostrando d’amblé quanto<br />

l’italiano potesse tecnicamente competere con l’inglese - grazie anche all’utilizzo<br />

disinvolto e spesso estremo della tecnica del cut up -, mentre Dentro<br />

Marilyn riprende Inside Marilyn Three Times enfatizzandone il chorus in senso<br />

melodico come fosse una naturale conseguenza del cambiamento d’idioma.<br />

Ed è questo un punto cruciale: il quartetto - Agnelli, Prette, Iriondo e Zerilli -<br />

40 41


sembrava muoversi in un solco facinoroso e tentacolare, costantemente in<br />

bilico tra tumulto post-punk disturbato noise (la title track, Ho tutto in testa<br />

ma non riesco a dirlo, Siete proprio dei pulcini) ed estro melodico (Strategie,<br />

Plastilina) seppur ammorbato da dissonanze e patologie liriche.<br />

Si impone quindi una calligrafia satura di tensione, come un agguato costante<br />

e reciproco tra l’attitudine sperimentale (portata in dote soprattutto da<br />

Xabier Iriondo, chitarrista votato alle dissonanze scorticate ed evocative), la<br />

vena rock-hardcore e le sempre più palpabili suggestioni pop. Una strana e<br />

fruttuosa forma di equilibrio, corroborata dalla “consacrazione” di Mina che<br />

come già detto nel ‘97 inserì la propria interpretazione di Dentro Marilyn<br />

(reintitolata Tre volte dentro me) nel proprio album Leggera (PDU, 1997),<br />

galeotta la figlia Benedetta che, divenuta amica di Manuel, fece conoscere<br />

il pezzo alla Tigre di Cremona.<br />

Incarnare l’esasperazione<br />

Defunta la Vox Pop, gli Afterhours firmarono per la Mescal di Valerio Soave,<br />

in procinto di diventare una delle label indipendenti più attive del Belpaese.<br />

La falsariga di Germi fu ripresa e superata da Hai paura del buio? (Mescal,<br />

1997 - 8.0/10), dove la scrittura di Agnelli - autore di quasi tutti i pezzi - raggiunge<br />

nuovi livelli di ecletticità ed istrionismo, senza con ciò sminuire il<br />

contributo di Iriondo e Prette, nonché di un elemento aggiunto come il violinista<br />

Dario Ciffo. Diciannove le tracce, un carosello sbalorditivo di schegge<br />

hardcore noise (Dea, Veleno), torridi residui grunge (Rapace, Male di miele),<br />

siparietti cameristici (Come vorrei), psicosi post-blues (Terrorswing) e teatrini<br />

allibiti (Senza finestra), ballad che incedono nevrotiche (Punto G, 1.9.9.6.)<br />

e languide (Pelle, Voglio una pelle splendida), guizzi caustici (Questo pazzo<br />

pazzo mondo di tasse, la controgenerazionale Sui giovani d’oggi ci scatarro<br />

su) e psichedelia balzana (Mi trovo nuovo).<br />

Troppo sferzanti e disturbati per venire accodati al rock autorale alla Ligabue,<br />

disposti però a concedere squarci carezzevoli che poco si addicono alla<br />

dimensione alternativa, gli Afterhours si imposero come fenomeno anomalo,<br />

adorato da quanti ci videro una risposta forse un po’ tardiva ma autorevole<br />

alle vampe grunge/hardcore e agli azzardi del post-rock, oppure un aggiornamento<br />

dell’approccio espanso e irriverente di un Battisti, al contrario avverso<br />

da coloro che li interpretavano come una furba miscela di espedienti,<br />

o semplicemente provavano istintiva antipatia per l’ingombrante figura del<br />

leader. Agnelli infatti afferrò con decisione le redini della band, imponendo<br />

il proprio approccio impetuoso sul palco (nei concerti del periodo Manuel si<br />

dedicava sovente alla pratica dello stage-diving, come ho avuto la ventura<br />

di appurare personalmente) che faceva il paio con l’iconografia da rock star<br />

maledetta e intansigente, come se fosse mosso dall’urgenza di estremizzare<br />

l’immaginario in cui credeva fortemente, di incarnarlo a costo di esasperarne<br />

l’aspetto, tentando così di colmare il divario tra i sogni di rock’n’roll e la realtà<br />

angusta dello shobiz italiano.<br />

Le performance coi vestiti da bambolina del periodo Germi e gli assalti da<br />

iguana successivi sembravano dire agli spettatori che dovevano aspettarsi<br />

di tutto fuorché uno spettacolo dimesso. Che l’esuberanza nel rock non è<br />

affatto un peccato, anzi, può rappresentare un intelligente additivo. Una<br />

estetica dell’eccesso quindi ma a tutto tondo, con ricadute come abbiamo<br />

visto sulle escursioni stilistiche, dalle massimamente ostiche al carezzevole<br />

più struggente. Un’idea di prassi rock che non operava distinzioni preventive<br />

tra alternativo e popular, e proprio in questo solco gli Afterhours decisero<br />

di spingersi, sempre più a fondo.<br />

Perversa carezzevole schizofrenia<br />

Con Non è per sempre (Mescal, 1999 - 7.8/10), prodotto da Fabio ‘Magister’<br />

Magistrali e Maurice Andiloro, sfornarono un album più compatto (“appena”<br />

13 pezzi), meno disposto a siparietti bizzarri, tuttavia la forbice tra la vena<br />

carezzevole, l’acidità e la sperimentazione si allargò, azzeccando in qualche<br />

circostanza una sintesi notevole, vedi il caso di L’estate, ballata lasciva (“la tua<br />

bocca cieca che mi aspetta/sento che ha ragionevolmente fretta”) con vampe<br />

noise-psych al calor bianco (notevole il lavoro al violino di Dario Ciffo, ormai<br />

membro stabile della band), oppure l’arguta Superenalotto. Fu però la<br />

presenza di due pezzi strutturalmente leggeri come Baby Fiducia (estro brit<br />

e corettini Stones) e Bianca (non lontana dagli Smashing Pumpkins più<br />

morbidi) a segnare la percezione di questo disco, che peraltro vantava in<br />

scaletta altre evoluzioni melodiche come il romanticismo power-pop della<br />

title track e la struggente Oceano di gomma (dedicata ad un amico scomparso).<br />

Va detto però che il Julian Cope ipnotizzato Lennon di Oppio, il punk<br />

noise di La verità che ricordavo, il trip-hop fibrillato Nick Cave di Tutto fa un<br />

po’ male, l’inno generazonale disturbato di Non si esce vivi dagli anni ‘80 e<br />

la nevrastenia Suicide di Milano circonvallazione esterna raccontano una<br />

storia diversa, costituiscono un dark side stranamente organico alla parte<br />

più solare, forse perché ad unirle c’è un’insidia di fondo costante, un ghigno<br />

di sferzante e perversa desolazione.<br />

La direzione comunque è segnata, e Iriondo decide di non seguirla per dare<br />

vita a situazioni soniche più azzardate come i Six Minute War Madness<br />

42 43


ed il relativo side project A Short Apnea (assieme a Paolo Cantù e Fabio<br />

Magistrali). Gli Afterhours divennero così sempre più il progetto di Agnelli,<br />

che nel frattempo aveva diversificato il raggio d’azione, facendosi valere<br />

come produttore per Cristina Donà, Scisma, Verdena, Massimo Volume<br />

e Marco Parente (non certo a caso nel novembre 2001 gli verrà assegnato<br />

l’Italian Music Awards come miglior produttore italiano), disimpegnandosi<br />

come scrittore con Il meraviglioso tubetto (Mondadori, 2000), realizzando<br />

assieme ad Emidio Clementi dei Massimo Volume il reading Gli Agnelli<br />

Clementi, infine e soprattutto organizzando il festival itinerante Tora! Tora!,<br />

sorta di vetrina live della scena alternativa italiana sulla falsariga dello statunitense<br />

Lollapalooza.<br />

Nel frattempo, a suggellare la chiusura di una fase, aveva visto la luce Siam<br />

tre piccoli porcellin (Mescal, 2001 - 7.0/10), testimonianza live in due dischi<br />

- una parte elettrica e l’altra acustica - che fa antologia del repertorio in italiano<br />

(più una resa unplugged della springsteeniana State Trooper) esaltando<br />

la schizofrenia compositiva e la versatilità delle interpretazioni. Un lavoro<br />

senz’altro intenso e forse un po’ frettoloso, con l’inedita La sinfonia dei topi<br />

ad indicare beffarda la direzione intrapresa, lontana dall’atteggiamento di<br />

dogmatica pensosità di tanta scena alternativa, libera come abbiamo visto<br />

di sbrigliarsi viscerale e persino accomodante.<br />

Aggrappati ad una (autorevole) radice psych<br />

Il nuovo corso si delinea quindi come una rottura nella continuità, stessa<br />

l’irrequietezza e l’intensità dell’approccio ma più stretta la rosa espressiva,<br />

coagulata attorno ad un’idea psych-rock tosta, d’impatto, la polpa Seventies<br />

ravvisabile fin dalle timbriche, in un sound dominato sì dalle chitarre ma<br />

infoltito di tastiere ed altri ammennicoli visionari (su tutti il theremin), col<br />

violino di Ciffo chiamato a non far rimpiangere la chitarra obliqua di Iriondo.<br />

In Quello che non c’è (Mescal, 2002 - 7.7/10) il pop è bandito, malgrado<br />

le canzoni non siano mai state tanto legate da un filo rosso di classicità<br />

rock, barattate le vampe e gli sberleffi punk-noise per reminiscenze hard e<br />

digressioni acide variamente jazzy. I testi seguono a ruota, spingendo sul<br />

pedale dell’intensità intimista, delle meditazioni esistenziali e affettive che<br />

non ammettono l’uso parossistico del cut-up che aveva caratterizzato le più<br />

scellerate situazioni precedenti.<br />

E’ emblematica in tal senso la title-track, ballata-turning point che sembra<br />

fare il punto nel mezzo del cammin della vita con piglio penetrante e crepuscolare,<br />

dopo il crescendo emotivo la coda strumentale che sembra alludere<br />

l’attitudine strumentale dei bei tempi andati (Area, Stormy Six...). Retaggi<br />

diretti di un viaggio in India - altro elemento rituale della stagione psych<br />

- assieme ad Emidio Clementi sono due ordigni incendiari come Bye Bye<br />

Bombay e Varanasi Baby - lirica e dolente la prima, tumultuosa la seconda -,<br />

mentre Ritorno a casa tenta la carta del reading rock à la Massimo Volume<br />

con risultati in verità non eccellenti (l’esperimento non si ripeterà). Detto che<br />

Non sono immaginario mette il dito nella piaga della virtualità delle relazioni<br />

in un autentico bailamme hendrixiano, anche ballate più accomodanti come<br />

La gente sta male, Bungee Jumping e Il mio ruolo non rinunciano a far pulsare<br />

la vena lisergica, segnando un distacco abbastanza netto dalla radiofonicità<br />

agrodolce di certi episodi di Non è per sempre.<br />

Gli Afterhours sembrano quindi voler attraversare gli anni Zero imbarcandosi<br />

sul vascello più solido possibile, barattando la poliedricità con un linguaggio<br />

ben più solido e codificato ma non per questo privo di stratificazioni, miran-<br />

44 45


do ad una autorevolezza rock al calor bianco destinata a trovare pieno compimento<br />

in concerto. Una mossa che si rivelerà azzeccata. Proprio l’attività<br />

live conseguente al lusinghiero successo di Quello che non c’è li porterà a<br />

dividere il palcoscenico con Mercury Rev e - soprattutto - i Twilight Singers<br />

di Greg Dulli. I rapporti con l’ex-leader degli Afghan Whigs diventeranno un<br />

vero e proprio sodalizio artistico, al punto da vederlo figurare come co-produttore<br />

artistico di Ballate per piccole iene (Mescal, 2005 - 6.4/10), album<br />

che spinge ulteriormente verso la quadratura del linguaggio, corazzando<br />

la psichedelia liquida del predecessore di elettricità compatta e squamosa.<br />

In questo quadro, le perturbazioni soniche (feedback e riverberi angolosi,<br />

organi nevrastenici, il violino amplificato...) continuano ad essere organiche<br />

alla trama sonora ma suonano al più come “normali anomalie”.<br />

La sordidezza incalzante di Ballata per la mia piccola iena, una filastrocca<br />

nocchiuta come La vedova bianca, il funk-glam irsuto di Chissà com’è e il<br />

fuzz rutilante di E’ la fine la più importante sembrano altrettante strategie di<br />

decadenza armata, wild side torbido e crudo che getta una luce cupa sulla<br />

poetica autorale di Agnelli, il quale sembra in questa fase “accontentarsi” di<br />

riempire una casella pressoché vuota nel panorama italico, quella della rock<br />

band selvatica, intransigente, maudit. La falsariga è evidentemente quella<br />

del sound e delle sordide irrequietezze Afghan Whigs, che diventano quasi<br />

presenza palpabile nel soul infetto di Carne fresca, anche se riaffiora l’antica<br />

calligrafia nei barbagli da bohemienne urbana di Male in polvere o nel fantasma<br />

febbrile de Il compleanno di Andrea. La dimensione internazionale cui<br />

ormai ambisce il progetto-Afterhours, ribadita dalla presenza nei credits del<br />

chitarrista Hugo Race e di John Parish al mixer (senza il quale la concitazione<br />

mefistofelica di un pezzo come La sottile linea bianca probabilmente non<br />

sarebbe stato tanto... mefistofelica), sfocia quasi naturalmente nella pub-<br />

blicazione di Ballads for Little Hyenas (Mescal/One Little Indian, 2006),<br />

ovviamente la versione in inglese di Ballate per piccole iene con la scaletta<br />

arricchita dalla cover di <strong>The</strong> Bed, pezzo archetipico firmato Lou Reed.<br />

prova a prendermi<br />

Come talvolta accade in ambito rock’n’roll, quella che è probabilmente la<br />

fase meno peculiare del percorso artistico della band milanese coincide con<br />

quello della consacrazione. Sempre più popolari in patria, dove riescono a<br />

raggiungere posizioni ragguardevoli nelle classifiche di vendita, si toglono<br />

la soddisfazione di portare la loro musica sui palchi tedeschi e statunitensi<br />

spalleggiati da Dulli. Quasi venti anni dopo i primi passi la parabola sembra<br />

quindi aver raggiunto l’apice. Tempo di raccolto, bilanci e decisioni. Concluso<br />

il rapporto con la Mescal, ecco l’accordo con la Universal, preludio ad un<br />

nuovo capitolo che, malgrado il cappello della major, segnerà una svolta<br />

rispetto al rassicurante percorso degli ultimi capitoli.<br />

I milanesi ammazzano il sabato (Casasonica/Universal, 2008 - 7.0/10) infatti<br />

recupera di schianto la schizofrenia stilistica alla luce di un più quieto - o<br />

“maturo” - approccio autorale, è disco spiazzante, zeppo di sottintesi dolciastri<br />

(in guisa di macabro menù) e allusioni morbose, depistaggi folk-psych<br />

e vampe funk-wave. E’ come se Agnelli avesse voluto riappropriarsi della<br />

propria natura, professando un’impertinenza imprevedibile, acida e a tratti<br />

beffarda: pezzi come E’ dura essere Silvan (quasi un siparietto arty Roxy Music),<br />

il vitalismo tribale di Riprendere Berlino o l’amarezza giocosa di Tema:<br />

la mia città, sembrano frutto di un repentino contagio patafisico. Persino i<br />

titoli raccontano questa voglia di sconcertare l’auditorio (Tarantella all’inazione,<br />

Neppure carne da cannone per Dio), esercizi d’ironia scorbutica e amara<br />

affogati in un plasma sonico sfaccettato (organi, percussioni, fiati, coretti<br />

ebbri...) che parecchio deve al genio del polistrumentista Enrico Gabrielli<br />

(dei Mariposa), ultimo entrato in formazione. Album tutt’altro che risolto,<br />

è comunque una incoraggiante dimostrazione di vitalità, atto di transizione<br />

verso l’imprevedibile, il desueto, lo sconcertante e lo scomodo che fin<br />

dall’inizio rappresentano la vibrazione di fondo della calligrafia Afterhours,<br />

libera con ciò di oscillare tra gli estremi dell’assalto hardcore (Pochi istanti<br />

nella lavatrice) alla più obliqua, disarmata dolcezza pop (Musa di nessuno).<br />

Ciò che segue è un volo libero. Libero da vincoli - il contratto con la Universal<br />

decade dopo un solo album - e da preclusioni. La partecipazione a Sanremo<br />

nel 2009 certifica la loro tensione popular in un ambito segnatamente rock,<br />

non ravvisando inconciliabilità tra le due dimensioni. Non a caso il pezzo<br />

che presentano sul palco dell’Ariston è Il Paese è reale, una ballata tosta con<br />

poche concessioni alla orecchaibilità, più necessaria che bella, sigla ideale<br />

dell’omonimo progetto che vedrà raccogliere in un doppio volume pezzi<br />

inediti di diciotto nomi della cosiddetta scena alternativa italiana (da Marco<br />

Parente agli Zu, passando per Zen Circus, Teatro degli Orrori e Cesare<br />

Basile...). Il resto, al netto di una pressoché incessante attività live (tra cui un<br />

particolare tour teatrale con ospitate illustri come Vasco Brondi, Antonio<br />

Rezza, gli Gnu Quartet e i vecchi amici Emidio Clementi e Xabier Iriondo),<br />

accade al ridosso di un presente che si chiama Padania, album che li vede<br />

recuperati alla più impetuosa e spiazzante versatilità.<br />

Suggello provvisorio di una vicenda che lascia quale principale eredità, oltre<br />

ad un canzoniere degno di rilievo, il sospetto (quasi una certezza) che il<br />

rock italiano deve liberarsi soprattutto da se stesso, dai limiti culturali che lo<br />

46 47


incatenano ad una cautela fragile, castrante. Dovessimo riassumere tutto<br />

con uno slogan probabilmente sarebbe: non si deve aver paura di essere<br />

rock, anche a costo di essere pop.<br />

Quelli Che Ci sono. intervista a manuel<br />

agnelli<br />

Una band viva e vegeta, le passeggiate in bicicletta, una fama scomoda, la<br />

riscoperta del pianoforte: la nostra chiacchierata con Manuel Agnelli<br />

“Scusa, potresti richiamarmi fra cinque minuti? Sto cercando parcheggio...”.<br />

Padania è uscito già da un paio di settimane, di interviste Manuel Agnelli<br />

ne ha fatte tante e di ogni tipo, eppure risponde col tono disponibile di chi<br />

va oltre il semplice dovere promozionale. Non esattamente quello che ti<br />

aspetteresti da uno con un quarto di secolo di carriera alle spalle e celebre<br />

per il carattere non proprio conciliante (ne riparleremo più avanti). Lascio<br />

passare dieci minuti e richiamo. Risponde al secondo squillo ancora più<br />

rilassato e cordiale di prima.<br />

Ciao Manuel, tutto a posto col parcheggio?<br />

Sì, tutto a posto. Non è mai un’impresa facile...<br />

Ok, iniziamo allora. Padania spiazza, scozza carte vecchie e nuove. La<br />

sensazione è che sia un Hai paura del buio? adulto. A mio parere vi restituisce<br />

la vostra dimensione, facinorosa e tentacolare, magari anche<br />

dispersiva però mai convenzionale, perciò intrigante. Più che una svolta<br />

o una rottura, lo vedo come il recupero di un solco. Sei d’accordo?<br />

In sostanza sì. Più che musicalmente direi come attitudine. Siamo tornati<br />

su un solco in cui non c’è una programmazione musicale. Quando dopo<br />

Hai paura del buio? ci siamo chiesti che cosa avremmo dovuto fare, con<br />

le tensioni conseguenti che più avanti hanno provocato l’uscita di Xabier,<br />

sviluppammo l’intenzione - il progetto - di uscire dal noise destrutturato per<br />

andare verso una forma più pop, sia come idea di gruppo che per quanto<br />

riguarda la forma canzone. Oggi siamo tornati ad avere le idee chiare dal<br />

punto di vista emozionale, però a livello musicale non c’è una progettualità<br />

vera e propria. In questo senso sì, siamo tornati a quel tipo di approccio.<br />

Mi permetto di insistere: quanto c’è di razionale, di premeditato, di opportuno<br />

se vuoi in questo disco? Voglio dire, a questo punto della vostra<br />

carriera era probabilmente il disco migliore da fare, lo avete capito e<br />

lo avete fatto.<br />

Mi fa piacere che lo pensi, ma non è stato pianificato, del resto non sarebbe<br />

venuto così se lo fosse stato. Il titolo esisteva da più di un anno, Padania<br />

per noi rappresenta uno stato interiore di cui volevamo parlare senza per<br />

forza raccontare delle storie. Per questo abbiamo sviluppato prima la musica,<br />

senza avere in testa la direzione da prendere. In pratica l’80% delle musiche<br />

erano pronte già prima dell’estate del 2011. Poi abbiamo deciso di prenderci<br />

una pausa, non darci scadenze pressanti, proprio per evitare la progettualità.<br />

Non ci siamo affatto concentrati sul fare un disco “diverso”. Semmai ci interessava<br />

che i pezzi girassero attorno a quel concetto, usando la musica in senso<br />

meno didascalico, non per accompagnare delle storie ma per comunicare<br />

delle tensioni. Con la velocità, con l’urgenza, col panico, con la violenza.<br />

C’è stato insomma un cambiamento delle gerarchie tra testi e musiche?<br />

E’ una domanda difficile. Di sicuro non è una cosa cui abbiamo pensato. Sui<br />

testi ho lavorato molto, sono tornato a considerare le parole in quanto fonte<br />

di emozione prese anche singolarmente, fuori contesto. La parola ha una<br />

forza evocativa, ha un suono. Solo in Italia ci facciamo delle pippe perché<br />

un testo debba significare una cosa precisa, raccontare in modo chiaro. Per<br />

contro abbiamo una tradizione rock anche contemporanea, dai Pixies ai<br />

Radiohead, che utilizza le parole come emozione o come suoni, non tanto<br />

o non solo per scrivere racconti. Mi interessava tornare a sviluppare questo<br />

aspetto dopo aver esplorato la possibilità di strutturare i pezzi in modo più<br />

diciamo canonico. Dopo che abbiamo fatto i pezzi con Mina mi sono detto,<br />

più in là di così... (ride, ndi).<br />

I testi sono cambiati, più asciutti e diretti, seppure sempre (naturalmente?)<br />

votati all’hook, al verso che resta impresso a fuoco. Spesso sembrano<br />

lanciare dei segnali - “Trovagli il cuore/E il debole muore”, “Quel che<br />

credevi raccolto/Arriva un vento a strapparlo”, “Lotti, tradisci, uccidi per ciò che<br />

meriti/Fino a che non ricordi più che cos’è”, e via discorrendo - che convergono<br />

verso una critica del modello sociale, oppure verso la constatazione<br />

dell’homo homini lupus, o le due cose assieme. Potremmo definirli testi<br />

in qualche modo impegnati o il termine ti fa mettere mano alla pistola?<br />

No, anzi. La volontà di andare in questa direzione c’è stata, figurati. So esattamente<br />

perché scrivo queste cose. Certe volte la gente mi chiede cosa significhino<br />

i miei testi, io rispondo “quello che vogliono dire per te”. Quello è<br />

il significato. Però io ho un mio significato molto preciso. Il fatto che questo<br />

disco abbia uno sfondo sociale e persino politico molto forte è una realtà,<br />

ci sono delle frasi che devono, vogliono dare una chiave di lettura, a partire<br />

dal titolo, Padania, che è LA chiave di lettura. Molti lo hanno criticato proprio<br />

per quello che è secondo me il più grande pregio di questo titolo, ovvero il<br />

fastidio che provoca. E ne sono fiero, perché non è facile provocare fastidio.<br />

48 49


A proposito di chiavi di lettura: cosa mi dici di quella pozzanghera in<br />

mezzo all’immagine di copertina che fa pensare ad una figura prona?<br />

E’ un effetto voluto?<br />

No, assolutamente. Semplicemente ci piaciuta molto quell’immagine, la<br />

volevamo così, molto evocativa, un paesaggio che rimandasse appunto<br />

all’immaginario della Padania, desolazione, nebbia...<br />

Però quella pozzanghera antropomorfa sembra davvero celare un<br />

messaggio subliminale, del resto la cosa ha fatto il giro del web, se n’è<br />

parlato parecchio sui forum...<br />

Mah, nel nostro piccolo spero che diventi una specie di leggenda (ride, ndi).<br />

Ok, torniamo alle cose serie. Tra le altre cose, avete recuperato il gusto<br />

per il contrasto - tra le canzoni e nelle canzoni - tra gli elementi più popular<br />

e quelli più sperimentali. Un po’ lo stesso si riflette nel rapporto<br />

coi media: generalisti o di settore, underground o nazionalpopolari, per<br />

voi sembra faccia lo stesso. Un messaggio al rock alternativo italiano?<br />

Sì, ed è un messaggio che idealmente mandiamo da tanti anni. E’ un discorso<br />

che concerne la nostra crescita come persone, normale che a diciannove<br />

anni si cerchi di identificarsi in un ambiente per confortarsi, per confermarsi<br />

e costruirsi una personalità. Per sentirsi al sicuro tra i propri simili. E questo<br />

ti porta ad escludere tutto ciò che non ti piace. Quando sei adulto si spera<br />

tu possa essere più forte, quindi uscire da questo meccanismo. Nel nostro<br />

piccolo proviamo a portare la nostra idea di cultura, la nostra visione più<br />

in giro possibile. Ho visto tanti talenti marcire proprio per questa paura di<br />

sporcarsi le mani, ed è un peccato perché questo Paese è pieno di gente<br />

con grandi cose da dire. Questi steccati ci sono, sono prodotti dalla paura.<br />

La colpa è di tutti, dei gruppi, del pubblico, della stampa: non siamo riusciti<br />

a trasmettere il messaggio che si può, si deve essere forti abbastanza da<br />

portare ovunque il proprio linguaggio. E’ una vera rottura di coglioni perché<br />

alla fine siamo dentro ad un sistema pidocchioso, piccolino quando invece<br />

potremmo divertirci molto di più.<br />

Tra le influenze si è parlato di Stratos, di Galàs, di Beefheart, e ok. Dal<br />

canto mio non ho potuto fare a meno di sentirci anche il Battisti più<br />

nevrastenico in Giù nei tuoi occhi, mentre La terra promessa svanisce di colpo<br />

mi sembra strizzare l’occhio ai Wilco altezza Ashes <strong>Of</strong> American Flag...<br />

Cosa ne dici?<br />

C’è molto più Battisti di Stratos in questo disco, ci hai beccato da questo<br />

punto di vista. Meno i Wilco, mi piacciono ma non mi hanno mai influenzato<br />

più di tanto, anche se ovviamente la musica che ti entra dentro prima o poi<br />

esce fuori in qualche modo. Tornando a Stratos, aveva sperimentato tutto,<br />

soprattutto lo aveva fatto in italiano, per cui quando si prova a sperimentare<br />

qualcosa in italiano è normale finire per pensare a lui. Ed il paragone è un<br />

onore ovviamente, anche se in negativo. Riguardo alle influenze, che dirti,<br />

ultimamente ho ascoltato molta musica etnica, canti berberi, anche roba<br />

tibetana, che per fortuna non è finita nel disco (ride di gusto, ndi).<br />

Devo dirti che siete riusciti a farmi tornare la curiosità di vedervi in<br />

concerto. Sai com’è, vi ho visti un sacco di volte, alla mia età non è che<br />

possa concedermene più molti. Però vorrei proprio verificare come vi<br />

vengono questi pezzi dal vivo...<br />

Maledetto (ride, ndi). Sì, sono impegnativi ma senz’altro li faremo. Inizieremo<br />

con otto-nove pezzi all’inizio, poi li faremo tutti, anche se non abbiamo<br />

progettato i concerti per eseguire Padania dal vivo, la serata sarà strutturata<br />

per avere una tensione vera. In questo senso quindi faremo ricorso a tutto<br />

il repertorio per allestire la migliore scaletta possibile.<br />

Nella vostra carriera vi siete messi in gioco disco dopo disco costruendovi<br />

comunque una calligrafia riconoscibile, vi siete sbattuti per avere<br />

visibilità oltre frontiera, avete suonato tanto, con tanti e dappertutto:<br />

una falsariga che consiglieresti di seguire ad una rock band agli esordi?<br />

Certo. Il succo è mettersi in gioco, mantenersi integri per quanto riguarda la<br />

parte creativa, non vendersi, però neanche avere paura a confrontarsi con<br />

realtà diverse. Poi ovviamente riprendere ad essere molto presenti fisicamente,<br />

andare in giro a suonare.<br />

Sono più le cose che rimpiangi di non aver fatto o quelle che ti rammarichi<br />

di aver fatto? Oppure, se credi, qual è l’errore più grave che<br />

abbiate mai fatto?<br />

Gli errori più gravi son sempre le cose che fai perché sei convinto di doverle<br />

fare. Abbiamo rinunciato ad un sacco di cose, ad un sacco di soldi, proprio<br />

tanti. Ma non si è trattato di rinunce vere perché erano dettate dal bisogno<br />

di mantenere integra la natura della band. Non credo di avere nulla di cui<br />

vergognarmi o recriminare. Il progetto è vivo e vegeto, siamo ancora qua,<br />

questo è importante. Forse in alcune circostanze avrei dovuto chiudere<br />

prima con certe persone, con alcuni musicisti, situazioni discografiche o<br />

manageriali. Colpa anche di questa fama che mi si è appiccicata addosso<br />

che tu sai (una sorta di padre padrone della band con un carattere non proprio<br />

conciliante, ndi), per cui magari ho sentito il bisogno di dimostrare il con-<br />

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trario, e ho finito per essere troppo conciliante, finendo per farmi del male.<br />

Mi prendo la responsabilità di affermare che Non è per sempre sia il vostro<br />

disco più sottovalutato. Sei d’accordo?<br />

Non lo so, forse è un disco capito male. Lì c’è stato un equivoco, dài, il fatto<br />

che avesse quei tre singoloni pop, molto potenti, che poi era quello che in<br />

quel momento volevo dimostrarmi capace di comporre, mise in ombra la<br />

presenza di situazioni sperimentali che vengono sottolineate molto poco.<br />

Un po’ la stessa cosa de I milanesi ammazzano il sabato: può piacere o<br />

non piacere, per carità, ma sostenere che è il lavoro più commerciale degli<br />

Afterhours mi sembra quanto meno azzardato...<br />

Dopo un quarto di secolo di carriera si è ancora degli ascoltatori appassionati?<br />

Siamo ancora degli ascoltatori appassionati, ma è chiaro è che l’approccio<br />

è diverso. A quarantasei anni faccio più fatica ad emozionarmi rispetto a<br />

quando ne avevo diciannove, perché semplicemente conosco più cose. Poi<br />

c’è il fatto che non ho più voglia di andare per forza a scavare, non ho più<br />

quel tipo di approccio. In fondo ho fatto il musicista non per fare quello che<br />

volevo nella musica ma per fare quello che volevo nella vita. Me la voglio<br />

vivere la vita, che significa certo anche ascoltare musica ma non ci passo<br />

certo le giornate. Mi piace anche farmi un giro in bicicletta, gioco molto con<br />

mia figlia di sei anni, sono appassionato di storia antica e leggo parecchi libri<br />

sull’argomento. Poi suono, anche, certo. Lo faccio da quando ero bambino,<br />

ho anche ripreso a suonare il piano dopo quindici anni...<br />

Questa è una notizia! Avrà avuto dei riflessi sul tuo modo di comporre...<br />

Può darsi. Ho studiato tanti anni pianoforte, perciò lo suono discretamente.<br />

Ai tempi di Germi scelsi di suonare la chitarra anche per obbedire alla cultura<br />

post-punk da cui venivo. L’impostazione del piano come approccio allo strumento<br />

era troppo didascalica, quindi anche se non ho mai saputo suonare la<br />

chitarra tecnicamente parlando scelsi di farlo, di fare quello che mi piaceva.<br />

Ricordo che la suonavo con una tale strafottenza, pur non sapendola suonare,<br />

perché ero convinto che il mio bagaglio culturale bastasse a rendermi<br />

adeguato, e questa cosa col tempo è diventata quasi grottesca, era sempre<br />

più difficile giustificare il fatto di non saperla suonare. Il fatto di aver recuperato<br />

il pianoforte mi ha dato nuovo coraggio, proprio come musicista che<br />

legittima le quattro note che fa. Al punto che non ho più bisogno di suonare<br />

in tutti i pezzi per legittimarmi come tale, dal punto di vista chitarristico ho<br />

imparato a sottrarmi. In Padania ho suonato giusto quattro chitarre.<br />

Lou Reed una volta disse che il casino non è scrivere venti canzoni, ma<br />

dalla centesima in avanti...<br />

Credo sia una frase che gli aveva suggerito Warhol perché Lou era troppo<br />

pigro... Dipende, sono d’accordo fino ad un certo punto. E’ vero che la grossa<br />

forza esplosiva ti arriva quando sei giovane, però è vero che i grandi pittori,<br />

i grandi scrittori hanno prodotto grandi cose anche in tarda età. Essendo il<br />

rock arte giovanilistica per eccellenza si tende a pensare che gli artisti da<br />

giovani lo interpretino meglio, ma non è vero: guarda Nick Cave, guarda<br />

Tom Waits, lo stesso Reed. Certo non le azzeccano tutte, però fanno ancora<br />

grandi cose.<br />

A tre anni di distanza che bilancio faresti de Il paese è reale? Domanda<br />

collegata: rimpianti per il Tora Tora?<br />

Il Paese è reale è stato meno divertente, meno eroico del Tora Tora ma molto<br />

più riuscito nei suoi intenti. Il Tora Tora doveva essere il modo per far<br />

conoscere il nostro ambiente, per far sapere che esisteva, che era grande e<br />

importante. Ma alla fine abbiamo sbagliato mira, abbiamo fatto date con migliaia<br />

di persone ma nessuno lo sa, perché i media non c’erano, non c’erano<br />

i giornali, le tv. E’ stata un’esperienza bellissima ma è morta. Il Paese è reale è<br />

stato più progettato, molto meno eroico e divertente, ma molto più riuscito.<br />

Quando abbiamo suonato in pazza del Duca a Milano non c’erano neanche<br />

cinquemila persone ma c’erano giornali, radio, tv, quindi la cosa è uscita<br />

dappertutto. Certo, Sanremo è stata la chiave di volta, abbiamo imparato<br />

a usare il megafono, come si possano adoperare i media. Le due cose sono<br />

connesse, abbiamo imparato come ci vogliamo muovere, cosa volevamo<br />

diventare in Italia. Sono state tappe di questo percorso.<br />

Su SA - come del resto in altre riviste del settore - si seguono con attenzione<br />

gli sviluppi legati al diritto d’autore e alle modalità distributive. Ti<br />

sei fatto un’idea? Dal vostro punto di vista, quale sarebbe la prima cosa<br />

da cambiare per dare concretamente una mano ai musicisti?<br />

E’ un discorso molto ampio, rischio di fare la figura del presuntuoso o del<br />

ciarlatano rispondendoti. Però ti rispondo lo stesso: secondo me non bisogna<br />

aiutare tanto i musicisti ma le strutture intorno alla musica. Se un aiuto<br />

ci deve essere deve essere rivolto all’ambiente, altrimenti le istituzioni si<br />

limiteranno sempre ad aprire scuole di musica per musicisti che poi andranno<br />

a lavorare alla posta perché non ci sono posti in cui suonare. Disegni di<br />

legge, facilitazioni, suggestioni potrebbero aiutare e anche molto: l’apertura<br />

dei locali dovrebbe essere facilitata, non dovrebbero esistere vessazioni da<br />

parte di Enpals, Siae, Annonaria, vigili urbani eccetera. Ci sono troppe regole<br />

indiscriminate e soffocanti. Giusto regolamentare l’ambiente, per carità, ma<br />

così lo stiamo soffocando. Ti faccio un esempio: a Brooklyn tu hai sei mesi di<br />

tempo per mettere in regola un locale dopo l’apertura, se in quel periodo il<br />

locale non ingrana puoi chiudere e riaprire da un’altra parte senza aver perso<br />

tutti i soldi che avevi messo da parte. E’ tutto molto più elastico. Invece da<br />

noi lo Stato si para il culo con le scuole di musica e coi dibattiti. Ma non ce<br />

ne frega un cazzo dei dibattiti! Soprattutto bisogna favorire l’iniziativa dei<br />

privati, l’idea di arte che nasce dalle iniziative individuali, non quello che ti<br />

dice lo Stato, l’istituzione. In Italia magari è utopia, soprattutto perché in<br />

Italia il musicista non ha coscienza sociale, vuole essere spinto.<br />

52 53


Kevin<br />

saundeRsOn<br />

Il ritorno in Italia è l’occasione per<br />

agganciare il più eclettico tra i<br />

fondatori della techno.<br />

Kevin Saunderson rivive la sua<br />

storia e si racconta col cuore in<br />

mano in un’imperdibile intervista.<br />

Testo: Carlo Affatigato<br />

Non capita tutti i giorni di parlare con uno come Kevin Saunderson. Un uomo vestito del mito della Detroit anni<br />

‘80, la mente eclettica della sacra triade creatrice del filone più ambizioso e intellettualmente dotato dell’elettronica<br />

(e non solo): se la techno ha avuto la storia prosperosa e ricca di idee e traiettorie che conosciamo, molto lo<br />

dobbiamo a lui, che meglio di chiunque altro è riuscito ad evolverne il linguaggio, aprendo a sorprendenti orizzonti<br />

quanto teorizzato insieme a Juan Atkins e Derrick May.<br />

Naturale che quando incontri un pezzo di storia come lui, vengano fuori domande fuori dal comune, curiosità a<br />

cui solo un personaggio del suo calibro può rispondere. Cogli l’occasione senza pensarci, perché difficilmente ne<br />

avrai una seconda. Per lo stesso motivo, sabato 2 Giugno è la serata a cui non puoi dire di no, soprattutto se hai a<br />

54 55


portata di mano il centro di Firenze: sarà il main act del MUV festival, Kevin<br />

“<strong>The</strong> Elevator” Saunderson alla consolle, e subito prima di lui altri due<br />

pezzi da novanta, gli Octave One, ossai la “next generation” della Detroit<br />

techno che fu. La leggenda stavolta è a un passo da noi e sarebbe un sacrilegio<br />

non approfittarne.<br />

the elevator<br />

Così li han battezzati i tre di Belleville: Juan Atkins è <strong>The</strong> Originator, colui che<br />

alla techno ha dato il nome e il soffio di vita, quello che prima coi Cybotron<br />

e poi come Model 500 ha rappresentato il lato più rigido e filosofico della<br />

prima fase; Derrick May è <strong>The</strong> Innovator, colui che ha raggiunto i virtuosismi<br />

del filone, quello che gli ha dato il tocco di fascino e il tuffo al cuore; Kevin<br />

Saunderson è <strong>The</strong> Elevator, colui che ha saputo scorgere il passo successivo<br />

prima di tutti, il più sfuggente dei tre, la mente più aperta e, di fatto, quello<br />

che ha raggiunto l’apice di successo. Tre studenti neri della Belleville High<br />

School con un’enorme passione per la novità musicale, alimentata da quello<br />

che ai tempi era la personalità radio più interessante del momento, Charles<br />

Johnson aka <strong>The</strong> Electrifying Mojo, in onda sulle varie stazioni di Detroit<br />

e dintorni, WGPR prima, WJBL, WHYT e WTWR-FM poi.<br />

L’inizio è ovviamente sotto l’ala del “padrino” Atkins, che sulla sua Metroplex<br />

pubblica la prima produzione ufficiale di Saunderson, Triangle <strong>Of</strong> Love, la<br />

rigidità robofunk che già presagiva le potenzialità ad ampio raggio del suo<br />

sound. Reese (diminuitivo di Maurice, il suo secondo nome) intraprese però<br />

presto la sua strada, aprì subito la sua etichetta KMS (alla fine ognuno dei<br />

tre ebbe la propria, le sedi una accanto all’altra al quartiere Eastern Market)<br />

e iniziò a ragionare su quali potessero essere le più efficaci applicazioni della<br />

promettente materia prima che aveva tra le mani.<br />

Il passo successivo (dopo un altro prisma multisfaccettato come Groovin’<br />

Without A Doubt) fu quello che lo rese famoso in tutto il mondo: col progetto<br />

Inner City, Saunderson catturò la quintessenza del big fun che la techno<br />

poteva offrire se si fosse lasciata ingentilire a modo, abbinando quel tipo di<br />

energia a un corpo melodico che gli desse l’orecchiabilità definitva. Detto<br />

in altre parole (le sue), techno-soul. Dopo aver diffuso in ogni angolo del<br />

globo i singoli Good Life e Big Fun, l’album di debutto Paradise uscì nel 1989,<br />

copertina color seppia che metteva accanto la figura rigida “portante” di<br />

Kevin e il piglio frizzante della soul diva Paris Grey, e aiuto dietro le quinte<br />

sempre di Juan Atkins.<br />

Fu il botto. Paradise fu contemporaneamente esplosione di euforia e fiducia<br />

nell’accelerazione futuristica, ma soprattutto ricondusse questo background<br />

ad un’immagine che il pubblico poteva riconoscere bene, quella della formacanzone,<br />

della melodia catchy. La techno esce dal club e guarda finalmente<br />

la luce del sole, e le fronti di milioni di ascoltatori. Le hit del disco Big Fun e<br />

Good Life sono i due classici senza tempo che toccarono i vertici più popolari<br />

che la dance abbia mai conosciuto e non nascondono l’affinità morbida con<br />

l’altra grande “cosa” che nasceva negli ‘80 USA, la house della scena di Chicago.<br />

Ma non solo: c’è anche la pasta soul che ammorbidisce le spigolosità dei<br />

nuovi ritmi, una Do You Love What I Feel che splende d’armonia femminile,<br />

una favolosa ballata r’n’b come Power <strong>Of</strong> Passion, la potenza radiofonica di<br />

Set Your Body Free e, verso la fine, l’impronta del rigore irriducibile di Atkins<br />

su And I Do. Gli Inner City fecero poi altri due album, Fire nel ‘90 e Praise nel<br />

‘92, ma non raggiunsero più il successo di Paradise, sebbene fossero sempre<br />

capaci di buoni colpi nel loro stile (vedi Pennies From Heaven).<br />

Nel frattempo Saunderson aveva capito di poter fare qualsiasi cosa: dai primi<br />

remix sui Wee Papa Girl Rappers (Heat It Up e We Know It) alle sette anime<br />

electro di Reese, le sfaccettature acide di Funky Funk Funk e le pieghe scure<br />

di Rock To <strong>The</strong> Beat; dai pezzi di clubbing drittissimo realizzati con Santonio<br />

(<strong>The</strong> Sound, Bounce Your Body To <strong>The</strong> Box, How To Play Our Music, Truth <strong>Of</strong> Self-<br />

Evidence) alle fascinazioni rave che Kevin subì nei primi ‘90, risultate in una<br />

manciata di bombe quali l’Hardcore Techno EP del ‘91 a nome Tronikhouse<br />

(Mental Techno la più drogata, Up Tempo la meglio riuscita) e gli hardcore<br />

mix dei pezzi di Praise quali Let It Reign e United; dalle impegnatissime produzioni<br />

a nome E-Dancer, che innalzeranno un monumento ai meccanismi<br />

della techno da sballo (Pump <strong>The</strong> Move, <strong>The</strong> Human Bond, World <strong>Of</strong> Deep ma<br />

soprattutto una spettacolare Velocity Funk coi suoi vocalizzi ‘ardkore) a un orgasmo<br />

di album come Faith, Hope & Clarity, forse il massimo raffinamento<br />

del Reese sound con pezzi fatti col cuore come I Believe, rallentamenti in 4/4<br />

come <strong>The</strong> Miracle <strong>Of</strong> Life e Free At Last e un altro gancio ebbro di campionamenti<br />

vocali come <strong>The</strong> Colour <strong>Of</strong> Love.<br />

E così via, tra una cosa e l’altra Saunderson ha attraversato tutti i ‘90 e i ‘00<br />

senza smettere mai di produrre. Tra le ultime tappe del suo percorso discografico<br />

c’è il doppio disco di remix History Elevate del 2009, con le sue<br />

rivisitazioni su nomi come Pet Shop Boys, Hercules & Love Affair, Octave<br />

One e Simian Mobile Disco e i remix di suoi lavori fatti dai vari Carl Craig,<br />

Luciano, Claude Von Stroke e Ben Sims).<br />

Il resto per il momento lo lasciamo a voi e al vostro spirito di scoperta, per<br />

focalizzarci oggi sulle importanti riflessioni che abbiam fatto nell’intervista:<br />

siamo tornati alle radici, a come tutto è nato e all’unicità dell’ambiente<br />

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originario, abbiamo acceso la luce sulla vera marcia in più di Saunderson<br />

rispetto agli altri, abbiamo invitato Kevin a guardarsi alle spalle e dirci cosa<br />

è cambiato e cosa non dimenticherà mai, gli abbiam chiesto di parlarci del<br />

già citato <strong>The</strong> Electrifying Mojo e della storia dei soprannomi. Di fronte a<br />

una fetta di storia della musica lunga venticinque anni, c’è tutto da imparare.<br />

l’intervista<br />

Partiamo dall’inizio. Com’è possibile che tre studenti di una cittadina<br />

fuori Detroit abbiano dato vita a qualcosa di così innovativo e futuristico?<br />

Beh, è difficile dirti come siano nate le cose. È un po’ come uno scherzo della<br />

natura. Per ogni cosa che nasce c’è sempre qualcos’altro che fa da punto di<br />

partenza, e noi in quel periodo non eravamo perfettamente consapevoli<br />

di cosa stavamo facendo. Semplicemente, eravamo individui singoli, che<br />

hanno scelto coscientemente di seguire un certo percorso nell’evoluzione<br />

musicale.<br />

E come mai è successo proprio a voi e proprio in quel luogo?<br />

Non credo ci sia una ragione precisa. Noi avevamo tutta l’attenzione rivolta<br />

alle svolte musicali del periodo, ecco tutto.<br />

Il background da cui è nata la techno è fatto di funk nero, electro e<br />

kraut europea, disco music, new wave ed electropop. Tutto quello che<br />

<strong>The</strong> Electrifying Mojo ben presentava in radio, giusto? Com’è nato il<br />

passo avanti?<br />

Sai, se parliamo sotto il profilo strettamente stilistico, non c’era niente di<br />

davvero particolare nella musica che mandava <strong>The</strong> Electrifying Mojo: in<br />

fondo era la musica di quel tempo, il funk, la electro, i Kraftwerk, Prince... la<br />

particolarità era che lui mandava in onda gli album interi. Era un approccio<br />

decisamente atipico rispetto alla maniera tradizionale in cui intendiamo la<br />

radio. Credo sia stato questo che ha catturato la nostra attenzione, e crescendo<br />

in questo modo anche l’approccio che avevamo verso la musica che<br />

creavamo noi è stato diverso dagli altri.<br />

Raccontaci un po’ di quei tempi. Com’era lavorare con Juan e Derrick?<br />

C’erano screzi, discussioni, stimoli?<br />

Sai, ai veri inizi si trattava semplicemente di fare musica. Si collabora secondo<br />

quello che ognuno sa far meglio, Derrick ad esempio mi ha aiutato spesso<br />

nella fase ritmica, nel mixing insomma. E quando fai musica difficilmente<br />

emergono disaccordi. Le diversità casomai nascono dopo, quando si parla<br />

dell’approccio personale verso il promoting, i tempi di pubblicazione o anche<br />

il djing, ma lì è giusto che decida ognuno personalmente.<br />

Come vivevate in quel periodo il parallelo con quel che stava accadendo<br />

nel frattempo a Chicago, l’esplosione della house? C’era una sorta di<br />

avversità tra le scene techno e house, o era un paragone che stimolava<br />

a migliorarsi?<br />

Chicago era un metro di paragone, ma allo stesso tempo eravamo in competizione.<br />

E le ragioni sono prettamente stilistiche, puoi immaginare bene.<br />

Chicago e Detroit puntavano in direzioni completamente differenti, la techno<br />

aveva una maggiore energia ed un’impronta molto più meccanica. E te ne<br />

accorgevi anche se ascoltavi le radio locali, la WGCI, la WBMX, house e techno<br />

non potevano stare mai insieme. Per cui diventava una vera competizione,<br />

ed era una cosa particolarmente eccitante.<br />

Qual’è stata la tua impronta all’evoluzione della techno? Cosa mi dici<br />

del tuo contributo personale al genere?<br />

All’inizio non immaginavo che le mie produzioni avessero tanto successo<br />

da definire un’impronta. Se devo identificare la mia peculiarità rispetto agli<br />

altri personaggi techno, direi che la mia musica era maggiormente rivolta<br />

al benessere.<br />

Com’è nata la storia dei tre appellativi, <strong>The</strong> Originator, <strong>The</strong> Innovator,<br />

<strong>The</strong> Elevator? Elevator nel senso di colui che porta la techno a un livello<br />

successivo?<br />

<strong>The</strong> Originator è colui che per primo l’ha fatta e colui che per primo le ha<br />

dato un nome. Lui ha avuto la visione originaria. <strong>The</strong> Innovator è colui che<br />

ne ha aperto i confini, che ha fatto in modo che tutti convergessero sotto<br />

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lo stesso tetto e mettessero insieme i propri pensieri. E <strong>The</strong> Elevator... sì,<br />

suppongo sia colui che l’ha portata al livello successivo.<br />

Kevin Saunderson significa anche e soprattutto Inner City. Con quel<br />

progetto sembra che tu abbia voluto mostrare quanto la techno possa<br />

essere “pop”, possa conquistare tutti. Sbaglio?<br />

Mmh no, non ho mai voluto che il progetto Inner City fosse inteso come<br />

“pop”. Ho solo voluto far della musica che avesse melodia, cantato, volevo<br />

che fossero vere canzoni e che non fossero orientate solo al club. Volevo che<br />

la gente fosse in grado di ascoltarle, che facessero da hook per più gente<br />

possibile. Con gli Inner City son voluto tornare a quel tipo di dance con<br />

forti potenzialità d’ascolto, con le parti cantate e i groove infallibili. È stato il<br />

mio modo di ricongiungermi con i grandi successi della disco music che mi<br />

avevano preceduto, di riprodurre un effetto simile. Donna Summer. Penso<br />

avessi in testa proprio lei.<br />

L’album Paradise è, senza mezzi termini, un disco immortale. È come<br />

aver cristallizzato l’essenza del divertimento che voleva (e doveva) essere<br />

ballare la techno, ieri e oggi. Come nasce un disco come quello?<br />

Quali pensi siano le vere ragioni del suo successo?<br />

Paradise è stato il primo disco del suo genere, il primo che ha inaugurato<br />

quel tipo di musica dance, così piena di spunti melodici ed elementi accattivanti.<br />

È venuto fuori nel momento giusto e coi suoni giusti, è stato un colpo<br />

unico. Semplicemente, non poteva essere più “giusto” di così.<br />

A un certo punto sembrò che ti fossi preso una cotta per la scena rave,<br />

vedi pezzi dei primi anni ‘90 a nome Tronikhouse e anche qualche pezzo<br />

in Praise che poi hai anche remixato (United, Let It Reign). Ti affascinava<br />

quel tipo di piega?<br />

Sì, quando sono stato in Inghilterra ho vissuto quel periodo sulla mia pelle.<br />

Ho amato molto quei bbreaks e il volto funk che sapeva assumere la musica<br />

rave. Ho ricevuto un sacco di ispirazione da quella scena, puoi giurarci.<br />

Pensi che la scena techno europea dei primi ‘90 sia stata influenzata<br />

dalla scena di Detroit? Forse non è così scontato. Ad esempio, nel loro<br />

primo album gli LFO recitano le loro influenze e parlano di house, di<br />

Phuture, DJ Pierre, Mr. Fingers, oltre che Kraftwerk o Yellow Magic Orchestra.<br />

Non una parola su Detroit e i suoi personaggi. L’impressione<br />

frequente è che l’Europa si sia innamorata solo dei groove acid e non<br />

delle aspirazioni futuristiche. Come lo spieghi?<br />

Penso che i rave e la scena europea debbano molto a Detroit. Detroit all’epoca<br />

è stata grande ispiratrice per i produttori di tutto il mondo, ma anche<br />

Chicago lo è stata. Le influenze specifiche probabilmente dipendono da<br />

producer a producer, può starci.<br />

Come vedi la scena techno oggi, rispetto a quella di un tempo?<br />

Beh sai, la old school degli inizi era qualcosa di unico, e uniche erano le<br />

tecnologie usate. Poi la tecnologia si è evoluta in diversi modi, ha aiutato e<br />

semplificato la fase di produzione e questo ha cambiato le cose... sì insomma,<br />

tutto ruota intorno alla passione per la musica, e ora ci sono tanti artisti<br />

che fanno musica solo per fare soldi. Adesso ci sono tanti stili, tanti suoni,<br />

mentre un tempo il sound era unico e tutta la devozione andava verso di<br />

esso. Quella devozione adesso ha mutato orientamento e guarda in mille<br />

direzioni. Fa parte del gioco, immagino.<br />

Ecco, credo che in realtà la musica non possa essere “elevata” più di tanto. O<br />

almeno è molto difficile. La tecnologia invece sì, quella può avere delle evo-<br />

luzioni inimmaginabili e può veramente stravolgere ogni cosa. E non puoi<br />

proprio sapere come trasformerà il modo di far musica nei prossimi tempi.<br />

Guarda un attimo alle tue spalle e dicci: qual’è stato il momento più<br />

emozionante della tua carriera?<br />

L’anno più emozionante è stato il 1988, quando uscirono Big Fun e Good Life.<br />

È stato incredibile, assurdo, come un sogno che non avrei mai immaginato.<br />

L’enorme successo, i viaggi per il mondo, la gente che impazziva per quella<br />

musica, i miei remix ai Wee Papa Girl Rappers. È stato un periodo straordinario.<br />

Più avanti c’è stata anche Rock To <strong>The</strong> Beat con Santonio, e poi traccia<br />

dopo traccia, sono sempre state emozioni fortissime.<br />

A quale delle tue opere sei più affezionato?<br />

È difficile sceglierne una. Forse le produzioni a cui sono più affezionato sono<br />

quelle fatte sotto il nome E-Dancer.<br />

Dopo una carriera come la tua, cos’altro chiedi? Cosa vuoi fare in futuro?<br />

Voglio restare vivo e in salute sulla scena ancora per molto tempo. Quel che<br />

è stato negli ultimi 25 anni è stato grandioso, ma non voglio che diventi un<br />

motivo per accontentarmi e rilassarmi.<br />

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Intervista: Marco Braggion<br />

squaRepusheR<br />

MuSiCA pEr STAr MALE<br />

Il come back electro in<br />

convergenza parallela con il<br />

massimalismo sonico, un led show<br />

che si preannuncia spettacolare.<br />

La mente e la discografia di Tom<br />

Jenkinson analizzati in un lungo<br />

articolo<br />

Testo: Edoardo Bridda<br />

Qualche scampolo di freschezza nel ritorno elettronico ci dà<br />

la perfetta scusa per analizzarne discografia e disegnare un ritratto.<br />

Soprattutto è giunta l’ora di rispondere a una serie di domande<br />

che da sempre ci affliggono parlando di Squarepusher.<br />

Domande che rispondono al desiderio di molti che lo hanno<br />

seguito in questi anni e ne hanno via via apprezzato frammenti<br />

ma mai l’opera omnia, il lato più jazzistico su quello più elettronico<br />

e viceversa. Dall’intervista che segue emerge un ritratto<br />

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umano del Tom Jenkinson di oggi, meno criptico del capelluto ragazzo che<br />

era nei 90s ma sempre acuto e intellettuale, con la classica ironia tagliente<br />

dello spocchioso stufo delle solite - e inevitabili - domande dei giornalisti.<br />

Ti sei fatto influenzare da chi? Da dove viene la musica che scrivi? Ti muovi<br />

in un contesto? Il rifiuto ad essere paragonato a qualcuno, tranne che ai<br />

padri del jazz e all’amico Richard D. James sono il perfetto viatico per la<br />

monografia che segue.<br />

In regime di semi impermeabilità, Tom ha respirato eccome il suo tempo in<br />

ogni suo disco, ma è senz’altro un animo profondamente jazzistico a condizionarlo<br />

più d’ogni altro. Un modus operandi che si traduce in jam con sé<br />

stesso quattordici ore al giorno per gran parte dell’anno, dalle quali non esce<br />

mai un album ma una valanga di registrato che successivamente l’uomo<br />

spalma su più lavori di diversa lunghezza e formato. Logica conseguenza: il<br />

capolavoro non c’è ma qualcosa che gli va vicino, frammentario quanto si<br />

vuole, lo abbiamo trovato scovandolo in quel mix di jazz cubista e ritmica<br />

junglista geneticamente modificata. Non solo: Tom, da un mero punto di<br />

vista intra genere, ci fa impazzire nelle vesti di estremista della techno-acid.<br />

Mania che conserva dai tempi degli ascolti del catalogo Rephlex più tosto<br />

e che lo ha portato a un altro piccolo breviario di elettromanie verso la fine<br />

dei 90s. Non vi vogliamo svelare nomi e fatti. E’ tutto scritto. E parleremo di<br />

tante cose: sound Engineering, prog-jazzismi à la Pastorius, contesti e pretesti.<br />

Drill’n’bass e Breakcore (lui il vero padrino?) a partire da svisate free à la<br />

John Coltrane/Ornette Coleman. L’amicizia tutt’ora in corso con Richard D.<br />

James e quella con un Luke Vibert che sembra relegata al passato. Il fratello<br />

in arte Ceephax malato terminale di acid-house, il viaggio nei synth e nelle<br />

tastiere in trip electric-cosmico ereditato da Miles Davis e Sun Ra<br />

from aCid to amen<br />

’<strong>The</strong>re is never a true ’doing what you want’ because your actions always,<br />

but always, relate to other people - whether that is ignoring, disrespecting,<br />

questioning or affirming?(Tom Jenkinson all’intervista collettiva per<br />

il BBC website)<br />

Squarepusher, nome d’arte di Thomas Jenkinson (Chelmsford, 17 gennaio<br />

1975) esordisce nel 1996 dopo due anni passati a trovare una sintesi sonora<br />

tra un passato jazz ereditato dal padre batterista e il fervore rave elettronico<br />

dei suoi anni scolastici. Al college ascolta tutta una serie di produzioni che<br />

stanno facendo e faranno la storia del suono techno britannico, dall’electro<br />

universo degli LFO alla tonnellata di acid vissuta in prima persona nei rave<br />

della sua città, Chelmsford. Ed è proprio il suono più acido e veloce ad affascinarlo.<br />

Nelle primissime produzioni, il giovane Jenkinson si butta a pesce<br />

tra le pieghe e le divisioni più oltranziste del Rephlex sound. Nel suono ama<br />

la velocità e l’aggressività e senz’altro la serie Universal Indicator - nata da<br />

una collaborazione tra Richard D. James (che in quel caso utilizzava l’alias<br />

Martin Tresidder) e Mike Dred aka <strong>The</strong> Kosmik Kommando - è pane per i suoi<br />

denti: velocità sostenute (150 bpm), ossessione videogame e loop serratissimi<br />

che porteranno diretti alla follia gabber (un esempio Thoughts <strong>Of</strong> You,<br />

Universal Indicator Blue, Rephlex, 1992).<br />

Nel frattempo, dal 1994, nelle sue orecchie arriva la jungle: è subito ossessione.<br />

Si fissa per i ritmi più compressi e cervellotici, ascolta Kiss FM e la<br />

way of life prevede radio pirata di notte e, ogni weekend, clubbing la sera<br />

e Black Market Records di sabato pomeriggio a rifornirsi di nuova ’mind<br />

blowing music’. Degli acquisti di quel periodo, Jenkinson parla recentemente<br />

a xlr8r e ad emergere è una mappa d’ascolti davvero seminali. Del<br />

remix di <strong>The</strong> Force Is Electric di Ed Rush ama il sample elettrico, del remix<br />

di For Real di Remarc degli Kemet Crew il tintiniio metallico e il ragga più<br />

scuro, in entrambe il fatto che l’amen break sia opportunamente pitch-ato<br />

o compresso. Stregante invece la Military Jazz contenuta in Rebuilt Kev EP<br />

(Blue Angel, 1995) del futuro amico Luke Vibert / Plug, per un aspetto da<br />

live jazz band opportunamente riprogrammato che tornerà molto utile. E<br />

se l’aspetto cool di Dillinja (Ja Know Ya Big, Metalheadz, 1994) piace perché<br />

le sue produzioni sanno essere ’hard as fuck’, nella jungle il musicista cerca<br />

da subito le cose più ’mental’ e ’messy’.<br />

Sempre nel 1994, sotto sua richiesta, il negoziante di dischi di Chelmsford<br />

gli passa 7 Minutes of Maddness di Bizzy B & Equinox contenuta nel <strong>The</strong><br />

Brain Crew E.P (Brain Records, 1993) come un disco che a lui personalmente<br />

non piace. “No questo è un pasticcio. E’ troppo incasinato?, gli dice. Tom<br />

sorride, da quell’ascolto in poi sarà idealmente uno squarepusher.<br />

Chelmsford sound<br />

Nella Chelmsford dove Guglielmo Marconi aprì la prima “wireless” factory,<br />

nella città che diede i natali alla radio secondo i fieri residenti e che vanta<br />

pure una pesante tradizione di electrical engineering, Tom si presenta nel<br />

2004 con Crot EP, la prima uscita della Rumble Tum Jum records: quattro<br />

tracce fra schegge industrial e flirtate belga (<strong>The</strong> Procrastinator Pt. 1), acid<br />

furibonde a passo di Space Invaders (<strong>The</strong> Procrastinator) e tangenti Plus 8<br />

sul lato più tosto della faccenda (<strong>The</strong> Burglar). Jenkinson è innamorato del<br />

suono delle Roland, dell’ortodossia acid. Nessun compromesso anthemico<br />

nelle sue tracce (vedi il catalogo R&S), piuttosto una strada già spianata<br />

64 65


per complicare i ritmi con sequencer e drum machine. Il fratello più giovane<br />

Andy, ovvero Ceephax, da questo trip ne uscirà vivo soltanto in tempi<br />

recenti. Il primo amore non si scorda facilmente, né per Thomas né per le<br />

amicizie che stringe/stringerà con Aphex Twin, Luke Vibert e tutto il giro<br />

Rephlex. Una truppa che tornerà ciclicamente sulle tracce del phuturo acido<br />

di Chicago come per concedersi di tanto in tanto un bagno ristoratore.<br />

Nel 1994 esce Stereotype E.P. - ancora numero di catalogo 1 di label ad hoc<br />

(Nothings Clear) e pubblicazione numero due a firma personale - a scoprire<br />

un’altra carta importante nel suo impianto sonico: la melodia idmmata e scifi<br />

tipica della label di Steve Beckett e del compianto Rob Mitchell. Si tratta di<br />

calarla in sostenuti bpm euro-technoidi, magari accarezzando pure un lato<br />

sempre più darkside marchiato da proverbiali campionamenti di dialoghi<br />

di vecchi film, riff industrial e snare assassini come andava all’epoca (1994,<br />

Greenwidth). Tracce come Whooshki, Falling e O Brien imbevute dell’aplomb<br />

spacey post-krauto degli Autechre piacciono a sufficienza sia a Richard D.<br />

James che a Heckett, tanto che i ponti con Rephlex e Warp, le due label<br />

elettroniche più lungimiranti del periodo, sono gettati.<br />

Tom dal canto suo vuol fare di più, qualcosa che riesca ad unire la passione<br />

techno-acid con l’ultimo Coltrane, il Miles Davis di On <strong>The</strong> Corner con lo<br />

space psych di Sun Ra, ma naturalmente anche tutto il portato della cosa,<br />

Canterbury e ancor più la fusion di Weather Report, il cui bassista Jaco<br />

Pastorius è sicuramente l’influenza principale per quanto riguarda l’utilizzo<br />

slappato e fluido del basso che sta per imbracciare.<br />

sQuarepusher or duke of harringay<br />

“Is it possible to have an opinion of one’s ’fundamental project?? (Borrowed<br />

from Sartre.) Is it not the ’fundamental project’ that determines opinion? It<br />

would be like having an opinion of your hands, or comparing your mind to<br />

your face”(Tom Jenkinson all’intervista collettiva per il BBC website)<br />

Nel 1995, l’ingegnere sonoro di Chelmsford imbraccia il basso che presto<br />

diventerà lo strumento simbolo. All’epoca però l’infuso jazz elettronico non<br />

ha una casa precisa, tanto che questi primi esperimenti verranno sfornati<br />

anche col nick Duke <strong>Of</strong> Harringay. Sono sfaccettature dello stesso campo<br />

d’azione: sotto i due moniker escono rispettivamente Conumber E:P e<br />

Aloy Road Tracks entrambi per Spymania ed entrambi poi confluiti in una<br />

compilation riassuntiva della prima fase pubblicata sulla scorta del successo<br />

della release lunga per Warp nel 1997 (Burningn’n Tree, Warp, 6.8). Ma andiamo<br />

con ordine. Se le tracce di Duke fanno un discorso proteico (poliritmi<br />

imbastiti con campioni di snare e batteria) su jazz e mood blaxploitation<br />

piuttosto basici (Central Line, Sarcacid Part 1, Nux Vomica) aprendo parentesi<br />

intelligent jungle (Sarcacid Part 2) o reggae dub dal sapore ’cantieristico’ alla<br />

bisogna (Toast For Hardy con echi della aphexiana Cow Cud Is a Twin), il lato<br />

Squarepusher della faccenda è già più tenace nel creare qualcosa di nuovo:<br />

porta il mix su un terreno d’azione maggiormente incompromissorio. In<br />

tracce come Conumber, Eviscerate, Male Pill no. 5 (quest’ultima addizionata<br />

con elementi techno e un riconoscibile furto breakbeat) Tom sfoga i raptus<br />

della jungle, mettendo l’elemento jazz in un dinoccolato gioco di sponda<br />

fusion-space-ambient. L’aspetto distintivo del Jenkinson sound sta proprio<br />

nell’uso del jazz. Mentre i paladini della scena intelligent jungle all’apice del<br />

successo commerciale nel 1996 lo sfruttano come abbellimento di partiture<br />

esotico-baleariche o di vezzi che in alcuni casi vorrebbero elevare il suono<br />

dal dancefloor a culture musicali ’più alte’ (Goldie, A Guy Called Gerald,<br />

Photek, 4 Hero, LTJ Bukem), Jenkinson, al contrario, ama la jungle più energica,<br />

sanguigna e clubbista, nonché lo spirito di ricerca e i risvolti crudi e<br />

metallici di Ed Rush e Bizzy B.<br />

tom, luke e riChard. drill brothers<br />

Squarepusher, Luke Vibert (sotto il moniker Plug) e Aphex Twin (che per<br />

inciso arriverà qualche mese dopo a queste soluzioni ritmiche con il Girl Boy<br />

EP e con l’album autografo nel 1996), cementano la loro amicizia sperimentando<br />

l’ossessione per la cassa rullante, mantenendosi alla larga sia dalle<br />

floride arene drum’n’bass sia dalle produzioni sempre più ingessate della<br />

compagine ’intelligent’ del genere.<br />

I critici inventano presto la tag drill’n’bass, trivella e basso, per descrivere<br />

la crescente vertigine ritmica delle loro composizioni, ma se Richard usa<br />

la chamber e il pop e Vibert ama la kitschedelia, l’intento di Tom è quello<br />

applicare il jazz - free o rock dei 70s - nello straordinario flusso futurista del<br />

colpo di coda del secolo. Una mossa che lo annovererà tra gli antesignani<br />

del breakcore (vedi il nostro Dj Balli via Venetian Snares, Kid606, Lesser<br />

ecc.) e che farà di lui un idolo per i neo amanti delle virtuosità elettroniche.<br />

Interessanti in Feed Me Weird Things, primo parto lungo per la Rephlex di<br />

James, i due volti di Tom, una dicotomia che si ripresenterà sempre in futuro:<br />

il puro elettronico versante idm (<strong>The</strong>me From Ernest Borgnine, UFOs Over<br />

Leytonstone) e il ’suonato’ di matrice jazz (Squarepusher <strong>The</strong>me), entrambi<br />

senz’altro piuttosto prevedibili - visti in prospettiva - ma già con i giusti<br />

colpi d’ala. L’overture in puro stile Aphex tra drillate e ambient di Tundra<br />

è già ottima di per sé, notevole la compattezza nella furia ritmica di North<br />

Circular o l’eleganza liquida di una Kodack che sa anche aprirsi alla d’n’b<br />

con incredibile scioltezza. Il succo di molte delle tracce non sta nel cercare<br />

66 67


una sintesi superiore ma nel guastare le feste agli amanti delle etichette e<br />

degli steccati, attraverso layering di complicazioni drill e decompressione<br />

fusion (<strong>The</strong> Swifty) e calando in mezzo techno-acid carenati à la Prodigy<br />

(Dimotane Co.) sci-fi, exotica (Windowscale 2) e, secco e spietato, un certo<br />

umorismo parente - come c’era da aspettarsi - di quello dell’amico Aphex<br />

(Smedley’s Melody). Altra caratteristica di Tom è quella di non confezionare<br />

album a tema bensì farsi attraversare da cicli di sperimentazione che durano<br />

più produzioni. Minutaggi che sarebbero decisamente da asciugare, ma in<br />

linea con un atteggiamento, per l’appunto, da jazzista.<br />

Sempre in quell’anno, il nostro completa con due produzioni piuttosto solari<br />

e dal taglio space jazz, Bubble And Squeak e lo split Dragon Disk 2<br />

assieme a Nigel Smith ovvero Dunderhead su Worm Interface, più vicino<br />

alla jazz house.<br />

time warp<br />

Accanto a Bubble And Squeak e Dragon Disk 2, del 1996 è anche Port Rhombus<br />

(Warp, 1996, 7.3), un compatto eppì tra idm e drumming scientifico<br />

che segna l’ingresso del jazzista nella prestigiosa scuderia Warp, un solido<br />

antipasto di un lavoro sulla lunga distanza che si dovrà confrontare sia con<br />

un’attenzione crescente nei suoi confronti, sia con l’ultimo lavoro di Aphex<br />

Twin: quel famoso Richard D. James Album che segna una fondamentale<br />

svolta avant-junglista per lui, anche in termini di popolarità e idolatria.<br />

Così nel 1997 Squarepusher non può sbagliare un sample e risponde con<br />

Hard Normal Daddy, un masterpiece di accelerazioni e distensioni ritmiche,<br />

avant jazz e hard funk. Un lavoro che rispetto all’esordio per Rephlex porta<br />

l’intuizione jazz a un nuovo livello: con il gioco sornione sulla blaxploitation,<br />

gli stacchetti televisivi dell’opener Coopers World e le super mosse di karate<br />

di Chin Hippy, Tom sembra voler dire ’non c’è niente di serio qui’. Ma è questo<br />

il bello, sotto i baffi si nasconde una ricetta tutt’altro che facile alla quale,<br />

oltre alla impro (Papalon) s’aggiungono elementi fondamentali come la forza<br />

impattante del rock (E8 Boogie, Rustic Raver), la complessità del prog (Male<br />

Pill Part 13), lo spessore e i riflessi psych della tarda Canterbury, stoccate<br />

robo-funk (Fat Controller) e una buona regia che alterna furia a decompressione.<br />

Jenkinson non cerca di dipingersi come compositore o songwriter<br />

come l’amico Richard D. James ma sicuramente questi due album, usciti a<br />

pochi mesi di distanza l’uno dall’altro, hanno più punti di contatto sia sul<br />

lato della narrazione idm-tronica in pieno stile 97 (Beep Street) sia nei vezzi<br />

alla Vivaldi remissato Phillip Glass che li accomunano in Anirog D9.<br />

Immortalato dalla famosa copertina con la foto della sua Chelmsford e gli<br />

sprites danzanti Commodore VIC-20 style, Hard Normal Daddy (Warp, 1997,<br />

8.0) è dunque già un classico. Il pubblico gli preferià il successivo Music Is<br />

Rotted One Note per ragioni puramente romantiche (e lo vedremo), ma prima<br />

Squarepusher ha ancora un paio di cartucce da sparare: un trascurabile<br />

singlo (Vic Acid) con quattro mix e un altro album (benché mini) che sarebbe<br />

delittuoso considerare minore: Big Loada (Warp, 1997, 7.5). Rovistando nei<br />

più torbidi meandri del ragga hardstep (Full Rinse), della videogame music<br />

(A Journey To Reedham (7am mix)) e della jungle ’mental’ del giro Rephlex /<br />

Planet Mu, il disco risulta un ritorno in grande forma all’elettronica pura da<br />

breakbeat continuum, aprendo definitivamente le porte al breakcore (Come<br />

On My Selector con il clip di Chris Cunningham). Una liberatoria immersione<br />

elettro prima della grande infornata jazzistica.<br />

68 69


virtual jazz ensemble<br />

’I personally couldn’t care less about people borrowing ideas as I really don’t<br />

have any sense of owning them in the first place’.(nostra intervista, 2012)<br />

Calato nei primi 70s del Miles Davis di Get Up With It e On the Corner (ma anche<br />

nell’ultimo John Coltrane), cautamente avanguardista in senso novecentesco<br />

(strumenti e macchine che ricordano le sperimentazioni di Marino Zuccheri<br />

allo Studio di Fonologia milanese), l’acclamato Music Is Rotted One Note<br />

(Warp, 1998, 7.0), trattiene ogni riferimento alla musica elettronica ’giovanile’<br />

per tentare ambiziosamente di scrivere un lavoro ’maturo’ e per nulla ironico.<br />

Tom imposta il disco sia come un omaggio a un’epoca e ai suoi protagonisti,<br />

sia come una studiata operazione retro-modernista: limita gli interventi alle<br />

macchine a tocchi da audiofilo - la frusta trattenuta sugli snares, il modo di<br />

suonare la batteria quasi-junglista, alcuni filtraggi robotici, certe amplificazioni<br />

particolari del basso - e si cimenta in tutti gli strumenti coinvolti - bas-<br />

so, chitarra, hammond e altre tastiere, batterie - esercitando così il doppio<br />

ruolo di producer e virtual one man band. Non solo, per la prima volta entra<br />

di soppiatto nel mondo dell’elettronica del dopoguerra accademico europeo<br />

(Berio, Maderna, Stockhausen, etc.), utilizzando modulazioni ad anello,<br />

filtri, diavolerie dal gusto pseudoanalogico e infilandole nel consueto flusso<br />

di saliscendi ritmico-arrangiativi con un gusto alle volte ottimo e alle volte<br />

troppo vicino a simulazioni dada fuori contesto. Un suono che comunque<br />

risolve l’impasse improvvisativo e contribuisce ad incastrare le tessere del<br />

puzzle in modo coerente.<br />

Si parte con un funk-psych che trasuda passione fusion nel dittico iniziale<br />

Chunk-s e Don’t Go Plastic (con echi tastieristici di Herbie Hancock), s’accarezza<br />

il Miles introspettivo magari travisandolo prog alla maniera dei Soft<br />

Machine (Dust Switch), ci si butta in savane Coltrane (137 (Rinse)) magari in<br />

crescendo e architetture orchestrate e orchestrali (III Descent), si adottano<br />

inframezzi free à la Ayler (Drunken Style), finendo poi in un avvicendarsi di<br />

cosmica e contemporanea (Curve 1, Parallelogram Bin, Ruin, Step 1) o jazz rock<br />

(<strong>The</strong>me From <strong>The</strong> Vertical Hold). Unici fuori programma, una ’folk song’ (My<br />

Sound) o il cupo finale orwelliano per pelli e theremin Llast Ap Roach.<br />

A tutt’oggi l’album più famoso di Squarepusher, Music Is Rotted One Note<br />

è in realtà un lavoro frammentario, abilissimo nel farsi ammirare, ottimo a<br />

livello di produzione, ma incapace di portare il jazz oltre sé stesso o anche<br />

semplicemente di vivere la jam e portarla a cifra stilistica. Eppure l’operazione<br />

non è da stigmatizzare: rappresenta il primo e solido tentativo d’escapismo<br />

dalla cultura elettronica della sua generazione da parte di un musicista<br />

che a differenza di molti ’intelligent’ suona dal vivo e tocca corde e strumenti<br />

con mano. E’ questa affinità anti-plastica e anti pre-set che lo avvicina ad un<br />

pubblico eterogeneo garantendogli sia libertà di movimento da parte della<br />

fida Warp, sia la sopravvivenza artistica.<br />

Lo stesso anno di Music Is Rotted One Note, Tom esce anche sotto l’alias techno<br />

rave Chaos AD tornando sul luogo del delitto degli album a suo nome<br />

con un setting ritmico calibrato al bit. Buzz Caner (Rephlex, 1998, 7.0) è un<br />

buon lavoro di revisionismo ritmico (Thin Life risposta alla famosa Didgeridoo<br />

di Aphex Twin’), una parentesi prima di dar sfogo agli ultimi scampoli<br />

di suonato jazz attraverso tre lavori sulla breve distanza che riavvolgeranno<br />

il nastro su ridde elettromaniache.<br />

Il primo, Budakhan Mindphone (1999, 5.0), è una raccolta per completisti che<br />

ne rappresenta l’ideale corollario (o meglio le session mancate), il secondo,<br />

Maximum Priest EP, ha il pregio di riportare il sorriso a Tom con alcune gag<br />

mortuarie (1999, 6.5); Selection Sixteen (Warp, 1999, 6.8) infine, con i suoi<br />

45 minuti, è un album a tutti gli effetti che lo fa entrare di nuovo e a pieno<br />

titolo nei ranghi elettronici del continuum breakbeat. Con gli Autechre in<br />

procinto di abbandonare le figure ritmiche prevedibili, Squarepusher si fa<br />

pallottola di precisione, acida e metallica (Square Rave, Schizm Track #1),<br />

salvo concedersi al solito qualche poesia electro (Tomorrow World) e, novità,<br />

cimentarsi in quanti più generi e stili possibili: spettralismi da accademia<br />

francese (<strong>The</strong> Eye), sampledelia post-rock che richiama in causa i Tortoise<br />

(Cool Veil) tagliati con le visioni di Richard D. James (Time Borb), standard acid<br />

Warp (Dedicated Loop), smascellate technoidi (Snake Pass), una manciata di<br />

session slap sotto forma di brevi interludi (Freeway, Yo), reprise di cacofonie<br />

(8 Bit Mix 2) e l’ospitata del fratello oltranzista (Ceephax Mix) le cui voglie<br />

acide aleggiano un po’ in tutta la tracklist.<br />

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hot Car liCker<br />

Il passaggio agli anni 2000 per la scena elettronica è un momento delicato.<br />

La scena jungle è una faccenda per nostalgici, i nuovi hipster londinesi<br />

sniffano coca ascoltando il 2 step, l’underground hip-hop londinese macina<br />

rime urbane (l’UK Garage, il nascente fenomeno <strong>The</strong> Streets), il glitch ampiamente<br />

assimilato (e già in china) impone texture elettroniche a forte tasso di<br />

contaminazione e crossover tra i generi (Microhouse, Techno concreta vedi<br />

Matmos...) e le forti accelerazioni e in generale tutto il post-modernismo,<br />

dalla visibilità nei 90s, tornano ad essere una faccenda da nicchie.<br />

A partire dal 1997 la Ambush Records di Toby Reynolds (DJ Scud) e Jason<br />

Skeet (Aphasic), la Bloody Fist di Mark Newlands e la Planet Mu dell’amico di<br />

James Mike Paradinas (a rimorchio), capitalizzano la rivoluzione drill’n’bass e<br />

spingono per le mutazioni genetiche. Il tag breakcore inizia a girare e non ci<br />

vorrà molto, con il canadese Venetian Snares e alcuni dei protagonisti della<br />

brulicante scena californiana raccolta attorno alla label Tigerbeat6 (Lesser,<br />

Blectum From Blechdom e lo stesso owner Kid606), perché cominci a svilupparsi<br />

un circuito internazionale specializzato.<br />

Tra drill di Aphex Twin e Squarepusher e la nascente scena breakcore, c’è<br />

senz’altro un cambiamento ideologico importante: pur con iniezioni letali di<br />

futurismo, l’approccio dei primi mantiene sottesa un’idea romantica dell’artista<br />

che la nuova truppa di velocisti, fondata su anarchia (mash-up furente)<br />

e luddismo (amore per il noise), scansa totalmente. Alla scientifica parcellizzazione<br />

e scomposizione del continuum dance britannico, i breakcorer,<br />

malati di patchwork e crossover, si rifanno alla primigenia Digital hardcore di<br />

Alec Empire (il primo breakcorer secondo molti) fagocitando tutto ciò che<br />

può suonare estremo e sabotante: naturale la combutta con metal, suoni<br />

concreti, sabotaggi di Roland e passi dell’oca gabber.<br />

Tra le disquisizioni sul primo Tom Jenkinson presenti su Discogs è interessante<br />

notare come anche le prime produzioni del musicista, per alcuni fan,<br />

non siano mai catalogabili come gabber (anche se obiettivamente è chiaro<br />

che per quella china il passo è brevissimo); i breakcorer, al contrario, non<br />

vedono l’ora di venir spiazzati con nuove scorie soniche. Non è un segreto<br />

che questo ritorno a un rinnovato spirito punk sia visto all’epoca come una<br />

ventata propositiva rispetto all’irregimentata produzione anglosassone e<br />

non è un caso che Drukqs, la monumentale raccolta di trapani e inframezzi<br />

di piano preparato firmata Aphex Twin nel 2001, assuma a tutti gli effetti i<br />

connotati della fine di un’epoca o di un cambio di visuale.<br />

Squarepusher, beffardo e impermeabile alle mode (ma non del tutto indifferente<br />

ad esse), ne è consapevole e pensa a sua volta allo iato. Lo stesso anno<br />

pubblica Go Plastic (Warp, 2001, 7.5), il gemello cattivo di Music Is Rotted<br />

One Note che conteneva giustappunto la traccia Don’t Go Plastic, nonché<br />

l’album con gli episodi più estremi - leggi con il più alto tasso di sample<br />

per secondo - mai incisi finora. L’album si apre con uno scherzetto, My Red<br />

Hot Car, una presa in giro del 2 step, una sorta di tardiva (e non altrettanto<br />

spettacolare) risposta a Windowlicker di James, nonché il primo (unico’) quasi<br />

singolo del nostro. Ancora una volta il dialogo con l’Irlandese è a metà tra<br />

la sfida e l’omaggio: dove lui si prendeva gioco del mainstream americano,<br />

Tom prende di mira la moda brit del momento tradendone e complicandone<br />

il verbo.<br />

Il Go Plastic vero è un altro, è un lavoro che cerca continuamente di smarcasi<br />

brano dopo brano, frammento dopo frammento, fino alle vette di ferocia<br />

electro più estreme (Greenways Trajectory). Nel percorso c’è del sublime: il<br />

dub electro schizoide Go Spastic ma anche in uno statement definitivo come<br />

My fucking sound e tutta una serie di piccole maniglie di salvataggio - riconoscibili<br />

pieghe funk, gigionate 8 bit (Boneville Occident), carezzevoli sinfonie<br />

altezza Richard D. James album (I Wish You Could Talk), hip hop (Plaistow<br />

Flex Out) o dub / 2 step (l’inizio e il finale di <strong>The</strong> Exploding Psychology) - che<br />

non sono altro che crudeli tranelli per rendere ancor più efficace la detonazione<br />

e l’inevitabile sfacello sonico.<br />

Go Plastic è - e rimane - il disco hard-tronico per eccellenza nella discografia<br />

squarepusheriana, quello che meglio d’ogni altro fa brillare la componente<br />

ragga del tessuto junglista, in pratica, secondo l’interpretazione di Reynolds,<br />

questo è il disco breakcore secondo Jekninson, ma anche il miglior seguito<br />

agli esperimenti di jazz-cubista di Hard Normal Daddy. Di fatto l’unico trait<br />

d’union possibile è rintracciabile proprio tra le pieghe di una spettacolare<br />

sample-mania ritmica, ultraveloce e ultradettagliata, operata sulla fascia più<br />

nera e clubbista della jungle. Una sorta di botto osservato a molteplici velocità,<br />

proprio come un bel film di Guy Ritchie. Un difetto: probabilmente il non<br />

aver dosato lo humor a tutto tondo dell’insuperato capolavoro (e proprio<br />

partendo da questo grimaldello, Venetian Snares lo supererà).<br />

Al nadir della drill’n’bass, e per tutti i motivi ora elencati, l’album è comunque<br />

riuscito e un successo a livello di audience. Tom diventa una star - anzi,<br />

una rockstar - che al contrario della stragrande maggioranza dei colleghi<br />

elettronici può vantare un pubblico trasversale, forse microgenerazionale,<br />

proprio come quello degli Atari Teenage Riot. Non è un caso che le tournée<br />

seguenti lo vedano, gasato e testosteronico, comportarsi come tale. Ne troviamo<br />

le testimonianze in quel misto di genialità e di tronfia indulgenza che<br />

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sono i lavori successivi spalmati in tre anni: Alive in Japan (Warp, 2002, 6.5),<br />

cd allegato all’album a firma Squarepusher, Do You Know Squarepusher, e<br />

Ultravisitor (Warp, 2004, 5.0), un inedito lavoro registrato senza soluzione<br />

di continuità tra studio e live recording.<br />

do you know him?<br />

’One of the more basic approaches to album compilation I have used is<br />

to order pieces in such a way that they are always differentiated by the<br />

pieces they are preceded and succeeded by. I have hoped that this basic<br />

tactic would help me along the way to keeping the listener alert and<br />

attentive.’(Tom Jenkinson all’intervista collettiva per il BBC website)<br />

Ma veniamo al primo dei due, Do You Know Squarepusher (Warp, 2002,<br />

7.3), titolo falsamente retorico, presa di posizione contro chi lo vuole già<br />

pronto per i libri di storia. In 33 minuti, il rinnovato Squarepusher, a partire<br />

dalla track omonima, rivisita - e questa volta entrando nel merito - la 2 step,<br />

codifica l’hip hop dell’UK Garage (F-Train), esamina l’ostica electro dei compagni<br />

d’etichetta Autechre (Kill Robok, Mutilation Colony - ricordiamoci che<br />

Gantz Graf è dello stesso anno). E naturalmente, come d’abitudine, riprende<br />

i dada ragga-step della prova precedente (Anstromm Feck-4) al top della<br />

forma. Ciliegina (per i fan): la cover, in one man band ovviamente, di Love<br />

Will Tear Us Apart dei Joy Division.<br />

Tanto è entusiasmante ascoltare Squarepusher improvvisare sulle macchine<br />

sulla media distanza, quanto invece è faticoso sopportarlo negli slanci<br />

chilometrici, specie dopo il bagno di folle live. Ultravisitor è il primo album<br />

con Tom Jenkinson in copertina, un primo piano naturale e non deformato<br />

alla maniera di Aphex Twin. Niente maschere, il ritratto è una fotografia in<br />

stile folksinger con tanto di basettoni. L’album, il relativo corollario. L’ironia è<br />

che il folk firmato Squarepusher è una radiografia di un cuore in preda agli<br />

attacchi di panico, con una manciata di noiosi strumentali a contorno (Lambic<br />

9 Poetry è puro riciclaggio) che toccano territori post-rock (Tetra-Synch,<br />

Circlewave) e chitarre rinascimentali (Andrei) o spagnole (Every Day I Love).<br />

Difficile reggere l’autoindulgenza di ottanta minuti che non prevedono<br />

sorriso alcuno e che hanno richiesto una quantità incredibile di ore di composizione.<br />

Quando Tom spinge a tavoletta pare goffamente rispondere alla<br />

rapida ascesa del breakcore (l’attacco di Steinbolt, una sorta di spasmodico<br />

free form metal, una casualità’) e il poco di buono è confinato o in retroguardie<br />

avant jungle (la titletrack soprattutto) o alla sua versione dell’hip-hop<br />

versante Dälek (50 Cycles, traccia che ha richiesto più di un mese di lavoro);<br />

allegato alla versione giapponese dell’album, Square Window (Warp, 2004,<br />

6.8), un mini di 5 tracce in area idm lato melodico (Abacus 2, Hanningfield<br />

Window) con l’highlight Venus No. 17, traccia in electro stepping metallico<br />

tra rinnovata ironia e crescendo lineare (presente anche un omonimo ep<br />

con remix e un inedito, Tundra 4).<br />

virtual 70s power trio<br />

Due anni più tardi esce Hello Everything (Warp, 2006, 6.8). Ai detrattori la<br />

tracklist sembra un best di ciò che il musicista ha sfornato nel corso degli<br />

anni, ma si sa, Tom muove piccoli passi in nuove direzioni ad ogni nuova<br />

prova lunga e questa volta la regola è ’non più di una settimana per incidere<br />

un brano’. Nelle discrete Hello Meow e Bubble Life torna il concetto di one<br />

man band suggerito peraltro dalla copertina sempre in stile 70s, eppure<br />

piuttosto del solito prog e jazz-rock, l’elettro-fusion di Squarepusher si fa<br />

80s, exotica e decisamente rilassata rispetto ai suoi standard. <strong>The</strong>me from<br />

Sprite conferma l’approccio antitetico rispetto a Ultravisitor, con Tom che<br />

cerca nell’immaginario del session man da cocktail lounge e lo schiaffa su<br />

marte. E’ un bagno ristoratore a confermarlo: una cascata di moog e cosmica<br />

che stanno germogliando in ogni dove nell’underground mondiale (da <strong>The</strong><br />

Arp a Expo 70). Come sempre l’impermeabile Tom in verità ci sente benissimo:<br />

Circlewave 2 riprende la chitarra flamenco, Planetarium parte junglista,<br />

entrambe s’immergono in una piscina synth-o-rama; stessa cosa i pezzi più<br />

acidi come Welcome To Europe e Plotinus. Disco ingiustamente sottovalutato<br />

e prova compatta nella discografia di un musicista che ormai sì, è faccenda<br />

per fan (che non sono pochi) e forse troppo manierista.<br />

Altri due anni ed è la volta di Just a Souvenir (October 27, 2008, 6.0). Spunta<br />

il vocoder ad espandere il pop del precedente album (una divertente <strong>The</strong> Coathanger),<br />

tornano le chitarre flamenco (Yes-Sequiter), ma il cuore dell’album<br />

non è più una faccenda di tastiere bensì è in mano a un power trio bello e<br />

buono per chitarra, basso e batteria. Jenkinson va a parare nei King Crimson<br />

hard e (pre)math di Red e nel jazzcore e la cosa non sorprende nessuno.<br />

Delta V e <strong>The</strong> Glass Road sono gli episodi più metallici, il resto ci dà di progghismi<br />

cervellotici neppure troppo saputelli (Planet Gear, Tensor in Green, <strong>The</strong><br />

Glass Road) con qualche punta sbarazzina a mitigare (Potential Govaner). La<br />

china ultra manierista è per forza di cose direttamente proporzionale alle<br />

stroncature che arrivano puntuali e da più parti e Squarepusher sa benissimo<br />

di non poter continuare oltre su questi binari.<br />

In Numbers Lucent (Warp, 2009, 7.0), un eppì di quasi 25 minuti, la mossa<br />

torna elettronica e in un momento di revivalismi Rave, il Nostro risponde<br />

puntuale con Zounds Perspex (synth pastiche di fusion, tastiere citazioniste)<br />

74 75


e un fare exotic-pop ereditato dalle ultime prove. Curioso vedere Tom cimentarsi<br />

in territori house (Paradise Garage) quando nei primi Novanta era<br />

da tutt’altra parte orientato. Intelligente il missato di tastiere che tornano<br />

protagoniste, marcature cartellino Settanta, qualche spunto disco, basso<br />

slap contenuto e i labirinti sonici godibili.<br />

Lo stesso anno Tom si toglie l’ennesimo sfizio, Solo Electric Bass 1 (Warp,<br />

2009, 6.0), una session limitata a 850 copie per dodici tracce incise live alla<br />

Cité de la Musique a Parigi all’interno del festival ’Jazz à la Villette 2007’.<br />

Come dice il titolo, sono episodi per solo basso e amplificatore che danno<br />

pieno sfogo della versatilità jazzistiche del Nostro, in un album ovviamente<br />

compiaciuto ma nondimeno intelligente e musicalmente avvincente.<br />

E arriviamo al 2010. Sempre all’interno degli ensemble virtuali, Jenkinson<br />

architetta il primo, vero, album pop (mascherato). Questa volta è un quar-<br />

tetto virtuale a suonarlo, lo Shobaleader One, con la dicitura ’Squarepusher<br />

Presents’ a indicarlo come side project a tutti gli effetti. Eppure il discorso per<br />

d’Demonstrator (Warp, 2010, 6.5) è il medesimo di Just a Souvenir, sia per<br />

quanto riguarda l’idea di vocoder pop qui estesa a formato base coprendo<br />

lo spettro Krafwerk, Giorgio Moroder e Daft Punk (Plug Me In, Into <strong>The</strong><br />

Blue, il funk di ripiego di Endless Nights che si colora metal sul ritornello), sia<br />

per il recupero del metal attraverso la lezione Frippiana sopracitata nella<br />

finale Maximum Plank. Nota d’interesse per il 2012: la batteria quasi-dubstep<br />

nella popadelica Abstract Lover, insieme ad un rinnovato uso di tastiere che<br />

anticipano la svolta aggressivo/melodica che Jenkinson dichiarerà essere il<br />

pretesto sonico per la definizione di Ufabulum (Warp, 2012, 7.0 - approfondito<br />

in spazio recensioni).<br />

the sound of a power station<br />

“As a boy I had a Ladybird book about power stations that I used to re-read<br />

every day. I’m obsessed with electrical energy and especially in the vast<br />

quantities generated by power stations. <strong>The</strong> sound of the massive electric<br />

motor from a fairground Ferris Wheel has always stayed humming in my<br />

head and lots of my synth sounds refer to it, as they do in this piece. From<br />

there I tried to generate images of bizarre transitory phenomena that I<br />

imagined could be found in the huge furnaces of power stations.”(Tom<br />

Jenkinson a proposito della traccia Drax 2)<br />

Il come back electro, in convergenza parallela con il massimalismo sonico<br />

ora in voga (da Skrillex a Rustie) di Ufabulum, coincide con una ritrovata<br />

freschezza. Tom miscela prevedibili elementi di alcuni dei suoi passati più<br />

o meno remoti (electro, idm, 80s synth music e drill’n’bass) con estro e sedato<br />

gusto prog. Persino un nuovo modus operandi è stato messo in atto<br />

e ha previsto, come abbiamo appreso dall’intervista, una forte correlazione<br />

musica e immagini attraverso un software autoprodotto circa nel 2005 e in<br />

continua evoluzione da allora (il video-synthesiser). Nell’edizione speciale,<br />

al disco viene allegato un EP di tre tracce Enstrobia (Warp, 2012, 6.8) che<br />

conferma la passione altalenante per il synth-pop squadrato (Angel Integer,<br />

Panic Massive) e per l’avanguardia (40.96a dipinge visioni industriali à<br />

la Blade Runner). L’altra zampata è un live al Fort Mason 2012 dello scorso<br />

marzo che abbiamo avuto modo di gustarci grazie a una preview tramite il<br />

broadcast di Warp/Youtube. Niente basso e tutte macchine. Un casco e uno<br />

schermo. Entrambi parte dello stesso led show techno-minimale la cui parte<br />

visual sembra portare tributo a Ryoji Ikeda.<br />

Hai descritto il tuo nuovo album come un mix di suoni melodici e aggressivi.<br />

In questo senso a noi è piaciuto molto il disco di Rustie. In<br />

generale sembra comunque che vi sia un rinnovato interesse per la melodia<br />

nella musica elettronica e non solo nei drop di Skrillex...<br />

Dal punto di vista del pubblico... beh è più il tuo lavoro che il mio!<br />

Ok, ma perché hai deciso di dare più importanza alla melodia?<br />

Non penso che ci sia stata una transizione così brusca con quello che ho<br />

fatto nel passato (recente). Certo, il disco nuovo suona più melodico dei<br />

precedenti, ma non direi che c’è stata una variazione così marcata...<br />

Rispetto alle cose che suonavi negli anni Novanta, quando tu e Aphex<br />

eravate all’apice del suono elettronico mondiale, le cose sono cambiate<br />

molto. Il disco nuovo suona completamente diverso da quello che facevi<br />

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all’inizio della tua carriera...<br />

Probabilmente non sono io ad essere cambiato, ma è la gente che è più<br />

interessata alla melodia. Non è il mio mestiere fare queste generalizzazioni,<br />

creare trend, non sono molto interessato a queste cose.<br />

In questo periodo abbiamo realizzato uno speciale su Photek in occasione<br />

dell’uscita del Dj Kicks. Negli anni Novanta avevate senz’altro in<br />

comune la passione per il jazz. Ora lui suona anche dubstep...<br />

Conosco molto bene le cose che ha fatto negli anni Novanta, ma non ho<br />

idea di cosa faccia oggi. Quando hai pubblicato Music is rotted one note<br />

c’erano delle connessioni con le tastiere di Miles Davis e con suoni che usava<br />

Photek. Mi sembra che tu abbia cambiato molto il processo compositivo<br />

da allora. Ho cambiato di continuo, non c’è stata una modifica unica in un<br />

colpo solo. Nel senso che i cambiamenti non li vedi tra un album e l’altro,<br />

ma fra due o tre album consecutivi. Sì ho cambiato il modo di comporre,<br />

non solo nel modo in cui le note sono organizzate (che penso sia una buona<br />

definizione di composizione), ma anche in un modo più generale di estetica,<br />

nel senso di come i suoni vengono scelti e di come sono usati. E’ stato un<br />

processo continuo di valutazione per me. Anche se da un punto di vista<br />

esterno sembra ci sia stato un salto, quello che mi interessa alla fine è la<br />

possibilità di fare quelle transizioni, tentare di fare cose nuove. Se non mi<br />

piacesse variare non avrebbe senso quello che sto facendo. La gente magari<br />

pensa che un disco sia un grande salto rispetto a quello precedente, ma è<br />

un processo continuo...<br />

Che cosa significa il titolo Ufabulum? A me sembra che sia la stessa<br />

radice di favola...<br />

E’ una parola che ha usato la mia bambina (o la mia ragazza, la traduzione<br />

non è chiara, ndr) per definire l’album. Un modo informale per definire il<br />

disco che non ha connotazioni particolari. Penso che le connotazioni saranno<br />

generate dalla mente della gente, che inizierà ad immaginare cosa<br />

vuol dire quella parola. Mi piace pensare che se dai a qualcuno una tela<br />

bianca, una parola senza un significato preciso, quel qualcuno applicherà il<br />

suo significato personale. Quando fai dischi è un problema normale quello<br />

del titolo. Per quanto riguarda la parola Ufubalum, può anche piacerti solo<br />

per il suono, come una poesia.<br />

Nelle note di stampa hai dichiarato che la traccia Ecstatic Shock è stata<br />

sviluppata con un software - il ’video-synthesiser’ - che hai ideato tu<br />

stesso. Ci puoi parlare di come hai scritto le tracce?<br />

Sì, ho associato le tracce a delle immagini. Ecstatic Shock è stato il primo pezzo,<br />

con il software ancora ad uno stato embrionale. Quello a cui mi riferivo<br />

nelle note di stampa era il fatto che ho usato delle visualizzazioni per scrivere<br />

i pezzi. Lo puoi vedere anche dall’artwork del disco; in futuro il software<br />

verrà usato per fare i video e anche per fare lo show dal vivo, dove tutta la<br />

musica è accompagnata da elementi visual. Tornando alle differenze tra un<br />

disco e l’altro... questo disco è completamente differente da tutti quelli che<br />

ho fatto per il fatto che la musica è stata composta contemporaneamente<br />

a immagini video. Quello che ho cercato di fare è articolare visualmente la<br />

sorgente di qualche associazione mentale che il suono e la musica hanno<br />

evocato in me. Per esempio se un pezzo evocava un tipo di figura geometrica,<br />

ho cercato di tradurla in musica. Inoltre ho cercato di capire se i visuals<br />

avevano qualche feedback verso musica, ad esempio guardando le figure<br />

che facevano i suoni o se queste mi ispiravano a costruire suoni particolari.<br />

Il suono ispirava le figure e le figure ispiravano i suoni.<br />

Ho visto sul Warp site un video teaser dell’album e mi sono venuti in<br />

mente i Daft Punk..<br />

Non penso che il lavoro sia minimamente connesso ai Daft Punk. Il disco<br />

non è stato composto per piacere alla gente in un modo pop o commerciale.<br />

Non me ne frega un cazzo di quel tipo di cose. Per quanto riguarda la<br />

connessione con i Daft, ho tentato di sviluppare un approccio che utilizza<br />

la maschera che si modifica live durante lo show. A quanto ne so, non mi<br />

sembra che i Daft Punk abbiano mai fatto una cosa del genere.<br />

Mi sembra che oggi la sperimentazione si concentri di più sul mix di<br />

suoni e stili, non nella costruzione dei suoni stessi. Simon Reynolds<br />

parla di massimalismo nel definire questo mix di stili post-moderni.<br />

Penso che tutto questo venga fuori dal fatto che molti software ti danno<br />

già una palette pronta di preset ed è difficile costruire suoni dal niente.<br />

La gente fa prima a mixare sample e fonti già esistenti. Cosa pensi di<br />

questo approccio applicato alla musica?<br />

Mentirei se dicessi che citare lavori del passato è un male. In generale è impossibile<br />

non fare riferimento a qualcosa del passato. Il problema è quanto<br />

dai spazio al passato, l’intensità con cui citi. Se facessi musica senza riferimenti,<br />

sarebbe difficile riconoscere e definire quello che faccio con il termine<br />

’musica’. Si fa sempre riferimento a un linguaggio già stabilito. Quello che si<br />

tenta di fare è di modificarlo o di aggiungere qualche termine nuovo. Fare<br />

qualcosa di interamente nuovo è impossibile. Anche se ci sono riferimenti al<br />

passato in quello che faccio, tento sempre di ricreare di nuovo una palette.<br />

Non ho mai utilizzato dei preset. Non mi piacciono i suoni preconfezionati,<br />

anche se da un certo punto di vista non hai scelta, perché se usi uno strumento<br />

musicale non puoi andare oltre quell’architettura. Dal punto di vista<br />

elettronico sei condizionato sia dall’hardware che dal software. E anche gli<br />

stessi suoni che escono e che hai a disposizione diventano parte dell’ar-<br />

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chitettura che puoi utilizzare. Certo se ad esempio fai sempre riferimento<br />

a un certo tipo di suoni, tipo quelli degli anni 80, dopo un po’ ti stanchi e ti<br />

accorgi che puoi fare altro. E la stessa cosa accade nell’utilizzare sempre i<br />

preset: è limitante e noioso.<br />

Ci puoi raccontare qualcosa dei tuoi esordi?<br />

Come molte cose che succedono in musica, semplificherei se dicessi che<br />

tutto è nato seguendo un piano o che c’era qualcosa di razionale dietro a<br />

quello che scrivevo. Alle volte fai delle cose e non c’è una spiegazione precisa.<br />

Come ad esempio quando improvvisi, provi e non sai cosa uscirà. Qualche<br />

volta fai anche dei pezzi inutili e li butti via. Guardando indietro a quei<br />

giorni, ero ossessionato dal d’n’bass ma non era il solo genere musicale che<br />

ascoltavo. Magari qualcuno che si fosse trovato nelle mie condizioni sarebbe<br />

andato in crisi. In quei giorni pensavo: cosa faccio se divento un altro artista<br />

di d’n’bass? se tento di conformarmi, se tento di affermarmi in quella cornice<br />

così rigorosa? Per me quello stile è una prigione, non mi sento bene se mi<br />

confino in un determinato stile. Le regole erano così fortemente articolate<br />

che dovevi venire a patti ogni volta che scrivevi una singola nota, per essere<br />

accettato nella cerchia. Quello che dicevi tu, di mettere idee jazz nel d’n’bass<br />

è stata solo una piccola idea. E poi per quanto riguarda lo stile superveloce...<br />

mi è sempre piaciuta la velocità, la sensazione di disorientamento... nel senso<br />

di essere portato al limite della comprensione, mi piacciono molto questi<br />

aspetti. Il sentimento di intossicazione quando hai un overload informativo.<br />

Tutto ciò è sempre stato molto importante per me. E per fare ciò, penso che<br />

la musica debba essere qualcosa che ha ha che fare con l’intensità. Non sono<br />

interessato alla musica ambient, o alla fashion music o a una musica che<br />

ti fa sentire felice o ti fa stare bene. Anzi, mi piace la musica che ti fa stare<br />

male. I riferimenti al jazz, in quel tipo di musica, non ci stavano per un certo<br />

tipo di gente... il d’n’bass è una musica urban e il jazz di solito è pensata per<br />

stereotipi come una musica gentile, old fashioned. Invece io amo il il jazz<br />

quando è estremamente aggressivo, ad esempio le ultime cose di Coltrane,<br />

qualcosa del Miles elettrico, le cose dissonanti, aggressive, che fanno paura..<br />

All’inizio hai usato questa musica ’strana’. La gente che ascoltava<br />

d’n’bass non ne aveva familiarità ed era senz’altro difficile ballarla...<br />

Certo. Una delle cose che amo di quella musica è che era difficile trovarci il<br />

groove. Tanta gente non riusciva a ballare perché non c’era il groove, perché<br />

non c’era un ritmo regolare, ma credimi io lo sento il groove in quella<br />

musica. Una delle cose principali è il senso di movimento, di ritmo. Per essere<br />

coerente con quello che sentivo, volevo riuscire a generare un senso<br />

di fluidità. Anche se dal punto di vista ritmico ho sviluppato delle idee che<br />

sono interrotte, spezzettate. In generale mi piace la connessione fra elementi<br />

diversi, che per me è la definizione di groove. Ogni elemento in un ritmo ha<br />

un senso di risoluzione e di continuazione nell’elemento che segue. La cosa<br />

buffa è che io ballavo sulla musica che facevo, su quegli elementi jazz che<br />

hai definito ’poco familiari’.<br />

In pratica, per la scena d’n’b tu e Aphex eravate degli alieni...<br />

Non so cosa pensasse il pubblico, penso che questo sia il tuo lavoro [ride].<br />

Molte delle cose che facevamo io e Aphex dalla metà alla fine degli anni<br />

Novanta erano completamente diverse da quello che la gente chiamava<br />

d’n’b, ma molti dei riferimenti erano gli stessi. Il d’n’b si è sviluppato in parte<br />

dopo l’hardcore e il breakbeat all’inizio degli anni Novanta in Inghilterra. Io<br />

non facevo dischi all’inizio degli anni Novanta, ma ascoltavo le stesse cose<br />

che sentivano le persone coinvolte nel genere (le prime label come la Moving<br />

Shadow, etc.). Poi mi sono interessato ad altro e lentamente staccato<br />

da quel mondo...<br />

Ho letto che suonerai al BLOC Festival, anche con qualche artista<br />

dell’etichetta Hyperdub. Ascolti il dubstep? Sei un fan?<br />

So che esiste quel mondo, ma sai, producendo musica dodici o qualche volta<br />

anche quattordici ore al giorno, non riesco a star dietro alle novità. Di solito<br />

poi quando ascolto qualcosa, cerco sempre di trovare dei pezzi che siano in<br />

contrasto con quello che faccio.<br />

Pensi che la tua musica e la musica che esce dalla Warp abbia influenzato<br />

le nuove generazioni e i musicisti della Hyperdub o di altre etichette<br />

di dubstep?<br />

Sono orgoglioso di tutto ciò che ho fatto. Alcuni dei miei lavori - so che può<br />

sembrare arrogante - insieme a materiale di Aphex Twin, sono stati tra le<br />

cose più innovative che sono successe nella musica elettronica da quindici<br />

anni a questa parte. Ci sono molti artisti che si rifanno a quei suoni non solo<br />

copiandoli, ma producendo anche qualcosa di nuovo. E questo è un bene.<br />

Sei ancora in contatto con Aphex Twin e Luke Vibert? Hai per caso qualche<br />

progetto di collaborazione in mente?<br />

Ehi mi stai facendo una domanda personale [ride]! Certo con Richard siamo<br />

amici e ci sentiamo spesso. Non abbiamo definito niente nel futuro prossimo,<br />

ma prima o poi potrebbe succedere. Luke è da un po’ che non lo sento, ma<br />

abbiamo fatto tanti concerti insieme, ci siamo divertiti molto. Il suo lavoro,<br />

specialmente quando faceva uscire i pezzi con il moniker Plug, mi ha influenzato<br />

molto. Penso che molte delle cose che ha fatto all’inizio della sua<br />

carriera siano straordinarie.<br />

Al MIT, il 9 giugno, - unica data italiana - suonerai con qualcuno o farai<br />

lo show da solo? E il basso? Appeso al chiodo?<br />

Farò tutto da solo, come hai visto nel teaser video. E non suonerò il basso. Per<br />

ora lo show non lo prevede. Poi magari col passare del tempo, se mi stanco,<br />

magari cambierò. Il problema quando faccio un tour è che cerco sempre di<br />

variare il focus sulle composizioni. E’ questo che rende interessante la cosa<br />

per me: imparare cose nuove di continuo. In tour magari hai tempo anche<br />

di sperimentare e di scrivere qualcosa di nuovo, quando viaggi in aereo o<br />

quando aspetti lo show successivo. Suonare sempre le stesse canzoni, alla<br />

fine, può risultare noioso. Io cerco sempre di variare.<br />

Dopo l’uscita dell’album quali sono i progetti futuri? Hai in mente qualche<br />

EP?<br />

I progetti potrebbero cambiare. Posso dirti che ora sono ancora in studio,<br />

quindi potrebbe succedere di tutto.<br />

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— cd&lp<br />

Recensioni<br />

luglio/agosto<br />

aGata & Me - theRe aRe SonGS about You<br />

(Sopa, GiuGno 2012)<br />

Genere: emo folk<br />

Quattro anni fa c’intrigarono con l’ep Overnite, folk sul<br />

punto di farsi -tronica con evidenti contagi dreamy, il<br />

potenziale evocativo inversamente proporzionale alla<br />

quantità di ingredienti messi sul piatto, le voci intense<br />

e sfuggenti al servizio di costrutti melodici giocati sul<br />

filo tra apprensione e trasporto. Proposta minimale e<br />

suggestiva, così come poche erano (sono) le notizie su<br />

di loro, tuttavia particolari: lei siciliana - Agata Foti - e<br />

lui bosniaco - Emir Pasic - a tramare l’intesa artistica in<br />

quel di Næstved, quarantamila anime (fonte Wikipedia)<br />

ad un’ora da Copenhagen, nella diversamente dinamica<br />

Danimarca.<br />

Li ritroviamo oggi con un album che espande quel mini<br />

mettendo in fila quattordici tracce, sempre nel segno di<br />

quella concisione trepida, di quel magnetismo onirico,<br />

scorie wave e slarghi cameristici come fantasmi sonori<br />

dalla stanza accanto, dove s’accendono acquerelli Mùm<br />

via Notwist (City), suggestioni Mark Hollis con fregole<br />

Rachel’s (Herself) o calde paturnie Elbow (l’incalzante<br />

Mirror). La scrittura procede per poche ma dense idee da<br />

far sbocciare con le attenzioni del caso, vedi la tensione<br />

rappresa di We Choke (il banjo e un accenno di flauto),<br />

Wrong Way (alla chitarra risponde d’improvviso un vibrafono<br />

piovuto dal pianeta delle palpitazioni giocattolo)<br />

e A While Ago (una brezza d’archi in mezzo al languore<br />

folk).<br />

In un paio di casi canta Emir con voce empaticamente<br />

problematica (come un cugino basale di Guy Garvey),<br />

mentre Agata è una Sinead O’Connor dalle inquietudini<br />

rabbonite (la toccante Let Go), una Nina Nastasia<br />

disposta a concedersi in close up (Fork, Camouflage). Hai<br />

l’impressione che si muovano in una prospettiva defilata,<br />

che il loro percorso sia destinato a svolgersi periferico,<br />

e che tutto ciò sia un bene perché magari consentirà<br />

loro - se vorranno - di salvaguardare quella che oggi appare<br />

come una torbida, struggente purezza. Così rara<br />

da incontrare.<br />

(7.2/10)<br />

Stefano Solventi<br />

alteRa - italia SveGlia! (pRoduzioni dal<br />

baSSo, GiuGno 2012)<br />

Genere: rock d’autore<br />

La finalità è encomiabile: creare un progetto discografico<br />

che funga da manifesto dell’Italia degli ultimi vent’anni<br />

e quindi, implicitamente, metta in guardia il futuro dagli<br />

errori del passato. Il paese descritto è ovviamente quello<br />

berlusconiano, in un excursus che - come da note riportate<br />

sul booklet - denuncia una ad una le aberrazioni di<br />

un regime costruito e foraggiato dalla televisione: dalla<br />

promessa del milione di posti di lavoro mai mantenuta<br />

agli scandali legati al terremoto dell’Aquila, dalle leggi<br />

ad personam ai conflitti di interesse, dalla licenziosità<br />

festaiola alla corruzione. Il tutto in un’ottica barricadera<br />

che vorrebbe risvegliare le coscienze - emblematico, a<br />

tal proposito, il sottotitolo del disco ’Note per destare un<br />

paese’ - ma finisce, invece, per suonare retorica. Quasi si<br />

trattasse di una serie di istruzioni per l’uso o di un manifesto<br />

programmatico, più che di una poetica musicale<br />

vera e propria.<br />

Quel che importa è la linearità del messaggio, insomma,<br />

e pazienza se per veicolarlo ci si deve affidare a un<br />

rock in italiano in stile Timoria / Liftiba (la title track),<br />

a qualche spoken word che sembra richiamare formazioni<br />

come gli Ultimo Attuale Corpo Sonoro senza<br />

eguagliarne l’intensità (la parte iniziale di Mi hanno rubato<br />

il prete, brano dedicato a Don Gallo) o a certi toni<br />

evocativi generalisti alla U2 (La Bandiera). Ne vien fuori<br />

un citazionismo freddo - testi come ’hai timore dello<br />

straniero / anche del buio e del lavoro nero / hai timore<br />

del precariato / di restare disoccupato’ non aiutano - che<br />

sa di ideologia spicciola e di luoghi comuni, abile nel<br />

non tralasciare particolari scabrosi di un ventennio disastroso<br />

ma non abbastanza a fuoco per trasformarli in<br />

una formula convincente.<br />

(5/10)<br />

fabRizio zaMpiGhi<br />

aMavo - GRacefool (fRoMScRatch, apRile<br />

2012)<br />

Genere: Post math<br />

Erano quattro anni ormai che non si avevano più notizie<br />

discografiche delle Amavo, rimaste al palo con il buon<br />

a place to buRY StRanGeRS - WoRShip (dead oceanS, GiuGno 2012)<br />

Genere: shoeGaze noise<br />

Non c’è una-nota-una che sia originale nel nuovo album degli A Place To Bury Strangers.<br />

Eppure non c’è una nota che sia una fuori posto. Contraddizioni? Confusione? Caldo<br />

che da alla testa? No, semplice dato di fatto.<br />

Tutte le note suonate nelle 11 tracce che compongono l’atteso comeback del trio newyorchese<br />

hanno al loro interno rimandi, citazioni, intuizioni che chi mastica un minino<br />

di rock rumoroso non potrà non riconoscere. Eppure, la sapienza con la quale il terzetto<br />

newyorchese ha saputo introiettare quel background fatto di chitarre rumorose, ritmi<br />

medi, indolenza vocale e montante feedback ha un suo fascino e soprattutto un suo<br />

perché.<br />

Le avvisaglie ce le avevano mostrate le prove precedenti, con un crescendo qualitativo che ci mostrava come via<br />

via la Ackerman family si distaccasse progressivamente dai cliché di genere per mostrare una personalità sempre<br />

crescente. Ora Worship è, a tutti gli effetti, il capolavoro degli APTBS e forse la cartina al tornasole per tutto il (semi)<br />

revival shoegaze: basta violenza shock e maggiore attenzione alla forma canzone, ok i noti punti di riferimento ma<br />

sotto con una via sempre più personale alla interpretazione.<br />

Worship, nomen omen rivolto alle generazioni presenti e future di rock addicted, è un concentrato di bellezza in<br />

eccellente equilibrio, in cui il caratteristico wall of sound dei tre è smorzato per lasciare spazio ad una maturità che<br />

difficilmente ci saremmo aspettati da coloro che consideravamo solo dei patologici shoegaze/feedback addice o<br />

al limite epigoni d’alto livello.<br />

Tra post-punk militante (Fear, Why Can’t I Cry Anymore), aggressività di spie al rosso (Revenge), clangori industriali<br />

dolci come fiele (Alone), ruvidezze alla gesù&maria (Mind Control) vengono incastonati due o tre pezzi che si distaccano<br />

dalle asperità ben disseminate lungo tutto il resto dell’album: Dissolved, And I’m Up e Slide mettono la<br />

melodia dinanzi al rumore, senza perdere in ossessività e di volta in volta dolcezza, cupezza, astrazione. Riesumano<br />

la wave, scontornano il rumore, rivitalizzano il rock e portano nuova linfa ad alberi vecchi.<br />

Sì, si dirà che tutto è già risentito, noto, metabolizzato, ma non si potrà assolutamente negare che nel percorso<br />

interno della band Worship non sia dimostrazione di una evidente crescita. E poi, come dicevamo in apertura, non<br />

c’è una nota che sia una fuori posto e tanto può bastare.<br />

(7.3/10)<br />

Stefano piffeRi<br />

math rock di HappyMess. Ed è proprio da lì che il duo<br />

veneto composto da Anna Lot e Silvia Lovo riparte, da<br />

quelle geometrie schizofreniche e asincrone che è poi il<br />

suo marchio di fabbrica.<br />

Stavolta però il risultato fa un passo ulteriore, e più che<br />

altro è un discorso di personalità e immediatezza. Certo<br />

c’è il synth che entra a far parte delle composizioni<br />

e il suono si arricchisce, ma è soprattutto la forma ad<br />

essere più concreta, perdendo qualcosa sul versante<br />

free ma guadagnando in compattezza e slancio. E’ uno<br />

schema volutamente ripetitivo e martellante quello<br />

delle otto tracce di Gracefool, un ronzio continuo al<br />

cervello inoculato dalle chitarre grezze e ruvide della<br />

Lovo, sempre pronte a spaziare tra noise e no wave.<br />

Un bel sentire insomma, specie quando arriva il singolo<br />

Jello (per chi ha gli occhialini c’è anche il video in<br />

versione 3d), la vorticosa e claudicante For Commons<br />

Sense Is Not So Common più la sbronza in paranoia di<br />

Vinaccia. Avanti così.<br />

(7/10)<br />

Stefano Gaz<br />

antonY and the JohnSonS - cut the WoRld<br />

(RouGh tRade, aGoSto 2012)<br />

Genere: art PoP rock<br />

Di Antony Hegarty conosciamo bene ormai il mistero luminoso,<br />

il romanticismo transgender condotto sul filo di<br />

un impressionismo struggente, prima teatrale che cinematico,<br />

come una frontiera spirituale che esiste discreta<br />

e formidabile. Queer e asceta dal crooning angelico, non<br />

ha fatto fatica a farsi apprezzare dai grandi del pop rock<br />

come il suo mentore Lou Reed e la ex-folletta Björk, che<br />

lo hanno utilizzato come guest star d’eccezione, finendo<br />

per cucirgli addosso loro malgrado una ingrata sagoma<br />

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da freak ultraterreno. Il buon Antony ha comunque saputo<br />

mettere assieme una discografia formalmente e<br />

poeticamente rigorosa, quattro album all’insegna di un<br />

art-pop cameristico punteggiato da intuizioni melodiche<br />

- e relative interpretazioni - straordinarie.<br />

Con Cut <strong>The</strong> World è arrivato il momento di fare antologia<br />

e nel modo migliore, proponendo una selezione<br />

di dieci tracce eseguite live in quel di Copenhagen con<br />

l’apporto della Danish National Chamber Orchestra su<br />

arrangiamenti dei sodali Rob Moose (già al lavoro con<br />

Ryuichi Sakamoto e Sufjan Stevens), Maxim Moston<br />

(David Byrne, Dave Gahan...), del giovane lanciatissimo<br />

prodigio Nico Muhly e dello stesso Antony. Il risultato<br />

è splendido, intenso, sontuosamente sobrio. La sola<br />

Cripple And the Starfish con le sue vampe accorate vale<br />

il prezzo del biglietto, ma lo sdilinquimento lunare di<br />

<strong>The</strong> Crying Light ed il crescendo emotivo di Epilepsy Is<br />

Dancing non sono da meno, per non tacere della gravità<br />

agrodolce di Another World e del gospel angelicato di<br />

Swanlights. Completano l’operazione l’inedita title track,<br />

dal lirismo quasi muscolare, e lo speaking programmatico<br />

di Future Femminism, tanto per ribadire con che<br />

persona(ggio) abbiamo a che fare.<br />

Se può sembrare un’ostentazione estetica eccessiva, un<br />

esercizio di raffinatezza camp per costruirsi una collocazione<br />

espressiva peculiare sì ma artefatta, è vero altresì<br />

che fatichi ad immaginare un abito migliore per queste<br />

tracce, sensazione simile a quella provata in occasione<br />

dell’ottimo Composed di Jehrek Bischoff. Due indizi<br />

che non fanno certo una prova: solo con una cospicua<br />

dose di faciloneria potremmo azzardarci a sostenere che<br />

“classic is the new loud”. In ogni caso, staremo a sentire.<br />

Come sempre.<br />

(7.1/10)<br />

Stefano Solventi<br />

ataRi/dRink to Me/caSa del MiRto/<br />

eSpeRanza - RMxS (unhip RecoRdS, GiuGno<br />

2012)<br />

Genere: indietronica<br />

S è stato un buonissimo disco di indie italiano, che ha<br />

ottenuto consensi anche fuori dalla penisola. Il suo mix<br />

di electro e indie ha visto bene tra le pieghe dello zeitgeist<br />

musicale contemporaneo, mixando sapientemente<br />

ingredienti che potremmo con una formula definire<br />

le principali ‘estetiche musicali anni zero’: tastiere post-<br />

Animal Collective, sentimenti di nostalgia e un pizzico<br />

di DIY.<br />

Oggi la Unhip rilascia solo per gli abbonati questo EP<br />

di remix della band di Torino. In fila per ripensare le<br />

tracce abbiamo i Silent Panda | Deadly Panda (proget-<br />

to electro di Luca G. dei Julie’s Haircut) che cura una<br />

versione Tarwateriana di Space, tutta echi e riverberi<br />

glo, i Casa del Mirto che rivedono Picture <strong>Of</strong> <strong>The</strong> Sun<br />

e ricordano lo scazzo slacker mescolato alle estati del<br />

synth-glo di Washed Out. C’è poi Dariella degli Amari<br />

sotto il moniker Bunuel’s Sound <strong>Of</strong> <strong>The</strong> Wall che<br />

ripensa Henry Miller con chitarrine à la Peter Gabriel e<br />

la solita maestria di taglio che in un crescendo guarda<br />

sia allo UK Bass che a Four Tet. Per chiudere gli Esperanza<br />

in fissa synth pop warpiano su Future Days (uno<br />

dei pezzi migliori del disco) e gli Atari che rivedono<br />

Disaster Area con tastierine ed effetti che ricordano i<br />

Suicide senza punkness.<br />

Un buon invito per l’estate a proporre i pezzi dei Drink<br />

To Me anche sul dancefloor e una riconferma della loro<br />

eterogeneità, aperta a più fronti. Non solo palco, anche<br />

pista.<br />

(7.1/10)<br />

MaRco bRaGGion<br />

beak - >> (invada, GiuGno 2012)<br />

Genere: Psych motorik<br />

Geoff Barrow sembra mantenere la posizione, con il moniker<br />

Beak>, che aveva proposto con l’esordio del 2009.<br />

Il secondo episodio è un’altra profonda riflessione per<br />

strutture sull’inerzia della ritmica tedesca di provenienza<br />

krauta dentro l’elettrorock odierno. Nel loro viaggio, i<br />

Beak di >> vanno ancor più a ritroso ed entrano nelle<br />

macchine morbide - o nelle accoglienti sabbie mobili<br />

- della psichedelia dei tardi anni Sessanta, quella più<br />

distante dall’acid-rock tradizionale, e più orientata al<br />

viaggio tramite la pulsazione.<br />

Spinning Top trova così una sovrapposizione utile con i<br />

Silver Apples, e da lì il disco intreccia numerosi anelli<br />

di congiunzione tra Simeon Coxe e Danny Taylor e i<br />

Neu!. Il riff mediorientale al ralenti di Wulfstan II (dal<br />

nome di un vescovo inglese di Worcester degli anni mille)<br />

suona all’orecchio dell’ascoltatore italiano come una<br />

reminiscenza diretta di Punk Islam dei CCCP. Nessun’altra<br />

analogia, se non l’incaponimento sulla ripetizione<br />

paranoica, del resto tratto essenziale della pratica motorik<br />

tutta. Anzi, superata la rima, si procede, nella lunga<br />

suite, verso le lande dei Pink Floyd da poco orfani di<br />

Syd Barrett, e si potrebbe essere tanto a Beirut quanto<br />

a Pompei. Oppure nelle esplorazioni ascendenti delle<br />

canzoni psichedeliche alla Mushroom di Tago Mago<br />

(Elevator).<br />

Il motorik è una delle invenzioni della musica ’pop’ più<br />

geniali e influenti di sempre. È un pattern tanto semplice<br />

quanto ricco. Barrow, che delle formule semplici<br />

portate alle conseguenze più complesse e accessibili è<br />

alex niGGeMann - paRanoid funk (pokeR flat, MaGGio 2012)<br />

Genere: house<br />

Fai tanto parlare di Jamie Jones come il talento house assoluto, quello che sa raggiungere<br />

la forma più coinvolgente e rigorosa del genere, ma di fatto, nelle due occasioni<br />

avute per sfoderare il disco house definitivo per gli anni ‘10 (Don’t You Remember<br />

<strong>The</strong> Future e il Tracks From <strong>The</strong> Crypt in uscita), il pupillo di Crosstown ha solo disegnato<br />

un suo percorso personale, niente che avesse la validità in senso assoluto che<br />

ci si aspettava. Ora che invece arriva il debutto in lunga distanza di Alex Niggemann<br />

(stesso percorso artistico di Jones solo su etichette meno blasonate e lontane dalla<br />

Londra che conta), ti vien naturale fare paragoni, e ci metti poco a capire qual’è il lavoro<br />

di mestiere e qual’è l’album di qualità superiore.<br />

Paranoid Funk ha tutto quello che la house deve avere oggi: il groove deep killer che fa da assist al disagio soul<br />

(Don’t Wait), l’intransigente circolarità che non sente cali d’attenzione (non coi sample e i pattern ritmici di <strong>The</strong><br />

Sweetest Thing), i tempi e le consistenze del clubbing tech-house ma senza barriere all’ingresso (Curious), l’aggancio<br />

alla durezza techno che non guasta (Easy Love, I Don’t Care), il basso assassino che tira fuori il meglio dell’impianto<br />

audio (That Is...!?), a tratti persino un certo candore melodico che guarda alla space (Come Into My World). Più in<br />

generale, c’è un’armonia degli elementi che mette tutto sotto la luce giusta, senza forzare la mano (non ce n’è bisogno:<br />

in fondo è old school) ma lavorando sulla semplicità degli attori (voce e cassa su tutti, vedi lo splendore di<br />

una Lovers) e sulle loro affinità elettive.<br />

Non un capello fuori posto, nessuna sbavatura: ogni cosa ha il giusto spazio e sa soddisfare tutti i tipi di sensibilità<br />

house a portata di mano, da quella di sentimento alla più muscolare. Disco senza colpi epocali ma praticamente<br />

perfetto, di quella perfezione che viene raggiunta solo da chi punta tutto sulla solidità delle forme. Un certo Paul<br />

Kalkbrenner ha fatto qualcosa di simile l’anno scorso, lato techno, ma Niggemann ha il vantaggio di non avere<br />

paragoni ingombranti che vengono dal proprio passato. E quel tocco fresco e spigliato che può avere solo la nuova<br />

generazione.<br />

(7.3/10)<br />

caRlo affatiGato<br />

maestro (i suoi Portishead ce lo testimoniano con forza),<br />

ne ha capito e carpito l’enorme potenziale. Basta aggiungere<br />

qualche variante e il gioco è fatto - anche sulla<br />

lentezza, e sull’utilizzo della voce che ’canta’ un mantra<br />

nella bellissima Deserters, tanto aliena da sé che quasi ci<br />

porta dentro Above dei Mad Season. Ma, soprattutto,<br />

capito il gioco, Barrow sa come non rimanere imbrigliato,<br />

e tornare nell’intensità più catarticamente rock della<br />

finale Kidney. Un ponte verso qualcosa che vorremmo<br />

ascoltare subito.<br />

(7.2/10)<br />

GaSpaRe caliRi<br />

bee and floWeR - SuSpenSion (cheap<br />

SataniSM, apRile 2012)<br />

Genere: noir PoP<br />

Bee And Flower: una carriera iniziata più di dieci anni fa<br />

a New York, frammentata e caratterizzata dalle tempistiche<br />

dilatate dettate anche da spostamenti tra la Grande<br />

Mela e Berlino. Esordio nel 2003 con What’s Mine Is<br />

Yours, a cui fece seguito quattro anni dopo l’interlocutorio<br />

Last Sight of Land; altri cinque lunghi anni d’attesa<br />

- e ritorno a New York - per la pubblicazione via Cheap<br />

Satanism del terzo lavoro Suspension.<br />

Dana Schechter (voce e basso) e Roderick Miller (tastiere)<br />

plasmano ancora una volta quel suono che evoca<br />

atmosfere fumose da pianobar di classe, sorretto da<br />

arrangiamenti sinuosi e delicati di archi (Jon Petrow) e<br />

varianti chitarristiche (Lynn Wright) che si insinuano tra<br />

le accoglienti trame (In <strong>The</strong> Dawn and Dusk).<br />

La voce di Dana - tra le fila anche del progetto anni zero<br />

di Michael Gira, Angels of Light - riesce a veleggiare<br />

costantemente su tappeti noir, su uno slow-folk oscuro<br />

alla Nina Nastasia e su certe murder ballads (presente<br />

Thomas Wydler dei Nick Cave and Bad Seeds) con<br />

grande pulizia melodica, addentrandosi con eleganza<br />

in temi come la solitudine.<br />

Serietà, onestà artistica e una buona scrittura riescono<br />

a rendere comunque interessante un disco che oltre a<br />

non portare grosse novità e a non intaccare il DNA della<br />

84 85


and, rischia di suonare leggermente sorpassato.<br />

(6.5/10)<br />

RiccaRdo zaGaGlia<br />

bonnie “pRince” billY - noW heRe’S MY plan<br />

(doMino, luGlio 2012)<br />

Genere: folk<br />

L’uomo del Kentuky non è nuovo alla rilettura del proprio<br />

repertorio, vedi il più noto Sings Greatest Palace Music<br />

del lontano 2004. Qui ci “ricasca” nella sintesi di un<br />

EP di sei brani in occasione dell’uscita di una biografia<br />

che va sotto il titolo di Will Oldham on Bonnie “Prince”<br />

Billy. A dire che il gioco tra i moniker non si fermerà qui.<br />

Nonostante si tratti di un momento quasi di bilancio.<br />

Oltre alla biografia, infatti, il 30 giugno saranno messe<br />

in circolazione di alcune ristampe del catalogo Palace<br />

Music. Insomma, si fa ordine: dovrebbe rimanere solo<br />

la sigla Palace Music, lasciando da parte Palace Brothers<br />

e Palace Songs.<br />

Rispetto all’epica della recente collaborazione con i<br />

Trembling Bells, qui Oldham appare completamente<br />

se stesso, a proprio agio oramai con una produzione<br />

corposa e in grado di ricucirsela addosso sempre in<br />

modo diverso. Come in quella I See A Darkness che fece<br />

impazzire la critica nel 1999 e che diede la stura a l’ondata<br />

country/alt.country/folk che seguì. Dopo la celebre<br />

rinterpretazione di Jonnhy Cash, Oldham se la riprende<br />

mettendola tutta in toni luminosi e allegri: si gioca per<br />

contrasti leggeri, piuttosto che lasciare spazio a cupezze<br />

da Uomo in Nero.<br />

Prodotto da Steve Albini e suonato assieme alla backing<br />

band che lo segue in tour da Wolfroy Goes to Town, pesca<br />

dalla metà degli anni Novanta fino a tempi contemporanei.<br />

Non aggiunge niente alla statura che Oldham<br />

ha raggiunto, aumenta solamente la voglia di sentirlo<br />

presto dal vivo, magari per scoprire se ha nuovamente<br />

riarrangiato queste o altre canzoni.<br />

(7/10)<br />

MaRco boScolo<br />

caRMelo aMenta - i Gatti Se ne fanno un<br />

cazzo della tRippa (SeahoRSe RecoRdinGS,<br />

MaGGio 2012)<br />

Genere: cantautorato<br />

Musica ombrosa e scarnificata: in una parola, blues. Carmelo<br />

Amenta arriva all’appuntamento con il secondo<br />

disco rinnovando una scrittura che nell’esordio L’erba<br />

cattiva del 2010 aveva mostrato invece un efficace vena<br />

elettrica, pur attratta dai significati profondi tipici del<br />

cantautorato. Si sfronda idealmente il parco strumenti,<br />

ci si attorciglia alle chitarre acustiche e ai toni intimisti,<br />

si preferisce un cantato quasi sussurato eredità pesante<br />

del Cesare Basile dell’ultimo periodo (Storia di Caino,<br />

Sette pietre per tenere il Diavolo a bada) e che respiri un<br />

po’ dappertutto: dall’iniziale I gatti se ne fanno un cazzo<br />

della trippa ai chiaroscuri da drumming spazzolato di<br />

Frammenti, alla filastrocca di Per i vermi siamo tutti uguali.<br />

Tanto che le parentesi più intriganti finoscono per essere<br />

quelle che non ti aspetteresti: i Bachi da pietra di<br />

un brano come Ciuf Ciuf, le declinazioni jazz di episodi<br />

come Coriandoli e polvere, i suoni essenziali ma sognanti<br />

di Aria.<br />

Spaccati musicali obliqui, meno legati alle formule consolidate<br />

- a testimonianza, anche i cinque brani dell’EP<br />

allegato -, figli di una strada personale che tende al minimalismo<br />

e alla fine convince. Rimane qualche dubbio<br />

sui testi: meglio aveva fatto L’erba cattiva in termini di<br />

essenzialità del messaggio e sviluppo. Qui si respira, in<br />

qualche caso, un’eccessiva verbosità - il confronto naturale<br />

e inevitabile con la poetica tagliente di Basile non<br />

aiuta - che cozza con le ruvidezze di una parte musicale,<br />

invece, perfettamente a fuoco.<br />

(6.5/10)<br />

fabRizio zaMpiGhi<br />

caSt of cheeRS - faMilY (SchoolboY eRRoR,<br />

GiuGno 2012)<br />

Genere: wave PoP<br />

Piccoli wavers irlandesi crescono. E’ il caso dei quattro<br />

ragazzi che si propongono al mondo sotto la ragione<br />

sociale di <strong>The</strong> Cast <strong>Of</strong> Cheers. Dopo un disco autoprodotto<br />

e diffuso via bandcamp, ecco il primo lavoro “professionale”<br />

della loro carriera. L’attesa dei media anglosassoni<br />

è stata stemperata da singoli come l’ipercinetico<br />

e infarcito di chitarre wave Family e Animals, che hanno il<br />

pregio di sembrare tagliati a modino per l’airplay.<br />

L’ambizione è quella di costruire un sound che concili<br />

le chitarre secche e taglienti dei Gang <strong>Of</strong> Four e l’arty<br />

rock dei Battles. Dei primi, però, non hanno un’oncia<br />

dell’afflato ideologico, dei secondi manca il cerebralismo<br />

cubista. Siamo più che altro di fronte a una versione più<br />

Futureheads dei Franz Ferdinand, tutti marcette e svisatone<br />

synth per darsi un contegno.<br />

Nel complesso, però, bisogna riconoscere che il giocattolo<br />

tutto sommato funziona. Nella totale derivatività della<br />

proposta, a fare la differenza è qualche buona melodia<br />

come Human Elevator, o il ritmo spezzato che avrebbe<br />

fatto la fortuna di una band sgonfiatasi come i Maxïmo<br />

Park di una Goose. Una volta avremmo detto collegewave-pop.<br />

(6.5/10)<br />

MaRco boScolo<br />

alt-J - an aWeSoMe Wave (infectiouS, GiuGno 2012)<br />

Genere: alt-art PoP<br />

Si chiamano Alt-J, ma potete chiamali anche &#8710; - delta o triangolo se preferite - ovvero il simbolo che su<br />

Mac è il risultato della combinazione dei tasti Alt e J.<br />

Già dal nome è chiaro che siamo di fronte ad una band che ragiona guardando avanti,<br />

captando le microrivoluzioni concettuali della musica degli anni dieci: per entrare nel<br />

cuore degli indie-kid è ormai superfluo cercare l’hit da indieclub, è necessario piuttosto<br />

ricercare e sperimentare senza perdere di vista la fruibilità del prodotto.<br />

I banchi dell’università di Leeds hanno fatto incontrare questi quattro ragazzi stanziati<br />

a Cambridge che, dopo il promettente EP Matilda/Fitzpleasure, pubblicano il debut<br />

An Awesome Wave su Infectious.<br />

Con i Wild Beasts come padri tutelari, gli Alt-J mettono in scena un frullato incredibile<br />

di influenze che arrivano sia da Inghilterra che USA. Si potrebbe chiamare in causa la<br />

presenza dei cori e di alcune armonie folkish dei Fleet Foxes - Bloodflood, Ms - scalfite da strofe soul-hop/white<br />

r&b (Breezeblocks, Matilda... forse l’apice melodico del disco), di synth-drop corposi (lo stacco di Fitzpleasure), di un<br />

post-tutto con piccole dosi di elettronica a fare da collante, di saliscendi Everything Everything, senza però riuscire<br />

a descrivere fedelmente quanto mettono in campo - con una sicurezza disarmante per una band al debutto - Joe<br />

Newman e soci.<br />

Proprio l’eccentrica vocalità di Joe Newman - da non escludere una futura carriera solista pop/soul - è il valore aggiunto<br />

dell’Alt-J sound, capace com’è di muoversi abilmente tra generi e tonalità differenti e di arricchire ritmiche<br />

arty figlie in parte dei Radiohead mid-00s.<br />

Nonostante i riferimenti più o meno velati (e probabilmente anche forzati), la proposta degli Alt-J suona già oggi<br />

unica, personale, difficilmente inquadrabile e allo stesso tempo ipoteticamente di successo. Simbiosi perfetta tra<br />

sperimentazione e gusto pop, un concetto che in un mondo ideale sarebbe alla base della musica mainstream del<br />

futuro (leggasi Grimes).<br />

(7.1/10)<br />

RiccaRdo zaGaGlia<br />

chainS of love - StRanGe GReY daYS<br />

(ManiMal vinYl, GiuGno 2012)<br />

Genere: GaraGe-shoeGaze<br />

Tutto nasce nel Little Red Sound di Vancouver: Felix<br />

Fung, chitarrista, produttore nonché proprietario dello<br />

studio suddetto decide di mettere su una formazione al<br />

femminile sul modello delle <strong>The</strong> Ronettes e chiama a<br />

raccolta alla voce Nathalia Pizarro e alle armonie Rebecca<br />

Marie Law Gray. In testa il Phil Spector dei fifties/sixties,<br />

un asse ritmico in puro stile Motown (Steve Ferreira alla<br />

batteria e Brian Nicol al basso, mentre alle tastiere c’è<br />

Henry Beckwith) e un’estetica aggiornata all’hipsterismo<br />

attuale. Fuor di metafora, i soliti <strong>The</strong> Jesus And Mary<br />

Chains richiamati dagli echi clautrofobici del cantato,<br />

dal beat ruvido ed essenziale, dalle chitarre sporche e<br />

slabbrate. A fare da contorno una bruma psichedelica<br />

rubata a certi sixties stoned - per intenderci, quelli delle<br />

Electric Prunes di I Had Too Much To Dream Last Night o<br />

del Kenny Rogers di Just Dropped In (To See What Condition<br />

My Condition Was In) -, ché se di retromania si deve<br />

trattare, almeno sia di quella più giocosa, riconoscibile<br />

e popular.<br />

Una volta identificati gli antecedenti, il gioco dura giusto<br />

il tempo di un paio di ascolti, tra l’ineluttabilità blues del<br />

singolo He’s Leaving (With Me) e le Crystals richiamate da<br />

All <strong>The</strong> Time. Un po’ perchè la voce piuttosto monocorde<br />

della Pizarro di soul non ha praticamente nulla, un po’<br />

perchè tirando le somme, la formazione canadese si limita<br />

alla didattica applicata. Tolta la fedeltà didascalica ai<br />

modelli, insomma, rimane ben poco: forse solo le atmosfere<br />

dreamy di un pezzo come la title track. Tanto vale,<br />

allora, recuperare gli originali, rinunciando alla coolness<br />

un po’ posticcia tipica degli esperimenti da laboratorio.<br />

(6.2/10)<br />

fabRizio zaMpiGhi<br />

cheWinG With GuSto - cheWinG With GuSto<br />

vol.1 (cWG RecoRdinGS, apRile 2012)<br />

Genere: electro-Psych<br />

Italiani all’estero che uniscono le forze? La storia è simi-<br />

86 87


le a quella di Walls/Banjo Or Freakout. I Chewing With<br />

Gusto sono infatti il risultato dei Chewing Magnetic<br />

Tape, siciliani - al secolo Fabrizio Bandini, Enzo Mazzuca<br />

e Giovanni Romano - non nuovi a collaborazioni ad<br />

ampio spettro (Fovea Hex, Graham Lewis degli Wire),<br />

e Gusto Extermination Fluid, ovvero Paul Taylor, un<br />

producer e musicista elettronico.<br />

Fatte le dovute presentazioni, è tanto difficile inquadrare<br />

lo spettro sonoro in cui si muovono i tre (+ uno) quanto<br />

facile lasciarsi trasportare da quello stesso flusso.<br />

Esoterismo dark-psichedelico in battuta bassa, stando<br />

all’opener A Way (reminiscenze Coil e procedere malinconico)<br />

o a Zhoovo Loe Pt.2 (sorta di trip-hop infernale<br />

da grey area impreziosito dal canto alieno di Zuki Ki).<br />

Musica lenta e suadente come un montare di marea<br />

ma il cui retrogusto industriale ed esoterico, misto alle<br />

atmosfere notturne e ’pagane’ con cui Taylor ha ripensato<br />

e rivestito alcune prove precedenti dei tre italiani<br />

(la citata Zhoovo Loe, Section Dub e Sunset) e modellato<br />

le nuove, assume quel senso di alienante alterità che<br />

non stanca affatto.<br />

Le derive post-techno-dub con voci subacquee di Softcore<br />

e le atmosfere dreamin’ malvagie di Lights reiterano<br />

il processo di fusione tra composizione ’rock’ e rielaborazione<br />

elettronica, suonando stordenti per equilibrio<br />

e finalizzazione. Il romanticismo alieno della conclusiva<br />

Sunset - una murder ballad trasposta sul lato oscuro della<br />

Luna? - conclude un lavoro che sorprende e stordisce,<br />

opera di una formazione di outsiders cui è difficile dare<br />

una collocazione. Sorprendere e spiazzare dopotutto è<br />

ciò che si chiede oggigiorno.<br />

(7.2/10)<br />

Stefano piffeRi<br />

chRiStian alati - an elephant into thiS<br />

buildinG (canebaGnato, MaGGio 2012)<br />

Genere: folk strumentale<br />

La cosa più difficile, in dischi strumentali come questo,<br />

è evitare di trasformarli in una dimostrazione di autismo<br />

autorizzata dalla necessità di provare a sé stessi<br />

le proprie virtù solistiche. Per fortuna non è il caso di<br />

Christian Alati, uno che fin qui ha realizzato ottimi lavori<br />

con Don Quibòl, suona nei Gatto Ciliegia contro<br />

il grande freddo e scrive colonne sonore.<br />

Ecco spiegata, allora, la capacità di far interagire tutti<br />

gli strumenti coinvolti in An Elephant Into This Building<br />

nella maniera migliore, pur partendo dalla chitarra acustica:<br />

una visione musicale comunque ad ampio raggio<br />

messa in pratica grazie a un disco che unisce approccio<br />

roots (evidente anche nella title-track) e aromi folktronici<br />

’artigianali’ (riposta in un angolo l’elettronica, brani<br />

come Where Is <strong>The</strong> Turntable, Nine Billion Marks o Automatically<br />

In <strong>The</strong> Water Now sopperiscono con una serie<br />

di automatismi tra batteria, pianoforte e sei corde<br />

che richiamano, comunque, quell’immaginario). Suoni<br />

spaziosi, puliti, perfettamente miscelati e in bilico tra<br />

tradizione americana (Cathodic Resistance scoperchia un<br />

blues ripetitivo e allungato) e modernità di approccio (i<br />

contributi concreti alla voce), capaci di creare itinerari<br />

melodici ben riconoscibili e quasi narrativi. Materiale<br />

che con il passare degli ascolti, guadagna in spessore<br />

e credibilità.<br />

Il disco lo trovate in free download - per il formato digitale<br />

- nella pagina Bandcamp dell’etichetta (e temporaneamente<br />

qui sotto), ma il consiglio è di procurarselo in<br />

formato fisico, non foss’altro per i bei disegni di Caterina<br />

Pinto.<br />

(6.9/10)<br />

fabRizio zaMpiGhi<br />

coRpuS chRiSti - ii (Jeetkune, febbRaio<br />

2012)<br />

Genere: Prewar folk<br />

E’ un gran bel lavoro questo II dei Corpus Christi, al secolo<br />

Cristina dei Capputtini ‘I Lignu, Tina degli Intellectuals<br />

e il banjoista americano Sam Crawford. Il motivo<br />

è semplice: II è un disco che parla di e con il linguaggio<br />

prewar americano (sui generis dell’antologia di Harry<br />

Smith) ma è capace anche di raccontare qualcosa di<br />

diverso, ovvero quel senso di vuoto e perdita legato alla<br />

tradizione che a partire dai racconti di Raymond Carver<br />

- non per niente citati nel booklet - arriva dritto dritto<br />

ai giorni nostri.<br />

E così alle giornate passate tra bivacchi e falò si aggiunge<br />

inevitabilmente una componente noir, ed è un qualcosa<br />

che affascina: basta un kazoo in West Virginia Gals<br />

o un synth in Poor Alfredo per piombare tra gli spettri di<br />

un mondo che non c’è più, salvo poi riesumarne la memoria<br />

attraverso il banjo di Willwood Flower o della disaster<br />

song <strong>The</strong> Cyclone <strong>Of</strong> Rye Cove. Pungono nell’intimo<br />

questi piccoli momenti rubati alla vita rurale americana<br />

(vedi la ninna nanna di I Know A Little Girl), oltretutto<br />

raccordati in maniera eccellente da qualche breve passaggio<br />

strumentale: il carrillion settecentesco di Sophia,<br />

la strimpellata bagnata di Astrid, il finale per violino di<br />

Elodie, tutto nel segno di un old time che diventa sempre<br />

più caleidoscopico.<br />

Alla resa dei conti è quasi un peccato che il disco duri<br />

venti minuti scarsi, ne avremmo acoltati volentieri almeno<br />

il doppio.<br />

(7.3/10)<br />

Stefano Gaz<br />

aucan - black RainboW ReMixeS (la teMpeSta inteRnational, apRile 2012)<br />

Genere: electro-steP<br />

Che gli Aucan siano uno scalino sopra molti gruppi italiani lo si era capito dall’arcobaleno nero dello scorso anno.<br />

Oggi il trio bresciano torna a proporre le tracce di quella bombetta in una compilation di remix (liberamente scaricabile<br />

qui) che ha dell’ottimo potenziale per indagare il suono dell’elettronica degli anni ‘10. Il suono sintetico è<br />

usato infatti per costruire nuove trasversalità che per un lungo attimo sembrano prescindere dal rock, pur conservandone<br />

l’amore per il groove e il ritmo.<br />

Si va infatti dal rap mutante in ricordo cLOUDDEAD/Antipop Consortium di Storm<br />

(con il carichissimo featuring di MC Dalek), al nu-metal peso tagliato col fidgeting<br />

(Away! con l’ex voce degli Asian Dub Foundation Spex) passando per l’electro immaginifica<br />

di paesaggi accostabili al dubstep-ambient della recente Hyperdub (Save<br />

Yourself remixata dagli Ambassadeurs), visitando le stanze electro-progressive che<br />

chiamano in causa da una parte Four Tet (Underwater Music) e dall’altra echi di Burial<br />

(Red Minoga). Il tutto si completa infine con il dub Photek-iano di Scorn (che remixa la<br />

titletrack) e la grazia nipponica di Cécile (Embarque) e di Shigeto (Blurred).<br />

Ologrammico e mentale, lo spostamento di camera che muta l’originale (sono solo 3<br />

su 11 i pezzi autoremixati dagli stessi Aucan) è azzeccato e in qualche modo necessario per cogliere le possibilità<br />

messe sul tavolo dal trio. Il gruppo non si focalizza su un’unica idea e respira con i preziosi contributi internazionali<br />

arie diverse, mondi blacktronici su cui puntare per il futuro. Posizionandosi su una linea che eredita le visioni<br />

dell’hip-hop alternativo americano e degli esperimenti caleidoscopici di Mike Patton, Dassenno D’Abbraccio e<br />

Ferliga propongono un massimalismo sonico deciso, che conserva una cupezza di fondo ammaliante e personale,<br />

fortunatamente non troppo ancorata alla lezione londinese del dubstep-wonky Rustie-ano. Per ora uno dei migliori<br />

mix di electro-alt-hip-nu-rock dell’anno.<br />

(7.5/10)<br />

MaRco bRaGGion<br />

d’eon - lp (hippoS in tankS, GiuGno 2012)<br />

Genere: new aGe synth-PoP<br />

d’Eon è, come Grimes e Purity Ring, parte della nuova<br />

scena di musicisti elettronici con gusto per l’esoterismo<br />

a base Montréal. Lo abbiamo conosciuto lo scorso anno<br />

grazie a Darkbloom (in split proprio con Claire Boucher),<br />

ma Palinopsia, l’esordio in sordina, era datato 2010. A<br />

quell’EP dal corposo minutaggio (poco meno di un’ora)<br />

fa seguito il presente LP di ben 77 minuti a portare avanti<br />

un ideale tutto rivolto allo stressare al massimo le capacità<br />

del supporto fisico.<br />

Il primo full-lenght del canadese è carico delle versioni<br />

più raffinate ed elaborate delle componenti, sia soniche<br />

che testuali, delle precedenti release: synth New Age e<br />

hook electro-pop a scontrarsi con pattern ritmici che<br />

vanno dalla moderazione ambient-like ai jungle breakbeats<br />

(Signals Intelligence), la produzione full-spectrum<br />

e la cantilena chill ma passionale di Peter Gabriel (Now<br />

Your Do), le continue allusioni naïve a mode orientali,<br />

fede e rituali echeggianti il periodo speso in meditazione<br />

in un monastero sull’Himalaya. È tutto un déjà vu ma<br />

pure il punto focale della musica di d’Eon, artista che<br />

cerca le variazioni attraverso le ripetizioni. Queste possono<br />

essere sottili, ma la ricchezza di dettagli e la quasiipnotica<br />

densità dello spettro sonoro permettono al metodo<br />

-esemplificato ottimamente nel mixtape Music For<br />

Keyboards Vol.II, composto da 14 arrangiamenti di What’s<br />

My Age Again? dei Blink 182- di funzionare su larga scala.<br />

L’unicità di LP risiede a livello concettuale: filo conduttore<br />

fra le tracce è il grave disagio causato dal consumismo<br />

moderno, dal razionalismo leggero e non filtrato dell’era<br />

digitale che intrappola ad un profilo Facebook o alla comunicazione<br />

via iPhone. Al contrario dell’approccio alla<br />

tematica sarcastico e proiettato in leggera approssimazione<br />

del futuro del compagno di label James Ferraro<br />

(Far Side Virtual, 2011), d’Eon filtra il proprio attraverso un<br />

inedito, serioso romanticismo da XXI° secolo, cerca risposte<br />

e liberazione per vie artistiche in uno stato redentore<br />

di spiritualità autonoma. Emblemi del concetto sono i<br />

due momenti migliori, Chastisement (“If I have access to<br />

everything digitized, then why am I looking for a scripture’?)<br />

e Al-Qiyamah (“If we’re stuck in here, what happens on Judgement<br />

Day?”), mentre altrove (Transparency Pt. II, Gabriel<br />

Pt. I) il disco non è musicalmente forte a sufficienza per<br />

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lueS contRol - valleY tanGentS (dRaG citY, GiuGno 2012)<br />

Genere: avant-kraut<br />

Lo avevamo capito già durante la loro apparizione filo-cosmica al Live Arts Week di Bologna di quest’anno, insieme<br />

a Laraaji - e ancor di più ascoltando FRKWYS Vol. 8, il frutto su disco della loro collaborazione. Se dopo Local Flavor<br />

la strada era segnata, a meno di cambi di direzione repentini, ormai sembrava certo che i Blues Control volessero<br />

uscire fuori dal tempo noise per sposare la linea krauta.<br />

Ma Valley Tangents - quinto lavoro del duo, primo sulla sempre più accorta Drag City - è<br />

uno scrigno di densità di idee e mondi stupefacente, che non pensa solo ai Popol Vuh<br />

ma raccoglie i frutti di ventanni di parentele tra musica ’colta’ e rock. Suona metà con la<br />

trascendenza delle progressioni del rock tedesco dei primi Settanta, metà con il piglio<br />

furbetto del jazz modale che si avvicina al jazz rock. Love’s A Rondo e Iron Pigs, prime due<br />

tracce delle sei, mettono in campo un metodo di costruzione esotico e dosato, tanto<br />

pensiero dietro la musica, ma anche le percussioni di Tatsuya Nakatani, iperprolifico<br />

auto costruttore di pelli di Osaka. Ciò che a prima vista sembra easy-listening è un<br />

complesso gioco di filtri che fanno guardare il mondo con gli occhi delle avventure musicali di Terry Riley. Non una<br />

parentela strutturale, musicologica, ma un sentore straniero da tutto come un ’cammello a Parigi’ (Walking Robin).<br />

L’improvvisazione e gli episodi di assolo volutamente manualistici di cui è cosparso Valley Tangents sono soprattutto<br />

frutto della tastiera-pianoforte di Lea Cho che della chitarra di Russ Waterhouse, che quando emerge torna<br />

inevitabilmente in terra tedesca. Il duo resta un punto di riferimento per la capacità di ibridare quelle tradizioni<br />

oblique con l’ambiguità lo-fi dell’approccio sporco, oleoso, deliberatamente non trasparente della messa a sistema<br />

degli effetti sonori (espressione più fedele di strumentazione). Per poi non dire che bastano due note (quelle di A<br />

Love Supreme di Coltrane?) per accompagnare il monologo finale di Gypsum, pianoforte ’giapponese’ e semplice<br />

batteria anni settanta. Per chi scrive, un album che potrà rimanere molto in alto, nelle classifiche e nei mesi.<br />

(7.4/10)<br />

GaSpaRe caliRi<br />

reggere il discorso e finisce per farne pesare la mole.<br />

LP resta comunque uno sforzo interessante, un ascolto<br />

obbligato per chiunque sia interessato alla pop music<br />

contemporanea ed al suo attuale contesto sociale.<br />

(7/10)<br />

MaSSiMo Rancati<br />

dent MaY - do thinGS (paW tRackS, GiuGno<br />

2012)<br />

Genere: beach chill-PoP<br />

Dent May è una di quelle icone di culto che vivono perennemente<br />

sul filo immaginario che divide la genialità<br />

dal ridicolo.<br />

L’avevamo lasciato con un ukulele in mano nel debutto<br />

<strong>The</strong> Good Feeling Music of Dent May & His Magnificent<br />

Ukulele e lo ritroviamo ora in una nuova veste per<br />

il sophomore album Do Things.<br />

L’amichetto degli Animal Collective si libera dell’ukulele<br />

e si sdraia sotto sulle spiagge californiane - nonostante<br />

canti “Don’t want to move to Southern California” in<br />

Home Groan - e cerca di cullare l’ascoltatore in un post<br />

acid trip decisamente sunshine.<br />

I Beach Boys sono, ovviamente, il punto di riferimento<br />

più evidente che scorre lungo le dieci tracce del disco.<br />

Laddove i sapori sixties lasciano spazio a sprazzi<br />

di modernità si va a lambire territori funky-chilly/glo-fi<br />

(Fun, Don’t Want Too Long). Anni ‘60 rivisitati in mentalità<br />

post-’80s con l’andazzo di chi, dopo una giornata<br />

passata abbrustolirsi, si trascina a fatica verso il primo<br />

beach-bar per l’aperitivo al tramonto. Spazio anche per<br />

l’old-times ballad Do Things e per Find It, dove Dent May<br />

ricorda alla lontana Damon Albarn in versione psychedelic<br />

pop.<br />

Come un Panda Bear meno sperimentale e looposo,<br />

il Dent May di Do Things si concede a modo suo allo<br />

svacco estivo e scrive poco più di mezz’ora di suggestioni<br />

da bagnasciuga che non fanno male a nessuno,<br />

soprattutto in queste giornate afose.<br />

(6.5/10)<br />

RiccaRdo zaGaGlia<br />

deuS - folloWinG Sea (autopRodotto,<br />

GiuGno 2012)<br />

Genere: noir rock<br />

Abbiamo già detto come e quanto i dEUS abbiano già<br />

dato, e si accontentino di perpetuarsi all’insegna di un<br />

mestiere più che dignitoso, ben rappresentato dal recente<br />

discreto Keep You Close. Sorprende tuttavia che<br />

la nostra band belga preferita abbia confezionato un<br />

altro disco fatto e finito nel volgere di pochi mesi, confessando<br />

oltretutto che trattasi di tracce avanzate dalle<br />

sessioni precedenti, troppo convincenti (o troppo poco<br />

malvage) per lasciarle ad ammuffire per i canonici due<br />

anni tra un lavoro e l’altro. Considerando poi che c’è un<br />

tour estivo da pasturare, ecco servito al gentile pubblico<br />

Following Sea, album lungo numero sette in diciotto<br />

anni di attività.<br />

Ora, sarà che appunto il mestiere è diventato il baricentro<br />

espressivo di Barman e soci, metti poi che certe<br />

evoluzioni pindariche ti restano sia pure a livello omeopatico<br />

nel DNA, insomma va a finire che con la sua<br />

mancanza di pretenziosità, con la sua dichiarata vena<br />

interlocutoria, è una raccolta che si fa ascoltare. Mancano<br />

le idee soniche (si ravvisa un più marcato estro<br />

electro, comunque più arredo che sostanza) e le intuizioni<br />

compositive che ti facciano imbizzarrire ventricoli<br />

e sinapsi, certo, ma quello in cui si cimentano è sempre<br />

convincente, senti che pesca dal pozzo delle cose putride<br />

e struggenti, ha il passo delle situazioni che accadono<br />

giusto sotto il palcoscenico. Nella sua ovvietà<br />

funky, Girls Keep Drinking arriva dove i Red Hot Chili<br />

Peppers non riescono più da un bel pezzo. Quatre Mains<br />

sciorina talking in francese come un trip noir di Gainsbourg<br />

infervorato wave. Gli arabeschi ghignanti di Fire<br />

Up <strong>The</strong> Google Algorithm sono una lama Afghan Whigs<br />

con l’affilatura scabra. Hidden Wounds si aggira sorniona<br />

tra mollezze trip-hop ed electro-dark, mentre One<br />

Thing About Waves è un ballatone dei loro - inquietudini<br />

e trasporto - screziato di vampe sintetiche quasi Japan.<br />

Finché la leggerezza dell’approccio insomma non svacca<br />

in episodi come il poppettino-soul di Crazy About You<br />

- troppo ansiosa di limonare con gli airplay radiofonici<br />

per non suonare fuori luogo - ci si può stare. Se poi fra<br />

un pezzo e l’altro vi viene da rimpiangere Worst Case<br />

Scenario, ok, siete stupidini, ma siete perdonati.<br />

(6.5/10)<br />

Stefano Solventi<br />

dfb - daniele faRaotti band - canzoni in<br />

Salita (boMbanella RecoRdS, luGlio 2012)<br />

Genere: art rock<br />

La dfb, acronimo che sta per Daniele Faraotti Band, è<br />

un trio bolognese capitanato da Daniele Faraotti, cantautore,<br />

chitarrista e compositore d’esperienza con alle<br />

spalle importanti collaborazioni (Patty Pravo, Claudio<br />

Lolli). Con Canzoni in salita, in uscita per la Bombanella<br />

Records, la dfb si muove con rinnovata consapevolezza<br />

nei multiformi territori dell’art-rock arginando certe<br />

dispersività di un esordio - Ciò che non sei più (Alka record,<br />

2008) - che ai tempi rappresentò un po’ l’ambizioso<br />

manifesto artistico del gruppo.<br />

Il disco colpisce subito, fino a disorientare, per la quantità<br />

di risorse messe in campo: ogni canzone è un’unità<br />

complessa, un mondo generatore di altri mondi plasmati<br />

da una creatività senza briglie che abolisce schemi<br />

e ritornelli in favore di sperimentazioni compositive<br />

di generi, ritmi e sonorità. Sbottonato - Vivace 135 in<br />

apertura dà l’imprinting a ciò che seguirà: inversioni<br />

ritmiche e controtempi, orgie di strumenti e ritmi (i fiati<br />

latineggianti di Carmensita in Kawasaki, i violini del<br />

divertissement Tram Golem, gli spettrali theremin di<br />

Melanconia 2) e citazioni seminali di band ispiratrici (i<br />

Beatles di Hello, Goodbye/I’m <strong>The</strong> Walrus in Uh Mani, la<br />

Faust Arp dei Radiohead in Melanconia 2). Rimandi colti<br />

disseminati qua e là (La sagra della primavera di Stravinskij<br />

in Le cose, l’innesto di Bach sul fingerpicking di<br />

Radioarmadio, un haiku del poeta Junichiro Kawasaki in<br />

Carmesita), mescolati con intelligenza a riferimenti più<br />

pop (la Down Town di Petula Clark in Sbottonato - Vivace<br />

135, il noto carosello del caffè in Carmensita in Kawasaki)<br />

perfezionano la cifra stilistica del cantautorato della dfb,<br />

figlio di un’attitudine prog-rock à la King Crimson, intellettuale<br />

ed esteta, deciso a destrutturare ogni certezza,<br />

anche linguistica (il non sense di Tram Golem, i nipponismi<br />

di Sakura, il dialetto romagnolo in Radioarmadio).<br />

Con questo secondo album, la dfb sperimenta coraggiosamente<br />

percorsi ’in salita’, alzando la temperatura<br />

quasi fino alla massima entropia. Il risultato è un bel<br />

lavoro fuori dagli schemi, che rivela a chi non ha paura<br />

di bruciarsi la propria ricchezza ascolto dopo ascolto.<br />

(7.2/10)<br />

viola baRbieRi<br />

diiv - oShin (captuRed tRackS, GiuGno<br />

2012)<br />

Genere: Guitar-(dream)PoP<br />

I DIIV sono la band di Zachary Cole Smith, il (fake)biondo<br />

chitarrista dei Beach Fossils. Il nome originario del<br />

progetto era Dive, un nome-tributo al brano dei Nirvana<br />

che malauguratamente apparteneva già all’omonima<br />

band industrial belga. L’amore per Kurt Cobain è<br />

evidente soprattutto a livello di immagine - Zachary<br />

sembra faccia di tutto per somigliare a Kurt - ma an-<br />

90 91


coolY G - plaYin Me (hYpeRdub RecoRdS, luGlio 2012)<br />

Genere: house/dubsteP<br />

Merrissa Campbell, da Brixton, South London, giocatrice semiprofessionista di calcio, meglio conosciuta come la dj,<br />

produttrice e vocalist Cooly G, è una che ha le idee chiare. Al contrario dell’altra ragazza di casa Hyperdub, Ikonika,<br />

che ci ha praticamente mandato a quel paese quando le abbiamo chiesto cose a riguardo, Merrissa rivendica con<br />

fierezza il proprio ruolo di prominent female in un giro decisamente maschio come<br />

quello dell’underground dance UK. Le idee Merrissa le ha chiare anche e soprattutto<br />

per quanto riguardo la definizione e la collocazione della propria musica: “deep house<br />

tribal dubstep vibe”. Si sente figlia della tradizione UK Funky, che con lei prende le forme<br />

clubbistiche di una deep house “al tempo del dubstep”: nel senso che Cooly non fa<br />

dubstep guardando alla house, ma esattamente il contario. Pezzi come la splendida,<br />

ormai classica, Love Dub (2009) spiegano questa prospettiva meglio di tante parole.<br />

Con alle spalle produzioni e release almeno dal 2008, anche accanto a big come Mala<br />

(che aspettiamo al varco dell’LP, se mai arriverà) e outsider di lusso come DVA (un primo<br />

album sulla stessa linea di Cooly, ma con r’n’b e grime come estremi del continuum; assolutamente ricco di ottimi<br />

spunti, ma un po’ troppo embrionale nel suo voler essere a tutti i costi omnicomprensivo), Merrissa per l’esordio<br />

lungo sceglie la soluzione di fino e punta tutto su un impatto non tanto sonoro-produttivo, quanto atmosfericoevocativo.<br />

Di dubstep ci sono le scansioni e le scelte timbriche legate alla componente squisitamente ritmica (molto<br />

ben esposte ad esempio, per parossismo, nell’ossuta What Airtime), ma il resto sono affondi in una ambience house<br />

fatta di tempi rilassati (i pezzi non partono mai davvero) e atmosfere chiaroscurali, di un intimismo misterioso<br />

(particolarmente Trying). Modi in qualche modo paralleli a quelli con cui Deniz Kurtel e Amirali stanno trattando<br />

la materia electro - invece che dubstep - per definire la propria maniera house.<br />

Le tastiere in delay di pezzi come come Come Into My Room e la soulness che trasuda dai vocals - e dalle lyrics - di<br />

pezzi come Landscapes (sono due pezzi splendidi), le cadenze reggae “sotto” di Sunshine e il pathos disco/romantico<br />

di Trouble spiegano questa prospettiva meglio di tante parole. Il footwork, nuovo “dialetto di koiné” per i producer<br />

più sul pezzo, e se vogliamo, in tal senso, nuovo-dubstep, si affaccia nei loop samba di It’s Serious.<br />

Debutto lungo non esplosivo questo di Cooly G, anzi piuttosto - volutamente - trattenuto (solo nella title track, sul<br />

finale, affiora certa cattiveria grime-Terror Danjah), giocato tutto in sottrazione, ma decisamente maturo e autorale.<br />

Nonché possibile volano per remix dancefloor da paura.<br />

(7.3/10)<br />

GabRiele MaRino<br />

che in una certa indolenza che traspare a livello musicale<br />

e attitudinale.Come nel caso dei Beach Fossils, la<br />

scena è ovviamente quella dei Brooklyn e l’etichetta di<br />

riferimento è la Captured Tracks. Nell’album di debutto<br />

Oshin, Zachary Cole Smith e compagni si tuffano e si<br />

immergono in un mare di riferimenti appartenenti al<br />

periodo compreso tra il 1985 e il 1990: i <strong>The</strong> Wake (tra<br />

l’altro ristampati su Captured e coverizzati dagli stessi<br />

Beach Fossils) svuotati della componente synth, i ritmi<br />

C86, melodie dream pop, 4AD-sound fino a derivazioni<br />

shoegaze e jangle-pop.<br />

Guitar-pop etereo e ovattato, caratterizzato - molto più<br />

rispetto alla main band di Zachary - dall’abbondante<br />

spazio riservato a lunghi melodico-ossessivi giri chitarristici:<br />

le ariose linee vocali spesso fungono infatti da<br />

semplice contorno in un contesto che fa della nostalgia<br />

riverberata il suo punto di forza. Spiccano il singolo di<br />

lancio How Long Have You Know che racchiude l’essenza<br />

del disco in poco più di tre minuti, le qui rivisitare Sometime<br />

e Human - già presentate nel periodo Dive - e<br />

gli intrecci sonori di Doused, mentre forse convincono<br />

meno quando rallentano i ritmi come in Earthboy.<br />

Derivativo dalla testa ai piedi ma altrettanto gradevole.<br />

Non solo, nonostante siano ancora abbastanza monocorde,<br />

rispetto a tante band alle prese con un certo tipo<br />

di revival, i DIIV sembrano avere personalità da vendere,<br />

tanto da ritagliarsi uno spazio importante all’interno di<br />

questo 2012 all’insegna del dream pop.<br />

(7.1/10)<br />

RiccaRdo zaGaGlia<br />

diva (ita) - il paRadiSo Su RetequattRo ep<br />

(autopRodotto, MaGGio 2012)<br />

Genere: wave PoP<br />

La retronostalgia è un albero complicato dai frutti dolciastri<br />

che, se maturi al punto giusto, si fanno apprezzare<br />

dai palati più insospettabili. C’è il problema della<br />

post-modernità che, diciamolo, ha rotto ampiamente<br />

le palle, ma l’entusiasmo dell’approccio può ancora fare<br />

la differenza. Un prostrarsi per la causa con sferzante<br />

languore. Raggranellando tutta l’empatia possibile in<br />

un gioco basato sostanzialmente su pose ed espedienti,<br />

i Diva da Padova sostanzialmente ci riescono. Sembrano<br />

dei cuginastri dei Baustelle con più Righeira che<br />

Human League nelle sinapsi, più Mina che Tenco, più<br />

figurine Panini che Cattelan.<br />

Esordiscono con questo ep di sei tracce così composto:<br />

una Il paradiso su Retequattro in versione disco wave 80’s<br />

infarcita di trash senziente citazionista, chorus adesivo/<br />

ossessivo che gli basterebbero cinque passaggi giusti<br />

per sbranare airplay; il giochino sferzante e psicotico<br />

vagamente anni Zero di Narciso lava i piatti, affilatura<br />

Franz Ferdinand ammorbidita Belle And Sebastian;<br />

la disco-glam sfrontata di Autostop, cover languida e<br />

ruvidella da un orginale di Patty Pravo; il dub wave<br />

sordidello con chitarra eniana di Un uomo, una donna,<br />

peccato per il ritornello un po’ piatto. A ciò si aggiungano<br />

le versioni alternative di Narciso lava i piatti (quasi<br />

smithsiana) e Il paradiso su Retequattro, quest’ultima<br />

in guisa piano-voce in punta d’apprensione cotonata<br />

come fecero appunto i Righeira - lo vedi? - con L’estate<br />

sta finendo. Ho la sensazione che ne sentiremo parlare.<br />

(6.8/10)<br />

Stefano Solventi<br />

dJ RaShad - teklife vol. 1: WelcoMe to the<br />

chi (lit citY, GiuGno 2012)<br />

Genere: Juke<br />

“La base che grida necessità di evoluzione”, dicevamo recentemente<br />

sul juke dei pezzi grossi di Chicago, e dire<br />

che già l’ultimo Traxman i suoi passi avanti li faceva,<br />

intesi come eclettismo in grado di svariare tra i generi<br />

suonando funk o r’n’b. DJ Rashad invece rimane quello<br />

meno tollerante agli strappi alla regola: il suo juke è<br />

sempre originario ed essenziale, il più vicino alle radici<br />

del ghetto e dei balli da strada. Quello che esplicita<br />

meglio la peculiarità del footwork come nuova cosa di<br />

questo decennio, i ruoli invertiti tra ritmica e voce, dove<br />

il tempo lo dà il campionamento martellante e tutt’intorno<br />

drums, bass e synth fanno da coprotagonisti di<br />

spalla.<br />

E rispetto a Just A Taste anche Rashad si è dato la sua<br />

ripulita. Teklife è meno esasperato, si controlla e punta<br />

in venti tracce a chiudere un cerchio che rappresenti il riferimento<br />

statuario dell’evoluzione juke firmato Rashad<br />

e Spinn: solito citazionismo colto che passa dal soul (il<br />

tocco virtuoso di Feelin’ You) alla techno (Walk For Me,<br />

dalla Swims di Boddika e Joy Orbison, è uno spettacolo)<br />

insieme ovviamente a tutto il ghetto rap possibile<br />

(puntuale l’autocelebrazione We Trippy Mane), bassline<br />

sibilanti a dare altezza agli spazi (guardate lo spettro di<br />

frequenze di We Leanin’ o Welcome To <strong>The</strong> Chi, quelle<br />

bassissime son sempre in cima) e pattern ritmici dilatati<br />

a disorientare le tempistiche (in Over Ya Head ci son tutti,<br />

da quelli tranquilli a più compulsivi).<br />

Trattasi della vetrina allestita sul suo sound personale,<br />

e l’unica pecca complessiva è una visibile rigidità che fa<br />

sì che le tracce si aprano quasi tutte allo stesso modo.<br />

Piace vedere i pezzi che spezzano lo schema, come la<br />

tempesta acida di iPod, la furia di beat di Fly Spray, le<br />

velocità su melodia armonica di CCP, ma esporre un giro<br />

di 72 minuti fatto su poche e poco variegate intuizioni<br />

roots significa farne una questione da puristi, funzionale<br />

agli aficionados ma poco aperta a chi sta fuori dalla<br />

community. E non è ciò di cui il genere ha bisogno, soprattutto<br />

adesso che inizia a non essere più una novità.<br />

(6.5/10)<br />

caRlo affatiGato<br />

dntel - aiMleSSneSS (paMpa RecoRdS,<br />

GiuGno 2012)<br />

Genere: indietronica<br />

Storicizzando la lezione pseudoambient di Aphex in un<br />

modo che non ha nulla a che vedere con le nuove voci<br />

dell’UK Bass, il quinto disco di Dntel ti fa sentire vecchio.<br />

Vecchio, sì: in media con quello che l’uomo Figurine ci<br />

aveva già fatto sentire, Tamborello ricrea mondi, suoni e<br />

pattern che pescano - ancora una volta - dal serbatorio<br />

di Boards <strong>Of</strong> Canada, Richard D. James, Mùm, Tarwater,<br />

e da tutto il mescolone folktronico di inizio Duemila<br />

quando si ibridavano rock e IDM e i Radiohead patrocinavano<br />

dall’alto. Ascoltato oggi DNTEL è un progetto<br />

incartapecorito ed essenzialmente conservatore, che<br />

però viene citato dai giovani massimalisti inglesi (Rustie<br />

o Slugabed tanto per fare due nomi).<br />

Affidandosi al tedesco DJ Koze (il disco esce su Pampa)<br />

si potrebbe pensare che il Postal Service si sia agganciato<br />

alle geometrie precise della krautedine da dancefloor,<br />

invece grazie anche ai featuring di Nite Jewel<br />

(Santa Ana Winds), Baths (aka Will Wiesenfeld, nuova<br />

voce della Anticon) e ai samples dei Popol Vuh (Paper<br />

Landscape), Jimmy porta a casa un lavoro che come<br />

dice il titolo non si prefigge uno scopo e che non va da<br />

92 93


nessuna parte. Anche se ha una produzione stellare, lo<br />

dimenticheremo dopo qualche ascolto.<br />

(5.5/10)<br />

MaRco bRaGGion<br />

fabio oRSi - von zeit zu zeit (backWaRdS,<br />

MaGGio 2012)<br />

Genere: industrial-kosmische<br />

Non poteva che essere Fabio Orsi a inaugurare il catalogo<br />

Backwards, label italiana nata dalle ceneri di altre<br />

esperienze fondamentali per lo sviluppo di certi suoni<br />

come A Silent Place.<br />

Il vinile limitato - già esaurita la prima tiratura e pronta la<br />

ristampa, anch’essa limitata, in vinile arancione - ci offre<br />

due estatiche progressioni droning di matrice industrial<br />

figlie di una session live registrata a Berlino con synth,<br />

chitarra e filtri e poi lasciata sedimentare e rieditata sul<br />

finire dello scorso anno. Siamo dalle parti dell’acclamato<br />

Wo Ist Behle?, a cui Von Zeit Zu Zeit è vicino per genesi<br />

e sensibilità: roba oscura, magmatica e materica, in perenne<br />

crescendo e in cui, però, spariscono i rimandi al<br />

pregresso del tarantino. A farla da padrone è dunque<br />

una kosmische fredda e oscura, estremizzata nel suo<br />

essere costruita su stratificazioni montanti e dai risultati<br />

totalmente ipnotici.<br />

Le due intese tracce di muovono su coordinate droning<br />

estatiche e fluttuanti, è il caso di Von Zeit, o ingrigite da<br />

colate di atmosfere dark-industrial, in cui fanno capolino<br />

minacciose nubi alla Deutsch Nepal (Zu Zeit col suo<br />

’percussivismo’ sottotraccia) lasciando presagire nulla di<br />

buono fino allo sfiorire su lande quasi ambient. Forse il<br />

buon Orsi ha introiettato definitivamente l’humus mitteleuropeo<br />

della adottiva Berlino?<br />

(7/10)<br />

Stefano piffeRi<br />

faRGaS - in balia di un dio pRincipiante<br />

(SnoWdonia, GiuGno 2012)<br />

Genere: narrativa, rock<br />

Dopo cinque anni di silenzio, i Fargas ricompaiono in<br />

gran forma sulle scene della musica d’autore italiana<br />

con un progetto ambizioso. L’idea è quella di dare alle<br />

luce quattro dischi, uno per stagione da qui all’anno che<br />

verrà, lavori nei quali sarà contenuta la produzione in<br />

studio di questi ultimi cinque anni.<br />

Potremmo definire i Fargas l’ennesimo gruppo che sperimenta<br />

qualcosa che ormai non è neppure più definibile<br />

come sperimentale: quella musica narrativa che<br />

non ricerca il matrimonio perfetto e pop tra il testo e<br />

la musica. In questo primo episodio In balìa di un dio<br />

principiante, la musica ignora il concetto di tappeto<br />

sonoro facendosi asse portante e insieme caleidoscopio<br />

di un eccezionale lavoro sulla parola.<br />

I testi di Luca Spaggiari sono tra i migliori in cui possiate<br />

incappare. Ispirati e cesellati, faticano naturalmente<br />

a farsi tutt’uno con un sound ugualmente ricco e capace<br />

di porsi in primo piano. Da episodi che ricordano il<br />

lavoro de Le luci delle centrale elettrica - per vocalità<br />

e incedere, non certo per scelte narrative - fino alla meravigliosa<br />

e quasi pop Dolce amica, i Fargas raccolgono<br />

tanta lunga tradizione italiana: dalla vocalità del primo<br />

Vasco Rossi a quella di Rino Gaetano, passando per<br />

una autorialità romana che arriva fino alla prima produzione<br />

di Francesco De Gregori.<br />

Dimenticate quell’idea di narrazione accompagnata da<br />

sound di chiara derivazione post rock e immaginate un<br />

suono diffusamente 70s, confuso o schiarito tra chitarre<br />

rock e armonica a bocca. Intendiamoci, non siamo davanti<br />

a canzoncine di facile assimilazione ma abbiamo<br />

finalmente testi da imparare a conoscere ascolto dopo<br />

ascolto, assieme a una materia musicale altamente stratificata.<br />

(7/10)<br />

Giulia cavalieRe<br />

filaStine - loot (poSt WoRld induStRieS,<br />

apRile 2012)<br />

Genere: ethno beats<br />

Grey Filastine incarna un po’ l’idea che possiamo avere<br />

oggi di nomadismo e di engagismo artistico. Losangelino<br />

di nascita, a Seattle fonda la Infernal Noise Brigade,<br />

collettivo/marching band attivo nel circuito delle proteste<br />

no global (la cosiddetta battaglia di Seattle, 1999),<br />

gira il mondo per studiare musiche e ritmi (è stato a<br />

lungo in Marocco), prima di stabilirsi definitivamente<br />

nella cosmopolita Barcellona.<br />

Il primo album, Burn It (2006), prodotto e pubblicato<br />

sotto l’egida dello spirito affine Dj Rupture, ne scopre<br />

lo stile fortemente terzomondista, ma senza facili oleografismi:<br />

grime cantato in spagnolo, hip hop croccante<br />

(Palmares) innervato di breaks (Crescent Occupation),<br />

seppiato (<strong>The</strong> Last Redoubt), imbevuto di etnicismi dal<br />

feel jazzato (Judas Goat), un mood perfettamente sintetizzato<br />

da un pezzo come Dance of Garbageman. Il<br />

secondo album, Dirty Bomb (2009; sempre sulla Soot di<br />

Rupture), intriso di umori apocalittici fin dal titolo e dalla<br />

copertina, oltre che nei suoni, continua il discorso con<br />

più occhio al dancefloor, tra electro e fidget.<br />

£oot/Loot è un terzo album breve ed essenziale, come<br />

sempre per Filastine lavorato in punta di stilo, e forse qui<br />

anche più che in passato. Sulle basi del retaggio illbient,<br />

che ce lo fa mettere per certi versi in parallelo con Raz<br />

daRGen d’aMico - noStalGia iStantanea (Giada MeSi, GiuGno 2012)<br />

Genere: streamofraP/freeform<br />

Dire che con Dargen siamo stati prudenti è un eufemismo: siamo stati duri, gli abbiamo sempre spaccato il capello<br />

in quattro. Ma lo abbiamo fatto per il suo bene. E siamo pur sempre quelli che a un certo punto hanno detto che<br />

un suo disco era, nello spazio interstiziale tra distacco critico e innamoramenti privati, uno dei dischi dell’anno. Chi ha<br />

orecchie da intendere, intenda.<br />

Oggi Dargen è una superstar, l’uomo giusto nel posto e al momento giusto. Dopo che<br />

Zingo lo ha dischiuso come solo lui sa fare e fino allo sfinimento, dopo l’ammirazione<br />

di Jacopo Incani/Iosonouncane, di Prete Criminale dei Klippa Kloppa (“è degno di<br />

stare accanto ai classici come Battisti e Dalla”), di Morgan, ovviamente di Fibra (“è quello<br />

che scrive meglio”), guru intoccabile per i suoi fan che aprono pagine su Facebook tipo<br />

Le Migliori frasi di Dargen D’Amico e lo chiamano poeta e genio, il profilo che ne viene<br />

fuori è uno e trino, se non divino, sicuramente Cerbero: comunicatore (videodiarista e<br />

brillante imbarazzatore di intervistatori, lo sappiamo per esperienza diretta), imprenditore<br />

di se stesso (la collezione di occhiali specimen nascondiocchi lanciata un anno fa), un tipo consapevole (gli<br />

dicono geniale ma sa bene che “oggi i ragazzi se apprezzano un paio di scarpe dicono geniali ‘ste scarpe, geniale ’sto<br />

bus che va da capolinea a capolinea”). Le parole insomma sono importanti e D allora è soprattutto un artista, capace<br />

di regale a chi è entrato anche solo un pizzico oltre la superficie della sua poetica emozioni vere.<br />

Annunciato da mesi e per mesi procrastinato (anche e soprattutto per curare la pubblicazione su Giada Mesi<br />

dell’esordio del supervocalista Andrea Nardinocchi), Nostalgia Istantanea ha spiazzato tutti per il formato, due pezzi<br />

lunghissimi, uno di 18 minuti (messo in streaming su Rockit), che chiameremo A, uno di 20, che chiameremo B,<br />

messi in vendita su iTunes e in un costoso vinile limitato. A e B sono le due facce della stessa medaglia. In entrambi,<br />

immagini e parole si accumulano come in un infinito freestyle, e alla fine l’ingolfamento è abbacinante, un flusso<br />

di coscienza propiziato dal sonno (Dargen il furbacchione parla di narcolessico), con rime e giochi di parole come<br />

sempre in grande spolvero (fino al finale di A, che spiega la natura mistica e tuttologa del pezzo con l’equazione:<br />

bibbia + enciclopedia = enciclopedio). In A Dargen è apodittico e poetico-sloganistico, più del solito (prende per il<br />

culo alcuni luoghi comuni), aiutato in questo anche dai bpm bassi, senza momenti al fulmicotone, con la musica<br />

co-firmata dal fido Emiliano Pepe tra certo minimalismo funky battistiano solarizzato e un insinuante pathos soft<br />

electro. A è un divertissement dichiarato e viene fuori come un esperimento ben fatto, assolutamente godibile,<br />

docile, ideale da sentire in un viaggio in auto da soli di notte (è un complimento).<br />

B ne è il rovescio, la sua trasfigurazione espressionista, deformata, selvatica, drogata. Senza troppi giri di parole, è<br />

uno dei capolavori di Dargen, che sapeva di potere azzardare e ha azzardato, se non il suo picco assoluto (sicuramente<br />

il suo picco - pardon - sperimentale). Come a dire - visto forma e formato - la sua Sister Ray, la sua Miss Fortune, la<br />

sua Moon in June, il suo Lumpy Gravy. Nel rabdomantico vagare del testo si può isolare un nucleo onirico-carcerario<br />

originario, ma poi dentro c’è di tutto, per la serie “mettimi una musica che ti dico tutto quello che mi passa per la<br />

testa”. Ma il vero grande scarto è la musica, una free form psichedelica, forse anche post-rock, firmata dal solo D,<br />

tutta frullati e vortici, arranchi e rilasci. Il risultato è un pezzo visionario, che per chiuderlo in una definizione ci<br />

vorrebbero tutte le caricaturali espressioni zingalesiane. Ecco, vanno bene tutte.<br />

Stavolta alziamo le mani e ci arrendiamo, seguiamo il consiglio del saggio, raccogliamo i petali ma senza analizzarli<br />

troppo. Dargen prende il volo con un Giano bifronte che può fare ancora proseliti: bimbiminkia, pentiti del rap,<br />

rappofili e indie. Adesso D può dire le sue cose anche a chi prima non lo seguiva.<br />

(7.5/10)<br />

GabRiele MaRino<br />

Mesinai/Badawi (anche per il forte sapore arabeggiante<br />

delle produzioni), il focus restano la contaminazione<br />

e la ricerca timbrico-percussiva: potremmo chiamarlo<br />

ethno-dubstep o più genericamente ethno-bass. E se<br />

un paio di numeri non sono altro che ottimo artigianato<br />

(una passeggiata nel souq, Shanty Tones), intermezzi o<br />

volani per remix forse anche ravey (Lost Records), altri<br />

sono semplicemente delle perle, grandissime prove di<br />

94 95


compiutezza produttiva ed efficacia comunicativa, capaci<br />

di costruire con sottili trame percussive ordite in<br />

incisi strumentali memorabili (Skirmish, Circulate False<br />

Notes, Spectralization) scenari in cui seduzione (la scampanellante<br />

Colony Collapse, con la vocalist indonesiana<br />

Nova) fa rima con tensione (l’inno da stadio ma con<br />

addosso lo smoking - tribal - Informal Sector Parade, la<br />

caracollante Sidi Bouzid, dal nome della città tunisina<br />

epicentro della “rivoluzione dei gelsomini” del dicembre<br />

2010).<br />

Da incorniciare anche l’unico pezzo non scritto da Filastine,<br />

lo splendido remix della già splendida Juniper<br />

degli Y La Bamba, “eclectic indie folk pop band from<br />

Portland”, gioioso inno di attivismo panteistico ed ecologista,<br />

uno di quei pezzi che può valere una carriera.<br />

Dal vivo Grey suona con le bacchette della batteria un<br />

carrello della spesa, mentre su uno schermo scorrono<br />

immagini-collage che fanno a pezzi il consumismo neoliberista.<br />

Ma quel carrello lo fa suonare, eccome. Ecco,<br />

che bello se la musica “di protesta” avesse tutta questo<br />

profilo e, soprattutto, tutta questa qualità dietro e dentro.<br />

(7.3/10)<br />

GabRiele MaRino<br />

GeoRGe fitzGeRald - child ep (auS MuSic,<br />

GiuGno 2012)<br />

Genere: house, techno<br />

Nella serie di uscite che abbiamo apprezzato l’anno scorso<br />

mancava in effetti il volto più dritto ed esplicito che George<br />

FitzGerald sa offrire dietro la consolle. Fa piacere<br />

dunque vederlo concentrato nell’eppì di ritorno su Aus,<br />

con quattro tracce sfrontate e inattaccabili fatte ad hoc<br />

per il club: Child è la bomba tech-house dalle rifiniture<br />

di pregio, con quei groovebass killer e quei giochi vocali<br />

di precisione millimetrica che non possono non infiammare<br />

il pubblico in pista, Lights Out e Hindsight il risvolto<br />

techno dal profilo più duro e minimale per la fase calda<br />

della notte e Unilateral la ripresa del cerchio deep house,<br />

ideale per la distensione di fine set.<br />

Discesa negli inferi e risalita in meno di mezz’ora: il talento<br />

londinese maneggia alla perfezione tutti i meccanismi<br />

formali che girano intorno alla dance, colpendo<br />

duro sia alla testa che allo stomaco. Che botto farà<br />

nell’album in arrivo?<br />

(7/10)<br />

caRlo affatiGato<br />

i MoStRi - la Gente MuoRe di faMe<br />

(GoodfellaS, MaGGio 2012)<br />

Genere: rock, GaraGe<br />

I Mostri vengono da Roma, hanno raccolto discreta<br />

fama nella loro città e sfornano oggi, sulla lunga distanza,<br />

un disco d’esordio che, già nel titolo, porta con sé la<br />

scelta programmatica. Una scelta che tocca gli aspetti<br />

sociali della città capitolina, prima, e dell’intero Paese<br />

poi. Trentacinque minuti di chitarre elettriche, citazioni<br />

ska, brit-pop della meglio generazione, con i quattro<br />

romani che stendono sul lettino le psicosi e le smanie<br />

di una città che vive da alcuni anni un clima di terrore e<br />

disagio, che si adagia sulla monotonia della vita quotidiana,<br />

che accetta troppo passivamente i luoghi comuni:<br />

’La gente muore di fame’ è, appunto, uno di questi.<br />

I punti più alti delle (sole) nove tracce del disco sono la<br />

canzone-manifesto Questa è la mia città, in cui, su ritmi<br />

Nineties d’oltremanica, si denuncia il crollo sociale<br />

e culturale dell’Urbe; Cento lame, intensa rilettura di un<br />

(brutto) brano dei Fratellis, guadagna in profondità e<br />

armonia; Camilla e Piazza Trilussa, con le loro chitarre<br />

aspre e sempre pungenti, sorprendono l’una per la disinvoltura,<br />

l’altra per l’accurata analisi di un fenomeno<br />

tutto metropolitano: la monotonia.<br />

Certo, il cantautorato di scuola romana non è più quello<br />

degli anni Sessanta, e, certo, I Mostri non hanno l’abilità<br />

nella scrittura dei loro concittadini I Cani, complici<br />

una certa autoreferenzialità e un briciolo di piattezza<br />

nei contenuti. I meccanismi tuttavia, sono ben rodati e<br />

il disco scivola via con gusto.<br />

(6.4/10)<br />

nino ciGlio<br />

iaMaMiWhoaMi - kin (coopeRative MuSic,<br />

GiuGno 2012)<br />

Genere: electro art PoP<br />

Viral viral viral e ancora viral. Erano i primi giorni 2010<br />

e su forum e blog musicali non si parlava d’altro: all’improvviso<br />

iniziarono a circolare videoclip caricati su youtube<br />

a nome iamamiwhoami, nessun’altra informazione<br />

se non le atmosfere oscure, le figure distorte e i titoli<br />

enigmatici (figuriamoci, si era in piena LOST-mania) che<br />

caratterizzavano le composizioni audio-visive del misterioso<br />

progetto.<br />

Le ipotesi più disparate - e disperate - parlavano a rotazione<br />

di un nuovo progetto dei Goldfrapp, di Fever<br />

Ray/<strong>The</strong> Knife, Björk e perfino di dive tra$h-pop (Lady<br />

Gaga e Christina Aguilera) in cerca di una improbabile<br />

redenzione artistica. Insomma vinceva chi la sparava più<br />

grossa. Qualcuno poi inizio a fare il nome di Jonna Lee -<br />

all’epoca semplice cantautrice svedese di scarsa fama - e<br />

nonostante le prime smentite, nel dodicesimo video (t)<br />

Jonna decise di mostrare il suo vero volto, mettendo la<br />

parola fine ad ogni tipo di speculazione.<br />

Il 2012 del progetto iamamiwhoami è iniziato con il<br />

diRtY pRoJectoRS - SWinG lo MaGellan (doMino, luGlio 2012)<br />

Genere: exotic folk PoP<br />

Una piccola rivoluzione nel momento più strategico, con le proverbiali affinità elettive tra i progetti a schiumare<br />

in modo spontaneo salvo far emergere sostanziali differenze e ambizioni. Parliamo di Dirty Projectors e Vampire<br />

Weekend, nel senso, di un songwriting al centro e di un’esotica pop che si piazza oggi in una perfetta convergenza<br />

parallela tra le velleità di David Longstreth e il successo planetario di Ezra Koenig, un<br />

tempo sassofonista e turnista proprio negli sporchi proiettori.<br />

Fermo restando la passione per la musica africana e un’idea di colore/istinto/freschezza<br />

applicato alla melodia già ai tempi di Bitte Orca (e che tutt’ora lo accomuna all’amico),<br />

Longstreth riprende, asciugandoli al sole, gli umori folk respirati lungo l’intera esperienza<br />

DP, sostanziando melodia e scrittura. Rimane l’anima free, ma mai come in queste<br />

canzoni il prefisso s’è fatto dettaglio di produzione o sfumatura (l’intonazione di certe<br />

strofe, la microfonazione degli strumenti appresa dall’ex produttore Chris Taylor dei<br />

Grizzly Bear, la scelta d’utilizzare dei vecchi trucchi da albori della stereofonia e molto<br />

altro).<br />

Uno splendido esempio è il singolo Gun Has No Trigger: canto che dici vagamente David Byrne, crooning e shouting<br />

da memorabilia 60s, poi le solite coriste, prima tra tutte Amber Coffman (Angel Deradoorian non ha parteciapto al<br />

disco), un nuovo batterista dal passato hardcore Mike Johnson, automatico a mimare un breakbeat e Nat Baldwin<br />

felpato al basso sotto a tutti gli strumenti, in un dinoccolato jazz-funk. E’ un ideale singolo per l’estate di una formula<br />

capovolta eppure coerente, ricca di rimandi al recente passato: sul lato più farcito abbiamo l’opener con gli inserti<br />

di chitarra garagista e il sing’a’long afro nell’attacco, in quello più asciutto un gioiello pop prezioso chiamato About<br />

to Die per clapping, tamburellare leggero e un’aria davvero vampireweekendiana.<br />

Con un posizionamento ideale per sdoganare (completamente?) il progetto dopo illustri collaborazioni (Bjork e<br />

David Byrne), Swing Lo Magellan trova una via naturale per proporsi a un pubblico più ampio e trasversale senza<br />

rinunciare a una cifra stilistica che, da Rise Above in poi, comprende guizzi prog (Just From Chevron), shouting<br />

d’antan, gusto texturizzato per le percussioni (uno dei liet motiv della produzione) e interventi operistici (qui nascosti<br />

come segreti, ad esempio, in un’altra chicca: la ballad elettrica - ma unplugged - Dance For You, con archi,<br />

chitarra e drum machine).<br />

La canzone per eccellenza del disco è indubbiamente Impregnable Question con l’immancabile controcanto della<br />

Coffer. Miglior album dei Dirty Projectors per chi scrive.<br />

(7.4/10)<br />

edoaRdo bRidda<br />

video di mezzo minuto kin 20120611, una sorta di trailerpromo<br />

- con tanto di release date già fissata - per l’album<br />

di debutto Kin. Da quel 1° Febbraio ad oggi sono stati<br />

caricati altri nove video. Una sequenza di brani che ritroviamo<br />

intatta - anche nell’ordine - all’interno di Kin:<br />

Sever, Drops, Good Worker, Play, In Due Order, Idle Talk,<br />

Rascal, Kill e Goods.<br />

Nove tracce scritte e prodotte da Jonna Lee e Claes<br />

Björklund che già hanno fatto proseliti tra gli utenti di<br />

RateYourMusic. Punti di riferimento abbastanza chiari:<br />

scuola electropop svedese (<strong>The</strong> Knife su tutti), art pop<br />

al femminile post-Bjork (per non dire post-Kate Bush)<br />

e vellutose aperture trip hop/downtempo (Portishead).<br />

Si tratta di un disco valido, ben prodotto, con intuizioni<br />

molto interessanti (Sever, Kill e Idle Talk) ma che proba-<br />

bilmente, ragionando esclusivamente a livello musicale,<br />

oggi farebbe fatica ad emergere all’interno di una scena<br />

che negli ultimi tempi - attendiamo con ansia i Purity<br />

Ring - sta raggiungendo la saturazione. L’intero progetto<br />

visuale-mediatico-2.0. invece crea un precedente ed<br />

incorpora come poche altre cose l’evoluzione del music<br />

business ai tempi di Internet. Con un po’ di fortuna - e<br />

meritocrazia - potrebbe diventare un punto di riferimento<br />

negli anni a venire.<br />

(7.1/10)<br />

RiccaRdo zaGaGlia<br />

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ikonika - i Make liStS ep (huM + buzz,<br />

luGlio 2012)<br />

Genere: synth, steP, house<br />

Mentre l’onda dubstep classica può ormai dirsi defunta,<br />

i suoi reduci possiamo raggrupparli tra quelli che ancora<br />

sopravvivono grazie a uno stile personale netto<br />

e distinto (Kode9, Skream, Shackleton), quelli riversatisi<br />

su filoni di tutt’altra caratura intellettuale (Vex’d,<br />

Boxcutter) e i non pervenuti nel quadro delle trame<br />

evolutive (a parte il già discusso Burial, stiamo ancora<br />

aspettando Benga). Ikonika non era certo una big del<br />

filone, ma era proprietaria di uno dei sound più caratteristici,<br />

cristallizzato con quel Contact Love Want Hate<br />

che nei ragionamenti dubstep tirava a lucido il midollo<br />

più nostalgico della chip music, la parabola 8 bit che<br />

abbiamo largamente approfondito l’anno scorso.<br />

Tornata alle stampe con un EP di 6 tracce sulla sua Hum<br />

+ Buzz, la ragazza sembra seguire l’idea che del nuovo<br />

dubstep ha mostrato Pinch nel suo ultimo FabricLive,<br />

dunque una durezza ritmica più marcata e la liberazione<br />

delle prerogative dance: in un generale tripudio di groove<br />

sintetici che da sempre caratterizza lo stile di Ikonika,<br />

I Make Lists affonda a pie’ pari nei meccanismi step per<br />

club, mentre Take Pictures e Catch Vibes riflettono un<br />

classicismo 4/4 vicino agli anni ‘90 e With Your Mouth<br />

ritorna a tratti proprio al sentire bleep’n’bass di LFO e<br />

dintorni. Eppure i pezzi più efficaci rimangono quelli<br />

meno fuori schema, PR812 che carica euforia ritmica<br />

per valorizzare i giri synth e Cold Soaking, un gancio di<br />

oscurità, spazi e tinte thrilling che graffia al contatto.<br />

È il ritorno ufficiale dopo l’album, e suona finalmente<br />

ferrato e preciso, meno peculiare forse ma valido adesso<br />

su un piano più generale. Oltre al talento ora c’è autocoscienza<br />

e confidenza col mestiere.<br />

(7/10)<br />

caRlo affatiGato<br />

il SoGno il veleno - piccole cataStRofi<br />

(Red biRdS, GiuGno 2012)<br />

Genere: .....<br />

Francamente ha del commuovente questo amore profondo<br />

per l’Italia sparita. Un amore per il dolore onesto<br />

ben distante da quello mediatico e per le cose come<br />

stanno, una certa purezza umana che ci sembra difficilissima<br />

da trovare oggi e da recuperare nella memoria.<br />

Siamo la generazione artistica del vagheggiamento, inchiodati<br />

al sogno di glorie emotive smarrite, persi nelle<br />

bramosie d’amore per un mondo felliniano o da nouvelle<br />

vague francese. Tutti figli, per nostra volontà e di certo<br />

non per sua, di un Pasolini a cui forse faremmo schifo.<br />

Il sogno Il veleno è un progetto musicale dalle volontà<br />

intellettuali ambiziose, formalmente costruito su bobine<br />

e lo-fi, perfettamente rispondente alla domanda sognante<br />

di cui quassù. Un sogno musicale sinceramente<br />

e genuinamente ancorato a un universo retrò perlopiù<br />

60s.<br />

Il qui presente disco è un progetto musicalmente eterogeneo,<br />

per nulla pretenzioso dal punto di vista della<br />

produzione e diviso equamente tra ballate quasi sussurrate<br />

(Le cose importanti, Comizi d’amore), pezzi scanzonati<br />

contemporanei - quelli per intenderci del filone<br />

scuola Brunori Sas come Il tram, Favole, Viola - e pezzi<br />

vicini al Capossela wannabe Waits (Bistrot, Storia quasi<br />

d’amore), fino a un unico episodio strettamente rock:<br />

Signora in foulard nero.<br />

Registrato da Paolo Messere (Blessed Child Opera) e<br />

ricco di volontà autorale dalle influenze intriganti, Piccole<br />

catastrofi si muove però in un terreno eccessivamente<br />

scivoloso per una scrittura di fatto ancora divisa tra diversi<br />

afflati e spinte e, nelle linee, decisamente immatura.<br />

La bellezza di trovare un pezzo intitolato Paese sera<br />

che vuole essere omaggio più che sfoggio si disperde<br />

in segni retorici, nell’ennesimo tentativo italiano di dare<br />

voce al Pier Paolo Pasolini di Comizi d’amore. Buoni intenti,<br />

insomma, per una scrittura ancora da mettere a<br />

fuoco.<br />

(6.2/10)<br />

Giulia cavalieRe<br />

inSooneR - caiMani (foReaRS, apRile 2012)<br />

Genere: alt. rock<br />

Dopo l’autoproduzione Assemblando oceani per annegare<br />

in pace del 2010, gli Insooner esordiscono sulla<br />

lunga distanza con Caimani, uscito lo scorso 16 aprile<br />

per la toscana Forears.Il giovane trio varesino - Juan Manuel<br />

Di Stefano alla voce e al basso, Matteo Renna alle<br />

chitarre e ai cori, Gian Maria Gallicchio alla batteria e<br />

alle percussioni - si presenta con un album di otto tracce<br />

collocabile sotto il grande ombrello dell’alternative<br />

rock italiano, pur con le dovute proporzioni: nonostante<br />

sia facile avvicinarlo ai grandi nomi nostrani del genere<br />

(Verdena, Il Teatro degli Orrori, i primi Ministri),<br />

infatti, con questo Caimani il gruppo sembra avere l’intenzione<br />

di seguire sonorità più internazionali.Se con<br />

le iniziali Alluvioni e Caimani infernali il paragone con le<br />

formazioni di cui sopra pare più che legittimo - rock tradizionale<br />

incalzante e melodico in aria stoner che, anche<br />

per la visionarietà delle liriche, trova qualche punto di<br />

contatto soprattutto con la formazione di Alberto Ferrari<br />

-, con Il mare di Okinawa si devia verso i territori più<br />

sperimentali del post-grunge, grazie ad un’architettura<br />

melodica costruita su distorsioni maggiormente psi-<br />

el-p - canceR foR cuRe (fat poSSuM, MaGGio 2012)<br />

Genere: ProG-hoP<br />

Non è possibile approcciare El-P in maniera unilaterale. Il rapper di Brooklyn è dedito ad una costante sovrapposizione<br />

di narrative che si impongono all’attenzione simultaneamente, impedendo un qualsiasi piano di lettura che<br />

non sia molteplice. Il titolo di questo ultimo album non è da meno. Cancer 4 Cure è sia una dedica all’amico Camu<br />

Tao morto di cancro ai polmoni, sia espressione della sua paranoia e della sua visione<br />

distopica-<strong>The</strong>y wanna kill you, you are the cancer, you are the fucking problem canta<br />

Maline su True Story-, che il suo stesso raccontarsi. El Producto è il cancro della cura, il<br />

guastafeste, quello sempre pronto a sputare fuori il suo veleno, a rovinarsi la vita con<br />

le sue mani. Sempre pronto a ricordare all’ascoltatore che alla fine il mondo è una nave<br />

che affonda come la Costa Concordia, e allora tanto vale passare sopra tutto e tutti pur<br />

di sopravvivere.<br />

Questi sono i tre piani attraverso i quali El-P dipana il suo discorso: una narrazione<br />

distopica di una società tirannica che è sia a venire quanto già presente (il suo Drones<br />

Over Brooklyn predice sinistramente l’uso domestico dei drones di ritorno dall’Afghanistan), il discorso dell’hip hop<br />

e della cultura pop, ed infine la narrazione prettamente autobiografica. Nessuno di questi piani è fondamentale<br />

rispetto all’altro. Spesso si presentano insieme, stratificati in una unica figura come succede in the Jig is Up e Sign<br />

Here dove l’incontro e la seduzione prendono la forma di una spy story, si tingono di paranoia ma anche di insicurezza<br />

maschile, con mosse di contro-spionaggio ed il sesso viene raccontato nella forma di un interrogatorio dove<br />

la safe-word è Yes. Altre volte i piani si susseguono uno dopo l’altro senza un ordine preciso. Request Denied apre<br />

il disco con la voce Burroughs, a delineare come questo sia un atto di resistenza personale contro la società del<br />

controllo, per poi sfociare in una delle vette di lirismo più alta dell’hip hop degli ultimi dieci anni. Meline ricorda la<br />

sua infanzia quando seduto sulle ginocchia di suo padre, pianista jazz, questi gli insegnava l’armonia al pianoforte.<br />

Ci racconta come le note erano una pioggia che cadeva al ritmo degli spari e delle sirene, e come quelle corde<br />

legate ai tasti-Could relieve us of doom / Give the room some silence, stop violence.<br />

Nonostante questo non bisogna accumunare El-P all’ondata di intimismo, dalla prosa purpurea, che è stato protagonista<br />

dell’hip hop sotto la protezione dei suoi due santi Yeezy e Drake. In Oh Hail No El-P sfotte apertamente<br />

il sentimentalismo di questi artisti e si dichiara completamente ostile a questa svolta verso la soggettività della<br />

classe media. El-P è orgoglioso del suo esser ancora legato alla strada, delle sue droghe da povero (principalmente<br />

ossicodone da qualche dollaro a botta), e nella sua dichirazione di intenti dichiare che ogni suo respiro-is a criminal,<br />

critical breach, bloody guns, speech, beat minimalismo. Anche la forma di Oh Hail No è un throw back alle rap<br />

battles. El-P, Mr. Mutherfuckin’ Esquire e Danny Brown si alternano al microfono lanciando dissing ed esibendo<br />

un notevole virtuosismo della parola. Ogni strofa è meticolosamente costruita ed include complesse polisemie.<br />

Su un forum si è riusciti a contare addirittura sei possibili significati per la strofa Inspector Gadget with the ratchet.<br />

Cancer 4 Cure è un album solidissimo, al limite dell’impeccabile. Ma la sua importanza, per questo 2012, sarebbe<br />

diminuita se non si menzionasse il suo essere in compagnia di due altri album: R.A.P. Music di Killer Mike e Machines<br />

that Make Civilization Fun di Bigg Jus. Questa triade mostra, soprattutto considerato l’impatto sulla critica,<br />

un riassestamento che è in atto all’interno della musica indepipendente e come l’hip hop, dopo anni in sordina,<br />

sia ancora una volta rilevante.<br />

(7.4/10)<br />

antonio cuccu<br />

chedeliche.Gli otto minuti di Giuda (uno dei pezzi più<br />

convincenti dell’album) invertono ancora le atmosfere<br />

con il loro acido incedere baustelliano, in un ben riuscito<br />

equilibrio wave-prog impreziosito dal violino di Nicola<br />

Manzan/Bologna Violenta. La velocità ritmica di Icaro<br />

nel fango richiama le influenze stoner dell’apertura,<br />

mentre la conclusiva Istantanea della fine, introdotta da<br />

voce e pianoforte, chiude il cerchio con accenti più intimi<br />

rispetto al resto del disco, protagonista sempre la<br />

melodia.Nel complesso, gli Insooner mettono insieme<br />

un lavoro il cui pregio maggiore è quello di cimentarsi<br />

con un rock familiare (o usurato, in certi casi), mante-<br />

98 99


nendo però sempre alta l’attenzione dell’ascoltatore. Un<br />

buon debutto per questi tre giovani, in attesa di sentirli<br />

anche alla prova live.<br />

(7/10)<br />

Giulia antelli<br />

JaMeS blackShaW - love iS the plan, the<br />

plan iS death (iMpoRtant RecoRdS, MaGGio<br />

2012)<br />

Genere: folk<br />

E’ naturale che Blackshaw cerchi da tempo di allargare lo<br />

spettro espressivo della sua musica giocando per lo più<br />

ad ampliare la tavolozza della strumentazione, anche se<br />

questo tipo di percorso ci sembra diventato ormai sterile.<br />

La figura del chitarrista solitario che gioca con le infinite<br />

tonalità del fingerpicking cominciò a stargli stretta<br />

quando fece il grande passo nel roster della Young God<br />

con <strong>The</strong> Glass Bead Game.<br />

La stanchezza di un disco come Love is the Plan, the<br />

Plan is Death si spiega quindi con uno studio estenuante<br />

sul lato formale alla ricerca di non si sa bene cosa,<br />

forse di una nota acuta di piano nel fraseggio svagatamente<br />

jazzy di And I Have Come Upon This Place by Lost<br />

Ways - con guest vocalist Geneviéve Bealieu dei Menace<br />

Ruin - o nella brutta coppia di Yann Tiersen che ci viene<br />

servita con <strong>The</strong> Snows Are Melted, the Snows Are Gone.<br />

Altra cosa quando Blackshaw posa la mano sulle corde<br />

della chitarra.<br />

Siamo pur sempre distanti dall’intensità di dischi come<br />

Sunshrine e O True Believers che qualche anno or<br />

sono, insieme a Raag Manifestos di Jack Rose, portarono<br />

alla riscoperta di Robbie Basho, ma non si può<br />

certo dire che brani come Her Smoke Rose Up Forever<br />

siano alla portata di chiunque. Eppure, tutto suona un<br />

po’ troppo automatico per uno come lui. Blackshaw ha<br />

ormai bisogno di voltare pagina, di trovare un percorso<br />

che lo riporti indietro. Magari alla semplicità dell’esordio<br />

Celeste, riletta con la maturità del professionista. Sembra<br />

facile a dirsi ma da realizzare è piuttosto difficile,<br />

considerato anche che le ultime scelte vanno esattamente<br />

nella direzione opposta.<br />

(6/10)<br />

antonello coMunale<br />

Jk fleSh - poSthuMan (3bY3, GiuGno 2012)<br />

Genere: heavy dubsteP<br />

Dopo l’aggiornamento sonico dell’ex Napalm Death<br />

Mick Harris nel 2007 con Stealth (in minor misura il successore<br />

Refuse; Start Fires), un altro membro della storica<br />

formazione di Birmingham esce allo scoperto con<br />

un progetto analogo, a fondere il solito quadrilatero<br />

industrial-ambient-metal-noise alle battute spezzate<br />

di casa Digital Mystikz e Hyperdub. JK Flash è la bestia<br />

nera di Justin Broadrick. Un moniker che a dir il vero, a<br />

punteggiatura variabile - J. K. Flesh, J.K. Flesh, JK. Flesh,<br />

JK.Flesh - avevamo già incontrato negli anni 90 e primi<br />

00s sotto svariate etichette - dalla Earache alla Mille Plateaux,<br />

da Matador alla City Slang - ma che ora soltanto<br />

emerge sotto il profilo dubstep e UK Bass.<br />

Posthuman è un album che suona esattamente come<br />

lo s’immagina: un succo di Godflesh, Techno Animal e<br />

Final aggiornati ai Duemila. La buona notizia è che il<br />

disco è solido tanto nelle parti anthemiche (le bombe<br />

Dogmatic e Idle Hands) quanto nei bordoni più technoindustrial<br />

(Earthmover con Broadrick in death grunt) o<br />

nelle pieghe più notturne (l’half step di casa Distance<br />

richiamato nella titletrack). Inoltre, la tracklist, imbastita<br />

con molta testa e artigianato, alternando stasi a drop o<br />

groove, viscere della terra e immaginario da zomby movie<br />

(Knuckledragger con le chitarre ambient, Punchdrunk<br />

dai connotati più tipicamente ambient death-metal) sa<br />

essere varia e avvincente. Non c’è niente che suoni come<br />

un riempitivo o una furba smaltata ai suoni che furono.<br />

Un Broadrick rinvigorito e galvanizzato che suonato a<br />

volumi esagerati è ancora più coinvolgente.<br />

(7.1/10)<br />

edoaRdo bRidda<br />

JoY aS a toY - dead aS a dodo (cheap<br />

SataniSM, MaGGio 2012)<br />

Genere: horror soundtrack<br />

I Joy As A Toy - terzetto belga composto da Gil Mortio,<br />

Clément Nourry and Jean Philippe De Gheest - nascono<br />

come soundtrack band e la missione di Dead As A<br />

Dodo è quella di musicare vecchi horror degli anni ‘70,<br />

con particolare riferimento a Dario Argento. Una scelta<br />

un po’ trita se vogliamo ma che avrà dalla propria una<br />

sicura nicchia di fan.<br />

Per tali fan il disco sarà un buon disco, a metà tra i synth<br />

dei Goblin e la schizofrenia dei Mr. Bungle (vedi Love<br />

Zombie, con la partecipazione di Stefania Pedretti degli<br />

Ovo) con uno spettro di influenze che varia dal Morricone<br />

più scuro agli ultimi Zombi. Tutti gli altri invece<br />

possono tranquillamente soprassedere e continuare ad<br />

ascoltarsi i Goblin, Morricone e Mr. Bungle, perché non<br />

c’è niente di nuovo dietro le tenebre.<br />

(6/10)<br />

Stefano Gaz<br />

Julian cope - pSYchedelic Revolution<br />

(headheRitaGe, febbRaio 2012)<br />

Genere: folk<br />

Psychedelic Revolution è, a detta dello stesso Julian<br />

Cope, il disco più politico che abbia mai concepito.<br />

Un doppio cd, come da tempo ci ha abituato nella sua<br />

discografia, incentrato su Che Guevara e Leila Khaled,<br />

figure simbolo delle rivoluzioni popolari occorse nel<br />

ventesimo secolo. A ben vedere è l’evoluzione di un<br />

percorso intrapreso nel 2009 con i Black Sheep, perchè<br />

già in Kiss my sweet apocalypse i due personaggi erano al<br />

centro dell’attenzione con brani che titolavano Ernesto,<br />

Che, Khaled.<br />

Siccome non sappiamo mai cosa aspettarci da quel pazzerello<br />

di Cope, diciamo subito che questo lavoro rientra<br />

nella sua discografia più compiuta, fondamentalmente<br />

un susseguirsi di ballads dipanate tra chitarra acustica,<br />

synth, mellotron e qualche fiato a corredare il tutto.<br />

Suona come uno dei migliori dischi partoriti nell’ultimo<br />

decennio. Musicalmente si ritrovano i temi tradizionali<br />

del folk inglese (la bettola vittoriana di Cromwell in<br />

Ireland, la struggente e popolare As the beer flows over<br />

me), un po’ di barocchismo vichingo (Because he was<br />

wooden) giusto per ribadire che esistesse mai un erede<br />

di Moondog lui sarebbe il primo della lista, ma soprattutto<br />

qualche graffiata degna dei tempi d’oro, che non<br />

impallidisce al confronto con i dischi storici come Fried<br />

o Peggy Suicide. Tra queste Raving on the Moor, che<br />

parte in sordina ma finisce in una spirale di ribellione<br />

e catarsi mentre fuori incalzano le esplosioni delle granate,<br />

il synth pop malinconico di X-mass in the woman’s<br />

shelter, l’ululato stonato di Roswell, o ancora Vive le Suicide,<br />

un’altra ballata dal sapore vittoriano che vive della<br />

voce carismatica di Cope.<br />

Poi ci sono i contenuti, che lo sciamano ha voluto sintetizzare<br />

così: aspettatevi storie di insurrezione, storie sulla<br />

costruzione di nuove tradizioni culturali e storie di sessimo,<br />

razzismo e specismo. Si, sia a livello intellettuale che<br />

dal punto di vista sonoro, questo è un disco che impegna<br />

profondamente l’inconscio dell’ascoltatore. In attesa di sapere<br />

cosa proporrà il lavoro gemello previsto per fine<br />

anno, Revolutionary Suicide, dategli credito.<br />

(7.3/10)<br />

Stefano Gaz<br />

Julie’S haiRcut - the Wildlife vaRiationS<br />

(tRovaRobato, MaGGio 2012)<br />

Genere: PoP kraut<br />

Prossimi al rientro in pista a tre anni di distanza dall’ottimo<br />

Our Secret Ceremony, i Julie’s Haircut solleticano<br />

l’appetito dei fan con un mini vinilico niente male. Ben<br />

saldi nelle radici di un suono costruito nel corso di una<br />

carriera lunga e rispettabile, ma mossi sempre da una<br />

irrequietezza di fondo che ne mina da dentro il tutto,<br />

portando alla ricerca e alla sperimentazione.<br />

Non un fatto nuovo per i Julie’s, quello di sperimentare<br />

forme nuove e tentazioni varie nelle produzioni corte.<br />

Solo ultimamente si possono contare le collaborazioni<br />

con Sonic Boom, prima, per il 10’ N-Waves/U-Waves, e<br />

coi Mariposa, poi, per avventurarsi nell’omaggio a Nino<br />

Rota e Jodorowsky. Ora questa variazioni sulla fauna<br />

- sorta di indagine sul rapporto uomo/natura/universo<br />

- che giocano col calembour su un doppio piano. In primis,<br />

con un immaginario filosofico-letterario che gioca<br />

con rimandi e sponde citando a vario titolo o ispirandosi<br />

a Leopardi, Yeats, Keplero, Von Humboldt e (chissà?) col<br />

saggio sulla alterazione della percezione ’<strong>The</strong> Marriage<br />

<strong>Of</strong> <strong>The</strong> Sun And Moon’ di Andrew Weil.<br />

Percezione che si dilata, com’è ormai tradizione, anche<br />

sul versante musicale del quintetto, sempre in equilibrio<br />

tra strumentazione acustica e digitale. Così tra psichedelia<br />

addolcita e incalzante (Bonfire), incanto di deliqui<br />

alien(at)i tra sussurri, ritmi jazzati e languide carezze<br />

(<strong>The</strong> Marriage <strong>Of</strong> <strong>The</strong> Sun And Moon), ossessive cifre<br />

kraut-Spacemen 3 rotte da echi del passato (Dark Leopards<br />

<strong>Of</strong> <strong>The</strong> Moon) e pop cosmico e romanticamente<br />

indolente (Johannes), i cinque mischiano sapientemente<br />

trademark e tentativi di innovazione, canovaccio ormai<br />

caratterizzante e slanci verso il nuovo. Ottimo preambolo<br />

al nuovo lavoro lungo.<br />

(7/10)<br />

Stefano piffeRi<br />

kinG tuff - kinG tuff (Sub pop, MaGGio<br />

2012)<br />

Genere: GaraGe PoP<br />

C’è da scommettere che King tuff è il disco che farà<br />

conoscere Kyle Thomas al grande pubblico. L’uomo ha<br />

già all’attivo una buona gavetta con un paio di dischi<br />

solisti, e poi collaborazioni nei Witch di J Mascis e con<br />

gli Happy Birthday, sempre in casa Sub Pop. Ora con<br />

questa nuova prova the King si sbarazza dei soliti giri<br />

psych-sixties per dare spazio alla vena più pop e cantautoriale.<br />

Sia chiaro non è un cambiamento epocale e viaggiamo<br />

di sottigliezze, eppure rimane indubbio che l’appeal di<br />

King Tuff è più commerciale ed estivo. Si trovano giri<br />

divertiti e zuccherosi replicati da Hunx (Bad Thing ma<br />

sopratutto Keep on movin’), una buona dose di vecchio<br />

rock’n’roll tirato a lucido (Strangers), e qualche passaggio<br />

più raccolto come Unusual Word.<br />

Di tutto un po’ insomma, ed ecco spiegato perché il<br />

100 101


filippo Gatti - il pilota e la caMeRieRa (SunnY bit, luGlio 2012)<br />

Genere: folk rock<br />

Nove anni son passati da quel Tutto sta per cambiare destinato ad imprimersi come uno dei gioielli misconosciuti<br />

del rock d’autore (in) italiano degli anni Zero. Un’era geologica in termini di shobiz. Perciò il ritorno sugli scaffali<br />

di Filippo Gatti col secondo lavoro solista è a parere di chi scrive una delle notizie migliori dell’anno. Diciamo subito<br />

che l’ex-Elettrojoyce non delude, dimostra uno spostamento lieve ma deciso in<br />

direzione concretezza piazzando otto tracce di folk rock autorale dal lirismo asciutto e<br />

intenso. La pensosità sanguigna del Folkstudio incontra particelle minimali Americana,<br />

estro acido funk blues e spasmi power muovendosi su una linea di confine che impasta<br />

prima di separare, cogliendo sintesi sempre credibili, frutti di una calligrafia che dietro<br />

la levigatezza delle forme nasconde il piglio brusco della necessità.<br />

Il primo singolo Tutti mi vogliono quando mi va bene stempera l’impeto incalzante del<br />

primo Venditti con turbe indie, costituendo assieme a Cattivi esempi e Non sei nessuno<br />

(echi del John Martyn più ingrugnito) il trio energico della scaletta, sempre efficaci<br />

malgrado una certa semplicità strutturale che comunque non scade mai nel banale. Semplicità che nei pezzi più<br />

quieti diventa tenerezza fiera e indolenzita, a partire da Country Song (dna Will Oldham mischiato a quello di Fossati<br />

tra slide cremose, armonica e spazzole) per arrivare a Qui (riverbero magico west coast in un incantesimo basale<br />

ossessivo Jim O’Rourke), passando dalla sardonica Lettera del cantautore ai presidenti del consiglio, da una Limbo<br />

che stuzzica memorie Tiromancino e da una title track tesa e palpitante come un sentimento clandestino. Testi<br />

al solito ad alto peso specifico malgrado l’immediatezza, interpretati col timbro caldo e febbrile che ricordavamo.<br />

Potrà rimanere deluso chi (come ad esempio il sottoscritto) sperava in un (altro) lavoro meravigliosamente schivo,<br />

più incline all’astrazione che alla sensazione. Ma da un album che va al sodo con ispirazione, dimostrando talento<br />

nella cura dei dettagli e idee chiare su come vuole suonare, non si può restare delusi.<br />

(7.3/10)<br />

Stefano Solventi<br />

disco suona più rotondo e pop, completato anche da<br />

qualche intrusione punkettina (Baby just break) e classic<br />

rock (Stupid superstar) che certifica un songwriting attestato<br />

su buoni livelli qualitativi. Per diventare la next<br />

big thing gli manca ancora qualcosa in termini di personalità,<br />

ma intanto ha posato un buon mattoncino per il<br />

futuro.<br />

(6.9/10)<br />

Stefano Gaz<br />

ktl - v (MeGo, MaGGio 2012)<br />

Genere: drone-minimal<br />

Un lungo ohm che viene dalle viscere è il modo migliore<br />

per presentare il quinto capitolo di KTL. E non<br />

solo perché la prima traccia (Phill 1) è realmente così,<br />

un drone meditativo che sembra sprigionare dal synth<br />

di un curandero. È tanto azzeccato perché prende le<br />

distanze dal metal / noise comunque occhieggiato dai<br />

primi quattro episodi della saga di O’Malley e Rehberg.<br />

E perché ci introduce al tipo di avanguardia a cui i due<br />

hanno realmente guardato per V. Quell’ohm diventa<br />

grandioso (e potrebbe figurare nel catalogo Zeitkratzer)<br />

nella versione 2, co-composta con l’islandese Jóhann<br />

Jóhannsson. Ma soprattutto si divincola ed esplicita<br />

in un lavoro di studio maniacale, fatto di ricerca dei<br />

timbri e di un minimalismo mai tanto lontano dal rock<br />

e mai tanto vicino allo stress acustico dell’harsh-noise<br />

(Study A).<br />

L’ottimo livello di qualità della ricerca sonora di Stephen<br />

e Peter non è una novità. E sapere che i due hanno<br />

ponderato con tempi più lunghi del solito il nuovo<br />

disco - e lavorato in due templi come l’EMS di Stoccolma<br />

e il GRM di Parigi - non poteva che amplificare<br />

l’aspettativa. Di fatto, abbiamo di fronte il punto più<br />

alto della loro collaborazione, e a un ascolto da appuntarsi,<br />

da prendere con cura e concentrazione, almeno<br />

nei primi secondi del trip. Il resto verrà con il trasporto<br />

garantito dall’esito della ricerca dei due, che, pregio<br />

raro ma inequivocabilmente qualità di KTL, non è<br />

mai esterna alla corporeità più massiccia della musica,<br />

pur in scenari di raffinatezza inediti. Chiude la meditazione<br />

un fuori-campo: l’accompagnamento sonoro<br />

a una installazione di Gisèle Vienne, tenuta in climax<br />

costante dallo spoken teatrale di Jonathan Capdevielle.<br />

Un ritorno all’inquietudine dell’umanità, dopo averci<br />

assordato con l’astrazione.<br />

(7.3/10)<br />

GaSpaRe caliRi<br />

laetitia SadieR - Silencio (dRaG citY,<br />

GiuGno 2012)<br />

Genere: avant PoP<br />

Due anni son passati dall’inizio del trip solitario di Laetitia,<br />

dismesso il progetto Monade e messi a frollare<br />

criogenicamente gli Stereolab (in attesa forse di un<br />

futuro più adeguato), ed ecco il sophomore Silencio<br />

a ricordarci che la cantante francese non ha voglia di<br />

consegnarsi alla Storia anzi ha qualche motivo per rivendicare<br />

attualità ai propri... motivi. Il principale è forse la<br />

particolare contingenza storica, la marea speriamo non<br />

vana dei vari “occupy” che fermentano qui e là una rinnovata<br />

critica al sistema sociale ed economico. Laetitia<br />

ci sguazza e ne fa rapimento impegnato, levigando il<br />

tutto con la consueta solennità marmorizzata di aciderie<br />

cosmiche vintage blasé.<br />

Dribblando tuttavia la trappola del monocorde che<br />

stava giusto dietro l’angolo, anzi squadernando un bel<br />

ventaglio di suggestioni: dalla bossa ruspante in un<br />

trepido luccichio Terry Riley di Between Earth and Heaven<br />

alla Nico col patema french, le vaghezze kraute<br />

e le pennellate eniane di Merci de m’avoir donné la vie;<br />

dal post-tribalismo stecchito funky à la David Byrne<br />

di Fragment pour le future de l’homme al Robert Wyatt<br />

in bilico tra Radiohead e Jefferson Airplane di <strong>The</strong><br />

Rule of the Game, passando quindi dalle glasse spacey<br />

di Silent Spot (Badalamenti ipnotizzato Zero 7), dalla<br />

fragranza indolenzita di Next Time You See Me (un fiore<br />

malsano Cobain nel bouquet Stereolab) e dalla levitazione<br />

synth-wave con marezzature psych/downtempo<br />

di <strong>The</strong>re is a Price to Pay for Freedom (and it isn’t Security).<br />

La maturità ha regalato alla Sadier - compositrice e interprete<br />

- uno spiegazzato calore, una sparsa pastosità,<br />

un tumulto sottopelle che rendono plausibili pezzi<br />

come Find Me the Pulse of the Universe (Veloso rapito<br />

dagli alieni) o la mestizia jazzy di Lightning Thunderbolt.<br />

Tuttavia le mancano (ancora) quei grammi di empatia<br />

che la liberino dal proprio castello incantato di teoremi e<br />

ossessioni. Il gioco della radical chic con le sinapsi prensili<br />

e l’erotismo differito rischia di rinchiuderla ermeticamente<br />

in una bara di vetro, assieme a quel silenzio che<br />

ossimoricamente c’invita a riscoprire come chiave per<br />

riscoprirci.<br />

(6.6/10)<br />

Stefano Solventi<br />

lauRel halo - quaRantine (hYpeRdub<br />

RecoRdS, MaGGio 2012)<br />

Genere: hyPnaGoGica<br />

Nata 26 anni fa ad Ann Arbor, Michigan, vero nome Ina<br />

Cube (ma ci crediamo poco), Laurel Halo ha alle spalle<br />

una formazione classica - ha studiato pianoforte - e<br />

anni di esperienza in orchestre, ensemble impro e gruppi<br />

noise. Dal 2009 è attiva a Brooklyn come producer: due<br />

EP su Hippos in Tank tra 2010 e 2011 (Hour Logic, esaltato<br />

dalla critica) e poi la superjam di lusso Frkwys vol.<br />

7, su Rvng Intl., incontro tra elettroniche, tra tradizione<br />

e contemporaneità, synthorama registrata nell’agosto<br />

2010 assieme a James Ferraro, Daniel Lopatin, David<br />

Borden (compositore minimalista, fondatore - anno 1969<br />

- dell’ensemble synth-only Mother Mallard’s Portable Masterpiece<br />

Co., amico personale di Robert Moog e oggi<br />

prof universitario) e Samuel Godin (compositore, sound<br />

designer, turnista per tanti artisti soprattutto black, da<br />

George Clinton a Lauryn Hill, autore di sigle tv e di jingle<br />

per colossi come la Pepsi). Kode9 adocchia Laurel e<br />

la mette nel mucchio dei nuovi volti con cui da qualche<br />

tempo sta riposizionando l’immagine della propria label.<br />

Questo 14esimo LP Hyperdub non è il magnifico compimento<br />

di un percorso difficile e accidentato (ovviamente<br />

stiamo parlando degli Hype Dean e Inga e di Ebony),<br />

ma è un buon lavoro di hypnagogica e un ottimo<br />

debutto. Introdotti dalle icastiche Harakiri Schoolgirls di<br />

Makoto Aida, ci troviamo immersi nell’ennesimo fluttuoso<br />

galleggiare tra sonno, sogni e ricordi targato anni<br />

duemilaedieci. Laurel non crea la tensione narrativa dei<br />

cugini Hype, ma sa dosare molto bene gli elementi e<br />

costruire con sapienza le atmosfere. Ne viene fuori una<br />

specie di world music amniotica e metropolitana, come<br />

un Jon Hassel sperduto tra i grattacieli e le vetrine della<br />

Grande Mela, come una Oxyegene di Jarre ripensata<br />

per la hipster generation (questa definizione l’abbiamo<br />

rubata al “Guardian”), come una Kate Bush - riferimento<br />

citato da molti e che qui esplode in uno dei pezzi più<br />

lunghi ed elaborati del disco, Carcass - ambient e dreamy<br />

messa a cantare dentro My Life in the Bush of Ghosts.<br />

Tanti ottimi bignamini hypn che restano in testa, un po’<br />

confusi tra loro come è giusto che sia (il mantra Airsick,<br />

gli specchietti come coriandoli di Years e Joy, i Sa-Ra remixati<br />

da Cristian Vogel di MK Ultra, i palpiti di Morcom,<br />

le stratificazioni vocali di Tumor e Light + Space), e qualche<br />

intermezzo un po’ troppo esercizietto (Thaw, Wow,<br />

Holoday, Nerve), ma in fondo funzionale, per un disco<br />

che ci fa taggare Laurel non più solo come la fidanzata<br />

di mr. Oneohtrix Point Never.<br />

(7/10)<br />

GabRiele MaRino<br />

102 103


lazeR SWoRd - MeMoRY (MonkeYtoWn<br />

RecoRdS, MaGGio 2012)<br />

Genere: modern beats<br />

È ora di riconoscere un importante merito al 2011 elettronico,<br />

ossia quello di aver consolidato un’estetica di<br />

ricerca modern beats grazie a dischi cult della nuova<br />

generazione come quelli di Rustie, Machinedrum, SB-<br />

TRKT o Sepalcure. I frutti post-dubstep e post-wonky<br />

dell’anno scorso han costituito un sostrato di base capace<br />

di staccare con l’avantieri e dar l’assist allo stuolo<br />

di giovani producers di oggi quali Jam City, MYRRYRS,<br />

Submerse, Girl Unit, Duct, tutti dediti all’indagine intelligente<br />

sui nuovi ritmi senza inseguire con nettezza<br />

né ambizioni strettamente dance né alleggerimenti lato<br />

puro listening (come il soul tanto battuto fino a poco<br />

tempo fa).<br />

La Monkeytown ha a riguardo due cavalli di razza,<br />

Phon.o (prossimo al primo album) e i Lazer Sword. Di<br />

questi ultimi abbiam già apprezzato talento e inventiva<br />

nel 2010 con l’album omonimo, ma il ritorno li vede protagonisti<br />

di un piglio più sperimentale e acuto, aperto a<br />

interpretazioni ben ambiziose: un sound liquido capace<br />

sia di momenti di carica emotion come Better From<br />

U (riecco appunto il soulstep di SBTRKT) e Sky Burial<br />

(astrazioni e virogi ritmici su stile libero UK bass), sia di<br />

durezze lato electro come Point <strong>Of</strong> Return (vecchia scuola<br />

Detroit, vero, ma che grinta) e Pleasure Zone (sembrano<br />

umori deep ma in realtà è tech-house d’impronta<br />

Hotflush). Coscienza storica, eleganza ma anche senso<br />

di appartenenza all’euforia dei tempi moderni.<br />

Memory vanta anche due collaborazioni d’eccellenza,<br />

Let’s Work con Jimmy Edgar in pieno stile Majenta e<br />

CHSEN con un Machinedrum particolarmente appuntito,<br />

più un paio di spunti inafferrabili, vedi i breaks di<br />

Toldyall che tra bassline e schizzetti soul rinnovano gratitudine<br />

al footwork oppure gli spasmi incontrollati di<br />

Missed A Spot, che spezzano le catene eppure restano<br />

al loro posto, una corsa che non vuole inseguire alcuna<br />

traiettoria nota. Pura esibizione di mezzi e attitudini personali.<br />

Forse la forma non è ancora pienamente definita,<br />

ma tira aria di novità in questo 2012.<br />

(7.1/10)<br />

caRlo affatiGato<br />

linkin paRk - livinG thinGS (WaRneR MuSic<br />

GRoup, GiuGno 2012)<br />

Genere: ‘00s rock fm<br />

I Linkin Park sono stati, assieme ai Coldplay, il gruppo<br />

che ha venduto più album durante gli anni zero. Dopo<br />

aver dato la mazzata definitiva alla credibilità del movimento<br />

nu metal con il best-seller Hybrid <strong>The</strong>ory - che<br />

comunque era un buon contenitore di singoli - replicarono<br />

la formula con successo in Meteora. Seguì poi<br />

la U2-izzazione (che non ha risparmiato neanche l’altro<br />

nome citato in precedenza) del dimenticabilissimo<br />

Minutes to Midnight e l’enorme pasticcio - spacciato<br />

da alcuni addirittura come album sperimentale... - di A<br />

Thousand Suns, colpevole di aver fatto ulteriormente<br />

calare le quotazioni della band americana anche a livello<br />

di charts.<br />

Due anni dopo e con una macchina promozionale, fortunatamente<br />

e giustamente ridimensionata, tornano<br />

con il quinto album Living Things, prodotto in compagnia<br />

dell’ormai fidato Rick Rubin.<br />

Living Things è sotto molti punti di vista un ritorno ai<br />

territori meno impervi, quelli che hanno fatto la fortuna<br />

di Chester Bennington e compagni: melodie easy-listening,<br />

break hip-hop, chorus da mano sul cuore ed elettronica<br />

funzionale alla forma canzone. Probabilmente<br />

più coeso rispetto alle ultime due uscite, Living Things<br />

porta a zero l’effetto sorpresa: stacchi, armonie, bridge e<br />

ripartenze sono talmente rodate e prevedibili da strappare<br />

addirittura qualche amaro sorriso.<br />

I creatori di Anime Music Videos si staranno già sfregando<br />

le mani e probabilmente anche i fan apprezzeranno,<br />

ma - nostalgie a parte - chi li amava dieci anni fa ormai<br />

dovrebbe aver raggiunto un livello di maturità che inevitabilmente<br />

contrasta con un prodotto di questo tipo.<br />

Con i Nickelback uno dei più grandi rock-bluff degli<br />

ultimi due decenni.<br />

(4.5/10)<br />

RiccaRdo zaGaGlia<br />

Mail and chocolate - Mail and chocolate<br />

(MaG-MuSic, MaGGio 2012)<br />

Genere: chamber PoP<br />

L’aspetto più interessante dell’esordio di Mail And Chocolate<br />

- al secolo, Alessandra Meneghello, Silva Cantele,<br />

Elisa De Munari (già Le-Li) - è l’estrema naturalezza che<br />

dimostra nell’intercettare immaginari completamente<br />

differenti. Prendete la formazione: contrabbasso, pianoforte<br />

e chitarra elettrica per un chamber pop che,<br />

nelle intenzioni, non immaginereste poi così distante<br />

da quello di band come i Comaneci. E invece, dal punto<br />

di vista dei richiami sonori, si va a parare da tutt’altra<br />

parte, come dimostra una <strong>The</strong> Smile Anthem che cita i<br />

Sodastream e i crescendo dei Sigur Rós o una Postman<br />

in cui Jonathan Richman sonorizza Buster Keaton sul<br />

pianoforte scherzoso della Beatrice Antolini dei primi<br />

dischi. Non è tutto, visto e considerato che Pretex riesce<br />

a scomodare il punk pur rimanendo dalle parti di<br />

Carlot-ta, Chocolate Girl fa il verso ai System <strong>Of</strong> A Down<br />

heRMetic bRotheRhood of lux-oR - ethnoGRaphieS vol ii. MuSèe de l’hoMMe heRMetique<br />

(tRaSponSonic, MaGGio 2012)<br />

Genere: free-noise<br />

Della folle congrega sarda facente capo alla Trasponsonic abbiamo già avuto modo<br />

di parlare. Ma ogni uscita, pur diradata nel tempo rispetto ai pirotecnici esordi, del<br />

collettivo di innominati e innominabili è degna della massima considerazione. Specie<br />

se, come nel caso di questo Ethnographies Vol. II, non si parla di un album a concetto<br />

bensì di due album distinti riuniti sotto la volta dell’indagine etno-antropologica che<br />

il collettivo sta svolgendo sulla propria terra d’origine, trasformata quasi in paradigma<br />

vivente della decadenza del mondo occidentale, affrontata trasversalmente sotto la<br />

lente distorcente della musica “industrial” tutta.<br />

Due nuovi capitoli, dicevamo: Jesus And John Wayne e And Justice For Hollywood, ovvero due (non)luoghi/stati<br />

della mente tipici dell’isola. Da una parte il deserto, dall’altra le fabbriche con in mezzo un legame apparentemente<br />

distante ma in realtà saldissimo: quello dell’essere ’antitetici fratelli in terra sarda’, vere e proprie ’cattedrali sulla<br />

sabbia’.<br />

Il primo come stato della mente, luogo di perdizione e espiazione, scenario di vecchi western riproposti nell’attualità<br />

con un procedimento che sa di quella hypnagogia oggigiorno tanto cara. Roba che si esprime musicalmente in<br />

quattro lunghissime suite d’impostazione free-psichedelica, in cui effluvi pagani e rimandi ancestrali riuniscono su<br />

un stesso terreno - sabbioso, ovviamente - Current 93 (Hyperion Sunset) e psichedelia desertica post-Morriconiana<br />

(HydrogenWhiskey, un Neil Young baritonale abbandonato da Jodorosky nelle location de El Topo), litanie spirituali<br />

che guardano ad oriente, come se gli Om fossero cresciuti tra carcasse di fabbriche e desolazione in Barbagia (Gravity<br />

Sucks), ohm malefici e ossessivi (Orbitronio).<br />

Sempre dilatato ma più radicale il contenuto di And Justice For Hollywood, per forza di cose legato ad un aspetto<br />

industriale, materico e ossessivo delle fabbriche disseminate sul territorio sardo e ricalcato sui sette peccati<br />

capitali. Musica retta sul filo rosso che dai TG arriva ai Liars, passando per Godflesh e Scorn, in cui riecheggia una<br />

versione nostrana della Sheffield cara ai Cabaret Voltaire. Roba da catena di montaggio, come nell’opener Azure<br />

Acedia - i Test Dept dei tempi andati che jammano con gli Swans di Cop o Greed? - e densa di fumi tossici come<br />

nella maggior parte delle tracce tra epiche cavalcate tribal-noise (Red Ira) e groovey (Blue Luxuria). La disillusione<br />

per uno sviluppo industriale mancato che si trasforma in archeologia invadente, il crollo dell’ideale del progresso,<br />

la decadenza visibile nel disfacimento del costruito, trova la sua catarsi nei 34 minuti della ciclopica chiosa di Yellow<br />

Avaritia, tra ambient mefitica, risuonare sinistro di sirene d’allarme, metalliche percussioni che sono eco lontano di<br />

un american dream trasformatosi in world night mare su cui scende una pioggia acida di white noise.<br />

Più che un disco, una vera e propria ricognizione nel passato/presente di una terra che, ci ripetiamo, è esempio,<br />

micro-mondo atonale e ruvido, di un sistema in overdrive e molto prossimo al collasso. Sipario.<br />

(7.8/10)<br />

Stefano piffeRi<br />

senza usare un solo overdrive di chitarra, Set Free e Let<br />

All <strong>The</strong> Children Play riportano tutto entro i canoni di una<br />

musica da camera immaginifica e con qualche influenza<br />

post rock.<br />

In allegato, un’irruenza nei suoni senza tanti filtri che<br />

giova alla personalità ma paga pegno in termini di ricerca<br />

formale: adattare la musica da camera ai ritmi più<br />

sghembi senza perdere eleganza e creatività si può,<br />

come hanno dimostrato anche i primi Quintorigo. I<br />

Mail and Chocolate sopperiscono con una freschezza<br />

contagiosa che limita i danni - su certi arrangiamenti si<br />

sarebbe forse dovuto lavorare di più - e rappresenta un<br />

ottimo punto di partenza.<br />

(6.7/10)<br />

fabRizio zaMpiGhi<br />

Man foReveR - panSophical cataRact<br />

(thRill JockeY, MaGGio 2012)<br />

Genere: drum madness<br />

Dietro l’oscuro moniker si nasconde una personalità ben<br />

nota dell’underground americano. Man Forever è infatti<br />

il progetto (quasi) solista di John Colpitts, ai più noto<br />

104 105


come Kid Millions, ovvero batterista e membro fondante<br />

dei campioni Oneida uso a trastullarsi come multistrumentista<br />

con altre band del giro cittadino (vedi alla voce<br />

Akron/Family).<br />

Pansophical Cataract, terzo album a nome MF e primo<br />

per Thrill Jockey, consta di sole due tracce, lunghissime<br />

e sfiancanti in cui il nostro mette a fuoco l’idea primigenia<br />

del progetto MF: esplorare i limiti della ’drum<br />

performance’ cercando di investigare le sfumature della<br />

musica reiterata. Missione compiuta, dato che le due<br />

tracce di cui sopra, per le quali Millions si avvale, al solito,<br />

di numerosi batteristi - Brian Chase degli Yeah Yeah<br />

Yeahs, Ryan Sawyer degli Stars Like Fleas, Greg Fox dei<br />

Liturgy - e altrettanti strumentisti - Richard Hoffman dei<br />

Sightings al basso, Shahin Motia (Ex Models, Oneida)<br />

e James McNew (Yo La Tengo) alle chitarre - è un tour<br />

de force in quella sottotraccia tribal che l’underground<br />

newyorchese ha dimostrato di amare alla follia. Vedi alla<br />

voce 77Boadrum o new tribal america tutta.<br />

Ridotte al minimo sindacale per riempire i solchi di un<br />

vinile, Surface Patterns e Ur Eternity sarebbero da apprezzare<br />

nella loro sede più confacente, ossia quella live. In<br />

cui cioè il maelstrom percussivo, reiterato e ossessivamente<br />

minimale raggiunge spesso i 30 o 40 minuti col<br />

collettivo che si amplia a dismisura, proprio come una<br />

versione ridotta dei citati happening cittadini voluti dai<br />

Boredoms.<br />

Il risultato non è quello auspicato - la ’rendition punk-infused<br />

della Metal Machine Music loureediana per sole<br />

batterie’ - ma probabilmente è il medium a troncare la<br />

modalità trance-inducing che una musica del genere<br />

può e vuole sortire. In mancanza di un live sottocasa,<br />

accontentiamoci di un lavoro che, pur partendo da presupposti<br />

diversi, ha molto in comune con le ricerche<br />

della casa madre e che si fa apprezzare anche per la coraggiosa<br />

volontà di superare il ’rock’ senza perderne di<br />

vista mai il succo e l’attitudine demistificatoria e “punk”.<br />

(6.7/10)<br />

Stefano piffeRi<br />

MaRoon 5 - oveRexpoSed (a & M, GiuGno<br />

2012)<br />

Genere: hateful PoP<br />

Si chiamavano Kara’s Flowers ed erano una sorta di<br />

power-pop band post-Weezer. Un solo album - <strong>The</strong><br />

Fourth World - prima di cambiare il nome in Maroon 5.<br />

Nel 2002 l’album di debutto con il nuovo moniker, quel<br />

Songs About Jane esploso due anni più tardi - anche<br />

in Italia - grazie ad una sequenza di singoli decisamente<br />

azzeccata (Harder to Breathe, This Love, She Will Be Loved<br />

e Sunday Morning). Cifre enormi che non seppero bissa-<br />

re né con It Won’t Be Soon Before Long né con il successivo<br />

Hands All Over, un vero fallimento prima che<br />

venisse ripubblicato con all’interno la terribile hit Moves<br />

Like Jagger con la partecipazione di Christina Aguilera.<br />

Rispetto ad altri nomi mainstream pop-rock/funk (Red<br />

Hot Chili Peppers o Lenny Kravitz) i Maroon 5 hanno<br />

da sempre avuto un tipo di appeal smaccatamente<br />

pop, un aspetto che viene ulteriormente esasperato nel<br />

quarto disco Overexposed.<br />

Come altri pop acts, anche Adam Levine e compagni<br />

si sono fatti aiutare sia in fase di scrittura che di produzione<br />

da svariati colleghi quali Max Martin, Benny Blanco<br />

Ryan Tedder e Shellback. Come nel caso dei Linkin<br />

Park, siamo di fronte ad una variante del concetto di<br />

boy band.<br />

Musicalmente Overexposed, se possibile, abbassa nuovamente<br />

la credibilità della band andando a seguire e<br />

in modo risibile il soldo facile: l’opener One More Night<br />

potrebbe essere un pezzo di Rihanna, Payphone è il<br />

cervello che si spegne e in Daylight vorrebbero essere i<br />

Coldplay (gli ultimi, sfortunatamente) ma l’odiosa voce<br />

di Adam non è certo accogliente quanto quella di Chris<br />

Martin (vedi anche gli o-o-oooh di <strong>The</strong> Man Who Never<br />

Lied).<br />

Ritmi uptempo a cassa dritta al limite del trash-dancepop<br />

(Fortune Teller, Doin’ Dirt), qualche smorfia black<br />

‘80s mista a moderno soul-funk (Ladykiller) e un paio<br />

di ballads finto-malinconiche (Sad) sono gli ingredienti<br />

base di Overexposed, un disco in cui l’ormai quarantatreenne<br />

Adam Levine gioca sempre più a fare l’idolo<br />

delle teenager. Entro breve nei cestoni degli autogrill...<br />

(3.9/10)<br />

RiccaRdo zaGaGlia<br />

MiSS o - infection (addictive noiSe<br />

RecoRdS, MaGGio 2012)<br />

Genere: triP hoP<br />

La O della ragione sociale è Odette Di Maio, già voce<br />

dei Soon negli anni ‘90. Una volta scioltosi il guppo di<br />

Scintille, Odette è passata tra varie esperienze e collaborazioni<br />

(finendo anche nella colonna sonora di CSI<br />

Miami con i Bedroom Rockers) che ad un certo punto<br />

l’hanno portata ad incontrare il belga Jan De Block, col<br />

quale nel tempo ha creato (anche a distanza, come vuole<br />

la pratica della musica ai tempi di internet) il materiale<br />

di questo disco e il duo che ne è titolare.<br />

Rispetto alla vecchia band è sparita la vivacità pop-rock<br />

che la rendeva degna coesordiente dei Prozac + (benché<br />

fossero molto diversi), a vantaggio di un’elettronica<br />

che nei Soon compariva solo occasionalmente; eppure<br />

non siamo così lontani dagli anni ‘90.<br />

JheRek biSchoff - coMpoSed (leaf, GiuGno 2012)<br />

Genere: PoP orchestrale<br />

Jherek Bischoff da Seattle è produttore e arrangiatore (per Evangelista, Xiu Xiu, Parenthetical Girls...), autore di<br />

soundtrack per videogames nonché bassista per i Dead Science. Uno insomma che la musica la crea con premesse<br />

e obiettivi particolari, approdando ad esiti ampiamente e diversamente pop, casomai pervasi d’immaginario<br />

orchestrale cinematografico, di quello che nella cultura USA ha spennellato celluloide fino a diventarne il naturale,<br />

immancabile riverbero. Come già accadde sei anni fa, l’uomo si è fatto prendere dal ghiribizzo di confezionare un<br />

album di nove tracce, ma diversamente da quell’omonimo esordio le canzoni hanno<br />

un titolo e usufruiscono del prezioso contributo di pregiati ospiti.<br />

Jherek sceglie l’approccio giusto alla materia, si mette abilmente al servizio di sensibilità<br />

diverse e variamente alternative (da David Byrne a Dawn McCarthy passando da Carla<br />

Bozulich a Caetano Veloso...) che conduce lungo le sontuose scenografie da lui stesso<br />

escogitate. Presenza ad un tempo immanente e impalpabile, ordisce trame dietro le<br />

quinte e conduce le danze dal piedistallo del direttore d’orchestra con un gesto solo.<br />

L’ambito musicale che ne ottiene è ricco e credibile, coeso ed affascinante, come se<br />

il campionario d’inquietudini e suggestioni che emozionava i nostri padri (e i di loro<br />

padri) galleggiasse nello stesso torbido calderone degli sperimentatori pop-rock dei decenni successivi. Ci riferiamo<br />

certo alla milonga maliarda allestita assieme a Byrne nella sontuosa Eyes, ma più ancora alle vampe languide e<br />

alle cupezze in minore di quella Blossom che sfrigola di scorie art-wave grazie anche alla calligrafia chitarristica di<br />

Nels Cline, oppure ad una Young And Lovely che incalza a passo di carica Arcade Fire (in un tripudio da brass band<br />

paradisiaca) prima d’incantarsi in una fatamorgana jazzy gershwiniana (imprescindibile il contributo vocale di Zac<br />

Pennington e della cantante e attrice francese Soko).<br />

Altrove ci s’imbatte in un Veloso che si aggira con cauta arguzia tra impressionismi romantici e disarticolazioni sintetiche<br />

quasi <strong>The</strong> Books (<strong>The</strong> Secret <strong>Of</strong> <strong>The</strong> Machines), in una Bozulich che sfoglia petali folk saturi d’apprensione<br />

come una Kate Bush fanciulla (Counting), in quella specie di power-pop cameristico - l’anello di congiunzione tra<br />

Antony e Alex Chilton? - tratteggiato con stordente leggerezza da Craig Wedren (degli Shudder to Think) in Your<br />

Ghost. A chiudere, la ieratica freakeria di Insomnia, Death And <strong>The</strong> Sea, empito Peter Hammill, tenerezza solenne<br />

Joanna Newsom e progressione marziale per l’interpretazione di una quanto mai ineffabile McCarthy (vocalist dei<br />

Faun Fables).<br />

A stare stretti è un gran bel disco di pop assieme “alto” e “altro”, ma allargando un po’ la prospettiva potrebbe persino<br />

rappresentare un episodio emblematico del sound anni Dieci, in grado di compiersi al massimo della potenza<br />

espressiva rielaborando elementi classici senza necessariamente pagare dazio alla post-modernità. Benvenuti nel<br />

decennio della neo-tradizione? Staremo a sentire (ascoltare).<br />

(7.5/10)<br />

Stefano Solventi<br />

Il disco infatti, pur usando spesso strumenti “veri” (col<br />

piano al centro di molti pezzi, o la chitarra col tremolo),<br />

si colloca nell’ambito del trip-hop che ai tempi del primo<br />

gruppo di Odette conosceva la sua stagione d’oro, quella<br />

dei gruppi che già da qualche anno annunciavano<br />

un pezzo di revival 90s (l’attesto terzo dei Portishead,<br />

la reunion dei Lamb, o la nuova ispirazione di Tricky).<br />

La loro declinazione del genere passa dalla classicità<br />

delle iniziali In Motion e Talk To Me al pop accennato<br />

(Sensitivity), malinconico (<strong>The</strong> Girl) e riflessivo (My Wildest<br />

Time, con accenni di Morricone) con una spolverata<br />

qua e là di Rickie Lee Jones o Suzanne Vega (<strong>The</strong><br />

Country), alle venature quasi bucoliche di Butterfly, con<br />

l’occasionale virata del divertissement sotto forma di<br />

blues lynchiano in Night Ride.<br />

I testi intimisti e il tono generale sommesso fanno del<br />

disco una sorta di versione sonora del “grembo nettuniano”<br />

evocato appunto in <strong>The</strong> Neptunian, ossia un<br />

luogo confortevole dove ritrovarsi, coccolati da un pop<br />

delicato ed elegante.<br />

(7/10)<br />

Giulio paSquali<br />

106 107


MoRitz von oSWald/vladiSlav delaY/Max<br />

lodeRbaueR - MoRitz von oSWald tRio -<br />

fetch (honeSt Jon’S RecoRdS, GiuGno 2012)<br />

Genere: electro-Jazz<br />

Non si ferma la macchina di Maurizio e co. Quarto disco<br />

(e secondo dal vivo) per il combo techno-meets-duband-jazz,<br />

registrato in sole quattro ore lo scorso agosto.<br />

Fetch presenta quattro lunghi pezzi jammati che confermano<br />

le capacità tecniche dei tre, con l’aggiunta del<br />

bassista ECM Marc Muellbauer (già presente in Horizontal<br />

Structures) e del musicista elettronico Tobias<br />

Freund (collaboratore fisso da Vertical Ascent) e con in<br />

più anche gli overdub di flauto, clarinetto e sax di Jonas<br />

Schoen e la tromba di Sebastian Studnitzky.<br />

Descrivere le tracce è facile: Jam è un tunnel dark ritmato<br />

dalle percussioni ostinate di Ripatti che svisa con<br />

trombe e organetti Farfisa 70, Dark è un passaggio<br />

rumoristico, incuneato su posizioni catacombali che<br />

prelude alla seconda parte del set, più votata alle reminiscenze<br />

berlinesi technoidi (Club) o tribali che siano<br />

(Yangissa).<br />

I dischi del trio stanno diventando diari live compatti,<br />

veloci e intensi. La destinazione diventa sempre più sperimentale<br />

e mima quello che Miles Davis aveva fatto<br />

dopo la svolta elettrica di Bitches Brew: chiamare a sè<br />

una cricca scelta di turnisti del momento per improvvisare<br />

e far nascere nuove idee dallo scontro di stili e poetiche<br />

musicali apparentemente agli antipodi. Là c’era<br />

la contrapposizione tra jazz e rock psichedelico, oggi il<br />

jazz viene trafitto dalle armi ritmiche del clubbing. Che<br />

questa sia una delle possibilità della musica elettronica<br />

contemporanea può anche starci, ma dopo un’ora di<br />

jam, viene un dubbio sulla longevità del documento<br />

sonoro che abbiamo davanti.<br />

Fissare su un supporto (/cristallizzare) l’improvvisazione<br />

è sempre rischioso, a meno di eccellenze. Per questo<br />

ensemble sembra più corretto andare sotto al palco a<br />

percepire le good vibrations; per il mentasm conviene<br />

tornare dietro alle consolle...<br />

(6.8/10)<br />

MaRco bRaGGion<br />

Mount eeRie - cleaR Moon (p.W. elveRuM &<br />

Sun, MaGGio 2012)<br />

Genere: sonGwriter<br />

Lo sguardo attonito verso la drammatica indifferenza<br />

dell’universo; il millimetrico e angoscioso spostarsi degli<br />

oggetti del quotidiano, mentre l’uomo - un uomo - resta<br />

fermo; il dubbio, poi, angoscioso, che forse siamo noi a<br />

non prestare attenzione mentre il mondo intorno vibra<br />

e respira di piccoli grandi mutamenti.<br />

Phil Elvrum, aka Mount Eerie - ex Microphones, dai<br />

quali eredita il moniker recuperandolo dal titolo di un<br />

loro album - confeziona il suo lavoro più domestico e<br />

intimo. Cantautorato evoluto affollato di dettagli, spesso<br />

affogato nella lentezza, sottilmente apocalittico se si<br />

presta attenzione alle tensioni che si muovono ’dietro’<br />

(ma anche ’davanti’, in brani come Clear Moon), in retrovie<br />

armoniche ben mascherate dai timbri affabili delle<br />

chitarre, delle tastiere avvolgenti, delle batterie mutate<br />

e ovviamente della voce leggera ma assolutamente<br />

pregnante.<br />

Molte le sfumature, pur all’interno di uno stesso pensiero.<br />

Folk rurale e malinconico nella apertura affidata a<br />

Through the Trees pt.2, tra Eluvium e Steve Von Till, ma<br />

anche tappeti liquidi e oscuri bordoni badalamentiani<br />

nascosti nella calma, come in <strong>The</strong> Place I Live e Yawning<br />

Sky; o ancora, quando le ritmiche si accentuano, ecco il<br />

Nostro passare a registri di un’avanguardia pop ricca di<br />

inquietudine e tensione (Lone Bell, House Shape).<br />

Nel complesso, laddove il precedente Wind’s Poem regalava<br />

interferenze provenienti dalla musica estrema, con<br />

distorsioni brutali a creare una frattura che si è (purtroppo?)<br />

persa, oggi apprezziamo una scrittura più a fuoco,<br />

piacevolmente tentata dalle delizie della melodia, raro<br />

convergere di grazia sonora e intensità emotiva.<br />

(7.4/10)<br />

antonio laudazi<br />

MouStache pRaWn - biScuitS (piccola<br />

botteGa popolaRe, GiuGno 2012)<br />

Genere: indie rock<br />

Trio pugliese vincitore delle selezioni regionali di Italia<br />

Wave 2011, i Moustache Prawn affidano il loro esordio<br />

ad una piccola - come dice il nome - realtà dei loro<br />

dintorni, più associazione culturale che vera e propria<br />

etichetta discografica. Questa dimensione locale rischia<br />

però di durare poco: il disco infatti ha tutte le potenzialità<br />

per ottenere riscontri ben più ampi, come pare stia<br />

già accadendo.<br />

Senza grosse rivoluzioni musicali o idee clamorose, i nostri<br />

mettono insieme un disco efficace. La voce del cantante,<br />

molto Casablancas anche in senso positivo (ossia<br />

nell’abilità con cui oscilla tra slacker e sorrisetto, ruvidità<br />

e divertimento), ben esemplifica ciò che i MP fanno con<br />

buona verve: un rock essenziale che oltre appunto agli<br />

Strokes (l’opener Oil, Mixer) sa guardare ai primissimi<br />

Cure (Crucus) o all’indie anni 00, in particolare a quello<br />

che si rifà al post-punk più grintoso (i cambi di tempo di<br />

Never Think So Long, primo video del disco, i Bloc Party<br />

di Aeroplane, una vaga aria generale tra Arctic Monkeys<br />

e Vaccines).<br />

Ciò che ci impedisce di rigirare al gruppo il titolo Is This<br />

It? chiedendo appunto “tutto qui?” non è solo la disinvoltura<br />

e la spigliatezza con cui superano il già sentito,<br />

quanto certe aperture che per il futuro lasciano immaginare<br />

buoni sviluppi e allargamento della paletta: vedi<br />

una A Lucky Charm tra Lennon, Nashville e i Coral o<br />

lo psych soleggiato e pigro della conclusiva Nail Hand<br />

Wrist.<br />

Per un esordio va più che bene così.<br />

(7/10)<br />

Giulio paSquali<br />

neil YounG/cRazY hoRSe - neil YounG & the<br />

cRazY hoRSe - aMeRicana (WaRneR MuSic<br />

GRoup, GiuGno 2012)<br />

Genere: folk rock<br />

Neil Young non può essere certo definito uno sperimentatore.<br />

Nella sua carriera si è limitato - si fa per dire - ad<br />

esplorare il proprio linguaggio sostanzialmente folk rock<br />

ed i suoi riflessi anche distorti nell’immaginario popolare,<br />

bazzicando estremi soul e punk con sporadiche<br />

digressioni noise ed electro, queste ultime a dire il vero<br />

abbastanza dimenticabili. Nei suoi ultimi lavori ci s’imbatte<br />

spesso in un piglio lo-fi che potremmo quasi definire<br />

dopolavorista, sorta di noncuranza programmatica<br />

che pone l’accento sullo zampillio ruspante del verbo<br />

rock in brusca opposizione alla professionalità standard<br />

di tanta produzione contemporanea. I risultati quasi mai<br />

sono stati all’altezza del passato, ma se non altro tradiscono<br />

un’ansia di cavalcare musica che va al sodo senza<br />

niente concedere ad autoindulgenze e narcisismi vari,<br />

e che ci ha condotti di gran carriera all’album numero<br />

34 - !!! - firmato dall’ineffabile canadese, per l’occasione<br />

di nuovo in sella ai sempre dirompenti Crazy Horse.<br />

Con Americana però Young scopre ancora più le carte<br />

del suo gioco e ci offre una tappa nuda e cruda del<br />

suo “journey through the past”, pescando dal calderone<br />

della memoria (personale e collettiva) undici pezzi che<br />

hanno accompagnato in modi e tempi diversi la Storia<br />

- appunto - americana. Molti i pezzi definibili come<br />

traditional (una Oh Susanna irruente come una trafelata<br />

rilettura di Venus, la macabra baldanza di Gallows Pole,<br />

una ombrosa She’ll Be Coming Round the Mountain e<br />

l’innodia fiera di This Land Is Your Land con nientepopodimeno<br />

Stephens Stills ai cori...), ma anche doo wop<br />

proletari (Get A Job) e archetipi psych-folk (una intensa<br />

High Flyin’ Bird). Agli antipodi dell’impeto fracassone di<br />

Clementine e Travel On - non lontane dallo sferragliare<br />

scomposto di Ragged Glory - c’è una Wayfarin? Stranger<br />

a lume di candela, quasi a mettere l’accento sul dark side<br />

di questo carosello che è sì “funky”, come puoi sentire<br />

pronunciare dallo stesso Neil “off the record”, ma anche<br />

grave come un controcanto a quest’epoca di crisi prima<br />

di valori che economica.<br />

Stesso spirito che anima il film A Day At <strong>The</strong> Gallery,<br />

ideato e diretto da Young (col consueto moniker Bernard<br />

Shakey), realizzato con la supervisione artistica di<br />

Shepard Fairey (l’autore del celebre poster in tricromia<br />

di Obama) e visibile sul sito ufficiale: il taglio vagamente<br />

ispirato a <strong>The</strong> Artist e le canzoni a fare sottofondo di reperti<br />

cinematografici come fantasmi di un’epopea tragica<br />

e formidabile. Operazione nel complesso interessante<br />

oltre i meriti strettamente musicali, i quali comunque<br />

testimoniano il buon stato di forma del vecchio lupo<br />

grigio. Non stupiscono quindi i rumors circa un imminente<br />

nuovo album di inediti, sempre coi Crazy Horse.<br />

(6.4/10)<br />

Stefano Solventi<br />

ottaven/aquaRiuS oMeGa - a4God (Sonic<br />

belliGeRanza, MaRzo 2012)<br />

Genere: cosmica<br />

È uno split tra musicisti, ma soprattutto tra mondi, che<br />

si vengono incontro e non si danno le spalle, come potrebbero<br />

senza resistenze fare i due lati di un vinile 12?.<br />

Tra la cosmica di Ottaven e il noise di dj Balli e compagnia<br />

non è un passo brevissimo. Eppure percorribile<br />

insieme, come dimostra A4GOD, vinile in edizione limitata<br />

stampato in occasione di A4GOD - An Inquiry<br />

into Eidolatria and Contemporary Drawing in Italy,<br />

progetto sul mondo dell’illustrazione italiana curata da<br />

studio Pomo di Marco Cendron e Alessandro Cavallini,<br />

responsabili anche dello splendido artwork del vinile.<br />

Di Giovanni Donadini / Canedicoda sappiamo già<br />

molte cose. Anche in Dea (lato A del disco), Ottaven ci<br />

delizia con una cosmica glitch da manuale, sorniona e<br />

a suo modo struggente. Matura come solo un coltivatore<br />

diretto, a filiera cortissima, sa creare. Equilibratissima<br />

e delicata, con una manciata di loop che si inseguono<br />

senza fretta, rimanendo poi imbrigliati nei nostri neuroni.<br />

La sorpresa è semmai Aquarius &Omega;, colpo<br />

di coda mistico/ironico di - Belligeranza (leggi: meno<br />

Belligeranza, versante meno crudele della label madre<br />

Sonic Belligeranza). Progetto che sarà attivo solo nel<br />

2012, anno dell’acquario, ultima possibilità per una riconversione<br />

alla Nuova Era, come suggerisce con il sorriso<br />

sotto i baffi chi sta dietro al moniker. Ritorneranno<br />

Dal Cielo, brano che copre tutto il lato B, inizia con un<br />

collage sonico con annunci massmediali e prosegue con<br />

un tappeto pulsante di tastiere che rimanda a una versione<br />

disturbata magistralmente della cosmica di Jarre<br />

e dei divulgatori delle avanguardie dei primi Settanta.<br />

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kid606 - lSdMtb303 ep (tiGeRbeat6, GiuGno 2012)<br />

Genere: cosmic acid idm<br />

Non c’è due senza tre: dopo Squarepusher e Venetian Snares è il turno di Kid606,<br />

un altro mostro sacro che ritorna dai ‘90 breakcore a rammentare ai presenti (per la<br />

terza volta) cosa significhi vecchia scuola e quanto si possa essere efficaci in suggestioni<br />

ed emozioni anche con gli spigoli intelligenti, battendo sullo stesso campo l’onda<br />

neoclassica della nuova generazione. La fascinazione dell’universo IDM è pronta per la<br />

riscoperta consapevole, ma un conto è risalire il flusso e rinfrescarsi alla sorgente, un<br />

altro è aver già determinato il corso degli eventi e lavorare ora di maestria, riconducendo<br />

quegli spunti alle nuove teorie soniche.<br />

È da un po’ che il venezuelano folle ha abbandonato le convulsioni rave di Don’t Sweat<br />

<strong>The</strong> Technics, ma mai come adesso le nuove sperimentazioni ambient son piantate in maniera così armonica nei<br />

giorni nostri. Per dire, Everything Is Business è stilisticamente una magia: ragiona per spazi halfstep, inventa lungo<br />

beats wonky, si trattiene sull’implicito UK bass e tocca le corde oscure che temiamo. Praticamente un giallo psicologico<br />

di Fritz Lang. Le tangenti cosmiche son quelle dell’induzione mentale di When Things Come Together ma<br />

hanno anche il piglio più convinto di LSDMTB303, fatta di ritmica Kuedo e intuito del Moby commerciale. Dark<br />

Archipelago poi sembra l’appendice ordinata dei viaggi sghembi dell’ultimo Last Step, quegli stessi percorsi acid<br />

emozionali portati sul giro simmetrico che ne maggiora l’assorbimento.<br />

Nemmeno mezz’ora per 8 tracce, ma gli spunti sono ovunque: prendi Temporary Revelations, che racconta le storie<br />

diverse del krautrock più ambizioso e sembra sempre sul punto di sfociare nell’emozione soul esplicita, con la<br />

differenza che Kid606 stavolta non improvvisa e tiene tutto sotto il controllo degli analogici, solleticando anche la<br />

nostalgia in I Want Her Wings e nella Vangelisiana Hood Gone Mad. La modernità eppure c’è eccome, e se chiudi gli<br />

occhi e ascolti Love Me pensi di stare nelle teorie avanzate della gioventù ipnotica postdubstep che corre tra Jamie<br />

XX e MYRRYRS. Non si è mai vecchi finché non inizi a pensarlo e quest’anno a darci lezioni di mental passion son<br />

stati tre dei cosiddetti “anziani”. Chapeau.<br />

(7.2/10)<br />

caRlo affatiGato<br />

Una dilatazione dell’iperuranio tra quel decennio e il<br />

successivo che oggi diventa un détournement. E speriamo<br />

non rimanga isolato.<br />

(7/10)<br />

GaSpaRe caliRi<br />

patti SMith - banGa (SonY, GiuGno 2012)<br />

Genere: rock<br />

Con questa fanno tre volte che Patti Smith è artisticamente<br />

rinata dopo un’eclissi di circa otto anni. Capitò<br />

nel 1988 con quel Dream <strong>Of</strong> Life che gli regalò il clamoroso<br />

successo di People Have <strong>The</strong> Power dopo il buen<br />

retiro dedicato al menage familiare. Capitò nel 1996 con<br />

Gone Again, guizzo vitalistico e rabbioso a compensare<br />

(molto) parzialmente la tragica perdita del marito Fred<br />

“Sonic” Smith. Capita oggi appunto otto anni dopo<br />

il solo discreto Trampin’, non contando la raccolta di<br />

cover Twelve che nel 2007 ci aveva semmai fatto sospettare<br />

un irreversibile inaridimento della vena. Se la<br />

comparsata a Sanremo di spalla - si fa per dire - ai Mar-<br />

lene Kuntz non aveva innescato certo aspettative più<br />

rosee, l’ascolto di Banga - undicesimo album in carriera<br />

- si rivela invece una piacevole sorpresa.<br />

Disco lontanissimo dal sacro furore della tetralogia dei<br />

70’s, certo, ma sostenerlo significa coglierne la principale<br />

qualità, perché pare proprio che la sessantaseienne<br />

chicagoana abbia finito di fare i conti con quei formidabili<br />

precedenti per approdare ad un dorato equilibrio tra<br />

lirismo e immediatezza, tra energia ed essenzialità. Libera<br />

quindi di non dover ricorrere alla grossolana frenesia<br />

elettrica del periodo a cavallo tra 90’s e anni Zero, sorta<br />

di tardiva infatuazione grunge liberamente interpretabile<br />

come una cortina fumogena dietro cui mascherare il<br />

fisiologico imbolsimento. Oggi la Smith - aiutata in fase<br />

di produzione dalla fidata band con a capo lo storico<br />

sodale Lenny Kaye - suona con la rilassata intensità del<br />

Tom Petty maturo, con quella capacità cioè di apparire<br />

accomodante senza smettere di sembrare rock. Le ballate<br />

hanno il passo dinoccolato e acidulo (dalle nuances<br />

balcaniche di Mosaic al caracollare struggente di Maria),<br />

i folk giocano su mezzitoni cameristici (la solenne Seneca)<br />

oppure si spampanano con astrazioni jazz-psych<br />

(vedi Tarkovsky <strong>The</strong> Second Stop is Jupiter, morbida tensione<br />

Nick Cave tra fatamorgane Jefferson Airplane),<br />

mentre le zampate elettriche smazzano tensione ieratica<br />

(Fuji-san, pensando alle vittime del terremoto/tsunami<br />

giapponese) e strascichi blues-wave (la title track)<br />

ammiccando distorsioni quasi industrial senza perdere<br />

un grammo di coesione.<br />

Venendo al contenuto - ingrediente sempre cruciale<br />

nell’evocativo verbo smithsiano - si parte da una agrodolce<br />

meditazione sul viaggio di Vespucci alla scoperta<br />

del nuovo mondo (Amerigo) per approdare - dopo<br />

un lungo sottofinale ad alto tasso lirico (Constantine’s<br />

Dream, dedicata al capolavoro di Piero Della Francesca,<br />

scritta e realizzata in Italia assieme ai La Casa Del<br />

Vento) - alla younghiana After <strong>The</strong> Gold Rush riletta con<br />

sobria padronanza, al netto di un finale retoricamente<br />

affidato ad un coro di bambini (“look at mother nature<br />

on the run/ in the 21st century”). Nel mezzo, c’è tempo<br />

per una dedica tra il blando e l’appassionato ad Amy<br />

Winehouse (This Is <strong>The</strong> Girl) e un happy birthday non<br />

trascendentale all’amico Johnny Depp (Nine), nonché<br />

per il singolo April Fool che sciorina romanticismo affabile<br />

tardo 80’s benedetto dalla liquida chitarra di Tom<br />

Verlaine. Credo si possa dire che dei tre ritorni suddetti<br />

questo è il più convincente.<br />

(6.9/10)<br />

Stefano Solventi<br />

polYSick - diGital native (planet Mu<br />

RecoRdS, GiuGno 2012)<br />

Genere: retro-future ambient<br />

Staremo peccando di sopravvalutazione, ma ad osservare<br />

la recente serie di uscite Planet Mu tra Kuedo, <strong>The</strong><br />

Host e Last Step sembra di scorgere una traiettoria<br />

particolarmente ambiziosa: la definizione di un neoclassicismo<br />

colto che serva da direttiva prospettica per<br />

la nuova generazione, uno storicismo raffinato che non<br />

è solo riscoperta cosmic, ambient o acid, ma più in generale<br />

funge da base stilistica di riferimento per i ventenni<br />

di oggi, come a voler colmare un vuoto nella coscienza<br />

storica dei giovanissimi che si son persi i ‘70 più nobili.<br />

La new entry Planet Mu Polysick è un producer romano<br />

già avvistato su Strange Life e 100% Silk e rientra benissimo<br />

in questo discorso: l’amore per il classico investe<br />

stavolta la fase nascente house (tra le tangenti acid di<br />

Transpelagic e le ambizioni ambient di Taito), il culto per<br />

le ambientazioni sviluppato dalla vecchia scuola cosmic<br />

(Lost Holidays, Gondwana) e le smanie intelligent più a<br />

portata di mano (Drowse, Loading..), il tutto ovviamente<br />

riproposto in chiave personale, con un particolare assetto<br />

minimal/abstract che sboccia in Tic-Tac Toe, certe<br />

propensioni droniche (Meltinacid) e una cura certosina<br />

del mood sghembo e misterioso che oggi fa tanto cool<br />

(Caravan e Preda le più intriganti).<br />

Il disco mostra sufficiente passione e ispirazione da non<br />

suonare retrò ed ha lo spessore giusto per far colpo sui<br />

ricercatori di buona musica (soprattutto su coloro che<br />

lo accolgono come novità del tempo, vedi il vuoto di<br />

pocanzi). Eppure resta netta l’immagine di un sound che<br />

non vuol dare concretezza, ma disegnare circonvoluzioni<br />

nell’aere, un percorso coltivato come esperimento sul<br />

suono e sulle sue potenzialità induttive (Polysick stesso<br />

focalizza l’attenzione sulle associazioni visive che si<br />

legano alle tracce). Un’ambizione astratta che ne fa più<br />

una questione per cultori: intenzione che fa pienamente<br />

parte dei binari Planet Mu odierni, lecita e appagante a<br />

patto di non trasformarsi in dottrina aristocratica calata<br />

dall’alto, che punta a dettare i tempi invece che seguirli.<br />

Il retrofuturismo va bene, ma occhio alle misure.<br />

(6.6/10)<br />

caRlo affatiGato<br />

pop etc - pop etc (RouGh tRade, GiuGno<br />

2012)<br />

Genere: synth-PoP<br />

Nel sophomore e disco della ribalta datato 2010, Big<br />

Echo, i Morning Benders costruirono un sound avvincente<br />

fatto di chitarre jangly e armonie sature di<br />

riverberi intriso di influenze lungo cinque decadi pur<br />

restando inserito nel momento musicale contemporaneo.<br />

L’intento di mescolare passato e presente informa<br />

pure il primo lavoro della band come Pop Etc (cambio di<br />

moniker costretto dalla connotazione omofobica che il<br />

termine ‘bender’ ha in Gran Bretagna), ma le similitudini<br />

fra le due release terminano qui.<br />

Il sound rock-based di matrice 60s è rimpiazzato da un<br />

90s synth-pop dozzinale con a corollario un parco suoni<br />

stantio ed obsoleto che va a toccare triti dialogue<br />

sample (New Life), ritmi clip-clap e auto-tuned vocals<br />

(Live It Up). L’intento, palesemente orientato al salto radiofonico<br />

(e magari a prendere il posto dei Foster the<br />

People nel cuore di qualche alt-teen), viene affossato<br />

da prevedibili strutture inscatolate in loop elettronici<br />

da Owl City e scimmiottamenti vocali à la Yeasayer,<br />

atmosfere diffuse di basso profilo e prive di alcun hook<br />

degno di nota.<br />

Non aiutano nemmeno le liriche: dai cliché sulle relazioni<br />

problematiche a improbabili critiche socialmente<br />

utili al mondo malato infilate dentro a ideali party-jam<br />

(I don’t own an SUV / so don’t you judge me / when I roll<br />

110 111


up on this Schwinn / I ain’t guzzlin, in R.Y.B.), rime eyeroll-worthy<br />

(Let me take this strainght from the top /<br />

we were making love and we couldn’t stop, apre Back<br />

To Your Heart) e scialbi R&B.<br />

Nè fumo, nè arrosto, il self-titled dei Pop Etc non offre<br />

nulla più di un paio di filler per le compilation estive (Keep<br />

It For Your Own, Halfway To Heaven). Tra i peggiori follow<br />

up ad un ottimo album che la storia recente ricordi.<br />

(4/10)<br />

MaSSiMo Rancati<br />

RichaRd haWleY - StandinG at the SkY’S<br />

edGe (paRlophone, MaGGio 2012)<br />

Genere: brit rock, Psych<br />

Richard Hawley è uno di quelli di cui bisogna tener<br />

conto. Sul serio. Lo dice chiaramente il terzo posto in<br />

classifica raggiunto da questo album (più alta posizione<br />

mai raggiunta dal chitarrista di Sheffield), giunto dopo<br />

i riconoscimenti (più che altro mancati: il Mercury del<br />

2006), le varie collaborazioni (Elbow e Arctic Monkeys,<br />

ma anche Nancy Sinatra e Lisa Marie Presley) e, significativo<br />

ricordarlo, a ben sette anni da quel Coles Corner<br />

che ce lo rivelò in tutta la sua maturità, crooner ombroso<br />

e nostalgico, ultimo dei romantici, musicista di indubbio<br />

gusto e artigiano del songwriting d’autore. E poco,<br />

davvero poco importa che con le atmosfere di quel lavoro<br />

- e dei successivi e altrettanto buoni Lady’s Bridge e<br />

Truelove’s Gutter - Standing On <strong>The</strong> Sky’s Edge condivida<br />

appena la sognante Seek It e la magistrale ballad Don’t<br />

Stare At <strong>The</strong> Sun (languida come il Bowie di Wild Is <strong>The</strong><br />

Wind, con qualche fraseggio melodico a sei corde volpescamente<br />

trafugato a <strong>The</strong> Edge).<br />

A partire dalle scale indiane di She Brings <strong>The</strong> Sunlight<br />

ecco, infatti, l’Hawley che non ti aspetti: chitarrone<br />

acidissime e pesanti, bassi gonfi e groove vorticosi e<br />

lisergici, in uno smaccato revival psych tardi ’60, che a<br />

sua volta riecheggia - non di poco - quello targato ’90<br />

dei Kula Shaker e - seppur alla lontana - quello invero<br />

recente dei Tame Impala. Verrebbe in mente l’ultimo<br />

Paul Weller di Sonik Kicks, che ha dichiarato di essersi<br />

ispirato proprio agli appena citati australiani, se non ci si<br />

rendesse subito conto che il gusto di Richard resta sempre<br />

ed esclusivamente brit-oriented (vedi anche le tirate<br />

shoegaze di Time Will Bring You Winter), e che dietro la rigorosa<br />

veste sonica (a ben vedere, in Down In <strong>The</strong> Woods<br />

tratta il garage acido dei Sixties con lo stesso rigore con<br />

cui in passato trattò Elvis, Roy Orbison e Scott Walker), la<br />

calligrafia resta sempre e comunque cantautorale (vedi<br />

la murder ballad camuffata che è la title track).<br />

Non è un caso se abbiamo citato pocanzi il Modfather:<br />

insieme al coetaneo Noel Gallagher, Hawley mostra qui<br />

di avere tutte le credenziali per candidarsi ad erede di<br />

quella stessa nobile tradizione brit-rock (e il successo<br />

di pubblico, oltre che di critica, ce lo conferma). Chissà<br />

se voleva davvero dimostrarlo, o piuttosto voleva solo<br />

divertirsi un po’ a suonare ad alto volume; il sospetto<br />

che il suo cuore sia rimasto dalle parti del Coles Corner<br />

(come tutti i titoli dei suoi dischi, un luogo di Sheffield)<br />

è più che palpabile ?<br />

(6.7/10)<br />

antonio puGlia<br />

RoM - foot SiGnal (pinGipunG, MaGGio<br />

2012)<br />

Genere: cut&Paste<br />

Citare le esperienze passate del duo formato da Matt<br />

Crum e Roberto Carlos Lange potrebbe bastare a inquadrare<br />

in maniera esaustiva il sound di questo Foot<br />

Signal. Membri del progetto electro-latin-chill-folk<br />

Savath & Savalas con Mr. Prefuse 73 Gulliermo Scott<br />

Herren, rigorosamente su Warp (e sottolineo Warp) ma<br />

insieme anche nei misconosciuti Comic Wow con il batterista<br />

dei Tortoise (e sottolineo Tortoise) Jonh McEntire,<br />

fanno convergere nei ROM modulazione elettronica<br />

e destrutturazione ritmica, dando vita a una sorta di<br />

freak-pop-giocattolo strumentale travestito da lounge<br />

(Orca), ma capace anche di lanciarsi in post-rockeggiate<br />

quasi alla Mogwai (Flat Top Afro).<br />

Pare che per la realizzazione del disco, già edito in<br />

Giappone su limited cd e ristampato oggi in vinile per<br />

il mercato occidentale, siano stati usati anche strumenti<br />

rotti o scordati - e fin qui niente di nuovo - alcuni dei<br />

quali suonati addirittura con i piedi - già meglio -, per<br />

poi tagliare e ricucire il tutto con amabile approccio analogico,<br />

mettendo insieme scampoli di improvvisazione<br />

e suoni riprocessati. Del risultato finale si apprezzano il<br />

calore timbrico e la spontaneità delle (s)composizioni,<br />

che ben si confanno alla solarità delle atmosfere ripetitive<br />

e diritte, ma anche defilate e ’d’ameublement’. Queste<br />

ultime sottofondo discreto per una Piña Colada fatta<br />

come si deve.<br />

(6.5/10)<br />

antonio laudazi<br />

SciSSoR SiSteRS - MaGic houR (polYdoR,<br />

MaGGio 2012)<br />

Genere: disco<br />

Non è solo il primo singolo (Only <strong>The</strong> Horses, co-prodotto<br />

da Calvin Harris) ad assomigliare al lavoro precedente:<br />

il quarto full degli Scissor Sisters è tutto improntato<br />

sui soliti ingredienti che costituiscono da anni la<br />

loro palette sonica, vale a dire synth pomposi, ritmiche<br />

laSt Step - Sleep (planet Mu RecoRdS, MaGGio 2012)<br />

Genere: acidtronica<br />

Last Step, ovvero il risvolto atmosferico di Venetian Snares, quello che ha sempre<br />

trattenuto il futurismo terroristico breakcore per correre lungo viaggi situazionistici<br />

sul versante acid. Già due album di ottima qualità, Last Step e 1961, ma se finora la<br />

presenza della nota vena ritmica compulsiva faceva di questo side project poco più di<br />

un lato B nella discografia del producer canadese, al terzo album Aaron Funk compie il<br />

suo inchino reverenziale alla suggestione, sacrificando le proprie spigolosità in favore<br />

di un sound atemporale, che ben si inserisce lungo il filone neoclassico già battuto su<br />

Planet Mu da Jamie Vex’d/Kuedo e Boxcutter/<strong>The</strong> Host.<br />

Con la passione intima messa in gioco, Sleep diventa il momumento definitivo alle<br />

potenzialità inespresse del sound acid, per l’occasione sterilizzate dalle varie sfrenatezze intelligent o accelerazioni<br />

in breakbeat. I roland della vecchia guardia si lanciano in straordinari disegni, capaci di toccare le potenzialità introspettive<br />

rimaste finora inaccessibili dai figli sonori dell’insolenza post-rave. Ce ne aveva parlato di recente Squarepusher,<br />

della piega emozionale di cui la nuova fase IDM è capace, ma questa volta è un vero tripudio di enigmi<br />

e tensioni da scenario post-apocalittico, il nichilismo sci-fi ballardiano in una trasposizione sonora fatta apposta<br />

per l’isolamento a lungo termine.<br />

Il passo indietro del carisma ritmico funziona a meraviglia ed è funzionale all’apertura dei mood, dal thrilling ansiogeno<br />

di Xyrem (l’omaggio ai Kraftwerk di Radioactivity) ai misteri taglienti e oscuri di My <strong>Of</strong>f Days (l’alba del<br />

giorno dopo Blade Runner), comprese certe soggezioni astratte targate Autechre (Somno, spigolosa e attraente<br />

al punto giusto). I synth analogici danno il tocco classico, ritornando alla solida consistenza psichica del sempre più<br />

presente Carpenter (è Obispo l’entità aliena che cammina tra noi), ma attenzione: non è la horrorwave esplicita di<br />

Xander Harris, bensì un suo distillato sottile e ipnotico, che ragiona sull’implicito, secondo un metodo di approccio<br />

ai contenuti già usato da Actress nei suoi ultimi lavori.<br />

35 minuti in cui i livelli di attenzione son tenuti alti da giochi di spazi abilissimi come quelli di Microsleeps (music<br />

for space stations, direbbe Eno) e dalla costante ricerca di pattern ritmici laterali: i 5/8 e 7/8 coprono quasi tutta la<br />

tracklist, limitando la ritmica regolare solo ai momenti in cui è più importante il riferimento classico (vedi Lazy Acid<br />

3, piena riscoperta intelligent-acid anni ‘90). Sleep perché, secondo la dichiarazione di Aaron stesso, “sono tracce<br />

composte proprio un attimo prima di addormentarsi, ideate su synth e sequencers quando hai la mente offuscata dal<br />

sonno”, ed è bello leggere in quest’ottica la dimensione altra trasmessa da questo disco, così vicina alle immagini<br />

cariche di energia psichica che popolano i nostri sogni d’angoscia.<br />

Per dipingere il più intenso viaggio di sensazioni e disagi mai compiuto dall’acid sound ci è voluto il Venetian<br />

Snares più impegnato di sempre. È il suo orologio molle.<br />

(7.8/10)<br />

caRlo affatiGato<br />

squadrate, falsetti e altri ammennicoli che esaltano i fan.<br />

In più tanto per aggiungere qualche paillette di novità,<br />

si va a chiedere la consulenza ai produttori del jet set<br />

internazional-sonico che dovrebbero fare la differenza,<br />

per entrare in fantomatici nuovi territori, appetibili al<br />

turn over dei teen.<br />

Abbiamo quindi accenni al fidget e a suoni più acidini<br />

con le casse squadrate di Alex Ridha (aka Boys Noize)<br />

su Keep Your Shoes On; un buon r’n’b caldo nell’opener<br />

Baby Come Home o nella traccia co-scritta e co-prodotta<br />

da Pharrell Williams (Inevitable) che fa il verso ai falsetti<br />

degli immancabili Bee Gees. Ci sono poi le ritmiche triba-<br />

liste di Let’s Have A Kiki e ancor di più lo pseudobanghra<br />

con il feat. della giovanissima promessa dell’hip-hop<br />

Azealia Banks (Shady Love).<br />

Novità posticcie e plastificate, che mimano un trompe<br />

l’oreille scontato e ingombrante. Gli Scissor meritano<br />

comunque l’ascolto per due motivi: sono uno dei pochi<br />

gruppi dance a portare avanti il baraccone disco tout<br />

court e hanno una produzione stellare. Purtroppo hanno<br />

bisogno di uno svecchiamento vero, non di facciata,<br />

come emerge dall’ascolto di quest’ora scarsa di musica.<br />

(6.3/10)<br />

MaRco bRaGGion<br />

112 113


Sex ex - Sex ex (autopRodotto, MaRzo 2012)<br />

Genere: noise-rock 90s<br />

Tutto comincia in scia ai Massimo Volume originari, tra<br />

tensione strumentale di matrice (noisy&post)rock, spigoli<br />

e curve a gomito, disagio esistenziale espresso tra<br />

urlato e declamato, come se (di nuovo) la letteratura potesse<br />

essere applicata al rock rumoroso. Ne è esempio il<br />

dittico d’apertura Vuoi Giocare e Ti Ascoltavo tra vigorose<br />

sonorità 90s (gli Uzeda sono più di un rimando) e racconti<br />

di vita vissuta e sofferta, con quest’ultima modalità<br />

che più che un tributo, è una sorta di rivendicazione di<br />

padri putativi e originario humus comune.<br />

Nei Sex Ex, apolide quartetto originario della Sicilia ma<br />

disperso dalla moderna, classica diaspora e giunto ora<br />

all’esordio fieramente autoprodotto e autopromosso, si<br />

ritrovano infatti personaggi dei giri giusti come il Tony<br />

Arrabito già dietro le pelli per 3/4 Had Been Eliminated,<br />

il chitarrista/cantante Emiliano Ereddia collaboratore<br />

di Stefano Pilia, (ospite a sua volta in Mezza Parola)<br />

e la voce di Laura Loriga (Mimes <strong>Of</strong> Wine) a impreziosire<br />

I Want To Go. Questo per dire che i quattro (Luca Guglielmino<br />

alla chitarra e Giuseppe Guglielmino al basso<br />

completano la formazione senza essere affatto dei meri<br />

comprimari) tutto sono tranne che degli sprovveduti<br />

e che Sex Ex è un lavoro vibrante, teso, ostico per certi<br />

versi, ma che non si mostra come un mero revival del<br />

’rock italiano’ - definizione orrenda ma intelligibile - della<br />

prima metà degli anni ’90.<br />

L’aggro-punk esistenziale di Cane Minore, la stasi pulviscolare<br />

quasi post-rock di Mansardato A 3, le melodie<br />

stranite di I Pesci o la dolcezza ruvida di Mezza Parola<br />

sono buoni viatici di un approccio personale, appassionato<br />

e ben riuscito ad un sound abusato quanto si vuole,<br />

ma che quando è ben fatto si sente eccome.<br />

(7.2/10)<br />

Stefano piffeRi<br />

Shackleton - MuSic foR the quiet houR<br />

/ the dRaWbaR oRGan (Woe to the Septic<br />

heaRt!, apRile 2012)<br />

Genere: minimal / dubsteP<br />

Dall’underground Skull Disco all’epifania di Three EPs,<br />

dalla messa minimal-tribal del suo Fabric da urlo, al disco<br />

a quattro mani con l’altra vecchia volpe Pinch (che però<br />

non c’è piaciuto), Shackleton ha segnato tappe importanti<br />

nel dubstep ma prima e ancora di più in un’estetica<br />

personale, sempre riconoscibile e sempre irrequieta.<br />

Adesso fa debuttare la sua nuova label Woe To <strong>The</strong> Septic<br />

Heart con un progetto complesso (forse anche complicato),<br />

due album diversi e complementari, entrambi<br />

sfacciatamente sperimentali fin dai titoli programmatici<br />

(Musica per le ore quiete e L’organo a tiranti) e dal formato<br />

(il primo è un’unica suite in 5 lunghi movimenti). L’album<br />

nel complesso farà la gioia dei dubsteppers più avant,<br />

dei frequentatori esterni del genere versante elettroacustico,<br />

degli audiofili e dei producer che vogliono imparare,<br />

e un’analisi al microscopio (l’ha fatta ad esempio<br />

un Luca Galli particolarmente zingalesiano sull’ultimo<br />

“Blow Up”) ne sottolinea l’indiscutibile e ammirabile<br />

craftmanship.<br />

Shack qui scopre soprattutto nuove sfumature del suo<br />

inoccultabile tribalismo, ma forse più semplicemente ci<br />

mostra la techno che ha in testa, una techno tattile e<br />

organica alle cui ossa sta attaccata una ricca ricchissima<br />

cartilagine: certe atmosfere haunted Demdike Stare e<br />

del Prefuse di <strong>The</strong> Only She Chapters, ma senza l’ossessione<br />

esoterica; il lussureggiante minimalismo ritmico e<br />

percussivo di Steve Reich filtrato dal Four Tet bolloso e<br />

campanelloso di Wolf Cub (tirando le somme, la componente<br />

quantitativamente più rilevante); l’ambient glitch<br />

e il micro-noise della Raster Norton, ma senza l’ossessione<br />

razionalista; lo spoken tra ricordi delle distopie della<br />

primissima tech-house e il Kode9/Spaceape di Black<br />

Sun (responsabile l’inglesissimo e misterioso Vengeance<br />

Tenfold); certi etnicismi tra il gitano e l’arabeggiante in<br />

odore di Filastine.<br />

Quiet Hour, chill in - più che chill out - un po’ inquietante,<br />

espone questi elementi paradigmaticamente, in un lungo<br />

viaggio ondeggiante, ondivagante, alla fine sfilacciato,<br />

affascinante da studiare, un po’ sfinente da ascoltare.<br />

Drawbar Organ (l’organo a tiranti dove i tiranti sarebbero<br />

quei tasti che permettono di “variare a piacere il volume<br />

relativo al missaggio generale delle armoniche” - grazie<br />

Wiki - e che qui davvero sono un piccolo grande ponte<br />

Demdike-Goblin, vedi Seven Present Tenses), li ripesca<br />

dalla nebulosa e li mette a quadrare (si parte dai 02:44<br />

di Love of Weeping), costruendo un bazaar di dubstep<br />

reichiana e oriental-tropicale (emblematicamente, Wish<br />

You Better), giocosa (l’impaccio wonky di It Is Not Easy) e<br />

solare, orchestrato divinamente.<br />

Grandi momenti di appagamento squisitamente sonoro<br />

e strutturale, ma nel complesso lavoro un po’ frustrante,<br />

macchinoso, troppo impantanato nel suo gigantismo<br />

progettuale, che estremizza certi discorsi già nell’aria<br />

(la ripresa di Reich, giusto per dire) e che però comunque<br />

apre la visuale su un’elettronica tanto contaminata<br />

da tornare ad essere elettronica pura, più che dubstep.<br />

Shackleton stavolta però più importante che bello.<br />

(6.9/10)<br />

GabRiele MaRino<br />

laWRence aRabia - the SpaRRoW (bella union, GiuGno 2012)<br />

Genere: vintaGe PoP<br />

Giunto alla prova del terzo album, il songwriter neozelandese Lawrence Arabia<br />

(all’anagrafe James Milne) confeziona un gioiellino vintage pop lussuoso e melanconico<br />

che trova riferimenti immediati negli chanteur d’antan presenti e passati, quali Richard<br />

Swift, Rufus Wainwright, e il primo Scott Walker, ma che pure sa incorporare i fiati<br />

intristiti del Beirut più occidentale (Lick Your Wounds) così come le melodie rurali degli<br />

Okkervil River (<strong>The</strong> Listening Times) con i quali Milne ha peraltro collaborato. Ovunque,<br />

poi, aleggiano i Beatles più scuri e romantici (Bicycle Riding, Early Kneecapppings),<br />

spettri onnipresenti in un album brillante e sottilmente decadente.<br />

I sixties, luogo e tempo privilegiato per l’immaginario sonoro di <strong>The</strong> Sparrow, riemergono forti di una nuova luce<br />

(aggiornato e non didascalico il replicare di certi impasti sonori), ancora un po’ piacioni a sollazzarsi nel puro revivalismo<br />

(Travelling Shoes), ma al contempo veicolo carico di senso nel tradurre un presente che ancora non riesce<br />

a rappresentare sé stesso se non attraverso brandelli del millennio passato.<br />

Il trucco sta poi nel mescolare il tutto sapientemente, secondo un’estetica della ’sofisticazione leggera’ (i dettagli<br />

che determinano la percezione del tutto) e con i Novanta albionici a fare da contrappeso tra il ieri, nostalgico e<br />

familiare, e l’oggi, eclettico e fuggevole.<br />

(7.4/10)<br />

antonio laudazi<br />

SluGabed - tiMe teaM (ninJa tune, MaGGio<br />

2012)<br />

Genere: uk maximalism<br />

Il disco d’esordio di Greg Feldwick arriva dopo una pletora<br />

di uscite su svariati format (white-label, EP, singoli,<br />

etc.) per Stuff, Ramp e Planet Mu. Il full su Ninja lo fa<br />

uscire dall’underground con un suono che non parla<br />

house, ma che si bea di synth à la Luke Vibert, tagliati<br />

con le idee dell’ultima generazione maximal (Rustie o<br />

Digi G’Alessio), coniugando l’analogico con la nostalgia<br />

del cheap tuning (genere su cui Sluga ha mosso i primi<br />

passi).<br />

Questo senso di futuro-che-incontra-il-passato non è<br />

una posizione arroccata su isterismi nerdy (come poteva<br />

essere l’approccio di Zomby in Where Were You In ‘92).<br />

Per Greg l’uso delle macchine analogiche e delle vocine<br />

in elio (Climbing A Tree) taglia in due l’oscurità Burialiana<br />

e apre squarci di nuova e sorridente luce su tutto<br />

il bass britannico. I cieli UK si ri-animano di personaggi<br />

a 8 bit (quelli del post-rave che vedevamo ballare nella<br />

copertina di Hard Normal Daddy di Squarepusher) e di<br />

nostalgie per le partitone con il Nintendo.<br />

Ma non è solo una questione di ricordo e lacrimucce: il<br />

ragazzo vede bene nel futuro perché taglia anche con<br />

citazioni a strumentini early techno (Earth Claps), mescolati<br />

a layer sinfonici che devono molto alla lezione<br />

IDM di Boards <strong>Of</strong> Canada e probabilmente anche a<br />

gente più indie (DNTEL o Books). In più ci sono anche<br />

le grandi ombre del prog (Mountains Come Out <strong>Of</strong> <strong>The</strong><br />

Sky) e del math-hop à la Anticon (Moonbeam Rider).<br />

Sluga mescola poli opposti in un mix coerente, che getta<br />

le basi per un futuro interessante, ancorato al passato<br />

ma consapevole delle sue potenzialità (New Worlds). Ci<br />

piace questo suo senso di informalità e di convivio sonoro,<br />

questo uso pacato dei suoni oldy e di humour che da<br />

un po’ mancava nella scena. Non può comunque essere<br />

disco dell’anno per qualche sbavatura qui e là, ma per<br />

chi scrive il potenziale del ragazzo è altissimo.<br />

(7.4/10)<br />

MaRco bRaGGion<br />

SMaShinG puMpkinS - oceania (eMi, GiuGno<br />

2012)<br />

Genere: rock Psych<br />

Ad inizio 2011 una notizia scuote la rete: Nicole Fiorentino,<br />

la nuova bassista dei riesumati Smashing Pumpkins,<br />

sarebbe una delle due bambine ritratte nella copertina<br />

di Siamese Dream. Quella di sinistra, per la precisione.<br />

La fronte spaziosa, il taglio degli occhi e della bocca non<br />

lascerebbero dubbi in proposito. Illazioni? Macché: Corgan<br />

lo ammette. La Fiorentino conferma a stretto giro di<br />

posta. Incredibile. Poi però arriva la smentita, per voce<br />

della bambina di destra, quella immortalata mentre se la<br />

ride di brutto, tale Ali Laenger. E quindi? Probabilmente<br />

tutta una boutade. In ogni caso la vicenda è rimasta in<br />

sospeso, o almeno lo è rimasta per il sottoscritto il quale,<br />

114 115


puRitY RinG - ShRineS (4ad, luGlio 2012)<br />

Genere: future PoP<br />

I Purity Ring sono un duo di Halifax/Montréal formato da Megan James e Corin Roddick,<br />

ex-membro della band electro-pop Gobble Gobble (ora Born Gold). La loro ascesa<br />

viene tutta dalla blogosfera e ha inizio nel Gennaio 2011, quando il blog-collettivo<br />

Altered Zone riporta la prima traccia self-released, Ungirthed. Ne seguono altre due,<br />

Lofticries e Belispeak, riconoscimenti (Best New Track) ed uno spot (Top 50 Songs of the<br />

Year) su Pitchfork.<br />

Pitchfork s’esalta e non a caso: i Purity Ring sono i nuovi portavoce della sintesi major<br />

indie pompata dal planetario portale, un’estetica che traccia linee e ponti tra il mainstream<br />

USA e l’ormai sdoganatissimo alternative da Sleigh Bells a Grimes. Parliamo<br />

di patina post-80s, glo/synthwave unita a boombastica hip-hop e R&B, non più citazionismo di prima mano bensì<br />

di sonorità plasmate sotto un’estetica che inizia a delinearsi come generazionale.<br />

Il patrocinio fighetto 4AD, label sempre più attenta alle nuove leve della coerenza goth-synth british sul mercato<br />

internazionale, mette l’ultimo sigillo. Le tracce disponibili su Soundcloud vengono rimosse per tornare ora opportunamente<br />

remissate nel debutto Shrines.<br />

Cura del dettaglio e coerenza. I Purity Ring impastano elementi usati diffusamente negli ultimi anni (MPC balbettanti,<br />

chopped beats, synth dreamy, indizi di witch e wobble dubstep, le pitched-down post-Burial vocals riprese<br />

di recente da producer hip-hop quali Clams Casino) e li mettono al servizio di scontri tra correnti calde e fredde,<br />

fiabe e macchine, euforia trap-rap e surrealismi pop.<br />

Megan James, mutevole fra pose da childlike spettrale ed impennate stordenti, è il gioco a contrasto tra innocenza<br />

e sensualità che riecheggia nel moniker, il centro gravitazionale in full-display delle canzoni. Corin Roddick è la<br />

fusione tra dna hip-hop e synth britannico.<br />

L’immaginario, pur richiamando paragoni facili con quello dei Knife (giustificati anche da similitudini di formazione<br />

e teatralità dei live), va in realtà oltre. Di fatto, se gli svedesi fermano il proprio al livello ultraterreno, i Purity Ring<br />

scendono nel più vicino grottesco (costole che diventano corona per un affetto non corrisposto in Fineshrine, fori<br />

praticati attraverso gli occhi in Belispeak, la pelle strappata dalle caviglie in Obedear), in una maniera viscerare di<br />

raccontare l’implicito lato creepy dell’essere umano.<br />

Lussureggiante nella produzione, sofisticato eppure accessibile, Shrines è uno dei più potenti manifesti di pop futurista<br />

degli ultimi tempi. È un esordio, ed il passaggio debole Grandloves (col campionamento di You With Air dei<br />

Young Magic)/Cartographist lo evidenzia, ma il culto è totale.<br />

(7.4/10)<br />

MaSSiMo Rancati<br />

perdonatelo, se ne è sbattuto riccamente le palle.<br />

Però è emblematica l’attrazione fatale esercitata nei fan<br />

dall’immaginario di quei primi fatidici lavori, in un gioco<br />

di rimandi e suggestioni cui lo stesso Corgan non<br />

si sottrae affatto. Anzi, volendo potremmo interpretare<br />

anche la formazione attuale del quartetto come una sublimazione<br />

di quello storico. Insomma, in questo che è<br />

nominalmente il nono album delle zucche - dopo che il<br />

formato album era stato ripudiato in favore di modalità<br />

distributive più elastiche, dinamiche, espanse, vedi la<br />

ciclopica dispersione del progetto Teargarden By Kaleidoscope<br />

- agisce chiaramente il tentativo a tratti spasmodico<br />

di mostrare al mondo che la creatura SP è viva<br />

e lotta, sogna, scalcia, s’infiamma assieme a noi. Non<br />

per questo il buon Billy merita biasimo. Certo, personalmente<br />

non posso fare a meno di rimpiangere ciò che un<br />

talento come il suo avrebbe potuto se avesse superato<br />

i fantasmi della propria tormentata post-adolescenza.<br />

Ma tant’è. Il talento appunto è duro a morire e spunta<br />

ogni tanto tra le rievocazioni malcelate che strutturano<br />

la scaletta.<br />

Panopticon, ad esempio, sviluppa una buona approssimazione<br />

del limbo tra power psych e pop abbozzato<br />

nel glorioso Mellon Collie. Quasar sbriglia chitarre e<br />

sincopi aciderrime à la Siamese, mentre <strong>The</strong> Celestials<br />

organizza languore tenerello in salsa wave pop con malsana<br />

sdolcinatezza Adore. Corgan sembra aver rimesso<br />

in sesto la penna e azzecca alcune melodie degne di<br />

nota, concedendosi pure qualche disinvolta libertà (le<br />

fantasie prog wave di Wildflower, le turbolenze glam di<br />

<strong>The</strong> Chimera, Pinwheels col suo technicolor psych - echi<br />

evidenti di Baba O’Riley - e le digressioni folk meditabonde...),<br />

mentre la band a onor del vero tiene botta,<br />

dimostrando anche una certa personalità.<br />

Il pesce però, come spesso capita, puzza dalla testa. Il<br />

vizio di forma lo avverti fin nella voce e nel piglio di Corgan,<br />

nel suo stare sui pezzi sempre un po’ sfalsato anzi<br />

inadeguato e vagamente retrogrado, come il Benigni<br />

cinquantenne con addosso i panni di Pinocchio. Quanto<br />

al resto, aleggia un’aria diffusa da amarcord fiero ma in<br />

fondo arreso che sembra quasi esplicita in pezzi come<br />

Violet Rays, ballad grunge androide più confezione che<br />

sostanza, o nella title track che prova la carta della suite<br />

pasticciando languori wave, venature gospel-folk e<br />

ripartenze spacey con la ciliegina di un assolo da allucinazione<br />

salottiera Mike Oldifeld.<br />

Peggio ancora, quelle digressioni pop wave che un<br />

tempo certificavano le doti corghiane, non suonano<br />

più come sfaccettature di una sensibilità enigmatica e<br />

proteiforme ma come espedienti, variazioni di mestiere<br />

a caccia di hook, vedi il bignami New Order di One<br />

Diamond, One Heart o il David Sylvian wannabe di Pale<br />

Horse. Disco nel complesso mediocre con qualche pagliuzza<br />

di splendore, a confermare l’onda lunga di declino<br />

che sta sommergendo questo ex-ragazzone rock<br />

con troppo genio da padroneggiare.<br />

(5.2/10)<br />

Stefano Solventi<br />

SuRGeRY - ReSet (altipiani, MaGGio 2012)<br />

Genere: diGital hardcore<br />

I romani Surgery, sulle scene da un buon decennio con<br />

il loro electro-industrial in italiano, si giocano la carta<br />

per l’espatrio e inseriscono la lingua inglese in metà del<br />

loro ultimo disco. La formula è composta da chitarroni<br />

distorti, campionamenti aggressivi, drum machine e<br />

doppia voce maschile-femminile divisa tra urla efferate<br />

e melodie dark, il tutto alternandosi tra brani spinti<br />

verso la dance (Un dolore fa, il remix di Enemy Domine<br />

a cura di Nachtmahr), altri con un’accezione più metal<br />

(Il galeone), e momenti di raccoglimento cantautoriale<br />

(La ballata dei caduti).<br />

L’uso dell’italiano applicato a queste sonorità rimane il<br />

tratto distintivo del gruppo, rischio e virtù allo stesso<br />

tempo, che per alcuni potrebbe suonare straniante o<br />

indigesto, ma per altri innovativo e apprezzabile. Le<br />

sezioni anglofone, invece, si lasciano godere per una<br />

maggior attinenza al genere di riferimento, pur senza<br />

regalare niente che non abbia precedenti anche tra i<br />

vari Icon <strong>Of</strong> Coil, Combichrist, Rammstein, Deathstars<br />

e via dicendo, indebolite inoltre da una pronuncia non<br />

sempre perfetta.<br />

Ottimo gruppo live, anche per la presenza scenica caratterizzata<br />

dalle maschere e dai costumi di Sergio Stivaletti<br />

(Dario Argento), i Surgery confermano in Reset<br />

lo status di ’insider’ nel panorama nazionale. Per erigersi<br />

oltre confine, tuttavia, c’è bisogno probabilmente di<br />

emanciparsi da riferimenti ancora troppo invadenti.<br />

(6.3/10)<br />

antonio laudazi<br />

the beach boYS - that’S WhY God Made the<br />

Radio (eMi, GiuGno 2012)<br />

Genere: PoP<br />

Spiegandoci i motivi per cui il buon Dio ha creato la radio,<br />

i Beach Boys ci spiegano perché sono stati chiamati<br />

a calpestare questo triste pianeta: per cantare l’estate<br />

utopica e radiante del Sogno Americano. Il cinquantesimo<br />

anniversario è un evento simbolico, certo, ma è il<br />

caso di cavalcare l’onda del simbolico fino in fondo, perché<br />

è la dimensione in cui le loro canzoni, quel suono,<br />

quelle sequenze di pellicola pescate nel paradiso delle<br />

aspettative, accadono. Fa giusto mezzo secolo quindi<br />

dacché le impagabili sciocchezzuole surfiste dei fratelli<br />

Wilson e compagni di merende ampliarono la percezione<br />

della giovinezza California-style divenendo d’amblé<br />

archetipo globale. Una gabbia dorata stilistica da cui<br />

evasero con una delle più spettacolari progressioni soniche<br />

della storia della popular music, un balzo esponenziale<br />

dal ruolo di formidabili hit-maker generazionali<br />

a cesellatori del più serico, visionario, immaginifico<br />

classic-pop mai udito.<br />

Tra le band in possesso di un sound peculiare, i Beach<br />

Boys sono forse quelli più riconoscibili per calligrafia<br />

compositiva, arrangiamenti ed interpretazione. Un immaginario<br />

da cui hanno pescato innumerevoli e disparati<br />

epigoni, nessuno però avvicinandosi a quel livello<br />

di arrendevole e pervadente candore. Sia benedetta la<br />

spinta centripeta che ha fatto riunire per quanto umanamente<br />

possibile la gloriosa compagine - Brian Wilson,<br />

Mike Love, Al Jardin, Bruce Johnston e persino quel David<br />

Marks che se ne andò nel lontanissimo ‘63 - chiamata<br />

a sfornare una dozzina di tracce nuove venti anni dopo<br />

la precedente raccolta d’inediti. Com’è andata? Molto<br />

bene e abbastanza male. La scaletta inizia nel migliore<br />

dei modi, sorta di dissolvenza malinconica e vaporosa<br />

Think About <strong>The</strong> Days, poi è quintessenza beachboysiana<br />

a passo medio la title track, quasi muscolare nella sua<br />

affabilità sapendo di poter contare su un immaginario<br />

titanico a cui si aggrappa morbida e implacabile. Da<br />

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Scuola fuRano - 108 (nano Rec, GiuGno 2012)<br />

Genere: house / PoP<br />

Il secondo disco si sa, è sempre uno spauracchio per ogni musicista o band che si rispetti<br />

anche nell’epoca dello shuffle e della frammentazione dei formati discografici.<br />

La tendenziale aspettativa di un conferma o di una cosiddetta maturità è sempre più<br />

inversamente proporzionale al tempo in cui un progetto artistico trova una propria<br />

forma espressiva autentica. Le cose si complicano ancora di più quando si parla di artisti<br />

che gravitano nel variegato mondo della dance dove il disco è il traguardo dopo una<br />

lunga gavetta a suon di singole tracce, rmx ed Ep.<br />

In luce a quanto detto finora, il caso di Borut Viola, in arte Scuola Furano, è decisamente<br />

paradossale: un esordio a quattro mani (con Marco Busolini) nel 2004 con un<br />

disco genuinamente ibrido tra pulsioni pop-house pubblicato da un’etichetta trasversale come Riotmaker records<br />

ed un seguito di ep, singoli e rmx fieramente impermeabili all’estetica giovanilistica che ha caratterizzato l’esplosione<br />

elettronica italiana negli ultimi 5 anni (Crookers, B.B.S., Congorock ecc ecc.). Diciamolo chiaramente, se 108 è il<br />

risultato, ben vengano i ripensamenti, il dosaggio con il contagocce delle uscite e soprattutto l’ostinata scelta di<br />

concentrarsi sulle proprie ossessioni musicali rispetto alle mode del momento.<br />

La prima novità importante di 108 è una produzione maniacale (Dj Color) che subito lo avvicina ai big dance<br />

album dei primi 2000 a cui Borut sembra sempre fare riferimento, ovvero, quelli dei vari Daft Punk, Basement<br />

Jaxx o Groove Armada; poi c’è il ritorno prepotente delle vocals che contribuiscono a delineare un immaginario<br />

solare e rassicurante. Su tutto però, c’è la House in tutte le su declinazioni possibili, dalle origini fino ad oggi passando<br />

per Chicago, New York, Parigi e Londra.<br />

Il disco si apre con un classico radio dj skit dal sapore orgogliosamente mitteleuropeo e la giocosa Beep Pop che<br />

sono l’antipasto a Danceteria, prima bomba dancefloor e vero e proprio standard della nuova estetica Furana. Il<br />

featuring vocale di Fiorious (Passion Pit area) innestato su solidi beat Chicago ed i tastierismi Saundersoniani<br />

disegnano subito l’ossessione sonora di Borut. Questo connubio, guarda caso è una costante anche negli altri 2<br />

singoli straccia pista della raccolta, rispettivamente, On Fire e la Daftpunkiana Follow Me; in questa triade è riassunta<br />

tutta l’estetica retronostalgica dell’intero lavoro.<br />

Ma in 108 non c’è solo questo colore, c’è anche la girl-friendly house strumentale di Pollensa morbida come<br />

una lady di Modjo o la sognante deephouse di Sunlight, con vocal oniriche da tramonto balearico a firma Xander<br />

Ferreira. Sul versante più danceflloor oriented c’è la leggerezza di numeri old school come Kendou e l’antemica<br />

H.O.U.S.E che tra jackin scuola Chicago e sampledelie vocali varie, riportano orecchie (e gambe) a templi danzerecci<br />

come il Warehouse o il Loft di Mancuso. Per completezza c’è pure la ballata Alone che in termini di micioneria fa<br />

invidia anche a Vikter Duplaix ripercorrendo le atmosfere Carpenteriane nel classico mode ipercollaudato da Felix<br />

da Housecat.<br />

A conti fatti, 108 è più di una conferma ponendosi assieme a We love animals dei Crookers come uno dei dischi<br />

più importanti che la dance italiana ha dato alla luce nell’ultimo decennio anche in virtù del fatto che con questa<br />

prova Borut ha finalmente colmato una grande lacuna nella discografia italiana: il saper dare una giusta visone<br />

retrospettiva della house culture dagli esordi a oggi. Dopo le prove di artisti quali Hercules & love Affair o di Azari<br />

& III, il punto di vista di un italiano era decisamente atteso e necessario. Grandissimo ritorno e gran bel colpaccio<br />

per la Nano Rec di Spiller.<br />

(7.5/10)<br />

daRio MoRoldo<br />

Isn’t It Time in avanti inizia però un esercizio di mestiere<br />

senza troppo genio, talora con gusto (il tepore caraibico<br />

di Daybreak Over <strong>The</strong> Ocean) ma più spesso fiacco<br />

(il bignami pop-soul di Spring Vacation, la bolsamente<br />

funky Beaches In Mind, il doo wop salottiero di Shelter)<br />

o comunque sfocato (una Strange World che semmai si<br />

riprende qualcosa di quanto prestato agli Alan Parson’s<br />

Project di Don’t Answer Me).<br />

Quando già stai per arrenderti all’inevitabile, ecco spuntare<br />

From Here To Back Again, traccia numero dieci, e<br />

tutto cambia: piano, cori languidi e chitarra per minisuite<br />

meditabonda che t’infonde un senso d’abbandono<br />

sciropposo, ottima per preparare il terreno all’incantesimo<br />

struggente di Pacific Coast Highway, sorta di ipotesi<br />

power pop accorata e teatrale nella scenografia onirica<br />

dello spaziotempo surfista. A chiudere c’è poi Summer’s<br />

Gone, pensata in origine da Wilson come l’ultima canzone<br />

dell’ultimo disco dei Boys, e non fatichi a capirne<br />

il motivo visto il passo letargico e l’estro crepuscolare,<br />

come una marea di nostalgia polposa, senso di perdita<br />

ovunque ma anche di fierezza per ciò che si è definitivamente<br />

posseduto (curioso - quasi incredibile - che vi<br />

abbia contribuito con alcune idee anche Jon Bon Jovi,<br />

presente durante le sessioni d’incisione).<br />

Tirate le somme, ok, è un album più celebrativo che altro.<br />

Giusto e bene in fondo che sia andata così: se i “ragazzi”<br />

si fossero accontentati di un ep, rinunciando a tutte le<br />

bagatelle centrali, avremmo dovuto raccontarvi un prodigio<br />

difficilmente spiegabile, con strascichi di aspettative<br />

- ne converrete - piuttosto sconvenienti. Buona estate.<br />

(6.7/10)<br />

Stefano Solventi<br />

the hundRed in the handS - Red niGht<br />

(WaRp RecoRdS, GiuGno 2012)<br />

Genere: dream electroPoP<br />

<strong>The</strong> Hundred in the Hands: Eleanore Everdell e Jason<br />

Friedman sono una delle tante coppie uomo-donna (o<br />

meglio donna-uomo) dell’attuale panorama musicale ad<br />

unire velleità pop (dall’indie al rock) e beat elettronici,<br />

basti pensare a Sleigh Bells, Crystal Castles, Phantogram,<br />

gli ultimi School of Seven Bells o gli appena<br />

sciolti Handsome Furs.<br />

La frase “erano meglio ai tempi del primo EP” è un detto<br />

che ha fatto letteralmente scuola tra i music nerds. Un<br />

modo di dire che però tristemente si adatta alla perfezione<br />

su i <strong>The</strong> Hundred in the Hands, i quali dopo un<br />

promettente This Desert EP non seppero confermare<br />

quanto di buono mostrato, pubblicando, ormai due anni<br />

fa, un dimenticabile omonimo album di debutto.<br />

La volontà di riscatto e il rinnovato appoggio della Warp<br />

Records facevano ben sperare, dopotutto una seconda<br />

possibilità la si concede a tutti, o quasi. In Red Night<br />

l’impatto sonoro è di quelli importanti, merito di un bel<br />

lavoro produttivo che rende corpose, profonde ed avvolgenti<br />

(a volte forse fin troppo, vedi l’opener Empty<br />

Stations) le composizioni: stratificazioni, tappeti di synth,<br />

4AD-Dream e drum machines sono all’ordine del giorno.<br />

E’ la scrittura il vero problema del duo di Brooklyn, a livello<br />

melodico soprattutto si ha la sensazione che sia tutto<br />

un po’ forzato o semplicemente poco a fuoco. In più a<br />

Eleanore Everdell - in perenne echo chamber - manca<br />

forse il carisma vocale di alcune sue colleghe e caratteristiche<br />

in grado di renderla unica. Lungo le dieci tracce di<br />

Red Night si passa dall’elektrock sfrenato di Come With<br />

Me a soft-sofisticherie (la titletrack o l’eterea Lead In <strong>The</strong><br />

Light) con disinvoltura, passando anche per territori ‘80srevival<br />

(Tunnels) senza mai però centrare completamente<br />

l’obiettivo.<br />

Nonostante non manchino le buone intuizioni, i <strong>The</strong><br />

Hundred in the Hands faticano ancora una volta a lasciare<br />

traccia. Occasione in parte persa... e la prossima<br />

volta potrebbe essere già troppo tardi.<br />

(6/10)<br />

RiccaRdo zaGaGlia<br />

the offSpRinG - daYS Go bY (coluMbia<br />

RecoRdS, GiuGno 2012)<br />

Genere: offsPrinG’s PoP-Punk<br />

Nel 1994 la morte di Kurt Cobain mise probabilmente la<br />

parola fine al movimento grunge, favorendo l’esplosione<br />

del pop-punk a livello mainstream - ben spalleggiato<br />

dalla third wave of ska - e dando il via a tutta la scena<br />

post-grunge made in USA. Gli <strong>Of</strong>fspring, insieme a Green<br />

Day, NOFX e Rancid furono tra i protagonisti del revival<br />

annacquato del punk e album come Smash vengono<br />

giustamente ancora considerati passaggi obbligatori per<br />

chiunque inizi ad ascoltare il genere in giovane età.<br />

Dopo l’incredibile high rotation su MTV - anche in Europa<br />

- del periodo Americana, Dexter Holland e soci hanno<br />

continuato, sempre con minore frequenza, ad azzeccare<br />

qualche singolo, ma in linea di massima gli anni zero<br />

della band californiana possono tranquillamente essere<br />

etichettati come inutili.<br />

I palazzetti continuano a riempirli, tra i quindicenni le<br />

loro magliette non passano mai di moda e sono forse<br />

fattori di questo tipo che hanno spinto gli <strong>Of</strong>fsrping ad<br />

affacciarsi negli anni dieci con un nuovo album, prodotto<br />

dal guru del tamarrock Bob Rock. Si intitola Days Go<br />

By e si apre con <strong>The</strong> Future Is Now, brano che più che<br />

guardare al futuro riprone ancora una volta il classico,<br />

rodatissimo e prevedibile <strong>Of</strong>fspring-sound.<br />

Stesso discorso per la successiva Secretes From the Underground<br />

(qui trovano spazio addirittura gli o-oh-uoh<br />

già sentiti in almeno una decina dei loro brani) e per il<br />

90% del disco. Quando escono dai loro binari (l’indecente<br />

Cruising California, la beach-jamaican Oc Guns) fanno<br />

più danni che altro.<br />

Ennesimo album trascurabile per gli <strong>Of</strong>fspring i quali verosibilmente<br />

si accontentano di rifare se stessi (è presente<br />

pure un remake del loro pezzo del 1992 Dirty Magic,<br />

tra le cose migliori del disco) a vita. Se siete venticinque/<br />

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trentenni in nostalgia post-adolescenziale, meglio ascoltare<br />

il nuovo dei Lit, il che è tutto dire.<br />

(4.8/10)<br />

RiccaRdo zaGaGlia<br />

the teMpeR tRap - the teMpeR tRap<br />

(infectiouS, MaGGio 2012)<br />

Genere: sweet PoP<br />

Sono passati più di tre anni dal botto di Conditions, e<br />

tutti aspettavano <strong>The</strong> Temper Trap al varco. Il successo<br />

di Sweet Disposition (ricordate il tema principale del film<br />

- ahi - generazionale 500 Giorni Insieme?) ha lanciato<br />

questi giovani australiani - di stanza e di carriera a Londra<br />

- come peso morto tra l’olimpo delle masse popettare e<br />

danzar ecce, senza offesa. Se volessimo definirlo, sweet<br />

pop. E’ il 2009, il tutto grazie ad un ammasso indistinto<br />

di appiccicosetti singalong, che, seppur non esaltando,<br />

ridanno un sorriso capace di accompagnare il ticchettio<br />

del piede appassionato. Un successo basato sulle vocalità<br />

intraprendenti del cantante, Dougy Mandagi e su<br />

una notevole capacità di incastro, tra spensieratezza pop<br />

appunto e romanticismo a randellate, poi. E le canzoni?<br />

Non c’erano - o meglio, ancora acerbe - e poco sembra<br />

cambiato, a spulciare nel nuovo eponimo album.<br />

Gli arrangiamenti tengono quando osano, le soluzioni<br />

sonore adottate sono ben diversificate, immediate, quasi<br />

fresche; a mancare è la scrittura, la qualità dei pezzi, la<br />

ciccia, il talento insomma. L’iniziale I Need Your Love è un<br />

manifesto programmatico, senza sorprese eppure quasi<br />

carezzevole. C’è magnificenza eighties come se luccicasse<br />

e la voce a fare da semplice lustrino. Fanno bene il verso<br />

agli ultimi <strong>The</strong> Rapture, o meglio, agli U2 se prodotti<br />

dalla Dfa o dalle SS. In London’s Burning Mandagi fa il<br />

verso - scimmiottandone l’epica - a James Dean Bradfield<br />

dei Manic Street Preachers, tra ritmiche finto sandiniste<br />

e ritornelli impacchettati come fosse bigiotteria indie<br />

pop. L’arpeggio fruttato dell’agrodolce Trembling Hands<br />

ha esiti tragici, scivolando inesorabilmente tra il pantano<br />

dell’inconsistenza e della prevedibilità. Soprassedendo<br />

su <strong>The</strong> Sea is Calling - dei Grizzly Bear cresciuti a pane<br />

e qualcosa di poco originale - meglio concentrarsi sui<br />

sospiri di una rarefatta Miracle, un po’ sciupatella ma<br />

quasi godibile nei suoi intarsi synth e nei suoi coretti<br />

animalcolletiviani (esagerando un po’). Dopo la quasi<br />

piacevolezza post soul di Never Again, la successiva Dreams<br />

ci riporta con i pensieri in territorio spudoratamente<br />

pop a cavallo tra un poco ispirato Justin Timberlake e<br />

una deriva autolesionista che potrebbe sfociare nel fallimento<br />

brillantinato dei Grammy, o peggio ancora, di X<br />

Factor. Ci fermiamo qui, noi, e di loro, dei <strong>The</strong> Temper<br />

Trap, ci rimane fra le dita la patina troppo surgelata di un<br />

prodotto esageratamente impomatato, distantissimo da<br />

qualsiasi principio emozionale. Se non desiderate verità<br />

e sensazione, ma esclusivamente spensieratezza a secchiate,<br />

accomodatevi.<br />

(6/10)<br />

fedeRico peveRe<br />

the van houtenS - flop! (face like a fRoG,<br />

GiuGno 2012)<br />

Genere: indie-Power-PoP<br />

Menomale che qualcuno, ogni tanto, si ricorda che pop<br />

non è una parolaccia. Eccoli qui, <strong>The</strong> Van Houtens, frizzantissima<br />

combo originaria di Verbania ma milanese<br />

d’adozione, che deve il nome non si sa ancora se a Leslie<br />

Van Houten, nota alle cronache nere di mezzo mondo<br />

per aver fatto parte della Family di Charles Manson, o<br />

per l’altrettanto celebre nerd dei Simpson Milhouse.Il<br />

gruppo di Alan Ramon, deus ex machina del progetto,<br />

si è invece fatto conoscere nel 2008 per It’s A Beatiful<br />

Day, power hit richiesta nientemeno che da McDonald<br />

come jingle per lo spot di un nuovo panino. Non si indignino<br />

gli indie kids di casa nostra, perché è fuorviante<br />

circoscrivere la biografia musicale dei Van Houtens alla<br />

singola canzone: l’esordio sulla lunga distanza, intitolato<br />

autoironicamente Flop!, è uscito per Face Like A Frog<br />

lo scorso 29 maggio, e a dispetto del titolo ha tutte le<br />

intenzioni - e i numeri - per farsi strada.È il caso di John<br />

Ferrara & Betty Karpoff, singolo di lancio e manifesto programmatico<br />

di tutto l’album. Pop, dicevamo, di quello<br />

spontaneo e ultra contagioso che in due minuti riesce<br />

a intercettare l’orecchio dell’ascoltatore senza risultare<br />

appiccicoso, come dimostra la verve poliglotta del ritornello<br />

(John is contento confusion sentimento).Stesso<br />

discorso per I Want To Tell You e il suo allegro incedere<br />

da marcetta post-beatlesiana con inserti afro-beat<br />

a là Vampire Weekend, forse il riferimento più vicino<br />

al quintetto, peraltro confermato dalla successiva Matala,<br />

dove l’ukulele in apertura esalta l’identità di un<br />

cantautorato balearico parallelo a quello dei quattro<br />

newyorchesi. Pezzi perfettamente in equilibrio tra hype<br />

e aggancio radiofonico, costruiti su arrangiamenti curati,<br />

efficaci ma non pedanti che lasciano trasparire un lavoro<br />

in studio libero e la cui vera forza è soprattutto una<br />

punta di cristallina irriverenza.Se ad un primo ascolto<br />

l’impressione è quella di avere tra le mani un gradevole<br />

pop da aperitivo in spiaggia, il piglio solare e ironico<br />

che colora tutto l’album finisce per consolidarsi in un<br />

prodotto che ha l’ostinazione per essere qualcosa in più<br />

di un temporaneo sottofondo estivo. Anche per l’abilità<br />

del frontman di sfornare brani perfettamente pop nella<br />

forma ma di innegabile freschezza indie nella sostanza,<br />

tY SeGall - tY SeGall band - SlauGhteRhouSe (in the Red RecoRdS, GiuGno 2012)<br />

Genere: Power GaraGe<br />

Ci siamo, è venuto il momento per Ty Segall di agguantare la ribalta garage americana.<br />

Non che fino ad ora fosse un perfetto sconosciuto, anzi, è il curriculum a parlare per lui:<br />

ex Sic Alps e poi cinque dischi solisti con la messa a fuoco sempre più precisa, senza<br />

contare una lunghissima serie di split e collaborazioni che lo indiziavano tra i più promettenti<br />

musicisti della sua generazione. Ora Ty passa allo step successivo e se la gioca<br />

al pari dei <strong>The</strong>e Oh sees o Black Lips, perché Slaughterhouse gode di una ispirazione<br />

in continua ascesa e trova beneficio nell’amalgama di una formazione oramai stabile<br />

e rodata (Mikal Cronin, Charles Moothart e Emiliy Rose Epstein), tanto che siamo qui<br />

a parlare della Ty Segall Band, come se Segall volesse dar peso al contributo dei suoi musicisti.<br />

E veniamo così al disco, che fa essenzialmente due cose: primo opera una sostituzione d’archivio. Spariscono i primi<br />

sixties di Greg Shaw per approdare al proto-punk detroitiano, all’hard rock e alle derive prog dei primi ‘70. L’incipit<br />

di Death è praticamente sabbatthiano. Diddy Wah Diddy nasce dalla passione MC5 e Troggs. Wave goodbye macina<br />

riff heavy e finisce in una spirale di virtuosismo degna degli Hawkwind, anche se il vero momento prog scatta alla<br />

fine con i dieci minuti di Fuzz War, titolo programmatico per una jam tutta in distorsione.<br />

E qui sta il secondo punto di Slaughterhouse, ovvero la capacità di giocare con la struttura delle canzoni, di spaziare<br />

dall’hangover della citata Fuzz War alle pallottole punkettare di Mary Ann o Slaughterhouse, fino alle più classiche<br />

forme pop che continuano ad essere eredità di Jay Reatard, <strong>The</strong> Tongue e That’s the bag i’m in su tutte. Sono segnali<br />

di un songwriting maturo, che non ha più bisogno di nascondersi sotto tonnellate di rumore e che può fare a meno<br />

del lo-fi come espediente, decodificandolo in un piacere squisitamente estetico.<br />

E’ dunque il personaggio Ty Segall a venire alla luce, se vogliamo anche più del valore intrinseco di Slaughterhouse,<br />

che pur rimanendo in lizza per le classifiche di fine anno non può avere la portata di un Let it Bloom. Lì erano altri<br />

tempi, e il garage era nel suo momento più cool. Ora che invece bisogna sudare per uscire con forza dal piattume<br />

e dalla ripetizione del canovaccio sixties, Segall si dimostra tra i più intraprendenti e preparati ad affrontare la sfida.<br />

Meritandosi il top della categoria.<br />

(7.5/10)<br />

Stefano Gaz<br />

come Paper Plane e Baby Don’t Lie.Le conclusive Waiting<br />

For <strong>The</strong> Sun e 1987 Souvenir si allontanano leggermente<br />

dal paradigma finora elencato, con echi di cantautorato<br />

folk da una parte e sonorità electro-eighties dall’altra,<br />

ma il risultato finale non cambia.<br />

(7.4/10)<br />

Giulia antelli<br />

the vindicatoRS - GReateSt hitS (Go doWn<br />

RecoRdS, MaGGio 2012)<br />

Genere: roots-rock<br />

Un’armonica a bocca blues, un sax capace di spaziare dai<br />

Contortions a certe circolarità soul à la Wilson Pickett,<br />

un impianto basso-chitarra elettrica-batteria fondamentalmente<br />

roots-rock: loro sono i Vindicators, formazione<br />

nata da una costola dei Frigidaire Tango nel 1986 e costretta,<br />

suo malgrado, ad esaurire la propria spinta propulsiva<br />

nell’arco di sei anni, dopo aver inciso un paio di<br />

dischi. Da allora più nessuna notizia fino al 2011, quando<br />

la band decide di riesumare la ragione sociale finendo<br />

per “autocelebrarsi” con il qui presente Greatest Hits +<br />

CD live allegato.<br />

La solita reunion per sfruttare l’onda lunga dei corsi e<br />

ricorsi musicali’ A dire il vero non ci pare, considerato<br />

anche un hype che attualmente va in direzione decisamente<br />

diversa rispetto al genere di appartenenza della<br />

band (insomma, non stiamo parlando di shoegaze e<br />

nemmeno di dubstep). Come a dire che se dei Vindicators<br />

non avete mai sentito parlare prima, continuerete<br />

presumibilmente a non vederli citati nei social network<br />

più à la page. Un peccato, vista la proposta vibrante che<br />

la band riesce a sintetizzare nelle venti tracce del best<br />

of e nelle diciotto del CD live: una musica influenzata<br />

dall’punk’n’roll dei Clash (Lovelight) come dal funk (King<br />

Song), da cadenze loreediane (I Wonder Why) come dal<br />

blues (Seven Cookies), dall’approccio fisico degli MC5<br />

(Down Down Down) come da certi mid tempo di impronta<br />

più melodica (Don’t Kill Me).<br />

120 121


Va da sé che la dimensione ideale del gruppo rimane il<br />

live, fotografato a dovere da un secondo disco che mette<br />

a nudo la capacità di impattare sul pubblico con una<br />

formula costruita principalmente sugli scambi di chitarra<br />

elettrica e fiati. Con in più il valore aggiunto garantito<br />

dalle qualità di performer del front-man Charlie Out<br />

Cazale, sorta di John Belushi in salsa roots in grado di<br />

trascinare oltremisura il pubblico.<br />

Qui in basso potete ascoltare lo streaming integrale del<br />

Greatest Hits.<br />

(7/10)<br />

fabRizio zaMpiGhi<br />

the Wake - a liGht faR out (ltM RecoRdinGS,<br />

MaGGio 2012)<br />

Genere: indie PoP<br />

Sbandierati ogni due per tre dai <strong>The</strong> Drums fin dall’inizio<br />

della carriera (tanto che Jacob Graham è stato il primo a<br />

video-intervistarli lo scorso dicembre per la serie di corti<br />

Visiomento), i <strong>The</strong> Wake sono uno dei segreti meglio<br />

custoditi del pop britannico degli ultimi trent’anni.La<br />

band, formata nel 1981 a Glasgow, ha ospitato - curiosità<br />

- anche il futuro Primal Scream Bobby Gillespie (ancor<br />

prima della comparsata nei Jesus And Mary Chain) e<br />

rappresentato al meglio ciò che oggi dovrebbe essere un<br />

ideale esempio di indie(pendenza). Marginalmente centrale,<br />

il percorso intrapreso da Gerard “Caesar” McInulty e<br />

Carolyn Allen, unici membri rimasti attivi ad oggi, è tra i<br />

più emblematici per (ri)osservare i Noughties in relazione<br />

alle vicende storiche ’originali’. Partendo dalle fucine<br />

post-punk di Factory Records e Postcard e passando per<br />

la synth-wave dei New Order e la corrente alternata dei<br />

fratelli Reid (specie i tardi Mary Chain), la band ha finito<br />

la propria corsa proprio tra le braccia del boogie rock psichedelico<br />

dell’ondata madchesteriana. Un movimento,<br />

quest’ultimo, tornato prepotentemente in voga in questi<br />

mesi sia per il ventennale di Screamadelica dei Primal<br />

Scream sia per la reunion degli Stone Roses.<br />

Ritrovare ora quella band che firmò per la Factory all’indomani<br />

della morte di Curtis e poi per Sarah Records nel<br />

1988, è un atto di devozione a una laterale maestranza<br />

indie-pop. Pubblicato con l’aiuto sostanziale del bravo<br />

Ian Catt (praticamente il quarto membro dei St Etienne,<br />

il cui tocco è onnipresente a partire dall’operner<br />

Stockport) e Duncan Cameron (Teenage Fanclub) per la<br />

LTM Recordings, A Light Far Out è un po’ lo specchio dei<br />

passati di Caesar e Carolyn (già al lavoro assieme dalla<br />

metà 00s nel duo <strong>The</strong> Occasional Keepers), aggiornato<br />

di nodale folktronica noughties.<br />

Troviamo echi neworderiani in quelle tastiere 80s e nei<br />

giri di basso factoryani (Methodist), jangling R.E.M. nelle<br />

chitarre di <strong>The</strong> Back Beyond e un tipico tocco del Nord<br />

d’Inghilterra nell’usare charleston e percussioni. Un po’<br />

dell’assuefazione che ci ha dato recentemente la riscoperta<br />

di un gioiello come Here Comes Everybody (Factory,<br />

1985, 8.0/10) la troviamo anche da queste parti,<br />

sicuramente nelle sottili emozioni di If <strong>The</strong> Ravens Leave,<br />

nei nove minuti della traccia omonima e nella magia un<br />

po’ AIR della finale <strong>The</strong> Sands. Meno in altri episodi, comunque<br />

facilmente perdonabili, come il plumbeo folk<br />

di Starry Day e lo strumentale Faintless.<br />

This is 100% authentic british pop. Un culto che si appropria<br />

di un nuovo tassello.<br />

(7/10)<br />

edoaRdo bRidda<br />

the WelcoMe WaGon - pReciouS ReMedieS<br />

aGainSt Satan’S deviceS (aSthMatic kittY<br />

RecoRdS, GiuGno 2012)<br />

Genere: folk<br />

Fa un certo effetto spulciare in rete e trovarsi di fronte<br />

una recensione di Precious Remedies Against Satan’s Devices<br />

pubblicata sul portale Christianity Today. Eppure<br />

è da quel mondo che arrivano il ministro presbiteriano<br />

Vito Aiuto (un nome, un programma) e sua moglie Monique:<br />

un sottobosco musicale cresciuto tra gli altari, le<br />

funzioni ecclesiastiche - ’Here, Vito and Monique simply<br />

throw those welcoming arms open wider, inviting the listener<br />

to join them for 51 minutes of church’ scrivono sul<br />

sito ufficiale riferendosi al nuovo disco - e una tradizione<br />

folk allargata capace di arrivare fino a Sufjan Stevens.<br />

Lo stesso Stevens che ai tempi dell’esordio Welcome To<br />

<strong>The</strong> Welcome Wagon fece un po’ le veci del mecenate,<br />

curando produzione, strumentazione e voci, tanto da<br />

spingere qualcuno a definire quel disco una ’gloriosa<br />

collezione di b-sides’ del musicista detroitiano.<br />

Un’affermazione ingenerosa, almeno alla luce di quanto<br />

si ascolta in Precious Remedies Against Satan’s Devices<br />

e considerato anche il fatto che in questo secondo lavoro<br />

tutto funziona come da copione, pur con un produttore<br />

diverso (è della partita Alexander Foote). Anzi,<br />

sembra quasi di poter parlare di passo in avanti, con un<br />

suono senza sbavature, perfezionato, ma capace anche<br />

di recuperare quella naturalezza melodica che già<br />

in passato aveva mostrato tutte le sue potenzialità. Lo<br />

scopo di brani come il gospel bianco di My God My God<br />

e di ballad crepuscolari come I Know My Redeemer Lives<br />

o Would You Come And See Me In New York, del country<br />

di Rice And Beans (But No Beans) e del soul epidermico<br />

di Lo, He Comes With Clouds Descending non è ridefinire<br />

uno stile, bensì affondare le radici nella tradizione americana<br />

affidando alla musica una funzione quasi conso-<br />

latrice. E’ stesso Aiuto a togliere ogni dubbio in questo<br />

senso: ’un pastore deve prendersi cura delle persone. Mi<br />

piace scrivere musica che sia interessata esclusivamente<br />

a questo’.<br />

Certo, sotto la superficie luccicante delle soluzioni melodiche<br />

rimane quell’humus catto-ciellino - così lo definiremmo<br />

dalle nostre parti - con tanto di tendenza al<br />

proselitismo che qualcuno potrebbe trovare quantomeno<br />

fastidioso, ad esempio nello sperpero di Halleluja di<br />

brani come <strong>The</strong> Strife Is O’er, <strong>The</strong> Battle Won. Eppure la<br />

formazione americana è abbastanza brava a mascherare<br />

il tutto da “stratagemma letterario”, un pò come accade<br />

con i riferimenti biblici di autori come Leonard Cohen<br />

o Nick Cave. Un’immaginario che indirizzi il cammino,<br />

insomma, ma le cui storie di amicizia e fratellanza possano<br />

essere condivise senza difficoltà anche da chi non<br />

si sente rappresentato da un credo religioso specifico.<br />

Al di là delle convinzioni ideologiche, un bel disco di cui<br />

godere a tutte le latitudini.<br />

(7.2/10)<br />

fabRizio zaMpiGhi<br />

the YounG - dub eGG (MatadoR, GiuGno<br />

2012)<br />

Genere: Psy rock<br />

<strong>The</strong> Young, la band texana guidata dall’ex-punk Hans<br />

Zimmerman, uscì due anni fa con un debutto lungo - Voyagers<br />

of Legend - passato praticamente inosservato,<br />

nonostante fosse fosse stato pubblicato dalla Mexican<br />

Summers. Di qualche mese fa è invece l’importante passaggio<br />

alla Matador, che si completa oggi con la pubblicazione<br />

del sophomore Dub Egg.<br />

Il disco si apre con Livin’ Free: electric guitar dal sapore<br />

classico, psichedelia sospesa e la vocalità agrodolce di<br />

Hans che in questa occasione, in alcuni frangenti, può<br />

ricordare quella dei compagni di uova - Cracking Eggs è<br />

un loro brano - My Best Fiend. E poi paesaggi acustici<br />

in psilocybe (Only Way Out), i Silversun Pickups meno<br />

prodotti (White Cloud), i neverending riffs di Dance With<br />

<strong>The</strong> Ramblers, il Crazy Horse-sound spesso dietro l’angolo<br />

e una manciata brani ideali per una colonna sonora<br />

da Route 66 trip. Un viaggio che per i quattro di Austin<br />

è ancora all’inizio: la strada da percorrere per riuscire ad<br />

emergere definitivamente è sicuramente ancora lunga.<br />

Come diceva qualcuno, it’s a long way to the top if you<br />

wanna rock ‘n’ roll...<br />

Con l’approccio delle rock band più classiche, i <strong>The</strong><br />

Young viaggiano da un lato all’altro di un arcobaleno<br />

che fa da ideale ponte tra i tardi sixties/seventies e gli<br />

anni ‘90 (dagli Smashing Pumpkins ai Flaming Lips,<br />

passando per il lo-fi dei Guided By Voices), con ancora<br />

qualche evidente limite a livello compositivo.<br />

(6.4/10)<br />

RiccaRdo zaGaGlia<br />

toM violence - God iS buSY (black candY,<br />

apRile 2012)<br />

Genere: indie-rock<br />

Sembrano passati secoli da quel gran disco dei Sonic<br />

Youth dal titolo Evol. Dentro c’era una canzone chiassosa<br />

e tiratissima che si chiama Tom Violence: è da qui<br />

che la formazione fiorentina, giunta al terzo disco, trae<br />

l’origine del proprio nome. ’È inutile nascondere la scelta<br />

degli intenti’, sembrano dirci. Il loro è un rock duro, macchiato<br />

dalle ferite seattleiane del grunge, contaminato<br />

da un pizzico si sinth(esi), che in questi anni duemila<br />

non guasta mai.<br />

God Is Busy è un Ep che ha il compito di riprendere le<br />

fila del discorso lasciato in sospeso con il precedente<br />

Borderlines e di confermare le ottime impressioni di critica<br />

e pubblico. Operazione quanto mai felice, perché<br />

pare proprio che del loro pesante bagaglio i Tom Violence<br />

abbiano fatto tesoro. Bellissima è A Suit, Fake Hair,<br />

A Diamond Smile, con le chitarre spiazzanti, la voce che<br />

ci ricorda il buon Layne Staley degli Alice in Chains e<br />

dei riff che farebbero invidia ai Black Keys. Piena Sky Valley,<br />

per l’acidissima <strong>The</strong> Wizard, brano marchiato a suon<br />

di crossover e dal verso ’God is busy’, recitato a lungo e<br />

ossessivamente. I meccanismi funzionano bene anche<br />

quando si ’abbassano’ i toni in Horizon e Brand <strong>The</strong> Damn:<br />

l’una esalta la vena sintetica, quasi alla Placebo, della<br />

band, l’altra, con i suoi retaggi melodici e orchestrali, ricorda<br />

le ballate degli Interpol.<br />

Chiudono il disco due remix riuscitissimi di vecchi brani<br />

della band. Si allarga così il bacino d’utenza, aprendosi<br />

anche ad appassionati di diverso genere, che, tra l’altro,<br />

nella versione multimediale del disco si possono dilettare<br />

a creare il proprio mix di un brano di God Is Busy.<br />

Meglio di così?<br />

(6.6/10)<br />

nino ciGlio<br />

tWin ShadoW - confeSS (4ad, GiuGno 2012)<br />

Genere: discoPoP Galore<br />

Quando intervistammo George Lewis jr., aka Twin Shadow,<br />

aka il figlio del barbiere caraibico che lo portò a<br />

Brooklyn, ci parlò per lungo tempo di due grandi passioni,<br />

le macchine e le moto degli anni Settanta, oltre il soul<br />

di stampo detroitiano, che lui stesso definiva “la cosa più<br />

divina che ci sia sulla Terra”. Erano i tempi dell’esordio<br />

Forget, passato per la maggior parte dei critici e dei giornalisti<br />

come un riuscito clash tra sofisticato pop Eighties<br />

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e revanchismo Sixties.Vero, ma ci sembrava già allora<br />

che a partire da moto e automobili, il fulcro dell’immaginario<br />

di Twin Shadow fossero gli anni Settanta. Idea<br />

confermata dall’ascolto di Confess, il secondo full-leght,<br />

nuovamente prodotto in solitudine e consegnato alle<br />

sapienti mani della 4AD.<br />

Se l’iniziale Golden Lion può far pensare a un outtake del<br />

primo disco, con quel suo incedere zoppicante da pop<br />

avvolgente, già con la seconda traccia, You Call Me On,<br />

le cose cambiano: lentamente emerge una chitarra in<br />

levare e l’attenzione per un pump quasi da dancefloor<br />

aumenta col passare dei minuti. Attenzione e passione<br />

per gli albori della disco (e siamo quindi ancora in territorio<br />

Seventies) che vengono confermati dalle tastiere<br />

della successiva Five Seconds.<br />

Sotto un’apparente continuità con il precedente lavoro,<br />

quindi, si nascondono in realtà sparigliamenti di carte.<br />

Certo mai così sconvolgenti: più che altro delle sfumature,<br />

ma che danno profondità al lavoro. Le chitarre prendono<br />

maggiormente la scena (sentire l’arpeggio della<br />

very cool ballad Run My Heart) e sono accompagnate da<br />

accenni più marcati alla disco (si ascolti il dittico Beg For<br />

<strong>The</strong> Night e Patient) mentre il synth pop di marca Eighties<br />

continua a tenere banco (<strong>The</strong> One, When <strong>The</strong> Movie<br />

Is Over).<br />

A conti fatti George Lewis Jr. ha sfornato un secondo<br />

disco sullo stesso piano del primo, con l’attenuante che<br />

piccole variazioni rendono più interessante la tavolozza,<br />

ma con l’aggravante che con questa formula abbiamo<br />

l’impressione che Twin Shadow possa continuare a replicare<br />

se stesso all’infinito.<br />

(7/10)<br />

MaRco boScolo<br />

viSionS of tReeS - viSionS of tReeS<br />

(SoMethinG in conStRuction, GiuGno 2012)<br />

Genere: trance PoP<br />

Dio ci liberi dalla stampa musicale maldestra o peggio<br />

ancora maligna, che ti scodella i voli pindarici più improbabili<br />

per pomparti il nome, con l’effetto prima di<br />

portarti completamente fuori strada e poi di infastidirti<br />

per esser stato trattato da mero oggetto da convincere<br />

che non merita uno straccio di argomentazione. I Vision<br />

<strong>Of</strong> Trees ce li han venduti come “la perfetta sintesi delle<br />

espressioni pop dagli ‘80 ai ‘00”, “l’anello di congiunzione<br />

tra i rave e la dance ‘90 per il largo audience”, “il nuovo astro<br />

nascente dell’elettronica da classifica”, facendo di tutto per<br />

evitare di pronunciare l’unica parola sensata e centrata<br />

ma che, guarda caso, avrebbe fatto scappare all’istante<br />

l’80% dei lettori: trance.<br />

Per l’album d’esordio il duo londinese non fa altro che<br />

giocare coi collaudatissimi meccanismi trance mainstream<br />

dei soliti Tiësto, Van Buuren e del terribile Guetta,<br />

caricando sul falsetto dal timbro epic-celtico sfumato<br />

Evanescence per dar la sensazione di novità. Solo che,<br />

anche a voler essere bendisposti, ormai la formula poptrance<br />

radiofonica di Turn 2 U è stantìa anche più del synthpop,<br />

le pose dark di Ocean Floor suonano fuori fuoco<br />

nell’inquadratura complessiva, Glass Rain e Disapeared<br />

sono la riproduzione da stampino delle arene sintetiche<br />

che furono e i mood in slow-emotion da naturalismo<br />

dreamy di With You e We’re All Dust, pur nella loro veste<br />

dignitosa, son due ipotesi isolate che vengono screditate<br />

dal contesto.<br />

Alla fine i due pezzi messi meglio a fuoco sono Everything<br />

Awaits, che scopre le carte e svela l’affinità con l’altro<br />

hardcore-pop act delle classifiche britanniche, i Nero,<br />

e Endless Days <strong>Of</strong> Youth, che tira fuori una fiera coscienza<br />

dei tempi improvvisando un incrocio sghembo tra<br />

humour post-witch e metrica halfstep. Tutto così tanto<br />

studiato a tavolino dall’industria che vien quasi compassione<br />

per i protagonisti. Saranno le prossime release a<br />

mostrare il loro vero carattere, ma qui non moriremo di<br />

ansia aspettandole.<br />

(5.4/10)<br />

caRlo affatiGato<br />

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CAMPI MAGNETICI #16<br />

Decibel Napalm Death<br />

vivo da Re (SpaGhetti Rec, GiuGno 1980)<br />

Diciamolo subito, così, in medias res: i primi dischi di<br />

Enrico Ruggeri, a partire da questo Vivo da re fino al<br />

1985 di Tutto scorre, sono tutti diversamente eccezionali.<br />

Scegliere di analizzare questo secondo lavoro firmato<br />

Decibel quindi e non, per esempio, il primo album<br />

solista del cantautore milanese - Champagne molotov<br />

- o il più noto Polvere, significa porre doverosamente<br />

lo sguardo sulla prima apparizione di quelle che sarebbero<br />

diventate più in là alcune cifre stilistiche del Rouge<br />

nazionale.<br />

Prodotto dal re dei punk-prima-di-noi, l’ex Rokes Shel<br />

Shapiro, che compare anche al piano in alcuni brani,<br />

Vivo da re è la perfetta commistione di suoni dalla produzione<br />

low profile, forte tensione punk direzionata a<br />

tratti nella più blue new-wave e una raccolta di incipit<br />

di capacità autorali notevoli. Pervaso di malinconia<br />

e sgangherati male di vivere e lascivia, il disco è una<br />

raccolta di suoni elementari la cui ispirazione è quella<br />

commistione tutta nordica, dichiaratamente amata da<br />

Ruggeri, di synth pop, pennate di puro punk e filastroccheschi<br />

momenti da cabaret tedesco a-la-Kurt Weill.<br />

Potremmo anche, certo con un maggiore sforzo immaginativo,<br />

nominare Sparks, David Bowie e tutto quel<br />

mondo oscuramente e orgogliosamente figlio dell’estetismo<br />

letterario di Wilde e soci.<br />

Grandi occhiali da sole dalla montatura bianca e un look<br />

camicia+cravatta che ai Kraftwerk deve tutto, aura di<br />

mistero e parole che hanno il grande pregio di essere<br />

misurate, scelte, dosate. Se il primo episodio del 1978,<br />

noto ai più come Punk per la scritta sulla copertina, era<br />

poco più di una raccolta di rabbie post adolescenziali<br />

qua le cose si fanno ben più serie. Fanno capolino la<br />

depressione di amori finiti più per giovanilismo e brutto<br />

carattere che per la fine di un sentimento e tutto il disco,<br />

da Sepolto vivo passando per A disagio fino a Pernod, è<br />

un libero spazio occupato da incazzature ben studiate,<br />

126<br />

cinismo meditato e in alcuni casi persino interessato a<br />

certe dinamiche sociali (Supermarket). Non mancano le<br />

meta-narrazioni sulla vita, allora forse per Ruggeri più<br />

agognata che reale, del rocker maudit (Vivo da re, Teenager).<br />

Il fiore all’occhiello sono però le canzoni d’amore, un<br />

amore unconventional come quello cantato poco prima<br />

dai Japan nel loro album d’esordio, amore erotico<br />

fatto di possesso come ne Il mio show ma, soprattutto,<br />

tormentato come in quel capolavoro di Vivo di re, brano<br />

interamente costruito sulla negazione di un evidente<br />

desiderio d’amore corrisposto che alla fine, strofa dopo<br />

strofa non può che essere confessato “certo pensandoci<br />

bene qualcosa mi manca...” o ancora “di rose e di noia devi<br />

essere stanca”. Menzione speciale per Peggio per te che<br />

con il suo “vai a piangere un po’ più in là” è diventata un<br />

monito a chi non abbandona la sicurezza per il tremar<br />

d’amore.<br />

Sebbene negli annali siano rimaste più che altro Contessa,<br />

grande successo di pubblico già in 45giri grazie<br />

a Sanremo e la title track, nonchè una non eccezionale<br />

cover di Ho in mente te, Vivo da re è un eccezionale momento<br />

di musica d’autore italiana dalle più nobili tensioni<br />

esterofile. Un ottimo modo per iniziare a riscoprire<br />

l’epoca d’oro di un grande autore.<br />

Giulia cavalieRe<br />

classic album<br />

ScuM (eaRache, 1987)<br />

Birmingham. Periferia industriale di un’Inghilterra in crisi<br />

economica. I vapori soffocanti delle industrie dell’acciaio<br />

e la low class impegnata ad affrontare la grande lotta<br />

contro la disoccupazione. E poi i giovani, che, ancora una<br />

volta, vivono il ’no future’ profetizzato dal punk, sotto la<br />

scure implacabile del governo Thatcher.<br />

È l’anno 1985. Culturalmente, un anno cruciale perché<br />

spartiacque tra la fine della prima New Wave <strong>Of</strong> British<br />

Heavy Metal e l’inizio di una forma più violenta e reazionaria<br />

di musica, interpretata dallo Speed Metal (poi<br />

tramutatosi in thrash), all’epoca accelerazione del suono<br />

Heavy. Londra, i suoi fermenti. San Francisco e Miami,<br />

le terre del suono estremo. La Svezia, culla della civiltà<br />

oltranzista del Death. Ma Birmingham, la città natale dei<br />

Black Sabbath, risorge come luogo di rivoluzione della<br />

musica rock, quasi inconsapevolmente. La Earache, di<br />

Digby Pearson, promoter locale e attivissimo tape trader,<br />

pubblica il terzo disco della sua storia. Un disco costato<br />

120 sterline e registrato in presa diretta in due notti. Un<br />

disco che doveva e voleva rappresentare il sentimento,<br />

la visione, la percezione del mondo da parte della nuova<br />

gioventù inglese: Scum. La concettualizzazione del nichilismo<br />

industriale. Un’opera firmata da un gruppo destinato<br />

a divenire il più grande riferimento della musica<br />

estrema mondiale nei successivi tre decenni: i Napalm<br />

Death. Morte al Napalm. Feccia. Dolore alle orecchie.<br />

Brevi concetti spesso speculari a quelli, egualmente incisivi,<br />

del Manifesto del Futurismo. Il Grindcore e il futurismo<br />

condividevano l’ossessione per il dinamismo, per<br />

l’esasperazione della velocità; entrambi furono figli della<br />

rivoluzione culturale-industriale. ’Multinational Corporations,<br />

Genocide of <strong>The</strong> Starving Nations’ ripetuta ossessivamente,<br />

dalla voce inquietante di Nick Bullen prima<br />

e di Lee Dorian poi, apriva, con l’omonima canzone, la<br />

stagione del grindcore, la musica che comprimeva e decostruiva<br />

la struttura musicale del rock, arrivando a produrre<br />

puro caos ordinato, sviluppato in ventotto canzoni<br />

eseguite in ventiquattro minuti. La musica si comprime.<br />

Diventa una scheggia impazzita. Solo questione di velocità.<br />

Scum, grazie alle fulminanti intuizioni di You Suffer<br />

(della durata di due secondi), di Siege <strong>Of</strong> Power (in cui<br />

il blastbeat diveniva<br />

la struttura<br />

portante di tutta l’architettura musicale), di Caught In A<br />

Dream, riscriveva il concetto di rock fino ad allora conosciuto,<br />

polverizzandone le regole.<br />

Contrariamente al credo comune, Scum non fu la definizione<br />

del suono grindcore, bensì del suo concetto.<br />

La sublimazione del grindsound arrivò un anno dopo,<br />

con la pubblicazione di From Enslavement To Obliteration<br />

dei Napalm Death e Reek <strong>Of</strong> Putrefaction dei Carcass.<br />

Scum era il manifesto concettuale. Era l’inizio della fine.<br />

L’alba dell’apocalisse sonora. E, non appaia un paradosso,<br />

ma Scum dei Napalm Death, pur provenendo da una<br />

cultura prettamente più Hardcore, divenne il disco che<br />

cambiò per sempre il metal. Non erano gli Iron Maiden<br />

la passione dei Napalm Death, quanto i Discharge, i<br />

Crass e i Siege. Scum fu l’esempio di sperimentazione<br />

improvvisa, di convergenza di elementi inavvicinabili tra<br />

loro, scritto da musicisti il cui futuro svelerà la vera natura:<br />

Justin Broadrick, re della sperimentazione industrial<br />

dub elettrometal con Godflesh, Jesu, Final, Pale Sketcher;<br />

Lee Dorrian, l’animo metal, poi artefice della grande resurrezione<br />

del doom metal con i Cathedral (prima di<br />

dedicarsi interamente alla sua casa discografica, la Rise<br />

Above); Mick Harris girovago sperimentatore con John<br />

Zorn, Scorn, Painkiller e Almamegretta.<br />

I Napalm Death erano spinti da un’incredibile urgenza<br />

espressiva e realizzarono in poche ore il cambiamento,<br />

la modificazione, la decostruzione dell’heavy metal,<br />

sancendo la nascita di una nuova forma musicale che<br />

nei vent’anni successivi, sconvolse pubblico e critica.<br />

L’edizione pubblicata per il venticinquesimo anniversario<br />

della Earache è tanto più fondamentale perché pubblica<br />

integralmente la prima sessione di registrazione<br />

di Scum, i provini che poi il gruppo modificò il giorno<br />

successivo, prima di consegnare i nastri a Digby Pearson.<br />

E nella grezza e rozza esecuzione tecnica di una musica<br />

incomprensibile, s’intravedeva chiaramente il seme del<br />

male, l’origine del caos. Della nuova feccia moderna.<br />

MaRio RuGGeRi<br />

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