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Pubblicazione quadrimestrale Poste italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003<br />
(conv. in L. 27/02/2004 nº 46) art. 1, comma 1, DCB VERONA - Con I.R.<br />
Nuova Serie - Anno IX - N. 1 Gennaio-Aprile 2006<br />
L’INDICE <strong>PENALE</strong><br />
Rivista fondata da<br />
PIETRO NUVOLONE<br />
Diretta da<br />
ALESSIO LANZI<br />
Tra l’altro in questo numero:<br />
— In tema di responsabilità degli enti collettivi<br />
— Sul diritto penale del nemico<br />
— Il soggetto attivo nei reati propri<br />
— In tema di giudizio di revisione<br />
ISSN 0019-7084
L’OBIETTIVO SU...<br />
1
Direttore<br />
Alessio Lanzi<br />
Comitato di Direzione<br />
Alberto Cadoppi, Luigi Stortoni, Paolo Tonini<br />
Comitato Scientifico<br />
Alessandro A. Calvi, Franco Coppi, Piermaria Corso, Angelo Giarda,<br />
Alfredo Molari, Elio Morselli, Antonio Pagliaro, Mario Pisani,<br />
Fabrizio Ramacci, Roland Riz, Giorgio Spangher, Sergio Vinciguerra.<br />
Renato Bricchetti, Stefano Canestrari, Luigi Domenico Cerqua, Ubaldo<br />
Giuliani Balestrino, Nicola Mazzacuva, Bartolomeo Romano, Giulio<br />
Ubertis, Paolo Veneziani.<br />
Josè de Faria Costa-Coimbra, Hans-Heinrich Jescheck-Freiburg i.B.,<br />
Fermin Morales Prats-Barcelona, Jean Pradel-Poitiers, Alexander<br />
McCall Smith-Edinburgh, Gonzalo Quintero Olivares-Tarragona.<br />
Comitato di Redazione<br />
Stefano Putinati (coordinatore)<br />
Paolo Aldrovandi, Daniele Carra, Paolo Damini, Gian Paolo del<br />
Sasso, Stefano Delsignore, Luca Monticelli, Cosimo M. Pricolo,<br />
Lorenza Tosato.<br />
Emanuela Arduini, Luca Beltrami, Malaika Bianchi, Mario L’Insalata,<br />
Maria Chiara Parmiggiani, Cristina Pavarani.<br />
Hanno diretto la Rivista:<br />
Pietro Nuvolone dal 1967 al 1984<br />
Mario Pisani dal 1985 al 1996
Nuova Serie - Anno IX - N. 1 Gennaio-Aprile 2006<br />
L’INDICE <strong>PENALE</strong><br />
Rivista fondata da<br />
PIETRO NUVOLONE<br />
Diretta da<br />
ALESSIO LANZI
proprietà letteraria riservata<br />
___________<br />
# Copyright 2006 by CEDAM - Padova<br />
ISBN 88-13-26609-X<br />
Stampato in Italia - Printed in Italy<br />
grafiche fiorini - via altichiero, 11 - verona
INDICE<br />
5<br />
Indice<br />
(n. 1 – gennaio-aprile 2006)<br />
Saggi e opinioni<br />
Luigi Stortoni – Davide Tassinari, La responsabilità degli<br />
enti: quale natura? quali soggetti? .........................................<br />
Andrea Mereu, La responsabilità ‘‘da reato’’ degli enti collettivi<br />
pag. 7<br />
e i criteri di attribuzione della responsabilità tra teoria e prassi<br />
Loredana Garlati, Silenzio colpevole, silenzio innocente.<br />
L’interrogatorio dell’imputato da mezzo di prova a strumento<br />
pag. 27<br />
di difesa nell’esperienza giuridica italiana .............................. pag. 109<br />
Federica Resta, Nemici e criminali. Le logiche del controllo<br />
Francesco Callari, La relazione dialettica tra l’irrefragabilità<br />
pag. 181<br />
del giudicato penale ed il giudizio di revisione ..................... pag. 229<br />
Studi e rassegne<br />
Marco Mantovani, L’oggetto tutelato nelle fattispecie penali<br />
in materia di religione .............................................................<br />
Francesco Cingari, Tipizzazione e individuazione del soggetto<br />
attivo nei reati propri: tra legalità ed effettività delle<br />
pag. 257<br />
norme penali ...........................................................................<br />
Alessandro Giuseppe Cannevale – Chiara Lazzari, Schia-<br />
pag. 275<br />
vitù e servitù nel diritto penale ..............................................<br />
Francesco Bochicchio, Abuso e irregolarità nella contraffazione<br />
della firma su documenti relativi ad operazioni di inve-<br />
pag. 309<br />
stimento mobiliare ..................................................................<br />
Giovanna Fanelli, Notitiae criminis, Banca d’Italia ed Autorità<br />
pag. 359<br />
Giudiziaria ...............................................................................<br />
Andrea Paolo Casati, Nuovi profili dell’azione penale nel<br />
pag. 373<br />
procedimento davanti al Giudice di Pace ............................. pag. 407<br />
Giurisprudenza: note, commenti, rassegne<br />
Corte Europea dei diritti dell’uomo – Sezione III, 13 ottobre<br />
2005, Bracci c. Italia, con nota di Francesco Zacchè, Lettura<br />
di atti assunti senza contraddittorio e giusto processo .<br />
Tribunale di Urbino, 23 settembre 2003 n. 328, M.G.P. con nota<br />
di Angela Maria Bonanno, Protocolli, linee giuda e colpa<br />
pag. 427<br />
specifica ...................................................................................<br />
Tribunale di Bergamo, 16 novembre 2004, Percassi, con nota di<br />
Guido Camera, Alcune riflessioni in materia di punibilità<br />
pag. 441<br />
per il delitto comune commesso dal cittadino all’estero ...... pag. 449
6<br />
INDICE<br />
Diritto penale straniero, comparato, comunitario<br />
Davide Bertaccini, Zbornik Pravnog Fakulteta Sveucilisˇta u<br />
Rijeci (fascicolo del 2005) ....................................................... pag. 457<br />
Inviato speciale<br />
Andrea Paolo Casati, Per una giustizia penale più sollecita:<br />
ostacoli e rimedi ragionevoli. Il problema nelle fasi di gravame<br />
– Lecce, 14 e 15 ottobre 2005 ............................................... pag. 461<br />
Recensioni e schede<br />
Percorsi europei di diritto penale, di G. Fornasari e A. Menghini<br />
(di Maddalena Grassi) .............................................................<br />
Abolitio criminis e modifica della fattispecie, di E.M. Ambrosetti<br />
pag. 475<br />
(di Silvia Massi) .......................................................................<br />
Il principio di offensività del diritto penale. Canone di politica<br />
criminale, criterio ermeneutico, parametro di ragionevolezza<br />
pag. 486<br />
di V. Manes (di L.B.) .............................................................. pag. 490<br />
Vecchie pagine<br />
Federico Bellini, Realtà materiale e realtà giuridica nel processo<br />
secondo il pensiero di Francesco Carrara .................... pag. 491<br />
Notiziario ...................................................................................... pag. 497<br />
Hanno collaborato ........................................................................ pag. 498
SAGGI E OPINIONI<br />
La responsabilità degli enti:<br />
quale natura? quali soggetti? (*)<br />
7<br />
Saggi e opinioni<br />
Sommario: § 1. Premesse sulla natura della responsabilità. – § 2. La rilevanza pratica del<br />
problema: la disciplina applicabile. – § 3. La responsabilità degli enti come ‘‘legge penale<br />
speciale’’? – § 4. ...o come applicazione ‘‘specialistica’’ dell’illecito amministrativo?<br />
– § 5. Una forma normativamente ‘‘autosufficiente’’ di responsabilità? – § 6. La ‘‘colpa<br />
di organizzazione’’: una nuova forma di responsabilità a fisionomia ‘‘ibrida’’ amministrativo-penale,<br />
con modalità sui generis d’imputazione. – § 7. Le ragioni sottostanti<br />
ad una configurazione ‘‘eccentrica’’ della responsabilità. – § 8. Quali soggetti?<br />
§. 1. Premesse sulla natura della responsabilità<br />
Il problema della natura della responsabilità degli enti rappresenta la<br />
prima e fondamentale questione sulla quale la dottrina si è interrogata( 1 ).<br />
Ciò sia per il carattere di decisa innovazione che pare sotteso alla novella<br />
del d.lgs 231 del 2001, sul cui sfondo si intravede un ripensamento della<br />
secolare tradizione per cui ‘‘societas delinquere non potest’’; sia perché entrano<br />
qui in gioco profonde questioni ‘‘culturali’’: è in discussione la permanente<br />
validità, rispetto al rivoluzionario settore della responsabilità degli<br />
enti, delle categorie logiche ed analitiche e – soprattutto – dei principi che<br />
compongono l’area della penalità( 2 ).<br />
(*) Testo riveduto e con l’aggiunta di note della Relazione al convegno ‘‘La responsabilità<br />
da reato delle società’’, tenutosi a Milano il 25 maggio 2005. Esclusivamente a fini concorsuali,<br />
si attribuiscono i § da 1. a 7. al Dott. Davide Tassinari ed il § 8. al Prof. Luigi Stortoni.<br />
( 1 ) In generale, per un inquadramento del problema e per una panoramica bibliografica<br />
si vedano, per tutti, O. Di Giovine, La responsabilità degli enti: lineamenti di un nuovo<br />
modello di illecito punitivo, in AA.VV., Diritto e impresa: un rapporto controverso, a cura di<br />
A. Manna, Milano, 2004, p. 423 s. e spec. 429 s.; nella più recente manualistica, D. Pulitanò,<br />
Diritto penale, Torino, 2005, p. 732 s.<br />
( 2 ) È stato giustamente osservato come la nuova forma di responsabilità abbia determinato<br />
una vera e propria ‘‘crisi dogmatica’’, cfr. A. Alessandri, Note penalistiche sulla nuova<br />
responsabilità delle persone giuridiche, inRiv. trim. dir. pen. econ., 2002, p. 58 s. Il d.lgs.
8<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
Un segnale del potenziale innovativo che la novella sottintende – e di<br />
quanto essa abbia sorpreso la dottrina penalistica, di colpo costretta a misurarsi<br />
con questioni interpretative e sistematiche prima sconosciute – è<br />
ravvisabile nella tendenza ad inquadrare il problema entro lo schema delle<br />
tradizionali categorie codicistiche: si pensi alla trasposizione – che nasconde<br />
un radicato habitus logico e concettuale ancor prima che linguistico<br />
– in questo ambito di temi come quello del concorso di persone nel reato,<br />
delle causalità e – ciò che solleva i più accesi dibattiti – della colpevolezza(<br />
3 ).<br />
La dottrina, insomma, pare attualmente impegnata nell’immane sforzo<br />
di colmare un improvviso vuoto nel proprio secolare bagaglio formativo,<br />
restringendo o dilatando, ai limiti della loro portata logica, categorie che<br />
la dogmatica classica ha pervicacemente costruito attorno alla figura dell’autore<br />
– persona fisica.<br />
§ 2. La rilevanza pratica del problema: la disciplina applicabile<br />
A rigore, tuttavia, ancor prima di utilizzare strumenti noti per indagare<br />
una creatura normativa ignota, della quale rimane dubbia persino la riconducibilità<br />
ai generi sinora conosciuti di diritto punitivo – ovvero al ‘‘modello<br />
penale’’ ed al ‘‘modello amministrativo’’ –, occorre misurarsi con<br />
una questione interpretativa che sta, per così dire, a monte del problema:<br />
qual’è la disciplina applicabile alla responsabilità degli enti?<br />
In linea di principio, ad un tale quesito potrebbero darsi tre differenti<br />
risposte. Premesso che il d.lgs. 231 del 2001 detta alcune norme generali di<br />
disciplina (basti pensare, fra le altre, a quelle dedicate all’individuazione<br />
degli enti – soggetti responsabili, alla fissazione dei principi di legalità ed<br />
irretroattività ed agli innovativi criteri di attribuzione della responsabilità),<br />
potrebbe, infatti, ipotizzarsi:<br />
a) che, oltre alle specifiche norme dettate dalla novella legislativa, trovino<br />
applicazione i principi e le regole previsti dal codice penale ed, in<br />
specie, quelle contenute nella sua parte generale;<br />
b) che, al contrario, vista la natura dichiaratamente ‘‘amministrativa’’<br />
231 rappresenta, d’altro canto, una sorta d’inedito anche sul piano prettamente politico criminale.<br />
Cfr. G. De Francesco, Disciplina penale societaria e responsabilità degli enti: le occasioni<br />
perdute della politica criminale, inDir. pen e proc., 2003, p. 929.<br />
( 3 ) Con particolare riferimento ai problemi di raccordo fra la responsabilità degli enti<br />
ed il principio di personalità della responsabilità penale si vedano gli ancora attualissimi rilievi<br />
di F. Bricola, Il costo del principio Societas delinquere non potest, in Riv. it. dir. proc.<br />
pen., 1970, p. 951 e spec. 1006; più di recente, M. Romano, Societas delinquere non potest<br />
(nel ricordo di Franco Bricola), inRiv. it. dir. proc. pen., 1995, p. 1031 s. e 1036.
SAGGI E OPINIONI<br />
della responsabilità in discorso, essa sia da ritenersi disciplinata, oltre che<br />
dalle regole sue proprie, dalla legge n. 689 del 1981 (la così detta legge<br />
– quadro sull’illecito amministrativo);<br />
c) che la disciplina del d.lgs. 231/2001, fatti salvi i rinvii da essa espressamente<br />
disposti ad altre fonti (si pensi alle disposizioni del codice di procedura<br />
penale, che l’art. 34 del d.lgs richiama ‘‘in quanto compatibili’’) si<br />
configuri come esaustiva e, non necessiti, pertanto, di nessuna integrazione;<br />
il problema della natura della responsabilità, si badi, non è per nulla<br />
sterile, né la scelta dell’una o dell’altra soluzione rileva dal solo punto di<br />
vista dell’analisi teorica: essa, al contrario, porta con sé riflessi pratici di primaria<br />
importanza. La giurisprudenza ha avuto modo di avvedersene, di recente,<br />
allorché sièposta il problema di legittimare o meno, con riferimento<br />
all’illecito proprio dell’ente, la costituzione di parte civile nel processo penale(<br />
4 ).<br />
È chiaro come la soluzione di una tale questione non possa ignorare il<br />
tema in esame, che, all’opposto, si pone come una sua fondamentale premessa<br />
logica.<br />
L’art. 185 c.p. riserva, infatti, la legittimazione attiva ai fini del risarcimento<br />
del danno al solo danneggiato da reato. Èallora necessario chiedersi<br />
se la dichiarata forma ‘‘amministrativa’’ della responsabilità dell’ente osti –<br />
come peraltro la giurisprudenza ha ritenuto – all’ammissibilità di una domanda<br />
risarcitoria formulata direttamente nei confronti dell’‘‘autore collettivo’’.<br />
Ove si prescegliesse la strada di una natura penale della responsabilità<br />
dell’ente, si potrebbe argomentare, in senso contrario alla decisione appena<br />
menzionata, che la sostanza penale dell’imputazione debba godere di un<br />
naturale privilegio sulla sua forma amministrativa; la costituzione di parte<br />
civile andrebbe allora ammessa in rapporto non solo al reato, ma anche alla<br />
nuova responsabilità ‘‘da reato’’. Invero, come fra poco si dirà, la giurisprudenza<br />
in discorso pare aver colto nel segno. La responsabilità degli enti,<br />
infatti, va ascritta ad un tertium genus a conformazione ibrida, connotato<br />
da una modalità sui generis d’imputazione.<br />
§ 3. La responsabilità degli enti come ‘‘legge penale speciale’’?<br />
Dal punto di vista penalistico, il problema dell’applicabilità delle<br />
norme del codice penale deve essere affrontato con riferimento all’art.<br />
( 4 ) Sul punto si vedano, in particolare, le osservazioni di C.F. Grosso, Sulla costituzione<br />
di parte civile nei confronti degli enti collettivi chiamati a rispondere ai sensi del d.lgs n. 231<br />
del 2001 davanti al giudice penale (nota a Tribunale di Milano, Ord. 9 marzo 2004, G.i.p.<br />
Forleo), in Riv. it. dir. e proc. pen., 2004, p. 1335 s.<br />
9
10<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
16 c.p.: tale disposizione, estendendo le regole fissate nel codice alle ‘‘leggi<br />
penali speciali’’, persegue il fondamentale obiettivo dell’unità dogmatica<br />
del diritto penale ed assolve ad una imprescindibile funzione di raccordo<br />
con la legislazione complementare( 5 ).<br />
In quest’ottica, l’interrogativo che ci si è posti in premessa va affrontato<br />
in rapporto alla possibilità o meno di qualificare il d.lgs 231/2001 sulla<br />
responsabilità degli enti come una ‘‘legge penale speciale’’.<br />
Solo nel caso di una risposta positiva si potrebbe ritenere corretta l’esportazione<br />
tout court in questo settore della disciplina del codice penale e,<br />
in uno con quest’ultima, delle categorie e dei tradizionali modelli euristici<br />
applicabili alla responsabilità ‘‘da reato’’ dettata per le persone fisiche.<br />
Per cogliere l’importanza pratica della questione, è sufficiente pensare<br />
alle conseguenze che deriverebbero dall’applicabilità agli enti di istituti –<br />
per restare a quelli le cui implicazioni per il problema che ci occupa sono<br />
più evidenti – come il concorso di persone nel reato e la causalità; o dei<br />
principi penalistici – dei quali è noto lo spessore costituzionale – vigenti<br />
in tema di imputazione soggettiva (si pensi, ad esempio, alla ‘‘rimproverabilità’’<br />
quale momento centrale della colpevolezza in senso normativo), ed,<br />
in particolare, in tema di dolo e colpa (in questo ambito potrebbe, ad<br />
esempio, venire in considerazione la tematica della così detta ‘‘doppia misura<br />
della colpa’’).<br />
La possibilità di ricondurre la nuova normativa sulla responsabilità<br />
degli enti all’ambito delle ‘‘legge penali speciali’’ appare, tuttavia, negata<br />
dalle stesse premesse dal ‘‘manifesto’’ legislativo del 2001.<br />
Una tale soluzione interpretativa, va, anzitutto, in diretta collisione con<br />
le scelte di fondo della disciplina, ex professo intitolata come ‘‘responsabilità<br />
amministrativa dell’ente’’.<br />
Anche a voler prescindere dalle etichette – e le etichette sono spesso il<br />
primo elemento dal quale traspare la voluntas legis –è, peraltro, innegabile<br />
che il legislatore abbia voluto dare vita ad un complesso sotto sistema virtualmente<br />
autonomo, in primo luogo, proprio dal referente punitivo penale.<br />
Il micro – settore della responsabilità degli enti è, infatti, governato da<br />
una piccola parte generale( 6 ) e, per ciò stesso, è stato razionalmente e volutamente<br />
concepito come impermeabile ad ogni contaminazione della disciplina<br />
codicistica.<br />
( 5 ) In generale, sul punto, cfr. M. Romano, Commentario sistematico del codice penale,<br />
3ª ed., vol. I, Milano, 2004, p. 189.<br />
( 6 ) Per una dettagliata analisi della struttura complessiva del provvedimento si veda, in<br />
particolare, C. De Maglie, La disciplina della responsabilità delle persone giuridiche e delle<br />
associazioni. Principi generali e criteri di attribuzione della responsabilità, inDir. pen. proc.,<br />
2001, p. 1348.
SAGGI E OPINIONI<br />
Non si tratta, insomma – a meno di non voler sovvertire il discusso<br />
dato di fondo della scelta punitiva ‘‘amministrativa’’ –, di una forma di responsabilità<br />
che possa dirsi disciplinata dal concorso di una parte generale<br />
‘‘specifica’’ e di una ‘‘parte generale’’, per così dire, ‘‘di riferimento’’ come<br />
quella penalistica; al contrario, l’assetto chiaramente prescelto dal legislatore<br />
è quello di un impianto di disciplina chiuso ed autosufficiente, indipendente<br />
dalla sfera penale, sia per criteri d’imputazione che per arsenale<br />
sanzionatorio.<br />
Queste osservazioni, naturalmente, nulla tolgono alla premessa di<br />
fondo del decreto legislativo, che configura un illecito sì autonomo, ma<br />
pur sempre derivante ‘‘da reato’’: non v’è dubbio, in questo senso, che la<br />
legge penale giochi un ruolo essenziale – e, come fra poco si dirà, per molti<br />
aspetti problematico – in relazione alla configurabilità oggettiva e soggettiva<br />
del reato presupposto.<br />
§ 4. ...o come applicazione ‘‘specialistica’’ dell’illecito amministrativo?<br />
Il discorso circa la disciplina applicabile alla responsabilità de qua richiede,<br />
come si è accennato, una risposta ad un secondo quesito: se così<br />
evidenti sono gli ostacoli ad una estensione al settore in esame della disciplina<br />
codicistica, può ipotizzarsi un’applicabilità ad esso dei principi e delle<br />
regole dettate dalla legge 689 del 1981 in materia di illecito amministrativo?<br />
È proprio questa, d’altronde, la soluzione che parrebbe imposta dal<br />
nomen ben impresso dal legislatore alla responsabilità degli enti.<br />
È assolutamente pacifico, d’altra parte, che la legge del 1981 rappresenti<br />
una sorta di parte generale dell’illecito amministrativo; ad essa, anzi,<br />
va il merito di aver per la prima volta fatto chiarezza sui principi ai quali<br />
deve uniformarsi questa forma di responsabilità( 7 ).<br />
Nella legge del 1981, sono contenute alcune basilari disposizioni che<br />
hanno consentito un significativo accostamento, sul piano delle garanzie,<br />
dell’illecito amministrativo a quello penale: basti pensare all’affermazione<br />
del principio di legalità – irretroattività (art. 1); all’espressa menzione della<br />
capacità di intendere e di volere quale presupposto della responsabilità<br />
(art. 2) ed all’individuazione del dolo e della colpa come criteri di imputazione<br />
soggettiva (art. 3).<br />
La tesi dell’applicazione delle regole generali dell’illecito amministrativo<br />
al settore della responsabilità degli enti incontra, tuttavia, significativi<br />
( 7 ) Sul punto, per tutti, si veda F. Lambertucci, voce Depenalizzazione, in AA.VV.,<br />
Commentario breve alle leggi penali complementari, Padova. 2003, p. 673.<br />
11
12<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
ostacoli interpretativi: questi sono anzitutto ravvisabili nel fatto che, come<br />
si è detto, il d.lgs. 231 del 2001 già contiene una propria parte generale,<br />
perfettamente autonoma e per ciò stesso non sovrapponibile ad altre regole<br />
‘‘comuni’’ fissate altrove.<br />
Ne sia testimonianza il fatto che persino i canoni della legalità e dell’irretroattività<br />
sono presi in considerazione in modo del tutto indipendente<br />
dalla nuova legge sulla responsabilità degli enti; ciò che apparirebbe una<br />
inutile ripetizione se si partisse dall’idea che il fenomeno qui considerato<br />
rientri nella sfera di disciplina della legge del 1981.<br />
Non solo: rispetto a quella che dovrebbe essere la sua naturale disciplina<br />
di riferimento, la novella del 2001 appare, sotto più punti di vista,<br />
derogatoria.<br />
Basti pensare al già menzionato disposto di cui all’art. 2 della legge<br />
689: non può essere assoggettato alla sanzione amministrativa chi, al momento<br />
della commissione del fatto, non aveva, in base ‘‘ai criteri indicati<br />
nel codice penale’’, ‘‘la capacità di intendere e di volere’’.<br />
Il riferimento all’imputabilità mette a nudo, a ben vedere, se raffrontato<br />
al nuovo genus di diritto punitivo creato per gli enti, i limiti di un prototipo<br />
di illecito divenuto ormai ‘‘vecchio’’, in quanto necessariamente fondato<br />
sul modello dell’autore individuale.<br />
L’unica ipotesi di responsabilità dell’ente contemplata dalla legge<br />
quadro è individuabile nella regola della responsabilità solidale di cui all’art.<br />
6: si tratta, tuttavia, non di una forma di imputazione all’ente (la dottrina<br />
ha anzi sottolineato come la differenza fra questa ipotesi e quella del<br />
concorso di persone nell’illecito amministrativo risieda nel fatto che la responsabilità<br />
solidale è attribuita oggettivamente), quanto di un’applicazione<br />
del principio di solidarietà nel debito, finalizzata unicamente a garantire<br />
il pagamento della sanzione( 8 ); è, peraltro, fatto salvo il diritto dell’ente<br />
di agire in regresso verso la persona fisica autrice dell’illecito, ciò<br />
che testimonia chiaramente l’impossibilità di ravvisare nell’ente un autonomo<br />
‘‘centro di imputazione’’.<br />
Rilievi analoghi valgono anche in rapporto alle già accennate regole fissate<br />
nell’art. 3 della legge del 1981 in merito all’elemento soggettivo dell’illecito<br />
amministrativo: non c’è dubbio sul fatto la novella del 2001 fondi un<br />
modello d’imputazione del tutto nuovo, che, per quanto possa essere accostato<br />
al genus della colpa omissiva, risulta ontologicamente diverso dai più<br />
tradizionali criteri del dolo e della colpa valevoli per l’autore individuale e<br />
fatti propri dalla legge – quadro( 9 ).<br />
( 8 ) Cfr. F. Lambertucci, op. cit., p. 693 s. Su questo aspetto si vedano anche le osservazioni<br />
di E. Paliero, La fabbrica del golem. Progettualità e metodologia per la ‘‘parte generale’’<br />
del codice penale dell’Unione Europea, inRiv. it. dir. e proc. pen., 2000, p. 499.<br />
( 9 ) Fra i contributi dedicati all’analisi delle modalità d’imputazione all’ente tracciati dal
SAGGI E OPINIONI<br />
Se ne deve concludere che, così come si è già notato per il codice penale,<br />
neppure la disciplina generale dell’illecito amministrativo (la legge<br />
689 del 1981, eppure, era stata ritenuta in più occasioni dalla giurisprudenza<br />
come un imprescindibile riferimento per i successivi provvedimenti<br />
di depenalizzazione( 10 )) possa trovare applicazione sul terreno della responsabilità<br />
dell’ente, che si configura come derogatoria ed autosufficiente<br />
rispetto alla prima.<br />
§ 5. Una forma normativamente ‘‘autosufficiente’’ di responsabilità?<br />
Gli interrogativi relativi alla legge applicabile portano dunque ad una<br />
prima, abbastanza evidente conclusione: la novella del 2001 ha certamente<br />
inteso dare vita ad una forma di responsabilità relativamente autosufficiente<br />
(se si dimentica per un attimo la sua dipendenza ‘‘da reato’’) e virtualmente<br />
sganciata dai più tradizionali paradigmi dell’illecito punitivo,<br />
sia penale, sia amministrativo( 11 ).<br />
Si tratterebbe, almeno negli intenti proclamati, si una sorta di rivoluzione<br />
del diritto sanzionatorio, la cui autonomia formale parrebbe sottintendere<br />
un’altrettanto spiccata eterogeneità sostanziale rispetto ai modelli<br />
tradizionali.<br />
La dottrina maggioritaria sembra però pensarla diversamente: fra le diverse<br />
opinioni espresse sul punto, le due correnti che paiono più seguite<br />
tendono ad accostare la forma di responsabilità in esame all’illecito amministrativo<br />
o, in senso diametralmente opposto, all’illecito penale.<br />
Gli argomenti addotti a sostegno di queste diverse scelte muovono,<br />
comprensibilmente, dalla valorizzazione delle molteplici analogie e differenze<br />
che la responsabilità degli enti presenta con ciascuno degli anzidetti<br />
paradigmi( 12 ).<br />
I sostenitori della natura amministrativa della responsabilità pongono<br />
D.lgs. 231 del 2001, si vedano fra gli altri, C. De Maglie, loc. ult. cit.,Pulitanò, La responsabilità<br />
da reato degli enti: i criteri d’imputazione, inRiv. it. dir. proc. pen., 2002, p. 415 s. Di<br />
recente, in una peculiare chiave d’analisi A. Nisco, Responsabilità amministrativa degli enti:<br />
riflessioni sui criteri ascrittivi ‘‘soggettivi’’ e sul nuovo assetto delle posizioni di garanzia nelle<br />
società, inRiv. trim. dir. pen. econ., 2004, p. 293 s.<br />
( 10 ) Per i necessari richiami giurisprudenziali, per tutti, si veda F. Lambertucci, op.<br />
cit., p. 677.<br />
( 11 ) Sul punto cfr. D. Pulitanò, voce Responsabilità amministrativa per i reati delle<br />
persone giuridiche, inEnc. Dir., Aggiornamento, Varese, 2002, p. 954.<br />
( 12 ) Per un quadro d’insieme delle diverse opinioni espresse si vedano, fra gli altri, O.<br />
Di Giovine, op. cit., p. 429; A.Travi, La responsabilità della persona giuridica nel d.lgs 231<br />
del 2001: prime considerazioni di ordine amministrativo,inLe società, 2001, p. 1305; C. Piergallini,<br />
Societas delinquere et puniri non potest: la fine tardiva di un dogma, inRiv. trim.<br />
dir. pen. econ., 2002, p. 598 s.<br />
13
14<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
l’accento, oltre che sul dato formale del nomen, sul decorso quinquennale<br />
della prescrizione e sull’inesistenza di meccanismi di sospensione condizionata<br />
della sanzione (dati entrambi comuni all’illecito amministrativo)( 13 ).<br />
Del tutto eccentrica rispetto alla responsabilità penale sarebbe, ancora,<br />
la disciplina della fusione e della scissione dell’ente, che sottintenderebbe<br />
schemi di tipo civilistico irriducibilmente lontani dai modelli d’imputazione<br />
del reato( 14 ).<br />
Nello stesso senso deporrebbe la recente introduzione dell’art. 97 bis<br />
del d.lgs 9 luglio 2004 n. 197, che impone al pubblico ministero, il quale<br />
inizi indagini verso una banca, di darne comunicazione alla Banca d’Italia<br />
ed alla Consob; l’esecuzione delle eventuali sanzioni interdittive è inoltre<br />
affidata, in questo settore, alla stessa banca d’Italia; verrebbero qui in considerazione,<br />
insomma, schemi e modalità che evocano modelli tradizionalmente<br />
amministrativi di intervento( 15 ).<br />
Più articolate sono le tesi formulate in ordine al carattere penale o para<br />
– penale dell’illecito dell’ente.<br />
Anzitutto, si rileva come l’ambigua formulazione di una responsabilità<br />
‘‘discendente da reato’’ non possa che perseguire un effetto stigmatizzante<br />
di ‘‘taglio’’ strettamente penalistico.<br />
In secondo luogo, si evidenziano il chiaro sforzo di costruzione di un<br />
impianto sui generis di colpevolezza dell’ente; la presenza di criteri commisurativi<br />
della sanzione che richiamano da vicino la logica della pena e, infine<br />
– ma certo non da ultimo – la scelta del processo penale come sistema<br />
di accertamento dell’illecito( 16 ).<br />
( 13 ) Sul punto, si vedano, in particolare, G. Marinucci, ‘‘Societas puniri potest’’: uno<br />
sguardo sui fenomeni e sulle discipline contemporanee, inRiv. it. dir. proc. pen., 2002, 1202 s.;<br />
G. Cocco, L’illecito degli enti dipendente da reato ed il ruolo dei modelli di prevenzione, in<br />
Riv. it. dir. e proc. pen., 2004, p.116; M. Romano, La responsabilità amministrativa degli enti,<br />
società o associazioni: profili generali, inRiv. soc., 2002, p. 398. In generale, per un’analisi<br />
circa l’intervento del sistema amministrativo di responsabilità in materia societaria si veda G.<br />
Amarelli, inG.Amarelli, M. D’Alessandro, A.De Vita, Il nuovo sistema sanzionatorio<br />
del diritto penale dell’economia: decriminalizzazione e problemi di effettività, a cura di A.<br />
De Vita, Napoli, 2002, 119.<br />
( 14 ) Cfr. Marinucci, loc. ult. cit.<br />
( 15 ) Sul punto si veda, in particolare, Di Giovine, op. cit., 431.<br />
( 16 ) Sostengono, fra gli altri, con dovizia di argomenti, la natura sostanzialmente penale<br />
della responsabilità in esame, L. Conti, La responsabilità delle persone giuridiche. Abbandonato<br />
il principio societas delinquere non potest?, in Il diritto penale dell’impresa, inTrattato<br />
di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, diretto da F. Galgano, XXV,<br />
Padova, 2001, p. 862; F.Musco, Le imprese a scuola di responsabilità tra pena e misure interdittive,<br />
inDir. e Giust., 2001, p. 8; A. Manna, La c.d. responsabilità amministrativa delle<br />
persone giuridiche: il punto di vista del penalista, inCass. pen., 2003, p. 1105 s., il quale sottolinea<br />
come il rivolgersi della sanzione alla sola persona fisica non è un dato per nulla ontologico<br />
al sistema penale; C.E. Paliero, La responsabilità penale della persona giuridica, in<br />
AA.VV., La responsabilità degli enti: un nuovo modello di giustizia ‘‘punitiva’’, a cura di G.
SAGGI E OPINIONI<br />
Queste divergenze di opinioni, invero, ferma restando la possibilità,<br />
che appare metodologicamente corretta, di cogliere similitudini più o meno<br />
spiccate che la legge in commento presenta con ciascuna delle due più tradizionali<br />
forme di ‘‘illecito punitivo’’, non smentisce – ma anzi avvalora –<br />
l’idea, appena tratteggiata, della sua piena autonomia di disciplina: la<br />
nuova creatura normativa evoca schemi logico-giuridici ben collaudati, tuttavia<br />
non si esaurisce in essi.<br />
Occorre prendere atto, dunque, di un’innegabile distanza, che chiaramente<br />
emerge dal dato saliente della legge applicabile, della responsabilità<br />
degli enti dagli archetipi punitivi classici.<br />
È proprio la presenza di aspetti di sovrapposizione con entrambe le<br />
categorie – quella penale e quella amministrativa – dell’illecito punitivo a<br />
suggerire che il legislatore del 2001 abbia voluto introdurre un tertium<br />
genus di responsabilità: un modello ibrido nella struttura, con un’imputazione<br />
sui generis.<br />
Per saggiare l’attendibilità di quest’ipotesi ricostruttiva, è opportuno<br />
analizzare il problema sul ‘‘banco di prova’’ dei principi costituzionali vigenti<br />
in materia penale. Le differenze esistenti con il paradigma penale –<br />
non meno che con quello amministrativo, che del primo ricalca principi<br />
e forme d’imputazione – possono, in quest’ottica, essere messe a nudo<br />
con un’analisi della più singolare fra le fattispecie di ‘‘responsabilità da<br />
reato’’: quella denominata dalla dottrina come ‘‘colpa d’organizzazione<br />
pura’’( 17 ). Questa peculiare ipotesi, che si riconnette, nell’intelaiatura della<br />
novella legislativa, all’enunciazione del principio di autonomia della responsabilità<br />
degli enti, si pone, invero, come la forma con parvenze più<br />
prossime ai topoi dell’imputazione penale.<br />
De Francesco, Torino, 2004, p. 21 s.; V. Maiello, La natura (formalmente amministrativa,<br />
ma sostanzialmente penale) della responsabilità degli enti nel d.lgs 231/2001: una ‘‘truffa<br />
delle etichette’’ davvero innocua?,inRiv. trim. dir. pen. econ., 2002, p. 899 s. Rileva, invece, la<br />
contrarietà della responsabilità degli enti al dettato di cui all’art. 27 co. 1 Cost. T. Padovani,<br />
Il nome del principi e il principio dei nomi: la responsabilità ‘‘amministrativa’’ delle persone<br />
giuridiche, in AA.VV. cit., p. 13 s.; contra, si vedano i rilievi di A. Manna, La c.d. responsabilità<br />
amministrativa delle persone giuridiche: un primo sguardo d’insieme, inRiv. trim. dir.<br />
pen. econ., 2002, p. 517 s.; per un’analisi circa la compatibilità della responsabilità delle persone<br />
giuridiche con i principi costituzionali si veda, nella più recente manualistica, D. Pulitanò,<br />
Diritto penale, Torino, 2005, 732 s. Qualifica la responsabilità degli enti come un ‘‘terzo<br />
binario del diritto penale criminale’’, G. De Vero, Riflessioni sulla natura giuridica della<br />
responsabilità punitiva degli enti collettivi, in AA.VV., cit., 96 s. Id., Struttura e natura giuridica<br />
dell’illecito di ente collettivo dipendente da reato,inRiv. it. dir. e proc. pen., 2001, p. 1165<br />
s. È altresì dell’idea, per diverse ragioni, che venga qui in considerazione un tertium genus<br />
del diritto punitivo G. Flora, Le sanzioni punitive nei confronti delle persone giuridiche:<br />
un esempio di ‘‘metamorfosi’’ della sanzione penale, inDir. pen e proc., 2003, 1398.<br />
( 17 ) Parla di un ‘‘paradigma di colpa per organizzazione puro’’, in particolare, C.E. Paliero,<br />
op. ult. cit., p. 30.<br />
15
16<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
§ 6. La ‘‘colpa di organizzazione’’: una nuova forma di responsabilità a<br />
fisionomia ‘‘ibrida’’ amministrativo – penale, con modalità sui generis<br />
d’imputazione<br />
L’art. 8 della novella legislativa configura l’ipotesi più ambigua – e<br />
forse più eccentrica – fra quelle introdotte dalla riforma del 2001. Esso dispone<br />
che ‘‘la responsabilità dell’ente sussiste anche quando: a) l’autore del<br />
reato non è stato identificato o non è imputabile b) il reato si estingue per<br />
una causa diversa dall’amnistia’’( 18 ).<br />
Questa disposizione, nell’ambito di un’indagine circa la natura della<br />
responsabilità degli enti, costituisce un punto di culmine: l’art. 8, infatti,<br />
introduce un meccanismo di ‘‘spersonalizzazione’’ non tanto della responsabilità<br />
– ciò che è già implicito nelle premesse sistematiche di una legge<br />
riferita agli enti –, ma del reato che di essa è presupposto.<br />
Quest’ultimo, in effetti, in tale ipotesi è preso in considerazione nel<br />
suo solo versante oggettivo.<br />
C’è da chiedersi quale processo penale potrebbe mai celebrarsi nei<br />
confronti dell’autore non identificato: l’imputato ignoto, invero, non si<br />
condanna né si proscioglie. Non solo: la mancata identificazione dell’autore,<br />
anche nell’ipotesi in cui vi sia sufficiente prova della dimensione<br />
estrinseca e puramente materiale del dolo, comunque precluderebbe la<br />
possibilità di un giudizio di colpevolezza in senso ‘‘normativo’’ ed ‘‘individualizzante’’.<br />
Il reato presupposto viene in sostanza prosciugato delle sue<br />
note soggettive d’imputazione e ridotto ad un mero simulacro fattuale:<br />
stante l’impossibilità di formulare un rimprovero al suo autore, esso non<br />
potrebbe neppure propriamente qualificarsi come reato.<br />
La norma in esame tipicizza, insomma, una sorta di ipotesi limite, nella<br />
quale la figura dell’autore ‘‘apicale’’ e dell’autore ‘‘subordinato’’ – e persino<br />
quella dell’amministratore ‘‘di fatto’’ – divengono impalpabili. Esse vivono<br />
all’ombra di un dato veramente emergente, che occupa da solo la scena<br />
dell’imputazione: la realizzazione della fattispecie oggettiva di uno dei reati<br />
sui quali la novella radica la responsabilità dell’ente.<br />
I basilari canali d’imputazione prescelti dalla legge, normalmente rappresentati<br />
dalle persone fisiche che fungono da medium per l’ascrizione del<br />
fatto – secondo le peculiari cadenze che fondano la ‘‘colpa’’ dell’ente – si<br />
assottigliano qui sino a far emergere una struttura estremamente semplificata<br />
di imputazione: la ‘‘nuda’’ realizzazione di un reato, a cui tout court si<br />
( 18 ) In proposito si vedano, fra gli altri, i rilievi di A. Alessandri, Note penalistiche<br />
sulla nuova responsabilità delle persone giuridiche, cit., 54 s.; S. Vinciguerra, La struttura<br />
dell’illecito, inS.Vinciguerra, M.Ceresa-Gastaldo, A.Rossi, La responsabilità dell’ente<br />
per il reato commesso nel suo interesse (d.lgs. n. 231/2001), Padova, 2004, p. 11 s.
SAGGI E OPINIONI<br />
accompagna, ove ricorra un legame di ‘‘interesse o vantaggio’’( 19 ), una responsabilità<br />
dell’‘‘autore collettivo’’.<br />
Questa manifestazione limite del diritto punitivo degli enti imprime<br />
nell’osservatore la sensazione che si tratti di una responsabilità penale dell’autore<br />
‘‘impersonale’’, formula da utilizzare come equivalente dell’autore<br />
‘‘collettivo’’. Basti pensare che in questa ipotesi l’ente è unico protagonista<br />
del processo( 20 ). La rappresentazione binaria imputato ente / imputato<br />
persona fisica, che è propria dei casi ‘‘fisiologici’’ in cui il reato sia commesso<br />
da un ben identificato soggetto in posizione ‘‘apicale’’ o ‘‘subordinata’’,<br />
si trasforma sul terreno della ‘‘colpa d’organizzazione’’ in una sorta<br />
di monismo processuale dell’ente.<br />
Esso, da solo, occupa l’intero ambito delle indagini e del processo:<br />
questo è istruito e condotto al solo scopo di accertare la responsabilità<br />
sua propria; lo stigma dell’accertamento e quello della sanzione lo colpiscono<br />
in via esclusiva.<br />
Per più ragioni, se ne potrebbe concludere che tutto ciò indichi un’intima<br />
– sia pur non dichiarata – natura penale della responsabilità in esame.<br />
A ben vedere, tuttavia, questa tesi pecca di una troppo disinvolta assimilazione<br />
fra la morfologia e la sostanza della responsabilità: la risposta<br />
al quesito sulla natura di quest’ultima impone, invece, una riflessione su<br />
quanto vi è di ‘‘apparentemente’’ e quanto invece di ‘‘ontologicamente’’ penale<br />
nella colpa dell’ente.<br />
Potrebbe, anzitutto, obiettarsi che la fattispecie imputata, anche in<br />
questo suo nucleo massimamente semplificato, configuri un’ipotesi complessa,<br />
nella quale si cristallizza un concorso di responsabilità per diversi<br />
titoli. All’ente, in effetti, viene in ogni caso attribuito ‘‘per colpa’’ (una<br />
colpa sui generis se raffrontata con il suo referente penalistico) l’omessa<br />
predisposizione di una struttura organizzativa idonea ad impedire un fatto<br />
realizzato – per lo più con dolo – da un ignoto autore.<br />
Stante l’egemonia – almeno allo stato attuale della legislazione – di<br />
reati base dolosi fra quelli che fungono da prius ‘‘umanistico’’ della responsabilità<br />
‘‘collettiva’’, la condotta che fa da plafond alla responsabilità dell’ente,<br />
quasi sempre recherà in sé, infatti, i connotati dell’agire doloso.<br />
Ciò indipendentemente dalla mancata individuazione del suo autore: l’im-<br />
( 19 ) Per un’analisi approfondita di questi concetti, si veda G. De Simone, La responsabilità<br />
da reato degli enti nel sistema sanzionatorio italiano: alcuni aspetti problematici,inRiv.<br />
trim. dir. pen. econ., 2004, p. 657 s.; Id., I profili sostanziali della responsabilità c.d. amministrativa<br />
degli enti: la ‘‘parte generale’’ e la ‘‘parte speciale’’ del d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231, in<br />
AA.VV., Responsabilità degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato, a cura di G.<br />
Garuti, Padova, 2002, 101 s.<br />
( 20 ) Ravvisa, fra gli altri, nello strumento del processo penale un indice della vera natura<br />
della responsabilità P.Ferrua, Procedimento di accertamento e di applicazione delle sanzioni,<br />
inDir. pen. e proc., 2001, 1479 s.<br />
17
18<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
pronta che l’elemento soggettivo lascia sul fatto materiale consentirà, nella<br />
più gran parte dei casi, di individuare una realizzazione dolosa, anche se<br />
non ancora un fatto colpevole. Le fattispecie presupposto, peraltro, sono<br />
per lo più annoverabili fra quelle ‘‘soggettivamente pregnanti’’: si pensi alle<br />
paradigmatiche ipotesi rappresentate dai reati di corruzione, in rapporto<br />
alle quali il versante soggettivo del reato è così ben impresso nel fatto da<br />
impedire in radice una sua trasfigurazione in responsabilità colposa.<br />
Questa prospettiva, muovendo dalla constatazione per cui un fatto<br />
(quasi) identico nella sua matrice oggettiva viene imputato in modo soggettivamente<br />
difforme all’autore persona fisica (per dolo) ed all’ente (per<br />
colpa), potrebbe portare a concludere per una natura non penale della responsabilità<br />
del secondo.<br />
È noto, infatti, come parte della dottrina sia propensa a ravvisare nell’identità<br />
della forma d’imputazione soggettiva del fatto alla pluralità dei<br />
suoi autori un dato di fondo del sistema penale vigente( 21 ).<br />
I rari casi difformi da questa regola di simmetria, che parrebbe tracciata<br />
dai due essenziali referenti normativi a responsabilità ‘‘omogenea’’<br />
dell’art. 110 c.p. (per il concorso nel reato doloso) e dell’art. 113 c.p.<br />
(per la cooperazione colposa), dovrebbero sempre trovare fondamento in<br />
regole legislative espresse: ciò che accade, ad esempio, nel caso del concorso<br />
‘‘anomalo’’ di cui all’art. 116 c.p., dove una responsabilità a sfondo<br />
colposo si innesta, nella cornice della partecipazione criminosa, sull’agire<br />
doloso altrui.<br />
Il concorso ‘‘anomalo’’ dell’ente, dunque, in quanto eccezione alla regola<br />
penalistica dell’omogeneità del titolo d’imputazione, suggerirebbe una<br />
distonia dagli schemi classici di ascrizione del reato, sino a concludere che<br />
di responsabilità penale non si tratti.<br />
Questo argomento non è però di per sé persuasivo. Il canone dell’omogeneità<br />
della forma d’imputazione, proprio quanto si inserisce nel contesto<br />
dei rapporti fra regola (l’omogeneità) ed eccezione (il diverso titolo di<br />
responsabilità) non rappresenta per nulla un dato ultimo, ontologico del<br />
sistema penale. La presenza di eccezioni (esemplare è quella dell’art. 116<br />
c.p.) vale di per sé sola a testimoniare come la differenziazione dei titoli<br />
di responsabilità sia compatibile con i principi fondamentali della penalità:<br />
è questa, d’altronde, la conclusione a cui è pervenuta – già da lungo tempo<br />
– la stessa Corte costituzionale allorché ha ‘‘reinterpretato’’ l’art. 116 c.p.<br />
( 21 ) Sul punto si vedano, per tutti, le osservazioni di G. Fiandaca, E.Musco, Diritto<br />
penale, parte generale, 4ª ed., 2001, p. 470 s. Per un’analisi della questione nella più recente<br />
giurisprudenza della suprema Corte, si veda, fra gli altri, F. Serraino, Il problema della configurabilità<br />
del concorso di persone a titoli soggettivi diversi (nota a Cass. pen., Sez. IV, 9 ottobre<br />
2002), in Riv. it. dir. e proc. pen., 2005, p. 453 s.
SAGGI E OPINIONI<br />
rinnovandone – senza però abbandonarlo –, lo schema a ‘‘concorso anomalo’’<br />
con modalità conformi al principio di colpevolezza( 22 ).<br />
Se, inoltre, si partisse dalla semplice idea che la fissazione di due diverse<br />
linee d’imputazione soggettiva del medesimo fatto sia compatibile<br />
con i principi penalistici (più esattamente: con normali criteri della normazione<br />
penale) purché l’eccezione sia espressamente prevista dalla legge, si<br />
tornerebbe al punto di partenza. La base legislativa che traccia la responsabilità<br />
dell’ente, infatti, sarebbe di per sé sola sufficiente a segnalare la legittimità<br />
della deviazione dalla regola, così che nessuna risposta se ne potrebbe<br />
desumere in merito al carattere penale o meno della responsabilità.<br />
Se si vogliono evitare errori di metodo, la diagnosi circa la natura della<br />
responsabilità dell’ente deve, dunque, necessariamente partire da dati che<br />
siano ontologici al modello punitivo penale: in ultima analisi, dai principi<br />
costituzionali che ne costituiscono il fondamento.<br />
In questa prospettiva, va detto, anzitutto, che l’idea per cui il fatto imputato<br />
all’autore persona fisica ed all’ente sia il medesimo pare viziata da<br />
una considerevole approssimazione. Anche tralasciando per un attimo il rilievo<br />
per cui la ‘‘colpa d’organizzazione’’ rappresenta non solo una forma di<br />
responsabilità, ma essa stessa anzitutto un fatto autonomo rispetto al reato<br />
che ne è presupposto, questa idea sembra trascurare un altro, ancor più<br />
essenziale dato di fondo.<br />
La responsabilità, infatti, sorge in capo all’ente sulla base di un assai<br />
labile anello di congiunzione: i canoni ‘‘dell’interesse’’ e del ‘‘vantaggio’’.<br />
Il venire in essere di uno di questi due parametri d’imputazione consente,<br />
nei casi disciplinati dall’art. 8 della legge, laddove si ha un reato senza un<br />
autore, addirittura di colmare l’intero versante oggettivo della fattispecie<br />
imputata all’ente.<br />
Non è richiesta alcuna verifica causale. Il fatto è attribuito oggettivamente<br />
all’ente sulla base, invero, di assai meno che di un legame eziologico.<br />
L’interesse ed il vantaggio, infatti, sono parametri così sterili da risultare<br />
del tutto esterni alla sfera della ‘‘signoria d’azione’’ del soggetto imputato<br />
e tali che, se il raffronto dovesse essere operato con l’ipotesi di un autore<br />
persona fisica, dovrebbe dirsi che egli sostanzialmente risponderebbe di un<br />
fatto altrui.<br />
Non c’è, dunque, bisogno di spingersi sino ad effettuare complesse<br />
considerazioni in tema di ‘‘colpevolezza’’ dell’ente, per avvedersi che il<br />
principio di personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27 Cost.<br />
è qui contraddetto nei suoi postulati minimi( 23 ).<br />
Non si dà responsabilità penale se non si ha responsabilità personale:<br />
( 22 ) Cfr. Corte cost., 13 maggio 1965, n. 42, in Riv. pen., 1965, II, 598.<br />
( 23 ) Nello stesso senso si veda T. Padovani, op. cit., p.17s.<br />
19
20<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
l’imputazione, a livello oggettivo, di un fatto sostanzialmente ‘‘altrui’’ rappresenta<br />
un’inaccettabile deviazione rispetto ai dati costituzionali (‘‘ontologici’’)<br />
della penalità.<br />
Se ne deve concludere che l’illecito dell’ente assume una natura complessa,<br />
connotata da un’imputazione ‘‘sui generis’’, di evidente matrice non<br />
penale.<br />
Il versante oggettivo dell’illecito ha una struttura non causale, giacché<br />
il raccordo materiale fra fatto ed autore è largamente divergente dalla sfera<br />
della ‘‘personalità’’ intesa nella sua accezione minima, di rigoroso divieto di<br />
responsabilità per fatto altrui( 24 ).<br />
Il momento ‘‘soggettivo’’, per contro, si approssima singolarmente ad<br />
un giudizio di causalità ipotetica e richiama il modello dell’omesso impedimento<br />
colposo, secondo le linee di un nuovo concetto di ‘‘colpevolezza’’<br />
forgiato ad hoc per le esigenze dell’autore collettivo. La colpa così detta<br />
d’organizzazione, infatti, nei suoi contenuti di colpevolezza, risponde alla<br />
logica dell’omesso impedimento del fatto altrui, ma con regole cautelari i<br />
cui formanti vanno rintracciati in un peculiare contesto plurisoggettivo,<br />
con le cadenze strutturali di una stravagante colpa ‘‘diffusa’’.<br />
In conclusione: la natura della responsabilità degli enti non è assimilabile<br />
ai referenti punitivi noti e rappresenta un quid novi; essa, in quanto<br />
dotata di una disciplina formalmente e concettualmente autonoma, configura<br />
una forma non assimilabile né alla responsabilità penale né a quella<br />
amministrativa; i suoi connotati più peculiari sono un’illiceità costruita<br />
ben oltre le regole della tradizionale responsabilità personale ed un’imputazione<br />
sui generis.<br />
§ 7. Le ragioni sottostanti ad una configurazione ‘‘eccentrica’’ della responsabilità<br />
C’è da chiedersi, a conclusione dell’analisi brevemente condotta sulla<br />
natura della responsabilità degli enti, per quali ragioni il legislatore non<br />
abbia preferito avvalersi, sia pure in un contesto soggettivamente nuovo,<br />
dei più collaudati schemi della legislazione penale e dell’illecito amministrativo.<br />
Possono individuarsi tre motivazioni di fondo: la prima attiene l’aspetto<br />
ordinamentale – interno; la seconda i profili internazionali della<br />
‘‘nuova’’ responsabilità; la terza ha a che fare con considerazioni assai<br />
più pratiche che teoriche.<br />
( 24 ) Circa i postulati della responsabilità per ‘‘fatto proprio’’ in tema di concorso di<br />
persone nel reato si vedano i rilievi di L. Stortoni, Agevolazione e concorso di persone<br />
nel reato, Padova, 1981, p. 56 s.
SAGGI E OPINIONI<br />
Sotto il primo punto di vista, la creazione di un ibrido nasconde la volontà<br />
di aggirare l’ostacolo maggiore – e storicamente più evidente – alla<br />
penalizzazione di soggetti collettivi, rappresentato dal dubbio fondamento<br />
logico – giuridico di una ‘‘colpevolezza’’ degli enti. Solo per il diritto penale,<br />
infatti, la costituzione pone il principio di personalità della responsabilità,<br />
con tutte le implicazioni che ne derivano nella teoria dell’elemento<br />
oggettivo del reato così come della colpevolezza; problemi di spessore<br />
non diverso si sarebbero posti, d’altronde, con riferimento all’umanità<br />
delle pene ed al loro finalismo rieducativo; concetti, questi, che, nell’enormità<br />
del bagaglio culturale che rappresentano sono tutti collegati logicamente<br />
ed empiricamente all’autore persona fisica.<br />
Il pericolo di una censura d’incostituzionalità – ed, ancor prima, di<br />
una inconciliabilità logica con ben radicati topoi della teoria del reato –<br />
hanno consigliato la soluzione di un semplice cambiamento d’etichetta:<br />
da qui la scelta definitoria di ‘‘responsabilità amministrativa’’, per quella<br />
che, in realtà, rappresenta una forma ibrida ed eccentrica di illecito.<br />
Per quanto riguarda la situazione internazionale essa è, in una certa misura,<br />
il riflesso di quella interna: la Convenzione europea per i diritti dell’uomo<br />
non si occupa ex professo dell’illecito amministrativo, così che il ventaglio<br />
di garanzie previsto a livello internazionale in rapporto alle sanzioni<br />
penali non è estensibile – almeno se si resta alla lettera della Convenzione<br />
– a questo terreno. Fra i principi garantistici previsti in relazione alla sanzione<br />
penale si pensi, ad esempio, al diritto ad essere informati in tempo utile<br />
sui motivi dell’accusa; alla presunzione d’innocenza; al diritto al contraddittorio;<br />
alla legalità ed all’irretroattività dei delitti e delle pene; al ne bis in idem.<br />
Va detto, ad onor del vero, che qualora venisse qui in considerazione,<br />
come qualcuno ipotizza, un ‘‘camuffamento’’ di un illecito penale sotto le<br />
mentite spoglie della responsabilità amministrativa, il ‘‘trucco’’ sarebbe<br />
forse destinato a durare poco: da lungo tempo la Corte europea ha, infatti,<br />
esteso in via interpretativa all’illecito amministrativo – quando ciò sia suggerito<br />
dalla ‘‘qualità’’ del precetto e della sanzione – le medesime garanzie<br />
espressamente previste per quello penale( 25 ).<br />
L’ultima spiegazione della scelta di ‘‘aggiramento’’ del modello penale<br />
di responsabilità compiuta dal legislatore del 2001 sembra rintracciabile in<br />
un esigenza pratica, ritagliata sulle caratteristiche dell’imputato – ente: il<br />
comma 4 bis dell’art. 13 della legge 537/1997 vieta di portare a detrazione<br />
fiscale ‘‘i costi, o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili<br />
come reato’’( 26 ).<br />
Viene qui in rilievo, in definitiva, una scelta di ordine pratico, motivata<br />
( 25 ) Cfr. F. Lambertucci, op. cit., p. 677.<br />
( 26 ) Su questo aspetto si vedano, in particolare, le osservazioni di O. Di Giovine, op.<br />
cit., p. 434, alla nota 26.<br />
21
22<br />
dalla necessità di mitigare, in rapporto alla specifica natura soggettiva del<br />
responsabile (per definizione esercente un’attività a scopo di lucro o, quantomeno,<br />
gestita secondo criteri di economicità) le conseguenze della sanzione:<br />
basti pensare al problema, del quale il decreto legislativo tiene conto<br />
in più punti del proprio articolato, degli effetti ‘‘riflessi’’ derivanti, sull’occupazione<br />
e sull’economia in generale, dall’applicazione in capo all’ente di<br />
sanzioni interdittive e pecuniarie.<br />
§ 8. Quali soggetti?<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
I problemi sollevati dall’individuazione dei soggetti responsabili possono<br />
essere analizzati prendendo le mosse da alcuni aspetti chiave, che la<br />
letteratura penalistica aveva posto in evidenza lungo tempo prima che la<br />
novella legislativa in commento prendesse corpo, cioè sin da quando l’idea<br />
di un superamento del dogma societas deliquere non potest ha acquistato<br />
spessore nel pensiero dottrinale.<br />
Non è certo un rilievo recente – né, invero, avanzato solo in rapporto<br />
all’applicazione del diritto penale – quello per cui lo schermo ‘‘protettivo’’<br />
della personalità giuridica possa occultare rilevanti profili – individuali e<br />
non – di responsabilità( 27 ); siffatto schermo meta-individuale ha, tuttavia,<br />
per lungo tempo simbolicamente rappresentato un insuperabile ostacolo<br />
alla penalizzazione di comportamenti di matrice ‘‘societaria’’; esso ha, anzi,<br />
concettualmente incarnato la negazione stessa di una tale possibilità.<br />
La prima e più evidente conquista ‘‘storica’’ che è dato rinvenire nelle<br />
scarne righe dedicate dall’art. 1 del decreto all’individuazione dei soggetti<br />
responsabili è dunque data dall’espressa menzione, fra i destinatari della<br />
disciplina, degli ‘‘enti dotati di personalità giuridica’’. L’importanza dell’affermazione<br />
non è certo smentita dalla natura – ibrida ed in definitiva ‘‘a sé<br />
stante’’, come si è detto – della responsabilità: essa comunque rappresenta<br />
il recepimento legislativo di un’esigenza, che da tempi ormai risalenti la letteratura<br />
penalistica aveva lamentato, di commisurazione della sanzione alla<br />
realtà degli illeciti penali ‘‘a sfondo’’ societario( 28 ).<br />
L’importanza della ricerca di questo equilibrio sanzionatorio può essere<br />
colta ponendo l’attenzione sul rapporto esistente fra la responsabilità<br />
degli enti e quella penale delle persone fisiche che hanno agito nel loro interesse.<br />
Colpire i soli individui – con il ‘‘tradizionale’’ meccanismo della<br />
sanzione penale – significa, nel contesto di un agire collettivo, assai spesso<br />
porre in essere una risposta eccessiva ed al contempo insufficiente. Ecces-<br />
( 27 ) Si rinvia, per tutti, a F. Bricola, Il costo del principio, cit., 956 s.<br />
( 28 ) Si consenta di rinviare a L. Stortoni, Profili penali delle società commerciali come<br />
imprenditori, inRiv. it. dir. proc. pen., 1971, 1163 s.
SAGGI E OPINIONI<br />
siva, in quanto concentrata unicamente sull’uomo, al quale vengono imputati<br />
fatti per definizione esorbitanti dalla sua sfera di ideazione e controllo,<br />
quasi ‘‘geneticamente’’ caratterizzati da una latitudine meta-individuale. La<br />
singola persona fisica corre in questo senso il rischio di divenire un capro<br />
espiatorio, la ‘‘testa di legno’’ sulla quale incombe una responsabilità di dimensioni<br />
‘‘sociali’’; per ciò stesso ben può realizzarsi, rivolgendo la sanzione<br />
nei suoi soli confronti, una forma d’imputazione prossima alla responsabilità<br />
per fatto altrui.<br />
La punizione individuale può risultare, sotto un altro profilo, insufficiente,<br />
poiché essa di per sé sola è inidonea a soddisfare le reali esigenze<br />
sanzionatorie – e dunque preventive – che si manifestano ogni qual volta<br />
il fatto commesso possieda un’essenziale contrassegno collettivo( 29 ).<br />
L’interrogativo che sta alla base del tema dei soggetti è, dunque, quello<br />
del ‘‘quando’’ la duplicazione della sanzione e la ricerca, ad essa correlata, di<br />
un equilibrio fra la sfera individuale e quella collettiva della responsabilità sia<br />
rispondente alle intrinseche esigenze di commisurazione proprie del diritto<br />
punitivo. La penalizzazione della sola persona fisica si ripercuoterebbe, infatti,<br />
sull’ente irresponsabile unicamente ‘‘di riflesso’’: mediante il blando –<br />
se rapportato alla dimensione finanziaria propria all’autore collettivo – meccanismo<br />
della pena pecuniaria, sovente pagata, in via di fatto, dall’ente stesso<br />
‘‘per conto’’ dell’autore ed inserita fra i normali ‘‘costi di gestione’’.<br />
Per quanto riguarda le figure collettive dotate di personalità giuridica,<br />
come si è accennato, la risposta viene fornita dalla novella legislativa in<br />
modo univoco. In questo caso il bisogno di punire l’organizzazione oltre<br />
all’uomo che ne è stato strumento viene, invero, presunto dal legislatore.<br />
Si tratta di una scelta che, pur condivisibile in termini generali, solleva<br />
qualche motivata perplessità rispetto all’ipotesi, non secondaria, in cui alla<br />
presenza della personalità giuridica non si accompagni una situazione di pluralità<br />
di soci. Il caso è quello della società unipersonale, laddove lo ‘‘schermo’’<br />
societario assolve l’essenziale funzione di limitazione della responsabilità,<br />
senza però che si determinino vere differenze qualitative – almeno rispetto<br />
alla sostanza economica del fenomeno – con l’impresa individuale.<br />
Più problematica è l’individuazione dell’ampia categoria di soggetti responsabili<br />
rientranti fra le ‘‘società ed associazioni anche prive di personalità<br />
giuridica’’ cui si riferisce l’art. 1 co. 2 del decreto. In questo contesto, il<br />
concetto di ‘‘ente’’ pare suscettibile, una volta posto a confronto con l’innumerevole<br />
casistica di organizzazioni ‘‘collettive’’ prive di autonoma personalità,<br />
di incredibili dilatazioni; ciò sino ad abbracciare addirittura lo<br />
stesso imprenditore individuale. Proprio di quest’ultimo aspetto, che certo<br />
( 29 ) Sul punto cfr. anche F. Giunta, La punizione degli enti collettivi: una novità attesa,<br />
in AA.VV., La responsabilità, cit., p. 35.<br />
23
24<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
ben descrive la portata pratica della delimitazione soggettiva degli ‘‘enti’’<br />
responsabili, si è di recente occupata la suprema Corte( 30 ).<br />
La tesi della riferibilità della disciplina del 2001 all’imprenditore individuale,<br />
sostenuta dal Pubblico Ministero con il proprio ricorso al supremo<br />
Collegio, era argomentata facendo leva sulla sostanziale identità della situazione<br />
economica sottostante alla società unipersonale ed all’impresa individuale.<br />
In quest’ottica, la sottoposizione della prima, ma non della seconda,<br />
alla disciplina del decreto, avrebbe generato una disparità di trattamento<br />
tale da porre in forse la stessa legittimità costituzionale della novella legislativa.<br />
Da qui, a dire dell’accusa, l’esigenza di un ‘‘livellamento’’ (ovviamente<br />
in senso espansivo della responsabilità) delle due situazioni: sul piano empirico,<br />
inoltre, l’impresa individuale, non meno di quella esercitata in forma<br />
societaria, sarebbe spesso caratterizzata da una complessità di struttura e di<br />
organizzazione tali da rendere necessaria una sua sanzionabilità autonoma.<br />
Tale tesi – di per sé alquanto audace – è stata, in modo condivisibile,<br />
rigettata dalla Corte, non solo in ragione dell’evidente analogia in malam<br />
partem che l’assimilazione esegetica fra la persona fisica e l’ente avrebbe<br />
comportato; ma anche perché – ciò che appare ancor più importante –<br />
‘‘la responsabilità dell’ente è chiaramente aggiuntiva, e non sostitutiva, di<br />
quella delle persone fisiche’’.<br />
L’idea di una responsabilità ‘‘aggiuntiva’’ si riallaccia significativamente<br />
all’interrogativo, già anticipato, di quando la sanzione debba divenire<br />
‘‘duplice’’ e di quando invece essa debba essere ‘‘unica’’ e riferita al<br />
solo autore individuale.<br />
Il concetto stesso di ‘‘ente’’, presuppone, invero, un minimum di organizzazione<br />
strutturale, come del resto si evince anche dal particolare meccanismo<br />
d’imputazione fondato sui modelli. Non può, insomma, alla luce<br />
dell’intero impianto della novella legislativa, ma anche in ragione di quell’esigenza<br />
commisurativa a cui si è fatto cenno, non ritenersi che la nozione<br />
di ente rinvii ad un contesto plurisoggettivo. Essa non è, dunque, per ragioni<br />
logico sistematiche ancor prima che interpretative, suscettibile di essere<br />
estesa sino a comprendere realtà in cui ‘‘ente’’ e ‘‘persona fisica’’ siano<br />
virtualmente indistinguibili.<br />
In queste ipotesi il pericolo di inaccettabili duplicazioni della sanzione<br />
diviene assai forte: tanto meno sarà avvertibile l’alterità fra la persona fisica<br />
e l’ente a cui questa appartiene, tanto più vi sarà il rischio di dar corpo ad<br />
un bis in idem sostanziale, contrassegnato dal concorso di una norma penale<br />
e di una ‘‘ibrido amministrativa’’.<br />
Una particolare cautela pare, dunque, doversi usare in rapporto a<br />
realtà organizzative di piccole dimensioni. Una delle preoccupazioni del le-<br />
( 30 ) Cfr. Cass., 3 marzo 2004, in Cass. pen., 2004, p. 4046.
SAGGI E OPINIONI<br />
gislatore, come si legge nella relazione alla legge, era proprio quella di lasciare<br />
fuori dal suo campo di applicazione le realtà minimali, delle quali appare<br />
chiara, sul piano empirico e criminologico, la scarsissima rilevanza rispetto<br />
ai fini sottesi alla responsabilizzazione dell’ente. A ciò aggiungasi il<br />
pericolo non solo di inaccettabili sovrapposizioni fra la disciplina penale e<br />
quella amministrativa, ma anche di forzature repressive: si pensi al caso di<br />
un lavoratore dipendente che, avendo commesso uno dei reati presupposto,<br />
evochi la responsabilità ‘‘amministrativa’’ dei membri di una piccola<br />
società di persone. In simili ipotesi, sotto l’etichetta di una responsabilità<br />
dell’ente, potrebbe celarsi un’impropria estensione – a titolo di colpa<br />
‘‘sui generis’’ – della responsabilità dei datori di lavoro, che altrimenti si attesterebbe<br />
sui più solidi criteri d’imputazione per dolo vigenti sul terreno<br />
della responsabilità penale concorsuale( 31 ).<br />
Il gruppo degli enti ‘‘privi di personalità giuridica’’, in definitiva, appare<br />
alquanto eterogeneo e, verosimilmente, potrà essere meglio definito<br />
dal lento consolidarsi del diritto ‘‘vivente’’: si pensi a casi problematici,<br />
ad oggi presi in esame solo dalla dottrina, come quello del comitato o<br />
del condominio; o, in relazione all’esigenza o meno di uno scopo di lucro<br />
– che pare sotteso all’impianto della normativa – dei consorzi a mera rilevanza<br />
interna e delle cooperative. Ancora: peculiari problemi potrebbero<br />
porsi in relazione alle figure della società apparente e, simmetricamente,<br />
alla società di fatto, ipotesi per le quali può ipotizzarsi la necessaria prevalenza<br />
della realtà sulla finzione, così che solo la seconda, a differenza della<br />
prima, potrà rispondere ‘‘in via amministrativa’’( 32 ).<br />
Per quanto riguarda il versante ‘‘pubblico’’ la nuova legge contempla,<br />
nel disposto di cui all’art. 1 co. 3, essenzialmente esclusioni: l’unica eccezione<br />
a questa regola è rappresentata dagli enti pubblici economici. Essi<br />
ben si amalgamano alla ‘‘tipologia d’autore’’ – per usare un linguaggio mutuato<br />
dall’ambitone concettuale del diritto punitivo delle persone fisiche –<br />
degli enti con finalità lucrativa, che, ad una lettura complessiva dell’articolato,<br />
si configurano come destinatari ideali del provvedimento. Basti pensare<br />
al ‘‘classico’’ nucleo di incriminazioni – presupposto rappresentato<br />
dalle fattispecie corruttive: si tratta, invero, del settore che ad oggi ha dato<br />
luogo al maggior numero di applicazioni giurisprudenziali.<br />
Fra i soggetti pubblici esclusi spiccano, oltre allo Stato ed agli enti territoriali,<br />
egli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale.<br />
L’esclusione dello Stato è in sintonia con la disciplina della responsabilità<br />
degli enti accolta in altri ordinamenti( 33 ) e pare motivata, come la<br />
( 31 ) Cfr., sul punto, O. Di Giovine, op. cit., p. 457.<br />
( 32 ) Per una più compiuta individuazione dei casi qui citati in via esemplificativa si veda<br />
O. Di Giovine, op. cit., p. 456 s.<br />
( 33 ) Identica soluzione è accolta nel codice penale francese. In generale, per una pano-<br />
25
26<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
dottrina ha posto in evidenza, dalla necessità di evitare troppo evidenti<br />
contraddizioni sistematiche( 34 ). Nell’attuale novero di delitti individuati<br />
dal decreto – che fungono da presupposto per l’ascrizione della responsabilità<br />
– un ruolo eminente è infatti riservato alle fattispecie corruttive ed<br />
alla concussione, ovvero ad ipotesi in cui proprio lo Stato e gli enti pubblici<br />
territoriali potrebbero per primi essere chiamati a rispondere di una<br />
‘‘colpa’’ diffusa.<br />
Occorre anzi rilevare come l’inserimento della concussione fra i reatipresupposto,<br />
una volta esclusi dalla sfera soggettiva del decreto lo Stato, gli<br />
enti territoriali e gli altri enti pubblici non economici, perda buona parte<br />
della propria portata applicativa: questa appare ridotta essenzialmente alle<br />
ipotesi in cui autore del reato sia un incaricato di pubblico servizio, ed in<br />
specie, al caso del concessionario privato( 35 ). L’inserimento della concussione<br />
nella cornice dei reati-base, pare, insomma, motivato più da intenti<br />
simbolici – forse un’ideale eco della stagione culturale di mani pulite –<br />
che non da un reale finalismo preventivo – repressivo. L’ampia sfera di<br />
esclusione soggettiva, d’altro canto, si spinge sino ad abbracciare, per<br />
quanto riguarda il novero degli ‘‘enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale’’,<br />
i partiti politici ed i sindacati, ai quali la lettera della norma pare<br />
rivolta ad hoc. Si tratta, invero, di una esclusione condivisibile, ove si rifletta<br />
sul peculiare ruolo istituzionale svolto da tali ‘‘enti’’, la cui responsabilizzazione<br />
avrebbe dato corpo a largamente lamentati – la ‘‘stagione’’ è ancora<br />
quella di mani pulite – pericoli di prevaricazione della sfera giudiziaria su<br />
quella politica( 36 ).<br />
Luigi Stortoni - Davide Tassinari<br />
ramica storico – comparatistica relativa all’ordinamento francese si vedano G. De Simone, Il<br />
nuovo codice francese e la responsabilità penale delle personnes morales, in Riv. it. dir. proc.<br />
pen., 1995, p. 189 s.; R. Guerrini, La responsabilità penale delle personnes morales nel codice<br />
penale francese, inLe società, 1993, p. 691 s. Per un più generale quadro di diritto comparato<br />
si vedano, per tutti, K. Tiedemann, La responsabilità penale delle persone giuridiche<br />
nel diritto comparato, inRiv. it. dir. e proc. pen., 2002, p. 615 s.; E. Paliero, La fabbrica del<br />
golem, cit., p. 499. Sulle matrici internazionali del d.lgs 231 e sul dibattito da esso suscitato si<br />
veda S. Manacorda, Corruzione internazionale e tutela degli interessi comunitari, inDir.<br />
pen. e proc., 2001, p. 410 s.<br />
( 34 ) Cfr. O. Di giovine, op. cit., p. 452 s.<br />
( 35 ) Per l’individuazione del concetto di incaricato di pubblico servizio in seguito alla<br />
riforma legislativa operata con la L. n. 86 del 1990 si consenta di rinviare a L. Stortoni,<br />
Delitti contro la pubblica amministrazione, in AA.VV., Diritto penale, Lineamenti di parte speciale,<br />
3ª ed., Bologna, 2003, p. 102 s.<br />
( 36 ) In merito ai pericoli di repressione del fenomeno associativo che il superamento<br />
del principio societas delinquere non potest porta con sé, si vedano i rilievi di F. Bricola,<br />
Il costo, cit., p. 1001.
SAGGI E OPINIONI<br />
LA RESPONSABILITÀ ‘‘DA REATO’’ DEGLI ENTI COLLETTIVI<br />
E I CRITERI DI ATTRIBUZIONE DELLA RESPONSABILITÀ<br />
TRA TEORIA E PRASSI<br />
Sommario: 1. Premessa: linee generali del d. lgs. n. 231/2001. – 2. Le origini del d. lgs. n.<br />
231/2001: A) Le esigenze politico-criminali alla base del superamento del principio societas<br />
delinquere non potest; B) Le esigenze sistematiche; C) Gli input di diritto internazionale<br />
e comunitario. – 3. La natura giuridica della responsabilità dell’ente: un falso<br />
problema? – 4. I criteri di attribuzione della responsabilità: il criterio oggettivo: A) Le<br />
persone fisiche che fanno ‘‘scattare’’ la responsabilità dell’ente; B) Il criterio dell’interesse<br />
o vantaggio: un ostacolo alla funzionalità della responsabilità degli enti? – 5.<br />
(Segue:) I criteri di imputazione soggettiva: alla ricerca della colpevolezza dell’ente:<br />
A) Reati commessi dai vertici e reati commessi dai sottoposti: aspetti problematici;<br />
B) Il modello quadripartito di colpevolezza dell’ente proposto dalla de Maglie; C) I<br />
modelli di organizzazione, gestione e controllo: a) Profili disciplinari; b) L’impatto<br />
sul sistema delle imprese. – 6. I limiti del d. lgs. n. 231/2001: il catalogo dei reati.<br />
1. Premessa: linee generali del d. lgs. n. 231/2001<br />
L’entrata in vigore del d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, attuativo dell’art.<br />
11 della legge delega 29 settembre 2000, n. 300( 1 ), con cui è stata introdotta<br />
in Italia la responsabilità per gli illeciti amministrativi derivanti da<br />
reato delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive<br />
di personalità giuridica, rappresenta una «rivoluzione copernicana»( 2 ) nel<br />
nostro ordinamento.<br />
È stato infatti creato un vero e proprio «nuovo paradigma sanziona-<br />
( 1 ) A proposito della legge delega n. 300/2000 deve osservarsi che essa – secondo una<br />
deprecabile tendenza che caratterizza la legislazione penale degli ultimi anni – si presenta del<br />
tutto generica ed indefinita, con palese violazione del principio della riserva di legge di cui<br />
all’art. 25, comma 2, Cost.: per una giusta critica sul modo di legiferare che ha caratterizzato<br />
di recente soprattutto il diritto penale dell’economia, con particolare riferimento all’abuso<br />
dello strumento della legge delega, v. E. Musco, Il nuovo diritto penale dell’economia tra<br />
legislativo ed esecutivo, inRiv. Guardia di Finanza, 2003, Supplemento al n. 4, 121 ss.<br />
( 2 ) L’espressione è diA. Manna, La c.d. responsabilità amministrativa delle persone<br />
giuridiche: un primo sguardo d’insieme, inRiv. trim. dir. pen. ec., 2002, 502.<br />
27
28<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
torio»( 3 ) volto a colpire la criminalità di impresa attraverso una responsabilità<br />
diretta dell’ente, formalmente qualificata come amministrativa, collegata<br />
alla commissione di determinati reati, accertata dal giudice penale e<br />
che prevede il ricorso a sanzioni di carattere afflittivo. A prescindere dai<br />
limiti e dalle insufficienze che la disciplina del d. lgs. n. 231/2001 presenta<br />
e che verranno analizzati nel proseguo della presente indagine, ve n’è più<br />
che abbastanza per sconvolgere la nostra cultura giuridica tradizionale, saldamente<br />
ancorata all’«idea che fosse la persona fisica l’unico soggetto che<br />
potesse e dovesse entrare nella vicenda punitiva»( 4 )(societas delinquere<br />
non potest).<br />
( 3 ) A. Alessandri, Note penalistiche sulla nuova responsabilità delle persone giuridiche,<br />
inRiv. trim. dir. pen. ec., 2002, 33.<br />
( 4 ) A. Alessandri, op. cit., 33 s.; cfr. altresì C. Piergallini, La disciplina della responsabilità<br />
amministrativa delle persone giuridiche e delle associazioni. Sistema sanzionatorio<br />
e reati previsti dal codice penale, inDir. pen. proc., 2001, 1353, secondo cui con il d. lgs. 231/<br />
2001 «il nostro paese si è finalmente dotato di un modello generale di responsabilità sanzionatoria<br />
degli enti collettivi che, per struttura e finalità, sembra capace di integrare un efficace<br />
strumento di controllo sociale»; Id., Societas delinquere et puniri non potest: la fine tardiva<br />
di un dogma, inRiv. trim dir. pen. ec., 2002, 571, ove si afferma che «il vetusto principio<br />
‘‘Societas delinquere non potest’’ ha conosciuto la sua fine anche nel nostro ordinamento, dove<br />
l’edificio dogmatico sul quale poggiava ostentava una solidità apparentemente inattaccabile»;<br />
Id., Societas delinquere et puniri non potest. Riflessioni sul recente (contrastato) superamento<br />
di un dogma, inQuest. giust., 2002, 1087 ss.; D. Pulitanó, La responsabilità «da<br />
reato» degli enti nell’ordinamento italiano, in AA.VV., Responsabilità degli enti per i reati<br />
commessi nel loro interesse, Atti del Convegno di Roma, 30 novembre-1º dicembre 2001,<br />
in Cass. pen., 2003, n. 6, Supplemento, 8, il quale parla di forte innovazione sistematica<br />
che comporta il superamento del tradizionale principio societas delinquere non potest; M.<br />
Donini, Un nuovo medioevo penale? Vecchio e nuovo nell’espansione del diritto penale economico,<br />
inCass. pen., 2003, 1814; C. De Maglie, Corporate criminal liability in italian law:<br />
an overview, inStudi senesi, CXV (III serie, LII), 2003, secondo cui il d. lgs. n. 231/2001<br />
rappresenta «a great innovation in our system, one more significative step towards the demolition<br />
of the dogma ‘‘societas delinquere non potest’’»; F. Santi, La responsabilità delle<br />
società e degli enti. Modelli di esonero delle imprese, Milano, 2004, 22. La novità rappresentata<br />
dall’introduzione della responsabilità amministrativa da reato degli enti è stata di portata<br />
tale da determinare un interesse diffuso da parte della dottrina, che dall’entrata in vigore del<br />
d. lgs. n. 231/2001 ad oggi non ha praticamente mai smesso di dedicare all’argomento articoli,<br />
saggi e monografie; tra i contributi più recenti si segnalano, a titolo meramente esemplificativo,<br />
G. Flora, Le sanzioni punitive nei confronti delle persone giuridiche: un esempio<br />
di ‘‘metamorfosi’’ della sanzione penale?, inDir. pen. proc., 2003, 1398 ss.; M. Ronco, voce<br />
Responsabilità delle persone giuridiche. Diritto penale, inEnc. Giur., agg., XI, Roma, 2003, 2<br />
ss.; AA.VV., La responsabilità degli enti: un nuovo modello di giustizia ‘‘punitiva’’, a cura di<br />
G.A. De Francesco, Torino, 2004; G. De Simone, La responsabilità da reato degli enti nel<br />
sistema sanzionatorio italiano: alcuni aspetti problematici, inRiv. trim. dir. pen. ec., 2004, 657<br />
ss.; G. Ruggiero, Capacità penale e responsabilità degli enti. Una rivisitazione della teoria dei<br />
soggetti nel diritto penale, Torino, 2004, che adotta un interessante approccio di teoria generale;<br />
AA.VV., Reati e responsabilità degli enti. Guida al d 1gs. 8 giugno 2001, n. 231, a cura di<br />
G. Lattanzi, Milano, 2005; E. Amodio, Prevenzione del rischio penale di impresa e modelli<br />
integrati di responsabilità degli enti, inCass. pen., 2005, 320 ss.; G.A. De Francesco, Gli
SAGGI E OPINIONI<br />
I soggetti ai quali si applica la disciplina prevista dal d. lgs. n. 231/<br />
2001 sono gli enti forniti di personalità giuridica, le società e le associazioni<br />
anche prive di personalità giuridica, con esclusione espressa dello Stato,<br />
degli enti pubblici territoriali, degli enti pubblici non economici e di quelli<br />
che svolgono funzioni di rilievo costituzionale( 5 ) (art. 1 d. lgs. n. 231/<br />
2001)( 6 ). L’ente, ai sensi dell’art. 5, risponde per i reati commessi nel<br />
suo interesse o vantaggio: a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza,<br />
di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa<br />
dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone<br />
che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso (c.d.<br />
soggetti apicali); b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza<br />
di uno dei soggetti apicali (c.d. sottoposti). A fianco alla responsabilità dell’ente<br />
coesiste la responsabilità penale della persone fisica che ha commesso<br />
il reato, pur essendo la responsabilità della persona giuridica del tutto autonoma<br />
da quella della persona fisica (art. 8). A carico dell’ente è stato concepito<br />
un articolato apparato sanzionatorio che si compone di sanzione pecuniaria<br />
(i cui criteri di commisurazione sono delineati secondo un interessante<br />
modello per quote ispirato al sistema dei tassi giornalieri adottato in<br />
molti paesi), sanzioni interdittive, confisca (anche per equivalente) e pubblicazione<br />
della sentenza di condanna( 7 ).<br />
enti collettivi: soggetti dell’illecito o garanti dei precetti normativi?, inDir. pen. proc., 2005,<br />
753 ss.; F. Guerini, La responsabilità da reato degli enti, sanzioni e loro natura, Siena,<br />
2005; A. Zoppini, Imputazione dell’illecito penale e «responsabilità amministrativa» nella<br />
teoria della persona giuridica, in Riv. soc., 2005, 1314 ss.<br />
( 5 ) Sul tema degli enti destinatari della disciplina e delle esclusioni cfr. S. Gennai-A.<br />
Traversi, La responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, Milano,<br />
2001, 12 ss.; C. Pecorella, Principi generali e criteri di attribuzione della responsabilità,<br />
in AA.VV., La responsabilità amministrativa degli enti, D. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, Milano,<br />
2002, 65 ss.; F. Santi, op. cit., 130 ss.; F. Guerino, La responsabilità dell’ente pubblico<br />
per i reati commessi nel proprio interesse, inCass. pen., 2004, 2201 ss. In giurisprudenza v.<br />
Cass., 22 aprile 2004, in Dir. prat. soc., 2004, n. 9, 72 ss., con commento di R. Bricchetti<br />
(ora anche in Dir. e Giust., 2004, n. 30, 25 ss., e in Cass. pen., 2004, 4047 ss., con nota di P.<br />
Di Geronimo, La Cassazione esclude l’applicabilità alle imprese individuali della responsabilità<br />
da reato prevista per gli enti collettivi: spunti di diritto comparato), la quale ha escluso l’applicabilità<br />
alle imprese individuali delle norme sulla responsabilità degli enti per gli illeciti<br />
amministrativi dipendenti da reato; nonché, nello stesso senso, Trib. Roma, Ufficio G.I.P.,<br />
Ord. 30 maggio 2003, in Il merito, 2004, n. 5, 57 ss., con commento di A. Balsamo e<br />
M. Ruvolo.<br />
( 6 ) Da ora in poi gli articoli citati senza ulteriore specificazione devono intendersi appartenenti<br />
al d. lgs. n. 231/2001.<br />
( 7 ) Sul sistema sanzionatorio si vedano i contributi di G. Amato, Un regime diversificato<br />
per reprimere gli illeciti, inGuida al diritto, 2001, n. 26, 67 ss.; C. Piergallini, La<br />
disciplina, op. cit., 1353 ss.; N. Folla, Le sanzioni pecuniarie, in AA.VV., La responsabilità<br />
amministrativa degli enti, D. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, Milano, 2002, 91 ss.; S. Giavazzi, Le<br />
sanzioni interdittive e la pubblicazione della sentenza penale di condanna, ivi, 117 ss.; R. Lottini,<br />
Il sistema sanzionatorio, in AA.VV., Responsabilità degli enti per illeciti amministrativi<br />
29
30<br />
2. Le origini del d. lgs. n. 231/2001:<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
A) le esigenze politico-criminali alla base del superamento del principio societas<br />
delinquere non potest<br />
Tra i fattori che hanno favorito la nascita del d. lgs. n. 231/2001 vi sono<br />
innanzitutto pressanti esigenze di politica criminale. I costi del principio societas<br />
delinquere non potest – già magistralmente esplorati da Franco Bricola(<br />
8 ) nei suoi studi degli anni settanta – sono divenuti progressivamente insostenibili<br />
in seguito all’enorme sviluppo dell’economia e dei traffici verificatosi<br />
negli ultimi decenni, con l’avvento della globalizzazione e di quella che, a<br />
ragione, è stata definita come ‘‘la società del rischio’’ (Risikogesellschaft)( 9 ).<br />
Protagonisti indiscussi di questo impetuoso sviluppo economico e sociale<br />
sono gli enti( 10 ), ed in particolare le imprese, che come sono in grado<br />
di generare effetti positivi per i consociati, così sono anche la causa di conseguenze<br />
nefaste originate dai propri comportamenti illeciti (societas saepe<br />
delinquit)( 11 ): «L’impresa in particolare, per propria specifica natura, ma<br />
dipendenti da reato, a cura di G. Garuti, Padova, 2002, 127 ss.; A. Fiorella, Le sanzioni<br />
amministrative pecuniarie e le sanzioni interdittive, in AA.VV., Responsabilità degli enti per<br />
i reati commessi nel loro interesse, op. cit., 73 ss.<br />
( 8 ) F. Bricola, Il costo del principio «societas delinquere non potest» nell’attuale dimensione<br />
del fenomeno societario, inRiv. it. dir. proc. pen., 1970, 951 ss., ora anche in F.<br />
Bricola, Scritti di diritto penale, vol. II, tomo II, Milano, 1997, 2975 ss.; Id., Il problema<br />
della responsabilità penale della società commerciale nel diritto italiano, in AA.VV., La responsabilità<br />
penale delle persone giuridiche in diritto comunitario, Atti della Conferenza di Messina,<br />
30 aprile-5 maggio 1979, Milano, 1981, 235 ss., ora anche in F. Bricola, Scritti di diritto<br />
penale, op. cit., 3089 ss.; Id., Luci e ombre nella prospettiva di una responsabilità penale degli<br />
enti nei paesi della C.E.E., in Giur. comm., 1979, 647 ss., ora anche in F. Bricola, Scritti di<br />
diritto penale, op. cit., 3063 ss.<br />
( 9 ) Cfr. U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, trad. it., Roma,<br />
2000, passim; J.M. Silva Sanchez, L’espansione del diritto penale: aspetti della politica criminale<br />
nelle società postindustriali, ed. it. a cura di V. Militello, Milano, 2004, passim; F.<br />
Stella, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, Milano,<br />
2003, passim. In argomento v. anche G. Amarelli, Mito giuridico ed evoluzione della realtà:<br />
il crollo del principio societas delinquere non potest, in Riv. trim dir. pen. ec., 2003, 945 ss.<br />
( 10 ) Già nel 1953 Jescheck evidenziava l’importanza del ruolo socio-economico assunto<br />
dagli enti collettivi: «Gli enti collettivi (persone giuridiche, società di persone ed associazioni<br />
non riconosciute) dominano oggi come partiti la politica, come imprese, associazioni di<br />
datori di lavoro o sindacati la vita economica, come banche il sistema creditizio. Enti collettivi,<br />
in qualità di editori, di aziende giornalistiche o di agenzie di informazione, determinano<br />
il volto della pubblicistica, come organizzazioni di categoria hanno un influsso decisivo sul<br />
lavoro e sulla vita culturale (H.H. Jescheck, Zur Frage der Strafbarkeit von Personenverbände,<br />
inDÖV, 1953, 539, citato in G. De Simone, Societas delinquere et puniri potest, Lecce,<br />
1997, in edizione provvisoria stampata in proprio dall’autore, 76). Sul tema v. anche A. Falzea,<br />
La responsabilità penale delle persone giuridiche, in AA.VV., La responsabilità penale delle<br />
persone giuridiche in diritto comunitario, op. cit., 139 s.<br />
( 11 ) J. De Faria Costa, Contributo per una legittimazione della responsabilità penale
SAGGI E OPINIONI<br />
ancor più per l’evoluzione che essa ha interpretato nello sviluppo economico<br />
degli ultimi decenni – la cosiddetta impresa manageriale – ha conseguito<br />
in vario modo livelli di potere economico, di influenza sui mercati, di<br />
dominanza competitiva, di superiorità strategica, di pervasività nel tessuto<br />
economico-sociale, tali da rendere assolutamente impellente e necessaria<br />
l’assunzione di responsabilità, di vario tipo e certamente anche penalistiche»(<br />
12 ).<br />
La scienza criminologica ha ormai accertato che le persone giuridiche<br />
sono il vero epicentro della criminalità di impresa, la quale è la conseguenza<br />
non tanto delle scelte operate dalle singole persone fisiche che agiscono<br />
per conto dell’ente, quanto di politiche di impresa spregiudicate o di<br />
difetti organizzativi interni alle corporations( 13 ). Ne deriva che lasciare impuniti<br />
gli enti, punendo solo le persone fisiche, che spesso si rivelano essere<br />
delle mere ‘‘teste di paglia’’ che l’ente sostituisce in caso di scoperta del<br />
reato da parte dell’autorità giudiziaria, costituisce paradossalmente una<br />
violazione del principio di personalità della responsabilità penale (art. 27,<br />
comma 1, Cost.)( 14 ), da sempre indicato come il principale ostacolo alla<br />
criminalizzazione degli enti dalla dottrina dominante in Italia. Sono poi evidenti<br />
i gravi guasti provocati dalla criminalità degli enti( 15 ), che determina<br />
delle persone giuridiche, inRiv. it. dir. proc. pen., 1993, 1246: «...in quest’ultimo periodo di<br />
vertiginoso sviluppo tecnologico, e, di conseguenza, di aumento dei fatti lesivi correlati all’attività<br />
di impresa (...), i protagonisti principali della competizione economica sono enti collettivi<br />
il cui riconoscimento normativo, se conferisce loro la qualità di soggetti dell’ordinamento,<br />
li mantiene, peraltro, fuori dall’influenza penalistica. Si riscontra, quindi, una contraddizione<br />
tra il riconoscerli soggetti protagonisti del sistema e, nel contempo, garantire loro una<br />
completa immunità nei confronti del sistema penale». Analogamente cfr. L. Zúñiga Rodríguez,<br />
La cuestión de la responsabilidad penal de las personas jurídicas, un punto y seguido,<br />
in www.lexstricta.com, 1.<br />
( 12 ) P. Bastia, Implicazioni organizzative e gestionali della responsabilità amministrativa<br />
delle aziende, in AA.VV., Societas puniri potest. La responsabilità da reato degli enti collettivi,<br />
a cura di F. Palazzo, Padova, 2003, 37.<br />
( 13 ) Cfr. C. Pedrazzi, La responsabilité pénale non individuelle, in AA.VV., Rapports<br />
nationaux italiens au X e Congrès International de Droit Comparé, Budapest, 1978, Milano,<br />
1978, 749 s., ora anche in C. Pedrazzi, Diritto penale. Scritti di parte generale, vol.I,Milano,<br />
2003, 203 s.; K. Tiedemann, La responsabilità penale delle persone giuridiche nel diritto<br />
comparato, inRiv. it. dir. proc. pen., 1995, 616 s.; C.E. Paliero, Problemi e prospettive<br />
della responsabilità penale dell’ente nell’ordinamento italiano, inRiv. trim. dir. pen. ec.,<br />
1996, 1174.<br />
( 14 ) In tal senso v. L. Stortoni, Profili penali delle società commerciali come imprenditori,<br />
inRiv. it. dir. proc. pen., 1971, 1165; F.C. Palazzo, Associazioni illecite ed illeciti delle<br />
associazioni, ivi, 1976, 439 s.; L. Fornari, Criminalità del profitto e tecniche sanzionatorie.<br />
Confisca e sanzioni pecuniarie nel diritto penale ‘‘moderno’’, Padova, 1997, 257 ss.<br />
( 15 ) L’aggressività e l’intollerabile perniciosità della criminalità di impresa è ben illustrata<br />
da C. De Maglie, L’etica e il mercato. La responsabilità penale delle società, Milano,<br />
2002, 263 s., la quale riporta i dati di una serie di studi condotti negli Stati Uniti: una ricostruzione<br />
delle cause degli incidenti nelle industrie chimiche indica che su 251 incidenti il<br />
31
32<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
la lesione o la messa in pericolo di beni giuridici interni ed esterni all’impresa<br />
– individuali, collettivi e istituzionali – anche di rango primario (vita,<br />
integrità fisica, salute, ambiente, concorrenza, corretto funzionamento del<br />
mercato finanziario, ecc.) attraverso attacchi seriali che implicano talvolta<br />
una ‘‘vittimizzazione di massa’’( 16 ).<br />
Un’altra costante criminologica è rappresentata dall’individuazione al-<br />
32% è dovuto ad errore umano, il 3,5% ad eventi esterni e cause naturali, mentre tutto il<br />
resto va imputato all’organizzazione nella sua interezza; il danno economico provocato dai<br />
corporate crimes è superiore a quello della criminalità comune, come dimostra un noto studio<br />
degli anni ‘90, secondo cui il danno economico medio per ciascun reato ammonta a circa 6,8<br />
milioni di dollari; ogni anno inoltre le società sono responsabili di migliaia di decessi, mutilazioni<br />
e malattie, se si pensa che più di 100.000 morti all’anno e più di 1.200.000 feriti derivano<br />
da incidenti sui luoghi di lavoro e circa la metà possono essere ricondotti a violazioni<br />
delle norme antinfortunistiche. 20.000.000 di feriti e circa 30.000 morti sono il frutto di prodotti<br />
difettosi. Circa la metà dei tumori sono causati dalle condizioni in cui si svolge il lavoro<br />
(sul punto cfr. F. Stella, Criminalità d’impresa: lotta di sumo e lotta di judo,inRiv. trim. dir.<br />
pen. ec., 1998, 460). Le statistiche ci dicono inoltre che in Germania oltre l’80% dei fatti più<br />
gravi di criminalità economica vengono realizzati sotto la copertura di un’impresa (il dato è<br />
tratto da G. De Simone, op. cit., 77 s., nota n. 7). In questo quadro non si può non concordare<br />
con chi afferma che «Nell’attuale contesto storico-culturale, caratterizzato da un’accresciuta<br />
consapevolezza della gravità della criminalità d’impresa, astenersi dal punire direttamente<br />
le persone giuridiche può essere solo fonte di un più accentuato senso di sfiducia<br />
nelle istituzioni, il cui prestigio può essere solo ulteriormente scosso dallo spettacolo di<br />
uno Stato che è ‘‘forte’’ con i ‘‘deboli’’ e ‘‘debole’’ con i ‘‘forti’’» (così, efficacemente, C.<br />
De Maglie, op. ult. cit., 266).<br />
( 16 ) Cfr. A. Alessandri, Reati di impresa e modelli sanzionatori, Milano, 1984, 28 s.;<br />
Id., Commento all’art. 27 comma 1º Cost., inCommentario della Costituzione fondato da G.<br />
Branca e continuato da A. Pizzorusso, Bologna-Roma, 1991, 152 ss.; Id., voce Impresa (responsabilità<br />
penali), inDig. disc. pen., vol. VI, Torino, 1992, 196: «la massiccia componente<br />
tecnologica dell’attività di produzione di beni e, in misura non minore, di servizi, è causa di<br />
una tendenziale diffusità degli eventi lesivi, di una moltiplicazione interminabile delle ricadute<br />
nocive su cerchie sempre più vaste di soggetti»; Id., Parte generale, in AA.VV., Manuale di<br />
diritto penale dell’impresa, Bologna, 2000, 15 s.; Id., La responsabilità amministrativa delle<br />
persone giuridiche: osservazioni generali, in AA.VV., Responsabilità d’impresa e strumenti internazionali<br />
anticorruzione dalla Convenzione OCSE 1997 al Decreto n. 231/2001, Milano,<br />
2003, 208; P. Patrono, Diritto penale dell’impresa e interessi umani fondamentali, Padova,<br />
1993, 1 ss.; L. Fornari, op. cit., 253 s.; C. Piergallini, La disciplina, op. cit., 1353; Id.,<br />
Societas delinquere et puniri non potest: la fine tardiva di un dogma, op. cit., 576 s.; J. Reátegui<br />
Sánchez, La presencia de personas juridicas como caracteristica del moderno derecho<br />
penal del riesgo y las propuestas de imputación de corte individual, inwww.unifr.ch/derechopenal/articulos.htm,<br />
1 ss.; L. Zúñiga Rodríguez, op. cit., 2. In Italia non mancano certo gli<br />
esempi di gravi episodi di criminalità di impresa: si pensi al disastro di Seveso, alle spregiudicate<br />
operazioni di Sindona e Calvi che portarono alla rovina le rispettive banche, alle gestioni<br />
fuori bilancio realizzate da importanti gruppi nazionali come l’allora Montecatini Edison<br />
e l’IRI, al carattere sistemico assunto dalla corruzione con il fenomeno noto come ‘‘Tangentopoli’’,<br />
fino ai recenti scandali finanziari di Parmalat, Cirio e Banca 121. Per una<br />
interessante panoramica dei più clamorosi casi di corporate crimes verificatisi nel mondo v.<br />
G. Marinucci, ‘‘Societas puniri potest’’: uno sguardo sui fenomeni e sulle discipline contemporanee,<br />
inRiv. it. dir. proc. pen., 2002, 1195 s.
SAGGI E OPINIONI<br />
l’interno di strutture complesse quali le persone giuridiche di una serie di<br />
fattori predisponenti che le rendono criminogene: 1) il fenomeno del<br />
gruppo; 2) la segretezza dell’organizzazione; 3) gli scopi dell’ente; 4) il contesto<br />
sociale in cui opera l’impresa( 17 ).<br />
L’appartenenza al gruppo spinge chi ne fa parte (ed in particolare i<br />
managers) ad atteggiamenti spregiudicati, manifestazione di una sindrome<br />
denominata ‘‘ebbrezza da rischio’’ (è il c.d. risky shift), che portano spesso<br />
a violare la legge( 18 ). La spinta criminogena è aumentata dalla distanza<br />
spazio-temporale che sovente separa il comportamento criminoso e l’evento<br />
che colpisce la vittima, la cui invisibilità impedisce ogni coinvolgimento<br />
emotivo del soggetto attivo del reato, contribuendo in tal modo<br />
ad abbassare i freni inibitori di colui che agisce in gruppo( 19 ).<br />
La segretezza, elemento indispensabile nella vita delle organizzazioni,<br />
offre però anche una protezione che spinge alla commissione di reati. Essa<br />
è alimentata da un clima di autogiustificazione delle azioni illecite, che le<br />
priva del loro disvalore, tipico dei white collar crimes( 20 ). Il ricorso a pressioni<br />
e minacce di ritorsioni impedisce la collaborazione con gli inquirenti<br />
qualora la lealtà al gruppo dovesse mancare( 21 ).<br />
( 17 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 251. In generale sul gruppo di società come fattore<br />
criminogeno cfr. V. Militello, Attività del gruppo e comportamenti illeciti: il gruppo<br />
come fattore criminogeno, inRiv. trim. dir. pen ec., 1998, 367 ss.<br />
( 18 ) F. Stella, op. ult. cit., 463 s.: «L’ebbrezza da rischio fa sì che questi soggetti manifestino<br />
una particolare propensione a compiere le azioni più pericolose, ad agire sul filo del<br />
rasoio, a praticare manovre azzardate che spesso superano il confine della legalità: il decidere<br />
e l’agire collettivamente all’interno di singoli gruppi rende queste persone più baldanzose,<br />
maggiormente inclini a sopravvalutare le possibilità di successo e a sottovalutare le percentuali<br />
di insuccesso; in una parola ad accettare dei rischi, connessi alla violazione della legge,<br />
anche quando il cittadino medio, da solo, se ne guarderebbe bene»; C. De Maglie, op. ult.<br />
cit., 252. Nella letteratura anglosassone cfr. C. Wells, Corporations and Criminal Responsibility,<br />
Oxford, 2001, 146 ss.; Id., Corporate law: Corporate Criminal Liability – Developments<br />
in Europe and beyond, inLaw Society Journal, 2001, 39, (7), 62 ss.; S.S. Simpson, Corporate<br />
crime, law and social Control, Cambridge, 2002.<br />
( 19 ) C. De Maglie, op. ult. cit., 252 s. In senso analogo v. G. De Simone, op. cit., 83,<br />
il quale individua un ulteriore fattore criminogeno nella ‘‘lontananza dal bene giuridico’’ delle<br />
condotte illecite, espressa dall’elevato numero di fattispecie a pericolo astratto e che provoca<br />
una sorta di ‘‘neutralizzazione etica’’ del comportamento richiesto dalla norma.<br />
( 20 ) Sulla c.d. criminalità dei colletti bianchi rimane fondamentale il celebre saggio di<br />
E.H. Sutherland, White collar crime, trad. it. a cura di G. Forti, Milano, 1987, il quale –<br />
con riferimento al carattere criminogeno di determinati ambienti economici – riporta la dichiarazione<br />
di un chimico incaricato di fornire basi scientifiche agli annunci pubblicitari: «Se<br />
prendevo in disparte i dirigenti dell’azienda e parlavamo in termini confidenziali, essi deploravano<br />
sinceramente le falsità contenute nei loro annunci pubblicitari. Nello stesso tempo<br />
però dicevano che era necessario ricorrere a questa forma di pubblicità per attirare l’attenzione<br />
dei consumatori e per vendere i prodotti. Poiché altre ditte usavano affermazioni esagerate<br />
a proposito dei loro articoli, noi dovevamo fare lo stesso per i nostri» (312).<br />
( 21 ) C. De Maglie, op. ult. cit., 254 ss.<br />
33
34<br />
Ricerche condotte negli Stati Uniti hanno dimostrato che lo scopo<br />
della massimizzazione dei profitti (inteso come obiettivo d’impresa in<br />
cui tutti gli individui che ne fanno parte si identificano) è la principale<br />
molla della criminalità diimpresa( 22 ): si è rilevato che l’impresa che delinque,<br />
sia essa legale o criminale, è caratterizzata da un comune denominatore:<br />
la violazione delle norme allo scopo di massimizzare il profitto o,<br />
più raramente, di minimizzare le perdite; in tal modo l’impresa che delinque<br />
«impone (...) al mercato un modello illegale di comportamento<br />
che lo distorce, secondo i casi, direttamente o per l’effetto dell’emulazione<br />
dettata dalla gara»( 23 ). Sanzionare direttamente le imprese che violano le<br />
regole del gioco favorisce quindi il corretto funzionamento del mercato(<br />
24 ).<br />
Infine, anche l’ambiente esterno in cui opera la persona giuridica –<br />
composto da fattori economici, politici, culturali e tecnologici – è in grado<br />
di condizionarne la struttura interna ed il modo di agire, esercitando pressioni<br />
che talvolta sfociano nell’illecito penale( 25 ).<br />
B) Le esigenze sistematiche<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
Anche dal punto di vista sistematico, delle ragioni interne al sistema<br />
penale, i vantaggi connessi alla punizione delle persone giuridiche sono innumerevoli.<br />
All’interno delle moderne aziende è presente una polverizzazione di<br />
responsabilità che è il frutto di una serie di fattori: a) l’organizzazione<br />
non più di tipo verticale, ma orizzontale, caratterizzata da frammentazione,<br />
decentramento e specializzazione( 26 ); b) il blocco delle informazioni tra i<br />
vari settori dell’azienda, dovuto all’eccesso di competizione fra i dirigenti(<br />
27 ); c) la fissazione da parte del management di primo livello (i vertici<br />
della società) di obiettivi spesso irraggiungibili per i managers operativi se<br />
non ricorrendo all’illecito penale, a cui questi ultimi vengono spinti – consapevolmente<br />
o meno – anche attraverso un sistema di premi e punizioni<br />
(fringe benefits, aumenti di salario, aumento o riduzione del personale o<br />
del budget, allontanamento dalla società)( 28 ).<br />
( 22 ) C. De Maglie, op. ult. cit., 257 ss.<br />
( 23 ) A. Carmona, Premesse a un corso di diritto penale dell’economia. Mercato, regole,<br />
e controllo penale della postmodernità, Padova, 2002, 204.<br />
( 24 ) Cfr. V. Militello, Prospettive e limiti di una responsabilità della persona giuridica<br />
nel sistema penale italiano, inStudium Juris, 2000, 781.<br />
( 25 ) C. De Maglie, op. ult. cit., 262 s.<br />
( 26 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 274 s.<br />
( 27 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 275 s.<br />
( 28 ) Cfr. F. Stella, Criminalità d’impresa, op. cit., 465 s., il quale osserva: «proprio il<br />
decentramento permette alle ‘‘alte sfere’’ di isolarsi dalla responsabilità per le decisioni ope-
SAGGI E OPINIONI<br />
L’insieme di questi fattori ingenera quella ‘‘organisierte Unverantwortlichkeit’’<br />
(irresponsabilità organizzata) che rende frequentemente difficoltoso,<br />
se non impossibile, individuare la persona fisica che ha commesso il<br />
reato( 29 ), favorendo così la configurazione di ipotesi di responsabilità da<br />
posizione o in generale di responsabilità oggettiva da parte della giurisprudenza(<br />
30 ): sanzionare direttamente gli enti contribuisce dunque ad assicurare<br />
nei confronti delle persone fisiche il rispetto dei principî garantistici<br />
rative, e allo stesso tempo di far pressioni per soluzioni rapide di problemi molto difficili. – Il<br />
manager operativo sa bene di poter essere facilmente sostituito, sa bene che se non ottiene un<br />
rapido successo un altro manager è già alle sue spalle, pronto a prendere in mano la gestione<br />
della società o della divisione operativa. – Il risultato di questa situazione è del tutto prevedibile:<br />
quando la pressione è intensificata, i mezzi illegali diventano allettanti per un manager<br />
che non ha ripari contro un modo d’intendere la responsabilità aziendale duro ma miope,<br />
perché tiene conto solo dell’obiettivo del massimo profitto». Studiosi della Business School<br />
di Harvard rilevano che «presso parecchie industrie la pressione ad ottenere determinate<br />
prestazioni è così eccezionale e gli obiettivi da raggiungere così irragionevoli, da indurre i<br />
managers operativi a pensare che l’unica via d’uscita sia quella di piegare le regole, anche<br />
se ciò significa venire a compromessi con la propria etica professionale. Quando un manager<br />
avverte che il suo lavoro o la sopravvivenza della società o della sua divisione operativa rischiano<br />
di venirsi a trovare su una strada senza via d’uscita, gli standards di condotta nel<br />
business della società sono pronti ad essere sacrificati (J.C. Coffee, No Soul to Damn: No<br />
Body to Kick: An Unscandalized inquiry into the Problem of Corporate Punishment, inMichigan<br />
Law Rewiew, 1981, Vol. 79, 399 ss., citato in F. Stella, op. e loc. ult. cit.).<br />
( 29 ) Sulla difficoltà di individuare le responsabilità penali individuali tra le pieghe delle<br />
complesse strutture organizzative delle odierne persone giuridiche cfr. A. Alessandri, Reati<br />
d’impresa, op. cit., 29 s.; V. Militello, La responsabilità penale dell’impresa societaria e dei<br />
suoi organi in Italia, inRiv. trim. dir. pen. ec., 1992, 103 s.; L. Fornari, op. cit., 256 s. Nella<br />
dottrina straniera v. G. Heine, La responsabilidad penal de las empresas: evolucion international<br />
y conseguencias nacionales, 1996, in www.unifr.ch/derechopenal/anuario/96/an96.htm,<br />
2; J. Reátegui Sánchez, op. cit., 7.<br />
( 30 ) Cfr. C. Piergallini, Societas delinquere et puniri non potest: la fine tardiva di un<br />
dogma, op. cit., 580 s.: «È risaputo che le difficoltà di reperire responsabilità autenticamente<br />
individuali nel ventre delle organizzazioni complesse, portatrici di una propria politica e di<br />
una propria cultura, fomentano criteri di ascrizione che costituiscono espressione di mere<br />
responsabilità ‘‘da posizione’’, non di rado solcate da fenomeni di implementazione artificiosa<br />
delle posizioni di garanzia, che hanno come esito quello di stendere un elenco di ‘‘capri<br />
espiatori’’, volta per volta individuati, con un pendolarismo assai poco rassicurante». Su tale<br />
degenerazione giurisprudenziale v. C. Pedrazzi, Gestione d’impresa e responsabilità penali,<br />
in Riv. soc., 1962, 220 ss.; Id., Profili problematici del diritto penale d’impresa, inRiv. trim.<br />
dir. pen. ec., 1988, 125 ss.; E. Carletti, La responsabilità penale delle persone giuridiche:<br />
aspetti problematici, in AA.VV., La responsabilità penale delle persone giuridiche in diritto comunitario,<br />
op. cit., 502 s.; D. Pulitanó, Posizioni di garanzia e criteri di imputazione nel diritto<br />
penale del lavoro, inRiv. giur. lav., IV, 1982, 179 ss.; A. Alessandri, voce Impresa, op.<br />
cit., 195 ss. Nella dottrina sudamericana v. L. Rodríguez Ramos, Societas delinquere potest.<br />
Nuevos aspectos dogmáticos y procesales de la cuestión, 1996, in www.unifr.ch/derechopenal/anuario/96/an96.htm,<br />
2 s., il quale stigmatizza, tra le distorsioni a cui dà luogo il dogma<br />
del societas nell’ambito del diritto penale d’impresa, la creazione di ipotesi di responsabilità<br />
oggettiva finalizzate a consentire il risarcimento dei danni nei confronti delle vittime.<br />
35
36<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
che governano il diritto penale (in primis quello di personalità della responsabilità<br />
penale).<br />
L’introduzione di una responsabilità diretta degli enti rende inoltre il<br />
sistema penale più equo e trasparente, riequilibrando una serie di istituti: in<br />
primo luogo la pena pecuniaria, i cui limiti edittali in alcuni settori (ambiente,<br />
territorio, economia) sono elevatissimi perché pensati per colpire<br />
l’ente – reale motore dell’illecito – che di fatto ne sostiene il pagamento,<br />
a cui è comunque obbligato sussidiariamente (art. 197 c.p.)( 31 ); in secondo<br />
luogo istituti che per legge – oblazione discrezionale (art. 162-bis c.p.) e<br />
sospensione condizionale (art. 165 c.p.) – o per prassi – patteggiamento<br />
– sono condizionati a condotte riparatorie dell’offesa che quasi sempre solo<br />
l’impresa è in grado di porre in essere( 32 ): viene così spezzato quell’«intreccio<br />
ambiguo ed iniquo fra giudizio penale nei confronti di persone fisiche,<br />
e interessi risarcitori o reintegratori il cui soddisfacimento, proprio<br />
nei casi di maggior rilievo, eccede le possibilità degli imputati»( 33 ).<br />
( 31 ) Sul punto cfr. Commissione ministeriale per la riforma del codice penale presieduta<br />
dal prof. Carlo Federico Grosso, Relazione, Roma, 12 settembre 2000, in www.giustizia.it/studierapporti/riformacp/comm_grosso2.htm,<br />
ove dopo aver evidenziato tali «esigenze di riequilibrio<br />
delle sanzioni pecuniarie del diritto penale d’impresa», si ritiene che l’introduzione della responsabilità<br />
diretta delle persone giuridiche renda il sistema più equo e trasparente; C. Piergallini,<br />
Sistema sanzionatorio, op. cit., 1354, che, con icastica espressione, parla di «un<br />
sistema ventriloquo, che muove formalmente le labbra in direzione della persona fisica (...),<br />
ma in cui a parlare è il ventre della responsabilità sanzionatoria degli enti»; C. De Maglie,<br />
Responsabilità delle persone giuridiche: pregi e limiti del d. lgs. n. 231/2001, inDanno e resp.,<br />
2002, 247; Id., L’etica e il mercato, op. cit., 289, in cui si portano ad esempio le fattispecie in<br />
materia di inquinamento di acque (art. 21 della legge Merli, riformulato dall’art. 3 comma 1 d.l.<br />
17 marzo 1995 n. 79, convertito con modificazioni nella legge 17 maggio 1995, n. 172).<br />
( 32 ) Cfr. F. Foglia Manzillo, Verso la configurazione della responsabilità penale per<br />
la persona giuridica, inDir. pen. proc., 2000, 109 s.; A. Alessandri, Note penalistiche, op.<br />
cit., 39; C. De Maglie, op. ult. cit., 289 s., la quale conclude: «l’introduzione nel sistema<br />
della responsabilità penale delle persone giuridiche risponde ad esigenze di giustizia e di razionalizzazione<br />
dell’esistente. L’ostinato ancoraggio al principio di umanità sottopone tutto il<br />
sistema ad uno ‘‘stress gravemente deformante’’, perché formalizza una finzione legislativa<br />
che determina un vistoso scollamento tra chi è chiamato formalmente al pagamento e chi,<br />
di fatto, provvede all’esborso del denaro. Il risultato è l’avallo della responsabilità per fatto<br />
altrui». Contra v. S. Moccia, Considerazioni sul sistema sanzionatorio del Progetto preliminare<br />
di un nuovo codice penale, inCrit. dir., 2000, 295 s., secondo cui in realtà quello che<br />
si pone è «un problema di ragionevolezza dell’imposizione di siffatte sanzioni pecuniarie, alle<br />
quali si attribuisce impropriamente una finalità di abbattimento dei profitti realizzati dall’autore<br />
a favore del terzo persona giuridica», problema che andrebbe affrontato, come fanno<br />
ordinamenti a cui è estranea la responsabilità delle persone giuridiche, tramite il ricorso alla<br />
confisca del profitto del reato nei confronti del terzo che ne trae indebitamente vantaggio;<br />
l’autore ritiene inoltre che, in quest’ordine di idee, verrebbe superata l’irragionevolezza derivante<br />
dall’impraticabilità per la persona fisica di un’oblazione o di un patteggiamento in<br />
relazione a sanzioni pecuniarie elevatissime.<br />
( 33 ) Commissione ministeriale per la riforma del codice penale presieduta dal prof.<br />
Carlo Federico Grosso, Relazione, cit.
SAGGI E OPINIONI<br />
C) Gli input di diritto internazionale e comunitario<br />
Un ruolo decisivo ai fini dell’emanazione del d. lgs. n. 231/2001 hanno<br />
svolto gli input di provenienza esterna all’ordinamento italiano, ed in particolare<br />
la ratifica obbligata di una serie di protocolli e convenzioni internazionali(<br />
34 ).<br />
La legge delega n. 300/2000 – al cui art. 11 dà appunto attuazione il d.<br />
lgs. n. 231/2001 – ratifica e dà esecuzione alla Convenzione per la tutela<br />
degli interessi finanziari delle Comunità europee (Convenzione PIF), Bruxelles,<br />
26 luglio 1995; al primo Protocollo della Convenzione PIF, Dublino,<br />
1996; alla Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella<br />
quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli stati<br />
membri dell’Unione europea, Bruxelles, 26 maggio 1997; ed alla Convenzione<br />
OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle<br />
operazioni economiche internazionali( 35 ), con annesso, Parigi, 17 dicembre<br />
1997.<br />
Per la verità, solo la Convenzione OCSE contiene un generico accenno<br />
all’adozione, da parte di ciascuno degli Stati aderenti, delle misure necessarie<br />
a stabilire una forma di responsabilità degli enti nei casi di corruzione<br />
di un pubblico ufficiale straniero. Una presa di posizione esplicita e abbastanza<br />
dettagliata in questo senso è invece contenuta nel secondo Protocollo<br />
della Convenzione PIF, adottato e firmato a Lussemburgo il 19 luglio<br />
( 34 ) In generale sull’argomento cfr. G. Michelini, Responsabilità delle persone giuridiche<br />
e normativa internazionale multilaterale, inQuest. giust., 2002, 1079 ss., il quale fa notare<br />
che «Nell’ipertrofia che pure talvolta caratterizza la produzione normativa internazionale,<br />
il pressante richiamo all’individuazione di forme più pregnanti di responsabilità delle imprese<br />
è una costante da almeno un decennio». La maggiore sensibilità delle istituzioni<br />
comunitarie e internazionali nei confronti dell’introduzione di una responsabilità diretta derivante<br />
da reato delle persone giuridiche al fine di fronteggiare meglio la criminalità organizzata<br />
transnazionale in materia lato sensu economica è dovuta alla «diversa visione di insieme<br />
di cui beneficiava il ‘‘legislatore’’ comunitario, non delimitata dai ristretti confini geografici<br />
nazionali ed implementata da valutazioni estranee ai giudizi dei legislatori locali, come quelle<br />
inerenti alla necessità di salvaguardare la libertà di iniziativa economica in ambito internazionale<br />
e di garantire all’interno del mercato comunitario la parità di condizioni delle imprese<br />
sul terreno della concorrenza», nonché al fatto che «nell’ottica di una economia globalizzata,<br />
la mancata adozione di una soluzione normativa uniforme del problema della responsabilità<br />
degli enti e la sua remissione all’autonoma valutazione di ciascuno Stato membro, veniva<br />
considerata come un potenziale fattore di squilibrio del sistema economico europeo» (G.<br />
Amarelli, La responsabilità delle persone giuridiche e la repressione della criminalità organizzata<br />
transnazionale, in AA.VV., Nuove strategie per la lotta al crimine organizzato transnazionale,<br />
a cura di V. Patalano, Torino, 2003, 33).<br />
( 35 ) Sul contenuto di questa convenzione cfr. U. Draetta, La nuova Convenzione<br />
OECD e la lotta alla corruzione nelle operazioni commerciali internazionali, inDir. scambi<br />
e comm. int., 1998, 969 ss.; G. Sacerdoti, La convenzione OCSE del 1997 sulla lotta contro<br />
la corruzione dei pubblici ufficiali stranieri nelle transazioni commerciali internazionali, inRiv.<br />
it. dir. proc. pen., 1998, II, 1349 ss.<br />
37
38<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
1997, per il quale non si è dato corso alla ratifica in seguito alla mancanza<br />
della relazione esplicativa( 36 ). Quest’ultimo documento, tuttavia, pur non<br />
potendo essere oggetto di ossequio formale da parte del legislatore italiano,<br />
è stato la sua reale fonte di ispirazione riguardo alla responsabilità delle<br />
persone giuridiche, è ciò in quanto – volendo l’Unione Europea dotarsi<br />
di un corpus unitario di regole inerenti la tutela dei propri interessi finanziari<br />
– il recepimento del contenuto del secondo Protocollo si presentava<br />
indispensabile per realizzare efficacemente tale scopo( 37 ).<br />
Il secondo Protocollo prevede – in relazione ai delitti di frode, riciclaggio,<br />
corruzione attiva ai danni degli interessi finanziari delle Comunità<br />
europee, corruzione nel settore privato – che le persone giuridiche «siano<br />
passibili di sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive»( 38 ), lasciando<br />
dunque ai legislatori nazionali la scelta sulla natura della responsabilità (penale,<br />
amministrativa o civile)( 39 ).<br />
Una preziosa funzione di moral suasion indirizzata a favorire la diffusione<br />
della responsabilità penale degli enti è stata svolta dal Consiglio<br />
d’Europa tramite una serie di raccomandazioni( 40 ): la Risoluzione (77)<br />
( 36 ) Cfr. G. Marra, Note a margine dell’art. 6 ddl n. 3915-s contenente una ‘‘delega al<br />
governo per la disciplina della responsabilità delle persone giuridiche’’, in Ind. pen., 2000, II,<br />
829; C. Piergallini, La disciplina, op. cit., 1355.<br />
( 37 ) In tal senso v. G. Marra, op. cit., 829 s.; C. Piergallini, op. e loc. ult. cit.<br />
( 38 ) Sul secondo Protocollo alla Convenzione PIF cfr. M.F. Fontanella, Corruzione<br />
e superamento del principio societas delinquere non potest nel quadro internazionale, inDir.<br />
comm. int., 2000, II, 943 ss.<br />
( 39 ) La Corte di Giustizia delle Comunità europee, nella sentenza sull’affare Vandevenne,<br />
ha stabilito che «né l’art. 5 del Trattato CEE, né l’art. 17 del reg. n. 2820/85 obbligano<br />
uno Stato membro ad introdurre nel proprio ordinamento nazionale il principio della responsabilità<br />
penale delle persone giuridiche» (Corte di Giustizia, 2 ottobre 1991, causa c-<br />
7/90, in Raccolta, 1991, vol. I, 4371 ss.). E. Dolcini, Principi costituzionali e diritto penale<br />
alle soglie del nuovo millennio. Riflessioni in tema di fonti, diritto penale minimo, responsabilità<br />
degli enti e sanzioni, inRiv. it. dir. proc. pen., 1999, 20, ritiene che «i tratti di tale responsabilità,<br />
con tutta evidenza, sono quelli caratteristici di una responsabilità penale» e che<br />
«se le convenzioni si astengono dall’attribuirle espressamente tale qualifica, lo fanno soltanto<br />
in ossequio formale alle scelte di quei legislatori nazionali che ancora non prevedono la responsabilità<br />
penale delle persone giuridiche». Contra v. A.M. Castellana, Diritto penale<br />
dell’Unione Europea e principio «societas delinquere non potest», inRiv. trim. dir. pen. econ.,<br />
1996, 758 ss. e spec. 802 ss., la quale rileva che l’armonizzazione sanzionatoria delle normative<br />
nazionali, necessaria per una adeguata realizzazione degli scopi dell’Unione Europea,<br />
viene attuata dagli organi comunitari ricorrendo allo strumento del diritto penale amministrativo,<br />
onde gli enti collettivi dovrebbero essere sanzionati nello stesso modo; l’autore, infatti,<br />
aderisce alla posizione di coloro che sono contrari all’introduzione della responsabilità<br />
penale delle persone giuridiche, propugnando il ricorso a strumenti sanzionatori alternativi<br />
quali le sanzioni penali-amministrative.<br />
( 40 ) Sull’attività del Consiglio d’Europa cfr. C. Bolognese, The criminal responsibility<br />
of legal person in the instruments of the Council of Europe: un ongoing project, intervento al<br />
seminario di studio (programma comunitario Grotius) sul tema La responsabilità penale delle
SAGGI E OPINIONI<br />
28 sul ‘‘contributo del diritto penale alla protezione dell’ambiente’’, adottata<br />
dal Comitato dei Ministri il 28 settembre 1977; la Raccomandazione<br />
n. R. (81) 12 del 25 giugno 1981 sulla criminalità economica; la Raccomandazione<br />
n. R. (82) 15 del 24 settembre 1982 sul ‘‘Ruolo del diritto penale<br />
nella tutela del consumatore’’; la nota Raccomandazione n. R. (88) 18<br />
adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 20 ottobre<br />
1988( 41 ), che contiene una presa di posizione generale a favore della responsabilità<br />
delle persone giuridiche, giacché ha sollecitato gli stati<br />
membri a colpire con sanzioni dirette (eventualmente anche penali) le imprese<br />
che tengono comportamenti criminali; ed infine la Raccomandazione<br />
n. R (96) 8 adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa<br />
il 5 settembre 1996 e dedicata a ‘‘Politica criminale e diritto penale<br />
in un’Europa in trasformazione’’( 42 ).<br />
Nel quadro di un’armonizzazione del diritto penale degli stati membri<br />
dell’Unione Europea e della creazione di uno ‘‘spazio giuridico europeo’’,<br />
si inserisce poi il Corpus Juris, un documento che è il prodotto di uno<br />
studio elaborato per conto del Parlamento europeo con la supervisione<br />
della Commissione dell’Unione Europea, che ha avuto una prima versione<br />
nel 1996 ed una seconda nel 2000( 43 ). Questo elaborato è «un insieme di<br />
norme penali che costituiscono una sorta di corpus juris, limitatamente alla<br />
tutela penale degli interessi finanziari dell’Unione Europea, e volte a garantire,<br />
in uno spazio giudiziario ampiamente unificato, una repressione più<br />
giusta, più semplice, più efficace»( 44 ); al suo interno, l’art. 13 disciplina<br />
la responsabilità penale delle persone giuridiche per una serie di reati lesivi<br />
degli interessi finanziari dell’Unione Europea( 45 ).<br />
persone giuridiche, organizzato dal Ministero della Giustizia, Direzione Generale degli Affari<br />
Penali, Roma, 10-12 giugno 1999.<br />
( 41 ) Il testo della Raccomandazione è pubblicato in Riv. trim. dir. pen. ec., 1991, 653<br />
ss., con traduzione di V. Militello.<br />
( 42 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 231 ss.; G. Amarelli, op. ult. cit., 38s.<br />
( 43 ) Sul Corpus Juris cfr. G. Grasso, Il ‘‘Corpus Juris’’ e le prospettive di formazione di<br />
un diritto penale dell’Unione Europea, inG. Grasso (a cura di), Verso uno spazio giuridico<br />
europeo, Milano, 1997, 1 ss.; Id., Il Corpus Juris: Profili generali e prospettive di recepimento<br />
nel sistema delle fonti e delle competenze comunitarie, inL. Picotti (a cura di), Possibilità e<br />
limiti di un diritto penale dell’Unione Europea, Milano, 1999, 127 ss.; M. Delmas-Marty-<br />
J.A.E. Vervaele (a cura di), The implementetion of the Corpus Juris in the Member States:<br />
penal previsions for the protection of the European finance, voll. I, II, III, IV, Antwerpen-Groningen-Oxford,<br />
2000; M. Delmas-Marty, Il Corpus Juris delle norme penali per la protezione<br />
degli interessi finanziari dell’Unione Europea, inQuest. giust., 2000, 164 ss.<br />
( 44 ) Corpus Juris – Motivazione, inG. Grasso (a cura di), Verso uno spazio, op.<br />
cit., 50.<br />
( 45 ) L’art. 13 comma 1 prevede che per i reati di cui agli artt. 1-8 (frode al bilancio<br />
comunitario, frode in materia di appalti, corruzione, abuso d’ufficio, malversazione, rivelazione<br />
di segreti d’ufficio, riciclaggio e ricettazione, associazione per delinquere) «Sono responsabili<br />
(...) anche gli enti che possiedono la personalità giuridica, così come quelli che<br />
39
40<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
Non va dimenticata, inoltre, come fattore di pressione, l’enorme diffusione<br />
che la responsabilità penale delle persone giuridiche – originariamente<br />
confinata nei paesi di common law – ha avuto nei paesi dell’Europa<br />
continentale( 46 ) (l’istituto è ormai presente in Olanda, Irlanda, Danimarca,<br />
Svezia, Finlandia, Norvegia, Portogallo, Francia, Belgio, Svizzera( 47 )).<br />
3. La natura giuridica della responsabilità dell’ente: un falso problema?<br />
È opportuno ora prendere in esame il problema, molto dibattuto in<br />
dottrina, della natura della responsabilità dell’ente, al fine di verificare se<br />
si tratti di una questione del tutto astratta e teorica, o se invece essa non<br />
rivesta comunque una rilevanza pratica.<br />
Secondo l’opinione prevalente in dottrina, nonostante il d. lgs. n. 231/<br />
2001 preveda formalmente una responsabilità amministrativa, ci troviamo<br />
di fronte ad una responsabilità sostanzialmente penale, che di amministrativo<br />
presenta solo il nome. In sostanza, il legislatore avrebbe realizzato una<br />
vera e propria ‘‘frode delle etichette’’( 48 ) per evitare ogni problema di com-<br />
possiedono la qualità di soggetti di diritto e che sono titolari di un patrimonio autonomo,<br />
quando il reato è stato realizzato per conto dell’ente da un organo, da un rappresentante<br />
o da qualunque persona che abbia agito in nome dell’ente o che abbia un potere di decisione,<br />
di diritto o di fatto». Per un commento dell’art. 13 cfr. I. Caraccioli, La responsabilità<br />
penale delle persone morali, inL. Picotti (a cura di), Possibilità e limiti, op. cit., 177 ss.; G.<br />
De Simone, La responsabilità penale dell’imprenditore e degli enti collettivi nel Corpus Juris,<br />
ivi, 187 ss.; C. De Maglie, op. ult. cit., 240 s.; G. Amarelli, op. ult. cit., 39 ss.<br />
( 46 ) Per un quadro di diritto comparato cfr. H. De Doelder-K. Tiededmann (a cura<br />
di), La criminalisation du comportement collectif. Criminal Liability of Corporations, 1996,<br />
passim; A. Eser-G. Heine-B. Huber (a cura di), Criminal responsibility of legal and collective<br />
entities, Freiburg, 1999, passim.; nonché l’approfondita indagine di C. De Maglie, L’etica<br />
e il mercato, op. cit., 11-226. Da ultimo cfr. A. Menghini, Sistemi sanzionatori a confronto,<br />
inG. Fornasari-A. Menghini, Percorsi europei di diritto penale, Padova, 2005, 207 ss.<br />
( 47 ) In Svizzera la responsabilità penale delle persone giuridiche – novità storica per<br />
questo paese – è in vigore dal 1º ottobre 2003. Sono previste due forme di responsabilità<br />
penale dell’impresa: una primaria ed una sussidiaria. Si ha responsabilità primaria se in<br />
un’impresa viene commesso uno dei reati connessi al crimine organizzato ed al terrorismo,<br />
al riciclaggio o alla corruzione di funzionari, «qualora le si possa rimproverare di non avere<br />
preso tutte le misure organizzative, ragionevoli ed indispensabili per impedire un simile reato»<br />
(art. 100-quater cpv. 2 c.p.s.); mentre si ha responsabilità sussidiaria se in un’impresa viene<br />
commesso un crimine o un delitto, intenzionale o colposo, il cui autore non può essere<br />
accertato a causa dell’organizzazione interna carente dell’impresa medesima (art. 100-quater<br />
cpv. 1 c.p.s.): la responsabilità dell’impresa, dunque, scatta solo se non è individuata la persona<br />
fisica autore del reato (cfr. P. Bernasconi, Introdotta anche in Svizzera la responsabilità<br />
penale dell’impresa, inCass. pen., 2003, 4043 ss.).<br />
( 48 ) In proposito, vi è chi intelligentemente ha osservato che non si può parlare di ‘‘frode<br />
delle etichette’’ in senso tecnico, dato che questa espressione si riferisce ad ipotesi in cui la<br />
classificazione formale serve a coprire l’elusione di garanzie rese necessarie dalla sostanza
SAGGI E OPINIONI<br />
patibilità della nuova disciplina con l’art. 27 della Costituzione( 49 ). Ed in<br />
favore della natura penale della responsabilità depongono in primo luogo<br />
il fatto che la responsabilità dell’ente è collegata alla commissione di un<br />
reato, viene accertata dal giudice penale all’interno di un processo penale,<br />
e comporta l’irrogazione di sanzioni afflittive e stigmatizzanti( 50 ). A questo<br />
argomento, indubbiamente forte, si aggiunge l’individuazione di una serie<br />
di indici che portano nella stessa direzione( 51 ): l’autonomia della responsabilità<br />
dell’ente rispetto a quella della persona fisica (art. 8); il sistema di<br />
commisurazione delle pene pecuniarie, di chiara ispirazione penalistica<br />
‘‘punitiva’’ degli istituti (è il caso delle misure di sicurezza), mentre nel caso del d. lgs. n. 231/<br />
2001 il legislatore ha apprestato tutte le garanzie, sostanziali e processuali, tipiche del diritto<br />
penale (D. Pulitanó, La responsabilità ‘‘da reato’’ degli enti: i criteri di imputazione, inRiv.<br />
it. dir. proc. pen., 2002, 417 s.).<br />
( 49 ) G. De Vero, Struttura e natura giuridica dell’illecito di ente collettivo dipendente<br />
da reato. Luci ed ombre nell’attuazione della delega legislativa, inRiv. it. dir. proc. pen., 2001,<br />
1158, evidenzia che l’etichetta «responsabilità amministrativa» è dettata «dalla sola motivazione<br />
di non urtare la pruderie di quanti si dichiarano in via di principio contrari ad ammettere<br />
un’autentica responsabilità penale delle persone giuridiche»; Id., Introduzione al sistema<br />
penale, Torino, 2002, 105.<br />
( 50 ) In tal senso cfr. E. Musco, Le imprese a scuola di responsabilità tra pene pecuniarie<br />
e misura interdittive, inDir. e Giust., 2001, n. 23, 8, il quale osserva che tale responsabilità,<br />
per struttura e funzione, «di amministrativo presenta solo il nome, apparendo, con una probabilità<br />
che rasenta la certezza, un mascheramento di quella responsabilità penale della persona<br />
giuridica di cui si predica da anni la necessità e/o opportunità di una valorizzazione anche<br />
nel sistema penale italiano»; P. Ferrua, Le insanabili contraddizioni nella responsabilità<br />
dell’impresa, inDir. e Giust., 2001, n. 29, 8; L. Conti, La responsabilità amministrativa delle<br />
persone giuridiche. Abbandonato il principio societas delinquere non potest?, in Il diritto penale<br />
dell’impresa, a cura di L. Conti, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico<br />
dell’economia, diretto da F. Galgano, Padova, 2001, 866, secondo cui vi è stato un mascheramento<br />
legislativo di veri e propri reati indicati come illeciti amministrativi per superare remore<br />
costituzionali; C.E. Paliero, Il d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231: da ora in poi, societas<br />
delinquere (et puniri) potest, in Corr. giur., 2001, 845; G. Graziano, La responsabilità ‘‘penale-amministrativa’’<br />
delle persone giuridiche, inDir. prat. soc., 2002, n. 21, 22; A. Manna,<br />
La c.d. responsabilità amministrativa delle persone giuridiche: il punto di vista del penalista, in<br />
Cass. pen., 2003, 1103 s.; G. Fiandaca-E. Musco, Diritto Penale, Parte gen., IV ed., rist.<br />
agg., Bologna, 2004, 146; T. Padovani, Diritto penale, Parte gen., VII ed., Milano, 2004, 88<br />
s. Sostanzialmente su questa linea si pone anche A. Fiorella, Principi generali e criteri di<br />
attribuzione all’ente della responsabilità amministrativa, inA. Fiorella-G. Lancellotti,<br />
La responsabilità dell’impresa per i fatti di reato. Commento alla legge 29 settembre 2000,<br />
n. 300 ed al d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231. Presupposti della responsabilità e modelli organizzativi,<br />
Torino, 2004, 3 s., 14, che parla di responsabilità para-penale o in ogni caso assimilabile<br />
se non addirittura da identificare a quella penale, almeno dal punto di vista delle garanzie<br />
costituzionali.<br />
( 51 ) Cfr. P. Patrono, Verso la soggettività penale di società ed enti, inRiv. trim. dir.<br />
pen. ec., 2002, 187 ss.; V. Maiello, La natura (formalmente amministrativa ma sostanzialmente<br />
penale) della responsabilità degli enti nel d. lgs. n. 231/2001: una «truffa delle etichette»<br />
davvero innocua?, inRiv. trim. dir. pen. ec., 2002, 900 ss.; G. Amarelli, Mito giuridico ed<br />
evoluzione della realtà, op. cit., 969 ss.<br />
41
42<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
(artt. 10 e 11); la punizione della persona giuridica anche per il tentativo<br />
(art. 26); la rinunciabilità all’amnistia da parte dell’ente (art. 8, comma<br />
3); l’istituzione dell’anagrafe nazionale delle sanzioni amministrative comminate<br />
agli enti (art. 80); l’applicazione dei principî di legalità (art. 2) e<br />
di retroattività della lex mitior (art. 3, comma 2).<br />
Autorevole ma minoritaria dottrina( 52 ) ritiene invece trattarsi di responsabilità<br />
in tutto e per tutto amministrativa, facendo leva su tre argomenti:<br />
1) recentemente una serie di reati in materia alimentare sono stati<br />
depenalizzati e ridotti al rango di illeciti amministrativi, ma ai fatti più gravi<br />
si applicano sempre sanzioni accessorie di carattere interdittivo, che hanno<br />
mantenuto inalterato il loro contenuto a prescindere dalla qualificazione<br />
giuridica, per cui è il nome della sanzione che ne determina la natura e<br />
non viceversa; 2) nel d. lgs. n. 231/2001 sono presenti elementi estranei<br />
al sistema penale, come la disciplina della prescrizione (art. 22) e quella<br />
delle vicende modificative dell’ente (fusione, scissione, cessione e conferimento<br />
di azienda: artt. 28-33); 3) il fatto che la responsabilità dell’ente<br />
sia accertata con le forme e le garanzie del processo penale non implica necessariamente<br />
la sua natura penale, in quanto «se è vero che ‘‘non c’è pena<br />
senza processo penale’’, non è vero l’opposto, perché ‘‘vi può essere una<br />
sanzione amministrativa anche se inflitta nel corso e con le garanzie del<br />
processo penale’’», come nell’ipotesi di connessione obiettiva di un illecito<br />
amministrativo con un reato di cui all’art. 8 della legge n. 689/1981.<br />
In realtà, se all’interno di questa spinosa problematica c’è un dato<br />
certo, è che deve escludersi la natura amministrativa della responsabilità<br />
dell’ente, che nulla possiede del paradigma amministrativo sia perché<br />
«non è in questione una funzione amministrativa, ma si è in presenza di<br />
una funzione giurisdizionale penale»( 53 ) – tant’è che la sanzione non è irrogata<br />
tramite un atto amministrativo – sia perché l’ente risponde per la<br />
commissione di un reato e non di un illecito amministrativo. Né le predette<br />
argomentazioni sono in grado di ribaltare questa conclusione: all’argomento<br />
sub 1) deve ribattersi che il titolo è solo uno degli elementi da utilizzare<br />
per l’interpretazione di una norma: laddove tutto o quasi nella disciplina<br />
sia in disaccordo con esso non può non prevalere l’interpretazione<br />
sistematica( 54 ); riguardo all’argomento sub 2) la presenza di elementi in-<br />
( 52 ) G. Marinucci, op. cit., 1201 ss. Qualifica la responsabilità dell’ente come amministrativa<br />
anche M. Romano, La responsabilità amministrativa degli enti, società o associazioni:<br />
profili generali, inRiv. soc., 2002, 398.<br />
( 53 ) Così A. Travi, La responsabilità della persona giuridica nel D. Lgs. n. 231/2001:<br />
prime considerazioni di ordine amministrativo, inLe soc., 2001, 1305.<br />
( 54 ) Cfr. Corte cost., sentenza 28 novembre 1968, n. 116, in Giur. cost., 1968, II, 2071<br />
ss., con nota di A. Pradieri, I titoli delle leggi – Osservazioni sul loro procedimento di formazione;<br />
G. Amarelli, op. ult. cit., 967 ss.
SAGGI E OPINIONI<br />
compatibili con la natura penale della responsabilità non depone automaticamente<br />
a favore della sua qualificazione come amministrativa; infine, in<br />
merito all’argomento sub 3), è vero che il giudice penale talvolta è chiamato<br />
ad applicare sanzioni amministrative, ma ciò non avviene «mai come concretizzazione<br />
di uno scopo esclusivo ed originario del processo»( 55 ).<br />
Secondo un altro punto di vista, stante l’impossibilità di una rieducazione<br />
dell’ente, si è in presenza di un terzo binario del diritto penale criminale,<br />
che si affianca alla pena e alle misure di sicurezza, il quale si concreta<br />
in «una sanzione punitiva intesa a realizzare la prevenzione dei reati per il<br />
tramite delle componenti più superficiali (negative) della prevenzione generale<br />
e speciale, le sole compatibili con la depotenziata e settoriale dimensione<br />
soggettiva dell’ente collettivo»( 56 ).<br />
Il dato che emerge è che sono presenti elementi che legittimano differenti<br />
inquadramenti, anche se la struttura e le modalità del modello disegnano<br />
un paradigma sanzionatorio che è più vicino a quello penale( 57 ),<br />
pur non essendo interamente tale( 58 ). Per questo motivo è più importante<br />
valutare il nuovo modello punitivo sul piano dell’effettività e delle garanzie,<br />
rifiutando comunque l’etichetta ambigua ed indefinita di tertium genus utilizzata<br />
nella relazione governativa al decreto legislativo( 59 ). La formula «re-<br />
( 55 ) V. Maiello, op. cit., 901.<br />
( 56 ) G. De Vero, Struttura e natura giuridica dell’illecito di ente collettivo dipendente<br />
da reato, op. cit., 1165 ss.; Id., La responsabilità diretta ex crimine degli enti collettivi: modelli<br />
sanzionatori e modelli strutturali, in AA.VV., L’ultima sfida della politica criminale: la responsabilità<br />
(penale?) degli enti collettivi, inLeg. pen., 2003, 358. Nello stesso senso cfr. F. Nuzzo,<br />
Primi appunti sugli aspetti probatori e sulle decisioni finali concernenti l’illecito amministrativo<br />
dipendente da reato, inArch. nuova proc. pen., 2001, 455 s., nonché – tra gli economisti<br />
che ascrivono la criminalità economica al calcolo razionale dei vantaggi conseguibili<br />
attraverso il reato – M. Centorrino-F. Ofria, L’impatto criminale sulla produttività del<br />
settore privato, Milano, 2002, passim.<br />
( 57 ) Cfr. C. Piergallini, La disciplina, op. cit., 1365; A. Alessandri, Note penalistiche,<br />
op. cit., 55 ss. e spec. 58: «si tratta di una responsabilità punitiva, che sorge in ambiente<br />
penalistico, per esigenze di migliore tutela dei beni giuridici, ma non assume lo schema penalistico»;<br />
C. De Maglie, L’etica e il mercato, op. cit., 329.<br />
( 58 ) Segnano un distacco dal modello penalistico il regime della prescrizione, la disciplina<br />
dell’archiviazione (art. 58) e della contestazione dell’illecito (art. 59), l’inesistenza di un<br />
regime di conversione per le sanzioni pecuniarie e l’assenza di istituti sospensivi (cfr. C.<br />
Piergallini, op. e loc. ult. cit.).<br />
( 59 ) La Relazione governativa al d. lgs. n. 231/2001, inGuida al diritto, 2001, n. 26, 31<br />
ss., parla di «tertium genus che coniuga i tratti essenziali del sistema penale e di quello amministrativo<br />
nel tentativo di contemperare le ragioni dell’efficacia preventiva con quelle, ancor<br />
più ineludibili, della massima garanzia». Il Progetto preliminare di riforma del codice penale<br />
elaborato dalla Commissione ministeriale presieduta dal prof. Carlo Federico Grosso, in<br />
cui è contenuta una forma di responsabilità da reato delle persone giuridiche che ha ispirato<br />
il legislatore del d. lgs. n. 231/2001, ha invece scelto di non qualificare la responsabilità né<br />
come penale, né come amministrativa, delineando – secondo la Relazione al Progetto – «una<br />
sorta di tertium genus, che è sìancorato a presupposti penalistici (commissione di un reato) e<br />
43
44<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
sponsabilità amministrativa» adoperata dal legislatore si rivela dunque<br />
nulla più che «un’etichetta carica di significati simbolici, del tutto neutra rispetto<br />
alla disciplina degli istituti»( 60 ), mentre in ultima analisi siamo di<br />
fronte ad «un sottosistema autonomo, entro il complesso di quello che può<br />
essere ed è definito dalla dottrina come sistema punitivo, comprendente sia<br />
il diritto penale sia il sistema dell’illecito ‘‘amministrativo’’», rispetto al<br />
quale la formula ‘‘responsabilità da reato’’ appare come la più congeniale(<br />
61 ).<br />
Non si può però concordare con chi ritiene che la questione della natura<br />
giuridica della responsabilità degli enti sia questione meramente accademica(<br />
62 ): se è innegabile che ciò che conta maggiormente in concreto è il<br />
governato dalle garanzie forti del diritto penale, ma che rispetto al diritto penale classico presenta<br />
inevitabili diversità, dovute alla diversità dei destinatari» (l’Articolato del Progetto e la<br />
Relazione sono consultabili sul sito www.giustizia.it, nonché inRiv. it. dir. proc. pen., 2001, 3<br />
ss.). Criticano la scelta di etichettare come amministrativa la responsabilità dell’ente operata<br />
dal legislatore, esaltando invece l’opzione astensionistica presente nel Progetto Grosso M.<br />
Pelissero-G. Fidelbo, La ‘‘nuova’’ responsabilità amministrativa delle persone giuridiche<br />
(d. lgs. 8.6.2001 n. 231), inLeg. pen., 2002, 592 s. A sé stante la posizione di S. Vinciguerra,<br />
Quale specie di illecito?, inS. Vinciguerra-M. Ceresa Gastaldo-A. Rossi, La responsabilità<br />
dell’ente per il reato commesso nel suo interesse (D. Lgs. n. 231/2001), Padova,<br />
2004, 183 ss., spec. 211 s., il quale configura addirittura un quartum genus tra responsabilità<br />
civile, penale, penale-amministrativa, dato che «Il risultato dell’ibridazione è un modello che<br />
non riproduce la responsabilità punitivo-amministrativa né si colloca esclusivamente fra quest’ultima<br />
e la responsabilità penale, perché riproduce anche caratteri della responsabilità civile<br />
aquiliana», modello ottenuto recependo caratteri comuni e caratteri esclusivi delle suddette<br />
forme di responsabilità.<br />
( 60 ) D. Pulitanó, La responsabilità ‘‘da reato’’ degli enti: i criteri di imputazione, op.<br />
ult. cit., 417; Id., voce Responsabilità amministrativa per i reati delle persone giuridiche, in<br />
Enc. dir., Aggiornamento, vol. VI, Milano, 2002, 954: «il legislatore italiano ha fatto una scelta<br />
di forte valenza simbolica: l’etichetta adoperata trasmette un messaggio di minor gravità e<br />
di minore riprovazione, rispetto alla responsabilità penale. Soltanto dentro questo involucro<br />
simbolico la responsabilità degli enti è stata accettata (e non senza contrasti) nel contesto culturale<br />
e (soprattutto) nel contesto politico italiano, ancora alla svolta del millennio».<br />
( 61 ) Così D. Pulitanó, La responsabilità ‘‘da reato’’ degli enti: i criteri di imputazione,<br />
op. cit., 417 ss.; in senso adesivo v. C. De Maglie, op. ult. cit., 329 s.<br />
( 62 ) Di questa idea sono D. Pulitanó, op. ult. cit., 417, che reputa sterile la discussione<br />
sulla natura giuridica della responsabilità dell’ente, in quanto rischia di «scambiare<br />
per problemi ‘‘dogmatici’’, di sostanza, problemi di mera costruzione del linguaggio»; Id.,<br />
voce Responsabilità amministrativa per i reati delle persone giuridiche, op. cit., 954; Id., La<br />
responsabilità «da reato» degli enti nell’ordinamento italiano, in AA.VV., Responsabilità degli<br />
enti per i reati commessi nel loro interesse, op. cit., 9;C. De Maglie, op. ult. cit., 328; Id.,<br />
Corporate criminal liability in italian law, op. cit., 398. Contra v. M.A. Pasculli, Questioni<br />
insolute ed eccessi di delega nel d.l.vo n. 231/01, inRiv. pen., 2002, 740; A. Manna, La c.d.<br />
responsabilità amministrativa delle persone giuridiche: un primo sguardo d’insieme, op. cit.,<br />
517; G. Amarelli, op. ult. cit., 967 s.; S. Vinciguerra, La struttura dell’illecito, inS. Vinciguerra-M.<br />
Ceresa Gastaldo-A. Rossi, op. cit., 5: «La qualificazione del tipo di responsabilità<br />
venuta in essere con il d. lgs. n. 231/2001 non presenta un interesse puramente<br />
accademico, perché da essa dipendono importanti conseguenze, quali il grado di completez-
SAGGI E OPINIONI<br />
contenuto della disciplina, al fine di contemperare le esigenze politico-criminali<br />
con quelle garantistiche, è altresì vero che la qualificazione giuridica<br />
mantiene una sua rilevanza pratica oltre che dogmatica, e ciò per due ordini<br />
di ragioni. In primo luogo, per coloro che ritengono la responsabilità<br />
penale degli enti in contrasto con l’art. 27, commi 1 e 3, Cost., conoscere la<br />
natura della responsabilità èindispensabile per stabilire la legittimità costituzionale<br />
del d. lgs. n. 231/2001; in secondo luogo, qualificare la responsabilità<br />
come penale renderebbe i principî garantistici che governano la<br />
responsabilità dell’ente – traslati dagli stessi principî che la Costituzione<br />
prevede per la persona fisica – inderogabili da parte del legislatore ordinario(<br />
63 ). Il problema è che il legislatore, con una scelta timida e compromissoria,<br />
ha reso impossibile stabilire la reale natura della responsabilità(<br />
64 ), mentre sarebbe stato opportuno imboccare chiaramente e con decisione<br />
la strada della responsabilità penale stricto sensu, soprattutto se si<br />
ritiene «superata l’antica obiezione legata al presunto sbarramento dell’art.<br />
27 Cost., e cioè all’impossibilità di adattare il principio di colpevolezza alla<br />
responsabilità degli enti»( 65 ), in forza del prevalere della concezione normativa<br />
della colpevolezza sulla concezione psicologica( 66 ).<br />
za richiesto alla delega parlamentare, la misura della discrezionalità consentita al legislatore<br />
delegato, i limiti costituzionali della responsabilità degli enti, la disciplina di riferimento per<br />
integrare la legge istitutiva nelle parti in cui si rivela lacunosa».<br />
( 63 ) Similmente cfr. G. De Simone, I profili sostanziali della responsabilità c.d. amministrativa<br />
degli enti: la «parte generale» e la «parte speciale» del d. lgs. 8 giugno 2001 n. 231,in<br />
AA.VV., Responsabilità degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato, op. cit., 80,<br />
secondo cui «il problema della qualificazione formale (...) andrebbe forse sdrammatizzato ed<br />
assumerebbe un rilievo tutto sommato marginale, una volta imboccata la via della ‘‘massimizzazione’’<br />
dei principî e delle garanzie di stampo penalistico. Non si deve, però, dimenticare<br />
che talune opzioni tutt’altro che irrilevanti (quale, in primis, quella relativa ai ‘‘referenti costituzionali’’<br />
cui agganciare questi principî e queste garanzie) potrebbero dipendere proprio<br />
dall’etichetta che si intende assegnare a questo modello di responsabilità»; Id., La responsabilità<br />
da reato dell’impresa nel sistema italiano: alcune osservazioni rapsodiche e una preliminare<br />
divagazione comparatistica, in AA.VV., Societas puniri potest. La responsabilità da reato<br />
degli enti collettivi, op. cit., 223 s.<br />
( 64 ) In senso critico nei confronti della mancanza di chiarezza del legislatore nella definizione<br />
della natura della responsabilità degli enti cfr. F. Foglia Manzillo, Responsabilità<br />
dell’ente: amministrativa, penale o ‘‘tertium genus’’, inDir. prat. soc., 2002, n. 8, 19.<br />
( 65 ) Relazione governativa al d. lgs. n. 231/2001, cit., 31.<br />
( 66 ) Secondo la concezione psicologica, la colpevolezza consiste in una mera relazione<br />
psicologica tra fatto e autore, mentre secondo la concezione normativa – oggi accolta dalla<br />
dottrina dominante – la colpevolezza consiste nella rimproverabilità dell’atteggiamento psicologico<br />
tenuto dal soggetto agente: il giudizio di rimprovero da parte dell’ordinamento verte<br />
sull’atteggiamento antidoveroso della volontà presente sia nel fatto doloso che nel fatto<br />
colposo; il vantaggio offerto da questa seconda concezione è di prospettare un concetto<br />
di colpevolezza che funga anche da criterio di commisurazione giudiziale, consentendo di<br />
tenere conto dei motivi e delle circostanze dell’agire (fra gli autori che hanno fatta propria<br />
la concezione normativa cfr. G. Delitala, Il fatto nella teoria generale del reato, Padova,<br />
45
46<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
La dottrina prevalente ha sempre sostenuto sia l’incompatibilità della<br />
responsabilità penale delle persone giuridiche con il principio costituzionale<br />
di colpevolezza, ritenendo che l’ente non possa per sua natura esprimere<br />
una volontà psicologica colpevole( 67 ), sia l’impossibilità di concepire<br />
un finalismo rieducativo nei confronti dell’ente, dato che questo presuppone<br />
una personalità strutturata, una storia di vita reale, un substrato psicologico<br />
minimo che possa essere orientato verso la riappropriazione dei<br />
valori della legalità( 68 ). Si è anche sostenuto che, pur non essendovi forse<br />
ostacoli dogmatici e costituzionali tali da impedire la configurazione di una<br />
responsabilità penale delle persone giuridiche, la criminalizzazione degli<br />
enti avrebbe l’effetto di sfigurare il volto costituzionale dell’illecito penale,<br />
aprendo la via ad un diritto penale tecnocratico, che rischierebbe di compromettere<br />
anche le garanzie faticosamente conquistate per l’individuo( 69 ).<br />
1930, 85; C. Fiore, Diritto penale, Parte gen., vol. I, Torino, 1993, 139 ss.; G. Fiandaca-E.<br />
Musco, op. cit., 282 ss.; F. Mantovani, Diritto penale, Parte gen., Padova, 2001, 297; G.<br />
Marinucci-E. Dolcini, Corso di diritto penale, III ed., Milano, 2001, 489 ss.; M. Romano,<br />
sub Pre-Art. 39 c.p., in Commentario sistematico del codice penale, vol. I, III ed., Milano,<br />
2004, 329 ss. Contra v. F. Pagliaro, Il fatto di reato, Palermo, 1960, 240 ss.; Id., Principi di<br />
diritto penale, Parte gen., VIII ed., Milano, 2003, 322 s.). In giurisprudenza, per una importante<br />
pronuncia di accoglimento della concezione normativa della colpevolezza, cfr. Cass.,<br />
Sez. Un., 25 gennaio-8 marzo 2005, n. 9163, in Guida al diritto, 2005, n. 17, 54 ss.<br />
( 67 ) Cfr., fra i tanti, C.F. Grosso, voce Responsabilità penale, inNoviss. Dig. It., vol.<br />
XV, Torino, 1968, 712; M. Romano, Societas delinquere non potest (nel ricordo di Franco<br />
Bricola), inRiv. it. dir. proc. pen., 1995, 1031 ss.; Id., La responsabilità, op. cit., 398 ss.;<br />
G. Maiello, op. cit., 887, spec. 897 ss., che ripropone con forza tutte le tradizionali obiezioni<br />
alla criminalizzazione degli enti; G. Amarelli, op. cit., 982 ss., per il quale, se si vuole<br />
introdurre una responsabilità penale delle persone giuridiche, la via obbligata è quella della<br />
riforma dell’art. 27 Cost., rimanendo preclusa ogni lettura evolutiva dello stesso. In passato,<br />
si sono invece espressi – con varietà di argomenti – a favore della responsabilità penale degli<br />
enti L. Stortoni, op. cit., 1163 ss.; F.C. Palazzo, op. cit., 418 ss.; G. Pecorella, Societas<br />
delinquere potest, inRiv. giur. lav., IV, 1977, 357 ss. Vi è chi acutamente ha notato come la<br />
responsabilità penale delle persone giuridiche è «l’unico terreno in cui l’orientamento costituzionale<br />
del sistema penale italiano ha svolto un ruolo frenante e conservatore, anziché progressista,<br />
vale a dire di adeguamento dello strumento penale alle moderne esigenze politicocriminali»<br />
(così C.E. Paliero, La fabbrica del Golem. Progettualità e metodologia per la<br />
«Parte generale» di un codice penale dell’Unione Europea, inRiv. it. dir. proc. pen., 2000,<br />
499).<br />
( 68 ) Cfr. A. Alessandri, Reati d’impresa, op. cit., 58; Id., Commento, op. cit., 160 s.<br />
L’autore ha ribadito la sua posizione anche di recente in Id., Note penalistiche, op. cit., 44.<br />
( 69 ) In tal senso cfr. A. Alessandri, Reati d’impresa, op. cit., 57 s.; Id., Commento, op.<br />
cit., 159 s. In senso adesivo v. G. Flora, L’attualità del principio «societas delinquere non<br />
potest», inRiv. trim. dir. pen. econ., 1995, 18 s.; G. Izzo, Prospettive di esclusione per la responsabilità<br />
penale delle persone giuridiche, inIl fisco, 1999, n. 21, 7057 s., che suggerisce di<br />
introdurre nei confronti delle persone giuridiche sanzioni emanate dall’autorità amministrativa;<br />
nonché, da ultimo, M.L. Ferrante, Considerazioni sul titolo VII dell’articolato del progetto<br />
preliminare di riforma del codice penale elaborato dalla commissione presieduta da C.F.<br />
Grosso, in AA.VV., La riforma della parte generale del codice penale. La posizione della dot-
SAGGI E OPINIONI<br />
Queste obiezioni, come ha dimostrato la dottrina più recente, sono<br />
però tutte superabili.<br />
Riguardo alla colpevolezza, è evidente che l’art. 27, comma 1, Cost.<br />
non contiene alcun divieto espresso di criminalizzazione degli enti( 70 ),<br />
per cui – adattando il principio di colpevolezza alla persona giuridica ed<br />
evitando di rimanere prigionieri di un deleterio antropomorfismo – è possibile<br />
configurare una colpevolezza autonoma dell’ente di contenuto esclu-<br />
trina sul progetto Grosso, a cura di A.M. Stile, Napoli, 2003, 650 s. A sé stante è invece l’opinione<br />
di I. Caraccioli, Osservazioni sulla responsabilità penale propria delle persone giuridiche,<br />
in AA.VV., Studi in onore di Marcello Gallo. Scritti degli allievi, Torino, 2004, 73 ss.,<br />
spec. 77 ss., il quale ritiene che l’art. 27, comma 1, Cost. impedisca esclusivamente l’applicazione<br />
alla persona giuridica di una sanzione penale in conseguenza di un fatto realizzato da<br />
una persona fisica: il principio di personalità della responsabilità penale implicherebbe dunque<br />
che la responsabilità penale della persona giuridica possa legittimamente configurarsi solo<br />
nel caso in cui per la stessa condotta non si abbia la contemporanea responsabilità della<br />
persona fisica e della persona giuridica. In questo quadro, la persona giuridica risponderebbe<br />
penalmente solo per i fatti che non possono strutturalmente essere realizzati dalla persona<br />
fisica e che presuppongono necessariamente come autore un ente collettivo, quali i fatti criminosi,<br />
necessariamente plurisoggettivi, che nascono da un delibera o una decisione o una<br />
votazione di più persone nell’ambito di un’impresa (l’autore porta ad esempio il caso di<br />
un reato ambientale derivante dalla mancata attuazione delle misure anti-inquinamento in<br />
conseguenza di una delibera del consiglio di amministrazione che abbia omesso di destinare<br />
i fondi necessari all’acquisto delle apparecchiature disinquinanti), o i reati che nascono da<br />
atti giuridici (per esempio il bilancio) che sono il frutto della necessaria collaborazione-partecipazione<br />
di più soggetti (è l’ipotesi delle false comunicazioni sociali ex artt. 2621-2622<br />
c.c.). Non vi è chi non veda come una tale impostazione – pur presentata all’insegna di<br />
una liberazione della persona fisica ‘‘debole’’ (a fronte di una persona giuridica ‘‘forte’’)<br />
da un diritto penale vessatorio e alla ricerca di capri espiatori, comporti l’introduzione di vastissime<br />
zone di impunità per la persona fisica, in particolare nel campo della criminalità economica,<br />
determinando in tal modo gravi ed irragionevoli disuguaglianze fra ‘‘colletti bianchi’’<br />
e ‘‘cittadini comuni’’ che si rendano autori di reati, con seri rischi di tenuta del sistema penale:<br />
non è un caso, d’altronde, che in tutti gli ordinamenti che accolgono la responsabilità<br />
penale delle persona giuridiche essa dia luogo ad una responsabilità cumulativa della persona<br />
fisica che ha commesso il reato, qualora sia possibile identificarla.<br />
( 70 ) Cfr. E. Dolcini, op. cit., 23; C. De Maglie, L’etica e il mercato, op. cit., 341 ss.<br />
Negli anni settanta Bricola aveva già dimostrato – attraverso il ricorso alla teoria organica – la<br />
compatibilità tra responsabilità penale delle persone giuridiche e divieto di responsabilità per<br />
fatto altrui, ma aveva ritenuto insuperabile la barriera del nulla poena sine culpa, proponendo<br />
– secondo una tesi risalente a Exner – l’adozione di apposite misure di sicurezza (cfr. F. Bricola,<br />
Il costo, op. cit., 1010 ss.); successivamente il compianto autore modificò la propria<br />
opinione, ritenendo anche l’utilizzo delle misure di sicurezza nei confronti degli enti in contrasto<br />
con il principio di colpevolezza e optando per le sanzioni amministrative (v. F. Bricola,<br />
Responsabilità penale per il tipo e il modo di produzione, inLa responsabilità dell’impresa<br />
per i danni all’ambiente e ai consumatori, Atti del Convegno di studi organizzato dal<br />
Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale, Milano, 17-18 dicembre 1976, Milano,<br />
1978, 89 s., ora anche in F. Bricola, Scritti, op. cit., vol. I, tomo II, 1252 s.; Id., Tecniche<br />
di tutela penale e tecniche alternativa di tutela, in AA.VV., Funzioni e limiti del diritto penale,<br />
a cura di M. De Acutis e G. Palombarini, Padova, 1984, 73).<br />
47
48<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
sivamente normativo, fondata essenzialmente sulle nozioni di politica di<br />
impresa e di colpa di organizzazione( 71 ), come insegnano le esperienze<br />
di molti dei paesi che già accolgono la responsabilità penale degli enti.<br />
La bontà di questa soluzione è confermata dal fatto che in un paese in<br />
cui il principio di colpevolezza è costituzionalizzato (Spagna), il Tribunale<br />
Costituzionale – nella sentenza n. 246/1991 – ha affermato la compatibilità<br />
della responsabilità penale-amministrativa degli enti con il principio di colpevolezza,<br />
dovendo la colpevolezza per le persone giuridiche essere intesa<br />
diversamente che per le persone fisiche: per gli uomini essa consiste nella<br />
capacità di infrazione e quindi nella rimproverabilità diretta, mentre per gli<br />
enti essa va individuata nel fatto di non stimolare il rigoroso adempimento<br />
delle misure di sicurezza da parte dei dipendenti( 72 ). Quanto alla rieducazione,<br />
l’esperienza di altri ordinamenti – in particolare quello statunitense e<br />
quello francese – ha già dimostrato che nei confronti dell’ente è possibile<br />
ricorrere, oltre alla pena pecuniaria, a sanzioni (quali il probation,ilcommunity<br />
service oiremedial orders) che possono produrre effetti risocializzanti<br />
nettamente superiori rispetto a quelli prodotti dalla pena detentiva nei confronti<br />
delle persone fisiche( 73 ), in quanto «non essendoci un corpo da straziare<br />
e un animo da umiliare, la sanzione diretta all’impresa può permettersi<br />
quell’invadenza, quella pervasività e anche quella violenza che un diritto<br />
penale moderno e rispettoso della dignità umana respinge con forza<br />
qualora il destinatario sia una persona fisica. Nei confronti di un’impresa<br />
il diritto penale può dar sfogo a tutte le pretese di rimodellamento e di ri-<br />
( 71 ) In tal senso cfr. J. De Faria Costa, op. cit., 1253 ss.; H.J. Hirsch, La criminalisation<br />
du comportement collectif – Allemagne, inH. De Doelder-K. Tiedemann (a cura<br />
di), op. cit., 59 s.; G. De Simone, Societas, op. cit., 117 ss., spec. 127 ss.; S. Bacigalupo, La<br />
responsabilidad penal de las personas jurídicas, Barcelona, 1998, 359; A. Manna, op. ult. cit.,<br />
505; G. Marinucci, op. cit., 1208 ss.; C. Piergallini, Societas delinquere et puniri non<br />
potest : la fine tardiva di un dogma, op. cit., 582; D. Pulitanó, La responsabilità ‘‘da reato’’<br />
degli enti: i criteri di imputazione, op. cit., 423, secondo cui «La ‘‘capacità di colpevolezza’’<br />
della persona giuridica, ideologicamente negata da un filone della dottrina, è implicita nella<br />
configurazione fattuale e giuridica di un soggetto capace di agire», per cui «la tesi che nega<br />
in radice la ‘‘capacità di colpevolezza’’ delle persone giuridiche è supporto ideologico di pretese<br />
di ingiustificato privilegio»; C. De Maglie, op. ult. cit., 355 ss.; Id., Verso un codice penale<br />
europeo: la responsabilità penale delle persone giuridiche, in AA.VV., Verso un codice penale<br />
modello per l’Europa. Offensività e colpevolezza, a cura di A. Cadoppi, Padova, 2002, 65 ss.;<br />
L. Zúñiga Rodríguez, La cuestión, op. cit., 8.<br />
( 72 ) Sul punto cfr. L. Arroyo Zapatero, Persone giuridiche e responsabilità penale in<br />
Spagna, in AA.VV., Societas puniri potest, op. cit., 182 s. In Spagna a carico dell’ente esiste un<br />
sistema di Consecuencias Accesorias (art. 129 c.p. del 1995) derivanti dalla commissione di<br />
determinati reati, la cui natura giuridica è molto controversa in dottrina (in argomento v.<br />
A. Menghini, Consecuencias accesorias e responsabilità delle persone giuridiche, in AA.VV.,<br />
Le strategie di contrasto alla criminalità organizzata nella prospettiva di diritto comparato, a<br />
cura di G. Fornasari, Padova, 2002, 147 ss.).<br />
( 73 ) Cfr. E. Dolcini, op. cit., 23s.
SAGGI E OPINIONI<br />
formulazione completa della struttura; può ricostruire una ‘‘persona<br />
nuova’’, modificando il carattere e reimpostando la condotta di vita»( 74 ).<br />
Infine, in merito al paventato vulnus nei confronti delle garanzie dei singoli,<br />
è stato efficacemente affermato che «una disciplina legislativa che dall’operato<br />
dell’amministratore di una società faccia conseguire sanzioni penali<br />
non solo nei confronti della persona fisica, ma anche nei confronti della società<br />
non rende nessun uomo responsabile per il fatto altrui, né lo rende<br />
responsabile oltre i limiti segnati dalla colpevolezza»( 75 ).<br />
Una volta superati gli ostacoli costituzionali, una corretta applicazione<br />
del principio di sussidiarietà depone – in una prospettiva de iure condendo<br />
– a favore dell’introduzione di una responsabilità penale in senso stretto<br />
degli enti, rivelandosi gli strumenti sanzionatori alternativi a quello penale<br />
(controllo amministrativo e controllo civilistico) del tutto insufficienti di<br />
fronte all’aggressività e alla dannosità dei corporate crimes: solo la sanzione<br />
penale è in grado di offrire protezione ai beni giuridici offesi dai reati riconducibili<br />
alle persone giuridiche giacché solo il diritto penale è in grado di<br />
esprimere condanna morale per il comportamento tenuto, stigmatizzando<br />
il valore particolare e superiore posseduto da certi beni giuridici. Il criterio<br />
per stabilire l’entrata in gioco del diritto penale, infatti, è l’offesa al bene<br />
giuridico e non certo il tipo di autore( 76 ).<br />
4. I criteri di attribuzione della responsabilità: il criterio oggettivo:<br />
A) Le persone fisiche che fanno ‘‘scattare’’ la responsabilità dell’ente<br />
Affinché possa ‘‘scattare’’ la responsabilità dell’ente è necessario innanzitutto<br />
che il reato sia stato commesso da determinate persone fisiche.<br />
Il sistema si articola su due livelli. L’ente risponde se il reato è stato<br />
commesso da: a) soggetti posti al vertice della persona giuridica (i c.d. soggetti<br />
in posizione apicale), categoria che comprende coloro che rivestono<br />
( 74 ) C. De Maglie, L’etica e il mercato, op. cit., 291, 377 ss., la quale rileva inoltre che<br />
grazie a questo tipo di rimedi, demolitori e ricostruttivi, «la persona giuridica è indotta giocoforza<br />
ad individuare i punti deboli delle gestione da cui sono scaturiti gli illeciti ed a modificarli,<br />
adottando precauzioni che impediscono la commissione di nuovi reati: il risultato è<br />
un’opera di ristrutturazione, che assicura per il futuro l’adozione da parte dell’ente di una<br />
linea di politica organizzativa rispettosa dei precetti della legge penale. Non solo: la manipolazione<br />
dell’organizzazione interna trasforma la persona giuridica autrice di reati in un ‘‘cittadino<br />
modello’’, cambiandone completamente lo stile di vita: l’obiettivo della rieducazione<br />
viene così conseguito nella sua espressione più intensa e totale, improponibile quando il condannato<br />
è un individuo!».<br />
( 75 ) Così E. Dolcini, op. cit., 21.<br />
( 76 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 292 ss.; Id., Verso un codice penale europeo, op.<br />
cit., 64.<br />
49
50<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di<br />
una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale,<br />
nonché coloro che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dell’ente<br />
(art. 5, comma 1, lett. a); ß) persone sottoposte alla direzione o vigilanza<br />
dei vertici (art. 5, comma 1, lett. b).<br />
Si è giustamente precisato che la nozione di soggetti in posizione apicale<br />
deve essere intesa in senso relativo, giacché «èevidente che solo l’amministratore<br />
unico o il consiglio di amministrazione nel suo complesso possono<br />
dirsi davvero all’apice della struttura societaria, mentre qualsiasi diverso<br />
soggetto è sempre in qualche misura tenuto a rendere conto del<br />
proprio operato all’organo amministrativo»( 77 ). Nella categoria dei vertici<br />
sono stati comunque inclusi tutti soggetti che esprimono la volontà dell’ente<br />
e formano la sua politica di impresa, al fine di consentire – in forza<br />
della teoria organica – il rispetto nel principio di personalità della responsabilità<br />
penale (art. 27, comma 1, Cost.) nella sua accezione minima (divieto<br />
di responsabilità per fatto altrui)( 78 ). Nell’individuare i soggetti apicali<br />
il legislatore ha opportunamente seguito un criterio funzionale, di tipo<br />
pragmatico, incentrato non sulla qualifica formale ricoperta dalla persona<br />
fisica, ma sulla funzione svolta in concreto( 79 ), consentendo in tal modo<br />
di dare rilevanza all’operato dell’amministratore di fatto e, più in generale,<br />
di tutti coloro che – nell’ambito delle proprie mansioni – siano in grado di<br />
esercitare un vero e proprio dominio sull’ente o su una sua unità operativa(<br />
80 ).<br />
( 77 ) R. Rordorf, I criteri di attribuzione della responsabilità. I modelli organizzativi e<br />
gestionali idonei a prevenire i reati, inLe soc., 2001, 1299; G. Graziano, op. cit., 23.<br />
( 78 ) Cfr. G. De Simone, I profili sostanziali della responsabilità c.d. amministrativa degli<br />
enti, op. cit., 102 s.; contra v. F. Vignoli, Societas puniri postest: profili critici di un’autonoma<br />
responsabilità dell’ente collettivo, inDir. pen. proc., 2004, 908, secondo cui un’applicazione<br />
ortodossa della teoria organica – la quale comporta l’imputazione all’ente della condotta<br />
materiale e degli atteggiamenti psicologici del soggetto agente – dovrebbe condurre ad<br />
una responsabilità esclusiva della persona giuridica, con esclusione di ogni responsabilità della<br />
persona fisica, mentre il d. lgs. n. 231/2001 opta per la punizione di entrambi.<br />
( 79 ) Cfr. Relazione governativa al d. lgs. n. 231/2001, cit., 34: «L’utilizzazione di una<br />
formula elastica è stata preferita ad una elencazione tassativa di soggetti, difficilmente praticabile,<br />
vista l’eterogeneità degli enti e quindi delle situazioni di riferimento (quanto a dimensioni<br />
e a natura giuridica), e dota la disciplina di una connotazione oggettivo-funzionale»;<br />
S. Gennai-A. Traversi, op. cit., 40 s.; C. Pecorella, op. cit., 82; G. De Simone, op.<br />
ult. cit., 103.<br />
( 80 ) Si è così seguita una tendenza che era già presente nella legislazione – si pensi all’art<br />
134 del Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (d. lgs. n. 385/1993) e a<br />
diverse disposizioni del Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria<br />
(d. lgs. n. 58/1998) – ora ulteriormente rafforzata dal nuovo art. 2639 c.c. introdotto dal<br />
d. lgs. n. 61/2002. La scelta del legislatore di limitare la responsabilità dell’ente al comportamento<br />
di soggetti che, esercitando di fatto la gestione e il controllo, siano veri e propri dominus<br />
dell’impresa è bollata coma troppo prudente da F. Vignoli, op. cit., 906.
SAGGI E OPINIONI<br />
Con riferimento alla concreta individuazione dei soggetti in posizione<br />
apicale, occorre interrogarsi sugli effetti che su di essa può esercitare la recente<br />
riforma del diritto societario introdotta dal d. lgs. n. 6/2003. La riforma,<br />
accanto a quello già esistente, ha previsto due sistemi alternativi<br />
di amministrazione e di controllo della società di capitali: il sistema dualistico<br />
(artt. 2409-octies-2409-quinquedecies c.c.) ed il sistema monistico<br />
(artt. 2409-sexiesdecies-2409-noviesdecies c.c.). Nel sistema dualistico, la<br />
gestione dell’impresa spetta esclusivamente al consiglio di gestione( 81 ),<br />
mentre il consiglio di sorveglianza esercita le funzioni di controllo (assorbendo<br />
quelle tradizionalmente spettanti al collegio sindacale più alcuni poteri<br />
appartenenti all’assemblea): appare dunque evidente che all’interno del<br />
sistema dualistico, nonostante l’ispirazione al modello tedesco, il consiglio<br />
di sorveglianza è del tutto privo di potere gestorio, riservato ex lege al consiglio<br />
di gestione. Ciò ha come conseguenza che i membri del consiglio di<br />
sorveglianza non potranno mai rientrare nel novero dei soggetti in posizione<br />
apicale in grado di dar luogo alla responsabilità della società in caso<br />
di commissione di un reato( 82 ). Questa conclusione potrebbe però essere<br />
rovesciata laddove si condivida quell’opinione dottrinale che, in virtù del<br />
fatto che il consiglio di sorveglianza nomina i membri del consiglio di gestione,<br />
ritiene logico e naturale che esso possa dare ai soggetti che nomina<br />
le linee a cui attenersi, potendo quindi compiere atti di gestione e di indirizzo<br />
o approvare operazioni di particolare rilevanza( 83 ). L’orientamento<br />
prevalente, tuttavia, sostiene che nel silenzio della legge gli statuti non possano<br />
attribuire al consiglio di sorveglianza il potere di autorizzare operazioni<br />
gestorie o di dettare le linee di indirizzo della gestione( 84 ).<br />
Analogamente – in linea con quanto affermato dalla Relazione governativa<br />
al decreto legislativo( 85 ) – sono esclusi dal novero dei soggetti in posizione<br />
apicale i sindaci: essi non sono formalmente menzionati dall’art. 5,<br />
né possono considerarsi soggetti che esercitano, anche di fatto, la gestione<br />
e il controllo dell’ente dato che hanno solo funzioni di vigilanza, mentre<br />
l’endiadi «gestione e controllo» si riferisce a chi ha il dominio ed il pilotaggio<br />
dell’ente (si pensi al socio sovrano o al socio tiranno)( 86 ).<br />
( 81 ) Tale organo «compie le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale<br />
e nel suo seno può delegare le proprie attribuzioni ad uno o più dei suoi componenti» (art.<br />
2409-novies, comma 1, c.c.).<br />
( 82 ) Cfr. F. Santi, op. cit., 166 ss.<br />
( 83 ) Cfr. F. Santi, op. cit., 168.<br />
( 84 ) Cfr. F. Santi, op. e loc. ult. cit.<br />
( 85 ) Relazione governativa al d. lgs. n. 231/2001, cit., 34.<br />
( 86 ) Cfr. S. Gennai-A. Traversi, op. cit., 43; R. Rordorf, op. e loc. ult. cit.; F. Santi,<br />
op. cit., 189 ss. È stato altresì notato che un discorso differente deve essere fatto per i reati<br />
propri commessi dai sindaci – ovviamente afferenti alla classe dei reati societari – che in base<br />
alle disposizioni generali del d. lgs. n. 231/2001 dovrebbero essere ascritti all’ente, in quanto<br />
51
52<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
Riguardo alla categoria dei sottoposti alla direzione o alla vigilanza<br />
degli organi apicali, la loro inclusione nel novero dei soggetti che fanno<br />
‘‘scattare’’ la responsabilità dell’ente, in conformità con la soluzione adottata<br />
dalla prassi nell’avanzato sistema statunitense( 87 ), è quanto mai opportuna<br />
al fine di evitare scaricamenti verso il basso della responsabilità da<br />
«nel compimento di una specifica condotta giudicata nel contempo meritevole di pena dal<br />
legislatore e in contrasto con gli specifici doveri inerenti alla qualifica funzionale, il soggetto<br />
(in questo caso il sindaco) agisce come rappresentante dell’ente», ma che a ben guardare non<br />
possono essere attribuiti alla società in seguito all’intervento in deroga dell’art. 25-ter, che<br />
determina l’esclusione del nesso imputativo a carico dell’ente per il fatto del sindaco (in<br />
tal senso v. C.E. Paliero, La responsabilità delle persone giuridiche: profili generali e criteri<br />
di imputazione, in AA.VV., Il nuovo diritto penale delle società, Milano, 2002, 59).<br />
( 87 ) Negli Stati Uniti l’orientamento prevalente delle corti federali è di estendere al<br />
massimo la nozione di agent: la persona giuridica deve essere considerata penalmente responsabile<br />
per gli atti commessi da qualsiasi dipendente, anche di infimo grado, mentre sono<br />
irrilevanti lo status, le mansioni o il settore del soggetto agente; l’unico limite all’imputazione<br />
alla persona giuridica dei reati commessi dai suoi dipendenti è rappresentato dal fatto che<br />
essi devono agire nell’ambito delle proprie mansioni (scope of employment) e nell’interesse<br />
della persona giuridica (intent to benefit the corporation). Minoritaria è invece la soluzione<br />
restrittiva seguita dal Model Penal Code, che ritiene la persona giuridica responsabile solo<br />
per le violazioni commesse da un soggetto che svolge funzioni di dirigente (high managerial<br />
agent). In argomento cfr. E.M. Wise, Criminal liability of corporations – Usa, inH. De<br />
Doelber-K. Tiedemann (a cura di), La criminalisation du comportement collectif, op.<br />
cit., 390 s.; C. De Maglie, L’etica e il mercato, op. cit., 16 ss., e la copiosa giurisprudenza<br />
ivi citata; E. Gilioli, La responsabilità penale delle persone giuridiche negli Stati uniti: pene<br />
pecuniarie e modelli di organizzazione e di gestione (‘‘compliance programs’’), in AA.VV., Responsabilità<br />
degli enti per i reati commessi nel loro interesse, op. cit., 48, il quale sottolinea che<br />
la casistica americana segue un principio anche più ampio rispetto alla disciplina italiana, la<br />
quale stabilisce che la responsabilità dell’ente discende dagli atti di persone che rivestono<br />
funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione, o di coloro che sono sottoposti alla<br />
direzione o alla vigilanza dei primi. Più restrittiva, invece, la scelta fatta dal sistema francese,<br />
in cui l’art. 121-2 del codice penale prevede che la persona giuridica risponda quando il reato<br />
è stato commesso da parte di un proprio organo o rappresentante. La dottrina interpreta<br />
pacificamente tale previsione nel senso che la personne morale risponde per un reato commesso<br />
non da un soggetto qualunque (quale un semplice impiegato o dipendente), ma da<br />
un soggetto qualificato, che esprime e rappresenta la linea politica dell’organizzazione<br />
(cfr. R. Guerrini, La responsabilità penale delle persone giuridiche, inLe soc., 1993, 695;<br />
J. Pradel, Il nuovo codice penale francese. Alcune note sulla sua parte generale, inInd.<br />
pen., 1994, 15 s., spec. nota n. 25; B. Bouloc, La criminalisation du comportement collectif<br />
– France, inH. De Doelder-K. Tiedemann (a cura di), La criminalisation du comportement<br />
collectif, op. cit., 240; C. De Maglie, op. ult. cit., 204 s.), mentre in giurisprudenza<br />
si è affermata un’interpretazione molto ampia del concetto di organo o rappresentante, secondo<br />
cui è sufficiente che il rappresentante abbia la possibilità di cooperare nella commissione<br />
dell’illecito, tanto che si è giunti a qualificare rappresentate ai fini penalistici impiegati, soci di<br />
associazioni e membri di organizzazioni sindacali (per un quadro di tale casistica giurisprudenziale<br />
cfr. C. Ducouloux-Favard, Un primo tentativo di comparazione della responsabilità<br />
penale delle persone giuridiche francese con la cosiddetta responsabilità amministrativa delle<br />
persone giuridiche italiana, in AA.VV., Societas puniri potest. La responsabilità da reato degli<br />
enti collettivi, op. cit., 99 s.).
SAGGI E OPINIONI<br />
parte dell’ente( 88 ), visto che «considerata la complessità delle attuali strutture<br />
aziendali e la molteplicità degli incombenti, con conseguente inevitabile<br />
frammentazione di compiti e attribuzioni, sottrarre all’operatività del<br />
provvedimento legislativo la responsabilità connessa agli eventuali illeciti<br />
penali posti in essere dai suddetti soggetti avrebbe comportato un’area<br />
di ‘‘impunità’’ per l’ente»( 89 ).<br />
Non è condivisibile la tesi di chi circoscrive la categoria dei sottoposti<br />
ai lavoratori subordinati( 90 ): senza dubbio devono esservi ricompresi anche<br />
tutti i soggetti esterni alla societas, che eseguono un incarico sotto la direzione<br />
e il controllo dei soggetti apicali dell’ente, dato che situazioni di<br />
questo genere ben potrebbero essere strumento od occasione di illeciti:<br />
ciò che conta, infatti, non è l’essere inquadrati in uno stabile rapporto subordinato,<br />
bensì che l’ente risulti impegnato dal compimento di un’attività<br />
destinata ad esplicare i suoi effetti nella sua sfera giuridica( 91 ). In dottrina e<br />
nel mondo imprenditoriale permangono comunque incertezze interpretative<br />
in merito alla concreta individuazione dei rapporti rientranti nella categoria<br />
dei sottoposti( 92 ).<br />
( 88 ) Cfr. Relazione governativa al d. lgs. n. 231/2001, cit., 34: «una diversa opzione<br />
avrebbe significato ignorare la crescente complessità delle realtà economiche disciplinate e<br />
la conseguente frammentazione delle relative fondamenta operative»; G. De Simone, op.<br />
ult. cit., 105.<br />
( 89 ) S. Gennai-A. Traversi, op. cit., 44.<br />
( 90 ) Di questo avviso sono S. Gennai-A. Traversi, op. cit., 43s.<br />
( 91 ) Cfr. D. Pulitanó, La responsabilità «da reato» degli enti nell’ordinamento italiano,<br />
in AA.VV., Responsabilità degli enti per i reati commessi nel loro interesse, op. cit.,<br />
16. Di diversa opinione è chi reputa che l’unica soluzione de iure condito per chiamare a<br />
rispondere l’ente dei reati commessi dai dipendenti di fatto, se non si vuole incorrere in<br />
un’inammissibile analogia in malam partem, èimboccare la stretta via del concorso nel<br />
reato-presupposto, in cui l’autore materiale del reato è il soggetto avulso dalla struttura<br />
aziendale, mentre concorrente morale risulta il soggetto in posizione apicale (cfr. F. Vignoli,<br />
op. cit., 907).<br />
( 92 ) Cfr. R. Rordorf, op. e loc. ult. cit.: «‘‘Soggetto all’altrui direzione’’ può essere<br />
chiunque si trovi ad operare nell’ente in una posizione anche non formalmente inquadrabile<br />
in un rapporto di lavoro dipendente, purché sottoposto alla direzione o alla vigilanza<br />
altrui»; A. Frignani-P. Grosso-G. Rossi, I modelli di organizzazione previsti dal D.<br />
Lgs. n. 231/2001 sulla responsabilità degli enti, inLe soc., 2002, 153, che includono nella<br />
categoria collaboratori esterni che subiscono compressioni anche significative della propria<br />
autonomia, ricomprendendo rapporti inerenti alla distribuzione quali quelli degli<br />
agenti, dei concessionari alla vendita e dei franchisees; Id., La responsabilità ‘‘amministrativa’’<br />
degli enti ed i ‘‘modelli di organizzazione e gestione’’ di cui agli artt. 6 e 7 del d. lgs. n.<br />
231/2001, inRiv. del dir. comm. e del diritto generale delle obbligazioni, 2003, 186 s., i<br />
quali rilevano che se da un lato è evidente l’esigenza di evitare che l’ente sfugga alla responsabilità<br />
semplicemente delegando a collaboratori esterni la commissione di reati, dall’altro<br />
lato il principio di stretta interpretazione (divieto di analogia) impedisce di dilatare<br />
oltre misura l’ambito della responsabilità dell’ente. Le ‘‘Linee guida dell’Associazione<br />
Bancaria Italiana’’ (ABI) fanno riferimento, oltre che ai dipendenti, ai rapporti di lavoro<br />
53
54<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
Per quanto riguarda i reati societari, l’art. 25-ter, introdotto nel d. lgs.<br />
n. 231/2001 dal d. lgs. n. 61/2002 (il quale ha esteso il catalogo dei reati<br />
presupposto a gran parte dei reati societari), ha delimitato l’ambito dei soggetti<br />
in posizione apicale di cui all’art. 5, indicando espressamente e tassativamente<br />
gli amministratori, i direttori generali ed i liquidatori; ne consegue<br />
una restrizione indiretta della cerchia dei sottoposti a coloro che<br />
sono soggetti alla vigilanza di amministratori, direttori generali e liquidatori(<br />
93 ). In dottrina è stato evidenziato come tale previsione debba essere<br />
interpretata alla luce del nuovo art. 2639 c.c.( 94 ), che estende le qualifiche<br />
parasubordinato e addirittura a quelli di lavoro autonomo (v. ABI, Linee guida dell’ABI<br />
per l’adozione di modelli organizzativi sulla responsabilità amministrativa delle banche – d.<br />
lgs. 231/2001, 2002, in AA.VV., Societas puniri potest. La responsabilità da reato degli enti<br />
collettivi, op. cit., 386 ss., con commento di E. Busson, nonchéinwww.abi.it); il ‘‘Codice<br />
etico ai sensi del d. lgs. n. 231/2001’’, predisposto dall’Associazione italiana intermediari<br />
mobiliari (ASSOSIM) annovera in un’unica classe dipendenti e collaboratori; le ‘‘Linee<br />
guida per il settore assicurativo ex art. 6, comma 3, d. lgs. 8.6.2001, n. 231 (responsabilità<br />
amministrativa delle imprese di assicurazione)’’ predisposte dall’ANIA includono gli agenti<br />
di assicurazione e le società costituite per l’esternalizzazione di funzioni comprese nel<br />
ciclo produttivo dell’impresa assicuratrice; ed infine l’Associazione fra le società italiane<br />
per azioni (ASSONIME), nella circolare del 19 novembre 2002, n. 68, interpreta il termine<br />
sottoposti ricomprendendovi, oltre ai lavoratori subordinati, tutti quei prestatori di lavoro<br />
che abbiano con l’ente «un rapporto tale da far ritenere sussistente un obbligo di<br />
vigilanza da parte dei vertici dell’ente medesimo» quali, ad esempio, gli agenti, i partners<br />
in operazioni di joint-ventures, i c.d. parasubordinati in genere, i distributori, i fornitori, i<br />
consulenti e i collaboratori. La tesi estensiva sembra condivisa anche dalla nota ordinanza<br />
Siemens (che ha applicato alla società Siemens AG – sottoposta a procedimento per responsabilità<br />
amministrativa derivante dal reato di corruzione posto in essere da alcuni<br />
suoi alti dirigenti nei confronti di funzionari Enel al fine di aggiudicarsi alcuni appalti<br />
per la fornitura di turbine a gas – la misura interdittiva, sotto forma di misura cautelare,<br />
del divieto di contrattare con la pubblica amministrazione per un anno), laddove prende<br />
in considerazione i gravi indizi di illiceità della condotta di due dipendenti e di un consulente<br />
(ex dipendente) della Siemens, senza che l’estraneità all’organigramma aziendale<br />
di quest’ultimo sia valorizzata in alcun modo (cfr. Trib. Milano, Ufficio G.I.P., Ord.<br />
27 aprile 2004, in Guida al diritto, 2004, n. 19, 72 ss., con commento di A. Lanzi, L’obbligatorietà<br />
della legge italiana non si ferma davanti alle multinazionali, nonché in Dir.<br />
prat. soc., 2004, n. 10, 75 ss., con commento di U. Guerini, einLe soc., 2004, 1275<br />
ss., con commento di F. Pernazza, 1282 ss., il quale critica la tesi estensiva rilevando<br />
che «così opinando gli enti possono essere chiamati a rispondere della condotta criminosa<br />
di persone fisiche ad essi estranee e con le quali intrattengono rapporti della più diversa<br />
natura e, conseguentemente, sono di fatto tenuti a configurare i modelli organizzativi di<br />
prevenzione in modo tale da poter vigilare anche sull’attività di collaboratori esterni»;<br />
l’ordinanza può leggersi da ultimo in A. Fiorella-G. Lancellotti, op. cit., 287 ss.,<br />
con nota di F. Prete, Le misure cautelari nel processo contro gli enti, 304 ss.).<br />
( 93 ) Cfr. G. De Vero, I reati societari nella dinamica evolutiva della responsabilità ex<br />
crimine degli enti collettivi, inRiv. it. dir. proc. pen., 2003, 723.<br />
( 94 ) Sull’art. 2639 c.c. cfr. A. Alessandri, I soggetti, in AA.VV., Il nuovo diritto penale<br />
delle società, op. cit., 37 ss.; O. Di Giovine, L’estensione delle qualifiche soggettive (art.<br />
2639), in AA.VV., I nuovi reati societari: diritto e processo, a cura di A. Giarda-S. Seminara,
SAGGI E OPINIONI<br />
soggettive anche a coloro che esercitano di fatto (in modo continuativo e<br />
significativo) i poteri inerenti alla funzione: stante la natura di reati propri<br />
della quasi totalità dei reati societari, dunque, coloro che esercitano di fatto<br />
le funzioni di amministratore, direttore generale o liquidatore possono determinare<br />
la responsabilità della società qualora commettano uno dei reati<br />
di cui all’art. 25-ter( 95 ).<br />
Con la disposizione di cui all’art. 8, comma 1, lett. a), secondo la quale<br />
l’ente risponde anche se l’autore del reato non è stato identificato o non è<br />
imputabile, il legislatore ha opportunamente introdotto il principio di autonomia<br />
della responsabilità dell’ente, svincolando la responsabilità delle persone<br />
giuridiche dalla necessità di accertare la responsabilità penale in capo<br />
a determinate persone fisiche, operazione spesso impossibile nelle moderne<br />
organizzazioni caratterizzate, come precisato in precedenza, dalla decentralizzazione:<br />
in particolare, nell’ambito dei c.d. rischi tecnologici, «subordinare<br />
la responsabilità dell’organizzazione alla verifica della commissione,<br />
da parte dei singoli, diunreato completo di tutti i suoi elementi oggettivi<br />
e soggettivi è un criterio che, fondato su premesse empiriche inconsistenti<br />
(...), impegnerebbe l’accusa in una irragionevole ricerca di ciò che nella<br />
maggior parte dei casi non esiste o non può essere trovato: la responsabilità<br />
penale individuale»( 96 ).<br />
Padova, 2002, 5 ss.; P. Veneziani, Art. 2639 c.c., in AA.VV., I nuovi reati societari (Commentario<br />
al decreto legislativo 11 aprile 2002, n. 61), a cura di A. Lanzi-A. Cadoppi, Padova,<br />
2002, 189 ss.; F. Giunta, Reati societari e qualifiche soggettive: questioni normative ed interpretative,<br />
inDir. prat. soc., 2004, n. 19, 31 ss.<br />
( 95 ) Cfr. R. Guerrini, Art. 3. Responsabilità amministrativa delle società, in AA.VV., I<br />
nuovi illeciti penali ed amministrativi riguardanti le società commerciali, a cura di F. Giunta,<br />
Torino, 2002, 253 ss.; C.E. Paliero, op. ult. cit., 58 s.; M. Formica, La responsabilità amministrativa<br />
degli enti ed i reati societari, inLa riforma dei reati societari, Atti del seminario,<br />
Macerata, 21 marzo 2003, a cura di C. Piergallini, Milano, 2004, 217 s. In proposito, vi è chi<br />
ritiene che in assenza dell’art. 2639 c.c. non sarebbe stato possibile estendere la responsabilità<br />
dell’ente ai reati commessi dai soggetti che esercitano di fatto le funzioni poiché «altrimenti<br />
l’ambito dei soggetti attivi rilevante ai fini della responsabilità dell’ente sarebbe risultato<br />
più ampio di quello che circoscrive la responsabilità penale individuale» (G. De Vero,<br />
op. ult. cit., 724 ss.). Contra v. C. Piergallini, La responsabilità amministrativa delle persone<br />
giuridiche, in AA.VV., I nuovi reati societari: diritto e processo, op. cit., 83 s., secondo cui<br />
anche se si reputasse che l’art. 25-ter descrive un microsistema autonomo di responsabilità<br />
da reato dell’ente collettivo, sarebbe legittima un’interpretazione estensiva della disposizione,<br />
che ne apra l’applicazione agli ‘‘autori di fatto’’.<br />
( 96 ) F. Centonze, La normalità dei disastri tecnologici. Il problema del congedo dal<br />
diritto penale, Milano, 2004, 437, il quale ricorda che i disastri tecnologici sono il frutto<br />
della combinazione di diverse condotte e di inconvenienti del sistema, che interagiscono<br />
in modo imprevedibile ed inevitabile cagionando il disastro, onde quasi mai è presente<br />
un reato realizzato da un individuo, specialmente quando concorrono tra loro diverse organizzazioni<br />
(come nei disastri di Linate, della ValuJet e dello Shuttle Challenger Columbia).<br />
L’autore, con riferimento al campo dei disastri tecnologici, propone un modello di<br />
responsabilità dell’ente articolato su tre livelli (421 ss.): 1) un primo livello implica la fissa-<br />
55
56<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
B) Il criterio dell’interesse o vantaggio: un ostacolo alla funzionalità della responsabilità<br />
degli enti?<br />
L’altro criterio di attribuzione della responsabilità da reato dell’ente<br />
operante sul piano oggettivo è costituito dal fatto che la persona fisica<br />
che ha commesso il reato deve avere agito nell’interesse o a vantaggio dell’ente<br />
(art. 5, comma 1).<br />
Il soggetto che commette il reato nell’interesse o a vantaggio della<br />
persona giuridica si identifica con l’ente: si è dunque scelto di aderire<br />
alla teoria organica, consentendo in tal modo il rispetto del principio<br />
di personalità della responsabilità penale nella sua accezione minima<br />
di divieto di responsabilità per fatto altrui( 97 ), se è veroche«Laprova<br />
dell’esistenza di un collegamento rilevante tra individuo e persona<br />
giuridica consente (...) di identificare l’organizzazione come assolutamente<br />
protagonista di tutte le vicende che caratterizzano la vita sociale<br />
ed economica dell’impresa e quindi anche come fonte di rischio di<br />
reato»( 98 ).<br />
Secondo la Relazione governativa al decreto legislativo – la cui impostazione<br />
è condivisa da parte della dottrina e dalla giurisprudenza – il richiamo<br />
all’interesse caratterizza la condotta criminosa della persona fisica<br />
in senso marcatamente soggettivo, rendendo necessario un accertamento<br />
ex ante condotto dal giudice col metodo della prognosi postuma, mentre<br />
il vantaggio (che può essere ricavato dall’ente anche se la persona fisica<br />
zione da parte di un’apposita autorità indipendente o agenzia di una regolamentazione dei<br />
parametri di sicurezza che le imprese devono seguire, evitando di lasciare – come avviene<br />
oggi – ogni valutazione sui rischi tecnologici nelle mani dell’organizzazione: questo apparato<br />
normativo sarebbe presidiato da sanzioni amministrative irrogate dalla stessa autorità<br />
nei confronti delle imprese che pongono in essere violazioni minime degli standard precauzionali,<br />
inottemperanze alle ingiunzioni, mancata previsione di un sistema informativo, trasgressione<br />
del dovere di reporting (tutte avvisaglie di una cultura deviante); 2) un secondo<br />
livello prevede il ricorso al diritto penale nei confronti della persona giuridica per violazione<br />
di norme poste immediatamente a tutela della sicurezza e del controllo del rischio tecnologico;<br />
3) un terzo livello comporta sempre l’applicazione della sanzione penale quando<br />
dalla violazione delle predette norme scaturisca la verificazione di un disastro o di eventi<br />
lesivi dell’incolumità individuale.<br />
( 97 ) Considerato che l’ente risponde anche nell’ipotesi in cui non sia stata identificata<br />
la persona fisica che ha commesso il reato (art. 8), qualcuno si è giustamente chiesto che fine<br />
faccia in tal caso il criterio di attribuzione oggettivo, visto che non è possibile accertare né il<br />
ruolo rivestito dalla persona fisica all’interno dell’ente, né se il soggetto agente ha realizzato il<br />
fatto nell’interesse esclusivo suo o di terzi, nell’interesse della persona giuridica o prevalentemente<br />
nel proprio interesse (cfr. P. Patrono, op. ult. cit., 189 s.). Si tratta di un’evidente<br />
lacuna della disciplina.<br />
( 98 ) C. De Maglie, La disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche<br />
e delle associazioni. Principi generali e criteri di attribuzione della responsabilità,inDir.<br />
pen. proc., 2001, 1350.
SAGGI E OPINIONI<br />
non ha operato nel suo interesse) assume una connotazione oggettiva, che<br />
richiede sempre una verifica ex post( 99 ).<br />
Di diverso avviso è chi – forzando il dato letterale – ritiene preferibile<br />
interpretare i due termini come un’endiadi che esprime un criterio unitario,<br />
riducibile ad un interesse dell’ente inteso in senso obiettivo: non necessariamente<br />
un interesse in concreto soddisfatto, ma un interesse (o un possibile<br />
vantaggio) dell’ente riconoscibilmente connesso alla condotta dell’autore<br />
del reato, visto che non sarebbe ragionevole affidare il collegamento<br />
del reato con l’ente alle soggettive intenzioni o rappresentazioni dell’agente(<br />
100 ).<br />
In realtà, se è condivisibile agganciare l’interesse dell’ente a dei dati<br />
obiettivi, è altresì vero che tale interesse deve pur sempre «rispondere ad<br />
una tensione al risultato o all’utilità anticipata ideologicamente dal suo<br />
( 99 ) Cfr. Relazione governativa al d. lgs. n. 231/2001, cit., 34; S. Gennai-A. Traversi,<br />
op. cit., 38; G. De Simone, op. ult. cit., 101. In giurisprudenza cfr. Trib. Milano, Sezione XI<br />
riesame, Ord. 20 dicembre 2004, in Dir. prat. soc., 2005, n. 6, 74, con commento di L.D.<br />
Cerqua (76 ss.), nonché inwww.reatisocietari.it, ove dopo aver richiamato la disposizione<br />
di cui all’art. 12, comma 1, lett. a), si afferma che, in virtù del criterio ermeneutico dell’interpretazione<br />
utile, «deve ritenersi che i sintagmi ‘‘interesse’’ e ‘‘vantaggio’’ non siano usati<br />
come sinonimi e che il secondo termine faccia riferimento alla concreta acquisizione di un’utilità<br />
economica, mentre l’‘‘interesse’’ implica solo la finalizzazione del reato a quella utilità,<br />
senza peraltro richiedere che questa venga effettivamente conseguita: se l’utilità economica<br />
non si consegue o si consegue solo in minima parte, sussisterà un’attenuante e la sanzione nei<br />
confronti dell’ente potrà essere ridotta».<br />
( 100 ) Così D. Pulitanó, La responsabilità ‘‘da reato’’ degli enti: i criteri di imputazione,<br />
op. cit., 425. Condividono questa tesi M. Guernelli, La responsabilità delle persone giuridiche<br />
nel diritto penale-amministrativo, Parte I, in Studium Juris, 2002, 290 s., secondo cui<br />
«soccorrono al riguardo (...) la ratio legis, che sarebbe frustrata qualora si consentisse all’ente<br />
di trarre vantaggio da una erronea autorappresentazione dei mezzi e dei fini da parte della<br />
persona fisica; sia la generale irrilevanza nel nostro sistema penale del movente del reo; sia la<br />
considerazione che la delega, già prevedente il requisito, si riferiva espressamente anche alla<br />
copertura di possibili reati colposi, in cui l’atteggiamento soggettivo dell’individuo può, sia<br />
pure astrattamente, rivelarsi estraneo alla considerazione del predetto interesse o vantaggio»,<br />
nonché il fatto che l’ente è responsabile o subisce conseguenze in senso lato sanzionatorie<br />
anche quando può risultare impossibile verificare se l’autore del reato era motivato dall’intento<br />
di perseguite l’interesse o vantaggio ‘‘collettivo’’ (art. 8, comma 1) o quando il reo consapevolmente<br />
ne trasgredisce le norme interne (art. 6, comma 5); A. Manna, La c.d. responsabilità<br />
amministrativa delle persone giuridiche: il punto di vista del penalista, op. cit., 1114.<br />
Contra v. A. Astrologo, ‘‘Interesse’’ e ‘‘vantaggio’’ quali criteri di attribuzione della responsabilità<br />
dell’ente,inInd. pen., 2003, 656 ss., la quale ritiene che considerare l’espressione «interesse<br />
o vantaggio» come una mera tautologia contrasta con il principio ermeneutico di conservazione<br />
delle norme, oltre che con un’interpretazione sistematica della disciplina, dato che<br />
l’art. 12, che prevede uno dei casi di pagamento della sanzione pecuniaria in misura ridotta,<br />
configura una fattispecie in cui sussistono contestualmente entrambi i presupposti: il prevalente<br />
interesse dell’autore materiale dell’illecito o di un terzo e il vantaggio minimo che l’ente<br />
ha tratto dal reato (l’autore intende l’interesse nel senso di politica d’impresa e il vantaggio<br />
come profitto, arricchimento economico o beneficio); F. Vignoli, op. cit., 909.<br />
57
58<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
autore nel momento in cui ha posto in essere il comportamento criminoso»(<br />
101 ).<br />
L’interesse deve essere concreto ed attuale( 102 ), e non deve avere necessariamente<br />
contenuto economico (anche se ciò accadrà nella normalità<br />
dei casi)( 103 ).<br />
Qualora la persona fisica abbia agito nell’esclusivo interesse proprio o<br />
di terzi l’ente non risponde (art. 5, comma 2): si tratta di una causa oggettiva<br />
di esclusione della responsabilità dell’ente, fondata sulla rottura dell’immedesimazione<br />
organica che si determina in questo caso( 104 ). Ne deriva<br />
che il riferimento al vantaggio risulta del tutto privo di utilità, dovendo<br />
il reato essere commesso sempre quantomeno nell’interesse parziale dell’ente(<br />
105 ): «appare infatti difficile immaginare un reato che non sia stato<br />
commesso, neppure in parte, nell’interesse dell’ente, ma neanche nell’interesse<br />
esclusivo dell’agente o di terzi, e che risulti quindi attribuibile all’ente<br />
solo in quanto ad una verifica successiva risulti essere stato commesso a suo<br />
vantaggio»( 106 ). Questa osservazione ci porta a ritenere privo di ogni rile-<br />
( 101 ) F. Santi, op. cit., 236.<br />
( 102 ) F. Santi, op. e loc. ult. cit.<br />
( 103 ) Cfr. D. Pulitanó, op. ult. cit., 426.<br />
( 104 ) Èinteressante notare come la giurisprudenza ha ritenuto, nell’ambito del fenomeno<br />
del gruppo di società, che il reato di corruzione di un alto funzionario di Poste Italiane<br />
s.p.a. al fine di ottenere il rinnovo per un triennio dell’appalto per i servizi di scorta valori<br />
presso gli uffici postali di numerose province, posto in essere dal (rispettivamente) presidente<br />
del consiglio di amministrazione e amministratore unico di due holding operative (Ivri<br />
Holding e Cogefi) in qualità di amministratore di fatto di due società controllate (VCM e<br />
Ivri Torino), debba essere considerato commesso nell’interesse delle medesime società controllanti<br />
all’interno di una logica infra-gruppo: in questi termini v. Trib. Milano, Ufficio<br />
G.I.P., Ord. 9 novembre 2004, in www.reatisocietari.it. Nello stesso senso, per un caso analogo,<br />
cfr. Trib. Milano, Sezione XI riesame, Ord. 20 dicembre 2004, cit., 69 ss.<br />
( 105 ) Al riguardo vi è chi ritiene che il reato commesso nell’interesse dell’autore (o di<br />
un terzo) e solo in misura ridottissima nell’interesse dell’ente non è idoneo a fungere da ragionevole<br />
criterio di collegamento tra la persona fisica che agisce per l’ente e l’ente stesso,<br />
non essendo in grado un simile criterio di rispettare il principio di personalità della responsabilità<br />
penale con riferimento all’ente (in tal senso v. A. Fiorella, Principi generali, op. cit.,<br />
11 s.).<br />
( 106 ) C. Pecorella, op. cit., 83, nota n. 54; contra v. D. Pulitanó, voce Responsabilità<br />
amministrativa per i reati delle persone giuridiche, op. cit., 958, il quale rileva che tale<br />
disposizione va interpretata in coerenza con il criterio di cui al comma 1 e con l’ipotesi di<br />
riduzione della sanzione pecuniaria di cui all’art. 12, comma 1, lett. a), onde se l’ente ha ottenuto<br />
un qualche vantaggio, il fatto non potrà essere considerato nell’esclusivo interesse di<br />
altri. Critico nei confronti della scelta del legislatore è C.E. Paliero, op. ult. cit., 52, che<br />
riguardo ai casi di reati commessi nell’interesse esclusivo dell’autore o di terzi ma che comportano<br />
un vantaggio obiettivo per l’ente parla di «ipotesi tutt’altro che marginali, rispetto<br />
alle quali era preferibile configurare comunque la responsabilità dell’ente, al più ricorrendo,<br />
sul versante sanzionatorio, alla irrogazione di una pena pecuniaria attenuata e/o alla sola confisca<br />
del profitto del reato».
SAGGI E OPINIONI<br />
vanza pratica il fatto che l’art. 25-ter, con riferimento ai reati societari, contempli<br />
solo il criterio di collegamento dell’interesse, omettendo completamente<br />
il vantaggio( 107 ).<br />
Occorre ora chiedersi se almeno in certi casi l’ancoraggio della responsabilità<br />
dell’ente al requisito dell’interesse o vantaggio non vada a scapito<br />
della funzionalità della responsabilità da reato degli enti, frustrando le esigenze<br />
di politica criminale alla base dell’introduzione dell’istituto.<br />
Si pensi, in primo luogo, alle fattispecie di infedeltà patrimoniale (art.<br />
2634 c.c.) e di corruzione in seguito a dazione o promessa di utilità (art.<br />
2635 c.c.), escluse dal novero dei reati societari che fanno ‘‘scattare’’ la responsabilità<br />
della persona giuridica in quanto ontologicamente orientate in<br />
danno della società( 108 ): se la funzione della responsabilità degli enti è innanzitutto<br />
una funzione di prevenzione del rischio-reato, non si capisce<br />
perché esonerare l’ente dalla responsabilità per reati, quali quelli di infedeltà,<br />
che sono spesso all’origine di ulteriori comportamenti criminosi, lesivi<br />
di una pluralità di soggetti (creditori sociali, dipendenti, stakeholders in<br />
generale)( 109 ), come insegnano i clamorosi casi Enron, Arthur Andersen,<br />
WorldCom, Parmalat e Cirio( 110 ).<br />
( 107 ) Sul punto cfr. R. Guerrini, op. ult. cit., 257; C.E. Paliero, op. ult. cit., 59s.S.<br />
Putinati, La responsabilità amministrativa degli enti per i reati societari, inDir. prat. soc.,<br />
2002, n. 2, 84; G. De Vero, op. ult. cit., 727 s.; M. Formica, op. cit., 219 s.<br />
( 108 ) Il legislatore è però incorso in una svista poiché ha ricompreso nel catalogo dei<br />
reati le fattispecie di illecite operazioni sulle azioni o quote sociali o della società controllante<br />
(art. 2628 c.c.) e di formazione fittizia del capitale (art. 2632 c.c.), entrambe contrassegnate<br />
dalla produzione di un danno per la società sub specie di lesione dell’integrità del capitale<br />
sociale e/o delle riserve non distribuibili per legge (cfr. F. Santi, op. cit., 240 s.).<br />
( 109 ) Cfr. L. Foffani, Le infedeltà, in AA.VV., Il nuovo diritto penale delle società, op.<br />
cit., 371 ss.; Id., Responsabilità delle persone giuridiche e riforma dei reati societari, in<br />
AA.VV., Societas puniri potest. La responsabilità da reato degli enti collettivi, op. cit., 256<br />
ss., il quale soggiunge che esiste un interesse generale alla prevenzione non solo dei reati societari<br />
commessi nell’interesse della società, ma anche di quelli realizzati in danno della società,<br />
in quanto l’intreccio di interessi interdipendenti che caratterizza la società commerciale<br />
ingenera un interesse di mercato alla sua fedele e corretta amministrazione. In argomento cfr.<br />
G. Marinucci-M. Romano, Tecniche normative nella repressione penale degli abusi degli<br />
amministratori di società per azioni, in AA.VV., Il diritto penale delle società commerciali, a<br />
cura di P. Nuvolone, Milano, 1971, 96: «il passaggio dell’impresa personale ad una organizzazione<br />
societaria sovrapersonale – di dimensioni economiche e strutturali sempre più vaste<br />
– determina l’individuazione di una serie di ‘‘categorie’’ di soggetti (istituti di credito, risparmiatori,<br />
azionisti, lavoratori, terzi, contraenti), i cui interessi sono ad un tempo colossali e a<br />
tal punto interdipendenti, che la lesione di alcuni di essi si trasferisce immediatamente sugli<br />
altri, in una sorta di reazione a catena».<br />
( 110 ) Per un’attenta disamina delle vicende Enron e Parmalat, che offre un raffronto<br />
fra i due fenomeni e solleva inquietanti interrogativi sul fallimento dei meccanismi di regolazione<br />
e controllo dei mercati, dell’etica e della morale, cfr. G. Sapelli, Giochi proibiti. Enron<br />
e Parmalat capitalismi a confronto, Milano, 2004. Sul caso della Arthur Andersen, la società<br />
di revisione e consulenza contabile condannata negli Stati Uniti per il reato di ostruzio-<br />
59
60<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
Vi è chi come Stella rileva il grave ‘‘buco’’ della disciplina, ma ritiene<br />
impraticabile sanzionare con pesanti pene pecuniarie società già ‘‘spogliate’’<br />
dai propri amministratori e managers( 111 ). La soluzione potrebbe<br />
essere quella di escludere la sanzione pecuniaria per queste ipotesi, sottoponendo<br />
l’ente solo a sanzioni che incidano sull’attività e sull’organizzazione.<br />
Inoltre, effetti negativi per l’ente sono a volte determinati anche<br />
da reati commessi ex ante nel suo interesse: si pensi ad un falso in bilancio<br />
realizzato per costituire fondi neri destinati al pagamento di tangenti nell’interesse<br />
della società, il quale, ad una valutazione ex post, potrebbe avere<br />
concretamente prodotto conseguenze disastrose per la società, come dimostra<br />
l’esperienza di Tangentopoli( 112 ).<br />
Non si può quindi che concordare quando si osserva che «il criterio<br />
dell’interesse (...) se appare come un meccanismo di imputazione oggettiva<br />
congruo e accettabile con riferimento al ristretto nucleo di fattispecie incriminatrici<br />
originariamente individuate dal d. lgs. 231/2001 (...), rivela tuttavia<br />
i suoi limiti se riferito a fatti di reato commessi da soggetti in posizione<br />
apicale e strettamente e strutturalmente inerenti – come nel caso<br />
delle figure di infedeltà – al cuore dell’esercizio delle funzioni di gestione<br />
sociale»( 113 ).<br />
In secondo luogo si pensi ai reati colposi, attualmente non inclusi nel<br />
catalogo dei reati ascrivibili agli enti ma che in futuro non potranno non<br />
esservi inseriti, rispetto ai quali il criterio dell’interesse – che nella prospettiva<br />
della persona fisica autore del reato assume necessariamente un connotato<br />
soggettivo – impedirebbe qualunque collegamento con l’ente( 114 ).<br />
Insomma, se è vero che in molti ordinamenti che accolgono la responsabilità<br />
penale delle persone giuridiche si ricorre al criterio di collegamento<br />
dell’interesse (si pensi all’intent to benefit del sistema statunitense( 115 )) – in<br />
ne alla giustizia in relazione alla bancarotta della Enron, cfr. M. Arena, Il caso Enron e l’incriminazione<br />
dell’Arthur Andersen, 18 marzo 2002, in www.reatisocietari.it; Id., La condanna<br />
dell’Arthur Andersen, 14 settembre 2002, ivi.<br />
( 111 ) F. Stella, Il mercato senza etica, Prefazione a C. De Maglie, op. cit., XIV.<br />
( 112 ) Cfr. L. Foffani, op. cit., 259 s.<br />
( 113 ) L. Foffani, op. cit., 265 s.<br />
( 114 ) Sul punto cfr. M. Pelissero, La responsabilizzazione degli enti. Alla ricerca di un<br />
difficile equilibrio tra modelli ‘‘punitivi’’ e prospettive di efficienza, in AA.VV., L’ultima sfida<br />
della politica criminale, op. cit., 366, il quale osserva che se si interpreta in senso finalistico il<br />
requisito dell’interesse, la futura estensione del catalogo dei reati alle fattispecie colpose comporterà<br />
la necessità di modificare il criterio di imputazione oggettiva, per esempio sostituendo<br />
il riferimento ai reati commessi «nel suo interesse o a suo vantaggio» con un più generico<br />
«per suo conto»; S. Vinciguerra, La struttura dell’illecito, op. cit., 23.<br />
( 115 ) Il requisito dell’intent to benefit è interpretato in maniera estensiva dalla giurisprudenza<br />
statunitense, secondo cui non è necessario che l’agent commetta il reato con lo<br />
scopo esclusivo e totale di recare un beneficio all’impresa, ma è sufficiente anche un motivo<br />
misto, cioè che abbia di mira almeno in parte l’interesse dell’ente; le corti federali, inoltre,
SAGGI E OPINIONI<br />
quanto rappresenta «quel nesso in assenza del quale il reato si configurerebbe<br />
come fatto ‘‘altrui’’ rispetto alla societas, allo stesso modo che risulta<br />
irrimediabilmente estraneo alla persona fisica il fatto che non abbia con<br />
essa alcun collegamento già sul piano della causalità materiale»( 116 )–èaltresì<br />
innegabile che non mancano esempi di segno opposto (è il caso dell’Olanda(<br />
117 )): la soluzione più equilibrata potrebbe essere quella mediana,<br />
nel senso di prevedere il criterio dell’interesse o vantaggio come requisito<br />
generale e di escluderlo nelle ipotesi in cui esso si riveli disfunzionale ed<br />
incompatibile rispetto alle esigenze di politica criminale, essendo più che<br />
sufficiente il criterio di ascrizione soggettiva di cui agli artt. 6 e 7 (responsabilità<br />
per la politica di impresa o per colpa organizzativa) a garantire l’osservanza<br />
del principio di responsabilità per fatto proprio, oltre che del<br />
non richiedono la prova che di fatto la persona giuridica abbia ottenuto un vantaggio concreto<br />
dal comportamento dell’agente, mentre nell’ipotesi in cui la persona fisica abbia agito<br />
nello scope of employment ma con l’obiettivo di danneggiare l’ente ed avvantaggiare terzi<br />
escludono la responsabilità penale delle imprese (cfr. C. De Maglie, L’etica e il mercato,<br />
op. cit., 21 s.; E. Gilioli, op. cit., 49). In Francia, riguardo ai comportamenti rientranti nella<br />
locuzione reati commessi dagli organi o rappresentanti per conto della personne morale, si<br />
fronteggiano tre teorie (cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 208 s.): 1) quella minima, secondo<br />
cui l’organo o il rappresentante deve aver commesso il reato allo scopo di arrecare un vantaggio<br />
(materiale o morale, attuale o eventuale) all’ente, rimanendo esclusi i fatti posti in essere<br />
nell’esclusivo interesse dell’agente o di un’altra persona (cfr. R. Guerrini, La responsabilità<br />
penale delle persone giuridiche, op. cit., 695; B. Bouloc, op. cit., 240; G. De Simone,<br />
Il nuovo codice francese e la responsabilità penale delle personnes morales, in Riv. it. dir.<br />
proc. pen., 1995, 226); 2) quella estensiva, in base alla quale atto commesso pour compte della<br />
persona giuridica significa realizzato nell’esercizio dell’attività dell’ente; 3) quella intermedia,<br />
che distingue caso per caso, ricorrendo a un criterio misto, oggettivo (il profitto ottenuto o<br />
preso di mira) e soggettivo (la faute della persona fisica), nell’ipotesi di infraction intentionelle<br />
contro il patrimonio, al criterio dell’intention criminelle dell’agente per i reati intenzionali<br />
contro la persona, ed al criterio oggettivo del profitto per i reati non intenzionali.<br />
( 116 ) G. De Vero, Struttura e natura giuridica, op. cit., 1131.<br />
( 117 ) Nell’ordinamento olandese – in cui la responsabilità penale delle persone giuridiche<br />
è stato introdotta a livello settoriale, nel campo del diritto penale economico, già dal<br />
1951, e a livello generale nel 1976 dal paragrafo 51 del codice penale olandese – è sufficiente<br />
che l’atto del singolo sia commesso nel contesto sociale della persona giuridica (per esempio,<br />
se compro un oggetto ai grandi magazzini Harrods, io compro da Harrods e non dal commesso<br />
che materialmente mi consegna l’oggetto, ma se acquisto cocaina dal commesso agli<br />
stessi grandi magazzini, in realtà non compro da Harrods ma dal commesso): cfr. H. De<br />
Doelder, Criminal liability of corporations – Netherlands, inH. De Doelder-K. Tiedemann<br />
(a cura di), La criminalisation du comportement collectif, op. cit., 299 s.; C. De Maglie,<br />
op. ult. cit., 182. In generale sul sistema olandese di responsabilità penale degli enti v.<br />
R. Screvens, Les sanctions applicables aux personnes morales, in AA.VV., La responsabilità<br />
penale delle persone giuridiche in diritto comunitario - Atti della Conferenza di Messina, op.<br />
cit., 177 ss.; J.A.E. Vervaele, La responsabilité pénale de et au sein de la personne morale<br />
aux Pais-Bas. Marriage entre pragmatisme et dogmativisme jurudique, in Rev. sc. crim.,<br />
1997, 325 ss.; Id., La responsabilità penale della persona giuridica nei Paesi Bassi. Storia e sviluppi<br />
recenti, in AA.VV., Verso un codice penale modello per l’Europa, op. cit., 3 ss., nonché in<br />
AA.VV., Societas puniri potest. La responsabilità da reato degli enti collettivi, op. cit., 135 ss.<br />
61
62<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
principio di colpevolezza, nei confronti dell’ente. In definitiva, se si intende<br />
costruire una forma responsabilità punitiva della persona giuridica veramente<br />
autonoma, occorre liberarsi di ogni residuo di antropocentrismo<br />
anche con riferimento al profilo oggettivo dell’illecito( 118 ), seguendo l’esempio<br />
del legislatore inglese che nel 1996 ha progettato – anche se non<br />
ancora introdotto( 119 ) – la fattispecie di corporate killing, ovvero di omicidio<br />
colposo di impresa, nella quale l’ente è ritenuto responsabile per il<br />
solo fatto che la morte è la conseguenza (anche indiretta) di un proprio difetto<br />
di organizzazione (management failure)( 120 ).<br />
5. (Segue:) I criteri di attribuzione soggettiva: alla ricerca della colpevolezza<br />
dell’ente:<br />
A) Reati commessi dai vertici e reati commessi dai sottoposti: aspetti problematici<br />
Il fulcro della disciplina di cui al d. lgs. n. 231/2001 è costituito dai<br />
criteri di attribuzione soggettiva della responsabilità.<br />
Il legislatore italiano, infatti, ha opportunamente deciso di introdurre<br />
una colpevolezza autonoma dell’ente, seguendo il modello avanzato di ordinamenti<br />
come quello statunitense e non accontentandosi di una semplice<br />
responsabilità par ricochet come nel sistema francese, dove la responsabilità<br />
dell’ente è il semplice riflesso della responsabilità della persona fisica che<br />
ha agito per suo conto( 121 ).<br />
( 118 ) In tal senso cfr. F. Vignoli, op. cit., 911.<br />
( 119 ) È singolare che una riforma progettata per costringere le imprese ad adottare misure<br />
organizzative volte a prevenire incidenti sul lavoro e in generale danni alla sicurezza<br />
pubblica non sia stata ancora portata a compimento da un governo laburista come quello<br />
attualmente in carica, nonostante le ripetute assunzioni di impegno in tal senso (cfr., da ultimo,<br />
J. Eaglesham, Blear to break corporate killing pledge, inFinancial Times, 23 ottobre<br />
2004).<br />
( 120 ) Sulla fattispecie di corporate killing – contenuta nel Law Commission Report n.<br />
237 del 1996 e congegnata per frenare la devastante aggressività delle corporations nel campo<br />
della public safety, manifestatasi in episodi come il naufragio di Zeebrugge, l’incendio della<br />
metropolitana a King’s Cross e il deragliamento di Clapman Junction – cfr. C. De Maglie,<br />
op. ult. cit., 159 ss.; C. Wells, Corporate criminal liability in England and Wales, in AA.VV.,<br />
Societas puniri potest. La responsabilità da reato degli enti collettivi, op. cit., 125 ss.<br />
( 121 ) L’art. 121-2 del codice penale francese prevede che le personnes morales sono penalmente<br />
responsabili dei reati commessi per loro conto (pour compte) dai loro organi o rappresentanti.<br />
Si è scelto dunque di costruire un criterio di imputazione fondato esclusivamente<br />
sul rapporto di causalità tra la realizzazione materiale del reato e l’attività svolta dall’ente,<br />
prescindendo del tutto dalla dimostrazione di una colpevolezza (faute) della persona giuridica:<br />
si tratta di un modello di responsabilità dell’ente la cui manovrabilità rischia di essere<br />
notevolmente limitata dalla necessità di accertare la responsabilità del singolo individuo
SAGGI E OPINIONI<br />
La colpevolezza dell’ente si articola in un duplice criterio di imputazione(<br />
122 ). Per i reati commessi dai c.d. soggetti apicali l’ente (art. 6), in<br />
virtù della teoria organica, risponde per la politica di impresa, eccetto<br />
che nel caso in cui esso riesca a provare (inversione dell’onere della prova):<br />
1) l’adozione e l’efficace attuazione di modelli organizzativi (ritagliati sui<br />
compliance programs statunitensi) volti alla prevenzione dei reati; 2) l’ado-<br />
(in argomento cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 206 s., 226), che infatti ha subito le critiche<br />
della migliore dottrina, la quale sostiene la necessità di aggirare la regola, richiedendo un’autonoma<br />
colpevolezza dell’ente: «La responsabilité pénale des entitès personnifiées est une<br />
responsabilité personnelle (art. 121-1) et pas un simple refles des malversations des personnes<br />
qui agissent en leur sein. Il faut en effet se garder (...) de faire de la responsabilité pénale<br />
des personnes morales une responsabilité par ricochet en trasposant les solutions du droit<br />
civil (et de la responsabilité du préposé) au droit répressif. S’il est possible d’affirmer que<br />
la responsabilité pénale des personnes morales est une responsabilité indirecte, c’est uniquement<br />
parce qu’il faut nécessairement un bras, une main, une personne en chair et en os pour<br />
se prêter à l’acte délictueux, en l’occurrence pour user des fausses attestations en les transmettant<br />
dans le dossier adressé au tribunal. C’est au niveau de la commission matérielle<br />
du délit que le personnes physiques sont indispensables; cela ne signifie pas que le personnes<br />
physiques doivent être également coupables. L’élément moral de l’infraction imputée à la<br />
personne morale reste propre à celle-ci. Sinon, on ne comprendrait pas pourquoi le législateur<br />
a cru bon d’écrire que la responsabilité pénale de la personne morale n’excluait pas celle<br />
de la personne physique» (C. Ducouloux-Favard, Quatre annés de sanctions pénales à<br />
l’encontre des personnes morales, inRecueil Dalloz, 1998, 396). La giurisprudenza è invece<br />
divisa, con la Corte di Cassazione arroccata nella difesa nella responsabilità par ricochet, e<br />
le corti di merito che al contrario hanno condannato più volte persone giuridiche in assenza<br />
dell’accertamento della responsabilità dei suoi agenti o rappresentanti, spingendosi addirittura<br />
ad elaborare una colpevolezza autonoma dell’ente. L’ambito della responsabilità par ricochet<br />
è stato ridotto dal legislatore con la legge 2000-647 del 10 luglio 2000 che, con riferimento<br />
alle infractions non intentionnelles, ha distinto le ipotesi in cui vi è un collegamento<br />
diretto tra colpevolezza della persona fisica e danno da quelle in cui tale collegamento è indiretto:<br />
nel primo caso la persona fisica risponde sempre insieme alla persona giuridica, mentre<br />
nel secondo caso le persone fisiche rispondono solo per colpa grave e qualificata, vale a<br />
dire che qualora manchi il suddetto elemento soggettivo la responsabilità della personne morale<br />
non sarà agganciata a quella dei suoi organi o rappresentanti; la piena validità della responsabilità<br />
par ricochet, sia prima che dopo l’entrata in vigore della legge 2000-647 del 10<br />
luglio 2000, qualunque sia il reato commesso dalla persona fisica, ancorché non punibile per<br />
difetto dell’elemento soggettivo, è stata però ribadita da Corte di Cassazione, Sezione penale<br />
(Chambre criminelle), 24 ottobre 2000, n. 6289, Avril, in Diritto penale XXI secolo, 2003, n.<br />
1, 145 s., con commento di A.F. Morone, La responsabilità penale par ricochet della personne<br />
morale in Francia dopo la L. 10 luglio 2000 N. 2000-647, 146 ss., spec. 151 ss. In argomento<br />
cfr. altresì J. Pradel, La responsabilité des personnes morales en France, in AA.VV.,<br />
Societas puniri potest. La responsabilità da reato degli enti collettivi, op. cit., 79 ss.; C. Ducouloux-Favard,<br />
Un primo tentativo di comparazione, op. cit., 100 ss., il quale evidenzia<br />
che i casi in cui non è necessario verificare la presenza di una colpevolezza dell’ente – come<br />
quello esaminato dalla nota sentenza Carrefour della Corte di Cassazione (26 giugno 2001, n.<br />
4700) – sono del tutto eccezionali e non rappresentano un principio generale, come pretendono<br />
invece i sostenitori della teoria du ricochet.<br />
( 122 ) Sul punto v. De Maglie, La disciplina, op. cit., 1351; Id., L’etica e il mercato, op.<br />
cit., 333 ss.<br />
63
64<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
zione di un organismo di controllo interno all’ente, autonomo e indipendente,<br />
che vigili sull’osservanza del modello; 3) che i vertici hanno commesso<br />
il reato eludendo fraudolentemente i modelli organizzativi; 4) che<br />
non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organo di controllo.<br />
Per reati commessi dai c.d. sottoposti (art. 7), invece, la persona giuridica<br />
è chiamata a rispondere per una colpevolezza di organizzazione, la<br />
quale si sostanzia nella violazione dei propri doveri di direzione e vigilanza<br />
da parte dei soggetti apicali: l’adozione preventiva da parte dell’ente dei<br />
modelli di organizzazione, gestione e controllo comporta una presunzione<br />
iuris et de iure di rispetto dei suddetti obblighi di direzione e vigilanza, con<br />
la conseguente esclusione della responsabilità dell’ente.<br />
Le critiche della dottrina hanno immediatamente investito il complesso<br />
meccanismo che consente all’ente di evitare di incorrere in responsabilità<br />
amministrativa da reato, da molti autori considerata una<br />
scusante che esclude la colpevolezza dell’ente( 123 ), ma più fondatamente<br />
qualificabile come causa di esclusione della punibilità in quanto è costruita<br />
secondo lo schema dell’inversione dell’onere della prova (talché<br />
l’accusa non deve provare l’assenza delle quattro condizioni di cui all’art.<br />
6, comma 1( 124 )) e non esclude la confisca (anche per equivalente) del<br />
profitto che l’ente ha tratto dal reato (art. 6, comma 5), confisca che<br />
– non si dimentichi – nel sistema della responsabilità da reato dell’ente<br />
rappresenta una sanzione e presuppone quindi un riconoscimento di responsabilità(<br />
125 ).<br />
Secondo la Relazione governativa al decreto legislativo, a cui si accoda<br />
una parte della dottrina, la previsione del fatto impeditivo di cui all’art. 6<br />
risponde all’esigenza garantistica di rendere anche la responsabilità delle<br />
persone giuridiche per i reati commessi dai vertici conforme al principio<br />
( 123 ) Cfr. G. De Vero, Struttura e natura giuridica, op. cit., 1135 s.; C.E. Paliero, op.<br />
ult. cit., 55: «il legislatore ha introdotto un paradigma di organizzazione, per il vertice societario,<br />
costruito negativamente, alla stregua cioè di una scusante con inversione dell’onere della<br />
prova a carico dell’ente».<br />
( 124 ) Cfr. P. Ferrua, op. cit., 80, il quale osserva come la colpa organizzativa non è<br />
elemento costitutivo della responsabilità dell’ente poiché non vi è un onere probatorio a carico<br />
dell’accusa, ma si configura come un fatto impeditivo la cui prova grava interamente sulla<br />
difesa. Secondo l’opinione di A. Fiorella, Principi generali, op. cit., 15, i modelli organizzativi<br />
avrebbero la funzione di circoscrivere un’area di ‘‘rischio permesso’’ nell’esercizio<br />
dell’attività dell’ente: giacché l’ente per il fatto stesso di esistere ed agire dovuti al fatto<br />
che taluno può approfittarne per commettere fatti di reato, il legislatore avrebbe creato un’area<br />
di ‘‘rischio permesso’’ in cui il rischio non può essere imputato all’impresa quando questa<br />
abbia creato soddisfacenti modelli di organizzazione e gestione idonei a prevenire i fatti di<br />
reato.<br />
( 125 ) In tal senso cfr. D. Pulitanó, La responsabilità ‘‘da reato’’ degli enti: i criteri di<br />
imputazione, op. cit., 428; G. Cocco, L’illecito degli enti dipendente da reato ed il ruolo dei<br />
modelli di prevenzione, inRiv. it. dir. proc. pen., 2004, 103 s.
SAGGI E OPINIONI<br />
costituzionale di colpevolezza, tenuto conto che la realtà societaria attuale è<br />
costellata da una serie di entità organizzativamente complesse, in cui il management<br />
non si sviluppa più secondo un modello verticistico, ma si<br />
estende su un’ampia base orizzontale, con la conseguente frantumazione<br />
dei centri decisionali, onde in una situazione di questo tipo imputare all’ente<br />
nella sua interezza le conseguenze di comportamenti criminosi tenuti<br />
da soggetti che pure svolgono funzioni apicali, ma che non risultano pienamente<br />
rappresentativi della societas, esporrebbe la riforma a censure di costituzionalità,<br />
perché fonda la responsabilità degli enti su criteri meramente<br />
oggettivi( 126 ). In sostanza, dunque, anche la responsabilità dell’ente per<br />
reati posti in essere dai vertici ricadrebbe nell’alveo della colpa di organizzazione(<br />
127 ).<br />
Questa impostazione non può tuttavia essere condivisa, perché si<br />
( 126 ) Cfr. Relazione governativa al d. lgs. n. 231/2001, cit., 36; C. Paliero, Il d. lgs. 8<br />
giugno 2001, n. 231, op. cit., 847; Id., La responsabilità delle persone giuridiche, op. cit., 54 s.,<br />
il quale parla di «un concetto di colpevolezza organizzativa che ricorda molto da vicino la c.d.<br />
misura oggettiva della colpa»; Id., La responsabilità penale della persona giuridica nell’ordinamento<br />
italiano: profili sistematici, in AA.VV., Societas puniri potest, op. cit., 29 s., secondi cui<br />
la necessità di introdurre tale esimente «deriva dal fatto che la persona giuridica, nella sua<br />
storia, nella sua politica di impresa di periodo lungo o medio-lungo, da un lato, e il concreto<br />
amministratore del momento, dall’altro, possono presentare, per così dire, una ‘‘dissociazione<br />
di personalità’’»; A. Manna, La c.d. responsabilità amministrativa delle persone giuridiche:<br />
un primo sguardo d’insieme, op. cit., 509 ss.; Id., La c.d. responsabilità amministrativa delle<br />
persone giuridiche: il punto di vista del penalista, op. cit., 1116 ss.; C. Piergallini, Societas<br />
delinquere et puniri non potest : la fine tardiva di un dogma, op. cit., 589 s. In senso conforme<br />
cfr. Trib. Torino, Sezione G.U.P., Ord. 10 febbraio 2005, in www.reatisocietari.it.<br />
( 127 ) Pur convenendo sulla collocazione del criterio di imputazione soggettiva previsto<br />
per i reati commessi dai vertici all’interno dello schema della colpa di organizzazione, alcuni<br />
autori negano in radice la capacità di questo modello di fondare un’autentica colpevolezza<br />
dell’ente: cfr. A. Alessandri, Note penalistiche, op. cit., 54 s: «Ci si dovrebbe chiedere se<br />
una siffatta colpa di organizzazione (...) possa davvero integrare la colpevolezza penalistica, seppur<br />
in senso normativo. Non è che l’accezione ‘‘normativa’’ della colpevolezza permetta di<br />
trascurare gli elementi psicologici: com’è ben noto li organizza e li supera in una visione unitaria,<br />
che combina elementi psicologici con elementi normativi, rendendo il prezioso servizio<br />
di poter graduare il giudizio», «Se non si vuole arrivare al drastico giudizio di fictio culpae,<br />
certo si ha a che fare con una ‘‘colpa’’ intessuta esclusivamente di elementi oggettivi, riconducibili<br />
all’operato di una moltitudine di soggetti, che non si vede come possano lasciare spazio<br />
ai tradizionali elementi psicologici della colpa, ridotti ma esistenti (e, a maggior ragione,<br />
del dolo)»; P. Patrono, Verso la soggettività penale, op. cit., 191 s., il quale rileva che «tale<br />
colpevolezza non riesce a staccarsi dalla sua dimensione prevalentemente oggettiva e comunque,<br />
appare assumere i caratteri di una colpevolezza per la condotta di vita: per ciò che l’ente<br />
ha dimostrato di essere attraverso le carenze e i difetti di organizzazione e non per ciò che ha<br />
fatto». Tali obiezioni non colgono però nel segno in quanto viziate da antropomorfismo: in<br />
verità non si riesce ad immaginare quale altro tipo di colpevolezza sia configurabile per gli<br />
enti se non una colpevolezza fondata su elementi oggettivi ed eventualmente anche sulla condotta<br />
di vita, giacché non si può pretendere che il diritto penale delle persone giuridiche sia<br />
modellato su principî che hanno la loro ragion d’essere esclusivamente per le persone fisiche.<br />
65
66<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
espone ad una serie di rilievi critici molto convincenti. In primo luogo, si è<br />
evidenziato come enfatizzare in questo modo la frantumazione della base<br />
manageriale nelle moderne imprese sminuisce la concezione della persona<br />
giuridica come autonomo centro di interessi, attività e decisioni alla base<br />
della criminalizzazione degli enti, favorendo una deresponsabilizzazione<br />
complessiva dell’ente collettivo( 128 ); secondariamente, si è osservato che<br />
l’insieme degli elementi concorrenti che compongono la causa di esclusione<br />
della punibilità di cui all’art. 6 determina una formulazione normativa farraginosa,<br />
la quale – unitamente alla totale implausibilità empirico-criminosa<br />
– comporta a carico dell’ente una vera e propria probatio diabolica<br />
(si pensi alla enorme difficoltà di provare che il reato è stato commesso<br />
dal soggetto apicale eludendo fraudolentemente i modelli organizzativi e<br />
senza che vi sia stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organo<br />
di controllo( 129 )). Tale implausibilità empirico-criminosa è dimostrata dal<br />
fatto che non sembra rimanere alcuno spazio logico per la configurabilità<br />
dell’‘‘esimente’’ de qua, dato che: o si verifica effettivamente una cesura<br />
netta tra il comportamento dei vertici e la condotta virtuosa dell’ente,<br />
ma in tal caso è altamente probabile che la persona fisica abbia agito nell’esclusivo<br />
interesse proprio o di terzi (se non a danno dell’ente), con conseguente<br />
venir meno – prima ancora della colpevolezza – del criterio di imputazione<br />
oggettivo; oppure il diaframma fra i vertici e ‘‘la condotta di<br />
vita’’ aziendale nasconde in realtà una collusione fra dirigenti e controllori,<br />
in cui l’adozione e l’efficace attuazione dei compliance programs si rivela essere<br />
nient’altro che un’impalcatura di facciata che può dar luogo ad ingiustificate<br />
aree di impunità( 130 ).<br />
( 128 ) Cfr. G. De Vero, op. ult. cit., 1136.<br />
( 129 ) La difficoltà di prova dell’esimente è aggravata dal c.d. management override, cioè<br />
dalla ridotta efficacia dei controlli effettuati dai subordinati sull’operato dei soggetti apicali:<br />
infatti, non è difficile per un amministratore o un dirigente costringere o indurre un dipendente<br />
a compiere o a ignorare un’operazione irregolare, soprattutto quando, a causa di uno<br />
stile di direzione autocratico, i sottoposti assumono atteggiamenti poco critici, compiacenti,<br />
servili o ricattatori; in tali casi, sarà necessario dimostrare che il modello organizzativo conteneva<br />
tutti gli elementi dissuasivi, persuasivi, culturali ed etici occorrenti per limitare ragionevolmente<br />
il rischio di management override (sul punto v. S. Fortunato, La prevenzione<br />
degli illeciti nel D. Lgs. 231/2001,inD. Davies, La prevenzione degli illeciti societari, Milano,<br />
2002, 279). Per ovviare al problema in dottrina vi è chi addirittura arriva a sostenere che «Se<br />
si vuole evitare di rendere fittizia la prova liberatoria voluta dal legislatore e di costringere la<br />
difesa dell’ente a trasmodare nell’accusa della persona fisica, non resta (...) che negare autonomia<br />
alla fraudolenta elusione del modello, considerando quest’ultima eventualità implicitamente<br />
dimostrata con la prova dell’efficace adozione del modello, il quale non può certo<br />
garantire anche contro le sue elusioni fraudolente» (così F. Giunta, Attività bancaria e responsabilità<br />
ex crimine degli enti collettivi, inRiv. trim. dir. pen. ec., 2004, 9 s.).<br />
( 130 ) Cfr. G. De Vero, op. ult. cit., 1137 ss.; Id., Introduzione al diritto penale, op. cit.,<br />
111 s.; Id., La responsabilità diretta ex crimine, op. cit., 360. Similmente cfr. A. Carmona,<br />
op. cit., 212 ss., il quale chiosa affermando come «non esiste, né possa esistere, alcuna regola
SAGGI E OPINIONI<br />
Ma anche ad ammettere la configurabilità dell’‘‘esimente’’ ex art. 6,<br />
non sembra comunque opportuno, dal punto di vista politico-criminale e<br />
della prevenzione generale, consentire l’impunità dell’ente per un reato<br />
commesso nel suo interesse da un soggetto apicale: «Sarebbe come dire<br />
(...) che il reato commesso dal soggetto individuale non debba essere punito<br />
(e non soltanto punito di meno) quando non si ponga in alcuna relazione<br />
di continuità con la condotta di vita precedente»( 131 ).<br />
L’errore in cui è incorso il legislatore delegato – peraltro andando al di<br />
là di quanto richiesto dalla legge delega( 132 )–èstato quello di voler costruire<br />
una colpevolezza di organizzazione a tutti i costi, estendendola<br />
anche ad ambiti in cui essa non è necessaria, in quanto «non esiste alcuna<br />
controindicazione a ritenere che il dolo del reato commesso dal soggetto in<br />
posizione apicale, qualificato dallo scopo di perseguire l’interesse o il vantaggio<br />
dell’ente collettivo, rappresenta un coefficiente di imputazione soggettiva<br />
del reato alla societas del tutto adeguato e non bisognevole di ulte-<br />
organizzativa che consenta all’interno di una impresa, gestita in forma societaria, un controllo<br />
– da parte di alcuno o in automatico – sugli atti di gestione dell’amministratore delegato o<br />
dell’amministratore unico. Il vertice aziendale e l’azienda sono sul piano dell’operare – proprio<br />
per la stessa teoria organicistica in forza della quale possiamo oggettivamente ritenere<br />
sussistente la responsabilità dell’ente per le attività dell’organo – esattamente la stessa entità»;<br />
M. Guernelli, op. cit., 292: «La disposizione lascia perplessi perché, più che dettata dalla<br />
acquisizioni della scienza dell’organizzazione, nella sua complessità talvolta superflua sembra<br />
non tener conto del fatto che l’organo dirigente o è coinvolto nei reati, o comunque non può<br />
essere controllato da un organismo, sia pure autonomo, che gli è sottoordinato: si intende<br />
dire che, o il modello è di difficile se non impossibile efficacia (...), e quindi non se ne potrà<br />
quasi mai provare l’idoneità a prevenire reati, specialmente in ragione delle rispettive qualifiche<br />
soggettive, ovvero varrà solo per funzionari intermedi (ad es. direttori di filiali) per i<br />
quali la gerarchia interna, i relativi protocolli, eventuali servizi di ispettorato, cautele quali<br />
le firme congiunte, le sanzioni disciplinari ecc., possono essere offerte in giudizio quali elementi<br />
integratori delle previsioni normative; dovendosi altrimenti concludere che basti un<br />
adeguamento formale, con organigrammi e procedure solo sulla carta, per eludere il sistema»;<br />
D. Pulitanó, op. ult. cit., 429 s., che paventa il rischio che la possibile esenzione dell’ente<br />
in casi di commissione del reato possa «aprire la strada alla predisposizione di adempimenti<br />
fittizi, premessa di scuse pretestuose, con effetti di inutile complicazione del processo».<br />
( 131 ) La bella metafora è diG. De Vero, Struttura e natura giuridica, op. cit., 1142, che<br />
fa l’esempio di un soggetto apicale che – in un momento delicato per la stessa sopravvivenza<br />
dell’impresa – realizza un delitto di corruzione di pubblico ufficiale straniero all’interno di<br />
una importante e delicata operazione economica internazionale, eludendo fraudolentemente<br />
i meccanismi di controllo attivati dalla società.<br />
( 132 ) Ci troviamo dunque di fronte ad un eccesso di delega per illegittimo restringimento<br />
della responsabilità degli enti in relazione alla commissione di reati da parte di soggetti<br />
apicali, dato che l’art. 11, comma 1, lett. n) della legge n. 300/2000 ricollegava all’adozione<br />
del modello organizzativo-gestionale idoneo l’esclusione delle sanzioni interdittive e la<br />
diminuzione da un terzo alla metà delle sanzioni pecuniarie, mentre il Governo vi ha ricondotto<br />
un’esenzione completa dalla responsabilità (in tal senso cfr. M.A. Pasculli, op. cit.,<br />
743; S. Vinciguerra, La struttura dell’illecito, op. cit., 17).<br />
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68<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
riori integrazioni»( 133 ), tanto più che «non è con la creazione di categorie<br />
giuridiche di pura apparenza che si supera il versari in re illicita e si rispettano<br />
i principî costituzionali»( 134 ).<br />
Questa conclusione è avallata da due ordini di considerazioni. In<br />
primis, néil Progetto Grosso, né l’ordinamento statunitense – che è il<br />
più evoluto in materia di responsabilità penale delle corporations – prevedono<br />
un’esclusione di responsabilità per l’ente in caso di reato commesso<br />
dai vertici qualora la persona giuridica abbia preventivamente adottato ed<br />
efficacemente attuato un compliance program, disponendo il primo che non<br />
vi è esclusione della responsabilità se l’autore del reato aveva poteri di direzione<br />
della persona giuridica, o di una unità organizzativa dotata di autonomia<br />
finanziaria e tecnico funzionale, o ne esercitava di fatto la direzione<br />
(art. 126, comma 3 dell’Articolato( 135 )), e limitandosi il secondo a contemplare<br />
una circostanza attenuante (soluzione preferibile anche per il sistema<br />
italiano), peraltro circoscritta fortemente nel suo campo di applicazione(<br />
136 ). E ciò dimostra che l’immedesimazione organica è più che suffi-<br />
( 133 ) Così G. De Vero, op. ult. cit., 1141; cfr. altresì Id., Intervento, in AA.VV., Societas<br />
puniri potest. La responsabilità da reato degli enti collettivi, op. cit., 270: «Questo è uno<br />
dei punti della disciplina del decreto legislativo in cui l’esigenza di tener presenti criteri di<br />
imputazione soggettivi ulteriori rispetto a quelli postulati dalla teoria dell’identificazione, e<br />
coerenti con il modello della colpa di organizzazione, si traduce, in chiave scusante, in<br />
uno scrupolo garantistico difficilmente condivisibile. Già èsufficiente a salvaguardare il principio<br />
di personalità della responsabilità penale il fatto che il (...) reato (...) sia stato posto in<br />
essere dolosamente da un ‘‘vertice’’ nell’esclusivo interesse dell’ente».; G. De Simone, I profili<br />
sostanziali, op. cit., 110, che stigmatizza l’«eccesso di zelo ipergarantistico» del legislatore<br />
«perché nel fatto doloso e colpevole commesso dai ‘‘vertici’’ vi è già quanto basta e avanza<br />
per fondare una responsabilità dolosa della societas»; M. Pelissero-G. Fidelbo, op. cit.,<br />
581, la cui critica è però rivolta indistintamente a entrambi i criteri di attribuzione soggettiva:<br />
«trattandosi della responsabilità di un ente, il giudizio non può essere arricchito delle stesse<br />
componenti personali che ne giustificano l’addebito nella responsabilità penale delle persone<br />
fisiche: è, infatti, indubbio che la ricerca di parallelismi di struttura tra responsabilità delle<br />
persone fisiche e responsabilità delle persone giuridiche rischia di antropomorfizzare l’approccio<br />
alla nuova disciplina, sollecitando inutili forzature nella interpretazione delle norme<br />
e ricercando all’interno dell’ente elementi di tipo ‘‘pseudo-volontaristico’’»; F. Giunta, op.<br />
cit., 10.<br />
( 134 ) A. Carmona, op. cit., 213.<br />
( 135 ) Progetto preliminare di riforma del codice penale, Articolato, cit. LaRelazione al<br />
Progetto, cit., spiega la mancata esclusione della responsabilità in questa ipotesi affermando<br />
che «l’elevato livello di poteri e di responsabilità dell’autore del reato, per il ruolo dirigente<br />
ricoperto nell’organizzazione, consente di identificare nella sua colpa la colpevolezza dell’organizzazione<br />
stessa».<br />
( 136 ) Le Federal Sentencing Guidelines del 1991 considerano la mera adozione di un<br />
compliance program insufficiente per la concessione delle attenuanti in tre casi: 1) quando<br />
un soggetto facente parte del gruppo dirigente dell’impresa o il responsabile della gestione<br />
di un compliance program ha partecipato ad un reato, lo ha consentito o consapevolmente<br />
ignorato; 2) quando si sia ritardata la denuncia all’autorità giudiziaria del reato di cui si<br />
sia venuti a conoscenza all’interno della società; 3) quando abbia partecipato al reato un sog-
SAGGI E OPINIONI<br />
ciente per imputare agli enti i reati posti in essere dai vertici nel loro interesse.<br />
In secundis, anche autorevole dottrina aziendalistica ritiene astratto<br />
ed incoerente rispetto a una sostenibile teoria dell’impresa il meccanismo<br />
di esenzione dell’ente disciplinato dall’art. 6, giacché identificare la responsabilità<br />
dell’impresa esclusivamente in termini di colpa organizzativa equivale<br />
ad accogliere implicitamente un concetto riduttivo di azienda, degradandola<br />
a mero apparato impersonale e burocratico, mentre la moderna<br />
teoria economica considera l’impresa come un’istituzione umana e intenzionale,<br />
come la ‘‘mano visibile del management’’, dove la struttura organizzativa<br />
deriva dalla strategia deliberatamente attuata dal top management,<br />
così che può affermarsi che «Per i reati commessi da soggetti in posizione<br />
apicale, che tendono ad identificare i propri obiettivi con quelli dell’azienda<br />
e che comunque hanno l’autorità e la responsabilità della progettazione<br />
organizzativa, la possibilità di escludere la responsabilità dell’azienda<br />
appare (...) priva di sostegno logico e pericolosa per la concreta lotta alla<br />
criminalità aziendale, pur con l’inversione dell’onere della prova»( 137 ).<br />
Riguardo alla responsabilità dell’ente per i reati commessi dai sottoposti,<br />
costruita come fattispecie di agevolazione colposa, è pacifico in dottrina<br />
che l’onere di provare la mancata adozione o la mancata attuazione<br />
dei modelli di organizzazione, gestione e controllo finalizzati alla prevenzione<br />
dei reati grava stavolta sulla pubblica accusa, dovendosi applicare<br />
la regola generale in mancanza di una deroga espressa come quella prevista<br />
dall’art. 6( 138 ).<br />
Quanto alla sua qualificazione, in letteratura vi è chi ritiene che tale<br />
forma di attribuzione della responsabilità rientri pur sempre nello schema<br />
dell’immedesimazione organica e non in quello della colpa di organizzazione,<br />
è ciò sulla base del rilievo che ai fini della responsabilità dell’ente è necessario<br />
getto che si trova in posizione di comando sostanziale (in questo caso si è di fronte ad una<br />
presunzione iuris tantum che l’impresa è priva di un compliance program caratterizzato dall’effettività):<br />
cfr. C. De Maglie, Sanzioni pecuniarie e tecniche di controllo dell’impresa. Crisi<br />
e innovazioni nel diritto penale statunitense, inRiv. it. dir. proc. pen., 1995, I, 137 s.; Id., L’etica<br />
e il mercato, op. cit., 111; F. Stella, Criminalità d’impresa, op. cit., 474.<br />
( 137 ) Così, efficacemente, P. Bastia, op. cit., 50s.<br />
( 138 ) Per tutti cfr. S. Gennai-A. Traversi, op. cit., 55; G. De Simone, op. ult. cit.,<br />
110 s.; M. Guernelli, op. cit., 293. Il pubblico ministero nel corso delle indagini dovrà<br />
dunque richiedere all’ente la produzione del modello: se questo manca la responsabilità della<br />
societas non è automatica poiché occorrerà provare l’inosservanza degli obblighi di direzione<br />
e vigilanza ed il rapporto di causalità tra la culpa in vigilando e la commissione del reato; se<br />
invece il modello esiste le ipotesi sono due: 1) esso viene giudicato idoneo, magari in seguito<br />
al ricorso ad una consulenza tecnica, e la responsabilità dell’ente è esclusa automaticamente;<br />
2) il modello è giudicato insufficiente, il ché non implica necessariamente la responsabilità<br />
dell’ente, la quale può comunque essere esclusa dall’adozione di misure particolari che provino<br />
la mancata violazione degli obblighi di direzione e vigilanza (cfr. F. Santi, op. cit.,<br />
328 ss.).<br />
69
70<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
che la realizzazione del reato sia stata resa possibile dall’inosservanza degli<br />
obblighi di direzione o vigilanza da parte dei vertici, richiedendosi dunque<br />
la possibilità di muovere loro un rimprovero per negligenza, di cui è causa<br />
di esclusione l’attuazione dei modelli di prevenzione dei reati( 139 ). Tale opinione<br />
non può peròessere condivisa poiché – se è vero che il riferimento all’inosservanza<br />
dei doveri di direzione o vigilanza da parte dei soggetti apicali<br />
può risultare fuorviante, rischiando di appiattire la responsabilità dell’ente<br />
per il fatto dei sottoposti sulla colpevolezza (sub specie di condotta colposa)<br />
dei vertici – quello che l’accusa in ultima analisi deve provare è pur sempre la<br />
mancata adozione ed attuazione dei modelli organizzativi da parte dell’ente<br />
nel suo complesso, elemento quest’ultimo che inequivocabilmente configura<br />
una forma di colpa di organizzazione oggettiva e normativa in quanto riferita<br />
impersonalmente alla struttura( 140 ).<br />
È pacifico in dottrina e tra le associazioni imprenditoriali che l’adozione<br />
e l’efficace attuazione dei modelli organizzativi rappresenti per l’ente<br />
un semplice onere( 141 ). Tuttavia, attenta dottrina ha sottolineato come al<br />
fine di stabilire si ci si trovi in presenza di un obbligo o di un onere occorre<br />
verificare se gli adempimenti da cui dipende l’esclusione della sanzionabilità<br />
per l’ente corrispondono oppure no ad obblighi già altrimenti imposti<br />
dall’ordinamento giuridico o derivanti dalla disciplina in esame( 142 ).<br />
( 139 ) In tal senso cfr. G. Cocco, op. cit., 108 ss., il quale rimarca che «la pervasiva<br />
presenza nel dettato normativo dell’influsso della dottrina della c.d. identificazione, che cacciata<br />
dalla porta immancabilmente rientra dalla finestra, in effetti non solo impedisce una<br />
coerente costruzione normativa della colpevolezza di organizzazione, ma finisce per negarne<br />
la stessa sussistenza, con innegabili conseguenze sul piano della linearità del dettato normativo».<br />
( 140 ) Cfr. C.E. Paliero, Il d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, op. cit., 846: «superando gli<br />
schemi tradizionali, questo modello fonda la responsabilità, non sulla prova della negligenza<br />
della persona fisica-sorvegliante (dirigente) nel controllo della persona fisica-sorvegliato (dipendente),<br />
bensì sulla prova della (di una) generale e strutturale colpa di organizzazione nella<br />
prevenzione e protezione dell’azienda (società, company, etc.) dallo specifico rischio (...) della<br />
commissione di un reato ‘‘della specie di quelli indicati’’, da parte di un qualsiasi dipendente,<br />
o nuncius, dell’impresa stessa»; Id., La responsabilità delle persone giuridiche, op. cit., 56; A.<br />
Alessandri, op. ult. cit., 49; F. Giunta, op. cit., 11.<br />
( 141 ) In dottrina v., ex plurimis, G. De Vero, Struttura e natura giuridica, op. cit. 1146.<br />
Nella stessa direzione vanno, come detto, le prese di posizione delle associazioni di categoria<br />
degli imprenditori: cfr. Abi, Linee guida, cit., 363; Confindustria, Linee guida per la costruzione<br />
dei modelli di organizzazione, gestione e controllo ex D.Lgs. n. 231/2001, Roma,<br />
7 marzo 2002 (aggiornate al 24 maggio 2004), in www.confindustria.it, 5 s.: «la legge prevede<br />
l’adozione del modello di organizzazione, gestione e controllo in termini di facoltatività e non<br />
di obbligatorietà. La mancata adozione non è soggetta, perciò, ad alcuna sanzione, ma espone<br />
l’ente alla responsabilità per gli illeciti realizzati da amministratori e dipendenti. Pertanto,<br />
nonostante la ricordata facoltatività del comportamento, di fatto l’adozione del modello diviene<br />
obbligatoria se si vuole beneficiare dell’esimente»; nonché la circolare dell’ASSONI-<br />
ME n. 68/2002.<br />
( 142 ) Cfr. D. Pulitanó, op. ult. cit., 431.
SAGGI E OPINIONI<br />
In merito ai reati commessi dai sottoposti, il riferimento all’inosservanza<br />
di obblighi di direzione o di vigilanza presuppone una disciplina correlata,<br />
dettata dalla legge o interna all’ente, che preveda i poteri ed i relativi<br />
doveri dei soggetti apicali, costituendo quindi i modelli organizzativi esercizio<br />
di poteri e adempimento di doveri altrove stabiliti, finalizzati al buon<br />
funzionamento dell’ente. Dunque si può affermare che «La predisposizione<br />
di modelli organizzativi idonei a prevenire il reato dei sottoposti è<br />
(...) un obbligo, ad un tempo, dei soggetti apicali e dell’ente che essi ‘‘impersonano’’»(<br />
143 ).<br />
Per quanto concerne i reati commessi dai vertici, si è detto invece che<br />
«L’adozione di modelli ‘‘preventivi’’ ai sensi dell’art. 6 è (...) una possibilità<br />
che la legge ha introdotto, rimettendola alla scelta discrezionale dell’ente.<br />
Non un obbligo, se non nella misura in cui doveri attinenti all’organizzazione<br />
siano desumibili da altre fonti normative»( 144 ). Ma proprio quest’ultimo assunto<br />
legittima la ricerca di eventuali fonti normative contenenti l’obbligo<br />
di adottare i modelli organizzativi per prevenire i reati dei soggetti apicali.<br />
Questa via è stata percorsa di recente, in maniera solo parzialmente convincente,<br />
da chi ritiene di potere fondare siffatto obbligo sulle norme inerenti<br />
la gestione delle imprese e delle società, la quale è agganciata al criterio di<br />
diligenza e prudenza nell’espletamento del mandato. Per cui da un lato – in<br />
un’ottica interna all’ente – l’amministratore prudente deve porre la società<br />
al riparo dalle ripercussioni negative che l’attività sociale può subire in seguito<br />
all’irrogazione di sanzioni pecuniarie, interdittive e stigmatizzanti,<br />
dall’altro lato – in un’ottica esterna – l’organo ricopre una ‘‘posizione di<br />
garanzia’’ che lo obbliga alla prudenza ed a prendere tutte le cautele che<br />
la sua diligenza professionale gli impone per evitare che la società subisca<br />
un danno in conseguenza di una grave irregolarità, onde non vi è dubbio<br />
che la mancata adozione ed attuazione del modello organizzativo possa giustificare<br />
l’intervento del collegio sindacale, il quale – ai sensi del nuovo art.<br />
2403 c.c. – vigila sull’osservanza della legge e dello statuto, sul rispetto dei<br />
principî di corretta amministrazione e in particolare sull’adeguatezza dell’assetto<br />
organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società e<br />
sul suo concreto funzionamento, avvalendosi dei poteri di cui ai novellati<br />
artt. 2403-bis, 2406 e 2409 c.c.( 145 ). Mentre per le società quotate e per<br />
le società finanziarie l’obbligo di munirsi di un compliance program potrebbe<br />
essere ricavato – forse un po’ arditamente, vista la genericità della<br />
previsione – dall’art. 149, comma 1, d. lgs. n. 58/1998, il quale dispone<br />
( 143 ) D. Pulitanó, op. e loc. ult. cit.<br />
( 144 ) D. Pulitanó, op. ult. cit., 432 s.<br />
( 145 ) Cfr. F. Santi, op. cit., 291 s. Nello stesso senso v. G. Rubboli-M. Bramieri-D.<br />
Bagaglia-A. Bogliacino, La responsabilità amministrativa della società. Analisi del rischio<br />
reato e modelli di prevenzione, Milano, 2003, 127.<br />
71
72<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
che il collegio sindacale ha il dovere di vigilare sull’osservanza della legge e<br />
dell’atto costitutivo, sul rispetto dei principî di corretta amministrazione,<br />
sull’adeguatezza della struttura organizzativa della società in relazione alla<br />
natura finanziaria dell’ente( 146 ).<br />
Ci si è interrogati, inoltre, sulla mancanza di ogni riferimento ai modelli<br />
organizzativi – che costituiscono l’architrave dei criteri di imputazione<br />
soggettiva – da parte dell’art. 25-ter in relazione alla responsabilità degli<br />
enti per i reati societari. L’opinione prevalente è nel senso di ritenere<br />
che anche in questo caso – come per i criteri di attribuzione oggettiva –<br />
non si sia dato luogo alla creazione di «un sottosistema nel sottosistema»(<br />
147 ) per i reati societari, giacché il richiamo effettuato dall’art. 11<br />
lett. h) della legge delega n. 366/2001 ai principî generali contenuti nella<br />
legge delega n. 300/2000 e nel d. lgs. n. 231/2001 comporta l’impossibilità<br />
di escludere la rilevanza, sul piano della colpevolezza, dell’adozione dei<br />
modelli di prevenzione del rischio-reato, i quali integrano un elemento costitutivo<br />
del sistema di responsabilità da reato degli enti( 148 ). Se il legislatore<br />
del 2002 avesse voluto mettere ‘‘fuori gioco’’ i modelli organizzativi in<br />
questa specifica ipotesi, sarebbe stata necessaria un’esclusione espressa ed<br />
inequivoca, che derogasse alla regola generale( 149 ).<br />
B) Il modello quadripartito di colpevolezza dell’ente proposto dalla de Maglie<br />
Per superare le insufficienze e le aporie che affliggono l’attuale modello<br />
di colpevolezza dell’ente previsto dal d. lgs. n. 231/2001, sarebbe opportuno<br />
– in una prospettiva de lege ferenda – adottare il modello di colpevolezza della<br />
persona giuridica autorevolmente proposto dalla de Maglie, articolato in<br />
«quattro forme fondamentali che (...) racchiudono ed esauriscono le diverse<br />
manifestazioni della patologia della gestione della società, dal grado più intenso<br />
a quello più leggero»: 1) la colpevolezza derivante dalle scelte di politica<br />
di impresa; 2) la colpevolezza che scaturisce dalla cultura di impresa; 3) la colpevolezza<br />
di organizzazione; 4) la colpevolezza di reazione( 150 ).<br />
( 146 ) Cfr. F. Santi, op. cit., 292.<br />
( 147 ) Il rischio di una simile eventualità èprospettato da E. Musco, Gli amministratori<br />
disonesti producono sanzioni alle società, inDir. e Giust., 2002, n. 20, 82; Id., I nuovi reati<br />
societari, Milano, 2004, 32.<br />
( 148 ) Cfr. C.E. Paliero, Nasce il sistema delle soglie quantitative: pronto l’argine alle<br />
incriminazioni, inGuida al diritto, 2002, n. 16, 44; Id., La responsabilità delle persone giuridiche,<br />
op. cit., 57 s.; C. Piergallini, La responsabilità amministrativa delle persone giuridiche,<br />
op. cit., 83 ss.; U. Guerini, La disciplina della responsabilità ‘‘penale-amministrativa’’ degli<br />
enti, in AA.VV., La responsabilità amministrativa degli enti, monografia di Dir. prat. soc.,<br />
2002, n. 3, 30; S. Putinati, op. cit., 87.<br />
( 149 ) Cfr. C. Piergallini, op. ult. cit., 87; G. De Vero, I reati societari, op. cit., 730.<br />
( 150 ) Cfr. C. De Maglie, L’etica e il mercato, op. cit., 355 s.; Id., In difesa della respon-
SAGGI E OPINIONI<br />
Tale modello quadripartito di colpevolezza avrebbe il pregio evidente<br />
di consentire una graduazione della ‘‘riprovevolezza d’impresa’’ dalla forma<br />
più grave (equiparabile al dolo intenzionale) a quella meno grave (equiparabile<br />
alla colpa)( 151 ), che ovviamente troverebbe una corrispondenza nella<br />
diversa modulazione quantitativa e qualitativa delle sanzioni( 152 ).<br />
La colpevolezza come espressione delle scelte di politica di impresa,<br />
che integra la forma più grave di colpevolezza dell’ente, si ha o quando<br />
la persona giuridica ha operato principalmente per perseguire scopi criminosi<br />
o servendosi di mezzi criminosi (c.d. impresa criminale), oppure nell’ipotesi<br />
in cui i dirigenti abbiano – piegando le strutture organizzative interne<br />
– realizzato, determinato, accettato o tollerato la commissione di un<br />
reato( 153 ).<br />
Al secondo stadio di riprovevolezza si colloca la colpevolezza manifestazione<br />
della cultura d’impresa, la quale fa riferimento ai fenomeni criminali<br />
che hanno un’origine ‘‘ambientale’’, che cioè sono il prodotto di<br />
una mentalità e di uno stile di vita radicato nella persona giuridica. Palese<br />
è la carenza di tassatività di una simile categoria, tanto che gli studiosi – si<br />
va dagli sforzi degli anni settanta compiuti da Stone e Bucy, fino alle recenti<br />
elaborazioni di Schein, Vance e Stupack – hanno più volte tentato di<br />
precisarne il contenuto. La formalizzazione del concetto è stata operata<br />
per la prima volta dal legislatore australiano del 1995, che al div. 12.3<br />
del Criminal Code Act definisce la corporate culture come «una mentalità,<br />
un’insieme di usi, di regole, un modo di gestire e di condurre l’azienda<br />
che è radicato generalmente all’interno della struttura della persona giuridica<br />
o nell’ambito di quella parte dell’impresa in cui si svolgono le attività<br />
di rilievo»( 154 ). Certamente il ricorso a tale forma di colpevolezza<br />
sabilità penale delle persone giuridiche, in AA.VV., L’ultima sfida della politica criminale, op.<br />
cit., 351 ss.<br />
( 151 ) In tal senso cfr. C. De Maglie, L’etica e il mercato, op. cit., 356; contra v. C.<br />
Piergallini, La disciplina, op. cit., 1362, il quale – partendo dal presupposto che la colpevolezza<br />
dell’ente, essendo intrinsecamente normativa, sfugge alla possibilità di scandagliare a<br />
fondo il nesso psicologico con il fatto illecito – arriva alla conclusione che, «mentre nel contesto<br />
della responsabilità della persona fisica, l’autonomia dei delitti dolosi e di quelli colposi<br />
poggia sopra un’indiscutibile piattaforma empirica, nell’ambito della responsabilità dell’ente<br />
è la violazione delle regole di prevenzione del rischio-reato nell’esercizio dell’attività economica<br />
a costituire l’ossatura della disciplina, senza che residuino soverchi spazi per sottili distinguo<br />
sulle forme di colpevolezza».<br />
( 152 ) Nell’attuale disciplina la differenza tra la colpevolezza dell’ente per i reati commessi<br />
dai vertici e quella per i reati commessi dai sottoposti è purtroppo «neutralizzata<br />
sul piano sanzionatorio dall’identità delle comminatorie edittali» (lo nota G. De Vero,<br />
Struttura e natura giuridica, op. cit., 1136).<br />
( 153 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 356 s.<br />
( 154 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 359 ss.; F. Centonze, op. cit., 438, il quale considera<br />
riduttiva la definizione di corporate culture presente nel codice australiano, in quanto<br />
73
74<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
consentirebbe di sanzionare gli enti che attuano un’adesione meramente<br />
di facciata alla legalità, adottando un compliance program cherimanesolo<br />
sulla carta e seguendo invece regole non scritte orientate verso l’illegalità(<br />
155 ), tuttavia permangono i dubbi sull’eccessiva genericità nella nozione<br />
di corporate culture, che potrebbe prestarsi ad abusi applicativi da<br />
parte della giurisprudenza, pericolo segnalato dalla dottrina in relazione<br />
alla eventuale introduzione nel nostro codice penale della fattispecie di<br />
‘‘concussione ambientale’’( 156 ), peraltro già entrata nel linguaggio giurisprudenziale(<br />
157 ), le cui analogie con il concetto di corporate culture sono<br />
evidenti.<br />
La colpa di organizzazione consiste in un difetto organizzativo inerente<br />
i processi di gestione interna dell’ente: la persona giuridica è con-<br />
non fa riferimento «alla persistenza e alla istituzionalizzazione di questo insieme di norme,<br />
valori e consuetudini nel contesto dell’organizzazione, a quel processo capace di determinare<br />
le condotte dei singoli, orientandoli ad allinearsi a questo sistema normativo e non a quello<br />
imposto dall’ordinamento».<br />
( 155 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 362.<br />
( 156 ) In tal senso cfr. R. Zannotti, I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione:<br />
inefficienze attuali e prospettive di riforma, in AA.VV., Studi economico-giuridici<br />
della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Cagliari, vol. LX, 2003-2004, In memoria<br />
di Franco Ledda, II, Torino, 2004, 1371 s., secondo cui una fattispecie come quella descritta<br />
nell’art. 138 n. 5 del Progetto Pagliaro (1992) – consistente nel fatto del pubblico<br />
agente che «riceve o ritiene denaro o altra utilità sfruttando l’altrui convinzione, determinata<br />
da situazioni ambientali, reali o supposte, di non poter altrimenti contare su un trattamento<br />
imparziale» – «eliminerebbe i problemi sollevati dalla concussione per induzione, ma ne<br />
aprirebbe altri ben più gravi, sollevati dalla preoccupante indeterminatezza della norma e<br />
dalla vaghezza dei confini della stessa»; v. altresì E. Musco, Le attuali proposte individuate<br />
in tema di corruzione e concussione, in AA.VV., Revisione e riformulazione delle norme in tema<br />
di corruzione e concussione, Bari, 1995, 46, il quale rileva che introdurre una fattispecie<br />
basata sullo «sfruttamento di una convinzione soggettiva – reale o addirittura supposta – di<br />
non poter contare su un trattamento imparziale, significa tradire il principio di legalità e affidarsi<br />
agli inevitabili abusi e soprusi della prassi, come sempre accade quando la fattispecie<br />
penale abdica ad una descrizione semplice e tassativa e va a rifluire nella discrezionalità giudiziale»;<br />
Id., L’illusione penalistica, Milano, 2004, 89, ove si definisce la concussione ambientale<br />
una «manipolazione interpretativa, un arbitrio per varie ragioni che nessuna esigenza di<br />
ordine sociale può giustificare e/o sanare».<br />
( 157 ) Cfr. App. Venezia, 24 giugno 1996, in Giur. merito, 1998, 92 ss.; Cass., 13 luglio<br />
1998, Salvi e altri, in Foro it., 1999, II, 644 ss., con nota di V. Manes, La «concussione ambientale»<br />
da fenomenologia a fattispecie «extra legem»; Trib. Roma, 20 luglio 2000, Bosca e<br />
altri, in Giur. merito, 2002, 110 ss. In dottrina cfr. G. Forti, L’insostenibile pesantezza della<br />
tangente ambientale: inattualità di disciplina e disagi applicativi del rapporto corruzione-concussione,<br />
inRiv. it. dir. proc. pen., 1996, 491 ss.; G. Contento, La concussione, inT. Padovani<br />
(a cura di), I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Torino,<br />
1998, 112 ss.; E. Palombi, La concussione, Torino, 1998, 145 ss.; G. Fiandaca, Esigenze e<br />
prospettive di riforma dei reati di concussione e corruzione, inRiv. it. dir. proc. pen., 2000, 889<br />
ss.; C. Benussi, I delitti contro la pubblica amministrazione, inTrattato di diritto penale, Parte<br />
speciale, diretto da G. Marinucci e E. Dolcini, vol. I, tomo I, Padova, 2001, 372 ss.
SAGGI E OPINIONI<br />
siderata colpevole se si dimostra che non ha adottato misure organizzative<br />
dirette a prevenire la commissione di reati al proprio interno o se<br />
l’implementazione di tali misure si è rivelata insufficiente. Perno di<br />
questa forma di colpevolezza sono dunque i compliance programs. Indubbi<br />
sono i vantaggi offerti dalla colpa di organizzazione: 1) la possibilità,<br />
grazie ai compliance programs, di prevenire o scoprire nella fase iniziale<br />
– evitandone le conseguenze dannose o pericolose – reati altrimenti<br />
spesso imprevedibili; 2) la creazione di una cultura di impresa volta al<br />
rispetto della legge e di natura ‘‘specialistica’’, ovvero diretta ad individuare<br />
con precisione e a neutralizzare le fonti di rischio; 3) l’instaurazione<br />
di una collaborazione fra impresa e ordinamento giuridico nella<br />
prevenzione dei reati, determinata dalla premialità del meccanismo dei<br />
compliance programs, la cui efficace adozione consente il proscioglimento<br />
della persona giuridica (eccetto che nel caso di reati dolosi posti in essere<br />
dai vertici)( 158 ).<br />
Infine, lo schema della colpevolezza di reazione (reactive corporate<br />
fault) – ideato dagli studiosi australiani Fisse e Braithwaite – è l’unico<br />
che consenta di configurare la responsabilità penale degli enti in relazione<br />
a reati – come quelli ambientali – che per giungere a consumazione hanno<br />
bisogno della somma di una pluralità di comportamenti distribuiti nel<br />
tempo. Vi sono infatti beni, come l’ambiente, che solo eccezionalmente<br />
possono essere lesi da una singola condotta, richiedendosi in genere il cumulo<br />
di una pluralità di comportamenti. La particolare struttura di tali fattispecie<br />
rende impraticabile il ricorso sia al criterio dell’immedesimazione<br />
organica, facilmente eludibile attraverso una sostituzione del personale dirigente<br />
(cosicché non vi sarebbe mai una persona fisica responsabile dell’intera<br />
serie dei comportamenti), che a quello della colpa di organizzazione,<br />
giacché l’inefficacia del compliance program si manifesterebbe<br />
quando ormai l’offesa si è prodotta, vanificando sistematicamente la funzione<br />
preventiva della colpa di organizzazione. Per questo motivo, l’unico<br />
modo di sanzionare gli enti per le c.d. offese dinamiche è quello di accertare<br />
la colpevolezza non al momento o prima della realizzazione del comportamento,<br />
ma successivamente alla condotta, valutando la reazione che<br />
l’ente ha avuto dopo la realizzazione di una parte del fatto tipico: occorre<br />
cioè verificare quali contromisure (rafforzamento dei meccanismi di controllo<br />
interno, modificazioni strutturali, ecc.) l’ente ha adottato nel periodo<br />
di tempo immediatamente successivo alla condotta. La mancata o insufficiente<br />
reazione, dolosa o colposa, integrerà la colpevolezza della persona<br />
giuridica( 159 ).<br />
( 158 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 363 ss.<br />
( 159 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 373 ss.<br />
75
76<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
C) I modelli di organizzazione, gestione e controllo:<br />
a) Profili disciplinari<br />
I modelli di organizzazione, gestione e controllo rappresentano – come<br />
si è visto – l’architrave dell’intero sistema di responsabilità da reato degli<br />
enti.<br />
Attraverso l’introduzione di questo istituto – palesemente ispirato ai<br />
compliance programs statunitensi e sconosciuto agli ordinamenti europei –<br />
si è scelto di privilegiare, nella lotta contro la criminalità di impresa, la prevenzione<br />
rispetto alla mera repressione, ricorrendo al c.d. carrot-stick approach,la<br />
filosofia del bastone e della carota, che prevede sanzioni elevate nei confronti<br />
degli enti privi di modello organizzativo o che si sono dotati di modelli inefficaci<br />
e forti riduzioni di pena nel caso in cui l’ente abbia tenuto un comportamento<br />
virtuoso, adottando misure idonee a prevenire la commissione di<br />
reati al suo interno( 160 ). La via italiana ai compliance programs è però caratterizzata<br />
da una notevole eccentricità rispetto al modello americano, visto che il<br />
bastone – almeno per quanto riguarda la pena pecuniaria – è praticamente<br />
inesistente, potendo raggiungere la misura massima di ‘‘soli’’ un milione e<br />
mezzo di euro, mentre la carota è esageratamente grande giacché si sostanzia<br />
nell’esclusione della responsabilità dell’ente e non in una semplice riduzione<br />
di pena (che negli Stati Uniti può essere anche superiore all’80%)( 161 ).<br />
Un’ulteriore peculiarità rispetto al sistema statunitense è la polifunzionalità<br />
dei modelli organizzativi emergente dall’impianto del d. lgs. n. 231/<br />
2001. Oltre ad escludere la responsabilità dell’ente per i reati commessi<br />
dai vertici o dai sottoposti, i modelli organizzativi – se adottati prima dell’apertura<br />
del dibattimento di primo grado – possono concorrere ad evitare all’ente<br />
l’applicazione delle sanzioni interdittive (art. 17) e, conseguentemente,<br />
impedire la pubblicazione della sentenza di condanna (art. 18), nonché determinare<br />
una sensibile riduzione della sanzione pecuniaria (art. 12, comma<br />
2, lett. b), e comma 3). Inoltre, la semplice dichiarazione di voler munirsi di<br />
( 160 ) Cfr. F. Stella, Criminalità d’impresa, op. cit., 473 ss., il quale osserva che «l’esperienza<br />
nord-americana sta ad indicare che il diritto penale può esercitare una efficace<br />
azione deterrente e di prevenzione, nei confronti dei reati commessi all’interno della società<br />
e dei gruppi, solo se si imbocca la strada di una reale ed efficace regolamentazione dell’impresa»;<br />
Id., Criminalità di impresa: nuovi modelli di intervento, inRiv. it. dir. proc. pen.,<br />
1999, 1254 ss., ove l’autore ribadisce il giudizio positivo sull’istituto dei compliance programs<br />
come strumento per combattere la criminalità di impresa; C. De Maglie, op. ult. cit., 71 ss.<br />
Secondo P. Severino, Il codice etico, in AA.VV., La responsabilità amministrativa della società<br />
e degli enti, Atti del Convegno di studi tenuto a Roma – Lido di Ostia, 9 dicembre<br />
2002, presso la Scuola di polizia tributaria della Guardia di Finanza, Roma, 2003, 36, il passaggio<br />
ad un’ottica preventiva è scaturito dalla maturazione di una coscienza sociale sulla<br />
gravità del reato di impresa.<br />
( 161 ) Cfr. F. Stella, Il mercato senza etica, op. cit., XII s.
SAGGI E OPINIONI<br />
tali modelli, unitamente alle altre condizioni di cui all’art. 17, può far ottenere<br />
all’ente la sospensione delle misure cautelari interdittive eventualmente<br />
adottate nel corso del procedimento (art. 49, comma 1); misure destinate poi<br />
ad essere revocate nell’ipotesi di effettiva attuazione dei modelli e delle suddette<br />
condizioni (artt. 49, comma 4, e 50, comma 1). Ancora, l’art. 78 prevede<br />
che se entro venti giorni dalla notifica della sentenza di condanna l’ente<br />
documenta l’attuazione dei modelli organizzativi e delle altre condizioni richieste<br />
dall’art. 17 ottiene la conversione delle sanzioni interdittive in sanzione<br />
pecuniaria. Infine, nell’ipotesi di nomina di un commissario giudiziario<br />
sostitutiva dell’applicazione della sanzione interdittiva che comporta l’interruzione<br />
dell’attività di cui all’art. 15, il commissario dovrà, tra le altre cose,<br />
provvedere all’adozione dei modelli ex art. 15, comma 3( 162 ).<br />
L’art. 6, comma 2, prevede che il modello organizzativo volto a prevenire<br />
i reati dei vertici deve possedere le seguenti caratteristiche( 163 ): a)<br />
individuare le attività dell’ente al cui interno possono essere commessi<br />
reati (c.d. mappatura del rischio)( 164 ), secondo un modello mutuato<br />
( 162 ) Cfr. R. Rordorf, op. cit., 1300; Id., La normativa sui modelli di organizzazione<br />
dell’ente, in AA.VV., Responsabilità degli enti per i reati commessi nel loro interesse, op. cit.,<br />
81. L’importanza del ruolo svolto dai modelli organizzativi nella disciplina della responsabilità<br />
da reato degli enti collettivi e la loro funzione di prevenzione del rischio reato all’interno<br />
delle aziende li ha resi oggetto di studio privilegiato da parte della dottrina penalistica ed<br />
aziendalistica: in argomento cfr., di recente, S. Bartolomucci, Corporate Governance e responsabilità<br />
delle persone giurfidiche. Modelli preventivi ad efficacia esimente ex d. lgs. n. 231<br />
del 2001, Milano, 2004; O. Di Giovine, La responsabilità degli enti: lineamenti di un nuovo<br />
modello di illecito punitivo, in AA.VV., Diritto e impresa: un rapporto controverso, a cura di<br />
A. Manna, Milano, 2004, 508 ss.; AA.VV., I modelli organizzativi ex d. lgs. 231/2001. Etica<br />
d’impresa e punibilità degli enti, a cura di C. Monesi, Milano, 2005; A. Iannini-G.M. Armone,<br />
Responsabilità amministrativa degli enti e modelli di organizzazione aziendale, Roma,<br />
2005.<br />
( 163 ) Negli Stati Uniti, le Guidelines del 1991 prevedono sette requisiti minimi che le<br />
imprese devono rispettare nella progettazione ed applicazione pratica dei compliance programs<br />
affinché possa ritenersi soddisfatto il dovere di diligenza: 1) la capacità di ridurre la<br />
possibilità di commettere reati; 2) la scelta di supervisori per l’attuazione del programma;<br />
3) la selezione dei dipendenti in base al criterio della ‘‘propensione al reato’’; 4) l’adozione<br />
di tecniche di comunicazione pedagogica del modello all’interno dell’impresa; 5) l’instaurazione<br />
di meccanismi di controllo e di canali di informazione interna; 6) la predisposizione di<br />
un apparato disciplinare; 7) l’adozione, una volta accertato un reato, di misure volte ad evitare<br />
il ripetersi di comportamenti criminosi (in argomento cfr. C. De Maglie, Sanzioni pecuniarie,<br />
op. cit., 139 ss.; Id., L’etica e il mercato, op. cit., 115 ss.; G. Capecchi, Le sentencing<br />
guidelines for organizations e i profili di responsabilità delle imprese nell’esperienza statunitense,<br />
inDir. comm. int., 1998, 471 ss.; E. Gilioli, op. cit., 52 s. Per un parallelo fra la<br />
disciplina italiana e quella statunitense v. G. Graziano, Modelli organizzativi: disciplina italiana<br />
e statunitense a confronto, in AA.VV., La responsabilità amministrativa degli enti, monografia<br />
di Dir. prat. soc., op. cit., 58 ss.).<br />
( 164 ) Tale requisito è stato così efficacemente definito: «in pratica, si richiede che l’impresa<br />
identifichi specifiche funzioni operative (per esempio, acquisti, vendite, investimenti,<br />
tesoreria, ecc.), oppure determinati mercati (per esempio, geografici, settoriali, a pronti o<br />
77
78<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
dal d. lgs. n. 626/1994 in materia di sicurezza del lavoro( 165 ); b) prevedere<br />
specifici protocolli finalizzati a procedimentalizzare la formazione e<br />
l’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire( 166 );<br />
c) individuare modalità di gestione delle risorse finanziarie adeguate a<br />
impedire la verificazione di reati; d) prevedere un flusso di informazioni<br />
obbligatorio verso l’organo di controllo che deve vigilare sul corretto funzionamento<br />
e l’osservanza del modello; e) introdurre un sistema disciplinare<br />
diretto a sanzionare la violazione delle misure contemplate dal modello.<br />
Con riferimento ai modelli organizzativi finalizzati alla prevenzione dei<br />
reati dei sottoposti, invece, la disciplina è più scarna. Essa si limita a prevedere<br />
che il modello, in relazione alla natura e alla dimensione dell’ente<br />
nonché al tipo di attività svolta, deve contenere misure idonee a garantire<br />
lo svolgimento dell’attività nel rispetto della legge e a individuare e rimuovere<br />
tempestivamente le situazioni di rischio (art. 7, comma 3). A tal fine,<br />
l’efficace attuazione del modello viene fatta dipendere da due requisiti: a)<br />
una manutenzione periodica del modello, realizzata per mezzo di un sistema<br />
di verifica ed aggiornamento in presenza di significative violazioni<br />
delle prescrizioni o di mutamenti nell’organizzazione o nell’attività; b) un<br />
sistema disciplinare idoneo a sanzionare le violazioni delle misure contenute<br />
nel modello (art. 7, comma 4).<br />
Apparentemente, dunque, le disposizioni normative sembrano indicare<br />
la necessità per l’ente di adottare due diversi modelli organizzativi,<br />
con caratteristiche strutturali differenziate in funzione dei potenziali soggetti<br />
attivi (vertici o sottoposti). In realtà, un’interpretazione funzionale<br />
delle due norme suggerisce di considerare il modello unitario, costituendo<br />
gli elementi di cui all’art. 6, comma 2, nient’altro che una specificazione<br />
a termine, governativi o privati ecc.), oppure determinati prodotti (per esempio, beni materiali<br />
o immateriali, servizi, condizioni di vendita ecc.) che si prestano più di altri all’ottenimento<br />
di vantaggi illeciti attraverso la violazione di una o più norme di legge» (S. Fortunato,<br />
op. cit., 281).<br />
( 165 ) Vi è altresì chi individua un’analogia fra i modelli organizzativi ex d. lgs. n. 231/<br />
2001 ed il piano di autocontrollo igienico sanitario di cui al d. lgs. n. 155/1997 (cfr. V. Pacileo,<br />
Autocontrollo igienico-sanitario nell’impresa alimentare e modelli di organizzazione<br />
aziendale: un confronto possibile tra d.lg. n. 155/97 e d.lg. n. 231/01, inCass. pen., 2003,<br />
2494 ss.).<br />
( 166 ) In sostanza, è necessario «prevedere per ciascuna area di rischio le specifiche procedure<br />
operative interne per la gestione delle fasi salienti di approvazione e di conduzione<br />
delle operazioni più sensibili; quindi, per procedere alla definizione delle procedure operative,<br />
occorrerà prima aver individuato in ciascuna attività a rischio sia la gamma di comportamenti<br />
che configurano tutte le potenziali irregolarità per un ampio spettro di possibili reati<br />
sia le funzioni aziendali e i processi coinvolti e infine, in ciascuna funzione e in ciascun processo,<br />
i possibili casi di transazione o comportamenti aziendali anomali, identificandone i segnali<br />
premonitori» (così S. Fortunato, op. cit., 282).
SAGGI E OPINIONI<br />
(minima) della clausola generale di cui all’art. 7, comma 3( 167 ). È evidente,<br />
infatti, che qualunque modello organizzativo deve essere forgiato<br />
in funzione della natura e della dimensione della societas, oltrechedel<br />
tipo di attività svolta (commerciale, industriale, finanziaria, ecc.), comportando<br />
tali fattori diverse scelte in termini di modalità di strutturazione del<br />
modello (delega di poteri ed estensione dei poteri delegati, natura e gradazione<br />
dei rischi di commissione dei reati giacché diverse possono essere<br />
le potenziali modalità attuative degli stessi)( 168 ). Inoltre, le pur innegabili<br />
differenze nelle procedure e nei controlli postulate dalla diversità dei soggetti<br />
attivi possono essere comunque salvaguardate e distinte nell’ambito<br />
di un’unica procedimentalizzazione di regole e comportamenti( 169 ).<br />
Stesso discorso deve farsi riguardo all’organo di controllo sul funzionamento<br />
e sull’aggiornamento del modello, espressamente richiesto dall’art.<br />
6, ma non dall’art. 7: un’interpretazione teleologica conduce necessariamente<br />
a ritenere l’organismo di vigilanza nient’altro che una specializzazione<br />
della funzione di controllo enunciata dall’art. 7, comma 2( 170 ),<br />
anche se vi è chi reputa che estendere la previsione dell’organo di vigilanza<br />
al modello organizzativo inerente i reati dei sottoposti equivalga<br />
ad introdurre un elemento impeditivo della fattispecie che non è ‘‘scritto’’<br />
nella legge, con conseguente violazione del principio di legalità, che ha tra<br />
( 167 ) In tal senso v. P. Sfameni, La responsabilità delle persone giuridiche: fattispecie e<br />
disciplina dei modelli di organizzazione, gestione e controllo, in AA.VV., Il nuovo diritto penale<br />
delle società, op. cit., 70s.<br />
( 168 ) Cfr. P. Sfameni, op. cit., 71. Di diverso avviso sono A. Frignani-P. Grosso-G.<br />
Rossi, La responsabilità, op. cit., 168 s., secondo cui la necessità di uno sdoppiamento dei<br />
modelli deriva dalla natura dualistica del sistema di responsabilità, dai differenti presupposti<br />
su cui si basa la responsabilità dell’ente in relazione ai reati commessi dai vertici e dai sottoposti<br />
e dalle diverse funzioni che i modelli dovranno svolgere nei due casi; F. Santi, op. cit.,<br />
330 s., il quale distingue fra modelli di primo (soggetti apicali) e di secondo livello (sottoposti),<br />
pur riconducendo entrambi i modelli al principio unitario dell’esigenza che tutta l’attività<br />
dell’ente, in ogni comportato o manifestazione, sia improntata a canoni etici comunemente<br />
condivisi e che siano adottate tutte le misure necessarie ad evitare la commissione<br />
di reati; la funzione e la struttura dei due modelli si diversificherebbero in virtù della differente<br />
natura, qualità e posizione nell’organizzazione dell’ente di apicali e sottoposti, dovendo<br />
il modello di secondo livello indicare le linee di comportamento di un soggetto che agisce per<br />
altri, che deve rendere conto e che è strumento di un decisore, quale è il soggetto apicale.<br />
( 169 ) Cfr. F. Maimeri, Controlli interni delle banche tra regolamentazione di vigilanza e<br />
modelli di organizzazione, inRiv. dir. comm., 2002, I, 622.<br />
( 170 ) Cfr. P. Sfameni, op. cit., 88. Vi è chi ritiene che dalla mancata previsione dell’organo<br />
di controllo nell’art. 7 possa desumersi la non imposizione di una competenza accentrata<br />
dell’organo di vigilanza con riferimento ai sottoposti, potendo in tal caso la funzione di<br />
vigilanza essere affidata ad altri organi e funzioni interne (dotati delle competenze necessarie<br />
ad assumere decisioni effettive), dato che la qualifica non apicale dei destinatari del modello<br />
non rende più necessaria una posizione di terzietà e indipendenza dei responsabili del controllo<br />
rispetto ai vertici aziendali (A. Frignani-P. Grosso-G. Rossi, op. ult. cit., 179).<br />
79
80<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
i suoi corollari il divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici(<br />
171 ).<br />
Occorre ora definire le nozioni di organizzazione, gestione e controllo.<br />
Il concetto di organizzazione è un concetto statico, che fa riferimento alla<br />
struttura, all’articolazione e alla progettazione delle funzioni (interne ed<br />
esterne all’impresa), delle responsabilità e dei processi decisionali: per prevenire<br />
la commissione di reati è necessario prima individuare le aree a rischio<br />
e poi al loro interno procedere a ridefinire l’organigramma delle funzioni<br />
e delle responsabilità, nonché i meccanismi decisionali( 172 ). Il concetto<br />
di gestione è invece un concetto dinamico, relativo sia alle modalità<br />
di assunzione delle decisioni che alle scelte di acquisizione e di utilizzazione<br />
delle risorse umane ed economico-finanziarie( 173 ). Cruciale al fine dell’efficacia<br />
del modello organizzativo è poi la funzione di controllo, costituita<br />
da un lato da meccanismi di controllo preventivo da innestare all’interno<br />
della struttura organizzativa e delle modalità gestionali dell’impresa (si<br />
pensi alla previsione della firma congiunta per il compimento di operazioni<br />
che superano una certa soglia o alla precauzione di evitare che l’intero procedimento<br />
di adozione di una decisione faccia capo ad un solo soggetto),<br />
dall’altro dall’organo di controllo, che ha il compito di segnalare le violazioni<br />
delle prescrizioni del modello e di proporre integrazioni e modificazioni<br />
per il suo aggiornamento( 174 ).<br />
L’art. 6, comma 3, prevede che i modelli organizzativi possono essere<br />
adottati sulla base di codici di comportamento redatti dalle associazioni<br />
rappresentative degli enti, comunicati al Ministero della giustizia, che<br />
può formulare, di concerto con gli altri ministeri competenti, osservazioni<br />
sulla loro idoneità( 175 ). Emerge così un sistema a tre livelli: il primo costituito<br />
dalle (volutamente) generiche previsioni dettate dal legislatore negli<br />
artt. 6 e 7, il secondo rappresentato dai codici di comportamento elaborati<br />
dalle associazioni di categoria ed il terzo consistente nei singoli modelli<br />
adottati da ciascun ente( 176 ). È chiaro che l’adeguamento dei modelli<br />
aziendali ai codici di comportamento – che le più importanti associazioni<br />
( 171 ) Così F. Santi, op. cit., 334 ss.<br />
( 172 ) Cfr. P. Sfameni, op. cit., 73. s.<br />
( 173 ) Cfr. P. Sfameni, op. cit., 74.<br />
( 174 ) Cfr. P. Sfameni, op. e loc. ult. cit. Quanto all’organo di controllo si è prospettato<br />
il rischio che un’interpretazione rigorista del ruolo di tale organismo determini forti rallentamenti,<br />
se non vere e proprie situazioni di stallo, nella gestione dell’ente (così A. Fiorella,<br />
Principi generali, op. cit., 13 s.).<br />
( 175 ) La procedura di validazione dei codici di comportamento è stata disciplinata dal<br />
D.M. 26 giugno 2003, n. 201, su cui v. O. Forlenza, Definiti i termini per valicare i codici di<br />
comportamento, inGuida normativa – Il Sole 24 Ore, 2003, n. 152, 15 s.; A. De Vivo, Luci e<br />
ombre sull’esenzione dell’ente dalla responsabilità, ivi, 17; F. Santi, op. cit., 276 ss.<br />
( 176 ) Cfr. R. Rordorf, op. ult. cit., 83s.
SAGGI E OPINIONI<br />
imprenditoriali italiane hanno tempestivamente predisposto( 177 ) – non determina<br />
alcuna automatica esclusione della responsabilità degli enti che li<br />
recepiscono, in quanto essi costituiscono delle semplici indicazioni di massima<br />
dirette a favorire uniformità di approccio e sensibilizzazione alle problematiche(<br />
178 ): ogni ente è tenuto ad adottare un modello individuale, costruito<br />
– come insegna la preziosa esperienza statunitense dei compliance<br />
programs – in base alle caratteristiche concrete dell’ente stesso, dovendosi<br />
perciò tener conto delle dimensioni dell’impresa (size of the organization),<br />
del tipo di attività esercitata (the nature of its business) e della storia precedente<br />
della società (prior history of the organization), fattore quest’ultimo<br />
che può contribuire all’individuazione dei punti deboli della gestione e suggerire<br />
quindi i correttivi da apportare per eliminare le disfunzioni interne(<br />
179 ); né alcun valore vincolante ha per il giudice la positiva valutazione<br />
ministeriale dei codici di comportamento( 180 ).<br />
In ultima analisi, spetta al giudice penale il sindacato sull’idoneità del<br />
modello organizzativo: egli deve verificare l’adeguatezza del modello a prevenire<br />
il rischio di commissione di reati all’interno dell’ente tramite il criterio<br />
della prognosi postuma, collocandosi mentalmente ex ante nel momento<br />
in cui, all’interno della realtà aziendale, si è verificato l’illecito penale(<br />
181 ). Il criterio è lo stesso utilizzato per verificare l’idoneità degli<br />
( 177 ) Tra le associazioni che hanno provveduto ad emanare i codici di comportamento<br />
si segnalano: CONFINDUSTRIA, ABI, ANCE, ANIA, ASSONIME, ASSOSIM, ASSO-<br />
BIOMEDICA. Tali documenti integrano i precetti normativi contenuti nel d. lgs. n. 231/<br />
2001 con le indicazioni provenienti dalla scienza aziendalistica e dalla migliore prassi internazionale.<br />
( 178 ) Sul punto cfr. S. Bartolomucci, Codici comportamentali di categoria, tra aspettative<br />
e reale portata normativa, inDir. prat. soc., 2003, n. 18, 37 ss., il quale rileva che «permane<br />
in capo al singolo associato il rischio della conformità e congruenza dei modelli concretamente<br />
adottati, pur uniformandosi alla raccomandazioni categoriali»; D. Pulitanó, La<br />
responsabilità ‘‘da reato’’ degli enti: i criteri di imputazione, op. cit., 438: «Linee guida di categoria<br />
possono aiutare il singolo ente nell’adempimento dei suoi doveri di buona organizzazione,<br />
ma non servono a risolvere il problema dell’eventuale colpa di organizzazione,<br />
con riferimento a vicende concrete di singoli enti». Critico nei confronti dei codici di comportamento<br />
è P. Bastia, op. cit., 55, il quale registra «l’incongruenza di fondo nel voler fare<br />
riferimento a codici prodotti all’esterno dell’azienda, da parte di associazioni, che naturalmente<br />
possono solo proporre degli standard generali che non potranno immediatamente<br />
adattarsi alle singole fattispecie aziendali, alle peculiarità organizzative, alle specificità gestionali»,<br />
rivestendo al più il ruolo di «linee guida utili per una progettazione a fini interni: da<br />
soli, infatti, essi rischieranno di risultare inefficaci allo scopo e dannosi in termini di burocratizzazione<br />
del sistema aziendale».<br />
( 179 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 369 s.<br />
( 180 ) In tal senso v. V. Salafia, La responsabilità delle società alla luce del D.M. n. 201/<br />
2003 e delle modifiche al D.Lgs. n. 231/2001, inLe soc., 2003, 1436, il quale nota altresì che<br />
la valutazione ministeriale «rappresenta un’autorevole opinione, che potrà certamente essere<br />
disattesa, in presenza però di valide giustificazioni».<br />
( 181 ) Cfr. G. Izzo, Sindacato giudiziario sull’idoneità dei modelli organizzativi, inIl fi-<br />
81
82<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
atti nel tentativo, per cui il giudice, al fine di accertare l’idoneità dei modelli<br />
organizzativi, dovrà calibrare il proprio giudizio sull’allocazione del rischio<br />
reato, sulle caratteristiche dell’ente (prassi operative, organigrammi,<br />
deleghe di funzioni) e su tutte le circostanze conosciute o conoscibili al momento<br />
della realizzazione del reato, vale a dire sulla capacità causale del<br />
modello di prevenire con un tasso apprezzabile di probabilità il reato concretamente<br />
verificatosi( 182 ). Va sans dire che il giudice, per esprimere<br />
questa valutazione, dovrà analizzare non solo il modello organizzativo generale,<br />
ma anche i singoli protocolli applicativi, che contengono previsioni<br />
molto più specifiche e dettagliate.<br />
In ogni caso, volendo descrivere sinteticamente un modello organizzativo<br />
ideale, si può pensare ad un articolato sempre formalizzato per iscritto,<br />
caratterizzato da regole chiare, precise ed espresse in un linguaggio non<br />
complesso e comprensibile a tutto il personale dell’impresa( 183 ).<br />
Deve inoltre essere stigmatizzata una grave lacuna concernente la disciplina<br />
dei modelli organizzativi: l’assenza, fra le norme che disciplinano<br />
il procedimento a carico dell’ente, di una norma che garantisca la segretezza<br />
di tutto il materiale istruttorio utilizzato per la preparazione del modello<br />
organizzativo (documenti, informazioni, colloqui, ispezioni, ecc.), la<br />
cui divulgazione potrebbe avere ripercussioni negative per l’ente (si pensi<br />
alla cattiva pubblicità o all’avvio di procedimenti penali per reati che hanno<br />
segnato il passato della persona giuridica)( 184 ).<br />
b) L’impatto sul sistema delle imprese<br />
A distanza di oltre tre anni dall’introduzione della responsabilità da<br />
sco, 2002, n. 44, 16504 s.; C. Piergallini, Societas delinquere et puniri non potest : la fine<br />
tardiva di un dogma, op. cit., 591. Fortemente critico nei confronti dell’utilizzo del criterio<br />
della prognosi postuma è S. Vinciguerra, Quale specie di illecito?, op. cit., 216 s., secondo<br />
cui «un giudizio del genere è, nel caso degli enti, uno pseudo giudizio. Infatti, nel caso del<br />
tentativo il delitto non si consuma e, quindi, ha senso chiedersi se, nonostante ciò, gli atti<br />
compiuti fossero suscettibili di sfociare nella consumazione (...). Invece, nel caso dell’ente,<br />
come si potrà dimostrare che il modello era idoneo a prevenire il reato, dal momento che<br />
nei fatti si è rivelato inadeguato, essendo il reato avvenuto?»; sulla base di questa considerazione,<br />
l’autore si dichiara contrario all’attribuzione di una funzione esimente ai modelli organizzativi.<br />
F. Giunta, op. cit., 15, mette giustamente in guardia dal rischio di pretendere<br />
che l’ente plasmi il modello «non già sulle caratteristiche del tipo di impresa, bensì unicamente<br />
alla stregua dei parametri della prevedibilità ed evitabilità dei reati, sì da ottenere il<br />
modello che avrebbe saputo delineare col senno di poi l’esperto universale. Si sa infatti<br />
che tutto o quasi è prevedibile da parte della migliore scienza ed esperienza, e che quanto<br />
è prevedibile è per lo più evitabile».<br />
( 182 ) Cfr. G. Izzo, op. cit., 16505.<br />
( 183 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 370.<br />
( 184 ) L’importante rilievo è diC. De Maglie, La disciplina, op. cit., 1352; Id., L’etica e<br />
il mercato, op. cit., 339, 372 s.
SAGGI E OPINIONI<br />
reato degli enti, ci si deve interrogare su quale sia stato l’impatto pratico<br />
della disciplina, ed in particolare dei modelli organizzativi, sul sistema delle<br />
imprese italiano.<br />
In un primo momento, immediatamente successivo all’entrata in vigore<br />
del d. lgs. n. 231/2001, si è verificata una fisiologica fase di transizione<br />
durante la quale le imprese – in attesa di predisporre i modelli organizzativi<br />
– hanno rispolverato o attivato i codici etici( 185 ), contenenti prescrizioni di<br />
stampo morale, da sempre oggetto di aspra contestazione da parte della<br />
dottrina europea perché privi di un meccanismo di coazione giuridica e<br />
dunque considerati uno strumento con cui le società ‘‘ripuliscono’’ la propria<br />
immagine di fronte ai consumatori ed alle istituzioni( 186 ). Tuttavia, nonostante<br />
l’assenza di dati statistici ufficiali, un’analisi empirica consente di<br />
affermare che, superato questo periodo intermedio, solo un ridotto numero<br />
di aziende ha adottato i modelli organizzativi. Essi sono stati recepiti<br />
per ora soprattutto da società di dimensioni grandi o medio-grandi: si<br />
tratta per lo più di banche, società quotate in borsa e società di intermediazione<br />
mobiliare (Sim), le quali sono state facilitate dal fatto di possedere già<br />
al proprio interno la funzione di internal auditing( 187 ) – finalizzata al con-<br />
( 185 ) Cfr. P. Severino, op. cit., 38. A titolo meramente esemplificativo si segnalano,<br />
tra quelli adottati o modificati da aziende italiane dopo l’entrata in vigore del d. lgs. n.<br />
231/2001, i seguenti codici etici: ENEL s.p.a., Codice Etico, 2002, in www.enel.it; BASIC<br />
NET s.p.a., Codice etico di comportamento, 2003, in www.basicnet.com/html/gruppo.asp;<br />
BANCA POPOLARE DI PUGLIA E BASILICATA s.p.a., Codice etico della Banca Popolare<br />
di Puglia e Basilicata ai sensi del decreto legislativo n. 231/01, 2003, in www.bankpulias.it;<br />
ENI s.p.a., Codice di comportamento, 1998, 2003 (aggiornamento), in www.eni.it;<br />
GRUPPO EDITORIALE L’ESPRESSO s.p.a., Codice etico, 2003, in download.kataweb.it/gruppoespresso/codicetico.pdf;<br />
GRUPPO IMPREGILO, Codice etico, 2003, in www.impregilo.it/impregiloist.<br />
Sulla diversa funzione svolta dai codici etici e dai modelli organizzativi<br />
cfr. IMPREGILO s.p.a., Modello di organizzazione e di gestione, 2003, in www.impregilo.it/<br />
impregiloist, 11: «Il modello risponde all’esigenza di prevenire, per quanto possibile, la commissione<br />
dei reati (...) attraverso la predisposizione di regole di comportamento specifiche.<br />
Da ciò emerge chiaramente la differenze con il Codice Etico, che è strumento di portata generale,<br />
finalizzato alla promozione di una ‘‘deontologia aziendale’’ ma privo di una specifica<br />
proceduralizzazione». Peraltro, non è infrequente che le imprese adottino sia il codice etico<br />
che il modello organizzativo.<br />
( 186 ) In tal senso cfr. G. Rossi, L’etica degli affari, inRiv. soc., 1992, 541, il quale –<br />
constatando che i comportamenti delle grandi corporations americane non obbediscano minimamente<br />
a principî etici – osserva come sia difficile «ritenere del tutto infondato il sospetto<br />
che l’emanazione dei codici etici costituisca una sorta di tentativo estremo di salvataggio<br />
dell’immagine sociale dell’impresa, allo scopo di legittimare a tutti i costi e in tutti i settori il<br />
suo operare». Sui codici etici negli Stati Uniti v. C. De Maglie, Sanzioni pecuniarie, op. cit.,<br />
130 ss.; Id., L’etica e il mercato, op. cit., 104 ss.<br />
( 187 ) Cfr. P. Bastia, op. cit., 54: «L’osservanza di queste prescrizioni può più facilmente<br />
essere realizzata da quelle imprese già attrezzate in termini di strumenti di pianificazione e<br />
controllo della gestione, il cui management ha confidenza con l’impiego di supporti di pianificazione<br />
per le decisioni. Diversamente, nelle ancora numerose aziende italiane ancorate<br />
83
84<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
trollo della correttezza, dell’efficacia e dell’efficienza della gestione( 188 )–<br />
che presenta importanti analogie con i compliance programs. Particolarmente<br />
evidenti sono i punti di contatto con la struttura organizzativa delle<br />
banche, che è da tempo funzionalizzata a porre in essere una serie di procedure<br />
indirizzate a conseguire una gestione complessivamente sana, e<br />
quindi ad evitare l’insorgere di rischi di commissione di reati: infatti, elementi<br />
quali la procedimentalizzazione delle attività a rischio, il loro monitoraggio,<br />
l’adeguamento del sistema di controllo e il reporting ai vertici<br />
fanno già parte integrante dell’internal auditing bancario( 189 ). Non devono<br />
però sfuggire le pur importanti differenze che sussistono fra i due modelli:<br />
il sistema di controllo interno è finalizzato alla prevenzione di reati commessi<br />
dai dipendenti a danno della banca, mentre i modelli organizzativi<br />
ad una gestione informale, con processi decisionali spontanei e destrutturati, l’impatto di<br />
modelli formali per le decisioni può risultare alquanto impegnativo».<br />
( 188 ) Per una definizione del controllo operativo nelle banche cfr. ABI, Sistemi di<br />
Controllo Interno ed evoluzione dell’Internal Auditing, Roma, 1999, ove per controllo operativo<br />
si intende «l’insieme dei processi finalizzati a fornire una ragionevole certezza che<br />
tutte le attività della Banca nei vari settori si svolgano nel rispetto formale e sostanziale delle<br />
statuizioni legislative, regolamentari, di normativa secondaria nonché di autoregolamentazione<br />
nella più ampia accezione del termine; che le stesse siano volte alla tutela del patrimonio<br />
e alla garanzia della veridicità e significatività dei dati contabili». Negli Stati Uniti,<br />
per fronteggiare le pratiche illegali delle imprese, alcune grandi associazioni (American Institute<br />
of Certified Public Accountants, American Accounting Association, The Institute of<br />
Internal Auditors, Financial Executive Institute) hanno creato una commissione di studio<br />
(Committee of Sponsorising Organizations of the Treadway Commission) con il compito di<br />
individuare le cause del fenomeno e di formulare possibili soluzioni; nel 1992 la commissione<br />
ha elaborato uno studio confluito in un documento noto come CoSo Report, che rappresenta<br />
un punto di riferimento importante per dare vita ad un adeguato sistema di controllo<br />
interno. Sulla scorta dell’esperienza statunitense, nel nostro paese è stato elaborato il<br />
Codice di autodisciplina adottato dal Comitato per la Corporate Governance delle società<br />
quotate presso la Borsa italiana nel 1999 ed aggiornato nel 2002, in cui il controllo interno<br />
viene concepito come processo svolto dal consiglio di amministrazione, dall’alta dirigenza e<br />
dagli operatori della struttura aziendale al fine di fornire una ragionevole sicurezza sulla<br />
realizzazione dei seguenti obiettivi: 1) efficacia ed efficienza delle attività operative; 2) attendibilità<br />
delle informazioni di bilancio; 3) conformità alle leggi e ai regolamenti in vigore<br />
(cfr. F. Santi, op. cit., 307 s.). Cfr. altresì P. Montalenti, Corporate Governance, consiglio<br />
di amministrazione, sistemi di controllo interno: spunti per una riflessione, inRiv. soc.,<br />
2002, II, 821 ss., secondo cui il sistema di controllo interno «È mirato, in definitiva, a garantire<br />
il rispetto delle regole sia legislative (si pensi alla normativa contabile, alla disciplina<br />
sulla sicurezza del lavoro, alla legislazione sulla privacy) sia private (si pensi ai codici etici) e<br />
il perseguimento degli obiettivi di efficienza ed efficacia compendiati, oggi, nella formula<br />
shareholder value».<br />
( 189 ) Cfr. F. Maimeri, op. cit., 622; ABI, Linee guida, cit., 363: «tali regole – contenute<br />
in ordini di servizio, normative aziendali, codici di autodisciplina, codici deontologici, codici<br />
disciplinari, ecc. – già di per sé possono costituire dei modelli organizzativi o quantomeno la<br />
base precettiva di ciò che è un modello organizzativo secondo il d. lgs. n. 231/2001».
SAGGI E OPINIONI<br />
sono diretti a prevenire la commissione di reati da parte dei vertici o dei<br />
sottoposti nell’interesse o a vantaggio dell’ente( 190 ).<br />
In generale si può dire che le grandi aziende, sia per una questione di<br />
costi che per il loro assetto organizzativo già collaudato nella gestione di<br />
processi di risk management edirisk assessment, sono sicuramente più predisposte<br />
delle piccole a dotarsi dei modelli organizzativi, per cui, essendo il<br />
tessuto produttivo del nostro paese caratterizzato da una larga prevalenza<br />
delle aziende piccole e medie, si spiega facilmente il basso livello di diffusione<br />
dei modelli organizzativi finora raggiunto. La lentezza nell’adeguarsi<br />
da parte del sistema imprenditoriale italiano può essere ascritta altresì a<br />
motivi culturali: la partecipazione delle imprese in prima persona alla prevenzione<br />
dei reati, attraverso l’adozione di adeguate misure interne che costituiscono<br />
un’iniezione di etica degli affari diretta alla protezione degli interessi<br />
degli stakeholders( 191 ), rappresenta una novità di portata tale da richiedere<br />
un certo tempo per essere compresa, metabolizzata e recepita dal<br />
capitalismo italiano, tra i cui valori ispiratori di fondo non rientra certo l’etica<br />
calvinista dei paesi anglosassoni( 192 ). I recenti scandali finanziari che<br />
hanno investito gli Stati Uniti spingono tuttavia a rifuggire dall’idea che<br />
( 190 ) Cfr. F. Maimeri, op. cit., 623.<br />
( 191 ) Con riferimento ai codici etici – ma il discorso vale a fortiori per i modelli organizzativi<br />
– è stato sottolineato che essi possono contribuire, in un sistema di economia di<br />
mercato, ad assicurare il rispetto del limite dell’utilità sociale che l’art. 41 Cost. pone all’iniziativa<br />
economica esplicando una duplice funzione: a) l’integrazione della disciplina positiva,<br />
attraverso un’autodisciplina privata che può anticipare e guidare l’intervento del legislatore,<br />
nonché surrogarlo nelle materie che mal si prestano a regolamentazioni troppo generali e<br />
astratte; b) agevolare e garantire l’osservanza della legge positiva; in ultima analisi, «Un’aperta<br />
professione di principî e di criteri operativi eticamente fondati, debitamente ufficializzata,<br />
sembra singolarmente idonea a bonificare la mentalità dominante in azienda, aprendola ai<br />
valori della legalità e del civismo» (così C. Pedrazzi, Codici etici e leggi dello Stato, in<br />
Riv. trim. dir. pen. ec., 1993, 1050 s.). In senso critico v. però G. Rossi, op. cit., 539, il quale<br />
evidenzia che «Il disagio insito nel voler dare un contenuto etico ai comportamenti imprenditoriali<br />
affiora soprattutto quando le istituzioni e le strutture fondamentali del sistema appaiono<br />
insufficienti a colpire atti riprovevoli non solo e non tanto sotto il profilo etico, bensì<br />
ai fini della sopravvivenza del sistema stesso. In questo caso si ricorre al concetto dell’‘‘eticatampone’’,<br />
dell’etica cioè alla quale ci si affida per evitare che il sistema del capitalismo entri<br />
in una fase critica irreversibile e perda il consenso dei consociati e perciò ogni legittimazione<br />
sociale, che andrebbe, a quel punto, ricercata al di fuori della sua logica di sviluppo». Dalle<br />
considerazioni dell’illustre autore discende che il ricorso ad un sistema di regole etiche nel<br />
governo delle imprese deve costituire un dato strutturale, un vero e proprio principio fondante<br />
del capitalismo moderno e non il risultato di un’adesione episodica e di facciata: i modelli<br />
organizzativi, a differenza dei codici etici, essendo caratterizzati dal crisma della giuridicità,<br />
hanno le potenzialità per realizzare questa svolta.<br />
( 192 ) Cfr. B. Assumma, Principi e fondamenti della responsabilità amministrativa degli<br />
enti, in AA.VV., La responsabilità amministrativa della società e degli enti, Atti del Convegno<br />
di studi tenuto a Roma – Lido di Ostia, op. cit., 10: «le aziende si trovano a fronteggiare una<br />
cultura penalistica, una cultura sanzionatoria ovviamente estranea alla loro tradizione».<br />
85
86<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
il ricorso ai compliance programs sia la panacea per tutti i mali( 193 ): occorre<br />
essere consapevoli che i modelli organizzativi costituiscono un utile strumento<br />
di prevenzione della criminalità di impresa, ma il cui successo è comunque<br />
legato all’orientarsi dell’intero sistema-paese verso la cultura della<br />
legalità( 194 ).<br />
Quanto al problema dei costi, è stato paventato il pericolo che, sulla<br />
base di un’analisi costi-benefici, le aziende rinuncino all’adozione del<br />
modello tutte le volte in cui i costi per la sua implementazione siano superiori<br />
a quelli che deriverebbero dalla commissione del reato (in termini<br />
di sanzioni pecuniarie e/o interdittive e di pubblicità negativa presso l’opinione<br />
pubblica)( 195 ). La soglia concettuale di accettabilità del rischio,<br />
che l’art. 6, comma 1, indica nella creazione di un sistema di prevenzione<br />
tale da non poter essere aggirato se non fraudolentemente, dovrà<br />
dunque essere necessariamente identificata con quella in cui i controlli<br />
aggiuntivi rispetto al livello predisposto ‘‘costano’’ più della risorsa da<br />
proteggere( 196 ). In applicazione del principio ad impossibilia nemo tenetur,<br />
nonèesigibile – anche perché distorsivo del mercato – «destinare<br />
risorse finanziarie ingenti e sproporzionate rispetto alla dimensione economico-patrimoniale<br />
dell’ente, per finalizzarle al raggiungimento di un<br />
ideale assoluto di perfezione rispetto alla astratta possibilità di evitare<br />
la commissione di reati»( 197 ). L’utilizzo di questo parametro di ragionevolezza<br />
consente di scongiurare il pericolo di un’eccessiva burocratizzazione<br />
delle imprese.<br />
( 193 ) Cfr. V. Nobili, La responsabilità sociale e la responsabilità penale delle imprese,<br />
2003, in www.feem.it (sito della Fondazione Eni Enrico Mattei), 18 s., che evidenzia l’incapacità<br />
dimostrata dai compliance programs nel prevenire reati economico-finanziari come<br />
quelli che hanno caratterizzato il caso Enron (società che era dotata di un modello organizzativo).<br />
( 194 ) Per considerazioni simili inerenti il ruolo dei Codes of best practice rispetto alla<br />
gestione delle public companies cfr. P. Montalenti, op. cit., 837 ss.<br />
( 195 ) Cfr. A. Bernardo, La responsabilità amministrativa delle società alla prova dei<br />
fatti, inDir. prat. soc., 2004, n. 6, 30: «Poiché ogni innovazione strutturale e procedimentale<br />
comporta costi significativi, in termini economici e organizzativi, il rischio è che le imprese, a<br />
seguito della cost-benefit analysis, scelgano di assumersi il rischio di un futuro processo, piuttosto<br />
che investire in una ristrutturazione gravosa e di dubbia efficacia»; Id., Prime pronunce<br />
sulla responsabilità amministrativa di società ed enti, ivi, n. 21, 27.<br />
( 196 ) Cfr. Confindustria, Linee guida, cit., 8;A. Bernardo, op. ult. cit., 30.<br />
( 197 ) A. Carmona, op. cit., 218. Cfr. inoltre S. Bartolomucci, Prevenzione dei<br />
reati d’impresa e interesse dell’ente all’esenzione da responsabilità, in AA.VV., La responsabilità<br />
amministrativa degli enti, monografia di Dir. prat. soc., op. cit., 55, il quale rileva<br />
che «È indispensabile evitare posizioni estreme, come dar vita ad una sterile raccolta di<br />
principî vaghi e astratti, capaci di burocratizzare i processi dilatandone i tempi, inducendo<br />
al discarico della responsabilità i centri decisionali o, all’opposto, costruire un rigido<br />
reticolo di passaggi obbligati che ingessano l’operatività dell’impresa a danno della sua<br />
competitività».
SAGGI E OPINIONI<br />
Si può dire che se da un lato un certo aumento dei costi organizzativi e<br />
di controllo è inevitabile, dall’altro lato un’azienda che ispira la propria cultura<br />
aziendale alla correttezza e alla legalità dell’amministrazione può interpretare<br />
questi valori fondamentali come risorse strategiche che contribuiscono<br />
al suo successo di lungo periodo( 198 ). Pertanto, per l’azienda investire<br />
nel modello organizzativo è come investire in risorse destinate allo<br />
sviluppo dell’efficienza, dell’efficacia e della qualità, senza contare i vantaggi<br />
indiretti derivanti dalla reputazione favorevole che nel consorzio sociale<br />
circonda le imprese che si dotano di sistemi per la prevenzione dei<br />
reati( 199 ). Quello che emerge è un legame fra redditività dell’impresa ed<br />
etica aziendale, in cui quest’ultima non è più concepita come un costo,<br />
bensì come un investimento in termini di capacità competitiva, autorevolezza,<br />
integrazione sociale dei soggetti economici: se l’etica è un buon affare,<br />
allora il ruolo della business ethics va ripensato: non più valore esterno all’economia,<br />
ma strumento strategico, strettamente connesso alla capacità<br />
dell’impresa di creare valore rispettando i valori( 200 ). I modelli organizzativi<br />
possono dunque svolgere un ruolo importante ai fini dell’affermazione<br />
della c.d. Corporate Social Responsibility, cioè di quella responsabilità sociale<br />
d’impresa (Rsi) in base alla quale le aziende non devono avere come<br />
fine esclusivo la produzione del massimo profitto possibile (c.d. massimo<br />
economico), ma devono tenere conto anche degli interessi dei numerosi stakeholders<br />
interni ed esterni all’impresa (azionisti, management, dipendenti,<br />
fornitori, sindacati, consumatori, associazioni, comunità-locali, università,<br />
ecc.), perseguendo altresì finalità ambientali e sociali (c.d. sviluppo sostenibile):<br />
il punto di incontro fra l’esigenza di creare profitto e quella di rispondere<br />
ad istanze sociali viene definito ottimo economico( 201 ); a questo pro-<br />
( 198 ) Cfr. P. Bastia, op. cit., 56; G.B. Alberti, Fondamenti aziendalistici della responsabilità<br />
degli enti ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, inLe soc., 2002, 542: «La presenza in<br />
un’organizzazione di una cultura del controllo e della regolarità èa sua volta presupposto<br />
fondamentale per l’esistenza di una cultura dello sviluppo e della creazione di valore».<br />
( 199 ) Cfr. P. Bastia, op. e loc. ult. cit.<br />
( 200 ) Per una approfondita analisi di questa concezione cfr. A. Marra, L’etica aziendale<br />
come motore di progresso e di successo, Milano, 2002, passim.<br />
( 201 ) Il concetto di Corporate Social Responsibility nasce in seguito all’elaborazione,<br />
nella seconda metà degli anni ottanta, della teoria dell’impresa basata sul modello degli stakeholders<br />
ad opera degli americani W. Evan e E. Freeman. Fondamento di tale teoria è l’imperativo<br />
categorico kantiano secondo cui le persone devono essere trattate come fini in sé e<br />
non come mezzi per il perseguimento di un determinato fine. Questa concezione si contrappone<br />
alla teoria degli stockholders – che peraltro ha formato la cultura imprenditoriale italiana<br />
degli anni settanta e ottanta – in base alla quale l’impresa è responsabile esclusivamente<br />
nei confronti degli azionisti (gli stockholders) in quanto portatori di capitale, mentre gli stakeholders<br />
sono solo dei mezzi per il raggiungimento del profitto e le questioni sociali, ambientali<br />
ed etiche un mero costo aggiuntivo che nuoce all’impresa. La logica della teoria degli<br />
stakeholders è che l’impresa deve essere orientata verso il perseguimento non solo del pro-<br />
87
88<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
posito è importante sottolineare che il tema della responsabilità sociale<br />
delle imprese non è più appannaggio esclusivo del mondo degli studiosi,<br />
ma è ormai entrato nell’agenda degli obiettivi della comunità internazionale<br />
e delle istituzioni europee: si pensi al Global Compact( 202 ) presentato nel<br />
luglio del 2000 dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan,<br />
oalLibro Verde predisposto nel 2001 dalla Commissione europea( 203 ).<br />
fitto per gli azionisti, ma anche di istanze sociali da realizzare attraverso il soddisfacimento<br />
degli interessi degli stakeholders con cui essa interagisce. In argomento cfr. V. Nobili, op.<br />
cit., 2 ss., la quale rileva come affinché i codici etici – che costituiscono lo strumento di attuazione<br />
della Corporate Social Responsibility – non diventino dei prodotti preconfezionati di<br />
marketing aziendale che consentono alle imprese di rifarsi l’immagine è necessario che essi<br />
siano il frutto di un duplice processo di negoziazione: uno interno, con le associazioni di categoria,<br />
e soprattutto uno esterno, con il personale interno all’azienda, che consenta ai valori<br />
e ai precetti del codice etico di essere condivisi e sentiti come propri non solo dai dirigenti<br />
ma anche dai dipendenti, garantendone in tal modo l’effettività; l’esperienza italiana e quella<br />
statunitense in materia di codici etici avuta fino ad ora ha però dimostrato che questo circuito<br />
virtuoso non si è realizzato per problemi di costi, di incapacità organizzativa delle aziende<br />
e soprattutto di asimmetrie informative che hanno consentito alle imprese che hanno tenuto<br />
comportamenti opportunistici di non essere punite dal mercato e a quelle rispettose di modelli<br />
di responsabilità sociale di non essere premiate. Si vedano altresì i contributi di F. D’Alessandro,<br />
La responsabilità sociale delle imprese: un contributo per un nuovo modello di<br />
‘‘governance’’, inIter legis, 2003, 103 ss.; L. Sacconi, Etica e responsabilità sociale dell’impresa:<br />
cosa accomuna e cosa distingue l’impresa sociale dalle altre imprese, in AA.VV., Qualità<br />
come strategia dell’impresa sociale di comunità, a cura di G. Scaratti e G. Farinotti, Milano,<br />
2003, 71 ss.; Id., Responsabilità Sociale come Governance allargata d’impresa: una interpretazione<br />
basata sulla teoria del contratto sociale e della reputazione, in AA.VV., La responsabilità<br />
sociale dell’impresa, vol. I (Persone, Impresa e Società), a cura di G. Rusconi e M. Dorigatti,<br />
Milano, 2004, 107 ss.; R. Del Punta, Per un’impresa ‘‘responsabile’’, 7 marzo 2005, in<br />
www.lavoce.info, 1 s.; P. Garibaldi-F. Panunzi, Responsabilità sociale d’impresa, ma<br />
non per legge, 7 marzo 2005, ivi, 1 s., i quali evidenziano che quando Rsi e massimizzazione<br />
del valore d’impresa vanno nella stessa direzione, non esiste alcun trade-off e non vi sono ragioni<br />
per opporsi all’attuazione della Rsi (ma in tal caso non vi sarebbe nemmeno la necessità<br />
che lo Stato incoraggi la Rsi), mentre i problemi nascono nel caso in cui la Rsi e la massimizzazione<br />
del valore d’impresa sono (anche solo parzialmente) in conflitto tra loro: al riguardo<br />
la letteratura economica individua tre difficoltà a cui va incontro il perseguimento degli interessi<br />
degli stakeholders diversi dagli azionisti: 1) il pericolo che venga meno il finanziamento<br />
aziendale da parte degli azionisti, 2) il rischio di rendere l’attività imprenditoriale ingestibile<br />
a causa del coinvolgimento dei diversi stakeholders, 3) la difficoltà (dovuta a problemi di<br />
misurabilità delle performance) di controllare il management nel perseguimento degli obiettivi<br />
di Rsi.<br />
( 202 ) Il Global Compact è un documento che invita le imprese ad aderire a nove principî<br />
universali nelle aree dei diritti umani, delle condizioni di lavoro e dell’ambiente: per approfondimenti<br />
si rinvia a www.unglobalcompact.org.<br />
( 203 ) Il Libro Verde definisce la Rsi come «l’integrazione su base volontaria, da parte<br />
delle imprese, delle preoccupazioni sociali ed ecologiche nelle loro operazioni commerciali<br />
e nei rapporti con le parti interessate». La Commissione europea ha inoltre emanato nel luglio<br />
del 2002 una articolata e dettagliata Comunicazione intitolata Responsabilità sociale delle<br />
imprese: un contributo delle imprese allo sviluppo sostenibile, consultabile all’indirizzo internet<br />
europa.eu.int/comm/employment/soc-dial/csr/csr2002_it. Sull’attività delle istituzioni co-
SAGGI E OPINIONI<br />
A un livello più generale, inoltre, l’adozione dei modelli organizzativi,<br />
in virtù del suddetto effetto reputazione e della riduzione dei comportamenti<br />
opportunistici, favorirà l’efficienza del mercato( 204 ): la diffusione capillare<br />
dei compliance programs tra le imprese costituirà quindi «una rete di<br />
legalità a sostegno del mercato»( 205 ).<br />
Sono poi evidenti i riflessi che l’adozione dei modelli organizzativi ha<br />
sulla corporate governance, intendendo questa espressione non genericamente<br />
come sistema con il quale le società sono amministrate e controllate,<br />
bensì in un’accezione più ampia, che richiama un fascio di problemi: il governo<br />
della società ed i mezzi per garantire un’efficiente allocazione del<br />
controllo delle imprese, i rimedi in grado di contemperare gli interessi degli<br />
amministratori con quelli degli azionisti (incremento dello shareholder’s<br />
value) e, più in generale, degli stakeholders, evitando – o quantomeno minimizzando<br />
– i comportamenti opportunistici dei managers ed i conseguenti<br />
agency costs( 206 ). È vero che i modelli organizzativi sono principalmente<br />
volti a prevenire la commissione di reati i cui effetti si riverberano<br />
sulla collettività quale conseguenza dell’attività di impresa, ma esigenze<br />
come la separatezza tra gestione e controllo o la costruzione di strutture<br />
dedicate all’audit interno della produzione e dell’impiego di risorse finanziarie<br />
creano inevitabilmente aree di possibile sovrapposizione( 207 ).<br />
A questo proposito, la dottrina più accorta ha tempestivamente messo<br />
munitarie in materia di Corporate Social Responsibility cfr. F. Sciaudone, Iniziative comunitarie<br />
in tema di responsabilità sociale delle imprese: prime riflessioni, inDir. pub. comp.<br />
eur., 2003, 1419 ss. Il Governo italiano, da parte sua, si è reso protagonista di un’azione a<br />
sostegno della Rsi, tramite la presentazione del Progetto Csr-Sc alla Conferenza europea<br />
di Venezia del novembre 2003 nel corso del semestre di presidenza italiano; in attuazione<br />
di tale progetto sono stati stipulati, nel corso del biennio 2003-2004, vari protocolli di intesa<br />
fra il Governo e alcune associazioni di categoria (quali, ad esempio, Unioncamere, Confapi,<br />
Assolombarda, Associazione nazionale dei consulenti del lavoro) al fine di diffondere tra gli<br />
associati la cultura della Rsi.<br />
( 204 ) Cfr. P. Bastia, op. e loc. ult. cit.<br />
( 205 ) A. Carmona, op. cit., 222.<br />
( 206 ) Cfr. A. Alessandri, Corporate Governance nelle società quotate: riflessi penalistici<br />
e nuovi reati societari,inGiur. comm., 2002, I, 524. Vi è chi acutamente ha osservato come,<br />
nel caso in cui proprietà e controllo non siano separati (come prevalentemente avviene nel<br />
capitalismo italiano), le regole di corporate governance devono essere completamente differenti<br />
rispetto a quelle adottabili nelle public companies, seèvero che «ogni sistema di corporate<br />
governance deve (...) tenere conto delle condizioni sociali, economiche, legali e politiche<br />
nelle quali andrà ad operare» e che «comportamenti passati sono estremamente resistenti a<br />
qualunque raccomandazione di buon governo societario, come dimostra la circostanza che,<br />
sebbene le discipline previste da paesi anche lontanissimi quali Giappone, Gran Bretagna,<br />
Italia e Russia non siano radicalmente differenti in termini di struttura, i risultati a cui conducono<br />
sono profondamente diversi» (così G. Rossi, Le c.d. regole di «corporate governance»<br />
sono in grado di incidere sul comportamento degli amministratori?, inRiv. soc., 2001, I,<br />
18 s.).<br />
( 207 ) Cfr. A. Alessandri, op. ult. cit., 547.<br />
89
90<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
in evidenza una serie di problematiche applicative con cui la prassi – come<br />
si vedrà attraverso l’esame di singoli modelli organizzativi – si è già confrontata.<br />
In primo luogo, ci si è chiesti da chi debba essere adottato il modello<br />
organizzativo. Vi è chi ritiene che in assenza di qualunque indicazione da<br />
parte del legislatore su quale organo – se l’assemblea o il consiglio di amministrazione<br />
– debba procedere all’adozione del modello, vi sia in materia<br />
un’ampia autonomia di scelta( 208 ). Secondo un’opinione più rigorosa, invece,<br />
l’introduzione di un organo di controllo ad hoc o l’adeguamento<br />
dei doveri e delle competenze del collegio sindacale in funzione della creazione<br />
di un organo di vigilanza, introducendo nella disciplina della società<br />
un elemento strutturale, dovrebbe trovare collocazione tra le norme sul<br />
funzionamento della società contenute nello statuto ex art. 2328, ultimo<br />
comma, c.c., con la conseguenza che spetterebbe all’assemblea adottare<br />
il modello organizzativo( 209 ). La soluzione migliore sembra però quella seguita<br />
dalla prassi aziendale – peraltro avallata dalla giurisprudenza – da cui<br />
è emerso che l’adozione del modello è avvenuta invariabilmente ad opera<br />
del consiglio di amministrazione, in linea, del resto, con quanto l’espressione<br />
«organo dirigente» di cui all’art. 6, comma 1, lett. a) sembra indicare(<br />
210 ).<br />
Gli interrogativi maggiori sono sorti in relazione all’organo di con-<br />
( 208 ) Cfr. A. Frignani-P. Grosso-G. Rossi, I modelli, op. cit., 147.<br />
( 209 ) Cfr. R. Rordorf, op. ult. cit., 86.<br />
( 210 ) Cfr. ABI, Linee guida, cit., 364 s.; Trib. Roma, Ufficio G.I.P., Ord. 4 aprile 2003,<br />
in Cass. pen., 2003, 2803 ss., nonché inGuida al diritto, 2003, n. 31, 66 ss., con commento di<br />
G. Amato, Con l’eliminazione delle situazioni di rischio le misure cautelari diventano superflue,<br />
einRiv. trim. dir. pen. ec., 2004, 293 ss., con nota di A. Nisco, Responsabilità amministrativa<br />
degli enti: riflessioni sui criteri ascrittivi soggettivi e sul nuovo assetto delle posizioni<br />
di garanzia nelle società, il quale sul punto – premesso che stante la tassatività delle attribuzioni<br />
assembleari emergente dal nuovo art. 2364, comma 1, n. 5 c.c., la validità di un modello<br />
organizzativo adottato con delibera del consiglio di amministrazione non può essere messa in<br />
discussione – rileva: «È evidente che siamo in una sfera di competenza degli amministratori.<br />
Da un lato, è empiricamente riscontrabile che gli amministratori sono in una posizione privilegiata<br />
rispetto alla valutazione del coefficiente di rischio preliminare all’adozione di un<br />
programma preventivo, essendo dimostrato che la criminalità d’impresa si concentra nei livelli<br />
gerarchici intermedi; dall’altro, coerentemente, la legge assegna loro i poteri organizzativi<br />
necessari e sufficienti all’attuazione del modello. Quest’ultima affermazione trova sostegno<br />
nel nuovo assetto della s.p.a., la cui filosofia di fondo è animata dalla volontà di sottrarre<br />
l’azione degli amministratori – la ‘‘gestione’’ – ad ingerenze assembleari, in una prospettiva di<br />
tendenziale ampliamento dei poteri degli amministratori» (301 s.), e della gestione – neanche<br />
a dirlo – fa parte integrante l’adozione e la concreta ed efficace attuazione del modello organizzativo.<br />
In dottrina v. altresì F. Santi, op. cit., 287, il quale ritiene che «il compito spetta<br />
all’organo che nell’ente è posto nella posizione di conoscere il rischio della commissione di<br />
reati da parte dell’organizzazione e di decidere l’adozione di misure idonee ad assorbirlo»,<br />
ovvero – per quanto riguarda la società – agli amministratori, come rileva anche la circolare<br />
dell’ASSONIME n. 68/2002.
SAGGI E OPINIONI<br />
trollo, allorché cisièdomandati da chi debba essere nominato tale organo,<br />
quale debba essere la sua composizione ed a chi debba rispondere( 211 ).<br />
Quanto alla composizione, vi è chi non esclude che esso possa essere<br />
individuato – con gli opportuni correttivi – nel collegio sindacale( 212 ), ma<br />
la maggior parte degli autori è di contrario avviso, ritenendo il collegio sindacale<br />
non in grado di assicurare la necessaria continuità di azione, nonché<br />
privo dei requisiti di indipendenza ed autonomia che devono contraddistinguere<br />
l’organo di controllo, giacché nominato da quella stessa maggioranza<br />
di cui gli amministratori sono espressione( 213 ). Argomento, quest’ultimo,<br />
che rende insoddisfacente qualunque soluzione si adotti per stabilire<br />
chi debba nominare l’organo di vigilanza: se il consiglio di amministrazione<br />
o l’assemblea( 214 ). Anche l’ipotesi di affidare l’attività di vigilanza ad una<br />
funzione aziendale già attiva quale l’ufficio legale o meglio ancora l’internal<br />
auditing( 215 ) viene respinta poiché tali funzioni non presentano un suffi-<br />
( 211 ) Cfr. C. De Maglie, La disciplina, op. cit., 1351 s.; Id., L’etica e il mercato, op.<br />
cit., 338 s.<br />
( 212 ) Cfr. R. Rordorf, Prime (e sparse) riflessioni sulla responsabilità amministrativa<br />
degli enti collettivi per reati commessi nel loro interesse o a loro vantaggio, in AA.VV., La responsabilità<br />
amministrativa degli enti, D. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, op. cit., 18: «in via di<br />
principio (...) non (...) sembra si possa escludere l’attribuzione di tali compiti al collegio sindacale,<br />
che di piena autonomia gode, salvo integrarne statutariamente i poteri di iniziativa<br />
per quel che riguarda l’aggiornamento dei modelli. Il fatto che la legge parli di ‘‘organismo<br />
dell’ente’’, senza menzionare i sindaci, non significa che li abbia voluti escludere, ma solo che<br />
ha adoperato un’espressione generica; né avrebbe potuto essere altrimenti dal momento che<br />
la portata della norma è estesa anche ad enti sforniti di organo sindacale, per i quali, ovviamente,<br />
un analogo problema di coordinamento con preesistenti organi di controllo non si<br />
pone»; Id., La normativa sui modelli di organizzazione dell’ente, op. cit., 85s.<br />
( 213 ) Cfr. A. Bernardo, La responsabilità, op. cit., 28 s.; Id., Prime pronunce, op. cit.,<br />
31 s. Analoghe obiezioni possono essere mosse, in seguito alla riforma del diritto societario,<br />
all’idea di individuare l’organo di controllo negli amministratori non esecutivi (modello monastico)<br />
o nel consiglio di sorveglianza (modello dualistico).<br />
( 214 ) Lo nota A. Bernardo, La responsabilità, op. cit., 29, che tuttavia ritiene preferibile<br />
attribuire il compito di nominare l’organo di controllo all’assemblea.<br />
( 215 ) In questo senso appare orientata l’Associazione Italiana Internal Auditors, nel position<br />
paper dal titolo D. lgs. 231/2001. Responsabilità amministrativa della società: modelli<br />
organizzativi di prevenzione e di controllo, ottobre 2001, 36: «l’organo di Internal Auditing<br />
sembra più di altre funzioni istituzionalmente e deontologicamente connotato da quei requisiti<br />
di indipendenza ed autonomia che la normativa prescrive e dotato, inoltre, della visione<br />
di insieme necessaria ad assicurare la corretta tenuta del modello». Favorevoli a conferire la<br />
funzione di controllo all’internal auditing – laddove sia presente – sono E. Mattei, Modelli<br />
organizzativi e organismo di controllo come strumenti di prevenzione, in AA.VV., La responsabilità<br />
amministrativa degli enti, monografia di Dir. prat. soc., op. cit., 47 ss., il quale osserva<br />
che in tal modo «si evita di istituire ulteriori unità organizzative che, indipendentemente da<br />
considerazioni economiche, rischiano di ingenerare sovrapposizioni o eccessive parcellizzazioni<br />
di attività»; l’autore evidenzia altresì il rischio che con la costituzione di un organo<br />
di controllo ad hoc una s.p.a. si ritrovi con la contemporanea presenza di ben cinque strutture<br />
(collegio sindacale, società di revisione, funzione di controllo interno, organismo di con-<br />
91
92<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
ciente livello di autonomia ed indipendenza rispetto ai soggetti in posizione<br />
apicale( 216 ), così come viene rigettata l’idea di affidare la funzione di controllo<br />
in outsourcing, dato che l’art. 6, comma 1, parla di organismo interno<br />
all’ente, che deve essere inserito permanentemente all’interno dell’organizzazione<br />
aziendale( 217 ).<br />
L’opinione che riscuote più adesioni fra i commentatori – seguita<br />
anche dalle linee guida delle associazioni di categoria degli imprenditori<br />
–èquella di istituire un organo ad hoc, che nelle banche e nelle società<br />
di diritto speciale potrebbe essere composto da responsabili di funzioni interne<br />
alla società come l’internal auditing, da amministratori indipendenti e<br />
da esperti esterni all’impresa, che assicurino all’organismo il tasso di tecnicismo<br />
richiesto( 218 ). L’importante è che quest’organo sia posto sempre in<br />
posizione di staff e non di line rispetto al consiglio di amministrazione( 219 ).<br />
Indicazioni in tal senso arrivano anche dalla giurisprudenza, laddove si afferma<br />
che «Al riguardo appare auspicabile che si tratti di un organismo di<br />
vigilanza formato da soggetti non appartenenti agli organi sociali, soggetti<br />
da individuare eventualmente ma non necessariamente, anche in collabora-<br />
trollo ex art. 6 d. lgs. n. 231/2001, staff adibito alla certificazione di qualità e al controllo<br />
degli standard certificati), che rappresenterebbero «più un ostacolo allo sviluppo dell’impresa<br />
che un incentivo alla crescita e alla efficienza della stessa»; nonché R. Rosato, Il controllo<br />
interno nel D.Lgs. 231/01: la configurabilità del collegio sindacale come organismo di vigilanza,<br />
in Auditing, maggio-agosto 2003, 54.<br />
( 216 ) Cfr. A. Frignani-P. Grosso-G. Rossi, I modelli, op. cit., 149; Id., La responsabilità,<br />
op. cit., 176 s.; F. Maimeri, op. cit., 624; R. Rordorf, op. ult. cit., 86. In giurisprudenza<br />
v. Trib. Roma, Ufficio G.I.P., Ord. 4 aprile 2003, cit., che in sede di adozione di misure<br />
cautelari nei confronti di una società, ha ritenuto non idoneo – ai fini della non applicazione<br />
della misura – il modello di organizzazione adottato dopo la commissione del reato,<br />
tra l’altro, in quanto un componente dell’organo di controllo ex art. 6 d. lgs. n. 231/2001 era<br />
già deputato a svolgere compiti di controllo interno (si trattava del responsabile della sicurezza<br />
e del sistema Iso 9002).<br />
( 217 ) Cfr. P. Sfameni, op. cit., 92; R. Rordorf, op. ult. cit., 87.<br />
( 218 ) In dottrina cfr., ex multis, A. Frignani-P. Grosso-G. Rossi, I modelli, op. e<br />
loc. ult. cit.: «Sembra quindi preferibile l’istituzione di un organo ad hoc, a favore del quale<br />
sarà necessario prevedere apposite garanzie di stabilità, indipendenza, qualificazione professionale<br />
ed efficienza, attraverso l’inserimento nel ‘‘modello’’ di previsioni sulla composizione<br />
dell’organo di controllo, sulle cause di ineleggibilità e decadenza dei suoi membri, sulla nomina<br />
e cessazione dall’ufficio, sulla presidenza dell’organo di controllo, sulle modalità di riunioni<br />
dello stesso, sulle responsabilità attribuite»; F. Santi, op. cit., 321 s. In tal senso cfr.<br />
inoltre Confindustria, Linee guida, cit., 28 ss., ove in alternativa all’organo ad hoc si suggerisce,<br />
alle aziende che ne sono munite, di affidare l’attività di vigilanza al comitato di controllo<br />
interno o all’internal auditing; ABI, Linee guida, cit., 365 ss., in cui sono indicate tre<br />
alternative per la costituzione dell’organo ad hoc: 1)internal auditing eventualmente integrato<br />
nella composizione e nei poteri; 2) funzione costituita da professionalità interne alla banca<br />
(legali, esperti contabili, di gestione del personale o di controllo interno, membri del collegio<br />
sindacale, ecc.); 3) organismo composto da soli amministratori non esecutivi o indipendenti.<br />
( 219 ) Sul punto cfr. P. Bastia, op. cit., 62.
SAGGI E OPINIONI<br />
tori esterni, forniti della necessaria professionalità, che vengono a realizzare<br />
effettivamente quell’organismo dell’ente dotato di autonomia di poteri di<br />
iniziativa e controllo. Indubbio che per enti di dimensioni medio grande<br />
la forma collegiale si impone, così come si impone una continuità di azione,<br />
ovverosia un impegno esclusivo sull’attività di vigilanza relativa alla concreta<br />
attuazione del modello»( 220 ).<br />
L’unica norma in materia è l’art. 6, comma 4, il quale prevede che<br />
negli enti di piccole dimensioni – per la cui individuazione non è indicato<br />
alcun criterio dimensionale o qualitativo – le funzioni di vigilanza e aggiornamento<br />
del modello possono essere svolte direttamente dall’organo dirigente:<br />
la disposizione, in base alla quale si verifica una paradossale coincidenza<br />
fra controllore e controllato, è dettata dall’esigenza di non sottoporre<br />
le piccole imprese all’aggravio, sia in termini di costi che in termini di funzionalità<br />
gestionale, che l’introduzione di un siffatto organo determinerebbe.<br />
In realtà la disciplina non fornisce elementi per escludere aprioristicamente<br />
alcun organo della società dalla funzione di vigilanza, per cui gli enti<br />
devono procedere sulla scorta di una valutazione condotta caso per caso,<br />
tenendo conto della specifica organizzazione della società ed in base ad<br />
un’analisi costi-benefici delle diverse opzioni praticabili( 221 ).<br />
Dall’analisi dei singoli modelli organizzativi( 222 ) emerge che nelle<br />
grandi aziende l’organo di controllo è nominato sempre dal consiglio<br />
di amministrazione. Varietà di soluzioni – tendenzialmente idonee ad assicurare<br />
l’autonomia e l’indipendenza dell’organo di controllo – si riscontra<br />
invece riguardo alla composizione di detto organo: talvolta esso<br />
costituisce evoluzione della funzione di internal auditing ed ha natura<br />
( 220 ) Trib. Roma, Ufficio G.I.P., Ord. 4 aprile 2003, cit.<br />
( 221 ) Cfr. A. Bernardo, op. e loc. ult. cit. Similmente v. S. Fortunato, op. cit., 282<br />
s., secondo cui l’organo di controllo «può essere costituito come Comitato di varie funzioni e<br />
organi societari (per esempio, Risorse Umane, Ufficio Affari Legali, Revisione Interna, Amministrazione<br />
e Finanza, Operazioni, Consiglio di Amministrazione, Collegio Sindacale), oppure<br />
essere identificato nell’ambito di un’unica funzione (per esempio, Revisione Interna),<br />
con diversi vantaggi e svantaggi in tema di autorevolezza, competenza specifiche disponibili,<br />
tempestività di intervento, aggiornamento delle informazioni, visione globale, ecc. – La soluzione<br />
da scegliere dipenderà, infine, anche dalla volontà degli azionisti e/o amministratori<br />
e dalle caratteristiche e dalla complessità aziendale di ciascuna impresa».<br />
( 222 ) Sono stati esaminati i seguenti modelli organizzativi: ENEL s.p.a., Modello di organizzazione<br />
e di gestione ex Decreto Legislativo 8 giungo 2001 n. 231, 2002, in www.enel.it;<br />
AEM s.p.a., Modello organizzativo interno di AEM s.p.a. (ex decreto legislativo 8 giugno 2001<br />
n. 231), Milano, 2003, in www.aem.it/home/cms/default.jsp; ENI s.p.a., Principi del modello<br />
231, 2003, 2004, in www.eni.it; IMPREGILO s.p.a., cit.; GRUPPO MONDADORI s.p.a.,<br />
Modello di Organizzazione di Gestione e di Controllo, 2004, in www.mondadori.com/ame/it/<br />
corporate/modello.html.; UNICREDITO ITALIANO s.p.a., Modello di organizzazione e di<br />
gestione di UniCredito Italiano s.p.a., inedito.<br />
93
94<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
collegiale( 223 ); in altri casi è un organo monocratico che può( 224 ) o<br />
meno( 225 ) identificarsi con il responsabile dell’internal auditing ed è supportato<br />
da un apposito ufficio di staff e/o da consulenti esterni( 226 ); altre<br />
volte ancora può essere un organo collegiale di composizione mista( 227 ).<br />
Si segnala, per la sua originalità ed efficacia, la soluzione ideata da Uni-<br />
Credito Italiano s.p.a., che ha affiancato all’organo di controllo i responsabili<br />
delle unità operative di ciascun settore in cui sono stati individuati<br />
rischi di commissione di reati, assegnando loro il compito di effettuare<br />
continuativamente verifiche sul rispetto e sull’adeguatezza del mo-<br />
( 223 ) Cfr. UNICREDITO ITALIANO s.p.a., cit., 11: «L’Organismo di Controllo ha<br />
natura collegiale ed è composto dai seguenti soggetti: il Presidente, individuato in un amministratore<br />
non esecutivo e indipendente; i Responsabili della Direzione Risorse e Organizzazione;<br />
della Direzione Audit di Gruppo; della Direzione Affari Societari e Legali; della Direzione<br />
Corporate Identità di UniCredito Italiano s.p.a.».<br />
( 224 ) Cfr. ENEL s.p.a., cit., 14 s., ove si chiarisce che la scelta di affidare le funzioni di<br />
Compliance Officer (CO) al responsabile dell’internal audit è stata determinata dal fatto che<br />
tale figura è stata riconosciuta come la più adeguata in virtù dei requisiti di autonomia, indipendenza,<br />
professionalità e continuità d’azione che possiede; IMPREGILO s.p.a., cit., 15.<br />
( 225 ) Cfr. GRUPPO MONDADORI s.p.a., cit., 6: «A tale organo monocratico sono<br />
stati conferiti tutti i poteri necessari al compito di vigilare sul funzionamento, sull’efficacia<br />
e sull’osservanza del modello stesso, conferendogli altresì le responsabilità attribuite dal Decreto;<br />
nonché l’incarico di curarne l’aggiornamento. – Nello svolgimento della propria funzione<br />
l’Organismo di Vigilanza e di Controllo, a supporto della propria azione e tenuto conto<br />
dei contenuti professionali specifici richiesti per l’espletamento di alcune attività di controllo,<br />
potrà avvalersi, nell’ambito delle disponibilità previste ed approvate nel budget, della collaborazione<br />
di risorse interne, per quanto possibile, nonché di professionisti esterni». Analoga<br />
scelta sembra aver fatto Poste Italiane s.p.a. – prima società italiana per numero di dipendenti<br />
– nel cui modello organizzativo si dispone che il Compliance Officer opera con l’ausilio della<br />
funzione di internal auditing (lo si evince da C. Dittmeier, Poste italiane sceglie la prevenzione,<br />
inItaliaOggi, 2 marzo 2004, 47).<br />
( 226 ) Al riguardo, deve osservarsi che la soluzione di istituire un organo monocratico –<br />
per quanto supportato da appositi uffici di staff e/o da consulenti esterni – non appare idonea<br />
nelle società di dimensioni medie o grandi come Enel, Poste Italiane, Impregilo e Mondadori<br />
a garantire reale autonomia ed effettività all’organo di controllo: meglio darebbe stato<br />
– anche in considerazione delle indicazioni giurisprudenziali – prevedere un organo collegiale.<br />
( 227 ) Cfr. AEM s.p.a., cit., 19: «In considerazione della specificità dei compiti che ad<br />
esso fanno capo, è stato individuato quale Organismo di Vigilanza un Comitato composto<br />
da: Responsabile Internal Auditing, Responsabile Affari Generali, Responsabile Personale<br />
e Relazioni Industriali»; ENI s.p.a., cit., 13 s., ove si prevede che l’Organismo di Vigilanza<br />
è composto dal Segretario del Consiglio di Amministrazione e Assistente dell’Amministratore<br />
Delegato, dal Direttore dell’ufficio Affari Legali e dal Responsabile dell’Internal Audit,<br />
nonché che esso si avvale nello svolgimento dei propri compiti «della funzione di Internal<br />
Audit nell’ambito della quale è costituita l’unità organizzativa dedicata a tempo pieno ai<br />
compiti di vigilanza ai sensi del d. lgs. 231/2001, dotata di risorse adeguate, autonoma e indipendente<br />
dalle unità che assicurano le altre attività della funzione di Internal Audit» ed «è<br />
supportato dalle risorse della Direzione Affari Legali e della Direzione Personale e Organizzazione<br />
che a tal fine sono adeguatamente rafforzate».
SAGGI E OPINIONI<br />
dello( 228 ), nonché il meccanismo predisposto da Aem s.p.a., secondo cui<br />
il responsabile interno di ogni attività sensibile deve compilare all’inizio<br />
di ogni operazione ritenuta rilevante un’apposita ‘‘scheda di evidenza’’,<br />
in modo da costruire una documentazione funzionale all’attività dell’organo<br />
di controllo( 229 ).<br />
Se realisticamente l’organo di controllo non può che essere nominato<br />
dall’organo amministrativo, è chiaro che la sua indipendenza e autonomia<br />
si gioca tutta sul piano delle linee di reporting, per cui è indispensabile che<br />
esso abbia come referente non solo il consiglio di amministrazione (o il presidente,<br />
o l’amministratore delegato), ma anche il collegio sindacale e/o il<br />
comitato di controllo interno( 230 ).<br />
In relazione all’organo di controllo, ci si è poi chiesti se possa sorgere<br />
in capo ai suoi componenti una responsabilità penale ex art. 40, comma 2,<br />
c.p. per non aver impedito il reato commesso all’interno dell’ente (concorso<br />
omissivo). La mancanza di poteri impeditivi del fatto-reato in capo<br />
ai membri dell’organo di vigilanza, su cui grava esclusivamente un obbligo<br />
di sorveglianza, dovrebbe portare a ritenere inconfigurabile una posizione<br />
di garanzia penalmente rilevante ai sensi dell’art. 40, comma 2, c.p.: il mancato<br />
o insufficiente controllo comporterebbe quindi delle semplici conseguenze<br />
di tipo contrattuale (scioglimento dell’organo, revoca di alcuni<br />
componenti, ecc.) nei confronti dei soggetti responsabili del controllo( 231 ).<br />
( 228 ) Cfr. UNICREDITO ITALIANO s.p.a., cit., 11 s.: «L’istituzione dei Responsabili<br />
di Unità Operative resta a garanzia di una più concreta e perciò efficace possibilità di attuazione<br />
del Modello, costituendo gli stessi un effettivo anello di congiunzione, operativo e informativo,<br />
tra l’OdC e le concrete unità operative nell’ambito delle quali sono stati individuati<br />
profili di rischio».<br />
( 229 ) Cfr. AEM s.p.a., cit., 26 ss. In dottrina cfr. F. Giunta, op. cit., 21, il quale sottolinea<br />
la necessità che i vari passaggi del procedimento decisionale possano trovare un riscontro<br />
scritto anche in forma sintetica, in modo tale da consentire in monitoraggio già in<br />
itinere della decisione.<br />
( 230 ) Tutti i modelli analizzati vanno in questa direzione: in tal senso cfr. ENEL s.p.a.,<br />
cit., 17, in cui sono previste due linee di reporting: una continuativa direttamente al Presidente<br />
e all’Amministratore Delegato, ed una periodica nei confronti del Comitato di Controllo<br />
Interno, del Consiglio di Amministrazione e del Collegio Sindacale; ENI s.p.a., cit., 17, AEM<br />
s.p.a., cit., 23, e IMPREGILO s.p.a., cit., 17, che seguono la stessa soluzione del modello<br />
Enel; GRUPPO MONDADORI s.p.a., cit., 7: «L’Organismo di Vigilanza e di Controllo riferisce<br />
al Consiglio di Amministrazione, al Comitato di Controllo Interno (...) e al Collegio<br />
Sindacale, in merito all’applicazione e all’efficacia del Modello o con riferimento a specifiche<br />
e significative situazioni»; UNICREDITO ITALIANO s.p.a., cit., 14: «l’Organismo di Controllo<br />
riporta direttamente al Consiglio di Amministrazione della società e al Collegio sindacale».<br />
( 231 ) In tal senso cfr. C. Piergallini, op. ult. cit., 594; F. Foglia Manzillo, Nessun<br />
obbligo per l’organo di vigilanza di impedire gli illeciti penali, inDir. prat. soc., 2003, n. 5, 36<br />
ss. Alla medesima conclusione giunge chi ritiene che «la volontà privata (espressa nella cornice<br />
contrattuale e, a fortiori, in forme non negoziali) non possa creare nuovi obblighi penal-<br />
95
96<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
A una diversa conclusione si potrebbe invece pervenire considerando l’intervento<br />
dei controllori come condizione necessaria, anche se non sufficiente,<br />
ai fini dell’impedimento del reato da parte dei vertici societari, analogamente<br />
a quanto sostenuto dalla giurisprudenza per i sindaci, di cui enfatizza<br />
i poteri di indagine, accertamento, sorveglianza e impulso<br />
sanzionatorio( 232 ). Uno sviluppo giurisprudenziale di questo tipo non è<br />
certo auspicabile, dato che con elevata probabilità provocherebbe «l’impossibilità<br />
pratica di adottare modelli per l’estrema difficoltà di reperire<br />
martiri al di fuori degli amministratori; determinandosi così il naufragio<br />
della speranza che l’adozione generalizzata dei modelli possa condurre,<br />
in chiave di prevenzione, ad una ripulitura del mercato e dei suoi comportamenti»(<br />
233 ).<br />
È opportuno altresì accennare ad alcuni problemi che possono caratterizzare<br />
l’implementazione e la concreta attuazione dei modelli organizzativi<br />
da parte delle imprese, già verificatisi negli Stati Uniti in relazione ai<br />
compliance programs( 234 ). Essi sono: 1) il rischio che nella predisposizione<br />
mente sanzionabili, ma soltanto ‘‘spostare’’ su altri centri di imputazione l’esecuzione di una<br />
preesistente ‘‘posizione di garanzia’’» (così F. Giunta, op. cit., 19).<br />
( 232 ) Cfr. C. Piergallini, op. ult. cit., 594 s. A quest’esito giunge chi paventa – a causa<br />
della presenza di una norma generica coma l’art. 40, comma 2, c.p. – una vera e propria<br />
moltiplicazione delle posizioni di garanzia per le persone fisiche che fanno parte dell’ente:<br />
«Potenzialmente, tutti i soggetti coinvolti nella progettazione, predisposizione, esecuzione,<br />
attuazione e applicazione dei protocolli (elaboratori, progettisti, vigilantes, investigatori,<br />
membri di commissioni disciplinari, supervisori, ecc.) potrebbero risultare destinatari di<br />
un obbligo giuridico di prevenzione/impedimento dei reati, discendente direttamente dal<br />
singolo modello organizzativo-gestionale adottato in concreto, quale attuazione della disciplina<br />
prevista dal d. lgs. n. 231 del 2001, la quale assurgerebbe a vera e propria fonte generatrice<br />
dell’obbligo giuridico di impedimento dei reati all’interno dell’impresa» (A. Gargani,<br />
Imputazione del reato agli enti collettivi e responsabilità penale dell’intraneo: due piani irrelati?,inDir.<br />
pen. proc., 2002, 1061 ss., spec. 1066; Id., Le conseguenze indirette della corresponsabilizzazione<br />
degli enti collettivi, in AA.VV., Societas puniri potest, op. cit., 235 ss.). Fermamente<br />
convinto della configurabilità di una posizione di garanzia in capo ai componenti dell’organo<br />
di controllo è A. Nisco, op. cit., 317 ss., il quale – partendo dal presupposto che la<br />
mancanza di compiti operativi non degrada la posizione dell’organismo di controllo ad un<br />
obbligo di mera sorveglianza ma è finalizzata a garantirne l’indipendenza in funzione dell’espletamento<br />
dei compiti che gli sono attribuiti – afferma che «pur dovendosi ammettere che,<br />
in ultima istanza, la modifica del modello preventivo, a seguito di infrazioni, passi attraverso<br />
una scelta dell’organo amministrativo, l’operato dell’organismo di vigilanza si interpone quale<br />
ingranaggio necessario ai fini di un’idonea azione preventiva: avrebbe scarsa efficacia preventiva<br />
il modello che affidasse la sua supervisione ad un organo adibito ad una semplice<br />
‘‘sorveglianza’’, quindi debilitato in ordine alle funzioni attribuitegli dall’art. 6, le quali si sostanziano<br />
in un autonomo potere di intervento sul modello, oltre che di sollecitazione dei<br />
vertici societari»; contra v. C. Pedrazzi, Corporate governance e posizioni di garanzia: nuove<br />
prospettive?, in AA.VV., Governo delle imprese e mercato delle regole, Milano, 2002, II, 1374.<br />
( 233 ) Così A. Carmona, op. cit., 217 s.<br />
( 234 ) Sul punto v. D. Davies, op. cit., 56, 76, 80, anche se l’autore utilizza impropria-
SAGGI E OPINIONI<br />
dei modelli si diffonda un approccio ‘‘copia e incolla’’, che consiste nel<br />
prendere il codice di un’altra società, modificandone solo il nome; 2) la<br />
presenza di deficit informativi nella diffusione del modello fra il personale<br />
dell’azienda, spesso riconducibile alla prassi delle società di chiedere ai<br />
propri dipendenti una dichiarazione annuale che confermi la lettura dell’aggiornamento<br />
del modello, mentre la maggior parte di essi non ha mai<br />
letto né il modello originario, né gli aggiornamenti( 235 ); 3) l’inadeguatezza<br />
dei canali di reporting e dei momenti di dialogo con i dipendenti; 4) l’eccessiva<br />
astrattezza del modello in caso di mancanza di indicazioni sulle circostanze<br />
specifiche o sulle situazioni concrete in cui il personale potrebbe<br />
trovarsi (assenza di una valutazione dettagliata del rischio), che può comportare<br />
un’interpretazione dei controlli come procedimenti burocratici gravosi,<br />
con impossibilità di gestire i rischi più importanti; 5) l’inesistenza di<br />
indicazioni sull’atteggiamento della società nei confronti dell’integrità del<br />
reporting e delle informazioni finanziarie. Non deve inoltre essere sottovalutato<br />
il pericolo che molte imprese adottino protocolli caratterizzati da assoluta<br />
genericità, che costituiscono un mero ossequio giuridico-formale alla<br />
disciplina del d. lgs. n. 231/2001( 236 ), mentre i modelli organizzativi dovrebbero<br />
essere specifici, concreti e dinamici.<br />
In conclusione, l’esame dei singoli modelli organizzativi sembra evidenziare<br />
una certa tendenza delle aziende (quantomeno di quelle grandi<br />
e medio-grandi) a garantire al modello una ragionevole effettività ed efficacia:<br />
l’idea del legislatore di non tipizzare le misure preventive a carico<br />
dell’ente sembra essersi rivelata vincente, poiché consente di adeguare i<br />
mente l’espressione «codici etici», il fenomeno riguarda i modelli organizzativi nella loro interezza.<br />
( 235 ) Dai modelli organizzativi esaminati emerge un ampio ventaglio di strumenti informativi<br />
rivolti al personale: corsi di formazione per dirigenti e dipendenti in aula e on line,<br />
affissione del modello in bacheca, creazione di una rete intranet aziendale per diffondere il<br />
modello ed i suoi aggiornamenti, note informative interne, e-mail di aggiornamento, ecc. (cfr.<br />
ENI s.p.a., cit., 25 s.; AEM s.p.a., cit., 40; IMPREGILO s.p.a., cit., 24; UNICREDITO ITA-<br />
LIANO s.p.a., cit., 18 s.).<br />
( 236 ) In proposito cfr. Trib. Milano, Ufficio G.I.P., Ord. 9 novembre 2004, cit., il quale,<br />
valutando i modelli organizzativi adottati dalle società Ivri Holding, Cogefi, VCM e Ivri<br />
Torino ai fini della sospensione delle misure cautelari interdittive, li ha ritenuti non idonei ad<br />
escludere il rischio di commissione dei reati proprio per la genericità e la mancanza di effettività<br />
e concretezza che li contraddistingue; in particolare sono stati oggetto di censura: 1) la<br />
mancanza di protocolli dettagliati che individuino le aree aziendali a rischio di verificazione<br />
di reati sulla base di una ricostruzione della storia dell’ente; 2) la possibilità per soggetti interni<br />
all’ente non condannati con sentenza passata in giudicato di far parte dell’organo di<br />
controllo; 3) la mancata previsione di specifici obblighi di informazione nei confronti dell’organismo<br />
di vigilanza; 4) l’assenza di misure concrete per realizzare una diffusione del modello<br />
fra il personale dell’azienda, nonché il non aver previsto una formazione differenziata per<br />
categorie di soggetti; 5) la mancata predisposizione di un sistema di misure disciplinari per<br />
sanzionare le violazioni del modello e la commissione di illeciti penali.<br />
97
98<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
modelli alle singole realtà aziendali – che variano per forma giuridica, tipo<br />
di attività, dimensioni – e di procedere celermente agli aggiornamenti che si<br />
rendessero necessari, evitando gli ingessamenti e le rigidità che possono derivare<br />
da un’insieme chiuso di prescrizioni( 237 ).<br />
6. I limiti del d. lgs. n. 231/2001: il catalogo dei reati<br />
Per quanto concerne i difetti e le aporie che affliggono il d. lgs. n. 231/<br />
2001, oltre alle insufficienza viste sopra, inerenti i criteri di attribuzione<br />
della responsabilità, il limite principale della disciplina è stato individuato<br />
nella esiguità del catalogo dei reati per cui è prevista la responsabilità amministrativa<br />
dell’ente.<br />
Il legislatore delegato ha compiuto infatti, anche sulla scorta della forti<br />
pressioni esercitate da Confindustria( 238 ), una scelta minimalista( 239 ), pre-<br />
( 237 ) In senso contrario v. G. De Vero, Struttura e natura giuridica, op. cit., 1146, secondo<br />
cui le norme organizzative dirette alla neutralizzazione del rischio-reato all’interno<br />
delle imprese «dovrebbero essere contenute in atti normativi legislativi o regolamentari,<br />
che delineino un corpus tendenzialmente esaustivo di disposizioni intese ad evitare che nell’esercizio<br />
di attività lecite si commettano determinati reati portatori di particolare pregiudizio<br />
sociale»; D. Pulitanó, op. ult. cit., 436, il quale – partendo dal presupposto che sia contraddittorio<br />
desumere tout court il contenuto delle regole cautelari da inserire nei modelli<br />
organizzativi da quella stessa prassi che la regola ha il compito di orientare – auspica una<br />
tipizzazione legislativa quanto più precisa ed esaustiva delle regole cautelari. Tale proposta,<br />
tuttavia, anche a voler soprassedere sui gravi guasti che determinerebbe una soluzione così<br />
rigida, appare del tutto irrealizzabile dal punto di vista pratico, a causa dell’impossibilità per<br />
il legislatore di individuare tutte le regole cautelari esistenti in materia di prevenzione del rischio-reato.<br />
( 238 ) Le reali e poco nobili ragioni che hanno determinato lo sfoltimento del catalogo<br />
dei reati ad opera del legislatore delegato sono ben illustrate da C. Piergallini, La disciplina,<br />
op. cit., 1355 s.; Id., Societas delinquere et puniri non potest : la fine tardiva di un dogma,<br />
op. cit., 585 s.<br />
( 239 ) Il Governo ha giustificato tale scelta affermando che «poiché l’introduzione della<br />
responsabilità sanzionatoria degli enti assume un carattere di forte innovazione nel nostro<br />
ordinamento, sembra opportuno contenerne, per lo meno nella fase iniziale, la sfera di operatività,<br />
allo scopo di favorire il progressivo radicamento di una cultura delle legalità che, se<br />
imposta ex abrupto con riferimento ad un ampio novero di reati, potrebbe fatalmente provocare<br />
non trascurabili difficoltà di adattamento» (cfr. Relazione governativa al d. lgs. n. 231/<br />
2001, cit.). Il self-restraint del legislatore è apprezzato da G. De Vero, op. ult. cit., 1128 s.,<br />
secondo cui si è in presenza di «un’esemplare applicazione ‘‘sul campo’’ del principio di<br />
frammentarietà»; nonché, più timidamente, da A. Rossi, Le sanzioni dell’ente, inS. Vinciguerra-M.<br />
Ceresa Gastaldo-A. Rossi, op. cit., 42. A tali posizioni deve però replicarsi<br />
che se «allo strumento giuridico è affidata la custodia della libertà economica e la determinazione<br />
della sua misura, si effettua una selezione nel trattamento che, realizzata sul piano<br />
penalistico attraverso l’incriminazione di certe modalità e forme della condotta piuttosto<br />
che di altre, corre il rischio gravissimo, sul piano delle propedeutiche valutazioni politiche,<br />
d’essere operata in base al potere di contrattazione che ciascun gruppo sociale riesce a met-
SAGGI E OPINIONI<br />
vedendo la responsabilità dell’ente solo per reati finalizzati al profitto quali<br />
la corruzione e la concussione (artt. 24, 25)( 240 ), escludendo invece reati<br />
già contemplati dalla legge delega (i reati contro l’incolumità pubblica, l’omicidio<br />
e le lesioni colpose commessi in violazione delle norme antinfortunistiche<br />
e sulla tutela dell’igiene e della salute sul lavoro, i reati in materia di<br />
ambiente e territorio), che costituiscono manifestazione tipica della criminalità<br />
di impresa. In questo modo si è creata una parte speciale che risulta<br />
assolutamente sottodimensionata rispetto alla parte generale, frustrando le<br />
esigenze politico-criminali alla base della criminalizzazione degli enti e svilendo<br />
l’effettività del nuovo istituto( 241 ). Né si può dire che i successivi ampliamenti<br />
del catalogo dei reati effettuati dal legislatore abbiano posto rimedio<br />
a tale situazione. Vediamo perché.<br />
tere in moto» così che «la forza del peso gettato sulla bilancia da parte chi possiede potere<br />
economico può ben essere difficilmente resistibile e l’uso del potere di normazione penale<br />
tradursi nella creazione di spazi di non intervento a carattere sostanzialmente esentativo e<br />
di privilegio. Il rischio è straordinariamente grave in democrazia dove il consenso elettorale<br />
si forma sulle opinioni comunicate e la comunicazione si fonda sul possesso di mezzi finanziari»<br />
(così, lucidamente, A. Carmona, La responsabilità degli enti: alcune note sui reati presupposto,<br />
inRiv. trim. dir. pen. ec., 2003, 1003).<br />
( 240 ) Gli artt. 24 e 25 contemplano alcuni fra i delitti dei pubblici ufficiali contro la<br />
pubblica amministrazione (malversazione ai danni dello Stato, art. 316-bis c.p.; indebita percezione<br />
di erogazioni a danno dello Stato, art. 316-ter c.p.; concussione, art. 317 c.p.; corruzione<br />
e istigazione alla corruzione commesse anche da funzionari comunitari, artt. 318, 319,<br />
319-bis, 319-ter, 321 e 322 c.p., anche se commessi da incaricati di pubblico servizio o membri<br />
degli organi delle Comunità europee e da funzionari delle Comunità europee e di stati<br />
esteri) ed alcuni dei delitti contro il patrimonio commessi mediante frode (truffa a danno<br />
dello Stato o di altri enti pubblici e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche,<br />
artt. 640, comma 2, n. 1 e 640-bis c.p.; frode informatica commessa a danno dello<br />
Stato o di altro ente pubblico, art. 640-ter, comma 2, c.p.). Con riferimento alla frode informatica<br />
ex art. 640-ter, mentre la legge delega escludeva espressamente quella compiuta con<br />
abuso della qualità di operatore del sistema, il d. lgs. n. 231/2001 utilizza una formula che<br />
sembra includere anche le ipotesi in cui ricorrano entrambe le aggravanti (fatto commesso a<br />
danno dello Stato o di altro ente pubblico e abuso della qualità di operatore del sistema): sul<br />
punto v. M. Guernelli, Frodi informatiche e responsabilità delle persone giuridiche alla luce<br />
del decreto legislativo 8.6.2001, n. 231, inRiv. trim. dir. pen. ec., 2002, 308.<br />
( 241 ) In senso critico nei confronti della scelta effettuata dal legislatore delegato cfr. L.<br />
Stortoni, I reati per i quali è prevista la responsabilità degli enti, in AA.VV., Responsabilità<br />
degli enti per i reati commessi nel loro interesse, op. cit., 67 ss., che parla tra l’altro di «un ben<br />
poco edificante mercanteggiamento politico che ha dato vita ad un prodotto ben poco apprezzabile<br />
da qualsiasi punto di vista lo si guardi»; G. De Simone, I profili sostanziali, op.<br />
cit., 118: «sono stati tagliati fuori dall’ambito di applicazione della nuova disciplina, paradossalmente,<br />
proprio quei reati che ricadono fisiologicamente nel ‘‘cono d’ombra’’ della criminalità<br />
d’impresa e per i quali è da sempre particolarmente avvertita l’esigenza di una revisione<br />
dell’arcaico societas delinquere non potest. Reati che rappresentano, d’altra parte, una sorta<br />
di proiezione sul piano fattuale di quella colpevolezza di organizzazione che si è voluto<br />
porre a fondamento della responsabilità degli enti»; A. Carmona, op. ult. cit., 1004; F.<br />
Giunta, op. cit., 23.<br />
99
100<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
La prima estensione è stata realizzata dal d.l. n. 350/2001, convertito<br />
dalla legge n. 409/2001, che ha inserito i delitti in materia di contraffazione<br />
dell’Euro (art. 25-bis), in attuazione della Decisione quadro del Consiglio<br />
dell’Unione Europea del 29 maggio 2000, ispirata dalla considerazione<br />
che in molti paesi dell’Unione Europea – a differenza di quanto avviene<br />
in Italia – la fabbricazione delle banconote e delle monete è affidata a società<br />
private. È evidente l’assenza, nel nostro paese, di ogni esigenza politico-criminale<br />
che giustifichi una simile scelta estensiva( 242 ), stante l’assoluta<br />
implausibilità pratica che reati di questo tipo possano essere commessi<br />
in contesti aziendali leciti, a meno ché non si vogliano ipotizzare realtà del<br />
tutto «folkloristiche»( 243 ).<br />
Successivamente, l’opportuna estensione della responsabilità amministrativa<br />
degli enti ai reati societari (art. 25-ter introdotto dal d. lgs. n.<br />
61/2002) è stata vanificata dal legislatore delegato che, perseguendo un lucido<br />
disegno di sterilizzazione all’interno di un quadro complessivo di<br />
smantellamento del controllo di legalità nel settore dell’economia( 244 ), ha<br />
escluso per i reati societari l’applicazione agli enti delle sanzioni interdittive,<br />
compiendo una scelta che determina la quasi certa ineffettività della<br />
nuova normativa( 245 ), visto che l’esperienza comparata ha ormai dimo-<br />
( 242 ) Cfr. C. Piergallini, op. ult. cit., 586.<br />
( 243 ) Cfr. A. Rossi, op. cit., 58, che fa l’esempio delle imprese che svolgono attività di<br />
tipografia.<br />
( 244 ) Sul punto cfr. B. Tinti, Il nuovo Corpus Iuris dell’economia, inIl fisco, 2003, n.<br />
4, 555 ss., spec. 565 s.<br />
( 245 ) In tal senso cfr. C.E. Paliero, La responsabilità delle persone giuridiche, op. cit.,<br />
48, 60 ss.; C. Piergallini, La responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, op. cit.,<br />
106 ss., che parla di «una scelta criminologicamente sciagurata»; A. Alessandri, Corporate<br />
Governance, op. cit., 559: «L’amputazione delle misure interdittive evidenzia un lucido disegno<br />
di sterilizzazione dell’istituto e smentisce i sostenitori di una penalizzazione più ‘‘discreta’’<br />
ma diffusa»; M. Pelissero, La responsabilizzazione degli enti, op. cit., 371. Tra gli<br />
effetti negativi derivanti dall’esclusione della sanzioni interdittive vi è l’impossibilità di applicazione<br />
della pubblicazione della sentenza di condanna (art. 18), che si traduce in un vantaggio<br />
per le società marketing oriented, le quali potranno contabilizzare la sanzione pecuniaria<br />
come un mero costo di gestione ed evitare i gravi danni di immagine conseguenti alla<br />
pubblicazione, e dell’intero sistema delle misure cautelari (eccezion fatta per quelle reali),<br />
nonché il probabile ricorso indiscriminato al procedimento per decreto (art. 64), di cui è<br />
condizione l’applicazione della solo sanzione pecuniaria, ed al patteggiamento (art. 63), sempre<br />
ammesso in caso di sola sanzione pecuniaria (cfr. M. Formica, op. cit., 226 ss.). Non<br />
condivisibile è l’opinione di A. Lanzi, L’obbligatorietà della legge italiana, op. cit., 79 s., secondo<br />
cui l’estromissione delle sanzioni interdittive in relazione ai reati societari si giustifica<br />
con esigenze di tutela dei soci di minoranza, che – essendo già stati danneggiati dal reato –<br />
verrebbero colpiti due volte in seguito all’applicazione delle sanzioni interdittive: in verità, la<br />
possibile lesione dei terzi innocenti è una delle obiezioni che tradizionalmente vengono mosse<br />
alla responsabilità penale degli enti, per cui non la si può abbracciare solo per alcuni reati<br />
e per altri no; per di più, la dottrina moderna ha già da tempo dimostrato che essa è priva di<br />
pregio, in quanto da un lato anche le pene inflitte alle persone fisiche hanno un effetto di
SAGGI E OPINIONI<br />
101<br />
strato in maniera incontrovertibile che l’unico modo efficace di combattere<br />
la criminalità delle imprese è di adottare un sistema sanzionatorio misto,<br />
che combini l’impiego di sanzioni di diversa natura (pecuniarie, interdittive,<br />
ripristinatorie, stigmatizzanti, ecc.)( 246 ).<br />
Per di più, la vocazione all’ineffettività dell’art. 25-ter risulta aggravata<br />
da altri due fattori: 1) l’infimo livello dei limiti edittali – in quanto calibrati<br />
sulla gravità insédelle singole fattispecie penali presupposto – che caratterizza<br />
le sanzioni pecuniarie previste per l’ente in relazione ai reati societari(<br />
247 ) (vizio che in verità contraddistingue anche i limiti edittali di cui<br />
agli artt. 24 e 25( 248 )), nonché la ridotta escursione tra minimo e massimo<br />
che impedisce ogni commisurazione da parte del giudice( 249 ); 2) la ‘‘depenalizzazione<br />
di fatto’’ dei reati societari realizzata con il d. lgs. n. 61/<br />
2002( 250 ) – impedendo a monte la configurabilità della responsabilità pe-<br />
rimbalzo su terzi innocenti (lavoratori, familiari, ecc.), che rappresenta una conseguenza inevitabile<br />
del ricorso al diritto penale, dall’altro lato, per i soci di minoranza gli effetti negativi<br />
prodotti dalle sanzioni interdittive rientrano nel rischio di impresa che essi si sono assunti<br />
entrando a far parte della società (cfr. A. Alessandri, Reati d’impresa, op. cit., 52; Id., Commento,<br />
op. cit., 144; E. Dolcini, Principi costituzionali, op. cit., 22; D. Pulitanó, op. ult.<br />
cit., 421 s.; C. De Maglie, L’etica e il mercato, op. cit., 313). Nel tentativo di dare una giustificazione<br />
razionale alla scelta del legislatore si è altresì ipotizzato che l’esclusione delle sanzioni<br />
interdittive in relazione ai reati societari possa essere stata indotta dalla carente determinatezza<br />
che caratterizza i presupposti applicativi (rilevante entità del profitto e gravità delle<br />
carenze organizzative dell’ente) di tali misure: in tal senso cfr. F. Giunta, op. cit., 28.<br />
( 246 ) In argomento v. C. De Maglie, op. ult. cit., 34 ss., 337.<br />
( 247 ) Al riguardo si deve però tenere conto del fatto che la legge 28 dicembre 2005, n.<br />
262 di riforma del sistema di tutela del risparmio – oltre a inserire tra i reati societari per cui<br />
risponde l’ente la nuova fattispecie di omessa comunicazione del conflitto di interessi (art.<br />
2629-bis c.c.) – prevede, all’art. 39 comma 5, il raddoppio delle sanzioni pecuniarie di cui<br />
all’art. 25-ter.<br />
( 248 ) Lo rileva correttamente A. Carmona, op. ult. cit., 1011 ss.<br />
( 249 ) Cfr. C.E. Paliero, op. ult. cit., 60 s.; C. Piergallini, op. ult. cit., 107. Contra v.<br />
S. Putinati, La responsabilità, op. cit., 83 s., il quale non ritiene la sanzione pecuniaria una<br />
sanzione ‘‘manifesto’’, priva del contenuto affittivo necessario a svolgere una funzione di preventiva.<br />
( 250 ) Tale riforma è stata giustamente definita come «la riforma penale italiana che ha<br />
forse suscitato il maggior numero di critiche, dal dopoguerra ad oggi, sia tra i tecnici che<br />
nell’opinione pubblica» (C.E. Paliero, op. ult. cit., 47). Tra le tante voci critiche che si sono<br />
levate in dottrina nei confronti del d. lgs. n. 61/2002 cfr., a titolo meramente esemplificativo,<br />
A. Alessandri, La legge delega n. 366 del 2001: un congedo dal diritto penale societario, in<br />
Corr. giur., 2001, 1365 ss.; Id., Alcune considerazioni generali sulla riforma, in AA.VV., Il<br />
nuovo diritto penale delle società, op. cit., 3 ss.; A. Crespi, Le false comunicazioni sociali:<br />
una riforma faceta, inRiv. soc., 2001, 1365 ss.; Id., Il falso in bilancio e il pendolarismo delle<br />
coscienze, ivi, 2002, 449 ss.; L. Foffani, Rilievi critici in tema di riforma del diritto penale<br />
societario, inDir. pen. proc., 2001, 1197 ss.; F. Giunta, La riforma dei reati societari ai blocchi<br />
di partenza. Prima lettura del d. legisl. 11 aprile 2002, n. 61,inStudium Juris, 2002, 695 ss.<br />
e 833 ss.; G. Marinucci, Falso in bilancio: con la nuova legge avviata una depenalizzazione di<br />
fatto, inGuida al diritto, 2001, n. 45, 10 ss.; Id., ‘‘Depenalizzazione’’ del falso in bilancio con
102<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
nale in capo alle persone fisiche – renderà quasi sempre impossibile far<br />
‘‘scattare’’ la responsabilità amministrativa dell’ente( 251 ). La conseguenza<br />
è che il criminale d’impresa, che è il criminale razionale per eccellenza,<br />
tra un costo certo – rappresentato dall’adozione dei modelli organizzativi<br />
per prevenire i reati – ed un costo remoto e di lieve entità costituito dall’applicazione<br />
della sanzione pecuniaria, sceglierà senza ombra di dubbio la seconda<br />
strada( 252 ). Il legislatore è dunque riuscito nell’impresa di mortifi-<br />
l’avallo della SEC: ma è proprio così?,inDir. pen. proc., 2002, 137 ss.; A. Mereu, Il problema<br />
del ‘‘falso quantitativo’’ e del ‘‘falso qualitativo’’ nel falso in bilancio prima e dopo la riforma,in<br />
Il fisco, 2002, n. 47, 7514 ss.; C.E. Paliero, Nasce il sistema delle soglie, op. cit., 44 ss.; C.<br />
Pedrazzi, In memoria del ‘‘falso in bilancio’’, inRiv. soc., 2001, 1373 ss.; D. Pulitanó, Falso<br />
in bilancio: arretrare sui principi non contribuisce al libero mercato, inGuida al diritto,<br />
2001, n. 39, 9 ss.; S. Seminara, False comunicazioni sociali, falso in prospetto e nella revisione<br />
contabile e ostacolo alle funzioni delle autorità di vigilanza, inDir. pen. proc., 2002, 676 ss.; B.<br />
Tinti, La legge ‘‘forza ladri’’, inMicroMega, 2001, n. 4, 173 ss.; R. Zannotti, False comunicazioni<br />
sociali: reato uno e trino a valenza patrimoniale, inDir. e Giust., 2001, n. 37, 21 ss.;<br />
Id., Il futuro del diritto penale societario nella bozza del decreto legislativo, ivi, 2002, n. 1, 16<br />
ss.; Id., Il falso in bilancio è delitto quando è «dannoso», inGuida normativa – Il Sole 24 Ore,<br />
Dossier mensile su La riforma dei reati societari, maggio 2002, n. 5, 85 ss. Tra i pochi autori<br />
favorevoli alla riforma cfr. I. Caraccioli, Una riforma in linea con la realtà economica, in<br />
AA.VV., La tavola rotonda, inLeg. pen., 2002, 531 ss.; A. Lanzi, La riforma sceglie una risposta<br />
‘‘civile’’ contro l’uso distorto dei reati societari, inGuida al diritto, 2002, n. 16, 9 ss.; C.<br />
Nordio, Novella necessaria e doverosa per riportare certezza nel diritto, ivi, 2001, n. 45, 12<br />
ss. Autorevole dottrina ha condivisibilmente osservato che la riforma dei reati societari del<br />
2002 rientra nel fenomeno delle c.d. leggi penali ad personam, cioè di quelle norme penali<br />
solo formalmente generali e astratte, ma in realtà modellate sugli specifici casi giudiziari di<br />
questo o di quel personaggio eccellente al fine di ottenere l’impunità per fatti pregressi e<br />
per fatti futuri, fenomeno che ha tristemente contrassegnato la XIV legislatura (sul tema<br />
v. le illuminati considerazioni di E. Dolcini, Leggi penali ‘ad personam‘, riserva di legge<br />
e principio costituzionale di eguaglianza, inRiv. it. dir. proc. pen., 2004, 50 ss., spec. 56<br />
ss.). Peraltro, deve rilevarsi come la legge 28 dicembre 2005, n. 262 – approvata dopo quasi<br />
due anni di gestazione schizofrenica, sotto la spinta emotiva dei gravi scandali finanziari verificatisi<br />
di recente in Italia – «ha apportato nei confronti del diritto penale societario una<br />
serie di modifiche marginali, comunque non idonee a mutare la filosofia di fondo impressa<br />
al sistema dalla riforma del 2002» (così R. Zannotti, Il nuovo diritto penale dell’economia -<br />
Reati societari e reati in materia di mercato finanziario, Milano, 2006, in corso di pubblicazione,<br />
pagina 98 del dattiloscritto).<br />
( 251 ) In tal senso v. C.E. Paliero, op. ult. cit., 63 s.; A. Alessandri, op. ult. cit., 559<br />
s.: «la forte selettività delle figure ora introdotte, riservate a ipotesi di elevatissima gravità edi<br />
accertamento assai complesso, e l’esclusione dall’area del penalmente rilevante di ipotesi in<br />
precedenza pacificamente ricomprese nella vecchia norma, con un consistente grado di disvalore,<br />
importano che la responsabilità degli enti sarà in ogni casi assai rara, nella prassi,<br />
ed andrà a colpire figure che erano già al vertice della gravità, divenendo un ‘‘costo’’ per<br />
le operazioni societarie più spericolate, non uno stimolo per una continuativa, quotidiana<br />
cultura della legalità degli affari»; G. De Francesco, La responsabilità della societas: un crocevia<br />
di problematiche per un nuovo ‘‘modello’’ repressivo, in AA.VV., L’ultima sfida della politica<br />
criminale, op. cit., 377; Id., Disciplina penale societaria e responsabilità degli enti: le occasioni<br />
perdute della politica criminale, inDir. pen. proc., 2003, 930.<br />
( 252 ) Così, quasi testualmente, C.E. Paliero, op. ult. cit., 64.
SAGGI E OPINIONI<br />
103<br />
care ogni funzione preventiva della responsabilità amministrativa degli enti<br />
proprio nel settore dei reati societari, che rappresenta uno dei suoi campi<br />
di applicazione più congeniali.<br />
L’art. 3 della legge 14 gennaio 2003, n. 7, ha inserito l’art. 25-quater,<br />
ampliando la platea dei reati-presupposto ai delitti con finalità di terrorismo<br />
o di eversione dell’ordine democratico previsti dal codice penale o<br />
da leggi speciali e ai delitti diversi da questi, posti in essere in violazione<br />
di quanto previsto dall’art. 2 della Convenzione internazionale per la repressione<br />
del finanziamento al terrorismo adottata a New York il 9 dicembre<br />
1999( 253 ). Oltre a sanzioni pecuniarie, nei confronti dell’ente sono<br />
disposte sanzioni interdittive per una durata non inferiore ad un anno,<br />
mentre si applicherà l’interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività qualora<br />
si accerti che l’ente o una sua unità organizzativa vengano stabilmente<br />
utilizzati allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione<br />
dei reati suddetti.<br />
Palese è la violazione del principio di legalità, sotto il profilo della tassatività<br />
e determinatezza della fattispecie, che caratterizza la nuova normativa.<br />
Discostandosi dal metodo seguito nel d. lgs. n. 231/2001, il legislatore<br />
non ha elencato le singole fattispecie incriminatrici, ma ha fatto ricorso ad<br />
una clausola generale potenzialmente in grado di ricomprendere qualunque<br />
reato purché aggravato dalla finalità di terrorismo o di eversione,<br />
con inevitabili ripercussioni sulla capacità dell’ente collettivo di rispettare<br />
il dettato normativo, in particolare per quanto riguarda la predisposizione<br />
di un adeguato modello organizzativo( 254 ). Così, al fine di evitare possibili<br />
censure di indeterminatezza da parte della Corte costituzionale, si è suggerito<br />
di interpretare la disposizione come riferibile ai delitti che prevedono<br />
la finalità di terrorismo o di eversione come elemento costitutivo della fattispecie,<br />
escludendo i delitti ‘‘comuni’’ semplicemente aggravati dall’art. 1<br />
della legge n. 15/1980( 255 ).<br />
La critica di fondo che deve muoversi alla disciplina dell’art. 25quater<br />
verte però sull’assoluta inverosimiglianza dell’ipotesi che un sog-<br />
( 253 ) Questa seconda categoria di reati viene divisa dal paragrafo 1 dell’art. 2 della<br />
Convenzione in tre gruppi: a) reati contemplati nelle convenzioni internazionali indicate<br />
in allegato alla Convenzione e riguardanti, in generale, crimini in materia di sicurezza aerea<br />
e aeroportuale, presa di ostaggi, persone internazionalmente protette, navigazione marittima,<br />
piattaforme fisse e uso di esplosivo; b) reati di omicidio o lesioni personali rivolti contro «vittime<br />
innocenti» e finalizzati a intimidire la popolazione o a costringere un Governo o uno<br />
Stato a fare o non fare qualcosa; c) la somministrazione o la raccolta di fondi destinati a finanziare<br />
l’esecuzione degli atti terroristici sopra indicati.<br />
( 254 ) Cfr. G. Amarelli, La responsabilità, op. cit., 50 s.; M. Leccese, Responsabilità<br />
delle persone giuridiche e delitti con finalità di terrorismo o eversione dell’ordine democratico<br />
(art. 25 quater d. lgs. n. 231 del 2001), inRiv. trim. dir. pen. ec., 2003, 1193 ss.<br />
( 255 ) Cfr. M. Leccese, op. cit., 1195.
104<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
getto apicale o un sottoposto commettano un delitto con finalità di terrorismo<br />
o di eversione nell’interesse o a vantaggio della persona giuridica:<br />
la realtà del fenomeno terroristico, infatti, dimostra che le società<br />
commerciali forniscono alle organizzazioni terroristiche contributi sganciati<br />
da qualunque interesse o vantaggio per le stesse, se non addirittura<br />
dannosi per l’ente( 256 ), in virtù del fatto che la criminalità terroristica ed<br />
eversiva è «radicalmente diversa da quella economica poiché basata su<br />
fini ‘‘politici’’ e ‘‘antisociali’’ tendenzialmente incompatibili con quelli<br />
di lucro»( 257 ).<br />
Ancora, l’art. 4, comma 1, della legge 11 agosto 2003, n. 228, introducendo<br />
l’art. 25-quinquies, ha esteso il catalogo dei reati ai delitti contro la<br />
personalità individuale disciplinati nella Sezione I del Capo III del Titolo<br />
XII del codice penale (riduzione in schiavitù, tratta e commercio di schiavi,<br />
alienazione e acquisto di schiavi, prostituzione minorile, pornografia minorile<br />
e detenzione di materiale pornografico, iniziative turistiche volte allo<br />
sfruttamento della prostituzione minorile)( 258 ), prevedendo a carico dell’ente<br />
sanzioni pecuniarie e interdittive.<br />
Deve osservarsi che l’inclusione fra i reati-presupposto dei delitti con<br />
( 256 ) Cfr. A. Carmona, op. ult. cit., 1016, che parla altresì di «inverosimiglianza criminologica<br />
della conversione al terrorismo internazionale di un’azienda normale»; M. Leccese,<br />
op. cit., 1204 s., il quale cita il caso dell’immigrato algerino titolare di un’impresa commerciale<br />
in Italia che, aderendo alle rivendicazioni del FIS, distrae, sia pure saltuariamente,<br />
una parte del reddito d’impresa per sostenere i terroristi algerini; quello del commerciante (o<br />
fabbricante) di armi italiano simpatizzante del PKK che decida di vendere sottocosto le armi<br />
che commercializza tramite la società a cui appartiene, pur sapendo che dette armi saranno<br />
utilizzate per compiere attentati terroristici in Turchia; e quello del dirigente d’azienda che<br />
pone a disposizione di un gruppo terroristico l’appartamento che la propria società normalmente<br />
adibisce ad uso foresteria per i clienti stranieri, pur essendo consapevole che esso verrà<br />
utilizzato per custodire ostaggi.<br />
( 257 ) M. Leccese, op. cit., 1208. L’autore considera comunque possibili due ipotesi<br />
applicative della normativa in questione: 1) l’impresa intrinsecamente illecita, in cui lo scopo<br />
commerciale dissimula quello unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione di<br />
reati con finalità di terrorismo o di eversione; 2) la condotta di finanziamento di un’associazione<br />
terroristica o eversiva di cui all’art. 270-bis c.p.: si pensi, per esempio, al direttore di<br />
banca che concede un prestito o compie operazioni di trasferimento titoli in favore di un’organizzazione<br />
terroristica e che, pur sapendo che le utilità derivanti dalle operazioni che compie<br />
contribuiranno a rafforzare l’organizzazione terroristica (verso cui nutre sentimenti di indifferenza),<br />
agisce ugualmente perché interessato ad allargare il portafoglio clienti della propria<br />
filiale e a mostrare ai suoi superiori le proprie capacità professionali, in vista di una<br />
futura promozione.<br />
( 258 ) Anche con riferimento a queste fattispecie si è messa in evidenza la difficoltà di<br />
configurare una connessione fra l’attività illecita – che dovrà necessariamente fuoriuscire dai<br />
limiti dell’oggetto sociale – e l’interesse o il vantaggio della società, con l’unica eccezione dell’ipotesi<br />
in cui i costi sostenuti e gli utili conseguiti siano imputati al conto economico della<br />
società (cfr. V. Salafia, op. cit., 1434 s., che individua una serie di attività in cui i reati de<br />
quibus potrebbero realizzarsi: la riduzione in schiavitù, così come la tratta e l’alienazione ed
SAGGI E OPINIONI<br />
105<br />
finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico e dei delitti<br />
contro la personalità individuale, anche se conseguenza inevitabile dell’adesione<br />
del nostro paese a convenzioni internazionali, determina un’eterogeneità<br />
malsana( 259 ), che fa deviare la responsabilità amministrativa da reato<br />
degli enti dal suo ambito di applicazione naturale, rappresentato dalla criminalità<br />
di impresa, snaturando lo spirito della nuova disciplina( 260 ). Allo<br />
stesso tempo, permangono gravi lacune all’interno del catalogo dei reati,<br />
che dovrebbe essere esteso quantomeno ai reati originariamente contemplati<br />
dalla legge delega, ai reati tributari, alle fattispecie di spionaggio industriale<br />
e alle truffe in danno dei consumatori( 261 ), ai reati di abusivismo in<br />
funzione antiriciclaggio( 262 ), nonché ai reati previsti dalla legge sul trattamento<br />
dei dati personali( 263 ). Nel complesso, l’attuale assetto del catalogo<br />
dei reati è la principale (se non unica) causa della sporadica applicazione<br />
giurisprudenziale che la responsabilità amministrativa da reato degli enti<br />
ha avuto a quasi cinque anni dall’entrata in vigore del d. lgs. n. 231/<br />
2001( 264 ).<br />
acquisto di schiavi, potrebbe riguardare le società di lavoro interinale; l’induzione alla prostituzione<br />
di minori degli anni diciotto è ipotizzabile in seno a società che impiegano o addestrano<br />
minorenni o svolgono attività a favore di essi, come le società cinematografiche,<br />
quelle che addestrano alla danza o erogano terapie fisioterapiche; infine, la pornografia minorile<br />
potrebbe svilupparsi in società o enti cinematografici o editoriali. Secondo A. Rossi,<br />
op. cit., 56, le iniziative turistiche finalizzate allo sfruttamento della prostituzione minorile<br />
potrebbero rientrare tra le attività imprenditoriali dei tour operators).<br />
( 259 ) Il rischio di un allargamento irrazionale del catalogo dei reati come conseguenza<br />
dell’adesione a convenzioni internazionali era stato segnalato da M. Miedico, I reati che determinano<br />
la responsabilità amministrativa dell’ente, in AA.VV., La responsabilità amministrativa<br />
degli enti, D. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, op. cit., 148: «Sussiste quindi il pericolo<br />
che (...) il nostro legislatore realizzi un’estensione irragionevole dell’ambito di operatività della<br />
nuova disciplina della responsabilità degli enti, per ottemperare ai numerosissimi impegni<br />
presi in sede internazionale – ove peraltro tale responsabilità può essere prevista non in base<br />
ad una vera e propria scelta razionale ma per effetto di ‘‘clausole di stile’’ adottate all’interno<br />
delle Convenzioni internazionali – senza che invece si sia riconosciuta preliminarmente tale<br />
responsabilità nelle ipotesi più frequenti e più gravi di criminalità d’impresa»; L. Stortoni,<br />
op. ult. cit., 70.<br />
( 260 ) Cfr. A. Carmona, op. ult. cit., 1015, che ravvisa «un percorso di deviazione dalla<br />
logica ispiratrice» del sistema di responsabilità amministrativa degli enti iniziato con l’art. 25quater<br />
e proseguito con l’art. 25-quinquies; A. Rossi, op. cit., 55s.<br />
( 261 ) Cfr. A. Carmona, op. ult. cit., 1004.<br />
( 262 ) Cfr. R. Zannotti, La tutela dell’accesso al mercato nella prospettiva della lotta<br />
contro il riciclaggio: il caso dell’abusivismo, inInd. pen., 2003, 948 s., e in Riv. Guardia di<br />
Finanza, 2004, n. 1, 62 ss.: «L’estensione della responsabilità amministrativa anche nei confronti<br />
delle società che operano abusivamente rivestirebbe indubbiamente una funzione di<br />
enforcement nei confronti della tutela del mercato, in quanto renderebbe la persona giuridica<br />
responsabile in via diretta dell’operato dei suoi amministratori».<br />
( 263 ) Cfr. M. Miedico, op. cit., 149.<br />
( 264 ) Le poche applicazioni giurisprudenziali, a quanto consta, sono per ora costituite<br />
pressoché esclusivamente da sentenze di patteggiamento e da ordinanze che dispongono o
106<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
Peraltro, deve segnalarsi come negli ultimi tempi il quadro complessivo<br />
del catalogo dei reati si sia ulteriormente arricchito e complicato,<br />
sempre sulla spinta del diritto internazionale e del diritto comunitario.<br />
In primo luogo l’art. 9 della legge 18 aprile 2005, n. 62 (legge comunitaria<br />
2004), nel recepire la direttiva 2003/6/CE del Parlamento Europeo<br />
e del Consiglio, del 28 gennaio 2003, relativa all’abuso di informazioni privilegiate<br />
e alla manipolazione del mercato, nonché agli abusi di mercato<br />
(c.d. direttiva sul market abuse), e delle direttive di attuazione della Commissione<br />
2003/124/CE, 2003/125/CE e 2004/72/CE, ha creato una nuova<br />
figura di responsabilità amministrativa degli enti (emittenti strumenti finanziari<br />
ammessi, o per i quali sia stata presentata richiesta di ammissione, alle<br />
negoziazioni in un mercato regolamentato italiano o di altro paese U.E.)<br />
per i nuovi illeciti amministrativi di abuso di informazioni privilegiate (insider<br />
trading) e di manipolazione del mercato (art. 187-quinquies d. lgs. n.<br />
58/1998), le cui condotte sono pressoché coincidenti con quelle delle parallele<br />
figure di reato( 265 ) (nuovi artt. 184 e 185 d. lgs. n. 58/1998): si crea<br />
dunque un’anomala forma di responsabilità amministrativa dell’ente – il<br />
quale è responsabile del pagamento di una somma pari all’importo della<br />
sanzione amministrativa irrogata alla persona fisica – derivante da un illecito<br />
amministrativo, che quasi sempre è anche illecito penale, commesso<br />
nel suo interesse o a suo vantaggio( 266 ), la cui procedura sanzionatoria è<br />
negano l’applicazione di misure cautelari: cfr. Trib. Pordenone, Ufficio G.U.P., 4 novembre<br />
2002, in Dir. prat. soc., 2003, n. 11, 79 ss., con commento di F. Foglia Manzillo, einDir.<br />
comm. int., 2003, 193 ss., con nota di G. Capecchi, Funzione rieducatrice della pena e responsabilità<br />
penale delle persone giuridiche; Trib. Salerno, Ufficio G.I.P., Ord. 28 marzo<br />
2003, in Dir. prat. soc., 2004, n. 23, 77 ss., con commento di I. Di Domenico; Trib. Roma,<br />
Ufficio G.I.P., 7 marzo 2003, in www.reatisocietari.it; Trib. Roma, Ufficio G.I.P., Ord. 4<br />
aprile 2003, cit.; Trib. Milano, Ufficio G.I.P., Ord. 27 aprile 2004, cit.; Trib. Milano, Ufficio<br />
G.I.P., Ord. 9 novembre 2004, cit.; Trib. Milano, Sezione XI riesame, 20 dicembre 2004,<br />
cit.; Trib. Torino, Sezione G.U.P., Ord. 10 febbraio 2005, cit.<br />
( 265 ) Deve precisarsi che tra il reato di abuso di informazione privilegiate (insider trading)<br />
ed il parallelo illecito amministrativo vi è una coincidenza totale della condotta, mentre<br />
la sovrapposizione tra illecito penale e illecito amministrativo è solo parziale per la manipolazione<br />
del mercato. Incidentalmente si rileva come l’aver qualificato condotte pressoché<br />
coincidenti sia come illecito amministrativo che come illecito penale costituisce una macroscopica<br />
violazione del principio di sussidiarietà del diritto penale, in contrasto con le indicazioni<br />
contenute nella circolare della Presidenza del Consiglio dei ministri del 19 dicembre<br />
1983 in tema di criteri orientativi per la scelta tra sanzioni penali e sanzioni amministrative<br />
e con i principi in materia di concorso tra sanzioni penali e sanzioni amministrative (art. 9<br />
legge 24 novembre 1981, n. 689).<br />
( 266 ) Che ci troviamo di fronte ad una nuova forma di responsabilità dell’ente pare altresì<br />
confermato dalla previsione di cui al comma 4 del nuovo art. 187-quinquies d. lgs. n. 58/<br />
1998: «In relazione agli illeciti di cui al comma 1 si applicano, in quanto compatibili, gli articoli<br />
6, 7, 8 e 12 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231...». Ricalcando il meccanismo<br />
di cui all’art. 5, comma 2, del d. lgs. n. 231/2001, l’art. 187-quinquies, comma 2, ha previsto
SAGGI E OPINIONI<br />
107<br />
affidata alla Consob (art. 187-septies d. lgs. n. 58/1998). A fianco a tale<br />
forma di responsabilità si introduce inoltre nel d. lgs. n. 231/2001 l’articolo<br />
25-sexies, che amplia il catalogo dei reati alle fattispecie incriminatrici di<br />
abuso di informazioni privilegiate e di manipolazione del mercato( 267 ), determinando<br />
così a carico dell’ente una duplicazione di responsabilità e procedimenti<br />
sanzionatori in relazione allo stesso fatto( 268 ). In questa novella il<br />
legislatore si è altresì orientato a perseverare nella scelta nefasta, già compiuta<br />
per i reati societari, di escludere le sanzioni interdittive nei confronti<br />
degli enti.<br />
In secondo luogo l’art. 8 della legge 9 gennaio 2006, n. 7 ha esteso la<br />
responsabilità da reato degli enti – tramite l’inserimento di un nuovo art.<br />
25-quater 1( 269 ) nel d. lgs. n. 231/2001 – alla nuova fattispecie incriminatrice<br />
di cui all’art. 583-bis c.p., che punisce le pratiche di mutilazione degli<br />
organi genitali femminili.<br />
Infine la legge 16 marzo 2006, n. 146 – che ha finalmente ratificato e<br />
dato esecuzione nel nostro ordinamento alla Convenzione ONU, nonché ai<br />
relativi Protocolli, contro il crimine organizzato transnazionale, adottati<br />
dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001 – ha<br />
previsto la responsabilità amministrativa da reato degli enti per una serie<br />
di reati tipici della criminalità organizzata( 270 ), laddove essi presentino il<br />
carattere della transnazionalità così come definito nell’art. 3 della legge.<br />
un’esimente per il caso in cui l’ente – su cui dunque grava l’onere della prova – dimostri che<br />
la persona fisica ha agito «esclusivamente nell’interesse proprio o di terzi».<br />
( 267 ) Sull’argomento v. G. Paolozzi, Modelli atipici a confronto. Nuovi schemi per<br />
l’accertamento della responsabilità degli enti (II), in Dir. pen. proc., 2006, 239 ss., nonché l’approfondito<br />
contributo di F. Santi, La responsabilità delle «persone giuridiche» per illeciti penali<br />
e per illeciti amministrativi di abuso di informazioni privilegiate e di manipolazione del<br />
mercato, in Banca, borsa e titoli cred., 2006, I, 81 ss.<br />
( 268 ) In senso critico verso tale sovrapposizione di responsabilità a carico dell’ente cfr.<br />
S. Bartolomucci, Market abuse e «le» responsabilità amministrative degli emittenti, in Le<br />
soc., 2005, 924; M. Bellacosa, ‘‘Insider trading’’: manipolazione, abusi di mercato e responsabilità,<br />
in Dir. prat. soc., 2005, n. 11, 26; R. Zannotti, Il nuovo diritto penale dell’economia,<br />
op. cit., pagina 359 del dattiloscritto, il quale parla di «incomprensibile accanimento del legislatore<br />
che, per quanto motivato dalla gravità dei fatti di abuso di informazioni privilegiate,<br />
appare comunque sproporzionato e vessatorio».<br />
( 269 ) La nuova disposizione prevede che la sanzione pecuniaria da 300 a 700 quote e le<br />
sanzioni interdittive di cui all’art. 9, comma 2, d. lgs. n. 231/2001 si applicano all’ente «nella<br />
cui struttura è commesso il delitto»: un’interpretazione rigidamente letterale del dato normativo<br />
potrebbe indurre a ritenere non necessario il requisito dell’interesse o del vantaggio, essendo<br />
sufficiente il dato fattuale del compimento della mutilazione all’interno della struttura<br />
dell’ente, con la conseguenza che ci troveremmo di fronte ad un’ipotesi di vera e propria<br />
responsabilità oggettiva.<br />
( 270 ) L’art. 8 della legge 16 marzo 2006, n. 146 ha introdotto la responsabilità amministrativa<br />
degli enti, prevedendo l’applicazione della sanzione pecuniaria e delle sanzioni interdittive,<br />
per i seguenti reati: associazione per delinquere (art. 416 c.p.); associazione per<br />
delinquere di stampo mafioso (art. 416-bis c.p.); associazione per delinquere finalizzata al
108<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
Appare singolare la non inclusione dei suddetti reati nel d. lgs. n. 231/<br />
2001, mentre per il resto vi è un rinvio alle disposizioni del citato testo normativo.<br />
Questi recenti ed innumerevoli ampliamenti del catalogo dei reati, unitamente<br />
alle ulteriori integrazioni che si determineranno in seguito alle sollecitazioni<br />
comunitarie( 271 ), dovrebbero contribuire ad incrementare l’applicazione<br />
pratica della disciplina sulla responsabilità amministrativa da<br />
reato degli enti.<br />
Andrea Mereu<br />
contrabbando di tabacchi lavorati esteri (art. 291-quater d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43); associazione<br />
finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 74 d.P.R. 9<br />
ottobre 1990, n. 309); riciclaggio (art. 648-bis c.p.); impiego di denaro, beni o utilità di provenienza<br />
illecita (art. 648-ter c.p.); reati concernenti il traffico dei migranti (art. 12 commi 3,<br />
3-bis, e-ter, e 5 d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286); art. 377-bis c.p. (induzione a non rendere dichiarazioni<br />
o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria); art. 378 c.p. (favoreggiamento<br />
personale).<br />
( 271 ) Il riferimento è alle seguenti decisioni quadro del Consiglio dell’U.E.: 2003/80/<br />
GAI del 27 gennaio 2003 sulla tutela ambientale (sul tema v. M. Arena-M. Pansarella,<br />
Verso l’(auspicabile) introduzione della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche<br />
in relazione ai reati ambientali, in Temi romana, 2003, 72 ss.); 2003/568/GAI in tema di lotta<br />
alla corruzione nell’esercizio di attività professionali provate; 2004/757/GAI del 25 ottobre<br />
2004 in tema di traffico di stupefacenti (in argomento cfr. M. Arena, Traffico di stupefacenti<br />
e responsabilità delle persone giuridiche, 15 marzo 2005, in www.reatisocietari.it); 2005/222/<br />
GAI del 24 febbraio 2005 su l’accesso e l’influenza illecita su sistemi e dati informatici.
SAGGI E OPINIONI<br />
SILENZIO COLPEVOLE, SILENZIO INNOCENTE.<br />
L’INTERROGATORIO DELL’IMPUTATO DA MEZZO DI PROVA<br />
A STRUMENTO DI DIFESA NELL’ESPERIENZA<br />
GIURIDICA ITALIANA<br />
109<br />
Sommario: 1. Dopo la riforma del 2001: vicende nuove dal sapore antico. – 2. L’antefatto:<br />
ad eruendam veritatem. – 3. La ‘terza via’: la soluzione italiana del codice del 1807. – 4.<br />
Nella legislazione postunitaria: da indizio di colpevolezza a strumento di difesa. – 5. La<br />
storia infinita.<br />
1. Dopo la riforma del 2001: vicende nuove dal sapore antico. – Il processo<br />
è, per eccellenza, luogo di parola. Essa riveste un ruolo da protagonista<br />
non soltanto nel contraddittorio, momento di massima drammaticità,<br />
quasi ‘rappresentazione teatrale’ di un ‘diritto che va in scena’, ma anche<br />
gli atti, le carte, i verbali, nella loro apparente inerzia, ‘parlano’. Si può affermare<br />
altrettanto per il silenzio dell’imputato?<br />
Il ‘silenzio giuridico’ non è incolore, né neutro; non è inazione, non si<br />
sostanzia in un semplice non fare, in un atteggiamento passivo contrapposto<br />
all’agire di chi interroga. «Il silenzio è un fatto, un accadimento e<br />
il suo contenuto sarà più o meno negativo a seconda dell’interpretazione<br />
che si potrà o si dovrà dare a tale comportamento»( 1 ). L’affermazione<br />
qui riprodotta implicitamente presuppone e accetta come vera l’idea che<br />
il silenzio abbia forma negativa e contenuto positivo; esprima in sé un significato,<br />
non certo né univoco, ma, al contrario, correlato all’interpretazione<br />
offertane.<br />
Come è stato osservato, chi tace opera una frattura tra comportamento<br />
esteriore e contenuto interiore; rifiuta l’assunzione di un impegno personale<br />
(quello che deriva dalla parola, ma ancor di più dalla risposta ad<br />
una domanda) e addossa il compito di sanare e di ricucire lo strappo tra<br />
forma e sostanza alla persona nei cui confronti oppone il silenzio( 2 ). C’è<br />
l’atto di chi tace (e di quest’unica scelta il silente si assume la responsabilità,<br />
( 1 ) M.S. Goretti, Il problema giuridico del silenzio, Milano 1982, p. 12.<br />
( 2 ) M.S. Goretti, Il problema cit., p. 22.
110<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
esentandosene per ciò che concerne il valore attribuito al suo silenzio) e<br />
l’atto di chi interpreta (chiamato a riempire di significato lo spazio vuoto<br />
creato dall’assenza della parola).<br />
Nel rito processuale le conseguenze del silenzio sono predeterminate<br />
dalla legge. E questo può condurci a sostenere che lo stesso valore di tale<br />
comportamento (colpevole o innocente) sia stato rimesso nel tempo ad una<br />
determinazione a fortiori della legge (o della prassi)( 3 ), a prescindere dall’eventuale<br />
corrispondenza tra il significato giuridico ad esso attribuito (verità<br />
processuale) e il suo significato reale (verità materiale)( 4 ): sempre che si<br />
ritenga possibile, anche solo in via teorica, una simile distinzione.<br />
La questione del silenzio dell’imputato nel processo penale si è proposta<br />
quasi ciclicamente all’attenzione dei giuristi. Per i processualpenalisti,<br />
in particolare, essa rappresenta una sorta di ‘croce e delizia’.<br />
Il tema torna oggi ad essere di estrema attualità. Dopo la scossa generata<br />
dalla legge 5 dicembre 1969 n. 932, che, per la prima volta in modo<br />
esplicito( 5 ), ha introdotto nel nostro ordinamento (all’art. 78, 3º comma<br />
( 3 ) A. LaTorre, Silenzio (dir. priv.), inEnciclopedia del diritto, XLII, Milano 1990, p.<br />
545.<br />
( 4 ) Il significato della ‘verità’ all’interno del processo è un problema centrale, così come<br />
lo è la possibilità o meno di distinguere tra una verità materiale oggettiva ed una processuale.<br />
Sul punto mi permetto di rinviare al mio Il diabolico intreccio. Reo convinto e indizi<br />
indubitati nel commento di Bartolomeo da Saliceto (C. 4.19.25): alle radici di un problema,<br />
in ‘Panta rei’. Studi dedicati a Manlio Bellomo, a cura di O. Condorelli, t. II, Roma<br />
2004, pp. 387-8 e relative ntt.; si veda L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo<br />
penale, Roma-Bari 1989, pp. 23-4 e 40-1; G. Ubertis, La ricerca della verità giudiziale, inLa<br />
conoscenza del fatto nel processo penale, a cura di G. Ubertis, Milano 1992, pp. 1-3; Id., La<br />
prova penale. Profili giuridici ed epistemologici, Torino 1995, pp. 1-7; P. Comanducci, La<br />
motivazioni in fatto, inLa conoscenza del fatto cit., pp. 237-9; P. Ferrua, Anamorfosi del<br />
processo accusatorio, inId., Studi sul processo penale, II, Torino 1992, pp. 170-1; M. Taruffo,<br />
La prova dei fatti giuridici, inTrattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. Cicu –<br />
F. Messineo, continuato da L. Mengoni, III, 2, 1, Milano 1992, pp. 152-6. Da ultimo, efficace<br />
e suggestiva la ricostruzione sui diversi significati di ‘verità’ operata da O. Mazza,<br />
L’interrogatorio e l’esame dell’imputato nel suo procedimento, inTrattato di procedura penale,<br />
diretto da G. Ubertis e G.P. Voena, 7, 1, Milano 2004, pp. 10-21. Donà ammoniva sull’esagerata<br />
rilevanza data alla ricerca della verità, reale o materiale, nel procedimento penale,<br />
contrapposto a quello civile dominato invece dal principio della verità formale: «la verità non<br />
può essere che una, ai fini della giustizia», secondo l’autore (G. Dona’, Il silenzio nella teoria<br />
delle prove giudiziali, Torino 1929, p. 61). Respinge, invece, la dottrina secondo cui lo scopo<br />
del processo sarebbe la ricerca e la scoperta della verità materiale G. Sabatini, Principi di<br />
diritto processuale penale italiano, Città di Castello 1931, pp. 38-9, di cui sostenitore era U.<br />
Ferrari, La verità penale e la sua ricerca nel diritto processuale penale italiano, Milano 1927.<br />
( 5 ) In tali termini si esprime Vassalli, il quale sostiene che la consacrazione del canone<br />
nemo tenetur se detegere era rimasto fino ad allora implicito nel nostro ordinamento. La legge<br />
del ’69 assumeva quindi per la prima volta questo principio (dopo i tentativi esperiti ad<br />
inizio secolo dal codice di Finocchiaro-Aprile) come un diritto fondamentale dell’imputato e<br />
dell’indiziato (G. Vassalli, Modificazioni al c.p.p. in merito alle indagini preliminari, al di-
SAGGI E OPINIONI<br />
111<br />
del c.p.p. del 1930) l’obbligo per l’autorità procedente di avvertire l’imputato(<br />
6 ), prima dell’inizio dell’interrogatorio, della possibilità di avvalersi<br />
della facoltà di non rispondere (attuando il riconoscimento della difesa<br />
quale diritto inviolabile così come sancito dall’art. 24, 2º comma della Costituzione)(<br />
7 ), una nuova ‘impennata’ di interesse si è avuta in seguito alla<br />
ritto di difesa, all’avviso di procedimento ed alla nomina del difensore, inRiv. it. di dir. e proc.<br />
penale, 1969, p. 927).<br />
( 6 ) La dialettica del giudizio impone che all’esistenza di un’accusa faccia da contraltare<br />
un diritto alla difesa, che è quello che «meglio caratterizza la posizione stessa dell’imputato<br />
all’interno del processo penale» (O. Mazza, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato cit., p.<br />
42), intendendosi perciò l’espressione ‘imputato’ in senso lato e atecnico, secondo una valutazione<br />
comunemente accolta, comprensiva del concetto di ‘accusato’, ‘indagato’, ‘inquisito’<br />
ecc. Sul punto cfr. M. Chiavario, Giudice, parti e altri personaggi sulla scena del nuovo processo<br />
penale, inCommento al nuovo codice di procedura penale, Torino 1989, I, p. 383; E.<br />
Marzaduri, Imputato e imputazione,inDigesto italiano, IV ed., Sez. Discipline penalisitiche,<br />
vol. VI, Torino 1992, pp. 279 e 283; G. Ubertis, La previsione del giusto processo secondo la<br />
‘‘Commissione bicamerale’’, inId., Argomenti di procedura penale, Milano 2003, pp. 36-8;<br />
G.P. Voena, Soggetti, inCompendio di procedura penale, diretto da G. Conso –V.Grevi,<br />
Padova 2003, pp. 90-6. Vale la pena di ricordare che, come si vedrà più avanti, nel passato<br />
per lungo tempo l’imputato era designato dalle fonti con il termine di reo. Addirittura il pavese<br />
Giacomo Maria Anfossi, indotto a scrivere una proposta di riforma del diritto e della<br />
procedura penale dai quarant’anni trascorsi in magistratura in cui «troppe ne vidi e ne passai»,<br />
prevedeva all’art. 7 del suo progetto di introdurre in via normativa una diversa nomenclatura<br />
definitoria. Il susseguirsi delle fasi processuali influiva, secondo l’Anfossi, sulla relativa<br />
denominazione adottabile per definire il soggetto in causa. Si doveva chiamare reo sospetto<br />
colui contro il quale, per mancanza di indizi legali, non era possibile aprire<br />
l’istruzione; l’espressione inquisito reo indicava colui contro il quale l’inquisizione era ‘deliberata’<br />
e reo condannato o assoluto chi era giudicato colpevole o innocente. Di conseguenza<br />
anche gli esami, a cui i ‘rei’ erano sottoposti, ricevevano una distinta appellazione: si dicevano<br />
interrogatori gli esami del reo sospetto e costituti quelli del reo inquisito (G.M. Anfossi,<br />
Studio e prime idee per servire alla compilazione di un nuovo codice di procedura criminale,<br />
Milano 1838, art. 7, pp. 254-5). Sul punto si veda anche S. Graziano, La difesa penale nell’istruttoria<br />
in rapporto alla scienza e al nuovo codice di procedura penale, Bologna 1913, p. 39.<br />
Scrive Carrara che il temine reo, la cui etimologia discende da reor, putare cioè supporre, sta<br />
ad indicare lo stato di accusa, ossia quella posizione intermedia fra l’innocenza e la condanna,<br />
in cui il soggetto si sospetta colpevole, ma non è ancora riconosciuto tale. La sua portata definitoria<br />
è perciò ampia, nel senso che designa qualunque persona nei cui confronti si dirige<br />
una domanda giudiziale, chiarendo che la parola reo ha nel linguaggio giuridico un significato<br />
assai diverso da quello in cui si adopera comunemente: per il ‘volgo’ il reo è colpevole,<br />
per il giurista può essere innocente: «ed è grave errore quello di chi, per una prevenzione<br />
funesta, osi confondere il senso giuridico di questa denominazione col suo volgare significato»<br />
(F. Carrara, Programma del corso di diritto criminale, parte generale, vol. II, Firenze<br />
1902, § 870, pp. 354-5). Conferisce all’espressione un diverso significato Sbriccoli, per il<br />
quale l’accusato è reus, ossia un oggetto (reus da res) «o una figura ficta, praticamente senza<br />
voce, che nel combattimento processuale ha contro tutti i protagonisti» (M. Sbriccoli,<br />
«Tormentum idest torquere mentem». Processo inquisitorio e interrogatorio per tortura nell’Italia<br />
comunale, inLa parola all’accusato, Palermo 1991, p. 23).<br />
( 7 ) Sull’art. 24 della Costituzione e il suo riconoscimento della difesa come diritto inviolabile<br />
dell’uomo, si veda, tra i tanti, A. Carli Gardino, Il diritto alla difesa nell’istrutto-
112<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
legge di revisione costituzionale del 1999, che ha introdotto i principi del<br />
‘giusto processo’ (formula, forse, infelice, quasi a presupporre per l’addietro<br />
un processo ingiusto).<br />
L’art. 111 della Costituzione, modificato secondo le nuove direttive,<br />
nei commi 2º e 4º ha elevato il contraddittorio a valore cardine dell’esercizio<br />
della giurisdizione penale, sancendone una doppia valenza: da un lato<br />
esso si presenta quale mezzo di tutela della posizione del singolo; dall’altro<br />
è strumento di ricostruzione della verità giudiziale. Si è cercato così di bilanciare<br />
il significato del contraddittorio quale metodo di conoscenza con<br />
quello di garanzia individuale( 8 ).<br />
Se questo profilo ha sollevato qualche perplessità in ordine alla possibile<br />
e concreta conciliazione di termini tra loro eterogenei (aspetto soggettivo<br />
ed oggettivo del contraddittorio), ulteriori quesiti ermeneutici sono<br />
stati posti dal 3º comma dell’art. 111, che stila un elenco, eccessivamente<br />
dettagliato ma non per questo privo di omissioni e lacune( 9 ), delle facoltà<br />
attribuite alla persona accusata di un reato. Tra queste, l’informativa nel<br />
più breve tempo possibile circa la natura e i motivi dell’accusa elevata<br />
nei suoi confronti o la garanzia del tempo e delle condizioni necessarie<br />
per predisporre la difesa; la facoltà di interrogare o di far interrogare, davanti<br />
al giudice, le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, o di ottenere<br />
la convocazione e l’interrogatorio di persone a difesa nelle medesime<br />
condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a favore;<br />
infine, l’assistenza di un interprete a beneficio dei soggetti non in<br />
grado di comprendere la lingua impiegata nel processo.<br />
ria penale. Saggio sull’art. 24 comma 2 Cost., Milano 1983, in particolare pp. 37-8. Tra le implicazioni<br />
dell’art. 24 Vassalli vi riconosce anche il diritto di difendersi provando, consistente<br />
nel diritto di non vedere menomata la possibilità di difesa attraverso un’arbitraria restrizione<br />
dei mezzi di prova (G. Vassalli, Il diritto alla prova nel processo penale, inRiv.it. dir. proc.<br />
pen., 1968, p. 12).<br />
( 8 ) L’art. 111 afferma nel 2º comma che ogni processo si svolge nel contraddittorio<br />
delle parti. Il 4º comma dispone che il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio<br />
nella formazione della prova. È una formula breve, ma potente, dove il contraddittorio<br />
non figura come semplice diritto individuale, ma come garanzia oggettiva e condizione<br />
di regolarità del processo (P. Ferrua, Rischio contraddizione sul neo-contraddittorio, inDiritto<br />
e giustizia, vol. I, n. 1, 2000, p. 79). Esalta il significato non univoco del principio del<br />
contraddittorio, che in sé contiene due anime, l’una oggettiva di accertamento dei fatti e l’altra<br />
soggettiva che si configura come garanzia individuale, C. Conti, Le due ‘‘anime’’del contraddittorio<br />
nel nuovo art. 111 Cost., inDiritto penale e processo, 2000, pp. 197-202.<br />
( 9 ) Così lamenta M. Chiavario, Nelle Carte europee garanzie più equilibrate e un freno<br />
agli abusi,inDiritto e giustizia, vol. I, n. 1, 2000, p. 77; sono regole confusamente affastellate,<br />
fa eco P. Ferrua, Il processo penale dopo la riforma dell’art. 111 della Costituzione, inQuestione<br />
giustizia, 1, 2000, p. 50. Si rinvia anche a M. Bargis, Studi di diritto processuale penale,<br />
I ‘‘Giusto processo’’ italiano e Corpus juris europeo, Torino 2002, pp. 43-53.
SAGGI E OPINIONI<br />
113<br />
Come si nota, manca l’espressa previsione della facoltà di non rispondere,<br />
e, più in generale, del possibile esercizio di un’autodifesa passiva.<br />
Si sostiene che nel mutato quadro costituzionale tale assenza derivi dal<br />
fatto che l’autodifesa mediante silenzio sia «una componente ineliminabile<br />
del concetto stesso di giusto processo [...] implicita nella struttura di un<br />
processo che voglia dirsi giusto»( 10 ), e che l’articolo in oggetto abbia elevato<br />
la scelta tra tacere e rispondere a diritto costituzionalmente protetto(<br />
11 ) nel 4º comma dell’art. 111 («la colpevolezza dell’imputato non<br />
può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta,<br />
si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio dell’imputato o del<br />
suo difensore»).<br />
È stato tuttavia rilevato come l’espressione ‘libera scelta’ (formula introdotta<br />
per evitare ad esempio l’inutilizzabilità di dichiarazioni rese da un<br />
soggetto silenzioso perché minacciato, il quale rimane sì in silenzio volontariamente,<br />
ma non liberamente) non significhi ‘scelta legittima’ (anche la<br />
decisione di commettere un reato è libera ma non lecita)( 12 ). Di conseguenza,<br />
non potrebbe trarsi dall’art. 111 alcuna conferma riguardo all’esistenza<br />
in capo all’imputato della ‘legittima’ facoltà di tacere( 13 ): tale principio,<br />
viceversa, continuerebbe a trovare, ad oggi, la propria ragion d’essere<br />
negli artt. 24 (a cui unanimemente si attribuisce la funzione di<br />
garantire anche il ‘‘diritto’’ al silenzio) e 27 comma 2 della Costituzione<br />
(presunzione di non colpevolezza).<br />
È innegabile tuttavia che la Carta repubblicana contenga una restrizione<br />
della facoltà di rimanere in silenzio laddove, assicurando all’imputato<br />
di interrogare davanti al giudice o di far interrogare le persone che rendano<br />
dichiarazioni a suo carico, delinea una strategia difensiva libera finché non<br />
lesiva di un diritto altrui. L’ampia dizione costituzionale (si parla di ‘per-<br />
( 10 ) O. Mazza, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato cit., p. 63.<br />
( 11 ) Cfr. E. Amodio, Giusto processo, diritto al silenzio e obblighi di verità dell’imputato<br />
sul fatto altrui, inCassazione penale, 2001, p. 3589.<br />
( 12 ) A. Trapani, Finalmente recepiti gli accordi internazionali, inGuida al diritto,<br />
1999, p. 9 e 60.<br />
( 13 ) La scelta è libera, ma non legittima qualora sia contraria all’ordinamento. Sul punto<br />
cfr. P. Tonini, Diritto al silenzio e tipologia dei dichiaranti, inGiusto processo e prove penali.<br />
Legge 1º marzo 2001 n. 63, Milano 2001, pp. 73-4; Id., L’attuazione del contraddittorio<br />
nell’esame di imputati e testimoni, inCassazione penale, 2001, p. 690; Id., Il diritto al silenzio<br />
tra giusto processo e disciplina di attuazione, inCassazione penale, 2002, p. 837; F. Cordero,<br />
Procedura penale, Milano 2003, pp. 743-4; V. Grevi, Spunti problematici sul nuovo modello<br />
costituzionale di ‘‘giusto processo’’ penale (tra ‘‘ragionevole’’ durata, diritti dell’imputato e garanzia<br />
del contraddittorio), inAlla ricerca di un processo penale ‘‘giusto’’. Itinerari e prospettive,<br />
Milano 2000, p. 339; Id., Dichiarazioni dell’imputato sul fatto altrui, diritto al silenzio e<br />
garanzia del contraddittorio, inAlla ricerca di un processo cit., pp. 280-3. Sulla necessità<br />
che sia tutelata espressamente l’autodifesa a livello costituzionale cfr. L. Marafioti, Scelte<br />
autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, Torino 2000, pp. 97-8.
114<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
sone’ e non di ‘testimoni’) consente di ricomprendere nel novero di soggetti<br />
sottoponibili ad interrogatorio anche quel dichiarante che sia a sua<br />
volta imputato in altro processo. Ne discende, ovviamente, che se un imputato<br />
sceglie di accusare altri davanti al giudice, secondo l’art. 111 rinuncia<br />
irrevocabilmente al diritto al silenzio.<br />
Le indicazioni programmatiche costituzionali si sono tradotte nella<br />
legge n. 63 del 2001, che, relativamente al tema di cui si tratta, ne ha innovato<br />
in modo significativo i connotati originari, in seguito alla riformulazione<br />
del terzo comma dell’art. 64 del c.p.p. e all’inserimento di una nuova<br />
disposizione, il terzo comma bis. Ebbene, nel 3º comma dell’art. 64 al<br />
punto b la norma ribadisce che prima dell’inizio dell’interrogatorio la persona<br />
deve essere avvertita che ha facoltà di non rispondere ad alcuna domanda(<br />
14 ) (avvertimento che era presente anche nella versione originaria<br />
dell’art. 64). Al punto c invece, in ottemperanza al dettato costituzionale,<br />
stabilisce che qualora egli renda dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità<br />
di altri, assumerà, in ordine a tali fatti, l’ufficio di testimone.<br />
Questa è la novità più rilevante e discussa della riforma: nella fase dibattimentale<br />
può accadere che uno stesso soggetto rivesta contemporaneamente<br />
e contestualmente la qualifica di imputato e di testimone( 15 ); il passaggio<br />
dall’una all’altra genera ‘conflitto di posizioni’, precisamente fra la<br />
facoltà di non rispondere propria dell’imputato e l’obbligo di rispondere<br />
secondo verità esistente in capo al testimone ex art. 197 bis c.p.p.<br />
Uno dei risultati di attuazione dell’art. 111 della Costituzione sta proprio<br />
in questo: una consistente riduzione dell’incompatibilità a testimoniare<br />
ex art. 197, poiché cade il divieto di sentire come teste l’imputato<br />
di reato connesso a quello per cui si procede e l’imputato di reato collegato.<br />
Si nota dunque come, accanto all’avvertimento, per così dire, tradizionale<br />
rivolto all’imputato, le legge ne sottintende un altro di segno opposto<br />
per rendere edotto l’interrogato sugli effetti delle sue dichiarazioni. In pratica<br />
egli deve innanzitutto sapere, sul modello angloamericano, che quanto<br />
da lui riferito all’autorità procedente potrà essere sempre utilizzato nei suoi<br />
confronti, seppur nei limiti sanciti dalla legge processuale in ordine all’ef-<br />
( 14 ) Sono fatte salve le domande che riguardano le sue generalità, sulle quali grava un<br />
vero e proprio obbligo di rispondere secondo verità e di cooperare con l’autorità indagante,<br />
poiché tali dichiarazioni non intaccherebbero l’esercizio del diritto alla difesa (così O. Campo,<br />
Interrogatorio: 1) interrogatorio dell’imputato, inEnc. Dir., XXII, Milano 1972, p. 342;<br />
cfr. anche O. Mazza, Interrogatorio ed esame dell’imputato: identità di natura giuridica e di<br />
efficacia probatoria,inRiv.it.dir.proc.pen., 1994, p. 836; Id., L’interrogatorio e l’esame dell’imputato<br />
cit., pp. 113-114).<br />
( 15 ) Si sostiene che ciò avvenga per la prima volta in Italia: cfr. P. Tonini, Il diritto a<br />
confrontarsi con l’accusatore, inDir. pen. proc., 1988, p. 1511; Id., L’alchimia del nuovo sistema<br />
probatorio: una attuazione del giusto processo?, inGiusto processo cit., pp. 7-8.
SAGGI E OPINIONI<br />
115<br />
ficacia propria dell’atto considerato. Tale ammonimento «punta comprensibilmente<br />
a rendere effettivo il ius tacendi»( 16 ).<br />
Il problema, però, nasce riguardo alla citata lettera c dello stesso art.<br />
64 terzo comma. Essa infatti, per quanto circoscritta ai casi di procedimenti<br />
teleologicamente connessi ex art. 12 comma 1 lett. c del c.p.p.<br />
(«se dei reati per cui si procede gli uni sono stati commessi per eseguire<br />
o per occultare gli altri») e a quelli di collegamento probatorio previsti dall’art.<br />
371 comma 2 lett. b («se si tratta di reati dei quali gli uni sono stati<br />
commessi in occasione degli altri, o per conseguirne o assicurarne al colpevole<br />
o ad altri il profitto, il prezzo, il prodotto o l’impunità, o che sono stati<br />
commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre, ovvero se la<br />
prova di un reato o di una circostanza influisce sulla prova di un altro reato<br />
o di un’altra circostanza»), escludendo l’ipotesi in cui le dichiarazioni dell’imputato<br />
si riferiscano alla responsabilità di coimputati del medesimo<br />
reato nello stesso procedimento o in procedimenti connessi ex art. 12<br />
comma 1 lett. a c.p.p., è comunque tale da far sorgere seri dubbi sull’effettiva<br />
tutela, oggi, del ius tacendi.<br />
L’ibrida( 17 ) figura di soggetti, testimoni per quanto affermano nei<br />
confronti degli altri, imputati per ciò che li concerne in via diretta( 18 ), qualità<br />
nel passato mantenute nettamente distinte, come risulta dall’art. 348,<br />
comma 3 del Codice Rocco, induce a chiedersi se l’imputato, in relazione<br />
a dichiarazioni rese su responsabilità di terzi, possa oppure no, nel procedimento<br />
connesso, esercitare quello che è stato chiamato un «uso obliquo<br />
del silenzio»( 19 ). Se la norma pare indicare sul punto una risposta negativa,<br />
tracciando una distinzione tra diritto al silenzio sul fatto proprio e diritto al<br />
silenzio sul fatto altrui, nulla è invece pacifico sul piano ermeneutico e applicativo(<br />
20 ), e non solo per la palese difficoltà di separare nettamente all’interno<br />
delle singole dichiarazioni ciò che riguarda la posizione processuale<br />
altrui e quella relativa al suo autore( 21 ), ma anche per l’evidente con-<br />
( 16 ) R. Orlandi, Dichiarazioni dell’imputato su responsabilità altrui: nuovo statuto del<br />
diritto al silenzio e restrizioni in tema d’incompatibilità a testimoniare, inIl giusto processo tra<br />
contraddittorio e diritto al silenzio, a cura di R. E. Kostoris, Torino 2002, p. 162.<br />
( 17 ) La definizione è di G.D. Pisapia, Relazione introduttiva, inLa legislazione premiale.<br />
Atti del XV Convegno Enrico de Nicola, Milano 1987, p. 34.<br />
( 18 ) Cfr., tra gli altri, A. Giarda, Le ‘‘novelle di una notte di mezza estate’’, inLe nuove<br />
leggi penali, Padova 1987, p. 137; P. Tonini, Giusto processo, diritto al silenzio ed obbligo di<br />
verità: la possibile coesistenza, inStudi in ricordo di Giandomenico Pisapia, vol. II Procedura<br />
penale, Milano 2000, p. 735-40.<br />
( 19 ) P. Ferrua, Il processo penale cit., p. 61.<br />
( 20 ) V. Grevi, Il diritto al silenzio dell’imputato sul fatto proprio e sul fatto altrui, in<br />
Riv.it.dir.proc.pen., 1998, p. 1136.<br />
( 21 ) Cfr. C. Conti, Le nuove norme sull’interrogatorio dell’indagato (art. 64 c.p.p.), in<br />
Giusto processo. Nuove norme sulla formazione e valutazione della prova (legge 1º marzo 2001,<br />
n. 63), a cura di P. Tonini, Padova 2001, pp. 201-9.
116<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
trasto nascente tra due diritti di difesa ugualmente meritevoli di protezione(<br />
22 ).<br />
Si pone, in altri termini, il problema di valutare il silenzio come un<br />
fatto contra ius o secundum ius. Nella dialettica domanda-risposta si tratta<br />
di stabilire se e quando il soggetto interpellato possa o no rimanere in silenzio<br />
e, di conseguenza, quale sia il significato dell’elusione della domanda,<br />
giungendo alla conclusione che il silenzio dell’imputato è un diritto,<br />
quello del testimone è un delitto, in ragione del variare, nei due casi,<br />
della finalità dell’interrogatorio: nel primo prevale la garanzia di difesa e<br />
quindi l’interesse dell’imputato; nel secondo la ricerca della verità e quindi<br />
l’interesse dell’interrogante. Occorre perciò accertare, per stabilire l’eccezionalità<br />
o meno dell’esistenza di un dovere a rispondere, a quale interesse<br />
la legge accordi maggiore tutela: solo così l’attesa di risposta diventa legittima<br />
aspettativa delusa dal silenzio( 23 ).<br />
La figura dell’imputato accusatore induce perciò a ripensare il tema<br />
del silenzio. La dottrina avverte quanto sia precario il bilanciamento tra diritto<br />
al confronto con l’accusatore (che incita ad ampliare quanto più possibile<br />
la cerchia dei soggetti obbligati a rispondere secondo verità) e diritto<br />
dell’imputato di sottrarsi alle domande incrociate opponendo un inespugnabile<br />
silenzio. È, in altri termini, il dilemma tra istanza del contraddittorio<br />
ex art. 111 Cost. nei confronti di chi accusa e diritto di astenersi<br />
da risposte autoincriminanti.<br />
L’art. 111 Cost. e l’art. 64 3º comma c.p.p. sanciscono, di fatto, la perdita<br />
di un diritto al silenzio totale a carico dell’imputato connesso( 24 ). Non<br />
manca chi scorge nelle tendenze legislative attuali un pericoloso ritorno al<br />
passato( 25 ), attraverso la creazione di un sistema che mira a valorizzare le<br />
dichiarazioni contra se, ed eventualmente contra alios, dell’indagato, inventando<br />
strategie processuali volte ad ottenere ad arte confessioni ‘spontanee’<br />
da parte di chi potrebbe appellarsi alla facoltà di non rispondere, grazie ad<br />
( 22 ) Per non parlare poi della possibilità che l’imputato, onde evitare ogni conseguenza,<br />
decida fin dal principio di astenersi da qualunque dichiarazione, con conseguente dispersione<br />
del sapere processuale.<br />
( 23 ) A. La Torre, Silenzio cit., p. 552.<br />
( 24 ) Esistono tuttavia in merito posizioni sfumate. Queste mirano a precisare come<br />
l’imputato che rende dichiarazioni sulle responsabilità di altri coimputati in realtà non mette<br />
in gioco alcun interesse difensivo: non avrebbe senso, pertanto, invocare il diritto di difesa<br />
per escludere l’assunzione degli obblighi testimoniali sul fatto altrui. Cfr. M. Chiavario,<br />
Contraddittorio e ‘‘ius tacendi’’: troppo coraggio o troppa prudenza nell’attuazione di una riforma<br />
costituzionale ‘‘a rime (non sempre) obbligate’’?, inLeg. pen., 2002, pp. 146-8; O. Dominioni,<br />
Un nuovo idolum theatri: il principio di non dispersione probatoria,inRiv. it. dir. proc.<br />
pen., 1997, p. 764.<br />
( 25 ) P. Corso, Diritto al silenzio: garanzia da difendere o ingombro processuale da rimuovere?,<br />
inStudi in ricordo di Giandomenico Pisapia, cit., pp. 167-90, il quale esplicitamente<br />
dichiara che oggi sembra di ripercorrere «all’indietro strade già battute» (ivi, p. 189).
SAGGI E OPINIONI<br />
117<br />
una politica ‘premiale’ che ricorda da vicino esperienze che si credevano<br />
superate( 26 ).<br />
Questo segnerebbe, a detta di alcuni, la sconfitta di un impianto processual<br />
penalistico che per anni, come vedremo, ha sbandierato la propria<br />
capacità di giungere al giudizio finale facendo a meno del supporto conoscitivo<br />
dell’imputato. Oggi si pone nuovamente al centro del processo il recupero<br />
delle dichiarazioni dell’accusato, accogliendo il principio di non dispersione<br />
della prova.<br />
Un ritorno alle origini? Lo storico del diritto (e non lui soltanto, a<br />
dire il vero) ritrova spunti familiari quando, ad esempio, scorre il dibattito<br />
dottrinale in atto sull’abuso della carcerazione preventiva (filo di<br />
continuità con le logiche inquisitorie del passato)( 27 ), o sulla promessa<br />
di impunità, premi, benefici, sconti di pena a chi decide di collaborare,<br />
quasi che nella circolarità degli eventi tornassero a galla argomenti già<br />
dibattuti.<br />
Se la ‘nuova legislazione premiale’ è lontana dal poter essere assimilata<br />
alla tortura dei bui tempi andati, con questa tuttavia condivide il carattere<br />
persuasivo e la capacità di pressione sulla volontà dell’imputato, limitandone<br />
la libertà di autodeterminazione. Simili incentivi dimostrano come alcune<br />
soluzioni attuali possano accostarsi a quelle del passato: come allora,<br />
la parola dell’imputato rimane uno strumento necessario, talvolta persino<br />
indispensabile, per ‘far vivere’ il processo, combattere la delinquenza e stanare<br />
i colpevoli. Sotto forme e con modi diversi, si cerca tuttora la collaborazione<br />
dell’imputato per «supplire alle carenze funzionali di un sistema incapace<br />
di fronteggiare il fenomeno criminale senza ricorrere al contributo<br />
di chi è presunto innocente»( 28 ).<br />
In un simile schema la protezione ad oltranza e senza eccezioni del diritto<br />
al silenzio assume i contorni di una sorta di ‘forma patologica’ in<br />
grado di generare conseguenze devastanti. Si profila il timore che «il dichiarante<br />
contra alios», attraverso un «uso improprio» di tale diritto, finisca<br />
per sottrarsi al contraddittorio con l’accusato, con buona pace dei dettami<br />
costituzionali( 29 ). La tutela del diritto al silenzio – si sostiene – non andrebbe<br />
spinta oltre misura: non sino al punto, cioè, di scalfire l’effettività<br />
del contraddittorio. Il rischio che tale confine possa esser travalicato esiste,<br />
sia in senso oggettivo (il silenzio potrebbe risultare di ostacolo all’accerta-<br />
( 26 ) Sul punto O. Mazza, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato cit., pp. 359-68.<br />
( 27 ) T. Padovani, La soave inquisizione. Osservazioni e rilievi a proposito delle nuove<br />
ipotesi di ‘ravvedimento’, inRiv. it dir. proc. pen., 1981, p. 541.<br />
( 28 ) O. Mazza, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato cit., p. 366.<br />
( 29 ) M. Ceresa Gastaldo, Le dichiarazioni spontanee dell’indagato alla polizia giudiziaria,<br />
Torino 2002, pp. 18-20.
118<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
mento del fatto) che soggettivo (in quanto vanifica la pretesa dell’accusato<br />
al confronto con l’accusatore)( 30 ).<br />
Si è parlato di uno sviluppo ipertrofico di tale facoltà. Essa avrebbe<br />
finito per compromettere un intero settore della sfera probatoria, entrando<br />
in collisione con l’esigenza di garantire la completezza dell’accertamento. Si<br />
sarebbe configurato, a detta di alcuni, un eccesso di tutela, che avrebbe<br />
posto le premesse per un uso improprio, deviato del diritto in questione(<br />
31 ).<br />
Si apre dunque una nuova stagione per il processo penale, che impone<br />
di rivedere l’intangibilità e la sacralità di quel ius tacendi lentamente e faticosamente<br />
accolto nel nostro ordinamento( 32 ). Una simile ‘conquista di<br />
civiltà’, costata secoli di elaborazioni dottrinali e legislative, di voci solitarie<br />
spesso inascoltate, è apparsa per lungo tempo una sorta di «rivoluzione copernicana»(<br />
33 ) e come tale intoccabile. La ‘seconda rivoluzione’ operata<br />
dalla riforma del 2001 sembra invece far vacillare certezze ( 34 ), prospettare<br />
cambi di visuale non da tutti condivisi, delineare una «netta involuzione<br />
delle scelte di politica legislativa»( 35 ).<br />
L’«innovazione fondamentale»( 36 ) della legge del 1969, inserita in un<br />
meccanismo processuale in grado di reprimere i reati e di accertare le responsabilità<br />
penali senza avvalersi del sapere dell’imputato( 37 ), appare oggi<br />
l’ombra, quasi il simulacro di se stessa, mentre strisciante si insinua l’idea<br />
( 30 ) P. Ferrua, Il contraddittorio è salvo, ora va circoscritto il diritto al silenzio, inDiritto<br />
e giustizia, vol. IV, n. 37, 2000, p. 9.<br />
( 31 ) Significativo, sul punto, l’intervento di R. Orlandi, Dichiarazioni dell’imputato<br />
cit., pp. 153-95.<br />
( 32 ) È stato osservato come l’innovazione normativa del 1969 abbia scalfito stentatamente<br />
radicati orientamenti giurisprudenziali, rischiando di rimanere ‘lettera morta’ per la<br />
malcelata insofferenza mostrata dalla magistratura. Cfr. V. Grevi, «Nemo tenetur se detegere».<br />
Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel processo penale italiano, Milano 1972,<br />
pp. 63-66; F. Cordero, Procedura penale, Milano 1987, p. 1129.<br />
( 33 ) C. Conti, L’imputato nel procedimento connesso. Diritto al silenzio e obbligo di<br />
verità, Padova 2003, p. 17; A. Nappi, Il codice di procedura penale torna alle origini,inDiritto<br />
e giustizia, vol. I, n. 1, 2000, p. 6.<br />
( 34 ) Inequivocabili le parole, a tal proposito, di Ceresa Gastaldo: «nonostante le affermazioni<br />
di principio necessariamente coerenti con i postulati costituzionali, il diritto al silenzio<br />
ha subito e sta attraversando una profonda crisi» (M. Ceresa Gastaldo, Le dichiarazioni<br />
spontanee cit., pp. 7-8). Ancora più esplicito Tonini, che parla di una «rinuncia irrevocabile<br />
al silenzio» imposta all’indagato o all’imputato che abbiano reso dichiarazioni<br />
riguardanti la responsabilità di altri (P. Tonini, L’alchimia cit., p. 36; Id., Riforma del sistema<br />
probatorio: un’attuazione parziale del ‘‘giusto processo’’, inDir. pen. proc., 2001, p. 271).<br />
( 35 ) O. Mazza, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato cit., p. 320.<br />
( 36 ) Così G. Vassalli, Relazione alla Camera dei Deputati, inLe Leggi, 1969, p. 950.<br />
( 37 ) Sulle vicende più recenti di tale diritto, dalla legge del 1969, al modificato art. 78<br />
del codice Rocco, all’art. 64 del c.p.p. 1988, prima della legge del 2001, cfr. D. Barbieri,<br />
voce Interrogatorio nel processo penale, inDigesto delle discipline penalistiche, vol. VII, Torino<br />
1993, pp. 222-33.
SAGGI E OPINIONI<br />
119<br />
che «alla tutela del contraddittorio possa essere subordinata la tutela del<br />
diritto al silenzio e che non via sia altra strada percorribile se non quella<br />
di ridimensionare lo ius tacendi», da più parti avvertito come un fardello<br />
ormai ingombrante( 38 ).<br />
«Si tratta di un punto cruciale sul quale si giocano le garanzie di civiltà<br />
conquistate dopo secolari ed eroiche lotte contro il potere assoluto»( 39 ).<br />
Una simile affermazione, unita alla preoccupazione che il passato possa riproporsi<br />
come un ‘modello pericolosamente attrattivo’, rappresenta un invito<br />
irresistibile per lo storico, che si sente chiamato in causa, pronto ad<br />
‘affilare le armi’ del suo sapere e delle sue metodologie di indagine per ripercorrere<br />
a ritroso le vicende storico-giuridiche nelle cui pieghe si annidano,<br />
forse, le risposte ai timori odierni.<br />
Le ragioni di una neppur troppo sotterranea «ostilità che parte della<br />
dottrina italiana tuttora mostra verso qualunque arretramento sul fronte<br />
della tutela del diritto silenzio»( 40 ) vanno forse ricercate in una sorta di<br />
paura ancestrale di ritornare là dove ogni forma di garanzia era negata all’imputato.<br />
Il recupero, da parte del giurista, della dimensione storica è un’esigenza<br />
avvertita dagli stessi studiosi di diritto vigente, come dimostrano alcuni<br />
interventi miranti a sottolineare «l’imprescindibilità di una precisa ricostruzione<br />
del diritto dell’Ottocento e delle sue premesse illuministiche<br />
per la interpretazione delle istanze politiche ed ideologiche dell’esperienza<br />
giuridica contemporanea»( 41 ). Alla domanda di storia dei processualpenalisti<br />
non è possibile che rispondere «come giuristi a giuristi da parte degli<br />
storici del diritto (ché tale è il ruolo di questi ultimi)»( 42 ): forse, l’ideale<br />
viaggio che ci apprestiamo a compiere potrebbe contribuire a decifrare meglio<br />
l’oggi e scrutare i contorni del domani.<br />
2. L’antefatto: ad eruendam veritatem. – È un viaggio che prende le<br />
( 38 ) Cfr. P. Corso, Diritto al silenzio cit., pp. 177-83. Per un ridimensionamento del<br />
diritto al silenzio cfr. P. Tonini, La prova, Padova 1998, p. 75; Id., Giusto processo, diritto al<br />
silenzio ed obbligo di verità: la possibile coesistenza, inStudi in ricordo di Giandomenico Pisapia<br />
cit., pp. 727-43. Si segnalano, tra i tanti, gli interventi di E. Amodio, Il regime probatorio<br />
conseguente alla separazione di procedimenti connessi, inAmodio, Dominioni, Galli,<br />
Nuove norme sul processo penale e sull’ordine pubblico, Milano 1978, p. 47; C. Vettori, Diritto<br />
dell’imputato a confrontarsi con colui che lo accusa e diritto al silenzio: l’ordinamento inglese,<br />
inLe nuove leggi penali, Padova 1998, p. 273.<br />
( 39 ) C. Conti, L’imputato nel procedimento connesso cit., p. XV.<br />
( 40 ) C. Conti, L’imputato nel procedimento connesso cit., p. 17.<br />
( 41 ) E. Amodio, Diritto al silenzio o dovere di collaborazione? A proposito dell’interrogatorio<br />
dell’imputato in un libro recente, inRivista di diritto processuale, 29 (1974), pp. 408-9.<br />
( 42 ) A. Cavanna, Storia e scienza del diritto penale, inI Regolamenti penali di papa<br />
Gregorio XVI per lo Stato pontificio (1832), rist. anast., in Casi, fonti e studi per il diritto penale,<br />
serie II, Le fonti, 16, Padova 2000, p. CCXCVI.
120<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
mosse,enonacaso,dalSettecento:secolodisnodo,alqualegiunge<br />
compatta l’eredità del passato, ma dal quale, al contempo, si dipartono<br />
suggestioni e intuizioni destinate a segnare il tracciato delle scelte future.<br />
L’eredità ècostituita da un processo penale che vive della parola dell’imputato<br />
e che intorno ad essa costruisce le sue trame. Il silenzio è considerato<br />
una sfida, un’offesa alla corretta amministrazione della giustizia:<br />
sterile dispersione del sapere giuridico in un rito, come quello inquisitorio(<br />
43 ), che riposava sulla deposizione dell’indagato e che a quella tendeva<br />
con spasmodico sforzo.<br />
Un sistema che ‘inseguiva la verità’ non poteva permettersi di soffermarsi<br />
sulla tutela di istanze soggettive. L’imputato era ancora lontano dall’essere<br />
riconosciuto titolare di diritti intangibili. Egli era al servizio della<br />
macchina giudiziaria, protagonista, sì, ma per un unico fine: non intralciarne<br />
il corso. La sua eventuale scelta di tacere era gravida di conseguenze,<br />
tutte negative: la giustizia non poteva arretrare di fronte al rifiuto dell’accusato<br />
di offrire risposte chiare alle sue richieste. Si individuò, perciò,<br />
nel silenzio un indizio, non sufficiente alla condanna, ma legittimo tanto<br />
da condurre alla tortura.<br />
Se non si arrivò all’estremo di considerare colpevole, e perciò condannabile,<br />
l’indagato taciturnus( 44 ), equiparandolo sic et simpliciter al con-<br />
( 43 ) Così descrive efficacemente Carmignani il rito inquisitorio: «questo processo, quasi<br />
tutto concentrato in se stesso, sembra un uomo, che aspetti l’altro all’agguato» (G. Carmignani,<br />
Teoria delle leggi della sicurezza sociale, t. IV, Pisa 1832, p. 66).<br />
( 44 ) Si è cercato nel diritto romano il fondamento di tale soluzione e si è spesso guardato<br />
al frammento di Paolo (D. 50.17.142) in cui si afferma che chi tace non può considerarsi<br />
confessus, mentre D. 11.1.11.4. equipara il silenzio alla parola oscura. In materia di confessioni,<br />
tacite od espresse, i giuristi romani distinguevano tra ambito civile e penale, come<br />
ricorda anche Nicolini: «ne’ giudizii penali non mai que’ sommi filosofi parificarono per regola<br />
generale alla confessione espressa del reo il suo silenzio», richiamando in questo senso il<br />
passo paolino sopra citato (N. Nicolini, Della procedura penale nel Regno delle due Sicilie<br />
esposta [...] colle formole corrispondenti dedicata alla Maestà del Re N.S., parte III, vol. I, Napoli<br />
1831, p. 321). Più esplicito sul punto era stato Ambrosini, il quale, annoverando il silenzio,<br />
al pari della maggioranza dei suoi colleghi, tra gli indizi sufficienti e legittimi per disporre<br />
la tortura, considerava come conseguenza ovvia che «si tacens haberetur pro confesso,<br />
utique non esset torquendus, sed condemndandus» (T. Ambrosini, Praxis criminalis sive<br />
processus informativus, Augustae Taurinorum 1750, lib. III, cap. VII, n. 13, p. 160). Così anche<br />
si esprimeva Filangieri, per il quale l’equiparazione presente nel diritto romano (confessus<br />
pro iudicato est, qui quodammodo sua sententia damnatur: D. 42.2.1, ma si veda anche D.<br />
11.1.11.4 che stabilisce il principio che il silenzio serve di prova per la legittimità e la giustizia<br />
della proposizione dell’attore) riguardava i giudizi civili e non criminali (G. Filangieri, La<br />
scienza della legislazione, Genova 1798, t. III, pp. 240-1, nt. 2). Si veda anche uno dei più<br />
autorevoli commentatori della Riforma toscana del 1838, A. Ademollo, Il giudizio criminale<br />
in Toscana secondo la Riforma leopoldina del MDCCCXXXVIII. Cenni teorici pratici, Firenze<br />
1840, § 1388, p. 359.
SAGGI E OPINIONI<br />
121<br />
fessus( 45 ), si giunse ad un risultato simile per via mediata, frapponendo alla<br />
diretta equivalenza silenzio=confessione lo ‘schermo’ dei tormenti, insuperabile<br />
strumento produttivo di parole.<br />
Si avvertiva il pericolo logico insito nell’attribuire al silenzio le stesse<br />
conseguenze della confessione: l’una è parola, l’altro ne è la negazione( 46 ).<br />
Chi non parla non ammette né nega e perciò il suo silenzio non può essere<br />
interpretato come una ficta confessio.<br />
Il tacens, tuttavia, poneva in atto un comportamento ostruzionistico(<br />
47 ), che interrompeva l’iter normale del processo e violava «la legge<br />
sociale della chiarezza dei rapporti e quella processuale del rispetto del magistrato<br />
che interroga»( 48 ). Occorreva perciò rompere il ‘sigillo delle<br />
( 45 ) Sorprende pertanto trovare nei primi anni del XIX secolo un’affermazione in tal<br />
senso. Fondandosi sul diritto romano (le cui massime sono richiamate per sostenere soluzioni<br />
diametralmente opposte), Carlo Alberici considerava il silenzio una confessione tacita. È<br />
vero, ritiene l’autore, che sulla base della massima del giureconsulto Paolo, vero perno attorno<br />
al quale ruota la costruzione del tema, qui tacet non utique fatetur, verum est eum negare<br />
(D. 50.17.142), ma esiste un contrapposto principio che consente di desumere la prova del<br />
delitto da tutto ciò che ha rapporto con il medesimo (plurimum quoque in excutienda veritate<br />
etiam vox ipsa et cognitionis suptilis diligentia adfert: nam et ex sermone et ex eo, qua quis<br />
constantia, qua trepidatione quid diceret, vel cuius existimationis quisque in civitate sua est<br />
quaedam ad inluminandam veritatem in lucem emergunt: D. 48.18.10.5). Da ciò Alberici desume<br />
argomenti convincenti a sostegno della sua tesi, ossia che il silenzio si possa valutare<br />
come una tacita confessione (C. Alberici, Commentarj sul codice di procedura penale pel Regno<br />
d’Italia, t. III, Milano 1812, p. 286). Sorprende l’epoca più che il principio, minoritario,<br />
ma comunque presente nella dottrina d’ancien régime, come attesta G. Mascardi, Conclusionum<br />
omnium probationum [...] volume primum, Augustae Taurinorum 1591, concl.<br />
CCCXLVIII, n. 31, f. 166, per il quale «ex taciturnitate alicuius praesumit confessionem».<br />
( 46 ) Giacomo Giuliani, Della procedura penale. Teoria, sez. III Delle interrogazioni, §<br />
88, ms. conservato presso la Biblioteca Antoniana di Padova, cod. 667. Sull’abate vicentino,<br />
professore di diritto criminale nell’ateneo patavino, cfr. A. Maggiolo, I soci dell’accademia<br />
Patavina dalla sua fondazione (1599), Padova 1983, p. 145 e C. Carcereri de Prati, La<br />
libertas ecclesiae nel codice penale napoleonico, inCodice dei delitti e delle pene pel Regno<br />
d’Italia (1811), rist. anast. a cura di S. Vinciguerra, Padova 2002, pp. CLXXXII-CLXXXIII.<br />
Dello stesso avviso era anche Francesco Canofari, per il quale nei giudizi criminali non vi può<br />
essere equipollenza fra silenzio e confessione per il fatto che «la confessione è un atto positivo,<br />
spontaneo, chiaro, circostanziato. [...] Sarebbe un logico ben infelice chi dicesse ‘‘B.<br />
interrogato ha taciuto. Dunque egli ha propinato il veleno’’. Non vi ha rapporto né proporzione<br />
quanto agli effetti. La confessione mena talvolta l’imputato ai ferri, all’ergastolo, alla<br />
morte. Soffrirebbe la giustizia che il suo silenzio abbia la forza stessa» (F. Canofari, Commentario<br />
su la parte quarta del Codice per lo Regno delle Due Sicilie o sia su le leggi della procedura<br />
ne’ giudizi penali, Napoli 1830, lib. I, tit. V Mandati contro gli imputati, §§ VII-VIII,<br />
pp. 192-3).<br />
( 47 ) Marchetti ipotizza in proposito un «atteggiamento di ribellione, di sfida nei confronti<br />
del potere incarnato dal giudice», tale da giustificare la punizione (P. Marchetti, Testis<br />
contra se. L’imputato come fonte di prova nel processo penale dell’età moderna, Milano<br />
1994, p. 119).<br />
( 48 ) M.S. Goretti, Il problema cit., p. 175. È quanto con conclamata chiarezza afferma<br />
Ademollo, per il quale la prova dei delitti riguarda la «pubblica salute, e perciò chiunque
122<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
labbra’ e costringere l’imputato a rivelare ciò di cui era a conoscenza. Era il<br />
segnale più evidente della debolezza endemica dell’intero impianto processuale,<br />
che implicitamente ammetteva di non essere in grado di raggiungere<br />
il proprio scopo (l’accertamento della verità giudiziale) senza l’aiuto della<br />
‘parte antagonista’, le cui dichiarazioni costituivano così non già un valore<br />
aggiunto al quadro probatorio acquisito, ma l’unica base giustificativa della<br />
condanna.<br />
Nel ‘clima inquisitorio’( 49 ) l’interrogatorio era considerato il<br />
fulcro dell’intero procedimento, momento fondante dell’accusa, più<br />
che strumento di protezione e di tutela dell’imputato. L’esame dell’inquisito<br />
era infatti condotto prima che si aprisse la fase difensiva vera e<br />
propria, consistente nella pubblicazione del processo( 50 ), anche se, avvertono<br />
alcuni autori, ciò avveniva per mera consuetudine e non già in<br />
ottemperanza alla legge, la quale anzi, sul punto, si mostrava contraria(<br />
51 ).<br />
Se esiste ancora qualche dubbio sulla funzione dell’interrogatorio nel<br />
processo penale di diritto comune, bastano a dissiparlo alcune citazioni, tra<br />
le tante che efficacemente potrebbero essere riportate: «perché l’interrogare<br />
il reo ordinatamente, chiaramente, sottilmente, debitamente e condurlo<br />
con l’essame accomodatamente al confessare la verità ècosa molto<br />
difficile e consequentemente molto laudabile, è d’honoro a chi la sa<br />
fare»( 52 ). La finalità dell’esame dell’inquisito appare qui una sola: giungere<br />
ad eruendam veritatem( 53 ).<br />
Non è un caso che molte pratiche del tempo si soffermino sull’‘arte’<br />
dell’interrogare. Esse elaborano veri e propri prontuari per i magi-<br />
viene legittimamente interrogato deve rispondere; diversamente delinque contro la pubblica<br />
sicurezza» (A. Ademollo, Il giudizio criminale cit., § 1388, p. 359). Identico concetto è<br />
espresso da Giacomo Giuliani, Della procedura penale cit., sez. III Delle interrogazioni,<br />
§ 88.<br />
( 49 ) E. Amodio, Clima inquisitorio e clima accusatorio: due prassi a confronto, inDif.<br />
Pen., 20-21 (1988), p. 29.<br />
( 50 ) La pubblicazione del processo comportava la messa a disposizione degli atti processuali<br />
alle parti, che solo in quel momento potevano prenderne visione al fine di preparare,<br />
entro un arco di tempo ridotto (dai tre agli otto giorni), le proprie difese. Nella pubblicazione<br />
del processo si ravvisa solitamente l’avvio della fase difensiva, una difesa riconosciuta sulla<br />
‘carta dei principi teorici’, ma vanificata nell’esercizio sostanziale. Sia consentito rinviare al<br />
mio Inseguendo la verità. Processo penale e giustizia nel Ristretto della prattica criminale<br />
per lo Stato di Milano, Milano 1999, pp. 188-205.<br />
( 51 ) Ristretto di pratica criminale raccolto da più scelti e rinomati autori in cui saranno<br />
citati i loro sentimenti non solo, ma le loro sentenze, Piobbico 1794, p. 41, nt. 84.<br />
( 52 ) M.A. Tirabosco, Ristretto di pratica criminale che serve per la formatione de’ Processi<br />
ad offesa, Fuligno 1702, p. 76. L’autore rivela tuttavia un sussulto di consapevolezza<br />
dell’importanza e della delicatezza di questo compito, allorché aggiunge che su questo «si<br />
deve molto invigilare» (ivi, p. 76).<br />
( 53 ) Cfr. V. Manzini, Trattato di diritto processuale penale, vol. I, Torino 1967, p. 52.
SAGGI E OPINIONI<br />
123<br />
strati( 54 ), finalizzati ad istruirli in modo da vincere ogni resistenza frapposta<br />
dall’indagato e «quasi insensibilmente, e contro sua voglia cavali<br />
di bocca ora un indizio, ora l’altro, e finalmente la verità»( 55 ). L’obiettivo<br />
era quello di perfezionare una «sapiente tecnica discorsiva che solo alla<br />
fine di un lungo percorso produceva i suoi effetti»( 56 ). Simili indicazioni<br />
non sono patrimonio della sola dottrina; si traducono anche in ‘manuali<br />
normativi’ inseriti in alcuni codici del tempo che trasformano in precetti<br />
imperativi semplici consigli o suggerimenti di tecniche istruttorie( 57 ).<br />
L’imputato è dunque fonte di prova nel suo processo( 58 ) in quanto<br />
soggetto informato dei fatti( 59 ). Il meccanismo inquisitorio ne fa forzosamente<br />
un alleato per evitare di restare irreversibilmente paralizzato( 60 ).<br />
Chi è sotto inchiesta contiene in sé ‘la verità’( 61 ), a cui tende la macchina<br />
( 54 ) Tra i tanti si veda, per la loro particolare valenza ed efficacia, F. Cartari, Theoricae<br />
et praxis interrogandum reorum libri quatuor, Venetiis 1600, lib. II, pp. 12-31; G.B. Cavallino,<br />
Actuarium practicae criminalis, §Quid agendum sequuta condemnatione pecuniaria<br />
vel capitali, Milano 1587, f. 61; T. Ambrosini, Praxis criminalis cit., lib. III, cap. II, n. 4-7,<br />
pp. 135-6; Ristretto (1794) cit., pp. 47-52; T. Briganti, Pratica criminale, Napoli 1842, tit.<br />
II, § II, pp. 104-114 e tit. V, pp. 202-13.<br />
( 55 ) Ristretto (1794) cit., n. 105, p. 150.<br />
( 56 ) Così P. Marchetti, Testis contra se cit., p. 59.<br />
( 57 ) Ne costituisce un ottimo esempio il codice austriaco, in cui non è estranea un’aura<br />
pedagogica che proprio in tema di interrogatorio rivela la propria intima ambiguità. Il codice<br />
tenta qui di calibrare, in precario ed instabile equilibrio, volontà garantistica e intenti punitivi,<br />
affidando a magistrati abili nell’uso delle pratiche inquisitorie il compito di incarnare il<br />
volto paternalistico della legislazione conciliandolo con la capacità di condurre l’interrogatorio<br />
fino a ‘penetrare’ l’anima stessa dell’indagato. Ed è così che «un codice in qualche modo<br />
garantistico comincia a diventare terribile» (Cfr. A. Cavanna, Ragioni del diritto e ragioni del<br />
potere nel codice penale austriaco del 1803, inCodice penale universale austriaco (1803), rist.<br />
anast., Padova 2001, pp. CCXXXV-CCCCXLV; in quest’ultima pagina si trova la citazione<br />
riportata). Cfr. M. Sbriccoli, Giustizia criminale, inLo Stato moderno in Europa. Istituzioni<br />
e diritto, a cura di M. Fioravanti, Roma-Bari 2002, p. 185.<br />
( 58 ) «La persona contro cui si dirige la ricerca speciale è dal processo considerata come<br />
mezzo di prova» (G. Carmignani, Teoria cit., p .69).<br />
( 59 ) Ad un imputato che qualora confessi merita fede, perché conosce meglio di chiunque<br />
altro lo stato dei fatti, fanno riferimento G. Carmignani, Teoria cit., p. 138; C.G. Mittermaier,<br />
Teoria della prova nel processo penale, trad. it., Milano 1858, p. 167. Dello stesso<br />
parere è Bentham, per il quale le prove che si ricavano dall’accusato sono le più soddisfacenti<br />
perché le più credibili (J. Bentham, Teoria delle prove giudiziarie, trad. it., Bruxelles 1842,<br />
p. 279).<br />
( 60 ) Il problema di evitare la dispersione del sapere è sìesigenza insopprimibile per il<br />
sistema inquisitorio, ma, come si è visto nelle pagine precedenti, è una necessità anche del<br />
nostro processo: in modi diversi rispetto al passato, in una prospettiva garantistica sconosciuta<br />
ai tempi andati, all’interno di un processo che si è ormai emancipato dalla necessaria confessione<br />
dell’indagato, «la disciplina delle modalità acquisitive del sapere della persona nei<br />
cui confronti si procede conserva intatta la sua fondamentale e peculiare rilevanza», a dimostrazione<br />
di una continuità fra ieri e oggi su tematiche centrali (O. Mazza, L’interrogatorio e<br />
l’esame dell’imputato cit., p. 2).<br />
( 61 ) L’imputato è visto come «una scatola umana che racchiude una verità materiale da
124<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
della giustizia. Come è stato efficacemente sostenuto occorre «premere sull’interrogato<br />
(sarei per dire: spremere l’interrogato) per ottenerne una risposta<br />
positiva»( 62 ), con mezzi che vanno dalla coazione psicologica alla<br />
tortura.<br />
Quest’ultima, ricordiamolo, veniva impiegata in una svariata serie di<br />
ipotesi, tutte generate direttamente dall’interrogatorio( 63 ). Se il reo fingeva<br />
smemoratezza, se si mostrava reticente, se si contraddiceva, se ritrattava<br />
quanto appena ammesso, se deponeva circostanze inverosimili, se coinvolgeva<br />
nella responsabilità del reato altri soggetti e se, ovviamente, si rifiutava<br />
di rispondere.<br />
Il silenzio era perciò inammissibile in un processo ossessionato dalla<br />
parola. Esso rappresentava la sconfitta dell’autorità procedente (indagante<br />
e giudicante, come sappiamo): «il ‘taciturnus’ costituisce un caso tecnicamente<br />
mal riuscito, anche se fosse condannato su prove ottenute<br />
aliunde»( 64 ) e per questo gli si imponeva di parlare e di parlare contra<br />
se( 65 ).<br />
Nei confronti di un imputato tenacemente silenzioso la tortura era applicata<br />
«ut certum respondeat», come sosteneva la maggior parte della dottrina.<br />
Scorrendo le pratiche criminali del tardo diritto comune, si comprende<br />
che la taciturnitas dell’interrogato andava ad alimentare la vasta schiera di<br />
quegli indizi di cui il giudice poteva avvalersi non per irrogare la pena( 66 ),<br />
tirar fuori pezzo per pezzo» (A. Cavanna, Giudici e leggi a Milano nell’età del Beccaria, in<br />
Cesare Beccaria tra Milano e l’Europa, Milano 1990, p. 179).<br />
( 62 ) F. Carnelutti, Principi del processo penale, Napoli 1960, p. 184. L’espressione è<br />
poi ripresa da Cordero, che scrive infatti di un imputato «inteso come il depositario di una<br />
verità da spremere» (F. Cordero, Procedura penale, ed. Milano 1987, p. 19; ed. 2003,<br />
p. 23).<br />
( 63 ) «L’interrogatorio è della tortura il padre legittimo [...] è un istituto ‘violento’, perché<br />
nasce dal presupposto che la verità appartiene solo a chi detiene il potere, mentre i sospettati<br />
sono dei ‘rei’ che devono solo confessare» (I. Mereu, Storia dell’intolleranza in Europa,<br />
Milano 2000, pp. 205-6).<br />
( 64 ) F. Cordero, Procedura penale (2003) cit., p. 247.<br />
( 65 ) A. Giarda, «Persistendo ‘l reo nella negativa», Milano 1980.<br />
( 66 ) L’estrema varietà di prassi esistenti non consente di sostenere che questa fosse la<br />
soluzione univocamente accettata. Di fronte ad un quadro probatorio che non permetteva<br />
l’irrogazione della pena ordinaria e tuttavia costituito da indizi formanti una prova semipiena,<br />
il giudice aveva davanti a sé due possibilità: o ‘accontentarsi’ di disporre la pena straordinaria<br />
sulla base delle risultanze processuali (seguendo una politica del diritto che gli consentiva<br />
di ‘punire meno’ ma di punire comunque) o accettare il rischio della tortura. Quest’ultima<br />
offriva comunque un’alea: se l’imputato confessava (e poi ratificava la<br />
dichiarazione estorta), il giudice raggiungeva la piena prova e poteva dare attuazione alla sanzione<br />
collegata al reato (e questo rappresentava per l’inquirente una vittoria); se il torturato<br />
sopportava lo strazio delle carni, purgava gli indizi e doveva in forza di ciò essere liberato.<br />
Ciò nonostante, un motivo di ‘consolazione’ derivava dal fatto che si vedeva nella tortura una<br />
sorta di castigo anticipato, un patimento ‘ragionevole’ in virtù del forte sospetto di colpevolezza<br />
nutrito nei suoi confronti (cfr. Ristretto [1794] cit., n. 181, p. 88). Si conferma così in-
SAGGI E OPINIONI<br />
125<br />
ma per disporre la tortura( 67 ). Si trattava d’un elemento privo in sé di piena<br />
direttamente la veridicità del principale attacco dell’illuminismo contro la tortura, ossia il suo<br />
essere sostanzialmente una pena (sul punto v. P. Fiorelli, La tortura giudiziaria nel diritto<br />
comune, vol. I, Milano 1954, pp. 223-31). Nell’Ottocento, Brugnoli, rifiutando che il silenzio<br />
fosse da intendersi come finta confessione, elencava una serie di cause di tale contegno che<br />
nulla avevano a che spartire con la colpevolezza. Si poteva trattare di timore, di naturale timidezza,<br />
di perplessità, di mancata comprensione delle domande, di sbalordimento ed orrore<br />
di fronte ad un’accusa calunniosa, di indignazione, di generosità. Per questo l’autore invitava<br />
ad annoverare il silenzio fra gli indizi remoti, al pari della latitanza e della contumacia<br />
(G. Brugnoli, Della certezza e prova criminale col confronto di varie legislazioni d’Europa ed<br />
in specie d’Italia, Modena 1846, § 567, pp. 456-9). Di «urgente indizio di reità» parla invece<br />
il Buonfanti, ad attestare, una volta di più, le contrastanti posizioni della dottrina (J. Buonfanti,<br />
Della istruzione de’ processi criminali in Toscana. Commentario, Lucca 1850, p. 251).<br />
( 67 ) Èuna soluzione che trova consensi fin dal Cinquecento. A titolo meramente esemplificativo<br />
cfr. P. Follerio, Practica Criminalis Dialogica, Venetiis 1575, rubr. Etsi comparent,<br />
n. 3, p. 151 e rubr. Et si confitebuntur, III parte, § 3, n. 4, pp. 351-2; G.B. Cavallino,<br />
Actuarium cit., § Quid agendum sequuta condemnatione pecuniaria, vel capitali, f. 61; G. Novello,<br />
Tractatus singularis defensione omnium reorum [...], Venetiis 1586, n. 46, pp. 121-<br />
122 («si ad interrogationem praedictam [reus] taceret haberet satis sufficens inditium ad torturam<br />
quod taciturnitas in civilibus facit semiplenam probationem [...] ea quae in civilibus<br />
faciunt semiplenam probationem, in criminalibus faciunt sufficiens inditium ad torturam»);<br />
F. Cartari, Theoricae et praxis interrogandum reorum cit., lib. III, cap. II, n. 1-3, p. 57; O.<br />
Cavalcani, Tractatus de brachio regio sive de libera, ampla et absoluta potestate iudicis supremi<br />
in prosequendo, iudicando et exequendo, Venetiis 1608, parte III, n. 62-5, pp. 102-3 («ex<br />
hac taciturnitate insurgens auspicio vehemens facit, ut merito torqueri possit»); P. Farinacci,<br />
Praxis et theoricae criminalis...partis primae tomus primus [tertius], Lugduni 1613-16, t. II,<br />
q. XXXVII, n. 176, p. 190 [se in questo passo l’autore afferma che coloro che non vogliono<br />
rispondere «optime torti sunt», in un altro punto sostiene che «non respondens positionibus<br />
habetur pro confesso, tamen non ostante hac ficta confessione, potest qui non respondet<br />
provare contrarium si vult», generando una contraddizione, evidente sì, ma tuttavia relativa,<br />
poiché questa indicazione di Farinaccio si inserisce in un più ampio discorso riguardante il<br />
contumace, contestualizzato in quella serie di praemitto, limita, sublimita, amplia che connotano<br />
– e complicano – lo svolgimento logico-razionale del pensiero del celebre giurista (Id.,<br />
Praxis cit., t. I, q. XI, n. 7, p. 130)]. Non solo, ma forse un aiuto ci può venire da Mancini, il<br />
quale precisa che chi «non repondet positionibus habeatur pro confesso in causa civili, id<br />
non procedit in criminali» (V. Mancini, De confessionibus tam iudicialibus, quam extraiudicialibus<br />
[...] tractatus, Romae 1611, cap. VI, n. 32, p. 176); S. Guazzini, Tractatus ad defensam<br />
inquisitorum, carceratorum reorum, et condemnatorum super quocunque crimine, Venetiis<br />
1639, lib. I, tit. I, defens. XX, cap. XVI, n. 1, p. 369; L. Priori, Pratica criminale secondo il<br />
rito delle leggi della Serenissima Repubblica di Venetia, Venetia 1678, p. 70; A. Barbaro,<br />
Pratica criminale, Venezia 1739, p. 122; M.A. Bassani, Theorico-praxis criminalis addita<br />
ad modernam praxis D. Thomae Scipioni, Ferrariae 1755, l. III, cap. VI, n. 3-6, p. 257 (dove<br />
si afferma che se il reo non vuol rispondere «saltem per tres monetur vices ad respondendum»<br />
e se di nuovo persiste nel diniego, lo si ammonisce un’ultima volta, con l’avvertenza<br />
che la sua ostinazione varrà come indizio a tortura). Diversa nella finalità, ma non nella sostanza<br />
la posizione di Ambrosini, il quale ritiene che il reo che rifiuti di rispondere alle domande<br />
del giudice «potest torqueri, non ad eruendam veritatem, sed ad habendam praecisam<br />
responsionem affirmativam vel negativam». In ragione di ciò egli può essere torturato<br />
non solo quando rifiuti di rispondere «totaliter, sed etiam quando praecise respondere<br />
non vult»: altra questione oggi ripropostasi alla dottrina, che si chiede se l’imputato possa
126<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
valenza probatoria, ma legittimo presupposto per ottenere con la forza la regina<br />
probationum( 68 ).<br />
I criminalisti, in realtà, mischiavano le carte, gettando manciate di<br />
‘fumo garantistico’ negli occhi, sostenendo che i tormenti non miravano<br />
ad estorcere una confessione, ma a far sì che si rispondesse «adeguatamente<br />
e congruamente all’interrogazioni»( 69 ). Il confine tra risposta e confessione<br />
esiste ed è di immediata evidenza; diventa però labile e sfumato<br />
quando si tenti di tracciarlo all’interno di un rito che, prendendo a prestito<br />
le parole di Beccaria, fa della tortura un crogiolo di verità.<br />
Il dato certo è lo spasmodico bisogno del contributo fattivo del sog-<br />
opporre il silenzio sull’intero interrogatorio, o decidere a favore di un ‘silenzio selettivo’, distinguendo<br />
a seconda del tipo di domanda proposta (T. Ambrosini, Praxis criminalis cit.,<br />
lib. III, cap. VI, n. 2, pp. 158-9). Simile impostazione si trova in A. Bonifazi, Institutiones<br />
criminales, Venettis 1768, l. IV, tit. V, n. 24, p. 204 («Il reo poi che ricusa di onninamente<br />
rispondere, o risponde incongruamente, si deve forzare a rispondere precisamente a forza di<br />
tormenti, perché èobbligato a dare risposta precisa, o assolutamente affermativa, o negativa»);<br />
e ancora, quasi traduzione letterale di Ambrosini: «se adunque il reo nell’atto dell’esame<br />
ricusa di rispondere [...] si può tormentare colla corda, e non già per avere la verità del<br />
delitto, ma per avere le risposte affermative, o negative», ammonendolo che «la sua taciturnità<br />
si conterà e s’avrà fra gli indizi contro di lui per il delitto e per il negozio principale [...] e<br />
se sostiene la taciturnità nel tormento non si ha per confesso» (A. Bonifazi, Nuova succinta<br />
pratica civile, e criminale utile e necessaria a’ giudici, procuratori, attuarj, e cancellieri criminale<br />
[...], Venezia 1783, parte III, cap. XXVIII, pp. 178-9). Questa sintetica carrellata, dal valore<br />
meramente esemplificativo, induce ad una riflessione su come il medesimo atteggiamento<br />
dell’inquisito, ossia il chiudersi nel silenzio, fosse produttivo di effetti diametralmente opposti<br />
nella fase pre e post tortura. Se nell’ambito del costituto il silenzio conduce l’indagato a<br />
subire i tormenti, la capacità di mantenerlo mentre si subisce l’orrore della violenza fisica<br />
conduce l’imputato alla salvezza e alla liberazione. Ancora una volta si propone il dualismo<br />
tra ‘silenzio colpevole e innocente’, così come siamo di nuovo di fronte alla dimostrazione<br />
che nel sistema inquisitorio l’assenza di parola è in grado di determinare la sconfitta del processo.<br />
E si è così poco propensi ad accettare l’idea che «non vengano parole dal tormento del<br />
reo» che si preferisce spiegare questo atteggiamento ricorrendo alla magia, agli incantesimi,<br />
al sortilegio (M. Sbriccoli, «Tormentum idest torquere mentem» cit., p. 25).<br />
( 68 ) Precisa Fiorelli che anche se la tortura non può essere definita tecnicamente un<br />
mezzo di prova (lo sarebbe la confessione che con essa si ottiene), non è del tutto inesatto<br />
considerarla tale, in quanto la locuzione mezzo di prova può in senso lato indicare anche quei<br />
fatti e quegli elementi che servono ad agevolarne l’attuazione giudiziale (P. Fiorelli, La tortura<br />
cit., vol. I, pp. 190-1).<br />
( 69 ) «E se [il reo] non volesse rispondere all’interrogazioni, o dicesse non so, non mi<br />
ricordo, o quel che ho detto è scritto, e simili, all’ora si deve far torturare, non per estorquere<br />
la verità, cioè la confessione del delitto, ma acciò risponda adeguatamente e congruamente<br />
all’interrogazioni». Non può sfuggire quell’incidentale equiparazione svolta dall’Anonimo redattore<br />
del Ristretto fra verità e confessione. Cfr. Ristretto per la prattica criminale cit., f. 33,<br />
in Appendice a L. Garlati Giugni, Inseguendo la verità cit., p. 302. Identico concetto si<br />
trova in M. A. Tirabosco, Ristretto cit., p. 86. O ancora: «Ma quale si è l’oggetto dell’interrogatorio<br />
dell’imputato? Niun altro che quello di sentire le sue discolpe nel caso che fosse<br />
innocente, o di conseguire dal medesimo la confessione del proprio reato , ove risultasse colpevole»<br />
(C. Alberici, Commentarj cit., p. 279).
SAGGI E OPINIONI<br />
127<br />
getto, a cui si chiede di proclamarsi o colpevole o innocente; ciò che rileva<br />
è che egli parli per evitare che il silenzio rappresenti lo scoglio su cui si infrange<br />
la speranza di un processo produttivo di soluzioni certe( 70 ).<br />
Era questo un lascito del passato, un punto fermo irrinunciabile e fino<br />
al Settecento mai messo seriamente in discussione. Ad esempio, un attento<br />
osservatore e un testimone fedele della prassi come l’alessandrino Giulio<br />
Claro non nutriva alcun dubbio che in caso di «reus constitutus coram<br />
iudex» il quale «nihil respondeat [...] debet iudex illum ponere ad torturam<br />
et cogere ut respondeat affermative vel negative». E parimenti certo<br />
si mostrava sul fatto che «talis tortura non datur reo ad eruendam veritatem<br />
[...] sed ad extorquendam responsionem». Come sempre, l’illustre<br />
rappresentante del Senato milanese non si sottrae ad una presa di posizione<br />
personale. Fotografata la realtà giudiziaria, egli esprime una propria valutazione:<br />
«est iudicio meo bona pratica et eam saepe vidi observari non<br />
modo quando reus non vult respondere super facto principali, scilicet an<br />
commiserit homicidum vel non, se etiam super circunstantiis substantialibus<br />
pertinentibus ad ipsum delictum», condendo il tutto con ricordi diretti(<br />
71 ).<br />
Se in pieno XVIII secolo sul punto vi è concordanza di massima tra i<br />
giuristi, non mancano tuttavia voci dissenzienti, numericamente esigue ma<br />
non per questo flebili, che si levano contro l’esperimento dei tormenti nei<br />
confronti dell’indagato silente, considerando ciò contrario ai principi posti<br />
dal superiore ordine naturale.<br />
È proprio con l’individuazione e l’enucleazione di diritti soggettivi, appartenenti<br />
all’uomo in quanto tale, che muta lo scenario processuale. Gli<br />
scopi del giudice e quelli dell’imputato, che nel processo inquisitorio finivano<br />
per coincidere, tornano nuovamente a separarsi e quasi impercettibilmente,<br />
ma significativamente, il principio del reus tenetur se detegere vacilla e si affaccia,<br />
seppure in modo ancora incerto e confuso, quello del nemo tenetur.<br />
Si cerca di modificare la logica del processo e il ruolo delle parti, di<br />
ribaltare alcuni canoni di lettura consolidati. Si passa dalla presunzione<br />
di colpevolezza a quella di innocenza; dalla figura del giudice inquisitore<br />
a quella del magistrato super partes, dall’imputato testis contra se a quella<br />
di soggetto titolare di diritti e destinatario di garanzie, prima fra tutte il<br />
non essere l’artefice e il responsabile principale della propria condanna.<br />
( 70 ) Cfr. M. Sbriccoli, «Tormentum idest torquere mentem» cit., pp. 17-32.<br />
( 71 ) «Et recordor» che il 18 ottobre 1554 «quidam Moncinus», interrogato su una rissa<br />
cui si sospettava avesse preso parte, non voleva né rispondere né giurare. Il Senato pensò<br />
bene di infliggere tre tratti di corda pubblicamente, ottenendo alla fine il risultato sperato,<br />
se mai vi fossero dubbi sull’efficacia di simile strumento: «deinde reductus ad carceres iuravit»<br />
(I. Clarus, Volumen alias Liber Quintus, Venetiis 1570, § Finalis, quaestio XLV, vers.<br />
Sed pone, f. 130).
128<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
Si nota, in linea di massima, un affievolimento dell’obbligo a rispondere all’interrogatorio,<br />
e a rispondere il vero, mentre si fa lentamente largo l’idea<br />
che nessuno possa essere tenuto ad accusare se stesso( 72 ).<br />
Vi è chi, come Franchino Rusca, adombra l’esistenza di un vero e proprio<br />
‘diritto dell’imputato a rimanere in silenzio’, enunciazione sorprendentemente<br />
anticipatrice di quelle che saranno conquiste dei secoli futuri.<br />
Individuando nei principali e originari diritti di natura la fondamentale<br />
legge che impone a ciascuno la conservazione di se stesso, nessuna legislazione,<br />
secondo l’autore, può esigere da un uomo che egli diventi strumento<br />
della sua morte, ponendo quasi in mano al carnefice la scure «per bocca<br />
sua stessa»( 73 ). La lunga dissertazione, svolta dall’autore al fine di confutare<br />
l’uso della tortura nei confronti dell’indagato silenzioso, è un piccolo<br />
scrigno di indicazioni sulle ragioni che militano a favore del sovvertimento<br />
della prassi in atto, accreditata presso i tutti i tribunali, ma foriera di iniquità.<br />
Rusca non si accontenta di ciò. Egli rifiuta anche il parere di chi, pur<br />
lasciando intravedere un’intima ripugnanza verso il ricorso alla violenza fisica,<br />
mostra di non saper rinunciare alla parola dell’indagato. Taluni, infatti,<br />
suggerivano di soppiantare l’uso della quaestio con la minaccia rivolta<br />
all’inquisito di considerare il suo silenzio come un indizio indubitato( 74 ),<br />
bastevole a renderlo convinto e quindi a condannarlo legittimamente alla<br />
pena ordinaria( 75 ). Sprezzante dell’intimidazione ed incurante dello<br />
spettro della pena, l’accusato poteva tuttavia decidere di persistere in un<br />
( 72 ) Cfr. T. Hobbes, Leviatano, trad. it., Roma 2000, pp. 151-152. Si tratta della prima<br />
«massima del garantismo processuale accusatorio» (L. Ferrajoli, Diritto e ragione cit., p.<br />
623). Anche Tommaso Briganti sul punto velatamente interviene; mentre istruisce il giudice<br />
sul comportamento da tenere di fronte all’interrogato, lo ammonisce che nessuno «è obbligato<br />
sempre di palesare tutto quello, che ha nell’animo» e che il rapporto tra inquirente ed<br />
accusato non deve ricalcare quello tra confessore e penitente. «È cosa certa» – prosegue Briganti<br />
– «che Iddio ci ha tanto raccomandato il silenzio per tacere certe verità dannose, quanto<br />
ci ha dato la facoltà del parlare per pubblicare le necessarie» (T. Briganti, Pratica criminale<br />
cit., tit. V, n. 33, p. 208 e n. 48, p. 212). Si veda anche F. Carrara, Programma cit., §<br />
932, p. 449, nt. 1.<br />
( 73 ) L’Autore configura in capo ad ogni uomo un dovere a conservare se stesso, e ciò lo<br />
dispensa dal rispondere al giudice se ciò sia per lui in qualche modo dannoso (F. Rusca,<br />
Osservazioni pratiche sopra la tortura, Lugano 1776, p. 21).<br />
( 74 ) Sul delicato problema posto dagli indizi indubitati, terreno di incontro tra valore<br />
legale della prova e libero convincimento del giudice, mi si consenta di rinviare al mio Il diabolico<br />
intreccio cit., pp. 387-419.<br />
( 75 ) Di simile avviso era Pietro Verri, che, pur avendo consegnato alla memoria pagine<br />
di non comune bellezza sulle ragioni militanti a favore dell’abolizione della tortura, cerca,<br />
tuttavia, di trovare modi indiretti per costringere «a rispondere un uomo che interrogato<br />
dal giudice si ostina al silenzio», giungendo a schierarsi a favore di quanti sostenevano<br />
«che una sola legge che abrogasse la tortura sarebbe dannosa al corso della giustizia, qualora<br />
contemporaneamente non venisse promulgata l’altra che dichiarasse convinto» chi ricusi di
SAGGI E OPINIONI<br />
129<br />
mutismo ad oltranza. Che fare in questo caso, si chiede Rusca? Il giudice<br />
non dispone che di due alternative: o non dà seguito alle minacce e rinuncia<br />
ad emettere la sentenza (vanificando l’utilità delle intimidazioni) o<br />
vi dà corso e pronuncia la condanna del reo. È a questo punto che si tocca<br />
con mano la fragilità della costruzione: «Quale sarà il delitto, onde si vorrà<br />
punire?». Di che cosa l’individuo sarà chiamato a dar conto? «Di ostinazione<br />
a non rispondere?». E cosa è mai questa «colpa ancora sconosciuta?»(<br />
76 ).<br />
L’autore coglie il cuore del problema: la pena non può essere irrogata<br />
se non in ragione di un reato commesso e il silenzio non può di certo annoverarsi<br />
tra le ipotesi di illecito previste dalle legge. Sono gettate le basi di<br />
un ribaltamento di prospettiva che induce a non vedere più nell’imputato<br />
una «bestia da confessione»( 77 ).<br />
Troppo semplice pensare che d’ora in poi la strada da percorrere sarebbe<br />
stata tutta in discesa. In realtà, di fronte ad un simile tema, la dottrina<br />
procede ‘per strappi’, per concessioni e ripensamenti, per arretramenti<br />
e progressioni( 78 ). Nemmeno i piú insigni esponenti dell’illuminismo<br />
penale riusciranno ad esprimere sino in fondo, sul punto, la propria carica<br />
dirompente.<br />
È innegabile che i riformatori settecenteschi determinarono una sferzata<br />
destinata a smuovere l’immobilismo stagnante. Tuttavia la loro autentica<br />
battaglia ‘vincente’ fu quella condotta contro la tortura: il ripudio dell’assurda<br />
pretesa che «il dolore divenga crogiuolo di verità, quasi che il criterio<br />
di essa risieda nei muscoli e nelle fibre di un miserabile»( 79 ),<br />
comportava di escludere che un uomo potesse essere al contempo accusatore<br />
ed accusato. Ma tale valore pacificamente condiviso dai philosophes<br />
rispondere (P. Verri, Osservazioni sulla tortura, ed. a cura di G. Barbarisi, Milano 1993, §<br />
15, p. 106). Non stupisce pertanto che di identico segno sia la soluzione prospettata da Beccaria,<br />
il quale sul brogliaccio delle Osservazioni dell’amico Verri stilò il suo phamplet. Cfr. L.<br />
Garlati Giugni, Molto rumore per nulla? L’abolizione della tortura tra cultura universitaria<br />
e illuminismo giuridico: le Note critiche di Antonio Giudici a Dei delitti e delle pene, in Formare<br />
il giurista. Esperienze nell’area lombarda tra Sette e Ottocento, Milano 2004, pp. 274-5 e<br />
relative ntt.<br />
( 76 ) F. Rusca, Osservazioni cit., p. 31.<br />
( 77 ) F. Cordero, Procedura penale (2003) cit., p. 25.<br />
( 78 ) Carmignani, in un noto passo, bollava come stravagante ed assurda la proposizione<br />
che vede nei mezzi usati per indurre l’imputato a rispondere il vero un attentato abusivo e<br />
tirannico alla sua libertà di rispondere, con la motivazione che concedere nel giudizio penale<br />
una libertà illimitata di rispondere a proprio talento finirebbe per «supplantare il diritto d’interrogare<br />
non che quello di avere risposte coerenti alla verità» (G. Carmignani, Teoria cit.,<br />
pp. 213-4).<br />
( 79 ) C.Beccaria, Dei delitti e delle pene, Edizione nazionale delle Opere di Cesare Beccaria,<br />
diretta da L. Firpo e G. Francioni, Milano 1984, § XVI, p. 62.
130<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
non significò necessariamente accettazione da parte di tutti di un diritto al<br />
silenzio, né la sua configurazione come tecnica difensiva.<br />
Anzi, il personaggio più rappresentativo del movimento, Cesare Beccaria,<br />
mostra a tal proposito qualche cedimento e non poche incoerenze.<br />
Dopo aver regalato pagine di esemplare lucidità e di intenso pathos nel §<br />
16 del suo celeberrimo libro, dedicato a dimostrare l’inutilità della tortura,<br />
spostando il discorso da accenti moraleggianti ad un’analisi di politica del<br />
diritto, nel § 38, intitolato Interrogazioni suggestive, deposizioni, il Marchese<br />
reclama per «colui che nell’esame si ostinasse a non rispondere alle<br />
interrogazioni fattegli» una pena fissata dalle leggi, per giunta «delle più<br />
gravi che siano da quelle intimate»( 80 ).<br />
Mal si concilia questa richiesta di sanzionare penalmente il silenzio con<br />
la premessa iniziale del suo ragionamento: vi è una commistione di elementi<br />
che inducono Beccaria ad esigere, da un lato, l’abolizione della tortura,<br />
ma al tempo stesso a sostenere la necessità della confessione( 81 ). Così<br />
lampante appare l’ambiguità di fondo di tale riflessione da indurre un anonimo<br />
professore pavese, Antonio Giudici, a vergare con mano sicura una<br />
replica che, se non appare degna del più acceso riformista, svela impietosamente<br />
e con toni vivaci tale incongruenza: «non dovea l’Autore, che si<br />
sforza in più luoghi di promover cotanto la dolcezza delle pene, e che affetta<br />
di favorir l’innocenza ragionar così. Egli vuole, che si castighi con una delle<br />
pene più gravi colui, che si ostinasse a non rispondere al giudice. Par<br />
dunque, che l’Autore approvi pure in tal caso qualche tormento, che lo costringa<br />
a parlare [...] poi omette di dire in favor dell’accusato, che potrebbe<br />
tal pena essere ingiusta, odiniqua»( 82 ).<br />
Il pensiero di Beccaria rimane una ‘bella incompiuta’, innaturalmente<br />
spezzato sul filo del traguardo: «Una volta ripudiati gli istituti della tortura<br />
e del giuramento dell’imputato, sarebbe stato logico escludere la configurabilità,<br />
nei confronti del medesimo, di un dovere di rispondere all’interrogatorio»(<br />
83 ), a dimostrazione che la via per giungere ad affermare la «spontaneità<br />
dei meccanismi di autodeterminazione dell’individuo in sede di interrogatorio<br />
penale [...] e del riconoscimento all’imputato della possibilità<br />
( 80 ) C. Beccaria, Dei delitti e delle pene cit., § XXXVIII, p. 117.<br />
( 81 ) È una posizione definita ora deludente (L. Ferrajoli, Diritto e ragione cit., p.<br />
701, nt. 285) ora incongruente (V. Grevi, «Nemo tenetur» cit., p. 14).<br />
( 82 ) A. Giudici, Apologia della giurisprudenza romana, o Note critiche al libro intitolato:<br />
Dei delitti, e delle pene, Milano 1784, nota CCXLII al § 38, p. 208. Mi permetto di rinviare<br />
a Molto rumore per nulla? cit., pp. 309-10.<br />
( 83 ) V. Grevi, «Nemo tenetur» cit., p. 14. Marchetti ritiene invece che la riflessione<br />
svolta sul punto da Beccaria sia perfettamente coerente con l’insieme dell’opera, tanto da<br />
rappresentarne la logica conseguenza (P. Marchetti, Testis contra se cit., pp. 270-1, nt.<br />
267).
SAGGI E OPINIONI<br />
131<br />
di astenersi dal rispondere all’interrogatorio» era lastricata, per ora, solo di<br />
buone intenzioni( 84 ).<br />
Per un Beccaria che perde l’occasione di proporsi, anche su tale questione,<br />
come profondo innovatore, c’è un Filangieri pronto ad osare di più.<br />
Riprendendo le posizioni di Rusca e maturando le acerbe intuizioni di<br />
Hobbes, Gaetano Filangieri ribadisce l’esistenza di un diritto naturale al<br />
silenzio. È la natura che chiude la bocca al reo; l’istinto di conservazione,<br />
di sopravvivenza è più forte di qualunque altro stimolo: «la confessione del<br />
delitto, portando sicuramente la perdita o dell’esistenza, o di una parte<br />
della sua felicità, richiede o uno sforzo superiore al contrario impulso della<br />
natura, o un’illusione, che gli faccia vedere nella perdita di una di queste<br />
due cose l’acquisto di un bene più grande»( 85 ), ponendolo nella stessa condizione<br />
del suicida, il quale si dà la morte con le proprie mani credendo di<br />
ravvisare nella fine dell’esistenza l’acquisto della felicità piuttosto che il termine<br />
delle sue sciagure. Se – continua il filosofo napoletano – la prima<br />
legge di natura esige che ognuno preservi la propria vita, qualsiasi patto sociale<br />
che intimi di confessare è da considerarsi nullo, in quanto costringe a<br />
violare un principio antecedente e superiore al diritto positivo( 86 ).<br />
Le argomentazioni di Filangieri conducono ad enucleare concettualmente<br />
un vero e proprio diritto-dovere al silenzio( 87 ), cui l’imputato non<br />
può contravvenire senza infrangere la legge di natura che gli ingiunge di<br />
tacere. Il magistrato che pretenda di punirlo per questo motivo lo istiga<br />
a commettere due delitti «quando egli potrebbe non essere reo che di<br />
un solo»( 88 ).<br />
( 84 ) V. Grevi, «Nemo tenetur» cit., p. 12.<br />
( 85 ) G. Filangieri, La scienza della legislazione cit., pp. 238-9.<br />
( 86 ) G. Filangieri, La scienza della legislazione cit., p. 283.<br />
( 87 ) G. Filangieri, La scienza della legislazione cit., p. 290, nt.<br />
( 88 ) G. Filangieri, La scienza della legislazione cit., p. 285. Echi di una simile impostazione<br />
si trovano anche nell’opera di Francesco Maria Pagano, che, pur non affrontando<br />
direttamente il problema del ius tacendi, sviluppa gli enunciati di Filangieri e, prima ancora,<br />
di Beccaria, spogliando di ogni aura la confessione (vista come violazione del diritto naturale<br />
dell’uomo a conservare se stesso e da considerare come mero indizio e non già quale dimostrazione<br />
di responsabilità) e il giuramento che pone l’individuo di fronte ad un bivio drammatico:<br />
salvare se stesso o non mentire alla presenza dell’eterno (F.M. Pagano, Principi del<br />
codice penale e logica de’ probabili per servire di teoria alle prove nei giudizi criminali, Napoli<br />
1819, p. 149, ma in generale cfr. pp. 146-52). Lo stesso autore rafforzerà ulteriormente le<br />
proprie osservazioni definendo il giuramento e l’ammonimento a confessare il vero una «spirituale<br />
tortura»: se quella fisica costringe a riconoscersi colpevole, «il timore dello spergiuro<br />
fa violenza allo spirito» (F.M. Pagano, Considerazioni sul processo criminale, Milano 1801,<br />
p. 110). La battaglia contro il giuramento non è originale né esclusiva prerogativa dell’illuminismo,<br />
che anzi raccoglie l’esperienza maturata dalla criminalistica passata, come attesta<br />
con onestà intellettuale il medesimo Pagano. Se non vi è una presa di posizione esplicita e<br />
diretta sul silenzio, la dissertazione sul giuramento, sulla tortura, sul valore della confessione<br />
creano le premesse per ravvisare in esso un diritto e non una colpa. Più articolato il pensiero
132<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
Si tratta di soluzioni giudicate audaci e temerarie per quell’epoca, eppure<br />
destinate, alla lunga, a prevalere. Non ora però, non subito. Lo conferma<br />
la legislazione europea continentale settecentesca, e italiana in particolare,<br />
che, già poco incline per sua natura ad innovare, mostra, nei rari<br />
guizzi di ‘originalità’, di preferire e di recepire i cauti suggerimenti beccariani<br />
alla carica ideale insita nei postulati della dottrina progressista e minoritaria.<br />
La normativa d’ancien régime rivela l’esistenza d’uno stretto legame tra<br />
deferimento del giuramento di verità, tortura e spazi ‘protetti’ riservati al<br />
silenzio, in una prospettiva inversamente proporzionale: ove si insiste sui<br />
primi due aspetti, inevitabile è l’assenza del terzo.<br />
Se l’Ordonnance criminelle, nella versione definitiva, si ‘limitava’ nell’art.<br />
VII a pretendere il giuramento di verità dell’imputato, anche se ciò<br />
significava costringerlo a fare dichiarazioni contro se stesso( 89 ), nel dibattito<br />
precedente si era profilata una certa avversione verso questa scelta, sul<br />
presupposto che il giuramento fosse un istituto contrario al diritto di natura:<br />
nul n’est tenu de se condamner soi-méme par sa bouche, che equivale<br />
a dire, in conformità ai principi romanistici, che esse inhumanum videtur,<br />
per leges quae periuria puniunt, viam periuriis aperiri (C.6.40.2.2). Lamoignon,<br />
tra gli altri, rimarcava che il giuramento imposto all’interrogato era<br />
stato introdotto non solo in Francia, ma nell’Europa intera dalla consuetudine,<br />
non dal diritto; era un’usanza, non un precetto normativo, come attestava<br />
per l’appunto anche Giulio Claro, sostenendo che questo era sì<br />
l’uso in Francia, ma anche lo stylus communis Italiae, sebbene riprovato<br />
dalla prevalente opinio: «mihi certe haec practica nunquam placuit, quia<br />
est manifesta occasio periurii»( 90 ).<br />
Le tesi sposate da quanti adombravano almeno la possibilità di salvaguardarsi<br />
da se stessi in virtù di un principio naturale, e di ricevere perciò<br />
l’interrogatorio senza giuramento, erano definite «tres-grande, soutenue de<br />
fortes raison [...] mais qu’aiant dépuis communiqué certe ouverture à Messieurs<br />
les Commissaires du Roi, qui travaillent à la reformation de la justice,<br />
di Brugnoli, il quale considera la difesa un diritto naturale ed in ragione di ciò «dev’essere<br />
facoltativo a ciascuno di proporla qual ei la creda opportuna», quindi anche attraverso il silenzio.<br />
Ma se concediamo al giudice la possibilità di punire colui che opta per il silenzio è<br />
come se si attribuisse «il diritto di punire un inquisito perché cerca di difendersi» (G. Brugnoli,<br />
Della certezza e prova morale cit., § 569, p. 460).<br />
( 89 ) Ordonnance criminelle, (1670), rist. anast. Code Louis t. II, in Testi e documenti per<br />
la storia del processo, a cura di N. Picardi eA.Giuliani, Milano 1996, art. VII, p. 153. Per<br />
gli ultimi sviluppi nel processo francese si veda A. Astaing-G. Clemént, Les ‘‘muets volontaires’’<br />
dans la procedure penale française de l’epoque moderne et contemporaine, inTijdschrift<br />
voor Rechtsgeschiedenis (Revue d’Histoire du droit – The Legal History Review), 70 (2002),<br />
pp. 291-316.<br />
( 90 ) I. Clarus, Volumen cit., § Finalis, quaestio XLV, vers. Sed pone, ff. 130-1.
SAGGI E OPINIONI<br />
133<br />
elle leur avoit paru de dangéreuse conséquence [...] nonobstant les raisons<br />
alleguées par Mr. Le P. Président, l’article VII a été inséré dans l’Ordonnance»(<br />
91 ).<br />
La legislazione settecentesca pare invece accogliere tutte le variegate<br />
opinioni espresse da una dottrina ‘garantista a metà’. Immediata e diretta,<br />
ad esempio, è l’influenza di Beccaria sulle normative europee del tempo.<br />
«Singolare e interessante è la circostanza che l’idea della punizione dell’imputato<br />
reticente non sia rimasta senza seguito sul piano politico legislativo»(<br />
92 ): e se ciò vale nell’immediato per l’Istruzione di Caterina II di<br />
Russia, che tradusse letteralmente la proposta del giovane aristocratico<br />
lombardo( 93 ), lo stesso può dirsi, come si vedrà più diffusamente nelle pagine<br />
seguenti, per il Codice universale dei delitti e delle pene austriaco.<br />
Sembra quasi che là dove ‘‘siedono sovrani illuminati’’ il pensiero di Beccaria<br />
riesca ad affermarsi in virtù di una sostanziale aderenza ai programmi<br />
dell’assolutismo: il ripudio della tortura, da una parte, l’adozione di sanzioni<br />
corporali per l’imputato silente dall’altra.<br />
Era apparsa più cauta Maria Teresa, che nella sua Constituto criminalis<br />
del 1768 aveva scelto la via dell’intimidazione (la norma usa letteralmente<br />
l’espressione «acre minaccia»), non l’immediata applicazione della pena, finendo<br />
però in quella sorta di vicolo cieco paventato da Rusca: la ratio della<br />
disposizione risiedeva nell’ottimistica fiducia che la minaccia di adottare un<br />
severo provvedimento (lasciato però nella assoluta vaghezza) partorisse<br />
buoni risultati, configurandosi quale sorta di costrizione legittima. Fin<br />
qui i propositi. Desolatamente inefficace risultava invece il rimedio di<br />
fronte al perseverare del silenzio( 94 ): «quand’anche ciò nulla giovasse», alla<br />
sovrana non restava che adottare una linea ‘interlocutoria’, ossia disporre la<br />
consultazione sul da farsi con il tribunale superiore( 95 ). A parte la discutibilità<br />
di una tecnica normativa che impedisce all’individuo di conoscere a<br />
priori il suo destino, con buona pace della certezza del diritto, siamo di<br />
( 91 ) Gli interventi più significativi sul tema sono riprodotti nella rist. anast. dell’Ordonnance<br />
cit. supra, pp. 153-61.<br />
( 92 ) V. Grevi, «Nemo tenetur» cit., p. 14.<br />
( 93 ) Istruzione emanata da Caterina seconda, imperatrice e legislatrice di tutta la Russia...per<br />
la redazione di un nuovo codice delle leggi ...tradotta nuovamente dal francese in lingua<br />
toscana, Firenze 1769, cap. X, § 181.<br />
( 94 ) Rusca enumera una serie di ragioni che possono spingere l’imputato a proseguire<br />
nella linea di condotta intrapresa a dispetto delle intimidazioni. Oltre alla nutrita speranza di<br />
non vedere tramutata la minaccia in realtà, l’accusato può decidere di persistere nel diniego<br />
per disprezzo della morte, per desiderio di distinguersi, per volontà di mostrare una fermezza<br />
superiore a quella dei suoi persecutori, per avversione verso la vita. Saranno «stravaganze,<br />
ma la stravaganza è sempre possibile» e tanto basta ad escludere ogni condanna nei confronti<br />
di chiunque si ostini a tacere (F. Rusca, Osservazioni cit., p. 30).<br />
( 95 ) Constitutio criminalis Theresiana, Vienna 1769, art. XXXI, § 33, p. 34.
134<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
fronte alla riprova di quanto fosse fondato lo scetticismo di Rusca verso la<br />
concreta realizzabilità e, quindi l’utilità, di tale opzione.<br />
L’impasse non è meno evidente se si guarda ai progetti di riforma in<br />
atto in quegli stessi anni in Lombardia, sotto il dominio asburgico. Il<br />
Nuovo piano della prattica civile e criminale e per lo Stato di Milano del<br />
1768, compilato dai senatori Giuseppe Santucci e Gabriele Verri, e destinato,<br />
nelle intenzioni dei redattori, a creare una struttura processuale semplice,<br />
breve, chiara e finalmente libera da ogni tipo di abuso, escludeva la<br />
tortura per gli imputati negativi, ma la manteneva «se i rei non vogliano<br />
rispondere o se non rispondano congruamente»( 96 ), a dimostrazione che<br />
conservatori e illuministi, separati da abissi concettuali, viaggiavano di concerto<br />
almeno su di un punto: l’ostilità verso il silenzio. Gli uni e gli altri in<br />
virtù delle differenti premesse ideologiche maturavano poi risposte diverse<br />
(la tortura i primi, una pena i secondi), ma innegabilmente affine era lo spirito<br />
che animava entrambi.<br />
Le ragioni che determinavano alla tortura sono condensate, con pregevole<br />
sintesi, nella consulta di Gabriele Verri del 19 aprile 1776, ossia nella<br />
replica stilata dai senatori milanesi alla richiesta del governo di pronunciarsi<br />
sull’abolizione della tortura, nella speranza che Milano si allineasse<br />
con quanto già disposto il 2 gennaio per l’Austria. Nella tenace difesa della<br />
necessità di mantenerla in vigore per fronteggiare una criminalità dilagante,<br />
Verri affrontava anche la vexata quaestio della taciturnitas. Sottolineato che<br />
la tortura mirava ad eruendam veritatem, il primo caso in cui la si considerava<br />
esperibile era proprio quello del «reus qui iudici interroganti aut non<br />
respondet, aut congruum negat responsum: iste, si terque quaterque interrogatus,<br />
impulsus, territus obmutescit vel incongrue respondet, per hoc silentium<br />
se prodit sontem. Cur enim tacet, si insons?». In questo interrogativo<br />
riposa un intero mondo.<br />
Perché tacere se si è innocenti? La cultura del sospetto abita qui. La<br />
presunzione di colpevolezza non potrebbe trovare paladino più efficace:<br />
si matura la convinzione che chi tace ha qualcosa da nascondere, qualcosa<br />
che appartiene non a lui ma alla collettività, la quale deve conoscere i fatti<br />
per poter scoprire i perturbatori della pace sociale. Il ‘contumaciale silenzio’,<br />
come lo si definisce nel documento, lede la legitima interrogandi potestas<br />
et publica res bono exemplo fraudatur. In nome di ciò, si consentiva<br />
un turbinio di vessazioni: «excutitur pluries, vehementer urgetur metu infligendi<br />
tormenti, si diutius se praebet contumacem. Isto plane casu torturae<br />
subiicitur, ut tam iniuriosum iustitiae et legitimae potestati silentium,<br />
( 96 ) Si vedano le correzioni alle Regole per la Pratica criminale del Nuovo Piano, §Per<br />
regola generale, in ASMi, Miscellanea storica, cart. 56, p. 258, edito in G. Volpi Rosselli,<br />
Tentativi di riforma del processo nella Lombardia teresiana. Il Nuovo Piano di Gabriele Verri,<br />
Milano 1986, Appendice, p. 311, nt. 229).
SAGGI E OPINIONI<br />
135<br />
quo veritas premitur, frangatur»( 97 ). Insiste più volte su questo punto il<br />
vecchio Verri nella sua risposta alla Corona, dimostrando che l’autodifesa<br />
del reo mediante il silenzio era inteso nell’ancien régime come un indizio di<br />
colpevolezza. E si può dire – caso forse più unico che raro nel confronto a<br />
distanza sui temi processuali – che anche alcuni humaniores philosophi<br />
erano nel caso di specie concordi con lui( 98 ).<br />
Le cose non andavano meglio fuori dai confini lombardi. Si può, anzi,<br />
affermare che le posizione più retrive, e al tempo stesso maggiormente rappresentative<br />
della tradizione, si ritrovano nelle consolidazioni settecentesche,<br />
dove l’inveterata prassi criminale si fa norma: le Costituzioni piemontesi,<br />
nell’ultima edizione del 1770, quella, per intenderci, che tornerà ad<br />
avere piena vigenza nell’interregno fra l’abolizione della codificazione napoleonica<br />
e la formazione dei codici sabaudi, riassumono tutte le potenziali<br />
chiusure di fronte al silenzio. La legislazione del Regno di Sardegna è sul<br />
punto estremamente articolata: dopo aver esperito un perentorio quanto<br />
vano invito a rispondere, dispone la tortura nei confronti del sospetto<br />
reo di delitto punito con la morte o con la galera, ma non pienamente provato,<br />
sempre che sussistano indizi di colpevolezza, seppur non indubitati(<br />
99 ). Un ultimo tentativo di condurre a ragionevolezza l’imputato è<br />
esperito prima di eseguire materialmente i tormenti: di nuovo minacce,<br />
di nuovo si prospettano bui scenari in risposta al perdurare del silenzio. Ribadito<br />
che la tortura si propone come fine non la confessione, ma «d’avere<br />
le di lui risposte», si stabilisce che se essa non apporta alcuna novità, persistendo<br />
l’atteggiamento silente, si avrà «il delitto per confessato», non senza<br />
però aver primo informato i magistrati superiori dei passi compiuti( 100 ).<br />
Discorso diverso nel caso di reato non sanzionato con la morte o la galera,<br />
ma di cui esistano piene prove o indizi sufficienti per affermare la colpevolezza<br />
dell’indagato: l’imputato è in questo caso ammonito a parlare<br />
sotto pena di considerare il silenzio equivalente alla confessione( 101 ).<br />
Si noti come il testo faccia ‘tesoro’ dell’ampia gamma di soluzioni dottrinali<br />
fino a quel momento messe a punto, senza disperdere nulla di un<br />
( 97 ) La Consulta del senatore Verri è riprodotta in Appendice aS.Di Noto, Documenti<br />
del dibattito su tortura e pena capitale nella Lombardia austriaca, inStudi Parmensi, 19<br />
(1977), pp. 267-406, doc. n. 6, p. 393.<br />
( 98 ) Marchetti fornisce una possibile interpretazione della posizione sorprendentemente<br />
riottosa di alcuni riformatori del XVIII secolo. A suo avviso, la scelta di punire il silenzio<br />
consentiva agli abolizionisti di convincere l’opinione pubblica che la scomparsa della tortura<br />
non avrebbe comportato una dilagante impunità dei criminali più incalliti (P. Marchetti,<br />
Testis contra se cit., p. 207, ma in generale pp. 202-8).<br />
( 99 ) Leggi e Costituzioni di Sua Maestà, t. II, Torino 1770, lib. IV, tit. XI, art. 20, pp.<br />
72-3.<br />
( 100 ) Leggi e Costituzioni di Sua Maestà, t. II, Torino 1770, lib. IV, tit. XI, art. 21, p. 73.<br />
( 101 ) Leggi e Costituzioni di Sua Maestà, t. II, Torino 1770, lib. IV, tit. XI, art. 22, p. 74.
136<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
tale ‘patrimonio di saggezza’: sembra una sorta di patchwork della carrellata<br />
fin qui presentata, sino a recuperare persino la soluzione piú paventata,<br />
ossia l’assimilazione del silenzio alla ficta confessio. Se Maria Teresa non<br />
aveva osato andare al di là del mero avvertimento, rifiutando di dare esecuzione<br />
ad intimidazioni che costringevano a scelte difficilmente sostenibili<br />
sul piano logico-giuridico, le Costituzioni sabaude intraprendono una<br />
strada senza ritorno: «si comminerà a rispondere, sotto pena d’aversi il delitto<br />
per confessato; e dovrà aversi effettivamente per tale, quando replicata<br />
in altro diverso giorno tal comminazione, sarà ostinato in non rispondere»(<br />
102 ).<br />
Pervengono a conclusioni meno radicali, ma di analoga impronta le<br />
Costituzioni modenesi, che senza apportare alcun elemento di originalità<br />
a quanto fin qui detto ricalcano vie già battute( 103 ).<br />
A fronte di simili normative ve ne sono altre in cui il garantismo si<br />
gioca su tre tavoli: finalità dell’interrogatorio (o concezione del ruolo dell’imputato),<br />
giuramento, tortura. La sorte degli ultimi due istituti dipende<br />
dalla modulazione assunta dal primo; l’ambito di operatività del silenzio è il<br />
risultato di queste tre componenti.<br />
È il caso della Riforma toscana del 1786. Al categorico divieto in essa<br />
contenuto di deferire il giuramento all’imputato, e non solo per ciò che<br />
concerne il fatto proprio, ma anche relativamente al fatto di complici del<br />
delitto per cui si procede( 104 ), corrisponde, quasi in logica ed inevitabile<br />
( 102 ) Leggi e Costituzioni di Sua Maestà, t. II, Torino 1770, lib. IV, tit. XI, art. 22, p. 74.<br />
( 103 ) Dedicando al problema un solo articolo, il Codice estense si limita a ribadire<br />
quanto si è esposto fino ad ora: il ricorso alla tortura al fine di estorcere informazioni, preceduta<br />
dall’approvazione del Consiglio di Giustizia. Recita infatti la norma: «allorché l’inquisito<br />
ricusasse di rispondere categoricamente agl’interrogatori previe le opportune ammonizioni,<br />
si dovrà venire alla tortura per obbligarlo a rispondere, con avvertirlo di torturarlo<br />
al solo fine d’avere le risposte, ben inteso però che a tale tortura debba precedere l’approvazione<br />
del Nostro Consiglio di Giustizia, o de’ Feudatari rispettivamente» (Codice di leggi,<br />
costituzioni per gli Stati di Sua Altezza Serenissima, t. II, Modena 1771, lib. IV, tit. IX, art.<br />
VII, pp. 133-4). La norma sembra riprodurre quel conflitto di competenze e di giurisdizione<br />
tra Supremo Consiglio di Giustizia e giudicature locali ben espresso da C. E. Tavilla, Riforme<br />
e giustizia nel Settecento estense. Il Supremo Consiglio di Giustizia (1761-1796), Milano<br />
2000, in partic. pp. 281-91; 405-22; 458-60 per ciò che concerne il profilo penale. Dello stesso<br />
autore si veda, relativamente al codice estense, Il codice estense del 1771: il processo civile<br />
tra istanze consolidatrici e tensioni riformatrici, introduzione a Codice estense 1771, Testi e<br />
documenti per la storia del processo, a cura di N. Picardi eA.Giuliani, II sezione: Codici<br />
di procedura civile degli Stati italiani preunitari, Milano 2001, in partic. pp. IX-XVI.<br />
( 104 ) La Riforma toscana recepisce appieno, dunque, il pensiero di Beccaria, che nel §<br />
XI del suo celeberrimo pamphlet esprimeva in modo chiaro l’assurdità d’imporre il giuramento<br />
a chi aveva il massimo interesse ad essere falso «quasi che l’uomo potesse giurar<br />
da dovero di contribuire alla propria distruzione; quasi che la religione non tacesse nella<br />
maggior parte degli uomini quando parla l’interesse [..] Perché mettere l’uomo nella terribile<br />
contradizione, o di mancare a Dio, o di concorrere alla propria rovina? talché la legge, che
SAGGI E OPINIONI<br />
137<br />
consequenzialità, l’abolizione della tortura, «non eccettuatane alcuna<br />
specie, siccome non eccettuato verun caso, né veruno degli effetti per i<br />
quali era stata nei processi criminali per l’addietro praticata»( 105 ).<br />
E lo stesso può dirsi per la Norma interinale di Giuseppe II, risalente<br />
al medesimo ‘glorioso’ anno per il penale (il 1786) ed ispirata dalla identica<br />
matrice ideologica della Leopoldina, entrambe creature di un’unica filosofia<br />
politica( 106 ). Anche tale ‘codice di procedura penale’( 107 ), destinato nelle<br />
intenzioni a traghettare la Lombardia dal particolarismo, soggettivo e oggettivo,<br />
all’entrata in vigore in via definitiva del Regolamento di procedura<br />
penale che si andava nel frattempo predisponendo, e rivelatosi invece nei<br />
fatti una regolamentazione di lunga durata, imponeva al giudice di astenersi<br />
dall’esigere dall’inquisito il giuramento, «essendosi rilevato coll’esperienza,<br />
che il giuramento anzi che influire alla verità èsoventi volte una<br />
nuova occasione di delinquere collo spergiuro»( 108 ).<br />
Al tempo stesso, l’art. XXI era interamente dedicato ai mezzi sostituiti<br />
alla tortura, la quale era evidentemente considerata strumento incerto e pe-<br />
obbliga a un tal giuramento, comanda o di essere cattivo cristiano o martire» (C. Beccaria,<br />
Dei delitti e delle pene cit., § XVIII, p. 70). «E perciò il gran Pietro Leopoldo, nel dare il suo<br />
codice alla Toscana, nell’art. 6 statuì il primo in Europa» l’abolizione dell’obbligo di giurare<br />
(N. Nicolini, Della procedura penale nel Regno delle due Sicilie esposta [...] colle formole<br />
corrispondenti dedicata alla Maestà del Re N.S., parte III, vol. II, Napoli 1831, § 984. pp.<br />
373-4). Ancora: «il giuramento dell’imputato, che il codice leopoldino in Toscana ebbe la<br />
gloria di ripudiare prima di ogni altro codice in Italia, non venne mai più riprodotto nella<br />
Penisola né in altri stati di Europa» (F. Saluto, Commenti al codice di procedura penale<br />
per il Regno d’Italia, vol. II, Roma-Torino-Firenze 1877, p. 546). L’autore ritiene che tale<br />
disposizione ispirò l’art. 232 del codice di procedura penale del 1865 e che entrambi presentassero<br />
la stessa base logica: quella di impedire che un individuo risultasse all’interno della<br />
medesima causa accusato e testimone, poiché rivelazioni rese sul fatto altrui potevano contenere<br />
accuse indirette verso se stessi. Se – osserva il Saluto – le dichiarazioni sono vincolate<br />
dal giuramento, l’individuo è posto in quella atroce alternativa (mentire per salvarsi e quindi<br />
spergiurare o divenire ‘omicida’ di se stesso) che le moderne legislazioni, cresciute all’ombra<br />
degli insegnamenti di Beccaria, devono evitare. Realizza una particolare ricostruzione delle<br />
fasi che portarono all’abbandono del giuramento nel processo penale E. Allorio, Il giuramento<br />
della parte, Milano 1937.<br />
( 105 ) Cfr. artt. VI e XXXIII delle Legge toscana del 30 novembre 1786, consultata nell’ed.<br />
critica di D. Zuliani, La riforma penale di Pietro Leopoldo, inLa ‘‘Leopoldina’’. Criminalità<br />
e giustizia criminale nelle riforme del ‘700 europeo, 2, Milano 1995, p. 47. Sul punto T.<br />
Nani, Nuova legislazione criminale da osservarsi nella Toscana, Milano 1803, pp. 11-3 e 37.<br />
( 106 ) In questo senso si esprime E. Dezza, Il codice di procedura penale del Regno italico<br />
(1807). Storia di un decennio di elaborazione legislativa, Padova 1983, p. 6.<br />
( 107 ) Provin ritiene che con l’entrata in vigore della Norma interinale si possa dire iniziata<br />
l’età dei codici, segnando un punto di non ritorno nell’evoluzione del moderno ordinamento<br />
processuale penale (G. Provin, Una riforma per la Lombardia dei lumi. Tradizione e<br />
novità nella ‘‘Norma Interinale del processo criminale’’, Milano 1990, p. 58).<br />
( 108 ) Norma Interinale del processo criminale per la Lombardia austriaca, Milano 1786,<br />
art. XIV, § 162, p. 90.
138<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
ricoloso per il conseguimento della verità. Ciò non significava rinunciare a<br />
perseguire l’accertamento dei fatti: «Non potendo però una norma generale<br />
servire a tutti i casi, viene commesso al R. tribunale d’Appello di prescrivere<br />
all’uopo li mezzi opportuni per superare l’ostinazione de’ rei, onde<br />
la giustizia non ne risenta pregiudizio da quella»( 109 ).<br />
Le norme di Giuseppe II si collocano a metà tra quanto disposto da<br />
Maria Teresa, prima di lui, e il superamento della visione cristallizzata<br />
del processo penale. Ne sortisce un risultato in bilico tra rifiuto dell’antico<br />
ed esitazione verso il nuovo che avanza. Da un lato il sovrano sembra invitare<br />
il giudice a fare a meno dell’imputato come strumento di prova: la sua<br />
parola, secondo l’Imperatore austriaco, può essere la conferma delle informative<br />
acquisite, può rafforzare il quadro probatorio, ma non deve più essere<br />
considerata indispensabile. L’invito è di ‘costruire’ solidi processi, non<br />
di fabbricare castelli accusatori così fragili da essere spazzati via dal silenzio.<br />
Si vuole, insomma, assicurare il corso della giustizia indipendentemente<br />
dal comportamento che l’imputato riterrà di tenere.<br />
Una vittoria? Non completamente. Si tratta quasi più di un’enunciazione<br />
di intenti che di una vera informativa di principio dell’intero processo.<br />
Perché, a dispetto delle ottime premesse, con lo stile enfatico che a volte contraddistingue<br />
il frasario giuridico dei codici austriaci, si afferma altresì che<br />
qualora l’interrogato ricusi di spiegare, e non appaghi il bisogno di conoscenza<br />
della giustizia con congrue e sincere risposte, lo si deve ammonire affinché<br />
parli. E se l’ostinazione permane, i giudici, in linea con la soluzione già<br />
adottata dalla Constitutio Theresiana, sono invitati a fare relazione al tribunale<br />
d’appello ed attendere istruzioni sulla condotta da assumere nei diversi<br />
casi, a discapito di una celere spedizione della causa( 110 ). Manca l’espressa<br />
previsione di sanzioni, è vero, e questo segna un progresso rispetto alle stesse<br />
Istruzioni divulgate dall’Imperatore( 111 ), ma permane la preoccupazione per<br />
( 109 ) Norma Interinale cit., art. XXI, § 238, p. 131.<br />
( 110 ) Norma Interinale cit., art. XXI, § 239, pp. 131-2.<br />
( 111 ) Le Istruzioni per i Tribunali, Giudici, e Podestà sìRegi che Feudali di tutte le Curie<br />
della Lombardia austriaca di quanto dovranno osservare nella costruzione de’ Processi Criminali<br />
(ASMi, Giustizia punitiva, p.a., cart. 6, fasc. 10), disciplina transitoria destinata a fornire<br />
un metodo giudiziario negli anni 1784-1786, fino all’entrata in vigore della Norma Interinale,<br />
lamentavano il massiccio impiego della tortura quale diretta conseguenza e riprovevole necessità<br />
discendente dalla «poca esattezza e negligenza» con cui si formavano i processi criminali.<br />
Si invitavano pertanto i giusdicenti della Lombardia austriaca ad assumere con la<br />
massima cura e diligenza tutte le informazioni possibili per disporre dei mezzi legittimi onde<br />
giungere alla scoperta e alla punizione dei colpevoli. Tuttavia, qualora l’indiziato negava di<br />
rispondere al giudice, dopo tre diffide a desistere da tale comportamento, lo si riteneva colpevole<br />
del delitto ascrittogli e non veniva più ascoltato. Il giudice aveva tuttavia la facoltà di<br />
concedere all’imputato un termine massimo di 24 ore entro le quali gli era ancora consentito<br />
chiedere un’audizione: se anche queste trascorrevano vanamente «dovrà essere considerato<br />
quale reo contumace pienamente convinto, e come tale punito secondo la disposizione di
SAGGI E OPINIONI<br />
139<br />
la totale assenza di certezza circa la sorte dell’imputato. Il compromesso<br />
regna sovrano: siamo ancora allo stadio d’un tentativo, confuso e timoroso,<br />
di pensare ad un processo penale con forma e regole diverse rispetto al passato,<br />
senza perdere però in efficacia repressiva.<br />
Da ultimo, vale la pena di segnalare che la legislazione costituzionale<br />
delle repubbliche giacobine italiane non affronta mai questo tema nello specifico.<br />
Del dibattito illuministico e delle articolate istanze garantististiche fin<br />
qui esaminate le Costituzioni del triennio ‘rivoluzionario’ recepiscono quasi<br />
esclusivamente le regole attinenti alla tutela della libertà personale.<br />
Una rapida scorsa alle leggi fondamentali di quella stagione attesta che<br />
le norme dedicate al processo penale s’incentrano per lo più sulle condizioni<br />
per procedere all’arresto, sulle modalità e i tempi del controllo giurisdizionale,<br />
sulla competenza e sui limiti che devono presiedere alla misura<br />
di privazione della libertà. In una imitazione quasi pedissequa, le norme genericamente<br />
ricomprese sotto il titolo di Giustizia criminale sembrano preoccupate<br />
soprattutto di fissare disposizioni chiare in tema di legittimità e<br />
regolarità degli arresti, ricalcando formule che da una legislazione all’altra<br />
assumono carattere tralatizio( 112 ), tentando di conciliare il valore rivoluzionario<br />
per antonomasia (la libertà) con la limitazione dello stesso per ragioni<br />
superiori. Tali guarentigie, che rivelano un chiaro ascendente nel costituzionalismo<br />
britannico ed, in particolare, nel principio dell’Habeas<br />
corpus( 113 ), troveranno poi una definitiva consacrazione nelle carte fondamentali<br />
del XX secolo, che quasi sempre le ospitano nel catalogo dei diritti<br />
inviolabili della persona( 114 ).<br />
Con questo carico di posizioni, fluttuanti e divergenti, ci si presenta<br />
legge». Si noti come la tanto vituperata assimilazione tra silenzio e tacita confessione venga<br />
qui accolta, e da mero indizio di colpevolezza il silenzio si trasformi in prova piena, capace di<br />
rendere convinto il taciturnus.<br />
( 112 ) A conferma di tale specularità, per non dire di una vera e propria riproduzione<br />
meccanica, cfr. Piano di Costituzione per la Repubblica Cispadana, Bologna 1797, artt. 242-<br />
252; Costituzione della Repubblica Cisalpina dell’anno VI Repubblicano, tit. VIII, artt. 219-<br />
229; Costituzione della Repubblica ligure, Genova 1797, cap. IX, artt. 235-248; Costituzione<br />
della Repubblica romana, Genova 1798, tit. VIII, artt. CCXIX-CCXXVIII; Progetto di costituzione<br />
della Repubblica napoletana, Napoli 1799, tit. VIII, artt. 221-230. Soltanto il Piano di<br />
Costituzione presentato al Senato di Bologna dalla Giunta Costituzionale, Bologna 1796 indica<br />
all’art. 172 che «la tortura, ed altre barbare forme per trarre di bocca a’ rei la confessione,<br />
sono abolite». Le disposizioni qui richiamate sono state consultate nella raccolta Legislazione<br />
processuale delle Repubbliche giacobine in Italia 1796-1799, inTesti e documenti per la storia<br />
del processo, a cura di N. Picardi –A.Giuliani, V, Milano 2004.<br />
( 113 ) Cfr. F. Benevolo, Il decreto del 9 ottobre 1789 dell’Assemblea Nazionale francese<br />
e le moderne legislazioni di procedura penale, inRiv. pen., 23 (1886), pp. 528-41, dove l’autore<br />
sostiene l’esigenza di modellare il processo penale sull’esempio inglese anziché su quello<br />
francese.<br />
( 114 ) Cfr. M. Fioravanti, Appunti di storia delle costituzioni moderne. Le libertà fondamentali,<br />
Torino 1995.
140<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
all’appuntamento con la codificazione, cui si chiede il coraggio di compiere<br />
una precisa scelta di campo. Il Settecento conteneva già inséun ventaglio<br />
di possibili risposte: all’Ottocento il compito di decidere se solcare il mare<br />
della tradizione, seguire la scia delle proposte più innovative o tracciare<br />
nuove e più ardimentose rotte.<br />
3. La ‘terza via’: la soluzione italiana del codice del 1807. – Nella legislazione<br />
di fine secolo appare difficile scorgere, come invece è stato sostenuto,<br />
«un affievolimento del potere coercitivo posto a presidio dell’obbligo<br />
di collaborazione»( 115 ): se talune normative vietano il deferimento del giuramento,<br />
mostrano però di non saper rinunciare ad interventi ‘esortativi’ o<br />
punitivi nei confronti di chi sfugge il confronto diretto e si sottrae alle domande<br />
dell’autorità giudiziaria.<br />
La legge positiva, com’è forse inevitabile, si mostra più arretrata rispetto<br />
alla dottrina. Mentre quest’ultima è pronta ad alcune ‘concessioni<br />
garantistiche’ e a dissodare il terreno per l’enunciazione del principio del<br />
nemo tenetur, nella prima si intuiscono cenni di titubanza: quanto più sembrano<br />
aprirsi delle falle nel rigore del sistema inquisitorio, tanto più, paradossalmente,<br />
si reagisce serrando le fila laddove è possibile. C’è il timore di<br />
compiere salti nel vuoto, di abbandonare metodi che appaiono sì sempre<br />
più discutibili e irrazionali ma efficaci.<br />
Lo scoccare dell’era codicistica indica che qualcosa sta cambiando. Un<br />
vento nuovo soffia all’aprirsi del XIX secolo e spira proprio dall’Italia.<br />
Il primo codice moderno di redazione italiana entrato effettivamente<br />
in vigore( 116 ), ossia il codice di procedura penale del 1807, segna una significativa<br />
svolta. Frutto di una gestazione circa decennale, tra progetti giacobini<br />
e opere di revisione, il Codice Romagnosi, come sarà celebrativamente<br />
denominato per ricordare il determinante apporto del giurista parmense, è<br />
un punto di partenza per comprendere gli sviluppi della futura codificazione<br />
processual penalistica e non solo nazionale.<br />
Opera di mediazione tra la tradizione inquisitoria, reinterpretata alla<br />
luce dei principi dell’assolutismo illuminato, quelli espressi, per intenderci,<br />
nella Norma Interinale, e gli afflati riformisti della legislazione rivoluzionaria,<br />
il testo accoglie dalle disposizioni giuseppine il divieto di deferire,<br />
sotto pena di nullità, il giuramento dell’imputato, così come qualunque<br />
falsa supposizione, sedizione o minaccia volta ad ottenere una risposta diversa<br />
da quella che l’interrogato è disposto a rendere spontaneamente( 117 ).<br />
( 115 ) C. Conti, L’imputato cit., p. 12.<br />
( 116 ) E. Dezza, Introduzione a Le fonti del codice di procedura penale del Regno italico,<br />
Milano 1985, p. 7. Del medesimo autore si veda Il codice di procedura penale cit., passim.<br />
( 117 ) Codice di procedura penale pel Regno d’Italia, Milano 1807, art. 204. La norma<br />
richiama il principio espresso, come già sièvisto, dall’art. XIV, § 162 della Norma Interinale.
SAGGI E OPINIONI<br />
141<br />
Si presenta invece del tutto originale la regola dettata in tema di silenzio.<br />
È possibile sostenere che di fronte a questo specifico tema il Codice<br />
di procedura penale pel Regno d’Italia tracci una terza via rispetto ai tradizionali<br />
‘modelli’ di legislazione continentale considerati tra loro alternativi(<br />
118 ), quello francese e austriaco. E sarà, per la nostra esperienza giuridica,<br />
una linea destinata a prevalere. Ciò denota come l’Italia abbia costituito<br />
nell’ambito penale, sostanziale e processuale, una fucina creativa e<br />
tutt’altro che appiattita nei confronti delle leggi provenienti da Oltr’Alpe(<br />
119 ).<br />
Se per quanto riguarda il diritto sostanziale nei codici Zanardelli e<br />
Rocco si possono trovare tracce cromosomiche del progetto milanese del<br />
1806( 120 ), pubblicato, per volontà del ministro Luosi, nella Collezione<br />
dei Travagli sul Codice Penale pel Regno d’Italia con fini meramente propagandistici(<br />
121 ), nell’ambito processuale, almeno limitatamente all’oggetto<br />
della mia analisi, riveste un equivalente ruolo di testo di riferimento il codice<br />
Romagnosi( 122 ).<br />
( 118 ) Cfr. A. Cadoppi, Il ‘‘modello’’ rivale del code pénal. Le ‘‘forme piuttosto didattiche’’<br />
del codice penale universale austriaco del 1803, inCodice penale universale austriaco<br />
(1803), rist. anast., Padova 2001, pp. XCV-CXLI e Id., Il ‘‘modello italiano’’ di codice penale.<br />
Dalle ‘‘origini lombarde’’ al codice Rocco e ad altri codici europei odierni, inAmicitiae pignus.<br />
Studi in ricordo di Adriano Cavanna, t. I, Milano 2003, pp. 125-9. È un ‘dualismo’ che credo<br />
possa estendersi anche agli altri settori di intervento codificatorio, civile e processuale.<br />
( 119 ) La felice intuizione di Cavanna che scorse le origini della codificazione penale in<br />
Italia nel progetto leopoldino del 1791-92 (A. Cavanna, La codificazione penale in Italia. Le<br />
origini lombarde, Milano 1975) ha trovato nel tempo altre conferme. Lo stesso Cavanna ribadì<br />
il debito di riconoscenza contratto con questo testo sia dal progetto Luosi del 1801-02<br />
che da quello del 1806 (A. Cavanna, Codificazione del diritto italiano e imperialismo giuridico<br />
francese nella Milano napoleonica. Giuseppe Luosi e il diritto penale, inIus Mediolani.<br />
Studi di storia del diritto milanese offerti dagli allievi a Giulio Vismara, Milano 1996, pp.<br />
659-760, ora anche in A. Cavanna –G.Vanzelli, Il primo progetto di codice penale per<br />
la Lombardia napoleonica [1801-1802], Padova 2000, pp. 143-238, in particolare pp. 222-<br />
3 e 226; A. Cavanna, Ragioni del diritto cit., pp. CCLXIII-CCLXIV). Di un modello italiano<br />
di codice penale, individuato proprio nel progetto del 1806, parla Cadoppi, il quale<br />
si spinge a sostenere che esso coincida oggi col modello europeo (A. Cadoppi, Il ‘‘modello<br />
italiano’’ cit., pp. 121-74). Per una lettura particolare di questa capacità di imposizione non<br />
solo dei codici ma della scienza criminalistica italiana fuori dai confini nazionali mi si consenta<br />
un rinvio al mio ‘‘Nessun uomo è un’isola’’. L’omicidio nel codice penale di Malta tra<br />
tradizione di diritto comune e suggestioni codicistiche, inLeggi criminali per l’isola di Malta<br />
e sue dipendenze (1854), rist. anast., Padova 2003 [ed. fuori commercio], in partic. pp.<br />
CCXXXIX-CCXLII.<br />
( 120 ) Per la storia di questo progetto cfr. in particolare E. Dezza, Appunti sulla codificazione<br />
penale nel primo Regno d’Italia: il progetto del 1809,inDiritto penale dell’Ottocento.<br />
I codici preunitari e il codice Zanardelli, Padova 1999, pp. 127-40, ma in generale si veda l’intero<br />
saggio, pp. 101-82.<br />
( 121 ) E. Dezza, Appunti cit., p. 140.<br />
( 122 ) Fra i numerosi attestati di stima espressi verso questo codice e già noti in parte<br />
alla storiografia (si pensi all’elogio di Cambacérès, ricordato da Dezza, che lo celebrò dicen-
142<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
Siamo all’affermazione di autonomia da parte della ‘scuola penale italiana’(<br />
123 ). Quando la Restaurazione prima e il codice unitario poi saranno<br />
costretti a compiere opzioni legislative in tema di silenzio, stretti tra la<br />
morsa dei due giganti, il francese e l’austriaco, decideranno consapevolmente<br />
di non seguirli, preferendo ispirarsi all’esempio italiano del<br />
1807( 124 ).<br />
Da un lato, dunque, vi era il codice austriaco, che nell’edizione del<br />
1803 mostrava di credere nell’efficacia di sanzioni corporali; dall’altro il<br />
Code d’instruction criminelle e la sua indifferenza, forse più apparente<br />
che reale, verso la questione( 125 ), a cui faceva da contrappeso un regime<br />
particolarmente rigido relativo alla carcerazione preventiva: «si trattava<br />
do: «Gli italiani la prima volta che hanno potuto fare un codice, lo hanno fatto perfetto»; cfr.<br />
E. Dezza, Il codice di procedura penale cit., p. 311), merita forse di essere ricordato il tributo<br />
rivoltogli da Frühwald, che nella ricostruzione della legislazione austriaca sul processo penale<br />
riservava parole di elogio a questo «eccellente codice [...] che s’avea già acquistato il favore<br />
della pubblica opinione, e lasciò non poco desiderio di sé quando venne abolito» (W.T.<br />
Frühwald, Manuale sul processo penale generale austriaco, trad. it. di F. Zangiacomi, Venezia<br />
1855, p. 9).<br />
( 123 ) Potremmo fare nostre le parole di Enrico Ferri, pronunciate in Parlamento nella<br />
seduta del 22 maggio 1912, il quale, esaltando la sapienza, più o meno teorica, e il ‘genio<br />
giuridico’ italico, dichiarava: «In Italia l’ingegno e la dottrina corrono per i rigagnoli» [Commento<br />
al codice di procedura penale, parte prima Lavori preparatori, vol. III Lavori parlamentari<br />
(relazioni, discussioni), Discussioni, Tornata del 22 maggio 1912, Torino 1915, p. 348].<br />
( 124 ) In questo senso si esprime anche E. Dezza, Il modello nascosto. Tradizione inquisitoria<br />
e riferimenti napoleonici nel Regolamento organico e di procedura criminale del 5 novembre<br />
1831, inRegolamenti penali di papa Gregorio XVI per lo Stato pontificio (1832), rist.<br />
anast., Padova 2000, pp. XCIV-XCVI.<br />
( 125 ) Il codice di istruzione criminale napoleonico si limita a stabilire nei giudizi di polizia<br />
all’art. 93 l’obbligo posto a carico del giudice di procedere immediatamente all’interrogatorio<br />
nell’ipotesi di mandato di comparsa, e al più tardi nelle 24 ore successive nel caso di<br />
mandato di accompagnamento. Nessuna disposizione risulta dettata sul modo di procedere<br />
all’interrogatorio. Per il giudizio vero e proprio interviene l’art. 190, che stabilisce il solo<br />
principio dell’obbligo di interrogare il prevenuto. L’art. 293, in ordine ai giudizi criminali,<br />
sancisce che l’accusato deve essere interrogato dal presidente della corte di assise entro le<br />
24 ore dal suo arrivo nella casa di giustizia e per quanto concerne il dibattimento l’art.<br />
310 effettua un generico riferimento a domande circa le generalità. Vi è una indubbia sproporzione<br />
tra la disciplina di dettaglio in tema di interrogatorio riscontrata nella Ordonnance<br />
criminelle, che vi dedicava un titolo intero, il XIV, composto da 23 articoli, e l’estrema laconicità<br />
del codice napoleonico. Pierluigi Cipolla ipotizza che tale disinteresse scaturisca dell’assorbimento<br />
della lezione dei philosophes in tema di tortura e di diritti della persona e dall’accettazione<br />
del principio per cui le parti non possono essere fonti primarie di informazioni<br />
utili per l’accertamento della verità: una sorta di nemo tenetur realizzato mediante una blanda,<br />
quasi inesistente normativa (P. Cipolla, Dal Code Louis al Code Napoleon: un caso di<br />
ricorso storico?, inI codici napoleonici, t.IICodice di istruzione criminale, 1808, in Testi e<br />
documenti per la storia del processo a cura di N. Picardi –A.Giuliani, V, Milano<br />
2002, p. LVIII).
SAGGI E OPINIONI<br />
143<br />
forse dell’opzione inconscia verso uno strumento meno eclatante, ma più<br />
sottile, di induzione alla confessione?»( 126 ).<br />
In mezzo c’è il Codice del 1807. Il legislatore pre e post unitario<br />
guardò ad esso come al testimone di una identità culturale e da lì decise<br />
dovesse avviarsi un itinerario di sviluppo.<br />
La novità di fondo del Codice del 1807 era rappresentata dall’art. 208:<br />
l’imputato che rifiutava di rispondere o che per non rispondere si fingeva<br />
muto veniva sì sollecitato a parlare, ma, contestualmente, lo si avvertiva che<br />
si sarebbe proceduto oltre nell’istruzione malgrado il suo silenzio. Nel caso<br />
poi che egli «persista nel suo proposito, il giudice fa menzione del silenzio e<br />
dell’avvertimento, e procede agli atti ulteriori. Lo stesso avrà luogo nel restante<br />
della procedura, e nel dibattimento, se l’accusato ricusi di rispondere»(<br />
127 ).<br />
Una norma così formulata determinava un taglio netto con il passato,<br />
lasciando intravedere altri tipi di scenari: nessuna traccia dell’obbligo a rispondere,<br />
nessuna sanzione minacciata o disposta di fronte al persistere del<br />
silenzio, nessuna equiparazione fra l’imputato reticente e quello convinto.<br />
Vi è unicamente l’avvertimento che con o senza l’apporto della parte il processo<br />
segue comunque il suo corso( 128 ). La giustizia accetta di fare a meno<br />
della parola dell’imputato; l’accusato accetta il rischio sotteso alla declinata<br />
possibilità di discolparsi parlando, raccontando, spiegando.<br />
In un sistema che abbandona la valutazione legale delle prove e degli<br />
indizi e rimette tutto alla coscienziosa convinzione del giudice, nessun’altra<br />
( 126 ) P. Cipolla, Dal Code Louis cit., p. LVIII.<br />
( 127 ) Codice di procedura penale (1807) cit., sez. V, art. 208. L’articolo prendeva le distanze<br />
dal progetto dell’ottobre 1802, redatto sotto la guida di Spannocchi: un progetto che<br />
si inseriva (per l’argomento qui in discussione) nel solco della tradizione. Si minacciava infatti<br />
l’imputato di considerare per provati gli indizi militanti nel processo: e, qualora neppure<br />
questo fosse risultato giovevole, il giudice faceva relazione al tribunale d’appello per avere<br />
«dal medesimo la norma con cui meglio obbligarlo a rispondere» (Progetto di Metodo di procedere<br />
nelle cause penali [autunno 1802], in Le fonti cit., § 150, p. 41). Il testo dedicava poi<br />
due paragrafi distinti all’imputato silenzioso e a quello che si fingeva pazzo o muto: costui<br />
veniva sottoposto ad un accertamento medico per verificarne l’effettiva condizione. Riscontrata<br />
un’ipotesi di simulazione, il giudice era chiamato a regolarsi secondo quanto dettato in<br />
tema di silenzio (ibidem, § 151). Le due situazioni vennero affiancate ed equiparate nella versione<br />
definitiva. Tale impostazione sarà poi seguita dagli altri codici. È una linea risalente al<br />
tit. XVIII dell’ Ordonnance criminelle che riservava all’imputato reticente lo stesso trattamento<br />
del muet volontaire (V. Grevi, Nemo tenetur cit., p. 23, nt. 36).<br />
( 128 ) Eppure, nel commentare tale norma, vi è chi non rinuncia a criteri interpretavi<br />
ancorati al passato. Ripudiata la tortura, si rimane però nella scia di quanto sostenuto a<br />
suo tempo da Beccaria: «sebbene sia detestabile l’antico uso [ossia quello dei tormenti],<br />
non cessa però di essere necessaria una pena. Anche gli umani filosofi, l’istesso Beccaria sono<br />
d’un tal parere». Dunque nell’intimazione della continuazione della procedura «senza più<br />
curarsi di ciò che potrebbe dire in sua discolpa» si ravvisa una forma sanzionatoria, anzi<br />
«la più spediente» (C. Alberici, Commentarj cit., p. 301).
144<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
conseguenza poteva attribuirsi al diniego di rispondere. Chi tace non si<br />
confessa reo per questo, ma la sua ostinazione non può arrestare il corso<br />
degli atti( 129 ).<br />
Tale norma contiene in sé in forma embrionale l’enunciazione di principi<br />
di tutela: la mancata menzione dell’obbligo a rispondere crea indirettamente<br />
un varco per la futura esplicita previsione del diritto a non rispondere.<br />
Comincia un’inversione di tendenza, un sovvertimento dei significati<br />
di cui si era nel tempo caricato l’interrogatorio: siamo di fronte ad un’attenuazione<br />
del reus tenetur se detegere che, se ancora non sfocia nel riconoscimento<br />
pieno di un diritto al silenzio, impone comunque di guardare all’interrogatorio<br />
come strumento di difesa e al silenzio come ad uno dei possibili<br />
mezzi esperibili dall’imputato per presidiare i propri interessi( 130 ).<br />
La breve parentesi dell’introduzione nei nostri territori del codice di<br />
istruzione criminale francese significò solo sospensione temporanea della<br />
vigenza di tale articolo, non cancellazione della sua validità di principio.<br />
Non riuscì a scalfirlo neppure l’altro monolito normativo, il codice austriaco<br />
del 1803, entrato in vigore, sia pure in modi e tempi differenziati,<br />
nei territori lombardi e veneti all’indomani della Restaurazione e qui rimasto<br />
vivo fin quasi alle soglie dell’unità. Esso prevedeva una sorta di accanimento<br />
nei confronti del ‘muto volontario’, ricorrendo, come extrema<br />
ratio, ai colpi di bastone( 131 ). Si assiste ad una sorta di escalation per ciò<br />
( 129 ) Ammoniva tuttavia Giuriati, a commento dell’art. 215 del codice sardo del 1847,<br />
che tale tipo di disciplina faceva sì che le prove e gli indizi a carico conservassero nella mente<br />
dei giudici tutta la loro forza, poiché l’imputato non si prestava a combatterli, sebbene invitato<br />
a farlo. L’istruttore doveva avvertire il renitente delle conseguenze della sua condotta,<br />
ma non poteva uscire dai confini di una decorosa esortazione. Più severa la valutazione di<br />
simulata pazzia, sordomutismo, idiotismo o altra forma invalidante: le finzioni messe in atto<br />
nel corso del processo finivano per porre in sinistra luce la moralità del soggetto, contribuendo<br />
a qualificarlo idoneo a delinquere (D. Giuriati, Commento teorico-pratico al Codice di<br />
procedura criminale degli stati sardi con le leggi posteriori e le sentenze dei magistrati di cassazione,<br />
Torino 1853, p. 201).<br />
( 130 ) Esprime una posizione diversa Giarda, che insiste in particolare sul fatto che il<br />
sistema processuale delineato dal codice del 1807 fosse comunque proteso a cercare la collaborazione<br />
dell’imputato, ravvisando nell’ammonimento a rispondere non una clausola di<br />
stile, ma una formula carica di velati avvertimenti. Ritengo corretto tener conto di circostanze<br />
che denotano come certi legami fossero stati purtroppo mantenuti (sono parole dell’autore),<br />
ma penso sia altresì giusto guardare all’esperienza storica contestualizzandola, non<br />
già con il metro dell’oggi, ma del momento contingente in cui i fenomeni si manifestano.<br />
E certamente, rispetto alla normativa e alla prassi immediatamente antecedente (anzi, si potrebbe<br />
dire rispetto alla ‘attualità’ del momento), il codice lombardo rappresentava un tentativo<br />
di superamento, grazie ad un impianto processuale con larghe ‘aperture libertarie’, come<br />
l’autore stesso è disposto a riconoscere (A. Giarda, «Persistendo il reo» cit., p. 85).<br />
( 131 ) Si tratta di un ‘rimedio’ di cui si trovano tracce frequenti lungo l’intero codice.<br />
Volta per volta le bastonate vengono usate come strumento di esacerbazione, o pena da infliggere,<br />
in via commutativa, nei confronti di chi, condannato al carcere, non era in grado di<br />
scontarlo se non con grave e irreparabile pregiudizio economico per la famiglia, o ancora da
SAGGI E OPINIONI<br />
145<br />
che riguarda i provvedimenti da adottarsi nei confronti del taciturnus: seil<br />
principio che domina tanto il costituto( 132 ) sommario quanto l’ordinario(<br />
133 )èquello dell’ammonizione circa le severe misure che verranno<br />
adottate, sono queste ultime, poi, a diversificarsi nei due casi.<br />
Nella prima ipotesi «gli si dichiara seriamente che l’ostinato silenzio o<br />
applicare verso il detenuto sorpreso a tentare la fuga, e in genere all’imputato che teneva un<br />
contegno sprezzante ed insultante, o che ricorreva a piccoli escamotage per allungare i tempi<br />
processuali, o che infine si fingeva pazzo. L’intero codice è disseminato da situazioni che giustificano<br />
la bastonatura, una pratica reputata dai più barbara e incivile, e ingenerante reazioni<br />
indignate da parte dell’intellighenzia lombarda all’indomani dell’estensione del codice ai<br />
nostri territori (cfr. L. Garlati Giugni, Nella disuguaglianza la giustizia. Pietro Mantegazza<br />
e il codice penale austriaco [1816], Milano 2002, pp. 96-101).<br />
( 132 ) Il significato letterale di costituto può probabilmente spiegarsi come comprensivo<br />
di due concetti: consultum consilium, vale a dire «deliberazione ben ponderata dell’obbligarsi»;<br />
e «termine certo dato all’adempimento». Dunque «constituere nelle cause criminali fu lo<br />
spiegare consulto consilio la intenzione dell’attore, e dare un termine al reo per rispondere in<br />
giudizio e giustificarsi. Quindi in quest’ultimo interrogatorio presso i nostri antichi era riposta<br />
la contestazione della lite. Ciò non si avvera in tutto sotto l’impero delle nuove leggi. Oggi<br />
il procurator generale nel presentare il suo atto di accusa spiega la sua azione, ma non la manifesta<br />
ancora al reo. Il reo in quel momento è arrestato di diritto, ed è costituito; ma l’atto di<br />
accusa non gli è comunicato se non quando la gran corte l’abbia ammesso. La vera contestazione<br />
dunque si compie all’apertura de’ termini, e quello che diciamo costituto è piuttosto un<br />
passo necessario per la contestazione della lite esso stesso» (N. Nicolini, Della procedura<br />
penale nel Regno delle due Sicilie esposta [...] colle formole corrispondenti dedicata alla Maestà<br />
Francesco I re del Regno delle due Sicilie, parte II, vol. III, Napoli 1829, § 816, pp. 80-1).<br />
Nella pratica, si denominava ‘costituto’ l’esame del reo perché questa era la formula di apertura<br />
dell’interrogatorio. Sul punto e sulla diatriba circa il valore semantico del lemma cfr. di<br />
chi scrive Inseguendo la verità cit., p. 141, nt. 174.<br />
( 133 ) Per la differenza intercorrente tra costituto sommario e ordinario, il primo diretto<br />
a rivolgere domande di carattere generale, a cui l’incolpato rispondeva con una certa libertà<br />
formale, il secondo mirato ad approfondire il dettaglio e dominato perciò da rigore, ed inteso<br />
come supplemento al sommario, volto a completarne o rettificarne le parti principali, ossia la<br />
natura del fatto e l’indagine sui motivi dell’accusa, cfr. S. Jenull, Commentario sul codice e<br />
sulla processura criminale della monarchia austriaca ossia il diritto criminale austriaco esposto<br />
secondo i suoi principi ed il suo spirito, prima versione italiana dal tedesco, Milano 1816, vol.<br />
III, pp. 322-7. Si veda anche G. Resti Ferrari, De’ giudizj criminali pel Regno Lombardo-<br />
Veneto istituiti dal codice penale austriaco. Istruzioni teoriche-pratiche, tomo I, Mantova 1819,<br />
pp. 295-302; G.M. Anfossi, Studio cit., pp. 28-34 della Prefazione. In generale cfr. Giuseppe<br />
Giuliani, Istituzioni di diritto criminale col commento della legislazione gregoriana, t.I,<br />
Macerata 1840, pp. 496-7, dove per esame sommario si intende quello che deve svolgersi «al<br />
primo apparire del reo innanzi al giudice»; l’ordinario invece si presenta quale «sagace catena<br />
d’interrogazioni analitiche rivolte al reo che vanno gradatamente a percuotere il delitto<br />
in ispecie». Da ultimo, sul tema, cfr. G. Chiodi, Le relazioni pericolose. Lorenzo Priori, il<br />
senatore invisibile e gli eccelsi Consigli veneziani, inL’amministrazione della giustizia penale<br />
nella Repubblica di Venezia (secoli XVI-XVIII),I:Lorenzo Priori e la sua Prattica Criminale, a<br />
cura di G. Chiodi,C.Povolo, Verona 2004, pp. LXV-LXXXI; C. Povolo, Retoriche giudiziarie,<br />
dimensioni del penale e prassi processuale nella Repubblica di Venezia: da Lorenzo<br />
Priori ai pratici settecenteschi, inL’amministrazione della giustizia penale cit., II. Retoriche,<br />
stereotipi, prassi, pp. 87-96.
146<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
pertinace contegno non può che rendere peggiore la sua causa. Se persiste<br />
non ostante nello stesso modo, vien condotto in carcere»( 134 ). Nella seconda,<br />
dopo essere stato «ammonito seriamente dell’obbligo, che ha di rispondere<br />
al giudizio»( 135 ), gli si fa presente «che colla sua ostinazione va<br />
ad attirarsi un castigo». Se ciò non produce effetto alcuno, egli è trattato<br />
al pari di colui che finge un’alterazione mentale, ossia è posto a pane ed<br />
acqua per tre giorni consecutivi; ammonito nuovamente, ed invano, viene<br />
punito con colpi di bastone, una volta ogni tre giorni, cominciando con<br />
dieci e progressivamente aumentando il numero di cinque colpi in cinque<br />
colpi fino ad un massimo di trenta( 136 ). Qualora anche questa drastica misura<br />
non sortisca il risultato sperato, il caso viene segnalato al tribunale superiore,<br />
cui si trasmettono gli atti del processo in attesa di una deliberazione(<br />
137 ). Nulla esclude, come sostiene la dottrina, che in secondo grado<br />
( 134 ) Codice penale universale austriaco, Milano 1815, parte I, sez. II Del legale processo<br />
sopra i delitti, § 291. Il contegno ulteriore del giudice dipende dalle circostanze: se l’esaminato<br />
rifiuta di rispondere gli si rammenta l’obbedienza dovuta alla suprema autorità e gli si prospettano<br />
le conseguenze funeste del suo agire. Se egli è innocente, un simile contegno non può che<br />
prolungare un ingiusto processo; se è colpevole se ne terrà conto come elemento aggravante<br />
della pena al momento della condanna. «Ma sarebbe cosa oltre modo prematura il rinfacciare<br />
all’incolpato gli indizi a suo carico sussistenti per far cessare la di lui ostinazione», perché ciò lo<br />
metterebbe in condizione di vantaggio, venendo egli a conoscere gli elementi di prova in possesso<br />
dell’accusa, senza tuttavia «imbarazzarlo, poiché egli non risponde». Ecco perché il prevenuto<br />
va ricondotto in carcere, anche se gli si conferisce la possibilità di chiedere l’esame, cui<br />
il magistrato ha l’obbligo di dar corso, disponendo, a seconda dei casi, o il costituto sommario<br />
o quello articolato (S. Jenull, Commentario cit., pp. 245-246).<br />
( 135 ) Sostiene la dottrina che il rifiuto di rispondere può consistere anche nel limitarsi a<br />
rinviare ad eventuale deposizione già resa in sede di costituto sommario oppure estragiudizialmente.<br />
Di ciò «il giudice non potrà certo esserne contento». Rammentato l’obbligo di rispondere<br />
con precisione alle domande postegli e ricevuto un nuovo generico rinvio al già<br />
deposto, si procede al castigo (S. Jenull, Commentario cit., p. 383). Si ritiene altresì rifiuto<br />
a rispondere anche la vaghezza espressiva. Se ad esempio il giudice chiede delucidazioni sull’arma<br />
del delitto, l’imputato non può cavarsela sostenendo di aver commesso l’omicidio con<br />
uno strumento mortale: alle domande incalzanti e via via più specifiche del giudice sul nome<br />
dell’arma, sul materiale, sulla forma non basta persistere nella precedente risposta generale,<br />
che non risulta più adatta all’interrogazione (ibidem, p. 384). Come si vede, il rifiuto a rispondere<br />
è inteso in un’accezione più ampia del silenzio: include anche la risposta non soddisfacente,<br />
non pertinente, inidonea a soddisfare le richieste di chiarezza da parte dell’autorità<br />
indagante.<br />
( 136 ) Trattandosi di un aumento di pena, è evidente che il numero di colpi da darsi<br />
ogni volta deve accrescersi di cinque, in modo che la seconda volta ne vengano dati quindici,<br />
la terza venti e così via, fino al massimo di trenta, limite oltre il quale non è consentito andare.<br />
Qui si arresta il castigo: la sua continuazione significherebbe morte sicura dell’imputato,<br />
punendo la sua ostinazione con troppo rigore. Misure ulteriori richiedono una matura<br />
riflessione ed è per questo che, astenendosi da prescrizioni a carattere generale, il legislatore<br />
austriaco ordina di rimettere simili casi alla ponderata valutazione della seconda istanza criminale.<br />
( 137 ) Codice penale universale austriaco cit., §§ 363-364.
SAGGI E OPINIONI<br />
147<br />
si decida di proseguire ad infliggere bastonature, dopo un accertamento<br />
sulle condizioni fisiche dell’imputato diretto a verificarne la capacità di<br />
sopportazione. Se tuttavia l’ulteriore inasprimento non comporta alcun<br />
esito, egli potrà essere rinchiuso per un tempo determinato, o anche per<br />
tutta la vita, in carcere, a seconda del delitto di cui è indiziato( 138 ).<br />
«Siffatta disposizione basta per assicurare la pubblica sicurezza e<br />
punto non pregiudica alla sicurezza privata. Senza di essa non potrebbero<br />
avere efficacia le leggi punitive, poiché dipenderebbe dal reo il render vane<br />
le loro prescrizioni colla di lui ostinatezza. L’uomo innocente poi non ha<br />
motivo di lagnarsene, mentre può desistere alla fine e produrre le sue giustificazioni<br />
contro un’ingiusta imputazione. Se egli omette di ciò fare, deve<br />
attribuirne a lui stesso le conseguenze»( 139 ).<br />
Non andava meglio nel vicino Cantone svizzero del Ticino, il cui codice<br />
d’istruzione criminale del 1816 non risparmiava al taciturnus né il carcere,<br />
né lo scarno nutrimento, né i colpi di bastone. Gli artt. 143 e 144 pre-<br />
( 138 ) Così S. Jenull, Commentario cit., p. 379. Lo stesso commento, riprodotto quasi<br />
alla lettera, si ritrova in G.A. Castelli, Manuale ragionato del codice penale e delle gravi trasgressioni<br />
di polizia, vol. II, Milano 1833, p. 137. Questi, ad ampliamento del commento, ricorda<br />
che sono qui tradotti i principi sostenuti da Beccaria, il quale «aveva già preveduta la<br />
disposizione del paragrafo»: ulteriore attestazione di quanto affermato più volte nel corso di<br />
queste pagine. Significativa appare la testimonianza di Resti Ferrari, che vantava un’esperienza<br />
quale magistrato nel tribunale di prima istanza di Mantova. Senza esplicitamente riconoscerlo<br />
e confessarlo, Resti Ferrari sostiene che i §§ 363 e 364 siano una misura rimessa al<br />
libero e prudente apprezzamento del tribunale, che ne userà con la maggior cautela possibile<br />
e solo quando il concorso delle circostanze effettivamente lo consigli. Ricordando i casi giudiziari<br />
da lui esaminati ed esposti nella sua opera, l’autore afferma di essersi «limitato alle<br />
esortazioni ed alle minacce, ed attendendone l’effetto dalla calma e dalla riflessione, ho rimesso<br />
ad altra sessione il proseguimento del Costituto» (G. Resti Ferrari, De’ giudizi criminali<br />
cit., tomo II, Mantova 1820, nt. 76, pp. 405-6). Resti Ferrari mostra costantemente<br />
un’intima ripugnanza verso i metodi imposti dal codice austriaco e invita i magistrati a rammentare<br />
che «la legge non ha accordato un mezzo onde dalla bocca del negativo strappare a<br />
forza la confessione. La pena è legittima; ma non perciò può l’uomo ritenersi obbligato ad<br />
accusar se stesso, ed a sottoporsi volontariamente alla medesima. Di ogni umana è superiore<br />
la naturale legge della individuale conservazione e del migliore ben essere; e perciò non possono<br />
condannarsi quei modi che sieno diretti a rimuovere da se il mal della pena, quando<br />
non contengano una violazione di altra legge» (ibidem, nt. 80, p. 407). Le parole di Resti<br />
Ferrari rivelano quello che fu un costante orientamento della giurisprudenza lombarda di<br />
fronte all’eccessivo rigore delle misure sanzionatorie approntate dal codice austriaco: attenuare,<br />
nel momento applicativo, l’asperità delle pene, scegliendo la via della mitigazione rispetto<br />
alla fedeltà alla lettera della legge.<br />
( 139 ) S.Jenull, Commentario cit., p. 380. Ci ricorda tuttavia Cavanna che la disciplina<br />
del codice austriaco relativa al silenzio dell’imputato, in vigore in tutte le altre province, non<br />
lo era in quelle italiane, in ragione di una deroga parziale e temporanea che ne impediva l’operatività<br />
in via teorica, poiché rimaneva pur sempre nel pieno potere discrezionale dell’inquisito<br />
avvalersene nei casi contemplati dal codice (A. Cavanna, Ragioni del diritto cit., p.<br />
CCXLVIII, nt. 125). Sul punto mi permetto di rinviare al mio Nella disuguaglianza la giustizia,<br />
pp. 99-100, in particolare nt. 66.
148<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
scrivevano, di fronte al ‘silenzio malizioso’, la detenzione in una cella angusta,<br />
con l’aggravante delle catene e un nutrimento a base di pane e acqua<br />
per un mese, da somministrare in due ‘tornate’ di quindici giorni ciascuna<br />
per non provocare eccessivi danni alla salute del prevenuto. Si proseguiva<br />
poi ventilando nefandi castighi e infine gli si infliggevano venticinque colpi<br />
di staffile sul dorso nudo, raddoppiando volta per volta il numero in ragione<br />
della ostinazione( 140 ).<br />
Neppure la proposta di modifica dell’impianto processuale per la<br />
Lombardia proveniente da Giacomo Maria Anfossi nel suo Studio e prime<br />
idee per la compilazione di un nuovo codice riesce a guardare lontano( 141 ).<br />
Nell’art. 12 del progetto scompaiono le bastonature, ma all’assenza d’un<br />
castigo fisico e corporale non si accompagna un mutamento di prospettiva.<br />
Anzi, l’autore riconosce esplicitamente nel silenzio un indizio di colpevolezza<br />
«poiché se innocente, ad esso nulla importar dovrebbe il dare le convenienti<br />
risposte alle fattegli domande». Ciò determina, di fatto, la perdita<br />
di ogni chance difensiva: «e non pertanto si procederà oltre nel suo costituto».<br />
Austria e Milano sembrano stringere sul punto una tacita alleanza, mostrando<br />
un’identità di sentire e una comune cultura. Abolite le ignobili percosse,<br />
la concordanza ideologica di fondo è perfetta e passa costante attraverso<br />
‘filtri’ e veicoli tra loro apparentemente incompatibili o inconciliabili.<br />
Da Gabriele a Pietro Verri, da Beccaria a Maria Teresa e a Francesco I, ma<br />
soprattutto dalla tradizione della prassi criminale di tardo diritto comune al<br />
‘radicale’ illuminismo asburgico uno solo è il motto, uno l’intento: punire il<br />
rifiuto a rispondere, fondando su di esso una presunzione di responsabilità.<br />
Risulta speculare l’impianto processuale disposto per reprimere le trasgressioni<br />
di polizia. Anche qui i §§ 328 e 330 impongono all’interrogato<br />
l’obbligo di dire la verità e al giudice di preannunciare le severe misure<br />
adottabili in caso di inottemperanza al precetto( 142 ). Dalle minacce ai fatti:<br />
«se ricusa di rispondere o se le sue risposte non sono che sotterfugi estranei<br />
all’argomento, gli si ripete l’ammonizione fattagli da principio coll’aggiun-<br />
( 140 ) Cfr. P. Rossi, Trattato di diritto penale, trad. it. con note e addizioni di E. Pessina,<br />
Torino 1859, p. 38, nt. 1.<br />
( 141 ) Sul punto v. supra nt. 6.<br />
( 142 ) L’ammonizione, ricorda Castelli, deve essere seria, ma senza che il giudice ricorra<br />
a modi bassi e ingiuriosi: è indegno di chi amministra la giustizia atterrire l’imputato facendogli<br />
credere l’esistenza di indizi o prove simulate o allettandolo con promesse di premi o di<br />
impunità. L’autore non può, tuttavia, che riconoscere l’indeterminatezza della disposizione:<br />
manca la precisa forma dell’ammonizione che dovrà pertanto essere «modellata sulla diversa<br />
qualità delle trasgressioni, sull’indole, condizione, carattere diverso de’ trasgressori, e finalmente<br />
sul maggiore o minore fondamento concernente il sospetto legale». L’avvertimento<br />
sarà ripetuto quante volte lo si ritiene necessario (G.A. Castelli, Manuale cit., vol. IV, Milano<br />
1834, p. 73).
SAGGI E OPINIONI<br />
149<br />
gervi la minaccia dell’arresto. Se poi persiste tuttavia in tale contegno, si<br />
deve punirlo coll’arresto sino a che egli stesso domandi di essere interrogato<br />
e prometta di rispondere come conviene». Eccessivo rigore? A detta<br />
di qualcuno no, perché questo provvedimento mirerebbe non a costringere<br />
l’inquisito a confessare il fatto imputatogli, né ad infliggergli pene anticipate<br />
per una trasgressione non sancita o riconosciuta legalmente, ma a imporgli<br />
l’osservanza del dovere a rispondere( 143 ). Le logiche inquisitorie settecentesche<br />
(e non solo), lungi dall’essere abbandonate, ricevono nuovi stimoli.<br />
Se poi la carcerazione si protrae troppo a lungo in una situazione di<br />
totale stallo, all’intendenza politica non resta che fare rapporto alle autorità<br />
superiori, esprimendo altresì la propria opinione circa i motivi di tale caparbietà,<br />
attendendo le necessarie istruzioni sul modo di procedere per<br />
condurre in porto il processo.<br />
Gli espliciti ammonimenti e il ‘dovere’ di rispondere ottemperato a<br />
suon di bastonate riducono in polvere qualsiasi libertà morale dell’inquisito,<br />
pur ventilata qua e là nel codice( 144 ). La tortura illuministicamente<br />
abolita ritorna sotto mentite spoglie quale spettro che aleggia con altro<br />
nome in queste pagine non mirabili del codice( 145 ). Di nuovo l’imputato<br />
è fonte di prova, di nuovo la configurazione del silenzio come diritto<br />
sembra una chimera lontana.<br />
Vi è una sostanziale coerenza e continuità nell’edificio processual penalistico<br />
eretto in terra d’Austria. Le generazioni di sovrani che si succedono<br />
sul trono (da Maria Teresa a Giuseppe II a Francesco I) si mantengono<br />
fedeli ad alcuni principi di fondo dominanti la questione del silenzio.<br />
L’impianto sostanzialmente inquisitorio, pur evolvendosi, resta però<br />
identico a se stesso nei portati di base: l’interrogatorio ha come mira la ricerca<br />
della verità, una verità che solo l’‘‘io narrante’’ dell’accusato è in<br />
grado di offrire; su quest’ultimo grava quindi il dovere di parlare, anche<br />
se non di confessare( 146 ). E se rispondere alle domande non è una facoltà,<br />
( 143 ) G.A. Castelli, Manuale cit., vol. IV cit., pp. 75-6.<br />
( 144 ) Di risvolti garantistici presenti nei paragrafi del codice dedicati al costituto è assertore<br />
convinto E. Dezza, L’impossibile conciliazione. Processo penale, assolutismo e garantismo<br />
nel codice asburgico del 1803, inCodice penale universale austriaco (1803), rist. anast.,<br />
Padova 2001, pp. CLXX-CLXXII, ma in generale si veda l’intero contribuito, pp. CLV-<br />
CLXXXIII. Che questi profili fossero invece vanificati o per lo meno indeboliti dalla realtà<br />
del processo è questione acutamente sviluppata da A. Cavanna, Ragioni del diritto cit., pp.<br />
CCXXXV-CCL.<br />
( 145 ) Sul punto cfr. V. Grevi, «Nemo tenetur», cit., pp. 16-7; A. Giarda, «Persistendo<br />
il reo» cit., p. 82; F. Cordero, Riti e sapienza del diritto, Bari 1981, pp. 409-10; A. Cavanna,<br />
Ragioni del diritto cit., pp. CCXLV-CCXLIX.<br />
( 146 ) Il castigo legale deve essere inteso inflitto come pena dell’ostinazione dell’imputato<br />
nel tacere e non quale mezzo coattivo per ottenere la confessione. Se così fosse, il giudice che se<br />
ne avvalesse per indurre l’esaminato a dichiararsi colpevole commetterebbe un’azione illegale
150<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
ma un obbligo, la contravvenzione al precetto deve essere sanzionata, nel<br />
modo più severo ed esemplare possibile, per scoraggiare possibili imitazioni<br />
e riaffermare il ruolo centrale assolto dal giudice( 147 ). Ancora una<br />
volta Beccaria docet.<br />
Un intervento significativo si registra nel 1848, quando con sovrana risoluzione<br />
si abolisce il castigo corporale quale pena disciplinare per ‘‘mendaci<br />
palesi’’, per ostinazione nel silenzio ed alienazione mentale. Tale severa<br />
misura non compare piú, infatti, nel Regolamento del 1853, dove al § 182 si<br />
afferma che qualora l’imputato ricusi di rispondere o in generale o a determinate<br />
domande( 148 ), il giudice si limita ad avvertirlo che il suo contegno<br />
ed è «generale opinione che la confessione estorta non possa annoverarsi fra i mezzi d’investigare<br />
la verità, ma bensì tra quelli che aumentano le vittime della giustizia denegata». Del resto<br />
ad un «giudice umano, giusto ed illuminato» non mancano i mezzi opportuni e leciti per verificare<br />
i fatti e procedere contro gli astuti accusati. Così S. Jenull, Commentario, pp. 387-8.<br />
( 147 ) A completare il quadro vi è il tassello offerto dal tanto criticato § 337, che individuava<br />
nella difesa uno dei doveri d’ufficio del giudice. Non vi poteva perciò essere l’assistenza<br />
tecnica di un avvocato di parte: uno e trino, il magistrato assommava in sé le funzioni<br />
di inquisitore, di difensore e di giudicante, anche se in via di principio si affermava il diritto<br />
illimitato dell’imputato durante l’intero corso del processo di avvalersi a propria tutela dei<br />
mezzi ritenuti più opportuni. Tra le innumerevoli sollecitazioni provocate da questa norma<br />
una, in particolare, merita di essere presa in considerazione. La commistione di diverse funzioni<br />
in capo ad un unico soggetto generava conflitto riguardo al presupposto di partenza<br />
dell’intero processo: occorreva agire sulla base di una presunzione d’innocenza o di colpevolezza?<br />
Pone questo interrogativo pesante come un macigno uno dei principali commentatori<br />
italiani del codice austriaco, Antonio Albertini, il quale alla lettera sostiene: «Alcuni pensatori<br />
amici dell’umanità, declamando contro le rigorose indagini e quistioni, che intervengono<br />
nel costruire un processo criminale, ànno stabilito per massima, che il magistrato<br />
processante debba sempre supporre innocente l’individuo accusato, e con tale prevenzione<br />
agire. [...] Ma chiunque à versato lungamente nelle criminali istruttorie formerà voti perché<br />
sentimenti così liberali dal pacifico gabinetto del filosofo non passino al legislatore e al giudice,<br />
che ànno il dovere di promuovere per vie diverse i mezzi, pe’ quali il colpevole punito<br />
serve al pubblico esempio ed al freno de’ male intenzionati». Il primo compito di un magistrato<br />
è scoprire l’autore del reato: e la ricerca dell’innocenza comporta, inevitabilmente, il<br />
superamento e la sconfessione di tutti gli indizi scrupolosamente raccolti per dimostrare la<br />
colpevolezza di un soggetto. Trovare un equilibrio non è semplice, per non dire impossibile.<br />
Se è vero che l’inquisitore non deve «mettere ogni studio per avvicinare il prevenuto al fatto<br />
criminoso imputatogli, e trovare tra l’uno e l’altro apparenti relazioni», gli si richiede distacco,<br />
pacatezza, una oggettiva impassibilità per cercare non solo ciò che è contro, ma anche ciò<br />
che è a favore dell’imputato stesso. E nel tessere la trama del processo egli deve essere disposto<br />
a sacrificare l’effimero ‘trionfo’ dell’ingegno alla pace della coscienza, dimenticandosi<br />
che nel momento della sentenza egli è chiamato a decidere della sua stessa ‘creatura’, opera<br />
del suo zelo e frutto delle sue meditazioni e delle sua pazienza (A. Albertini, Del diritto<br />
penale vigente nelle provincie lombardo venete, Venezia 1824, pp. 377-84). Sul significato della<br />
definizione di ‘prevenuto’ ci si richiama al fatto che chi prima agisce (qui prior agit) previene.<br />
La prima fase dell’istruzione, consistente nelle ricerche e nelle investigazioni volte a<br />
scoprire se il soggetto sia imputabile del delitto ascrittogli, è detta anche prevenzione. Da<br />
qui la definizione di prevenuto (A. Ademollo, Il giudizio criminale cit., § 730, p. 200).<br />
( 148 ) Rimane fermo quanto già detto a proposito del codice del 1803: integrano il ri-
SAGGI E OPINIONI<br />
151<br />
non può impedire, ma solo prolungare l’inquisizione, privandolo, per di<br />
più, degli eventuali mezzi di difesa. La medesima norma si trova riprodotta<br />
nel Regolamento del 1873 al § 206( 149 ).<br />
Siamo ad una svolta. Dopo secoli di fedeltà ai propri principi in tema<br />
di silenzio, tramandati di legislazione in legislazione, l’Austria accetta di<br />
fare a meno dei suoi abituali mezzi persuasivi, di generici rimandi alle decisioni<br />
di corti superiori e si allinea sulle posizioni dettate dal codice del<br />
1807, rendendo qui esplicito ciò che là si lasciava soltanto intendere: con<br />
o senza l’imputato la giustizia procede verso la verità ed il silenzio può solo<br />
pregiudicare la strategia difensiva, non impedire alla giustizia di perseguire<br />
i suoi obiettivi. Il codice italiano aveva fatto scuola in Europa.<br />
Ed è così che, non appena gli stati preunitari sorti dalle ceneri del disegno<br />
imperialistico napoleonico furono chiamati a darsi una propria normativa<br />
anche in ambito processual penalistico, rispolverarono il § 208 e lo<br />
riprodussero, quasi senza apportarvi alterazione alcuna. La disciplina del<br />
silenzio nell’Ottocento nasce e muore entro i confini tracciati dal codice<br />
del 1807, quale sorta di fil rouge che attraversa l’intero secolo e che imprime<br />
ai nostri codici un’impronta genetica riconoscibile. La norma madre<br />
è il § 208 del codice Romagnosi: le altre ne sono la diretta filiazione.<br />
Vi si uniformano il Codice parmense( 150 ), le Riforme toscane( 151 ), il<br />
Codice di procedura criminale degli Stati estensi( 152 ), quello sabaudo del<br />
fiuto a rispondere anche la non congruità, la divergenza o l’indeterminatezza del dire (Frühwald,<br />
Manuale cit., sub § 182, p. 209). Cfr, anche A. cav. di Hye-Glunek, I principii fondamentali<br />
del Regolamento di procedura penale austriaco del 29 giugno 1853, trad. it. di P.<br />
Zajotti, Venezia 1854, pp. 355-68.<br />
( 149 ) Sull’accoglienza entusiasta di questo Regolamento da parte della dottrina italiana<br />
cfr. M. N. Miletti, Un processo per la terza Italia. Il codice di procedura penale del 1913, I:<br />
L’attesa, Milano 2003, pp. 42-3 e ntt.<br />
( 150 ) Codice di processura criminale per gli Stati di Parma, Piacenza e Guastalla, Parma<br />
1820, art. 162: «se l’inquisito si finga muto o si ostini in qualunque modo a tacere, il giudice<br />
lo ammonisce a rispondere, e lo avverte che si procederà oltre malgrado il suo silenzio».<br />
Giarda definisce «subdolamente sanzionatorio» l’art. 398, in cui si legge che l’accusato<br />
che si fingeva muto o che si ostinava a tacere era più volte ammonito a rispondere. Se persisteva,<br />
il Presidente procedeva all’esame dei testimoni senza avere l’obbligo di interpellarlo<br />
dopo le loro deposizioni: «altro che diritto al silenzio» (A. Giarda, «Persistendo il reo»<br />
cit., p. 89).<br />
( 151 ) Cfr. A. Ademollo, Il giudizio criminale cit., p. 205, § 752 dove si legge: «Se l’imputato<br />
ricusasse di rispondere, o per non rispondere si fingesse sordo, muto, il Giudice l’ecciterà<br />
a rispondere e lo avvertirà che si procederà avanti in causa malgrado il suo silenzio».<br />
( 152 ) Codice criminale e di procedura criminale per gli Stati estensi, Modena 1855, l. I,<br />
tit. III, art. 202: «Quando l’imputato ricusa di rispondere o dà segni di pazzia, che possano<br />
credersi simulati, o finge di essere sordo o muto per esimersi dal rispondere, il Giudice lo<br />
avverte, che nonostante il suo silenzio e le sue infermità simulate, passerà all’istruzione del<br />
processo. Di tutto ciò èfatta menzione». La norma in esame è circondata da una serie di<br />
altri provvedimenti volti a presidiare l’interrogatorio nella sua accezione difensiva. Si vieta,<br />
infatti, il deferimento del giuramento al prevenuto per i fatti sui quali è indagato (non però
152<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
1847( 153 ) e del 1859, quest’ultimo di maggior rilevanza per il ruolo guida<br />
destinato ad assumere all’indomani dell’unità( 154 ).<br />
Si situano su una linea lievemente diversa la legislazione napoletana e<br />
quella pontificia. Entrambe pongono a carico del giudice l’obbligo di ammonire<br />
l’imputato che finge di essere muto( 155 ) o che rifiuti di rispondere.<br />
La prima però concede alla corte( 156 ), nell’ipotesi di persistenza, di non<br />
sul fatto altrui, anche se la disposizione stabilisce che quando il medesimo sia «confesso rapporto<br />
a se stesso, gli si può deferire il giuramento riguardo ai correi o complici dello stesso<br />
delitto», lasciando intendere il carattere facoltativo, non vincolante dello stesso: cfr. art. 197),<br />
così come si prescrivono interrogatori caratterizzati dalla chiarezza, dalla precisione e dall’accertamento<br />
imparziale dei fatti (art. 198), ribadendo poi il divieto per il giudice di usare minacce<br />
o seduzioni al fine di ottenere risposte diverse da quelle che l’interrogato intende dare<br />
spontaneamente (art. 199).<br />
( 153 ) «Quando l’imputato ricuserà di rispondere, o darà segni di pazzia che possono<br />
credersi simulati, o fingerà di essere sordo o muto per esimersi dal rispondere, il giudice<br />
lo avvertirà che, non ostante il suo silenzio o le sue infermità simulate, si passerà oltre all’istruttoria<br />
del processo» (Codice di procedura criminale degli Stati Sardi, Torino 1847, art.<br />
215). Giuriati invitava il giudice a chiedersi per prima cosa le ragioni del rifiuto. Se si trattava<br />
di richiesta di tempo per meglio ponderare le risposte da dare, si doveva accogliere l’istanza<br />
(D. Giuriati, Commento cit., p. 200). Quasi un secolo dopo, Donà insisteva sul punto, scomodando<br />
la psichiatria forense per comprendere i motivi del silenzio eventualmente opposto<br />
alle interrogazioni rivolte (G. Donà, Il silenzio cit., pp. 68-70).<br />
( 154 ) «Quando l’imputato ricuserà di rispondere, o darà segni di pazzia che possano<br />
credersi simulati, o fingerà di essere sordo o muto per esimersi dal rispondere, il giudice<br />
lo avvertirà che, non ostante il suo silenzio o le sue infermità simulate, si passerò oltre all’istruttoria<br />
del processo. Di tutto sarà fatta menzione» (Codice di procedura penale per gli Stati<br />
di S.M. il re di Sardegna, Torino 1859, lib. I, tit. II, sez. IX, art. 228). Inutile sottolineare la<br />
lampante identità tra queste tre norme, una sorta di circolarità instauratasi tra il dettato piemontese<br />
e quello estense. L’unica aggiunta nel testo del 1859 è la richiesta di accertamento<br />
sull’effettivo stato mentale dell’imputato da parte dei periti, chiamati ad esprimere il proprio<br />
parere circa la natura e il grado della malattia e l’effettiva capacità di incidenza sul libero<br />
volere del soggetto. Un ulteriore passo in avanti è rappresentato dall’estensione del divieto<br />
del giuramento anche per ciò che concerne il fatto altrui (art. 224), già presente nel testo del<br />
1847 (art. 211).<br />
( 155 ) Nicolini osserva che questo articolo va interpretato in senso estensivo fino a ricomprendere<br />
anche chi finga di essere folle, o infermo o cieco: nei confronti di tali soggetti<br />
si applica lo stesso disposto di legge, poiché si tratta di ipotesi che nelle antiche massime del<br />
diritto romano erano raccolte in un solo titolo (D. 37.3.2). Cfr. N. Nicolini, Della procedura<br />
penale nel Regno delle due Sicilie esposta [...] colle formole corrispondenti dedicata alla Maestà<br />
del Re N.S., parte III, vol. II, Napoli 1831, § 906, pp. 319-20. Canofari, dal canto suo, ritiene<br />
che sia raro il caso in cui l’accusato ammonito finga di essere muto, ma che se ciò avviene egli<br />
si espone volontariamente a due conseguenze: subire il peso di quelle «induzioni morali» che<br />
l’inquirente può trarre dalle sue simulazioni e restare privo dei preziosi benefici che nascono<br />
dalle risposte, dalle osservazioni, dalle spiegazioni fautrici della difesa (F. Canofari, Commentario<br />
cit., libro II, tit. II De’ giudizi de’ misfatti co’ rei presenti, p. 118).<br />
( 156 ) La decisione rimessa alla corte di non sentire più l’interrogato in nessuna altra<br />
parte del giudizio deve essere guidata, a detta di Canofari, dalla moderazione e dall’umanità,<br />
mai dalla volontà di esercitare un potere. Si deve sperare che «l’uomo, tocco da pentimento,<br />
abbandoni le vie della simulazione» e del silenzio e risponda convenevolmente. Ma se mal-
SAGGI E OPINIONI<br />
153<br />
ascoltare più l’inquisito in alcun’altra parte del giudizio( 157 ); la seconda<br />
prescrive che il proseguimento del processo avvenga dopo aver opportunamente<br />
avvertito l’indagato sull’interpretazione svantaggiosa derivante<br />
«dalla continuazione nello stesso sistema»( 158 ). Nelle leggi napoletana e ro-<br />
grado ciò insista in un comportamento protervo, il magistrato «troverà un compiacimento<br />
nell’umanità praticata; e quegli si dolerà tardi ed invano de’ dannevoli risultamenti della<br />
sua durezza» (F. Canofari, Commentario cit., libro II, tit. II De’ giudizi de’ misfatti co’<br />
rei presenti, p. 119).<br />
( 157 ) Codice per lo Regno delle Due Sicile, Napoli 1819, parte IV: Leggi della procedura<br />
penale ne’ giudizj penali, art. 224. Il più insigne commentatore di tale codice, Niccola Nicolini,<br />
esclude, per prima cosa, che il silenzio possa equipararsi ad una confessione tacita, per il<br />
principio, già esposto altre volte, della necessaria distinzione tra materia civile e penale. Tuttavia<br />
qui omnino non respondit contumax est: contumaciae autem poenam hanc ferre debet, ut<br />
in solidum conveniatur, quemadmodum si negasset, quia praetorem contemnere videtur (D.<br />
11.1.11.4). Ciò non significa totale perdita del diritto alla difesa: l’avvocato, infatti, ben<br />
può parlare per lui: e, se l’imputato ci ripensa e volontariamente decide di deporre e di difendersi,<br />
non può essere impedito, «anzi allora far gli si dovrebbero le abbandonate interrogazioni».<br />
Interessanti le osservazioni svolte a tal proposito dall’autore che, sulla scorta del<br />
frammento sopra ricordato, equipara il contumace al silenzioso: come il primo purga la<br />
sua assenza presentandosi in giudizio, «è chiaro, per quanto a me pare, che tenuto costui<br />
quasi come assente per la sua contumace taciturnità, quante volte pentito la rompa, faccia<br />
ritornar le cose allo stato primero» (N. Nicolini, Della procedura penale [...], parte III,<br />
vol. II cit., § 907, p. 320). Di equiparazione tra taciturno e contumace parla anche Ademollo,<br />
ma giungendo a risultati opposti rispetto al collega meridionale. Egli infatti, dopo aver sostenuto<br />
la necessità di un ammonimento da parte dell’autorità procedente a desistere da simile<br />
contegno, suggerisce alla Corte di decidere di non interrogarlo più in alcuna altra parte<br />
del giudizio: «così insomma si equiparerebbe all’accusato assente e contumace» (A. Ademollo,<br />
Il giudizio criminale cit., pp. 359-60, § 1389).<br />
( 158 ) Regolamento organico e di procedura criminale (Roma 1831), in Regolamenti penali<br />
di papa Gregorio XVI per lo Stato pontificio (1832), rist. anast., Padova 2000, art. 364. Va<br />
tuttavia precisato come il Regolamento gregoriano appronti un sistema di guarentigie a favore<br />
dell’imputato, individuando, innanzitutto, quale fine unico delle interrogazioni quello<br />
di indagare e conoscere la verità «sì favorevole che contraria al Fisco» (art. 340); vietando<br />
le domande suggestive e, in generale, tutte quelle che non siano semplici e chiare (art.<br />
347), così come l’impiego di qualunque mezzo, anche indiretto o di qualsiasi seduzione, lusinga,<br />
minaccia per estorcere dichiarazioni che l’inquisito, spontaneamente, non avrebbe reso<br />
(art. 348); escludendo il deferimento del giuramento «neppure in caso che debba interrogarsi<br />
su persone estranee» (art. 355). Questo principio, volto a scalfire uno dei capisaldi<br />
del processo inquisitorio, ossia l’obbligo di dire la verità, ricorrendo, se non alla tortura,<br />
ad un altro mezzo di coazione morale come il giuramento, è però bilanciato da una regolamentazione<br />
quanto mai particolareggiata dell’esame dell’imputato, penetrante ed invasivo,<br />
alla stregua di quanto avviene nel codice austriaco. Sul punto cfr. S. Ambrosio –P.De<br />
Zan, L’ossessione della verità: spirito di conservazione ed echi illuminati nel regime probatorio<br />
del Regolamento gregoriano, inI Regolamenti cit., in partic. pp. CXI-CXXIII. Svolgendo<br />
un’accurata analisi, Giuseppe Giuliani afferma che il § 364 del Regolamento risponde ad<br />
un principio cardine del processo, ossia che di fronte al silenzio il giudice deve placidamente<br />
avvertire l’imputato che il suo contegno va a costituire un indizio a suo carico, e proseguire<br />
poi l’esame. Il professore di Macerata avverte inoltre che la mancata risposta ad ogni domanda<br />
porta alla contestazione finale del reato. La scelta compiuta nel Regolamento era un de-
154<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
mana, dunque, si nota, rispetto allo schema fornito dal codice Romagnosi e<br />
adottato dai restanti codici preunitari, non tanto una sorta di neutralità rispetto<br />
alla preferenza accordata dall’imputato al silenzio come metodo di<br />
auto-tutela quanto un giudizio di disvalore, cui riconnettere, con tono velatamente<br />
intimidatorio, imprecisate ma intuibili conseguenze negative(<br />
159 ).<br />
La via tracciata dal codice del 1807, che allentava la pressione sull’imputato<br />
e lo rendeva immune «da ogni forma di costringimento diretta a forzarne<br />
il secretum della coscienza»( 160 ), resterà comunque la strada maestra,<br />
seguita anche dal primo codice unitario di procedura penale.<br />
4. Nella legislazione postunitaria: da indizio di colpevolezza a strumento<br />
di difesa. – La promulgazione del codice di rito penale del 1865 non pare<br />
apportare variazioni di rilievo: la norma sul silenzio, così come strutturata<br />
dal § 208 del codice del 1807, era passata sostanzialmente immutata nel<br />
testo albertino e da qui transitata in quello del 1865. L’art. 236 del nuovo<br />
codice dell’Italia unita riproduceva infatti fedelmente la disciplina del codice<br />
sardo del 1847, mantenuta inalterata nella versione del 1859: equiparava<br />
la posizione del taciturno a quella del finto pazzo, sordo o muto, nel<br />
senso che in entrambi i casi l’imputato doveva essere avvertito dal giudice<br />
che nonostante il suo silenzio o le infermità simulate si sarebbe proceduto<br />
oltre all’istruttoria del processo, facendo di tutto ciò menzione.<br />
Da questo momento la storia del silenzio conosce scansioni molto marcate:<br />
i tre codici di procedura penale dell’Italia unita riflettono politiche del<br />
diritto ben precise e la cultura giuridica in cui maturano.<br />
Partiamo dal primo. Esso non persegue vie coraggiose, attestandosi su<br />
posizioni consolidate, quasi a dar credito a quel rimaneggiamento frettoloso<br />
del ‘modello’ piemontese( 161 ), anche se, come si vedrà di seguito,<br />
ciso passo in avanti rispetto al passato, dove si ricorreva all’aculeo per costringere l’esaminato<br />
a parlare. Abolita la tortura, la discussione riguardò la possibilità di trattare il tacens come<br />
confesso oppure no, prendendo le mosse dalla massima romana espressa da Paolo e più volte<br />
qui ricordata (D. 50.17.42). Muovendo dall’ipotesi che il silenzio possa essere talvolta suggerito<br />
non da una rea coscienza, ma da altre cause (un segreto che non si può rivelare, ad<br />
es.), è preferibile, sostiene Giuliani, che esso costituisca un indizio a carico, di cui tener conto,<br />
unitamente agli altri, nel ‘calcolo’ effettuato dal giudice (G. Giuliani, Istituzioni cit., t. I,<br />
§ VI, p. 502, e pp. 502-3 nt. 5).<br />
( 159 ) È quanto si percepisce anche dallo scritto di Canofari, il quale precisa che i giudici<br />
possono trarre dal silenzio «quelle discrete induzioni che consigliano la dirittura, la santità<br />
del loro criterio, e l’assieme delle prove raccolte» (F. Canofari, Commentario cit., libro<br />
II, tit V cit., p. 193).<br />
( 160 ) V. Grevi, «Nemo tenetur» cit., p. 24.<br />
( 161 ) Sulla genesi del codice di procedura penale del 1865 e sui suoi rapporti con i testi<br />
dell’Italia pre-unitaria, in particolare con quelli piemontesi, cfr. M.N. Miletti, Un processo<br />
cit., pp. 67-80.
SAGGI E OPINIONI<br />
155<br />
sul profilo specifico che qui interessa pare di poter smentire quanto asserito<br />
da una certa letteratura, ossia che nell’elaborazione del primo codice<br />
processuale unitario non si tenne conto né del codice Romagnosi né di<br />
quello napoletano, «che pure avevano avuto riguardo a’ caratteri e a’ costumi<br />
nostrani, e recavano l’impronta del nostro genio giuridico»( 162 ).<br />
Fu proprio al primo che invece si guardò come ad esempio da seguire.<br />
A dire il vero, più che il nudo dettato legislativo interessa la dottrina<br />
che attorno ad esso fiorì. E non si tratta di posizioni univoche.<br />
Taluni, come Lucchini, ribadiscono che l’esame dell’imputato ha tra i<br />
suoi scopi principali quello di ottenere le dichiarazioni e le eventuali indicazioni<br />
necessarie allo sviluppo del procedimento. Egli sostiene che, scomparsi<br />
i remoti giudizi di Dio, il duello giudiziario e la tortura, l’interrogatorio<br />
rimane l’unico strumento valido per giungere alla confessione. Si percepisce<br />
in Lucchini una sorta di rassegnata, amara, disincantata valutazione<br />
delle norme chiamate a presiedere il cosiddetto costituto obiettivo: pur essendosi<br />
vietato di deferire il giuramento (art. 232), benché si sia ammesso<br />
che le domande debbano riguardare tanto gli elementi a carico quanto<br />
quelli a discarico cosí da garantire un accertamento imparziale dei fatti<br />
(art. 233), tuttavia «l’esame è sempre diretto allo stesso fine inquisitorio,<br />
come si evince dalle disposizioni che minuziosamente lo reggono (artt.<br />
234-239 c.p.p.), come lo agevola il modo con cui si assume, scritto, segreto,<br />
presenti soltanto il giudice e il cancelliere, come naturalmente lo devono<br />
indurre la naturale inclinazione del giudice e il suo impegno di riuscire nell’intento<br />
[...] con un imputato abbandonato a se stesso, confuso e intimorito<br />
dalla qualità del luogo e delle persone, col panico naturale in simili situazioni.<br />
Per modo che non è fuor di proposito il dire che l’interrogatorio<br />
obiettivo talora costituisca una specie di tortura morale, sostituita all’antica<br />
tortura dei tormenti fisici»( 163 ).<br />
Una simile lettura non convince tutti. In molti sono pronti a sostenere<br />
( 162 ) B. Franchi, Nuovo codice di procedura penale, Milano 1914, p. X.<br />
( 163 ) L. Lucchini, Elementi di procedura penale, Firenze 1899, p. 296. Sono quasi<br />
identici gli accenti che ritroviamo nel commento di De Notaristefani al codice del 1913.<br />
L’autore ritiene che non siano estranei ai costumi giudiziari neppure del Novecento né i<br />
duelli defatiganti ingaggiati per ottenere ammissioni o per provocare contraddizioni, né le<br />
torture spirituali a cui gli imputati sono sottoposti durante l’interrogatorio, specialmente<br />
in corte di assise (R. De Notaristefani, Commento al codice di procedura penale, libro terzo<br />
Del giudizio, Torino 1923, p. 461). Sommario e sbrigativo sul punto è invece il commento di<br />
Antonio Vismara. Dopo aver richiamato, lodato e invitato a riflettere sui «principii molto<br />
filosofici ed utili» espressi dal codice austriaco in tema di interrogatorio, l’autore, per illustrare<br />
l’art. 236, si limita a ribadire quanto qui è stato più volte evidenziato: ossia che, se in linea<br />
di massima il silenzio è da considerarsi un delitto contro la giustizia pubblica, ciò non determina<br />
sic et simpliciter la sconfitta del silente nei giudizi penali, perché, a differenza di quanto<br />
avviene nel civile, nessuna finta confessione può arguirsi dal mutismo dell’individuo (A. Vismara,<br />
Codice di procedura penale del Regno d’Italia spiegato col mezzo analogico, coll’auto-
156<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
che questa raffigurazione dipinge i tempi andati (quando l’interrogatorio<br />
non era la via naturale per giungere al compimento del processo, quanto<br />
piuttosto un mezzo per estorcere una confessione; non l’occasione offerta<br />
all’imputato per giustificare i propri comportamenti, bensì un atto di violenza),<br />
ma non rispecchia il presente. Avanza l’onda lunga di quanti riconoscono<br />
all’interrogatorio funzioni garantistiche e vi scorgono un mezzo<br />
diretto non al solo accertamento imparziale dei fatti ma alla difesa dell’imputato(<br />
164 ).<br />
L’interrogatorio cambia fisionomia, ruolo e finalità. Il piú diffuso manuale<br />
di procedura del tardo Ottocento, il Borsani – Casorati, riflette: «Il<br />
processo oggidì lo usa ai fini della difesa, e ne ricava un mezzo d’istruzione<br />
non già una prova», anche se, innegabilmente, esso rimane un momento di<br />
snodo nelle vicende processuali, un momento di grande rilevanza per la<br />
perdurante capacità d’influenzare il ‘convincimento’ dei giudici. Ma non<br />
è questo il suo scopo: «il giudice lo deve usare come una deferenza dovuta<br />
alla difesa, e come ascolta l’accusatore, così, e con la stessa imparzialità,<br />
deve ascoltare l’accusato, registrarne le dichiarazioni spontanee, ma non<br />
abusarne»( 165 ).<br />
Risente di questa nuova impostazione anche la concezione del silenzio,<br />
inteso come esercizio d’una facoltà, una scelta di libertà di cui avvalersi<br />
qualora non si intenda compromettere la propria posizione con risposte irriflessive<br />
«non potendosi pretendere che l’imputato divenga un suicida»(<br />
166 ). Si opta per la più letterale interpretazione della disciplina codicistica:<br />
chi tace accetta che le prove e gli indizi raccolti contro di lui conservino<br />
la loro forza non essendo combattuti, ma «ritenere la negativa a<br />
rispondere come tacita confessione è una idea che ripugna al buon senso<br />
ed a’ principi del codice che non ammetta il sistema delle pruove legali»(<br />
167 ).<br />
rità del diritto romano e colle dottrine di sommi penalisti e posto in relazione coi codici abrogati<br />
di procedura penale napoletano e italiano, Napoli 1871, p.106, nt. 3).<br />
( 164 ) Efficacemente si sostiene che uno dei principali vizi del processo inquisitorio fu la<br />
corruzione del concetto di interrogatorio, considerato non quale provocazione dell’esercizio<br />
della difesa (come avrebbe dovuto essere) ma esperimento di un mezzo di prova. «La difesa<br />
entrava nell’interrogatorio come un episodio; ma lo scopo che la legge si prefiggeva di raggiungere<br />
era la confessione della reità» (G. Borsani –L.Casorati, Codice di procedura penale<br />
italiano commentato, vol. II, Milano 1876, p. 422). Ne condividono l’impostazione G.<br />
Sabatini, Teoria delle prove nel diritto giudiziario penale, parte II Delle presunzioni e delle<br />
prove in generale, Catanzaro 1911, p. 324; P. Tuozzi, Principii del procedimento penale, Torino<br />
s.d., p. 205; V. Manzini, Manuale di procedura penale italiano, Torino 1912, p. 573.<br />
( 165 ) Entrambe le citazioni sono tratte da G. Borsani –L.Casorati, Codice cit., pp.<br />
423-4.<br />
( 166 ) F. Saluto, Commenti cit., pp. 555-6.<br />
( 167 ) F. Saluto, Commenti cit., pp. 555-6. In questa prospettiva, l’autore ammonisce<br />
il giudice a conservare la propria serenità anche nel caso in cui, durante l’interrogatorio, l’im-
SAGGI E OPINIONI<br />
157<br />
Prescrivere l’interrogatorio preliminare a pena di nullità, come fa il codice<br />
unitario, significa solo che l’imputato deve essere interrogato dal giudice,<br />
ma non significa che qualora egli non risponda alle domande rivoltegli<br />
l’istruzione si debba arrestare, perché, se così fosse sarebbe in balia dell’imputato<br />
sospendere il corso del processo con il suo silenzio: questo è il senso<br />
dell’art. 236( 168 ). È il logico corollario di chi vede nel fine dell’interrogatorio<br />
l’integrità della difesa( 169 ): la legge lascia libero l’imputato di scegliere<br />
se rispondere o meno alle domande rivoltegli, bandendo l’assurda teorica<br />
di procedere contro di lui e di incriminarlo per il solo fatto di aver frapposto<br />
dinieghi e rifiuti( 170 ).<br />
Neppur troppo velatamente si comincia a riconoscere al silenzio una<br />
funzione di garanzia. E sebbene si ritenga l’art. 236 dettato forse «più<br />
per porre un limite ai poteri del giudice interrogante che per assicurare<br />
un diritto all’imputato»( 171 ), va riconosciuto che la dottrina e la giurisprudenza<br />
lavorarono per riempire di specifico contenuto tale norma e farne il<br />
vessillo di una nuova forma di tutela dell’individuo sottoposto a giudizio,<br />
non più ‘macchina di verità’, ma parte in causa che si avvale di ogni lecita<br />
strategia per proteggersi( 172 ).<br />
Sì, anche la giurisprudenza. A dire il vero le pronunce sul punto sono<br />
numericamente esigue( 173 ) e anche questo è un dato di rilievo. Esso non<br />
putato abbia un atteggiamento sconveniente e non solo perché ciò giova alla dignità sua e<br />
della giustizia, «ma pure all’efficacia delle esortazioni che occorrerebbero di dover fare, secondo<br />
le circostanze» (ibidem). Lo stesso concetto aveva espresso Giuriati, convinto che la<br />
dolcezza dei modi fosse ben lungi dal nuocere alla fermezza del contegno; era utile anzi alla<br />
«dignità e alla efficacia delle esortazioni» (D. Giuriati, Commento cit., p. 202).<br />
( 168 ) Secondo Carfora, l’avvertenza rivolta all’imputato ex art. 236, ossia che si procede<br />
oltre nell’istruzione nonostante il suo silenzio, intende rendergli noto il rischio di essere giudicato<br />
prescindendosi dagli argomenti a discolpa che egli ha rinunciato ad esporre sottraendosi<br />
al contraddittorio: al tempo stesso lo si vuole indurre a recedere dal proposito del silenzio<br />
per ottenere da lui tutte le dichiarazioni che possono essere utili per perseguire la verità<br />
(F. Carfora, voce Interrogatorio, inDigesto Italiano, vol. XIII, Torino 1927, p. 124, § 55).<br />
( 169 ) Sbriccoli individua nel riconoscimento del diritto al silenzio un passo decisivo per<br />
«l’inizio di un viaggio lunghissimo – non ancora giunto a termine – che modificherà la natura<br />
e il senso del processo penale, trasformandolo da macchina per attingere prove (prima di<br />
tutto) contro l’imputato, in luogo funzionalmente orientato a garantirgli l’esercizio della difesa»<br />
(M. Sbriccoli, Giustizia criminale cit., pp. 189-90).<br />
( 170 ) G. Borsani –L.Casorati, Codice cit., p. 495.<br />
( 171 ) V. Grevi, «Nemo tenetur» cit., p. 29.<br />
( 172 ) Borsani e Casorati parlano letteralmente d’un uso, da parte dell’imputato, del diritto<br />
di natura a tutela della personale incolumità, saldando così un ideale cerchio con le posizioni<br />
giusnaturalistiche o (rectius) illuministiche (G. Borsani –L.Casorati, Codice cit.,<br />
p. 424).<br />
( 173 ) Lo evidenzierà decenni dopo Alessandro Stoppato, il quale definendo un «valido<br />
usbergo» contro gli abusi la facoltà di non rispondere, al contempo mostrava di credere che<br />
non sarebbero mai stati molti gli accusati pronti ad avvalersi di tale facoltà «perché tutti intendono<br />
che l’interrogatorio, al quale si sottopongono, serve specialmente come mezzo di
158<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
solo ci fa capire che l’imputato trovava, nella maggioranza dei casi, ‘naturale’<br />
collaborare con la giustizia. Ma soprattutto svela che sul rifiuto a rispondere<br />
gravava ancora un preconcetto duro a morire: quello di comportamento<br />
scorretto, illegittimo se non illecito, chiaro retaggio del segno profondo<br />
lasciato dai secoli andati. Se della plurisecolare repressione non resta<br />
più traccia nel dettato normativo, l’eco si avverte ancora nella coscienza individuale<br />
e collettiva: non basta un colpo di spugna a maturare la piena<br />
consapevolezza delle conquistate libertà.<br />
Le sentenze appaiono forse meno incisive ed esprimono posizioni<br />
meno nette di quelle dottrinali: non riproducono fedelmente la spaccatura<br />
fra chi non sembra voler rinunciare alle ‘sicurezze punitive’ del passato e<br />
chi invece inneggia all’alba di nuovi giorni. I toni sono più sfumati, anche<br />
se alcune affermazioni significative non mancano.<br />
Ad esempio, di fronte alla Corte di Cassazione di Firenze, il ricorrente<br />
sostiene che l’accusato che viene assoggettato all’interrogatorio è libero di<br />
dare risposte incomplete o di tacersi affatto, perché ciò costituisce un legittimo<br />
esercizio della sua difesa( 174 ). Ancor più significativamente, la Corte<br />
d’Appello di Macerata, una decina di anni dopo, di fronte ad un imputato<br />
che si lamentava del fatto che il presidente del tribunale non lo avesse obbligato<br />
a difendersi, ribadiva la massima che l’interrogatorio ha due scopi:<br />
acquisire le prove del reato (e ciò interessa l’accusa) e permettere all’imputato<br />
di fornire le sue giustificazioni (interesse della difesa). Se l’imputato ha<br />
ottenuto la parola per difendersi e non se ne è servito, si ritiene non voglia<br />
rispondere e nessuno può obbligarlo a farlo( 175 ).<br />
La decisione della Corte, così come lo stesso dettato normativo a ben<br />
vedere, si presta ad una duplice lettura. Avvertito della prosecuzione dell’istruttoria,<br />
l’imputato non può recriminare per l’occasione persa, frutto<br />
d’una scelta libera che lo Stato gli riconosce e protegge. Al contempo, però,<br />
la rinuncia a difendersi ‘attivamente’ pare irrevocabile: la mancata spendita<br />
della parola sembra precludere ripensamenti o modifica delle strategie difensive.<br />
Posizioni nostalgiche si percepiscono invece in una sentenza genovese<br />
del 1888. Qui la Corte d’Appello, distinguendo tra rifiuto a rispondere e<br />
dichiarazione dell’imputato di ignorare i fatti costituenti oggetto di interro-<br />
difesa» (Camera dei deputati, Relazione della Commissione sul progetto del codice di procedura<br />
penale per il Regno d’Italia e sul disegno di legge che ne autorizza la pubblicazione, n. 78, p.<br />
275, in Commento al codice di procedura penale, parte prima Lavori preparatori, vol. III Lavori<br />
parlamentari [relazioni, discussioni], Torino 1915).<br />
( 174 ) Corte di Cassazione di Firenze, 28 giugno 1872, Gallicani e altri ricorrenti, in<br />
Giurisprudenza Italiana, 24 (1872), col. 439.<br />
( 175 ) Corte d’appello di Macerata, 25 agosto 1884, in Giurisprudenza Italiana, 36<br />
(1884), col. 527.
SAGGI E OPINIONI<br />
159<br />
gatorio, nella volontà di mostrare la mancata corrispondenza tra i due atti<br />
anche ai fini degli effetti, non esita ad affermare che vi è presunzione della<br />
verità dei fatti in chi non risponde, quasi che il silenzio fosse implicita attestazione<br />
di veridicità( 176 ).<br />
Di segno opposto altre decisioni, dove costantemente si insiste sull’intima<br />
corrispondenza tra diritto del giudice a rivolgere qualunque domanda<br />
ritenuta opportuna per l’accertamento della verità e diritto dell’accusato a<br />
non rispondere( 177 ).<br />
Non dura a lungo tuttavia il favore verso il primo codice nazionale.<br />
Elaborato nell’urgenza che aveva caratterizzato tutti i lavori di codificazione<br />
all’indomani dell’unità politica, il testo viene messo in discussione<br />
nel volgere di pochi decenni. Accusato di essere una congerie di difetti tecnico-giuridici<br />
e pratici, attirò sudiséuna crociata di critiche, tanto che fin<br />
dai primi anni della sua applicazione Parlamento, dottrina e mondo forense<br />
sollecitarono una solerte riforma( 178 ).<br />
Tra i temi sul tavolo degli interventi svetta la necessità di migliorare la<br />
condizione dell’imputato e dell’esercizio della difesa. Una panoramica delle<br />
legislazioni straniere( 179 ) convince della improrogabilità di interventi volti<br />
a fornire maggiori strumenti a protezione dell’individuo nel momento del-<br />
( 176 ) Corte di Appello di Genova, 9 marzo 1888, in Giurisprudenza Italiana, 40 (1888),<br />
p. II, col. 727-8.<br />
( 177 ) Si veda, ad es., la decisione della Cassazione di Firenze del 31 ottobre 1885, dove<br />
si legge che in omaggio al diritto di difesa il giudice non può imporre all’imputato di rispondere<br />
all’interrogatorio, per la «potentissima ragione che nemo potest cogi praecise ad factum»<br />
(Corte di Cassazione di Firenze, 31 ottobre 1885, Natale, citata in Rivista penale, 25 [1887],<br />
p. 136, nt. 1), così come la sentenza della Cassazione del 28 novembre 1912, ric. Bettmann,<br />
in Giustizia penale, XIX, col. 522. Le pronunce giudiziali specificavano che al silenzio l’imputato<br />
poteva determinarsi da sé o in seguito a suggerimento del difensore; ma era considerato<br />
illegale un qualsiasi incitamento da parte di chi dirige l’udienza, anche se espresso sotto<br />
forma di consiglio, a rimettersi ad interrogatori precedenti o a ciò che avrebbe potuto dire il<br />
difensore (Cassazione di Torino, 22 luglio 1886, ric. Fratelli Corallo, inRivista penale, 25<br />
[1887] p. 136). Al contrario, la facoltà di rimettersi è concessa all’imputato, che esercita così<br />
il suo diritto di tacere (Cassazione di Firenze, 31 ottobre 1885, ric. Podestà, inRivista penale,<br />
24 [1886], p. 538; e ancora 11 novembre 1890, ric. Orsi, inRivista penale, 33 [1891], p. 74).<br />
Nel caso poi che l’imputato rifiuti di rispondere in sede di giudizio, si deve dare lettura dell’interrogatorio<br />
precedentemente dato (Cassazione, 27 novembre 1895, ric. Falani, inGiustizia<br />
penale, I, col. 1533) e lo stesso vale se l’imputato rinvia ad altro interrogatorio (in senso<br />
contrario Cassazione, 14 febbraio 1896, ric. Abate, inRivista penale, 43 [1896], p. 402).<br />
( 178 ) Per una panoramica delle critiche rivolte al codice del 1865 cfr. M. N. Miletti,<br />
Un processo cit., p. 2 e pp. 80-92.<br />
( 179 ) Cfr. sul punto Atti parlamentari, Camera dei deputati (n. 266), Progetto del Codice<br />
di procedura penale per il Regno d’Italia e disegno di legge che ne autorizza la pubblicazione<br />
presentato dal Ministro di Grazia e giustizia e dei culti (Finocchiaro-Aprile) nella seduta del<br />
28 novembre 1905, parte II Disegno di legge e Testo del Codice, Roma 1905, sez. VII, n.<br />
LXXIII, pp. 334-6, nt. 2.
160<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
l’interrogatorio, una delle fasi processuali più pesantemente condizionate<br />
dal marchio inquisitorio o accusatorio del rito( 180 ).<br />
Si auspica quindi che l’interrogatorio sia condotto dal giudice in modo<br />
tale da consentire all’imputato di mostrare l’insussistenza degli indizi risultanti<br />
a suo carico e di far valere le circostanze che gli possono tornare favorevoli(<br />
181 ). L’aspirazione è quella di veder finalmente cessare tra giudice<br />
e accusato quella lotta «che troppo spesso traspare negli atti istruttori dei<br />
nostri tribunali e della quale si dà talora disgustoso spettacolo alle pubbliche<br />
udienze, lotta in cui gareggia dall’una parte ad attaccare e confondere<br />
e dall’altra a difendersi e ad ingannare»( 182 ).<br />
Giudice e accusato si scoprono dunque alleati nel raggiungimento<br />
dello stesso fine: portare alla luce la verità giudiziaria. Si ambisce a realizzare<br />
quanto già accade nei sistemi di common law, ossia un judge counsel of<br />
the prisoner. Da noi, invece, «nella pratica ancor più che nella legge»( 183 )la<br />
( 180 ) Significativa in questo senso è la Relazione ministeriale presentata nella seduta del<br />
28 novembre 1905, in cui il Ministro di grazia e giustizia e dei culti, Finocchiaro-Aprile, ripercorrendo<br />
le tappe che avevano condotto al progetto del 1905, non solo offre un quadro<br />
ricco e articolato delle riforme processuali intraprese nell’Europa intera, ma sottolinea con<br />
insistenza che la necessità e l’urgenza di un nuovo Codice di procedura penale sono posti<br />
dalla vigenza di una legislazione, quella risalente al 1865, incapace di tutelare efficacemente<br />
la repressione della delinquenza e la difesa dell’innocenza, entrambi interessi d’ordine pubblico<br />
e sociale: non andava poi trascurato il fatto che l’entrata in vigore del codice penale del<br />
1889 rendeva improrogabile interventi massicci sul rito, per l’intimo legame esistente fra le<br />
due parti della legislazione (Atti parlamentari, Camera dei deputati [n. 266], Progetto del Codice<br />
di procedura penale per il Regno d’Italia e disegno di legge che ne autorizza la pubblicazione<br />
presentato dal Ministro di Grazia e giustizia e dei culti [Finocchiaro-Aprile] nella seduta<br />
del 28 novembre 1905, parte I Relazione ministeriale, Roma 1905, pp. 17-26).<br />
( 181 ) E. Pessina, Manuale del diritto penale italiano, parte prima, Napoli 1893, p. 51.<br />
Sarà un principio accolto anche nei progetti del c.p.p. del 1913, come dimostrato inequivocabilmente<br />
dalla Relazione composta per la Commissione della Camera da Stoppato sul progetto<br />
di legge del 1911, dove, in sintesi, si afferma che «non essendo l’interrogatorio considerato<br />
come un mezzo di prova, non si può in alcun modo forzare o ridurre l’imputato a farsi<br />
della prova una fonte. La stessa confessione può facilitare la ricerca; ma per sé medesima non<br />
la esaurisce. Ed è perciò che si intendono vietare violenze o suggestioni, e che il giudice deve<br />
educarsi (e questo non può fare il Codice) a una concezione corrispondente al fine dell’interrogatorio<br />
nei suoi rapporti con l’imputato» (Camera dei deputati, Relazione della Commissione<br />
sul progetto del codice di procedura penale per il Regno d’Italia e sul disegno di legge che<br />
ne autorizza la pubblicazione, n. 75, p. 273, in Commento al codice di procedura penale, parte<br />
prima Lavori preparatori, vol. III Lavori parlamentari [relazioni, discussioni], Torino 1915).<br />
Qualche dissenziente puntualizzazione la troviamo in Ferri, per il quale l’accento va nuovamente<br />
posto non sulla funzione difensiva dell’interrogatorio (come era esclusivamente considerato<br />
dal progetto di legge del 1911), ma sul suo essere fonte (e non mezzo) di prova<br />
(Commento al codice di procedura penale, parte prima Lavori preparatori, vol. III Lavori parlamentari<br />
[relazioni, discussioni], Torino 1915, p. 359).<br />
( 182 ) F. Benevolo, Il decreto cit., p. 541.<br />
( 183 ) Lo scollamento tra legislazione e prassi è additata chiaramente da Benevolo. In-
SAGGI E OPINIONI<br />
161<br />
prevenzione contro l’imputato trasforma l’interrogatorio in una «tortura<br />
morale per l’imputato, in un pericolo per l’innocente»( 184 ).<br />
Si modifica la visione della posizione processuale dell’imputato: se nel<br />
passato secundum practicam mundi non sit dandum in criminalibus tempus<br />
reo ad deliberandum, oggi quisque praesumitur justus donec probetur injustus.<br />
Poiché nell’interrogatorio si annida la principale arma difensiva, si<br />
profila la possibilità d’una legislazione la quale intimi al giudice interrogante<br />
di avvertire l’accusato «che se non vuol rispondere è suo diritto»(<br />
185 ).<br />
Il nuovo secolo valorizza le conquiste del precedente, e le fa brillare di<br />
luce propria, osando quanto mai era stato fatto prima di allora.<br />
Si incomincia, ad esempio, a discutere del ruolo dell’interrogatorio<br />
proponendone una trasformazione radicale. Si arriva persino a proporre,<br />
sull’esempio della Francia, di abolirlo( 186 ), negandogli qualsiasi valore di<br />
fatti l’art. 233 del c.p.p. del 1865 espressamente richiedeva interrogatori chiari, precisi, e diretti<br />
ad accertare imparzialmente i fatti, così come l’imputato era eccitato a dichiarare se e<br />
quali prove avesse a proprio discarico. L’unico rischio era di cadere in una vanificazione<br />
di fatto dell’esercizio della difesa, come attestava, per il passato, una pronuncia della Cassazione<br />
di Napoli del 19 gennaio 1863, in cui si affermava che, se era vero che l’interrogatorio<br />
era mezzo per accertare i fatti tanto a carico quanto a discolpa dell’imputato, ciò tuttavia non<br />
significava che al giudice correva l’obbligo di raccogliere le prove indicate dall’interrogato<br />
(cfr. La Legge, vol. III, p. 457). Benevolo ammetteva inoltre che ciò segnava un indubbio<br />
progresso rispetto alla normativa francese, muta sul punto e priva di ogni regola direttiva:<br />
lì dottrina e giurisprudenza erano costrette ad ispirarsi all’ordinanza del 1670 «emanata<br />
quando il sistema inquisitorio faceva maggior strazio degli imputati» (F. Benevolo, Il<br />
decreto cit., p. 538, nt. 2).<br />
( 184 ) F. Benevolo, Il decreto cit., p. 541.<br />
( 185 ) E. Pessina, Manuale cit., p. 51.<br />
( 186 ) Prendendo posizione sul dibattito in atto tra quanti propugnavano l’abolizione<br />
dell’interrogatorio nel dibattimento, ritenendolo incompatibile con la giustizia, e chi invece<br />
lo considerava così necessario da invitare il giudice a sollecitare in ogni modo l’imputato a<br />
rispondere, Casorati riconosceva da un lato la necessità dell’interrogatorio (sia nella sua funzione<br />
di momento difensivo che di accertamento di verità) ma dall’altro ammoniva che non si<br />
poteva costringere l’accusato a rispondere, perché nessuno poteva essere obbligato a testimoniare<br />
contro di sé: ogni genere di coercizione morale o materiale usata a tal fine si sarebbe<br />
risolta in una riproduzione della tortura. L’obbligo a rispondere era dunque reminiscenza<br />
dell’antico processo inquisitorio, in netta opposizione ai principi del diritto moderno volto<br />
a bandire dai pubblici giudizi tutto quanto potesse inceppare la libertà morale e materiale<br />
degli accusati, menomandone il diritto di difesa. «Né dicasi che il diritto della giustizia di<br />
prescrivere l’interrogatorio e il diritto dell’accusato di osservare il silenzio costituiscano<br />
due termini contradittorii. Anche il silenzio ha la sua eloquenza e il rifiuto dell’accusato di<br />
rispondere, se da una parte salva il diritto di lui di non offrire le armi contro se stesso, dall’altro<br />
non lede le esigenze legittime della giustizia, soddisfatte mercè le interpellanze rivolte<br />
all’accusato stesso, sia che egli risponda o non risponda. Spetta ai giudici valutare il significato<br />
del silenzio, ponendolo in relazione con tutte le risultanze della causa» (L. Casorati, Il<br />
processo penale e la riforma. Studi, inMonitore dei tribunali, anno XXI, n. 48 [1880], n. 72,<br />
p. 1064).
162<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
prova, nel timore che si potesse estorcere una confessione con intimidazioni<br />
o altri mezzi coercitivi.<br />
La posizione estrema, che pure aleggiava nel progetto ministeriale, non<br />
passò, ma certo, gettando ogni remora alle spalle, si intavolò un acceso dibattito<br />
riguardo alla configurazione di un vero e proprio diritto al silenzio.<br />
È quanto troviamo enunciato agli inizi dei lavori preparatori del codice del<br />
1913( 187 ): nella seduta del 22 aprile 1899 la commissione votò, non senza<br />
contrasti al proprio interno, la proposta di porre a carico del giudice istruttore<br />
l’obbligo di informare l’imputato, in sede di interrogatorio, della possibilità<br />
di avvalersi del diritto a non rispondere( 188 ). Tale scelta venne difesa<br />
contro il parere di alcuni commissari e della stessa magistratura.<br />
Questa, chiamata ad esprimersi sul punto, quasi unanimemente si oppose<br />
a siffatta innovazione, rivelando da subito quell’ostilità e quella tenace volontà<br />
di preservare le proprie posizioni (ritenute minacciate dalla norma in<br />
oggetto) che connotò l’intero iter dei lavori. Le Cassazioni di Palermo,<br />
Roma e Torino, le Corti d’Appello di Ancona, Aquila, Bologna, Cagliari,<br />
Catania, Casale, Firenze, Lucca, Milano, Napoli, Roma, Torino, Venezia<br />
fecero pervenire le loro contrarie osservazioni. A favore dell’art. 243( 189 )<br />
( 187 ) Per meglio comprendere le scansioni che condussero alla promulgazione del<br />
codice di procedura penale del 1913 cfr. M. N. Miletti, Un processo cit., passim. Critico<br />
ed ironico il giudizio di Franchi sul succedersi delle varie commissioni: «Bisogna dir<br />
chiaro che tutte quelle Commissioni, già numerose quando venivano create, e dove i ministri<br />
succedendosi l’un l’altro andavano ancora aggiungendo commissari e commissari<br />
non rappresentarono né, in genere, con i loro uomini, né con l’opera loro la rinnovata<br />
coscienza giuridica del Paese, nella quale campeggiavano ormai una più profonda e<br />
più viva dottrina liberatasi dai modelli francesi, e una più fresca e positiva coscienza<br />
del carattere e dei fini del processo penale» (B. Franchi, Nuovo codice cit., p. XIX).<br />
Cfr.<br />
( 188 ) Si stabiliva che «con l’interrogatorio il giudice istruttore deve obbiettare all’imputato<br />
la imputazione e manifestargli le prove raccolte, indicandone le sorgenti. L’imputato deve<br />
essere eccitato a difendersi contro le medesime. Il giudice deve avvertirlo del diritto di<br />
non rispondere all’interrogatorio, facendosi nell’atto menzione dell’adempimento di questa<br />
formalità» (Atti della commissione istituita con decreto 3 ottobre 1899 con l’incarico di studiare<br />
e proporre le modificazioni da introdurre nel vigente codice di procedura penale, inLavori<br />
preparatori del codice di procedura penale per il Regno d’Italia, vol. I, Roma 1900, Verbali delle<br />
sedute, Verbale XXXII, pp. 322-323; Principii adottati dalla Commissione, n.45eOsservazioni<br />
sui Principi adottati dalla Commissione istituita con decreto 3 ottobre 1898 con l’incarico<br />
di studiare e proporre le modificazioni da introdurre nel vigente codice di procedura penale,<br />
pp. 19-22). Si rinvia anche a. R. Garofalo eL.Carelli, Riforma della procedura penale in<br />
Italia. Progetto di un nuovo codice, Torino 1889, Introduzione, pp. I-XXII; sull’interrogatorio<br />
pp. CCXII-CCXVII.<br />
( 189 ) Il Progetto presentato dalla sottocommissione al ministro di grazia e giustizia e dei<br />
culti Cocco-Ortu recava all’art. 243 tale formula: «Il giudice contesta, in forma chiara e precisa,<br />
all’imputato il fatto che gli è attribuito, gli indica le prove raccolte, e se non cagioni nocumento<br />
all’istruzione, anche le fonti di essi, e gli rivolge ogni altra domanda che possa condurre<br />
all’accertamento della verità, offrendogli il modo di discolparsi sopra ciascuna circo-
SAGGI E OPINIONI<br />
163<br />
si pronunciò la sola Cassazione di Firenze, forse sospinta in questo senso<br />
dall’allora presidente Carlo Cesarini, noto per le sue idee progressiste.<br />
Si obiettava che l’avvertimento all’imputato dell’esistenza di un simile<br />
diritto a suo favore fosse una sorta di incitamento a serbare il silenzio nei<br />
primi interrogatori, per riservarsi di rispondere dopo un consulto con il<br />
difensore( 190 ). Per mostrare una minima apertura ai suggerimenti pervenuti<br />
da più parti si decise di mantenere ferma la previsione del monito,<br />
ma se ne attenuarono i toni. Fu così che nell’art. 247 2º comma del progetto<br />
della sottocommissione presieduta da Pessina( 191 ) si preferì alla dizione<br />
palesemente incline ad esaltare il principio del nemo tenetur una<br />
enunciazione di identica portata ma di più mite fattura: scomparve il riferimento<br />
al diritto dell’imputato e lo si sostituì con l’avvertenza che egli<br />
non aveva obbligo di rispondere a qualsiasi domanda gli venisse rivolta(<br />
192 ).<br />
Il principio passò indenne attraverso la revisione del 1902( 193 ) ed ap-<br />
stanza. Prima di ricevere le dichiarazioni, il giudice avverte l’imputato che ha facoltà di non<br />
farne. Il giudice deve investigare su tutte le circostanze che risultano dall’interrogatorio e nelle<br />
prove addotte dall’imputato in discolpa, in quanto conducono ad accertare la verità» (Lavori<br />
preparatori cit., vol. V, pt. 1, Roma 1902, pp. 158-9).<br />
( 190 ) Esprimevano parere favorevole all’avvertimento l’Harburger e il Mayer, che riconoscevano<br />
in questa formalità la garanzia della libera volontà dell’imputato di fronte all’autorità<br />
giuridica e morale del giudice (Osservazioni e pareri, inLavori preparatori cit., vol. IV,<br />
Roma 1902, pp. 192-205).<br />
( 191 ) Cfr. nt. 187.<br />
( 192 ) «Il giudice contesta in forma chiara e precisa, all’imputato il fatto che gli è attribuito,<br />
e gli fa noti gl’indizi esistenti a suo carico, e, se non cagioni nocumento all’istruzione,<br />
anche le fonti di essi. Indi il giudice invita l’imputato a fare, se voglia, le sue dichiarazioni, e<br />
lo avverte che non ha obbligo di rispondere a qualsiasi domanda gli venga rivolta, facendo<br />
dell’avvertimento menzione nel verbale. Successivamente il giudice rivolge all’imputato tutte<br />
quelle domande che ritenga necessarie od utili a scoprire la verità. Le norme suddette si applicano<br />
altresì al costituto, e sempre che si procede all’interrogatorio dell’imputato, in quanto<br />
non sia diversamente stabilito» (art. 247 del Progetto del codice di procedura penale preceduto<br />
dalla relazione presentato dalla Sottocommissione al Ministro di grazia e giustizia e dei<br />
culti,inLavori preparatori cit., vol. V, parte I, Roma 1904, p. 151, 265; cfr. anche Esposizione<br />
sintetica dei progetti di riforme parziali [1806-1910] e dei lavori delle Commissioni incaricate<br />
di proporre in progetto preliminare del Codice [1898-1905], inCommento al codice di procedura<br />
penale, Parte prima Lavori preparatori, vol. I I progetti di riforme parziali e i lavori delle<br />
Commissioni, Torino 1913, p. 324). È evidente la differenza intercorrente con i principi fissati<br />
dalla Commissione del 1899, per i quali si rinvia alla nt. 188.<br />
( 193 ) Progetto del Codice di procedura penale formulato dalla Sottocommissione con le<br />
modificazioni proposte dalla Commissione di revisione, inLavori preparatori cit., vol. VI, Roma<br />
1905, p. 73. Non era passato il tentativo avanzato da alcuni (Fiocca e De Giulj, cui si<br />
contrappose fieramente Mazzella, colui che per primo nel 1899, con l’appoggio di Pessina<br />
e di Brusa, aveva accolto il principio del nemo tenetur) di far cadere l’inciso relativamente<br />
all’avvertimento da rivolgere all’imputato (cfr. Verbali della Commissione di revisione allegati<br />
al Progetto del codice di procedura penale, inLavori preparatori cit., vol. VII, parte II, Roma<br />
1906, verbale XXIV, p. 442).
164<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
prodò invariato ai progetti del 1905 (art. 269 2º comma)( 194 ) e del 1911<br />
(art. 302 2º comma)( 195 ), superando le mai sopite ostilità mostrate nei suoi<br />
confronti da alcuni relatori( 196 ).<br />
Si sottolineava una sostanziale differenza rispetto al vigente codice del<br />
1865. L’insistenza sull’avvertimento mirava a renderlo noto a tutti gli imputati<br />
e a suggerire ai giudici di astenersi da promesse contrarie al rispetto<br />
dovuto alla libertà di difesa, impedendo che dal silenzio si potessero trarre<br />
esagerate conseguenze e deduzioni, alle quali l’esplicita autorizzazione della<br />
legge toglieva ogni fondamento.<br />
Fu questo, però, il suo canto del cigno. Salutato come una delle innovazioni<br />
principali del futuro codice, sbandierato quale attestazione di progresso<br />
dell’Italia liberale( 197 ) e considerato imprescindibile sintomo del<br />
( 194 ) A convincere della bontà della scelta e a ‘blindare’ il mantenimento di una piena<br />
libertà di non rispondere inducevano i primi timidi procedimenti psicologici sperimentati,<br />
con cui si cercava di penetrare nei segreti di un uomo, costringendolo a rivelare il proprio<br />
pensiero senza il concorso della volontà o nonostante una volontà contraria, altro tema allora<br />
come oggi delicato e complesso per evidenti implicazioni [cfr. Atti parlamentari, Camera dei<br />
deputati (n. 266), Progetto del Codice di procedura penale per il Regno d’Italia e disegno di<br />
legge che ne autorizza la pubblicazione presentato dal Ministro di Grazia e giustizia e dei culti<br />
(Finocchiaro-Aprile) nella seduta del 28 novembre 1905, parte II Disegno di legge e Testo del<br />
Codice, Roma 1905, sez. VII, n. LXXIII, p. 336, nt. 1].<br />
( 195 ) L’art. 302 riproduceva fedelmente, con alcune variazioni non sostanziali, l’originario<br />
art. 247, stabilendo che «il giudice contesta in forma chiara e precisa all’imputato il<br />
fatto che gli è attribuito, gli fa noti gl’indizii esistenti a suo carico, e, se non cagioni nocumento<br />
all’istruzione, gli indica anche le fonti di essi. Indi il giudice invita l’imputato a discolparsi<br />
e ad indicare le prove in discolpa, avvertendolo che non ha l’obbligo di rispondere.<br />
Dell’avvertimento è fatta menzione nel verbale» [Senato del Regno (n. 544), Progetto del Codice<br />
di procedura penale per il Regno d’Italia e disegno di legge che ne autorizza la pubblicazione<br />
presentato dal Ministro di grazia e giustizia e dei culti (Finocchiaro-Aprile) nella tornata<br />
del 23 maggio 1911, Roma 1911, art. 302]. Lo stesso principio era ribadito, per la fase di<br />
giudizio, dall’art. 456 («Il presidente o il pretore, dopo aver informato l’accusato del fatto<br />
che viene posto a suo carico, lo invita a fare le sue dichiarazioni avvertendolo che non ha<br />
l’obbligo di rispondere»).<br />
( 196 ) Pasquale Tuozzi, nel commentare il c.p.p. del 1913, all’indomani dell’entrata in<br />
vigore, scorgeva nella formulazione del progetto un’influenza di pericolose teorie sfavorevoli<br />
allo stesso interrogatorio, «quasi che fosse una lodevole innovazione, e un lodevole gesto di<br />
civiltà e di progresso, il consigliare di rinunciare ad un atto, che oltre al porgere propizia<br />
occasione per appurare la verità, costituisce un opportuno mezzo difensivo». (P. Tuozzi,<br />
Il nuovo codice di procedura penale commentato, Milano 1914, p. 439). L’autore esprimeva<br />
perciò il proprio compiacimento per la prudente l’eliminazione dal testo definitivo di tale<br />
obbligo di avvertimento (ivi, p. 298).<br />
( 197 ) L’on. Raffaele Cotugno, nel corso del suo intervento alla Camera, si dichiarava<br />
favorevole al mantenimento dell’art. 302 del progetto del 1911, definito quale vera conquista<br />
nella storia del diritto e dichiarandosi convinto che la giustizia avesse organi e forza sufficienti<br />
per raggiungere e colpire i violatori della norma penale anche quando questi non intendessero<br />
collaborare per dimostrare la loro innocenza [Commento al codice di procedura penale,<br />
parte prima Lavori preparatori, vol. III Lavori parlamentari (relazioni, discussioni), Torino<br />
1915, p. 371, § 3].
SAGGI E OPINIONI<br />
165<br />
nuovo protagonismo assunto dall’imputato, che sarebbe stato cosí chiamato<br />
ad una maggior presa di coscienza di sé e dei propri diritti( 198 ), il<br />
principio dell’avvertimento non sopravvisse allla discussione parlamentare(<br />
199 ).<br />
Già nella Relazione della Commissione senatoria redatta da Ludovico<br />
( 198 ) Nella Relazione ministeriale del 1905, illustrando gli articoli dedicati all’interrogatorio<br />
dell’imputato, quelli compresi fra il 268 e il 271, Finocchiaro-Aprile poneva l’accento<br />
su due importanti novità: la potestà concessa al giudice istruttore di rendere note all’imputato<br />
le fonti degli indizi esistenti a suo carico (art. 269, 1º comma) e l’avvertimento all’imputato<br />
che non ha l’obbligo di rispondere alle domande rivoltegli (art. 269, 2º comma). Quest’ultimo<br />
era la traduzione fedele del principio nemo tenetur se accusare e la più coerente attestazione<br />
che l’interrogatorio era concepito quale mezzo di difesa e non di prova,<br />
sull’esempio di quanto avveniva in quel momento negli Stati progressisti. Ritorna, dunque,<br />
l’idea che la condanna deve trovare fondamento in prove indipendenti ed estranei alla parola<br />
dell’imputato, perché «èincivile che alcuno sia costretto a provare contro se stesso; e il costringimento<br />
non viene soltanto dai tratti di corda, o da altra specie di fisici tormenti, ma<br />
eziandio dalle suggestioni, dalle lusinghe, dalle sorprese, dalle insidie, alle quali si affida l’istruzione<br />
inquisitoria» [Atti parlamentari, Camera dei deputati (n. 266), Progetto del Codice<br />
di procedura penale per il Regno d’Italia e disegno di legge che ne autorizza la pubblicazione<br />
presentato dal Ministro di Grazia e giustizia e dei culti (Finocchiaro-Aprile) nella seduta del<br />
28 novembre 1905, parte I Relazione ministeriale, Roma 1905, p. 250, ma si veda anche parte<br />
II Disegno di legge e Testo del Codice, sez. VII, n. LXXIII, pp. 333-6].<br />
( 199 ) In particolare, furono gli esponenti della scuola criminale positiva ad esprimere il<br />
loro disfavore verso l’art. 302. Tra alti e bassi e alcune oscillazioni, che coinvolsero Mortara e<br />
Stoppato, si cercò di far prevalere in aula gli orientamenti di questa corrente dottrinale e di<br />
inserire all’interno del testo proprio quelle modifiche che meglio ne esprimessero i principi<br />
fondamentali. A suffragio di tali considerazioni, basterebbe il discorso di Enrico Ferri, il quale<br />
dopo un’esplicita ammissione del proprio ‘credo’ («io sono un eterodosso: quindi ho i miei<br />
criteri personali, ai quali ho dato il mio pensiero e la mia vita da tanti anni e per i quali vado<br />
osservando una conquista progressiva del comune consenso») si rallegrava di ritrovare nel<br />
progetto un comune sentire ai suoi ideali. E, rivolgendosi al collega Stoppato, ne approvava<br />
l’avvicinamento a «quell’indirizzo che la scuola criminale positiva italiana da tanti anni ha<br />
portato nell’evoluzione della scienza giuridica»; alle obiezioni del relatore rispondeva «lei<br />
non è mai stato della scuola classica pura, lo so bene; è sempre stato un giurista, che pur<br />
tenendosi fedele alle astrazioni dei principi teoretici non ha però dimenticato il senso della<br />
realtà e quindi spesso ha accolto le conclusioni della scuola positiva. E così ha fatto ora e<br />
sinceramente me ne compiaccio» [Commento al codice di procedura penale, parte prima Lavori<br />
preparatori, vol. III Lavori parlamentari (relazioni, discussioni), Torino 1915, p. 350].<br />
Sullo sfondo del dibattito tra il modellare l’interrogatorio come fonte di prova o mezzo di<br />
difesa e l’obbligo o meno imposto al giudice di avvertire l’imputato della facoltà di non rispondere<br />
vi è il confronto tra queste due scuole, che fortemente hanno caratterizzato la penalistica<br />
ottocentesca. Ce lo conferma l’intervento dell’onorevole Giacomo Pala nella tornata<br />
del 28 maggio 1912. Questi, riconoscendo nell’interrogatorio un mezzo normale e indispensabile<br />
di ricerca nel giudizio, precisa che l’obbligo imposto al giudice di avvisare il prevenuto<br />
o l’accusato della possibilità di avvalersi della facoltà di non rispondere «è, per me, nient’altro<br />
che una concessione ad insegnamento di scuola, al principio dottrinale, pel quale l’interrogatorio<br />
non potrebbe mai essere un mezzo di prova, ma un mezzo di difesa. Mi schiererò<br />
fra i seguaci di tale dottrina, quando mi avranno spiegato fin dove un mezzo qualunque<br />
istruttorio costituisca un mezzo di accusa, e dove cominci ad essere un mezzo di difesa. L’e-
166<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
Mortara sul disegno di legge del 1911 si coglie qualcosa di più d’una nota<br />
stonata: è un vero e proprio ribaltamento di posizioni, che mette in discussione<br />
l’impianto stesso dell’interrogatorio. Si arriva addirittura a sostenere<br />
che le disposizioni contenute nel progetto del 1911 azzeravano la facoltà di<br />
interrogare l’imputato. La prescrizione di avvertirlo del riconosciutogli diritto<br />
a non rispondere e di annotare nel processo verbale il compiuto adempimento<br />
di tale obbligo da parte del giudice, con scrittura di mano del cancelliere,<br />
poteva dar luogo, in caso di dimenticanza, ad una di quelle nullità<br />
insanabili dalle disastrose conseguenze( 200 ). Si auspica, per contro, un ri-<br />
videnza pratica delle cose dimostra che non vi sono mezzi istruttori che siano una cosa o l’altra.<br />
Tutti i mezzi istruttorii sono mezzi di accusa e mezzi di difesa [...]. E, del resto, il dibattito<br />
mi pare che sia più dottrinario che pratico, perché l’unica diversità fra il Codice attuale e<br />
il progetto è questa: che nel progetto è imposto al magistrato l’obbligo di dire al prevenuto o<br />
all’accusato: ‘‘voi non siete obbligato a rispondere’’, e nel Codice attuale se ne tace. Nel fatto<br />
niuno nega questo diritto all’accusato di astenersi dal dare risposta e d’altra parte bisogna<br />
che il prevenuto pensi quattro volte prima di chiudersi nel silenzio, che non potrebbe essere<br />
interpretato da nessun giudice a suo favore» [Commento al codice di procedura penale, parte<br />
prima Lavori preparatori, vol. III Lavori parlamentari (relazioni, discussioni), Torino 1915, p.<br />
378]. In una prospettiva più ampia, il Ministro guardasigilli in persona, il 5 giugno 1912, nel<br />
chiudere la discussione in aula, confermava che il dibattito aveva messo in luce le diverse<br />
tendenze scientifiche. Ma controbatteva a Ferri, che sembrava fare del codice il trampolino<br />
di lancio per le teorie alle quali si ispirava la scuola giuridica di cui era illustre sostenitore, a<br />
discapito di quelle fino ad allora prevalenti, che un codice non poteva essere un ordine completo<br />
di criteri teorici, ma un’opera a servizio della società verso cui è rivolto. L’accusa mossa<br />
al progetto di essere una miscela confusa e incerta di tendenze diverse è in realtà, per Finocchiaro-Aprile,<br />
la miglior attestazione della sua bontà, «perché dimostra che il progetto, ispirandosi<br />
fondamentalmente ai concetti della dottrina giuridica tradizionale in Italia, non ha<br />
chiuso gli occhi alle nuove idee, e ne ha secondato i postulati in tutto quanto risponde alle<br />
necessità sociali» [Commento al codice di procedura penale, parte prima Lavori preparatori,<br />
vol. III Lavori parlamentari (relazioni, discussioni), Torino 1915, p. 406, § 2]. Stoppato, replicando<br />
alla Camera il 15 giugno 1912 proprio a Ferri, da un lato esortava ciascuno ad abbandonare<br />
una parte del proprio fardello scientifico nel momento in cui si trattava di discutere<br />
e di votare un Codice di procedura penale («Questo è sano positivismo», tuonava il giurista),<br />
dall’altro ammetteva che intorno al tronco forte, robusto e organico del codice vi<br />
erano «efflorescenze dottrinali» [Commento al codice di procedura penale, parte prima Lavori<br />
preparatori, vol. III Lavori parlamentari (relazioni, discussioni), Torino 1915, p. 456, § 2]. Soprattutto,<br />
sul punto, si veda B. Franchi, Il positivismo nelle relazioni e discussioni parlamentari<br />
sulla procedura penale. La leggenda di ‘nuove teorie reazionarie’ nel discorso Ferri. Gli on.<br />
Fera e Viazzi. Altre postille, inLa scuola positiva nella dottrina e nella giurisprudenza penale,<br />
22 (1912), pp. 321-31; Id., Nuovo codice cit., pp. IX-XXXII. Cfr. M. N. Miletti, Un processo<br />
cit., pp. 315-34; M. Sbriccoli, La penalistica civile. Teorie e ideologie del diritto penale<br />
nell’Italia unita, inStato e cultura giuridica in Italia dall’unità alla Repubblica, Bari 1990, pp.<br />
147-232, , in partic. pp. 189-217.<br />
( 200 ) Senato del Regno (n. 544-A), Relazione della commissione speciale sul nuovo codice<br />
di procedura penale presentato dal Ministro di grazia e giustizia e dei culti nella tornata del 23<br />
maggio 1911, Roma 1912, p. 32. Il testo della Relazione per quanto qui interessa si trova anche<br />
riprodotto in Commento al codice di procedura penale, parte prima Lavori preparatori,<br />
vol. III Lavori parlamentari (relazioni, discussioni), Torino 1915, pp. 42-5 e 61.
SAGGI E OPINIONI<br />
167<br />
torno alla distinzione ‘gerarchica’ tra Stato / giudice e cittadino / imputato(<br />
201 ). E soprattutto, nei toni spesso ironici, talvolta pungentemente critici,<br />
altri perfino venati da acrimonia, si punta il dito contro l’art. 302, 2º<br />
comma del progetto.<br />
Quest’ultimo, figlio di un pregiudizio atavico che vede in ogni magistrato<br />
un astutissimo inquisitore disposto a qualunque sotterfugio contro<br />
un ingenuo inquisito, finirebbe per costringere il giudice – secondo l’accusa<br />
della Commissione senatoria – a chiedere all’imputato il permesso<br />
d’interrogarlo «poiché èun vero permesso che si domanda, quando lo si<br />
avverte che può ricusarsi a rispondere. Ciò equivale a dire che il magistrato<br />
debba sottoporsi egli al giudizio di un malfattore qualunque, prima di<br />
avere la facoltà di accingersi a giudicarlo»( 202 ).<br />
La dichiarazione solenne ed ufficiale di tale diritto era guardata con<br />
timore, quasi fosse un’esplicita ammissione d’impotenza, e quindi di inferiorità<br />
della legge e dell’autorità inquirente, di fronte all’indagato( 203 ).<br />
Le più retrive posizioni guadagnavano terreno palmo a palmo: il rifiuto a<br />
rispondere, coraggiosamente qualificato ‘diritto’, tornava ora ad essere manifestazione<br />
d’irriducibile protervia. Sembrava soprattutto uno spauracchio<br />
per gli organi giudiziari, che dipingevano i più cupi scenari per impedirne<br />
l’accoglimento: «diasi consacrazione ufficiale, e incoraggiamento, a simile<br />
contegno, e si vedrà ben presto come tutta la turpe genia dei facinorosi<br />
( 201 ) «Lo Stato è attore nel giudizio penale; questa proposizione non autorizza affatto a<br />
mettere di fronte, nel sistema del processo penale, lo Stato e il presunto delinquente, alla<br />
stessa stregua di parità, come l’attore e il convenuto nel processo civile. Gli aforismi più o<br />
meno abusati non devono far velo alla percezione degli attributi dello Stato, il quale tutela<br />
non interessi patrimoniali singoli e privati, ma un interesse sociale che è il massimo degli interessi<br />
collettivi, vale a dire il mantenimento delle condizioni supreme per la pacifica convivenza<br />
nel consorzio civile [...] si dimostra la irrazionalità di seguire schemi dottrinari astratti i<br />
quali presuppongono la perfetta parità giuridica fra le due parti contrastanti nel processo<br />
giudiziario; presupposto vero nel processo civile, falsissimo nel penale» (ivi, pp. 32-3).<br />
( 202 ) Prosegue la relazione di Mortara: «quando il magistrato chiederà licenza all’imputato<br />
di procedere al suo interrogatorio verrà in buona sostanza a fargli questo discorso:<br />
Se tu giudichi che io abbia l’anima e la coscienza di un Torquemada, rifiuta di rispondermi;<br />
la legge, che ha soppresso i Torquemada, ti riconosce questo diritto. Ma se mi stimi un onest’uomo,<br />
una coscienza diritta, allora mi puoi onorare della tua fiducia rispondendomi perché<br />
la legge obbliga me ad ascoltarti, dando a te la facoltà di parlarmi» (ivi, p. 33).<br />
( 203 ) Questo timore, in effetti, sembra legittimato dall’intervento di Stoppato alla Camera:<br />
«L’ordine di avvertire che ha diritto di non rispondere consacra la facoltà d’interrogare<br />
nell’atto istesso che ne distrugge il valore. L’obbligo di rispondere non potrebbe concepirsi<br />
che sotto l’assurda forma di coazione; e perciò il non avvertire del diritto di non rispondere<br />
non ha significato altro che di impotenza e di inferiorità in chi rappresenta la legge.<br />
Ciò a noi pare evidente» [Camera dei deputati, Relazione della Commissione sul progetto del<br />
codice di procedura penale per il Regno d’Italia e sul disegno di legge che ne autorizza la pubblicazione,<br />
p. 274, § 77, in Commento al codice di procedura penale, parte prima Lavori preparatori,<br />
vol. III Lavori parlamentari (relazioni, discussioni), Torino 1915].
168<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
e dei delinquenti acquisterà maggiore baldanza e si renderà sempre più difficile<br />
ogni ricerca di prova di qualsivoglia specie!»( 204 ).<br />
La Commissione della Camera Alta chiedeva pertanto emendamenti<br />
( 204 ) Senato del Regno (n. 544-A), Relazione della commissione speciale sul nuovo codice<br />
di procedura penale presentato dal Ministro di grazia e giustizia e dei culti nella tornata del 23<br />
maggio 1911, Roma 1912, pp. 32-3. Si riteneva la tutela del silenzio strettamente connessa<br />
all’accoglimento del principio di presunzione di non colpevolezza e dipendente da questa.<br />
La presenza di tale principio nel codice vanificava, secondo taluni, la necessità di enucleare<br />
un vero e proprio diritto di non rispondere, inteso anzi come un’ingiuria gratuita nei confronti<br />
della magistratura. In realtà, il tono intero della Relazione senatoria, i termini usati<br />
per indicare l’interrogato (non casualmente definito delinquente, e già implicitamente sottintendendo<br />
con questa espressione un giudizio di valore) sembrerebbero delineare addirittura<br />
una presunzione di colpevolezza, anziché di innocenza. Di questo, almeno, erano convinti<br />
alcuni autorevoli giuristi, chiamati ad intervenire nel dibattito parlamentare, come Vacca,<br />
Lucchini [Commento al codice di procedura penale, parte prima Lavori preparatori, vol. III<br />
Lavori parlamentari (relazioni, discussioni), Torino 1915: per l’intervento di Vacca, v. pp.<br />
97-8 § 14; per quello di Lucchini v. p. 114, § 6]. A costoro rispondeva però nuovamente<br />
Mortara nella tornata del 5 marzo 1912, ribadendo che la presunzione di innocenza, ritenuta<br />
principio non contrattabile, altro non è se non una «esagerazione di quel principio sacrosanto<br />
che è venuto in onore nel diritto penale e nella procedura, quando le conquiste della civiltà<br />
moderna trionfarono sui metodi barbari del procedimento criminale antico». Il concetto<br />
vero e da sostenere è che nessuno può essere ritenuto colpevole finché una sentenza irrevocabile<br />
non lo ha condannato: questa è, a detta di Mortara, l’unica verità dogmatica<br />
incancellabile; ma una cosa è dire che l’accusato non si deve ritenere colpevole, altro è dire<br />
che lo si deve presumere innocente. Nella seconda formulazione «si perverte il concetto della<br />
prima. Coloro che l’adottarono non furono pochi, anche perché le formule retoriche hanno<br />
la facile fortuna di piacere al maggior numero; tutti reputano di averle rapidamente comprese,<br />
e sono accettate con fervore specialmente perché si prestano all’enfasi e alla sonorità del<br />
discorso». Ne deriva, a suo dire, un’ulteriore erronea conseguenza, secondo la quale il Codice<br />
di procedura penale tutelerebbe l’innocenza, mentre quello penale reprimerebbe la malvagità.<br />
«Io vorrei sapere quale uso farebbe la società del Codice penale per difendersi dalla<br />
delinquenza se quello di procedura penale non fosse lo strumento necessariamente destinato<br />
a ricercare e cogliere i malvagi, per colpirli appunto con le sanzioni del Codice penale! Il<br />
Codice di procedura penale è essenzialmente un istrumento di difesa sociale contro il delitto,<br />
come lo è il Codice penale» [Commento al codice di procedura penale, parte prima Lavori<br />
preparatori, vol. III Lavori parlamentari (relazioni, discussioni), Torino 1915, pp. 153-4].<br />
Con altre parole Enrico Ferri, nelle discussioni del 22 maggio 1912, ricorrendo ad un concetto<br />
romagnosiano (peraltro già anticipato in qualche misura da Pagano), considerava il codice<br />
penale il codice dei soli delinquenti, quello di procedura penale il codice anche dei galantuomini:<br />
il primo si applicava a chi era riconosciuto con sentenza definitiva autore di delitti;<br />
sotto il secondo poteva cadere ciascun cittadino libero vittima di un equivoco, di una<br />
calunnia e via dicendo [Commento al codice di procedura penale, parte prima Lavori preparatori,<br />
vol. III Lavori parlamentari (relazioni, discussioni), Discussioni, Tornata del 22 maggio<br />
1912, Torino 1915, p. 346]. Si tratta di valutazioni di ampio respiro, che travalicano i confini<br />
del mero silenzio, ma che in qualche modo finiscono per ripercuotersi sulla sua percezione<br />
legale, direttamente discendente dalla prima e fondamentale domanda: quale carattere e quale<br />
indirizzo deve avere un Codice di procedura penale? A seconda della risposta data al quesito,<br />
i singoli partecipanti al processo formativo del c.p.p. del 1913 connotarono tale istituto<br />
con una fisionomia propria e specifica.
SAGGI E OPINIONI<br />
169<br />
che ovviassero all’inopportuna veste formale impressa alla norma, quantunque<br />
Mortara riconoscesse che l’estensore era senz’altro animato dal desiderio<br />
di agevolare la vittoria della giustizia nella lotta condotta contro il<br />
crimine. La Relazione evitava di procedere ad un esame analitico dei singoli<br />
articoli, preferendo concentrare l’attenzione sulle modifiche da introdurre:<br />
per il profilo che qui rileva il principio generale suggerito era quello di non<br />
predisporre sanzione alcuna, essendo il silenzio una facoltà di cui ogni persona<br />
sottoposta a procedimento poteva liberamente avvalersi( 205 ).<br />
Questa linea fu condivisa da molti. Fra tutti giganteggia Enrico Ferri, il<br />
quale arrivò a sostenere che una vera e propria fobia di non interrogare<br />
l’imputato aveva preso i redattori del progetto e che il ritornello costantemente<br />
presente nel codice «per cui bisogna dire all’imputato bada che non<br />
hai l’obbligo di rispondere» doveva considerarsi un lapsus calami da cancellare<br />
senza timore alcuno( 206 ).<br />
Mortara, Ferri, Stoppato, Canevari, per citarne alcuni, fecero dunque<br />
sentire la loro voce autorevole contro il mantenimento di una simile<br />
norma( 207 ). Il loro peso fu decisivo nel decretarne l’affossamento. Una pri-<br />
( 205 ) Senato del Regno (n. 544-A), Relazione della commissione speciale sul nuovo codice<br />
di procedura penale presentato dal Ministro di grazia e giustizia e dei culti nella tornata del 23<br />
maggio 1911, Roma 1912, pp. 32 e. 34. Tali principi erano ripresi, e se possibile maggiormente<br />
evidenziati, in tema di dibattimento. La Commissione riteneva che nell’udienza pubblica,<br />
in particolare quella da tenersi di fronte alla Corte d’Assise, le finalità della giustizia si<br />
potevano meglio raggiungere eliminando la forma vera e propria dell’interrogatorio e sostituendola<br />
con un sistema ritenuto ‘semplice e razionale’: il giudice, o il presidente, aveva il<br />
solo onere di informare l’accusato del fatto a lui addebitato e di avvertirlo della facoltà di<br />
esporre le proprie discolpe. Si eliminava così il «preconcetto che le dichiarazioni dell’accusato<br />
debbano promuoversi mediante interrogatorio a cui però egli abbia il diritto di non rispondere».<br />
E di nuovo si ribadiva la necessità di dispensare il magistrato «dall’umiliante obbligo<br />
di accompagnare le interrogazioni coll’avviso del diritto di non rispondere» (ivi, p. 45).<br />
E così nei Voti della Commissione al punto XVIII si invitava a sostituire alla forma esistente<br />
l’avvertimento che l’imputato godeva della facoltà di esporre le sue discolpe e che quando<br />
egli se ne avvaleva il presidente aveva la facoltà di aggiungere, di propria iniziativa o a richiesta,<br />
domande di chiarimenti (ivi, p. 62).<br />
( 206 ) L’intervento di Enrico Ferri è mirabile per la sprezzante ironia, la profondità<br />
scientifica e l’icastica struttura sintattica: «ora ve lo immaginate voi un giudice che dice al<br />
giudicabile: tu sei imputato di aver rubato, ferito, ucciso: ora dimmi come è andata la cosa;<br />
bada però che non sei obbligato a rispondere! Ma allora che serietà, che autorità può avere il<br />
giudice istruttore, il giudice di pubblica udienza? [...]». Ferri riesuma vecchie impostazioni:<br />
«badate bene che l’innocente, imputato in un processo penale, fin dal primo momento dice<br />
apertamente l’animo suo perché non ha che da dire la verità. Chi si riserva e tace è il delinquente<br />
più scaltro, più pericoloso» [Commento al codice di procedura penale, parte prima Lavori<br />
preparatori, vol. III Lavori parlamentari (relazioni, discussioni), Torino 1915, p. 360. Cfr.<br />
M. N. Miletti, Un processo cit., pp. 288-91 e 334-8).<br />
( 207 ) La ferma opposizione di Stoppato fu espressa nella sua Relazione al grido «No,<br />
noi questa imposizione non la approviamo!». Se l’imputato andava considerato come soggetto<br />
avente diritto di parlare o di tacere e non come strumento di cui il giudice dovesse avva-
170<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
mavera di libertà tramontava velocemente, oscurata dai timori circa l’impatto<br />
che il principio avrebbe avuto sull’effettivo svolgimento dei processi.<br />
«Un mal inteso senso di ossequio per il prestigio e per l’autorità della magistratura,<br />
unito alla preoccupazione di rendere troppo difficoltosa la ricerca<br />
delle prove»( 208 ), finirono per prevalere( 209 ) ed orientarono verso<br />
il passato la nascente codificazione. Era quell’eccesso di ‘modernità’ ostentato<br />
specialmente sotto il vessillo del riconoscimento di un diritto al silenzio<br />
a suscitare perplessità ed ansie( 210 ).<br />
lersi per trovare la verità, era altrettanto indubitabile che l’obbligo imposto al giudice di avvertirlo<br />
di un’inesistenza del dovere di rispondere «è una espressione di diffidenza ed una<br />
prostrazione dell’autorità del giudice, che non si può consentire» [Camera dei deputati, Relazione<br />
della Commissione sul progetto del codice di procedura penale per il Regno d’Italia e sul<br />
disegno di legge che ne autorizza la pubblicazione, p. 274, n. 77, in Commento al codice di<br />
procedura penale, parte prima Lavori preparatori, vol. III Lavori parlamentari (relazioni, discussioni),<br />
Torino 1915]. E ancora Stoppato, in sede di discussione parlamentare, pur riconoscendo<br />
il significato morale del principio contemplato dall’art. 302, ribadiva la propria<br />
contrarietà al suo mantenimento: «Come! Si chiama uno perché renda conto di un fatto e<br />
si comincia con l’avvertirlo che non ha l’obbligo di renderne conto! È un po’ strano onorevoli<br />
colleghi. Onde la vostra Commissione, non tanto perché tema l’avvilimento del potere<br />
del giudice, quanto per il principio che si adultera l’istituto dell’interrogatorio, non accetta la<br />
proposta riforma» [Commento al codice di procedura penale, parte prima Lavori preparatori,<br />
vol. III Lavori parlamentari (relazioni, discussioni), Torino 1915, p. 457, § 4. Sulla relazione<br />
di Stoppato cfr. M. N. Miletti, Un processo cit., pp. 281-4]. Di identico avviso era l’onorevole<br />
Alfredo Canevari, che nell’intervento alla Camera ravvisava nell’art. 302 2º comma il<br />
rischio d’esautorare il potere del magistrato [Commento al codice di procedura penale, parte<br />
prima Lavori preparatori, vol. III Lavori parlamentari (relazioni, discussioni), Torino 1915, p.<br />
429, § 4]. A questa nutrita schiera di giuristi si opponeva una manciata di ‘coraggiosi’ sostenitori<br />
di tesi antitetiche, quali Vacca, Cotugno e Pagani Cesa. Quest’ultimo, ad esempio, nella<br />
seduta alla Camera del 1º giugno 1912, riteneva non doversi abolire la proposta contenuta<br />
nel progetto, non riuscendo a comprendere come l’avvertimento ex art. 302 2º comma potesse<br />
essere ritenuto poco dignitoso per il giudice, costituendo, al contrario, la prova della<br />
sua lealtà [Commento al codice di procedura penale, parte prima Lavori preparatori, vol. III<br />
Lavori parlamentari (relazioni, discussioni), Torino 1915, p. 396, § 6].<br />
( 208 ) V. Grevi, «Nemo tenetur» cit., p. 33.<br />
( 209 ) La citazione di Grevi ricalca in realtà le parole con cui il ministro Finocchiaro-<br />
Aprile accompagnò l’entrata in vigore del codice del 1913. Nella sua Relazione, il Guardasigilli<br />
osservava che l’obbligo di avvertire l’imputato della facoltà di non rispondere, presente<br />
già nel progetto del 1905, si proponeva l’effetto di renderlo edotto della sfera dei suoi diritti,<br />
consigliando per converso ai giudici di non indulgere ad insistenze contrarie al rispetto della<br />
libertà di difesa ed evitando che dal silenzio si potessero trarre conseguenze e deduzioni illegittime.<br />
«Ma nel dubbio che una disposizione identica a quella del progetto potesse eventualmente<br />
creare difficoltà alla ricerca delle prove o riuscire pregiudizievole alla dignità del<br />
magistrato, in conformità all’emendamento delle Commissioni parlamentari ho, nell’art. 261,<br />
sostituito l’obbligo di avvertire l’imputato che, se anche non risponda, si procederà oltre nella<br />
istruzione» [Relazione a S.M. il Re dal Ministro Guardasigilli (Finocchiaro-Aprile) presentata<br />
nell’udienza del 27 febbraio 1913 per l’approvazione del Testo definitivo del Codice di procedura<br />
penale, Roma 1913, p. 39].<br />
( 210 ) Vacca, come si è detto, mostrava un netto dissenso contro le proposte di emenda-
SAGGI E OPINIONI<br />
171<br />
La magistratura volle difendere le proprie prerogative, eccessivamente<br />
impensierita da quella paritetica posizione di ruoli riconosciuta al giudice e<br />
all’imputato( 211 ), che rischiava, nell’ipotesi del silenzio, di sbilanciarsi a favore<br />
del secondo. I progetti, imponendo un obbligo in capo al giudice, e<br />
riconoscendo un diritto dell’imputato, partorivano il disastroso effetto, secondo<br />
taluni, di screditare la funzione del giudice, di ridurre l’importanza<br />
dell’interrogatorio e di indurre taluni indagati a credere di essere preferibile<br />
il tacere, anche nel caso in cui vi fossero circostanze favorevoli da addurre<br />
a propria discolpa( 212 ).<br />
Torna con insistenza, negli interventi nei due rami del Parlamento, il<br />
timore che dietro l’art. 302 del progetto si celi la visione d’una magistratura<br />
incapace di utilizzare lo strumento dell’interrogatorio per fini diversi da<br />
quelli di indagine. Serpeggia una certa sfiducia della classe forense nei riguardi<br />
dei giudici, che giustifica le trepidazioni con cui si attende il nuovo<br />
rito. Per secoli strumento di terrore e di arbitrio, riesce difficile ai magistrati<br />
scrollarsi di dosso una triste nomea spesso guadagnata sul campo:<br />
li si ritiene, in altre parole, incapaci di esercitare il loro ufficio verso l’accusato<br />
con temperanza, avvedutezza ed onestà.<br />
Quanti insorsero contro questa percezione svilente dell’operato dei<br />
magistrati, confinati nel ruolo di inquisitori a caccia di ‘colpevoli’ più<br />
che di verità, concordavano con il dovere di astenersi da ogni forma di violenza<br />
diretta ad ottenere delle risposte, ma al tempo stesso chiedevano che<br />
non vi fosse «nessuna dedizione per parte della giustizia. Se si vuole, si avverta<br />
l’accusato, come oggi si fa, che qualora non creda di rispondere, si<br />
procederà oltre nella causa, ciò che è ben diverso dall’avvertirlo che non<br />
ha obbligo di rispondere»( 213 ).<br />
Ci si orientò dunque verso una soluzione di compromesso( 214 ), che<br />
mento della Commissione, scorgendo nella relazione di Mortara una preoccupante enunciazione<br />
del principio di ‘presunzione di colpevolezza’. Egli pertanto ribadiva che non la sfiducia<br />
verso la magistratura aveva dettato la regola di avvertire l’imputato che non ha l’obbligo di rispondere,<br />
ma il carattere stesso dell’interrogatorio, essendo questo un atto di difesa e non d’istruzione.<br />
Al tempo stesso, le radicali soluzioni del progetto del 1911 non lo convincevano,<br />
ritenendo inutile sancire espressamente nella legge il diritto di non rispondere, perché «anche<br />
attualmente l’imputato non ha l’obbligo di rispondere, e nessun mezzo coercitivo può esservi<br />
per farlo parlare» [Commento al codice di procedura penale, parte prima Lavori preparatori, vol.<br />
III Lavori parlamentari (relazioni, discussioni), Torino 1915, pp. 97-8].<br />
( 211 ) Si veda R. De Notaristefani, Commento cit., p. 456.<br />
( 212 ) Così, ad esempio, P. Tuozzi, Il nuovo codice cit., p. 298, il quale riteneva che, in<br />
luogo dell’avvertimento a tacere, nell’art. 261 era stato accolto un principio di segno opposto,<br />
ossia far intendere all’imputato che, malgrado il suo silenzio, si sarebbe proceduto nell’istruttoria,<br />
«ciò che si traduce in invito a parlare e a difendersi».<br />
( 213 ) L. Mortara –U.Aloisi, Spiegazione pratica del codice di procedura penale, parte<br />
I, libri I-II, Torino 1922, p. 532.<br />
( 214 ) «La forma, con la quale la legge consacra il diritto dell’imputato di non rispon-
172<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
mostrasse una sostanziale continuità con la legislazione precedente( 215 ).<br />
L’art. 261 del testo definitivamente approvato così recitava: «il giudice contesta<br />
in forma chiara e precisa all’imputato il fatto che gli è attribuito, gli fa<br />
noti gli indizi esistenti contro di lui e, se non possa derivarne pregiudizio<br />
all’istruzione, gli indica anche le fonti di essi.<br />
Il giudice invita quindi l’imputato a discolparsi e a indicare le prove in<br />
suo favore, avvertendolo che, se anche non risponda, si procederà oltre nell’istruzione».<br />
Lo stesso si disponeva nell’art. 388, relativo all’interrogatorio nella fase<br />
del giudizio( 216 ).<br />
Il dibattito acceso e i continui interventi sul tema in sede di lavori preparatori<br />
non erano però stati vani. La formulazione della norma è solo apparentemente<br />
neutra, e sembra, piuttosto, lasciar filtrare sotto traccia taluni<br />
spazi di libertà. Quanti plaudivano al legame con il passato( 217 ) non si avvedevano<br />
in realtà del cambiamento di prospettiva avvenuto rispetto all’art.<br />
236 del c.p.p. del 1865. Lì il giudice aveva sì l’obbligo d’informare l’impu-<br />
dere, è più, dirò così, riservata, ma non meno chiara di quella usata dai progetti e da altre<br />
leggi. [...] Il silenzio è, pertanto, niente altro che esercizio di un diritto, non contegno irriverente<br />
verso il giudice, non ammissione dell’accusa» (R. De Notaristefani, Commento<br />
cit., pp. 458-9). Cfr. anche A. Bruno, Codice di procedura penale del Regno d’Italia illustrato<br />
con i lavori preparatori, Firenze 1915, p. 241, nt. 1; M. Pinto, Manuale di procedura penale<br />
illustrativo del Nuovo Codice, Milano 1921, pp. 182-4; S. Graziano, La difesa penale cit.,<br />
pp. 823-5.<br />
( 215 ) Era quanto richiesto da Stoppato, il quale nella sua Relazione, richiamando il codice<br />
vigente, sollevava un’obiezione: «non è difficile riconsacrare questo principio nella nuova<br />
procedura disponendo che il giudice contesta il fatto, e invita l’imputato a fare le sue dichiarazioni<br />
e indicare le prove a discolpa, avvertendolo che se ricusi di rispondere la causa<br />
proseguirà egualmente» [Camera dei deputati, Relazione della Commissione sul progetto del<br />
codice di procedura penale per il Regno d’Italia e sul disegno di legge che ne autorizza la pubblicazione,<br />
n. 77, p. 274, in Commento al codice di procedura penale, parte prima Lavori preparatori,<br />
vol. III Lavori parlamentari (relazioni, discussioni), Torino 1915). Anche Ferri esaltava<br />
la scelta del codice vigente e la formula limpida e positiva dell’art. 233 [Commento al<br />
codice di procedura penale, parte prima Lavori preparatori, vol. III Lavori parlamentari (relazioni,<br />
discussioni), Torino 1915, p. 360].<br />
( 216 ) «Adempiuto a quanto è prescritto nel precedente articolo, e qualora in seguito ai<br />
provvedimenti pronunciati il giudizio debba proseguire, chi dirige l’udienza procede all’interrogatorio<br />
dell’imputato. All’uopo gli domanda il nome, il cognome, l’età e altre qualità<br />
personali; indi gli contesta in forma chiara il fatto che gli è attribuito e lo invita a esporre<br />
le discolpe, e tutto ciò che ritenga utile alla propria difesa, avvertendolo che, anche se<br />
non risponda, il dibattimento sarà continuato. All’imputato possono essere rivolte in qualsiasi<br />
momento interrogazioni su singoli fatti o circostanze».<br />
( 217 ) Cfr. ad es. L. Mortara –U.Aloisi, Spiegazione pratica cit., p. 538, dove si insiste<br />
che si tratta di un semplice avvertimento sprovvisto di sanzione, inteso non tanto a riconoscere<br />
un principio di ragione naturale che sarebbe stato peraltro inutile sancire (e cioè<br />
che l’imputato non può essere costretto a rispondere alle domande del giudice), quanto ad<br />
affermare che dal silenzio dell’imputato la legge non trae alcuna conseguenza riguardo alla<br />
sua colpevolezza.
SAGGI E OPINIONI<br />
173<br />
tato sulla prosecuzione dell’istruttoria, ma si trattava di un’avvertenza pronunciata<br />
soltanto dopo che l’imputato si era astenuto dal rispondere. In<br />
altre parole, egli non veniva informato in via preventiva della possibilità<br />
di esercitare tale facoltà e delle conseguenze derivanti: al comportamento<br />
materialmente ed effettivamente assunto faceva seguito l’avvertimento.<br />
Nel c.p.p. del 1913 si rende invece pienamente edotto l’imputato di<br />
tutti i suoi diritti: fra le modalità di estrinsecazione degli stessi figura anche<br />
il ricorso al silenzio.<br />
È come se nel primo caso si ritardasse il più possibile il monito del giudice,<br />
sperando comunque nella parola dell’imputato. Nel nuovo rito egli è<br />
invece avvertito prima, concedendogli di scegliere tra una difesa ‘passiva’ o<br />
‘attiva’: si rinsalda la consapevolezza dell’imputato circa le conseguenze<br />
delle sue tattiche difensive, indicandogli ex ante (e non piú ex post) gli effetti<br />
della sua opzione.<br />
È l’ultimo sussulto di un’Italia liberale, prima che il quadro politico<br />
muti repentinamente e radicalmente. L’avvento del fascismo e dei suoi portati<br />
totalitari travolse l’art. 261 del c.p.p. del 1913, il cui destino era segnato<br />
dalla crescente diffidenza verso ogni forma di rafforzamento dell’autodifesa<br />
dell’imputato. Nel codice Rocco non si ritrova norma analoga: essa sarebbe<br />
risultata in contrasto con la concezione di uno Stato forte, che tendeva ad<br />
affermarsi sull’individuo mediante un apparato repressivo ed intimidatorio.<br />
Mutata la concezione filosofica e politica dei rapporti tra Stato ed individuo,<br />
il codice degli anni Trenta preferì una dizione neutrale( 218 ) e guardò<br />
ai dissensi espressi in fase di progettazione del codice del 1913 per tracciare<br />
le nuove linee-guida sul tema.<br />
Non è solo il silenzio a cadere nell’occhio del ciclone. Si guarda con<br />
sospetto a tutte quelle teorie definite demo-liberali, tese a contrapporre<br />
l’individuo allo Stato e a considerare l’autorità come insidiosa sopraffattrice<br />
del singolo. Sembra quasi di percepire un sospiro di sollievo nella Relazione<br />
del guardasigilli al progetto preliminare, laddove annuncia l’eliminazione<br />
della presunzione di innocenza come pure la generica tendenza a favorire<br />
i delinquenti «frutto di un sentimentalismo aberrante e morboso che<br />
( 218 ) Aloisi considerava un ciclo storico completamente superato quell’‘‘individualismo<br />
ad oltranza’’ che aveva influenzato le legislazioni processuali precedenti. Alla domanda:<br />
«L’imputato può rifiutarsi di rispondere al magistrato che l’interroga?», la risposta «che si<br />
affaccia spontanea alla mente, è nei termini lineari la seguente»: no! «A noi desta sorpresa<br />
che si sia potuto seriamente sostenere che l’imputato abbia viceversa il diritto a non rispondere<br />
al giudice» (U. Aloisi, Manuale pratico di procedura penale, Milano 1932, p. 21). A rincarare<br />
la dose ecco le parole di Foschini: «secondo noi di un diritto di non rispondere o peggio<br />
ancora di mentire non può assolutamente parlarsi», anche perché nel processo penale<br />
l’interrogatorio è principalmente se non esclusivamente un mezzo di prova «e più precisamente<br />
una testimonianza resa dalla parte» (G. Foschini, L’imputato. Studi, Milano 1956,<br />
p. 51 e 53).
174<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
ha tanto indebolito la repressione e favorito il dilagare della criminalità. Il<br />
principio del giusto equilibrio tra le garanzie processuali destinate a salvaguardare<br />
gli interessi dello Stato nella sua funzione repressiva, e quelli spettanti<br />
all’imputato è il criterio a cui costantemente si ispira il presente progetto»(<br />
219 ).<br />
Ancora una volta appare a prima vista impercettibile la differenza di<br />
tecnica legislativa intercorrente tra i due testi in tema di silenzio. Un’attenta<br />
analisi e una comparazione della lettera della legge rivela invece appieno le<br />
modificazioni intervenute, le quali risultano tanto più significative quanto<br />
più evidenziano e dimostrano lo stretto rapporto (mai sufficientemente sottolineato)<br />
intercorrente tra politica e diritto.<br />
L’art. 367 2º comma del codice del 1930, erede non ultimo di un<br />
lungo cammino, contemplava la mera annotazione nel processo verbale<br />
del rifiuto dell’imputato a rispondere e la relativa prosecuzione dell’istruttoria,<br />
non preceduta però da nessun avvertimento da parte del giudice(<br />
220 ).<br />
Non si trattava solo di una semplice mancanza. Era un’assenza gravida<br />
di significato( 221 ). Lo testimoniano inequivocamente i lavori preparatori,<br />
che più e più volte insistono sul fatto che sul giudice non debba gravare<br />
alcun obbligo di ammonimento: obbligo dannoso e disdicevole perché<br />
metteva al riparo gli indagati a scapito della giustizia, dando prevalenza<br />
ai loro interessi particolari e non a quelli superiori dello Stato( 222 ).<br />
( 219 ) Relazione del Guardasigilli al Progetto preliminare di un nuovo Codice di procedura<br />
penale, inLavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, vol. VIII,<br />
Roma 1930, p. 7.<br />
( 220 ) L’art. 367 stabiliva che il giudice invitava l’imputato a discolparsi e ad indicare le<br />
prove a suo favore. Se l’imputato si rifiutava di rispondere, ne era fatta menzione nel processo<br />
verbale e si procedeva oltre nell’istruzione. Sul punto V. Manzini, Trattato di diritto processuale<br />
penale italiano, 6ª ed., vol. IV, Torino 1972, p. 204. Sabatini evidenzia che, allo scopo<br />
di lasciare libera la difesa all’imputato, egli poteva rispondere o tacere, senza che il silenzio<br />
fosse equiparato alla confessione, ma limitandosi il giudice alla semplice menzione,<br />
procedendo oltre nell’istruzione (G. Sabatini, Principi cit., pp. 374-5). Identico precetto<br />
era contemplato nell’art. 368 del progetto definitivo (Lavori preparatori del codice penale e<br />
del codice di procedura penale, vol. X: Progetto definitivo di un nuovo codice di procedura penale<br />
con la relazione del guardasigilli on. Alfredo Rocco, Roma 1930, p. 239).<br />
( 221 ) Una lettura ‘positiva’ di questo articolo è invece svolta da E. Massari, Il processo<br />
penale nella nuova legislazione italiana, Napoli 1934, p. 138, in cui si afferma che l’art. 367, a<br />
differenza di quanto disposto dal c.p.c. per l’interrogatorio delle parti, riconosceva in modo<br />
esplicito all’imputato la facoltà di non rispondere in merito all’imputazione, senza che la legge<br />
riconnettesse a tale reticenza alcuna conseguenza di disfavore.<br />
( 222 ) Esprime una posizione diversa Carlotta Conti, la quale ritiene che non sia riconducibile<br />
al codice del 1930 un apprezzabile arretramento della tutela del diritto di difesa rispetto<br />
all’età liberale. L’autrice rileva come, al di là delle proclamazioni di bandiera, il regime<br />
giuridico riservato all’imputato fosse grosso modo equivalente a quello previsto nel codice<br />
del 1913. Ritengo però che, a prescindere dalla singola norma, siano i lavori preparatori a
SAGGI E OPINIONI<br />
175<br />
Il legislatore del 1913 venne sospettato d’aver voluto agevolare gli imputati,<br />
d’averli istigati a tenere un comportamento contrario al diritto, di<br />
aver tutelato oltre misura chi, spontaneamente, aveva deciso di porsi al<br />
di fuori della legalità( 223 ).<br />
Ancora una volta la magistratura, attraverso le sue osservazioni, ribadisce<br />
la propria contrarietà a quanto stabilito nel codice previgente e<br />
plaude alla soppressione dell’avvertimento realizzata dal testo del Trenta,<br />
mostrando una sostanziale coerenza e fedeltà alla difesa del proprio ruolo<br />
e della propria dignità( 224 ).<br />
fornire una valida chiave di lettura della scelta compiuta dal legislatore fascista. Per la posizione<br />
qui indicata rinvio a C. Conti, L’imputato cit., p. 15.<br />
( 223 ) La relazione del Guardasigilli al Progetto preliminare è a dir poco illuminante sull’ideologia<br />
ispiratrice del codice Rocco. Ribadito che si mantiene all’interrogatorio il carattere<br />
di mezzo di difesa, si precisa la necessità della soppressione dell’obbligo di avvertimento,<br />
imposto al giudice dal c.p.p. del 1913. «Questo monito è superfluo, se con esso si vuol dire<br />
che il silenzio dell’imputato non impedisce il corso dell’istruzione; è dannoso e disdicevole,<br />
se con esso si vuole avvertire l’imputato della facoltà che ha di tacere. Non si tratta di un<br />
interesse legittimo dell’imputato, che, per dovere di lealtà e di obiettività, convenga fargli<br />
presente ad opera del giudice; ma di un interesse che per se stesso contrasta con quello della<br />
giustizia (e non precisamente con quello dell’accusa; non si tratta di un rifiuto conforme al<br />
diritto, ma di un rifiuto contrario al diritto, che tuttavia non dà luogo all’applicazione di sanzioni,<br />
perché data la particolare condizione dell’imputato e il principio nemo tenetur se detegere,<br />
si ritiene equo lasciare impunito, a differenza di ciò che avveniva in parecchie legislazioni<br />
del tempo intermedio» (Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura<br />
penale, vol. VIII: Progetto preliminare di un nuovo codice di procedura penale con la relazione<br />
del guardasigilli on. Alfredo Rocco: Relazione, Roma 1929, capo IX, p. 71). Cfr. F. P. Gabrielli,<br />
voce Interrogatorio (Diritto processuale penale) ,inNuovo Digesto Italiano, vol.<br />
XVII, Torino 1938, p. 81, § 6 e anche in Novissimo Digesto Italiano, vol. VIII, Torino<br />
1962, p. 923, § 6.<br />
( 224 ) A differenza della magistratura, le Università mostravano rammarico per la soluzione<br />
normativa adottata dal codice. L’Ateneo di Pisa, ad es., rilevando che l’interrogatorio si<br />
svolgeva prevalentemente nell’interesse dell’imputato, torna ad abbracciare posizioni quasi<br />
da giusnaturalismo moderno: precisando che la mancata risposta alle domande non è comportamento<br />
penalmente reprensibile, si richiama l’idea che l’imputato agisca per un naturale<br />
impulso di salvezza. L’avvertimento contemplato dall’art. 261 del c.p.p. del 1913 era pertanto<br />
un utile strumento difensivo, che ora, nella stesura del nuovo testo, viene a mancare (Lavori<br />
preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, vol. IX osservazioni e proposte<br />
sul progetto preliminare di un nuovo codice di procedura penale, parte III, articoli 22-<br />
407, Roma 1930, capo IX, p. 395). Di parere contrario il Sindacato degli avvocati di Gerace<br />
Marina («e ben fu soppresso l’inutile monito all’imputato , che ove non voglia rispondere,<br />
che si procede oltre»: ivi, p. 395), della Sezione Corte d’Appello di Potenza (ivi, p. 396), della<br />
Commissione Reale Avvocati di Torino («il capoverso dell’art. 366 ha emendato la meno<br />
felice formula del capoverso dell’articolo 261 del Codice di procedura penale vigente. Un<br />
quasi invito indiretto del giudice all’imputato a non rispondere non potrebbe approvarsi.<br />
Che malgrado il rifiuto di rispondere dell’imputato si procedere nell’istruzione è disposizione<br />
congrua e sufficiente»: ivi, p. 396), la Commissione Reale Avvocati e Sindacato Avvocati e<br />
Procuratori di Trieste (che reputa «illogico, superfluo e disdicevole» l’obbligo di avvertimento:<br />
ivi, p. 396), le Commissioni Reali Avvocati e Procuratori di Vercelli (che denunciava da
176<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
La lenta e faticosa parabola evolutiva subisce, com’è fisiologico, un arresto<br />
e si è risucchiati nel vortice imperioso di concezioni che sembrano destinate<br />
a morire. Non si giunge ad adottare misure sanzionatorie di fronte<br />
all’imputato reticente (ed era questa l’unica concessione), ma neppure ci si<br />
preoccupa di renderlo edotto del proprio destino.<br />
Il cerchio si salda e si chiude. Si torna alle premesse di partenza, a<br />
quelli che parevano bagliori di epoche remote: si rifugge l’estremo di configurare<br />
in capo all’imputato l’obbligo di dire la verità, ma la libera scelta di<br />
tacere arma la mano del giudice, finendo per costituire un indizio di colpevolezza(<br />
225 ). Il silenzio non viene meccanicamente equiparato alla confessione,<br />
ma certo va a rafforzare, avvalorandoli, un insieme di indizi da soli<br />
insufficienti a produrre una ragionevole certezza di responsabilità. Cur<br />
tacet si insons? L’interrogativo settecentesco risuona imperioso: la reticenza<br />
dell’interrogato, che si rifiuta di essere collaboratore di giustizia, può risultare<br />
decisiva nel convincere il giudice a pronunciare una sentenza di condanna.<br />
Siamo al quae singula non prosunt collecta iuvant di inquisitoria<br />
memoria? Senza raggiungere tali estremi è innegabile l’esistenza di un inestricabile<br />
rapporto tra calcolo degli indizi e libera valutazione (o arbitrariamento)<br />
del giudice.<br />
Il resto è storia recente, fatta di una Costituzione repubblicana che<br />
mette fine ad ogni ambiguità sancendo all’art. 27 la presunzione di non colpevolezza<br />
dell’imputato fino a condanna definitiva (una presunzione che il<br />
codice del Trenta, ma soprattutto la dottrina che su di esso si era sviluppata,<br />
aveva fatto più volte vacillare) e all’art. 24 l’inviolabilità del diritto alla<br />
difesa.<br />
5. La storia infinita. – La parola dell’imputato ha la massima importanza<br />
per l’accertamento della verità, che è la ragione del processo, ieri<br />
come oggi. Nel tempo è però mutata la rilevanza ad essa attribuita dalla<br />
legge: da principale strumento accusatorio è divenuta uno dei possibili e<br />
solo eventuali mezzi probatori. È maturata lentamente e consapevolmente<br />
l’idea che essere imputati non equivalga ad essere colpevoli. L’interesse<br />
della persona sottoposta a giudizio può coincidere con l’interesse sociale<br />
un lato l’inutilità dell’obbligo in questione ai fini di render piú serio l’interrogatorio, dall’altro<br />
pericoloso in quanto «sollecitava la furberia del delinquente», indotto a sperare nell’impunità<br />
o quanto meno nell’intralcio dell’istruttoria: ivi, p. 397).<br />
( 225 ) Donà, sotto l’egida del codice del 1913, aveva riconosciuto in capo all’imputato la<br />
libertà assoluta al silenzio, salva la facoltà del giudice di ricavarne qualche indizio di verità.<br />
Precisava tuttavia che tale indizio poteva essere tanto di colpevolezza quanto di innocenza,<br />
richiamando addirittura a sostegno di quest’ultima argomentazione l’atteggiamento di Cristo<br />
che, accusato di sedizione e di bestemmia dai sacerdoti e dal popolo, nihil respondit, benché<br />
redarguito da Pilato: non audis quanta adversum te dicunt testimonia? (G. Donà, Il silenzio<br />
cit., pp. 64-5).
SAGGI E OPINIONI<br />
177<br />
a che egli manifesti la verità, oppure opporsi ad ogni comunicazione che,<br />
accertando la verità, ne determini la condanna.<br />
In uno Stato libero, di diritto, fino a che punto deve giungere la protezione<br />
legale di tale interesse sociale e fino a che punto l’uso dei mezzi necessari<br />
a soddisfarlo deve essere autorizzato? Questo è l’interrogativo che<br />
sintetizza tre secoli di storia qui ripercorsi. Da essi emerge, a mio avviso<br />
con evidenza, che la linea di confine tracciata dal diritto tra protezione<br />
degli interessi sociali e individuali è questione politica per eccellenza. E<br />
la risposta fornita dalla legge è nel tempo dipesa dalla fisionomia assunta<br />
volta per volta dal procedimento penale.<br />
Nella differente posizione giuridica dell’imputato nel processo inquisitorio<br />
e accusatorio si trovano le ragioni del diverso grado di tutela concessa<br />
al silenzio( 226 ). Nella configurazione del regime e dell’ideologia sottesa al<br />
clima politico si trovano invece le ragioni di una diversa inflessione del rapporto<br />
diritto-potere e, conseguentemente, della relazione fra imputato e<br />
magistratura, tra mezzi di prova e strumenti di autodifesa riconosciuti all’individuo.<br />
Da un imputato obbligato con ogni mezzo a collaborare per<br />
consentire all’accusa (prevalente nella dialettica processuale) di conseguire<br />
la finalità di ‘costruire’ colpevoli ed evitare l’impunità del crimine, si è passati<br />
ad una concezione dell’interrogatorio come strumento di difesa, da utilizzare<br />
con le modalità più ampie possibili per garantire le ragioni del singolo.<br />
In altre parole, il ius tacendi si presenta quale banco di prova per cogliere<br />
il momento formativo di un processo penale ‘moderno’. La tutela<br />
della libertà morale dell’imputato ha rappresentato per lungo tempo l’obiettivo<br />
d’una cultura volta per volta definitasi illuministica, liberale, garantistica.<br />
La concezione del silenzio quale affronto agli interessi superiori di giustizia<br />
o semplice alternativa tra le tante possibili armi di discolpa dell’indagato<br />
risiede nella sottile trama intrecciata da questi elementi. Ciascuno di<br />
essi apre scorci per ulteriori riflessioni. Nei paragrafi che precedono si è<br />
sfiorato il legame tra obbligo di dire il vero, sancito in capo all’imputato<br />
mediante il giuramento, e silenzio. Ulteriori profili di interesse derivano<br />
dai rapporti tra silenzio e mendacio, ossia tra diritto di non rispondere e<br />
quello di mentire quale espressione di difesa; tra contumacia e diritto di<br />
parola, tra riconoscimento di un diritto totale o solo parziale, meglio ancora<br />
selettivo, tra esercizio del silenzio nel solo interrogatorio o anche in quello<br />
spazio procedimentale( 227 ) rappresentato dall’istruttoria in cui possono es-<br />
( 226 ) Secondo Amodio il silenzio ha conosciuto nel tempo tre fasi distinte: da diritto<br />
negato a comportamento processuale tollerato a diritto garantito (E. Amodio, Diritto al silenzio<br />
cit., p. 409).<br />
( 227 ) L’espressione è diE.Amodio, Diritto al silenzio cit., p. 416.
178<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
servi dichiarazioni spontanee rese alla polizia. Per non parlare, da ultimo,<br />
delle conseguenze discendenti dall’omissione dell’avvertimento nelle diverse<br />
fasi o nei diversi stadi del giudizio. Non è questa, tuttavia, la sede<br />
adatta a simili approfondimenti.<br />
Fin qui le pagine già scritte dalla storia. Si tratta ora di orientare gli<br />
sviluppi futuri del diritto dopo le modifiche introdotte dalla riforma del<br />
2001. Inutile negare che siamo in una fase delicata, anche per quella sotterranea<br />
erosione di valori che minano, nel rispetto formale della legalità, alcuni<br />
diritti fino ad oggi garantiti.<br />
Il presente rischia di contenere semi pericolosi per il futuro. Il codice<br />
attuale, come si è detto, conosce la figura dell’imputato-testimone: imputato<br />
riguardo a sé, testimone per ciò che concerne la responsabilità altrui.<br />
Vi è chi ha ravvisato in questo principio, così come nell’esaltazione del<br />
contraddittorio, il ritorno di un passato fatto di ricerca della parola dell’imputato,<br />
nella veste di dichiarante, ponendo di nuovo al centro del rito l’interrogatorio<br />
finalizzato ad una non dispersione del sapere giuridico. Si relega<br />
in una posizione sbiadita, quasi di irrilevante significato, la mancanza<br />
d’interesse del terzo all’uso probatorio di tali dichiarazioni di responsabilità,<br />
con conseguente innesco d’un altro conflitto tra interessi individuali<br />
e tra questi ultimi e l’interesse alla ricerca della verità giudiziale. Cosí come<br />
risulta complesso – lo si accennava all’inizio del presente saggio – discernere<br />
all’interno di ogni affermazione tra ciò che concerne il fatto proprio<br />
e ciò che è relativo al fatto altrui.<br />
Per non parlare del tentativo d’introdurre la figura dell’imputato testimone<br />
anche per ciò che concerne il fatto proprio, con l’inevitabile conseguenza<br />
di poter perseguire per falso il dichiarante-teste. Davvero questo segnerebbe<br />
la fine di ogni tutela del silenzio, destinato a divenire, di fatto,<br />
lettera morta pur se ‘legalisticamente’ accolto e sancito.<br />
È allora più che mai necessario che la penna con cui saranno tracciate<br />
le strade future sia intinta anche nell’inchiostro dell’esperienza passata: lì<br />
risiedono la nostra conoscenza e il già vissuto, che occorre riconsiderare<br />
per misurare con equilibrio i potenziali effetti delle nostre scelte attuali.<br />
A volte il futuro non è una mera incognita: la chiave di volta può essere<br />
alle nostre spalle.<br />
Per questo è necessario che ‘ieri e oggi’ si incontrino: il passato deve<br />
diventare «presente effettivo perché è già presente potenziale, radice di<br />
esso e fondazione di esso»( 228 ).<br />
( 228 ) P. Grossi, Assolutismo giuridico e diritto penale (a proposito di recenti appuntamenti<br />
‘carrariani’ e della ristampa della ‘Parte generale’ del ‘Programma del corso di diritto criminale’<br />
di Francesco Carrara), inQuaderni fiorentini, 24 (1995), p. 471. Da ultimo, la massima<br />
si trova ripresa ed arricchita nello scritto dello stesso A. Crisi della legge e processi di globalizzazione,<br />
inQuaderni del Dottorato di ricerca in Diritto ed Economia, Università degli
SAGGI E OPINIONI<br />
179<br />
E così, appropriandomi delle parole di un nostro indimenticato maestro,<br />
occorre tessere la tela di un incessante dialogo e raffronto con gli studiosi<br />
di diritto vigente. «È davvero giunto il momento che lo storico guardi<br />
al [...] giurista di oggi più che mai stracarico di responsabilità. Che lo<br />
guardi e gli dica: parliamo, io sono la tua memoria»( 229 ).<br />
Loredana Garlati<br />
Studi di Napoli Federico II, Scuola Superiore per l’Alta Formazione Universitaria, Prolusioni,<br />
Napoli 2004, in partic. pp. 1-10, dove, richiamando l’esperienza di Cesare Vivante, si parla<br />
della storia del diritto come di «una vita interamente vissuta da porre in rapporto dialettico<br />
con la vita in divenire, il già vissuto come arricchimento del vivente» (p. 5).<br />
( 229 ) A. Cavanna, Storia e scienza cit., p. CCC.
SAGGI E OPINIONI<br />
NEMICI E CRIMINALI. LE LOGICHE DEL CONTROLLO<br />
181<br />
Sommario: 1. Considerazioni introduttive. – 2. Sicurezza cognitiva e difesa sociale. – 3. Il<br />
paradosso del Täterstrafrecht. – 4. Dinamiche di esclusione. – 5. La risposta italiana a<br />
Ground Zero. – 6. La ragion di Stato ed i suoi ‘‘nemici’’. – 7. Malati, nemici e criminali.<br />
Ovvero, della pena come stigma. – 8. La diversità del migrante. Diritto penale del nemico<br />
e legislazione in materia di immigrazione.<br />
1. Il concetto di ‘Feindstrafrecht’ – cui ricorre Günther Jakobs, contrapponendolo<br />
all’altro, ‘Bürgerstrafrecht’, che indica il ‘tradizionale’ diritto<br />
penale «del cittadino» – è per sua natura suscettibile di molteplici implicazioni.<br />
Individua un codice binario, nemico/cittadino, che riproduce e trasforma,<br />
ribadisce e revoca ad un tempo, il codice politico dell’amico/nemico.<br />
Più degli altri, il sistema penale ‘‘custodisce metamorfosi’’( 1 ) e conserva<br />
strati di senso densi di significato. Quel codice segna l’ultima fase<br />
di uno scivolamento semantico che ha visto i sistemi politici lavorare con<br />
differenziazioni ‘‘paradossali’’: amico/nemico, inimicus/hostis (nemico interno/nemico<br />
esterno), nemici/criminali. In questa complessa semantica<br />
storica il criminale segna l’incorporazione (Verkörperung) e la ‘‘paradossale’’<br />
neutralizzazione della figura del nemico all’interno del sistema penale.<br />
Ne conserva paradossalmente l’origine e ne sancisce la differenza. Ma rimane<br />
gioco ‘‘paradossale’’, in cui ogni Entparadoxierung mostra un volto<br />
doppio: revoca e conferma, ribadisce e smentisce ad un tempo. Inseguirlo<br />
in queste oscillazioni significa riattraversare dimensioni inattese della questione<br />
della penalità, oltre che gli aspetti più profondi della sua communitas.<br />
Se la formula di Jakobs ci riporta alla coppia oppositiva classica, che<br />
compare già con Antigone e Socrate, la sua cornice teorica è certamente<br />
più complessa. Fa riferimento da un lato al funzionalismo sistemico di<br />
ascendenza luhmanniana – integrato da richiami alle concezioni neohegeliane<br />
della pena ed alle più recenti teorie del labelling approach e del «chivo<br />
( 1 ) E. Canetti, Masse und Macht, Hamburg, 1960.
182<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
expiatorio» – e, dall’altro riproduce il recente ampio dibattito sulla questione<br />
della pena e della legittimazione del diritto penale nel Rechtsstaat.<br />
Con l’espressione «Feindstrafrecht» si intende infatti riferirsi a quella<br />
«terza velocità», attualmente caratterizzante taluni settori dei sistemi penali<br />
europei e nordamericani, in particolare per quanto concerne la legislazione<br />
antiterroristica (indubbiamente segnata da Ground Zero), il contrasto al fenomeno<br />
della criminalità organizzata lato sensu intesa, la disciplina dell’immigrazione,<br />
nonché la repressione della delinquenza a sfondo sessuale, con<br />
particolare riferimento alla disciplina dello sfruttamento sessuale del minore(<br />
2 ). Si osserva in dottrina come tali settori della legislazione penale<br />
siano caratterizzati non soltanto da una sensibile Vorfeldkriminalisierung<br />
che determina in primo luogo, in nome di una tutela fortemente anticipata<br />
e di una concezione ontologista del bene giuridico di riferimento, la netta<br />
prevalenza del paradigma del reato di pericolo indiretto e di quello di pericolo<br />
presunto, così determinando l’autonoma incriminazione sinanche di<br />
condotte astrattamente inidonee ad attingere la soglia di immanente, generelle<br />
Gefährlichkeit.<br />
Questa tendenza all’anticipazione dell’intervento penale – caratteristica<br />
peraltro anche di altri settori dei sistemi penali nella postmoderna società<br />
del rischio – si combina pericolosamente, con una sensibile attenuazione<br />
delle garanzie individuali di ascendenza illuministico-liberale, sul<br />
piano non soltanto del trattamento sanzionatorio( 3 ) e dell’accertamento<br />
processuale( 4 ), ma altresì della stessa struttura delle fattispecie incriminatrici,<br />
sovente costruite in chiave soggettivamente pregnante, di talché il di-<br />
( 2 ) La metafora del diritto penale ‘a tre velocità’ si deve a J. M. Silva Sánchez, La<br />
expansión del derecho penal. Aspectos de la política criminal en las sociedades postindustriales,<br />
2ª ed., Madrid, 2001, 163 ss.; v. anche F. Muñoz Conde, Edmund Mezger y el Dereche penal<br />
de su tiempo - Estudios sobre el Derecho penal en el Nacionalsocialismo. Valencia, 2002.<br />
( 3 ) Prevalente appare infatti il ricorso alla pena detentiva, caratterizzata da un lato da<br />
un notevole inasprimento dei livelli di pena edittalmente comminati, e, dall’altro, da un assoluto<br />
rigore repressivo sul piano delle modalità dell’esecuzione, che giustamente ha indotto<br />
Eugenio Raùl Zaffaroni, Buscando al enemigo: de Satàn al derecho penal cool, trad. it. a<br />
cura di F. Resta, in Scritti in onore di Giorgio Marinucci, di prossima pubblicazione, p. 20<br />
(del dattiloscritto), a parlare di ritorno «de la inocuizaciòn y de la neytralizaciòn». Sul punto,<br />
V. anche M. Cancio Melia, JpD, 2002, n. 44, 19 ss.; P. Faraldo Cabana, Un derecho<br />
penal para los integrantes de organizaciones criminales. La Ley Orgànica 7/2003, de 30 de junio,<br />
de medidas de reforma para el cumplimiento íntegro y efectivo de las penas, inId.-J.A.<br />
Brandaris García-L.M. Puente Aba, Nuevos retos del derecho penal en la era de la globalización,<br />
Valencia, 2002, 299 ss.; nonché, nella letteratura italiana, v., profili più generali,<br />
M. Donini, Il volto attuale dell’illecito penale. La democrazia penale tra differenziazione e<br />
sussidiarietà, Milano, 2004, 53 ss..<br />
( 4 ) In violazione della presunzione di innocenza dell’imputato, taluni sistemi penali –<br />
ed in particolare quello spagnolo, nel settore della repressione della criminalità organizzata e<br />
delle associazioni sovversive a finalità terroristica, di cui alla Ley Organica 5/2003 – prevedono<br />
numerose ipotesi di inversione dell’onus probandi, a carico dell’imputato.
SAGGI E OPINIONI<br />
183<br />
svalore risulti interamente assorbito nella proiezione finalistica dell’agente.<br />
Ne deriva una soggettivizzazione dell’illecito, secondo gli stilemi del Täter-<br />
(o del Gesinnung-)Strafrecht, sino a porre talora in crisi il postulato del «cogitationis<br />
poenam nemo patitur».<br />
Invero, il senso di insicurezza collettivo (Unsichereitsgefühl) che anima<br />
l’attuale ‘società del rischio’( 5 ) determina il prevalere di concezioni tecnocratiche(<br />
6 ) dei fini della pena, tali da volgerne la funzione generalpreventiva<br />
positiva (o integratrice) nel presupposto per il risorgere di orientamenti<br />
politico-criminali tesi alla segregazione ed alla neutralizzazione del reo il<br />
quale, per il solo fatto di avere destabilizzato – con la condotta criminosa<br />
e con la violazione del ruolo assegnatogli dalla struttura sociale – le aspettative<br />
normative condivise, si sarebbe posto in ‘guerra’ contro lo Stato,<br />
autoescludendosi da esso e negando il proprio carattere di persona, la propria<br />
stessa esistenza come cittadino. Sarebbe lo stesso reo (scil. l’high risk<br />
offender, macchiatosi dei delitti cui si accennava sopra), a sancire, nel momento<br />
in cui pone in essere la condotta criminosa, la propria autoesclusione<br />
dalla comunità giuridica (e, prima ancora, sociale), legittimando così<br />
lo Stato ad adottare nei propri confronti misure tese alla segregazione, all’innocuizzazione<br />
ed alla più strenua difesa sociale, in nome dell’esigenza di<br />
ristabilire, nella coscienza collettiva, la percezione della vigenza (nonostante<br />
il reato) della sua stessa identità normativa( 7 ).<br />
Il Feindstrafrecht si oppone dunque al Bürgerstrafrecht nella misura in<br />
cui il nemico, mediante il suo comportamento, la sua occupazione od il suo<br />
vincolo ad un’organizzazione criminale, si sia autoescluso volontariamente<br />
ed in forma permanente (non accidentale, dunque, e per la commissione di<br />
un crimine isolato) dal sistema giuridico. Il diritto penale del resto, dinanzi<br />
ad una realtà caratterizzata dalla presenza di nuovi tipi di illecito, amplia la<br />
sua sfera di ingerenza, con una sensibile e parallela riduzione delle garanzie<br />
formali e sostanziali, dal momento che la societá intraprende esattamente<br />
( 5 ) U. Beck, Risikogesellschaft, Berlin, 1996. In arg., si rinvia al raffinato saggio di L.<br />
Stortoni, Angoscia tecnologica ed esorcismo penale, in AA.VV., Il rischio da ignoto tecnologico,<br />
Milano, 2002, 85 ss., nonché aZ. Bauman, Flüchtige Moderne, Frankfurt am Main,<br />
2003. Sul concetto di sicurezza v. Baratta, Bedürfnisse als Grundlage von Menschenrechte,<br />
in Festschrift fürGünther Ellscheid zum 65. Geburstag, Baden Baden, 1999, 9-18; nonché Id.,<br />
SEguridad, inId., Criminología y sistema penal. Comiplación in memoriam, Buenos Aires,<br />
2004, 199 ss.; F. Stella, Giustizia e modernità, Milano, 2001, in particolare 137 ss.; C.<br />
Prittwitz, Strafrecht und Risiko, Frankfurt am Main, 1993, 183 ss.; Id., O Direito Penal<br />
entre Direito penal do risco e Direito Penal do Inimigo: tendências atuais em direito penal e<br />
política criminal, inRev. Brs. Ciênc. Crim., 2004, n. 47, 31 ss.; B. Hudson, Justice in the risk<br />
society, London-Thousand Oaks-New Delhi, 2003, spec. 70 ss..<br />
( 6 ) A. Baratta, Funzioni strumentali e funzioni simboliche del diritto penale, inScritti<br />
in memoria di Giovanni Tarello, II, Milano, 1990, 22 ss..<br />
( 7 ) G. Jakobs, Introducciòn: la pena como contradicciòn o como aseguramiento, inG.<br />
Jakobs-M. Cancio Melià, Derecho penal del enemigo, 2003, Madrid, 21 ss..
184<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
una lotta – che si avvale di politiche ispirate agli slogans di Law and Order,<br />
Zero tolerance, Broken Windows – contro un nemico del sistema.<br />
2. La garanzia della securité contro un nemico costante diviene l’imperativo<br />
categorico dello Stato attuale, la legislazione emergenziale assurgendo<br />
a paradigma del sistema penale, indissolubilmente legato al mito<br />
durkheimiano di una coscienza sociale ‘‘che integra tutti i membri di una<br />
società, in particolare nel momento della violazione delle norme’’( 8 ).<br />
Lo sviluppo tecnologico e la conseguente moltiplicazione delle fonti di<br />
rischio innesca una spirale in cui il rischio di vittimizzazione è socialmente<br />
percepito come costante pericolo comune, non circoscritto a contesti specifici<br />
e marginali, ma suscettibile di incidere su chiunque, imponendosi<br />
pertanto quale problema di cui le istituzioni statuali must take care. La vittima<br />
ne diviene l’emblema, quale soggetto che si fa carico del costo sociale<br />
di un rischio collettivo, non già perché deterministicamente predisposto al<br />
crimine, per ragioni individuali e contingenti, ma solo in quanto membro<br />
di un contesto sociale ad alto tasso di devianza, ove ciascuno è vittima potenziale:<br />
il modello teoretico del deficit si volge in quello delle opportunità.<br />
Il primo – descrivendo il fenomeno penale come relazione tra soggetti<br />
‘deboli’ (più che per struttura esistenziale, per contingenza storico-situazionale)<br />
– ascrive alla vittima, sulla scorta dell’interazionismo simbolico, un deficit<br />
educativo, economico, sociale e di integrazione, da cui deriverebbe una<br />
maggiore esposizione al rischio del crimine. Il paradigma delle opportunità,<br />
valorizzando gli effetti dell’evoluzione in senso tecnocratico della società,<br />
legge nel fenomeno deviante non il riflesso di un deficit sociale, ma il<br />
portato dell’aumento delle opportunità a delinquere, da cui deriverebbe la<br />
diffusione del crimine, emblematicamente di tipo ‘predatorio’( 9 ).<br />
Se la vittima configura un soggetto occasionale, fungibile, il suo rapporto<br />
con il reo perde ogni carattere di predittività, assurgendo a mero<br />
esito contingente dell’interazione sociale. Tuttavia, la vittima è condannata<br />
ad un’ananke paradossale: se nella dinamica politica rappresenta istanze sovente<br />
oggetto di negoziazioni propagandistiche ad alta risonanza( 10 ), nel<br />
contesto della giustizia penale il suo ruolo si riduce ad una marginale comparsa,<br />
perché su quella scena si rappresenta il diverso copione del crimen<br />
( 8 ) A. Baratta, Principi del diritto penale minimo. Per una teoria dei diritti umani come<br />
oggetti e limiti della legge penale, inId. (a cura di), Il diritto penale minimo. La questione<br />
criminale tra riduzionismo e abolizionismo, num. 3, settembre-dicembre 1985, di Dei delitti e<br />
delle pene, 443 ss., e, quivi, 456.<br />
( 9 ) In tal senso, M. Pavarini, Relazione al convegno ‘‘La vittima del reato: questa sconosciuta’’,<br />
Torino, 9 giugno 2001.<br />
( 10 ) Significativo in tal senso il protagonismo associativo delle vittime, quale sviluppo<br />
progressivo di un soggetto collettivo, la cui identità politico-sociale si innesta sulla paradossale<br />
condivisione dell’esperienza dell’aver subito un crimine.
SAGGI E OPINIONI<br />
185<br />
laesae maiestatis; ‘‘alla fine di quella spettacolarizzazione, essa non trarrebbe<br />
mai un utile’’ e neppure, forse, ‘‘un timido applauso’’( 11 ).<br />
Protagonista solo sulla scena politica – ove le si ascrive il ruolo di emblema<br />
di capro espiatorio del fenomeno deviante, in funzione preformativa<br />
del consenso in favore del potere costituito – la vittima è estromessa dall’orizzonte<br />
del processo penale, la cui proiezione finalistica si rivolge alle prospettive<br />
future, del reo e della società, in chiave preventiva (generale e speciale),<br />
quando invece la dimensione retrospettiva del reato subìto, che della<br />
vittima rappresenta l’identità, non può che condannare la stessa allo stigma<br />
del passato. Ora, autorappresentandosi quale forza necessaria alla repressione<br />
della criminalità diffusa, il potere costituito trae la propria (altrimenti<br />
carente) legittimazione dalla strumentalizzazione dell’allarme sociale,<br />
agendo il processo di criminalizzazione quale fattore propulsivo del Koalitionsgebot<br />
dei cittadini a sostegno dello Stato.<br />
Il teleologismo della pena si identifica così nella necessaria rimozione<br />
intrapsichica dell’allarme sociale, consolidando la Rechtsgesinnung, la fiducia<br />
comune in una struttura normativa, rappresentata come esposta alla<br />
costante minaccia del fenomeno criminale( 12 ). Non è che il paradosso su<br />
cui si fonda la pena, indissolubilmente legata al rituale della vendetta (sacrificale<br />
e catartico perché denso di violenza), e dal cui superamento tuttavia<br />
pretende legittimazione.<br />
Dall’asserita tutela funzionale di vittime potenziali trae giustificazione<br />
la pena come emanazione di un’autorità indispensabile alla securité comune,<br />
cui il contratto sociale – ce lo ricorda Hobbes – ha delegato un potere<br />
necessario perché strumentale: il pharmakon, catarsi sacrificale, avvelena<br />
per risanare; annienta e sacralizza, mimetizzando la violenza in un rituale<br />
normativizzato( 13 ). Se il rito della vendetta nasceva per ripristinare<br />
l’ordine violato, e l’espiazione del sacrificio tendeva a placare la vendetta<br />
divina, così l’esercizio monopolistico – istituzionalmente codificato dal sistema<br />
normativo – dello jus puniendi da parte dell’istanza statuale mira a<br />
prevenire la conflittualità endemica delle interazioni sociali.<br />
In tale contesto, la strumentalizzazione politica del rischio di vittimizzazione<br />
induce l’identificazione collettiva nel corpo sociale minacciato dal<br />
criminale-nemico, rispetto al quale la pena canalizza e sublima il bisogno di<br />
vendetta comune( 14 ). Le esperienze britanniche e statunitensi (si pensi al<br />
( 11 ) M. Pavarini, op. ult. cit..<br />
( 12 ) Così E. Morselli, La prevenzione generale integratrice nella moderna prospettiva<br />
retribuzionista, inRiv. it. dir. proc. pen., 1988, 48, muovendo da postulati psicodinamici, descrive<br />
il contenuto teleologico della pena.<br />
( 13 ) E. Resta, La certezza e la speranza. Saggio su diritto e violenza, Roma-Bari, 2ª ed.,<br />
1996.<br />
( 14 ) È l’analisi di R. Girard, La violenza e la politica, Roma, 1980.
186<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
Victims Task Force Report di Reagan) dimostrano come, in un contesto<br />
(quasi) privo di forme di reciprocità, l’identificazione empatica del corpo<br />
sociale con la vittima – assunta ad emblema della necessità di intervento( 15 )<br />
– determini una prospettiva politica simile ad un gioco ‘‘a somma zero: la<br />
vittoria dell’autore di reato significa necessariamente la sconfitta della vittima,<br />
ed essere ‘‘a favore’’ delle vittime significa automaticamente essere inflessibili<br />
con gli autori di reato’’( 16 ).<br />
È un aut-aut tragico, che alla ingovernabilità della complessità sociale<br />
oppone un codice rigidamente binario: la neutralizzazione del criminalenemico<br />
in nome della tutela della società, rappresentata quale vittima (collettiva)<br />
del reato. Poco importa, poi, se questa spirale ritorsiva garantisca<br />
davvero le esigenze dei soggetti in concreto incisi dal reato. La retorica<br />
del controllo, traendo legittimazione dalla logica socialdifensiva della segregazione<br />
punitiva, non può che disinteressarsi della sorte individuale di chi,<br />
per mera contingenza, subisca il reato, da vittima reale. Alla pena non può<br />
così che ascriversi il fine di riaffermare ritorsivamente la Wertordnung violata<br />
dal reato, sublimando il bisogno collettivo di vendetta, ideologicamente<br />
proiettato (non su determinate forme di criminalità, nésulle loro<br />
cause strutturali), ma su stereotipi di devianti-nemici( 17 ).<br />
( 15 ) D. Garland, La cultura del controllo. Crimine e ordine sociale nel mondo contemporaneo,<br />
ed. it. a cura di Ceretti, Milano, 2004, 323.<br />
( 16 ) D. Melossi, Stato, controllo sociale, devianza, Milano, 2002, 225.<br />
( 17 ) Emblema di un’involuzione soggettivistica e sostanzialistica del diritto penale è la<br />
valorizzazione-operata dalla L. 251/2005 – di un paradigma quasi costitutivo (L. Ferrajoli,<br />
Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Roma-Bari, 1989, 512) quale la recidiva, in<br />
chiave peraltro aspecifica ed atemporale. Per effetto di essa si prevede un netto inasprimento<br />
degli aumenti di pena (con conseguente aumento del termine prescrizionale), una pesante<br />
restrizione all’accesso ai benefici penitenziari ed ai permessi premio, l’inammissibilità dell’automatica<br />
sospensione dell’ordine di esecuzione della pena. Nell’ipotesi di recidivi reiterati si<br />
preclude il giudizio di prevalenza delle attenuanti, ed ove trattisi dei delitti di cui all’art. 407,<br />
co. 2, lett. a) c.p.p. (tra cui, delitti in materia di associazione mafiosa, terrorismo, schiavitù,<br />
sfruttamento sessuale dei minori, violenza sessuale, stupefacenti) si elimina la possibilità di<br />
ricondurre la concessione delle attenuanti generiche alla valutazione discrezionale del giudice,<br />
prescrivendosi peraltro per gli autori dei medesimi reati (oltre che per i plurirecidivi, sul<br />
modello del ‘Three strikes and you’re out’) l’obbligatorietà dell’aumento di pena per la recidiva<br />
(in violazione dell’art. 27, co. 3, Cost., non potendo peraltro il giudice in tali casi valutare<br />
i criteri di cui ai commi primo, n. 3 e secondo, dell’art. 133, ai fini della determinazione<br />
della pena. Si conferma così un regime speciale (di Zero tolerance) per tipi di autore, per i<br />
quali la pena (necessariamente afflittiva e tendenzialmente carceraria, viste le restrizioni previste<br />
all’accesso alle misure alternative), disancorata dal parametro della Tatschuld, non rappresenta<br />
che uno stigma indelebile (si preclude la concedibilità della detenzione domiciliare<br />
all’ultrasettantenne plurirecidivo), privo di ogni finalità risocializzante. Va peraltro aggiunto<br />
che la categoria di ‘autori’ delineata dalla legge in parola, è nella maggior parte dei casi ulteriormente<br />
penalizzata, in fase esecutiva, dall’assoggettamento (fortemente discriminante) al<br />
regime di sorveglianza particolare di cui all’art. 41 bis ord. pen.. Ne consegue non soltanto<br />
una deformazione sostanzialistica e soggettivistica di tutte le componenti del fenomeno pe-
SAGGI E OPINIONI<br />
187<br />
3. Nella logica-orientata in chiave preventiva-del Feindstrafercht il<br />
nemico è colui che, nel suo comportamento (delinquenza sessuale, abituale,<br />
recidiva), occupazione professionale (delinquenza economica, organizzata,<br />
traffico di stupefacenti) od attraverso il vincolo ad un’organizzazione<br />
(terrorismo, delinquenza organizzata, od ancora mediante l’antico<br />
complotto d’assassinio) abbia, in forma presuntivamente duratura, rifiutato<br />
volontariamente lo status di cittadino (Bürger) per autoconvertirsi in nemico<br />
(Feind) del sistema. Per ció solo lo Stato si autolegittimerebbe, ad avviso<br />
di Jakobs, ad offrire al resto dei cittadini una protezione rafforzata da<br />
coloro che abbiano violato le aspettative normative su di loro riposte, ammettendosi<br />
l’applicazione di misure di sicurezza (molte delle quali in forma<br />
apparente di pene) in uno stadio di molto precedente alla realizzazione<br />
della condotta tipica, in ragione della pericolosità propria del tipo di<br />
autore.<br />
Riemerge, sebbene in forma diversa, il paradigma del diritto penale<br />
d’autore, che nella logica del. § 20 a) alte Fass. StGB, che ricorreva alle misure<br />
di sicurezza in funzione segregativa e neutralizzante rispetto al soggetto<br />
ritenuto pericoloso, sulla scorta dei postulati della criminologia positivista<br />
del XIX secolo.<br />
Ora, i caratteri del Feindstrafrecht sono: 1) ampio avanzamento della<br />
soglia di punibilità e conseguente mutamento di paradigma, dalla prospettiva<br />
del fatto commesso a quello che si va a realizzare( 18 ); (2) assenza di<br />
una riduzione di pena proporzionale a detta anticipazione( 19 ); (3) pas-<br />
nale (reato, responsabilità, pena), ma altresì una connotazione in senso esemplare della condanna<br />
ed un’ascrizione alla pena di contenuti disciplinari e segregativi. Va aggiunto che la<br />
legge in esame configura, di contro a questa categoria di Feindstrafrecht, un regime di irragionevole<br />
mitezza, ai limiti dell’indulgenzialismo (se non dell’impunità), nei confronti dei<br />
white collar crimes, o comunque dei soggetti appartenenti a classi privilegiate, che potranno<br />
difendersi dal (non già semplicemente nel) processo, beneficiando degli effetti connessi alla<br />
prevista parificazione del regime della sospensione a quello dell’interruzione della prescrizione,<br />
che incentiva il ricorso a strategie dilatorie. Si introduce altresì un regime di prescrizione<br />
breve, tale da trasformare l’istituto da civile rinuncia alla pretesa punitiva in una sorta di amnistia<br />
permanente. Secondo la logica del Täterstrafrecht, da tali effetti sono eslcusi i recidivi, i<br />
soggetti dichiarati delinquenti abituali o delinquenti o contravventori professionali, ovvero<br />
gli autori dei delitti di cui agli artt. 51, commi 3-bis e3-quater c.p.p. (soggetti a termini prescrizionali<br />
addirittura raddoppiati), per i quali il regime dell’aumento della prescrizione per<br />
interruzione o sospensione è decisamente più rigido.<br />
( 18 ) Sul modello dei reati in materia di formazione di organizzazioni criminali o terroriste<br />
(§ 129 e 129 a) StGB), o di produzione di stupefacenti mediante bande organizzate (§§<br />
30I1e31I1Betäubungsmittelgesetz).<br />
( 19 ) Ad es., la pena per il capo di un’organizzazione terrorista è la stessa di quella prevista<br />
per l’autore di un tentato assassinio, supponendo di applicarvi la riduzione di pena prevista<br />
per il tentativo (§§ 129 a), comma 2, 211 comma 1 e 49 comma 1, n. 1, StGB), superando<br />
nella maggior parte dei casi le pene (ridotte per il tentativo) previste per gli altri delitti<br />
di associazione terrorista.
188<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
saggio dalla legislazione codicistica alla legislazione speciale, significativamente<br />
modulata sui temi della ‘lotta’ contro la delinquenza (di vario<br />
tipo)( 20 ); (4) riduzione delle garanzie processuali. L’inversione dell’onere<br />
della prova e la riduzione delle garanzie individuali si legittimerebbero, in<br />
tale prospettiva, in ragione della riprovevole Gesinnung dell’individuo,<br />
così rendendo più agevole qualsiasi prova a carico. È peraltro interessante<br />
notare come queste caratteristiche del Feindstrafrecht rievochino in gran<br />
parte i tratti peculiari della legislazione penale tedesca del regime nazionalsocialista.<br />
Il c.d. ‘‘catalogo dell’orrore’’( 21 ) comprende infatti, tra i paradigmi del<br />
diritto penale nazionalsocialista, i seguenti: 1) Punibilità anticipata, mediante<br />
fattispecie di pericolo astratto, Organisationstatbestände e Unternehmenstatbestände<br />
(fattispecie in cui cioè il tentaivo viene punito come delitto<br />
consumato); 2) Svalutazione del principio di tassativitá in ragione della modifica<br />
– risalente al 1935 – del § 2 dello StGB, che autorizzava l’analogia in<br />
bonam ed in malam partem, sulla base del parametro del ‘sano sentimento<br />
del popolo’; nonché del ricorso alla elencazione di condotte (all’interno<br />
della fattispecie) ed elementi costitutivi, in funzione meramente esemplificativa,<br />
anziché tassativa 3) Costruzione della fattispecie in chiave soggettivamente<br />
pregnante e tale da assorbirne l’intiero disvalore nell’elemento<br />
soggettivo, a fronte di una descrizione evanescente degli elementi oggettivi;<br />
4) Progressiva trasformazione dell’evento in condizione obiettiva di punibilità<br />
(secondo la linea che poi sará sviluppata, sebbene in termini e con-<br />
( 20 ) Ed in particolare la delinquenza economica (prima legge per la lotta contro la<br />
delinquenza economica, 29 luglio 1976, Bundesgesetzblatt I, 2034; Seconda legge per la<br />
lotta contro la delinquenza economica, 15 maggio 1986, in BGBl I, 721), il terrorismo<br />
(art. 1 legge del 1998 per la lotta contro il traffico illegale di stupefacenti e altre forme<br />
di delinquenza organizzata, in BGBl, II, 745), ma anche delitti sessuali e altre condotte<br />
pericolose (legge per la lotta contro delitti sessuali e altre condotte pericolose, 26 gennaio<br />
1998, in BGBl I, 160: in tal caso l’esigenza nomotetica derivava dalla risoluzione UE in<br />
materia di lotta contro lo sfruttamento a fini sessuali del minore), così come nella delinquenza<br />
generale (Legge per la lotta contro la delinquenza, 28 ottobre 1994, BGBl I,<br />
3186). Sottolinea T. Vormbaum, Il confronto con il diritto penale nazionalsocialista, Relazione<br />
tenuta al Seminario di Bologna dell’11/12 novembre 2004, come nella legislazione<br />
tedesca del Novecento rappresenti una costante l’assunzione, nelle rubriche legislative, di<br />
un ‘ordine per la tutela’, ma soprattutto per la lotta). Ronald Freisler, Segretario di Stato<br />
del Ministerio tedesco della giustizia a partire dal 1933, ed in seguito Presidente del Tribunale<br />
del popolo, ha efficacemente espresso questa Weltanschauung, affermando che ‘‘Il<br />
diritto penale è un diritto di lotta!’’. E, osserva lucidamente Vormbaum, ‘‘da allora in poi<br />
il legislatore ha scoperto esigenze di ‘tutela’ e di ‘lotta’ in modo sempre più frequente. A<br />
partire dagli anni Settanta questa tendenza aumenta al punto che vengono varate solo<br />
norme di questo tipo’’.<br />
( 21 ) È questa la definizione proposta, nella prospettiva del diritto penale liberale, da T.<br />
Vormbaum, Il confront, cit., loc. ult. cit., in rapporto alle caratteristiche del diritto penale del<br />
regime nazionalsocialista.
SAGGI E OPINIONI<br />
189<br />
testi diversi, dalla Bonner Schule; 5) Concessione di un margine ampio di<br />
discrezionalitá giudiziale nella scelta e nella commisurazione delle sanzioni<br />
(cfr. § 23, cpv., StGB, in relazione al carattere meramente facoltativo della<br />
diminuente per il tentativo, rispetto alla forma consumata); 6) Misure di<br />
sicurezza e misure per la rieducazione per i soggetti non imputabili; 9) Tendenziale<br />
(ri-)assunzione di stilemi burocratici-inquisitori da parte del processo,<br />
caratterizzato da un rafforzamento del ruolo dell’Avvocatura dello<br />
Stato e dalla limitazione delle facoltá legittime del difensore.<br />
Nel precisare come tali caratteristiche fossero giá presenti, sia pure in<br />
nuce, nel diritto penale preweimeriano, Vormbaum sottolinea come talune<br />
di esse riemergano talora anche nelle legislazioni contemporanee, essendo<br />
riconducibili alla sinergia dei processi di funzionalizzazione (prevalenza<br />
dello Zweckorientierung nell’attività nomotetica ed interpretativa); moralizzazione<br />
(tendenziale attenuazione della separazione, che fu giá kantiana, tra<br />
diritto ed etica); subiettivizzazione (Gesinnungstrafrecht (più che Willensstrafrecht):<br />
progressiva valorizzazione dei requisiti di fattispecie riferibili all’atteggiamento<br />
interiore del reo, tendenziale svalutazione della colpevolezza<br />
per il fatto). Caratteristiche, queste, che connotano anche il ‘diritto<br />
penale del nemico’ e che rappresentano tendenzialmente una costante delle<br />
legislazioni di tipo emergenziale, in ragione delle progressive riduzioni delle<br />
garanzie individuali (di matrice liberale), attuate in nome della difesa sociale<br />
dal ‘nemico’ di turno.<br />
Il paradosso cui conduce tale logica socialdifensiva( 22 ) presuppone –<br />
in particolare nella concezione jakobsiana del Feindstrafrecht – un’idea<br />
della pena( 23 ) quale marginalizzazione del fatto (di reato) nel suo signifi-<br />
( 22 ) Disfunzionale anche in termini di generalprevenzione integratrice, in quanto anziché<br />
stabilizzare nella coscienza collettiva la fiducia nella vigenza delle norme violate, amplifica<br />
il rilievo – assunto come pericoloso – degli atti dei nemici-criminali la cui identità differenziale<br />
(e deviante) è attribuita dallo stesso precetto.<br />
( 23 ) La pena rappresenta, in Jakobs, un mezzo per riaffermare il vincolo al diritto di<br />
fronte al cittadino a lui fedele, per ribadire dunque la vigenza degli orientamenti del contesto<br />
sociale garantiti (e negati dal delitto, che produce una Desavounierung der Norm). Essa ha<br />
funzioni preventive in quanto tutela le interazioni sociali e la istituzionalizzazione delle aspettative<br />
normative, ma non ha finalità (principali) intimidative di potenziali delinquenti né mira<br />
ad incidere sulla condotta futura del condannato. La pena si applica dunque come esercizio<br />
di riconoscimento della norma (intesa come modello orientativo delle condotte), che comprende<br />
l’esercizio nella fiducia nella norma; quello di fedeltà al diritto; quello di accettazione<br />
delle conseguenze, in un processo di conferma della identità normativa (della società) che<br />
coinvolge come tale tutti i membri della collettività. Se il fatto punibile consiste, hegelianamente,<br />
in una comunicazione erronea o difettosa (fehlerhafte Kommunikation) rispetto alla<br />
vigenza della norma, e tendente ad affermarsi come configurazione del mondo, nella misura<br />
in cui viene obiettivata, tale difetto è imputato all’autore dell’atto come sua colpa. La pena è<br />
anch’essa comunicazione, tesa a riaffermare la persistente validità della norma violata. Della<br />
utilità della pena non sarebbe necessaria, secondo Jakobs, verifica empirica, in quanto non<br />
sarebbe empiricamente provabile il significato del processo collettivo di (ri)affermazione del-
190<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
cato lesivo della norma, in funzione confermativa della struttura normativa<br />
(e della stessa identità) del sociale( 24 ). Se il fine manifesto della pena (di cui<br />
l’identità normativa della società, violata dal delitto, poiché essa ne costituisce appunto non<br />
l’effetto, ma il significato. Sul punto, G. Jakobs, Schuld und Prävention, Recht und Staat, heft<br />
452/453, Tübingen, 1976, 3 ss.; Id., Norm, Person, Gesellschaft, Berlin, 1997, 42.<br />
( 24 ) G. Jakobs, Sobre la normativización de la dogmàtica jurídico-penal, Madrid, 2003,<br />
47 (ma nello stesso senso, Id., Dogmàtica de derecho penal y la configuración normativa de la<br />
sociedad, Madrid, 2004, 56 ss.), sostiene che se il reato è la ribellione contro la norma, la pena<br />
rappresenta il corrispondente di tale ribellione: mediante il dolore che infligge elimina una<br />
erosione generale della vigenza delle norme (prevenzione generale positiva), apparendo decisivo<br />
dunque l’aspetto della protezione della vigenza della norma e non di beni giuridici, dal<br />
momento che il diritto rappresenta una relazione tra persone, attraverso la quale soltanto viene<br />
coinvolto il profilo relativo ai beni. Ciò che del resto qualifica il reato è il suo provocare la<br />
delusione di un’aspettativa normativa riposta sul soggetto, di talché la pena diviene contraffatto<br />
simbolico di tale ‘tradimento’, modalità cognitiva di intimidazione del reo e della società<br />
intera. Tuttavia, se l’intimidazione rappresenta un fine secondario della pena, non ne è<br />
certo il fondamento, che si radica invece nella riaffermazione della vigenza delle strutture<br />
normative sociali. Il principio di colpevolezza garantisce l’attribuzione del fatto all’autore<br />
(il fatto non deve essere percepito come casuale, ma come opera del suo autore, in quanto<br />
un atto colpevole tende ad affermare una «configurazione del mondo» che pretende di essere<br />
determinante, con ció attribuendo una valenza sociale e comunicativa al suo stesso atto)<br />
ed in secondo luogo rivela come il reo possa intervenire nella società. L’atto colpevole ingenera<br />
un conflitto in ordine alla configurazione della società; la pena deve dunque essere una<br />
coazione che infligga dolore: una risposta comunicativa tesa a negare validità a ciò che l’atto<br />
del reo pretendeva affermare, per ristabilire la vigenza della struttura normativa sociale. La<br />
stessa denominazione del delitto in tal senso (come un delitto specifico) esprime la marginalizzazione<br />
comunicativa del fatto e del suo significato; tuttavia la necessità di una pena come<br />
coazione (e non del semplice stigma, della mera dichiarazione di colpevolezza) nasce dal fatto<br />
che ogni denominazione è eterea, a fronte del delitto che è l’obiettivazione della volontà del<br />
reo. Pertanto, la pena deve rivestire un contenuto obiettivizzante allo stesso modo del delitto,<br />
dovendo il reo risarcire, con la pena, il danno che ha prodotto alla vigenza dell’ordine normativo<br />
sociale; risarcimento che avviene con la privazione dei suoi mezzi di sviluppo (pena di<br />
morte, detenzione, multa). «L’impressionante del taglione, della retribuzione nella stessa<br />
specie (Kant, Metaphysik der Sitten, Tübingen, 332) è che, almeno sul piano concettuale,<br />
le rispettive obiettivazioni del fatto e della pena coincidono, risultano identiche» (G. Jakobs,<br />
Introducciòn, etc., cit., 32). Ora, osserva Jakobs, op. loc. ult. cit.., come «a parte la ridicolizzazione<br />
delle pene-riflesso di Hegel (Rechtsphilosophie, § 101, «occhio per occhio, dente per<br />
dente»), sull’idea del taglione si radica il problema della estensione concreta della pena. Se il<br />
reato rappresenta il tradimento di un’aspettativa normativa che non puó risolversi mediante<br />
un apprendimento cognitivo, ma esige l’imputazione di un fatto alsuo autore, e se lo Stato è<br />
l’ordine coattivo effettivo nel suo fondamento (Kelsen, Reine Rechtslehre, 205), per la vigenza<br />
del diritto non basta che siano sanzionate le infrazioni, perché la collettività comunque<br />
porrebbe in dubbio la realtà e l’effettività dell’ordinamento, ma è necessario che si attui anche<br />
la parte precettiva della norma penale, assicurandosi l’ordine che la norma mirava ad instaurare.<br />
Il dolore inflitto dalla pena si misura allora secondo ciò che sia necessario ad una<br />
compensazione del danno prodotto alla vigenza della norma primaria (parte precettiva della<br />
norma penale)». Si tratterebbe allora di un retributivismo il cui parametro non è la lesione<br />
del bene giuridico ma la perturbazione dell’ordine normativo, arrecata dal delitto. Prevenzione<br />
generale positiva come fine della pena significa allora, in Jakobs, che il destinatario<br />
del processo punitivo è la società, che deve, attraverso l’irrogazione della pena, essere con-
SAGGI E OPINIONI<br />
191<br />
è destinatario il cittadino come persona, homo noumeno, come tale non necessitante<br />
di intimidazione) è la conferma dell’identità normativa della società,<br />
mediante la marginalizzazione del significato del fatto( 25 ) e la privazione<br />
dei mezzi di sviluppo del reo in funzione di neutralizzazione ed incapacitazione,<br />
il suo fine latente, performativo di un orientamento culturale<br />
(sittenbildende Kraft)( 26 ), si rivolge all’homo phaenomenon, cioè una nonpersona(<br />
27 ).<br />
fermata nella sua attitudine alla fedeltà all’ordinamento, e ciò rappresenta un prodotto del<br />
dolore generato dalla pena.<br />
( 25 ) L’idea della pena come contraffatto simbolico rispetto alla violazione della stabilità<br />
normativa (perpetrata dal reato) presenta in Jakobs evidenti legami con il pensiero hegeliano,<br />
ove, pur ammettendosi che la pena potesse esplicare altresì fini intimiditivi e di emenda, essa<br />
rappresentava in primo luogo il ristabilimento dell’ordine giuridico violato dal delitto, atto<br />
intrinsecamente irrazionale in quanto pretesamene negatorio degli altrui diritti, al fine di affermare,<br />
contro di essi, la libertà del reo. Pur criticando tale tesi retribuzionista – come «sequenza<br />
irrazionale di due mali» (la pena come male in sé, che segue al delitto), dovendo pertanto<br />
concepirsi il rapporto pena-reato come relazione razionale, ove la prima si attua al fine<br />
di ristabilire la vigenza dell’ordine normativo sociale – persiste in Jakobs la metafisica della<br />
negazione, nella misura in cui la pena esige un’obiettivizzazione corrispondente a quella realizzata<br />
dal delitto. Similmente, in Mezger la necessità della pena si radica sul suo carattere di<br />
indispensabile affermazione del diritto, mediante la negazione della negazione di esso. In Hegel,<br />
tuttavia, la necessità della pena si fonda sulla necessità di ristabilire la vigenza della volontà<br />
generale, contro l’affermazione particolaristica della «volontà speciale» effettuata con il<br />
delitto. Se la tesi è la volontà generale, come ordine giuridico, l’antitesi è la negazione di essa<br />
con il delitto, la sintesi costituisce invece la pena. Jakobs critica però la scarsa valorizzazione,<br />
da parte di Hegel, del profilo della perturbazione sociale ingenerata dal delitto. Tale nozione<br />
reca in sé certamente il tema postmoderno del conflitto sociale e del bisogno di Sicherheitsgefühl,<br />
ma a nostro avviso può comunque ritenersi incluso, sia pure in nuce, nel concetto<br />
hegeliano di negazione del diritto (mediante il delitto).<br />
( 26 ) A. Eser, Medicina y derecho penal: panorama orientado en el bien protegido, in<br />
Estudios de derecho penal medico, Lima, 2001.<br />
( 27 ) Dal greco prosopon, maschera, da cui il latino personare, far risuonare attraverso,<br />
come la voce dell’attore nella maschera. L’idea relazionale di persona si riferisce in Sant’Agostino<br />
alla sfera della coscienza individuale, che si alimenta della propria esperienza interiore,<br />
mentre con Kant diviene libertà ed indipendenza rispetto al determinismo della realtà<br />
naturale, è la libertà di un essere razionale che si conforma a leggi morali (ogni essere umano<br />
ha diritto ad essere una persona nel diritto, persona è dunque paradigma della limitazione<br />
dell’arbitrarietà nel contesto di realizzazione di relazioni sociali). In Fichte persona è un’essenza<br />
metafisica che si costituisce da se stessa, ponendosi da se stessa. In Jakobs la persona<br />
non è espressione di una soggettività (Hegel) ma è la rappresentazione di una competenza<br />
socialmente comprensibile, che si esterna mediante obiettivazioni delle aspettative normative<br />
coerenti con il ruolo del soggetto. Al di là del paradigma imperativista – legato ad una concezione<br />
atomistica dell’uomo e del dovere giuridico – la norma è la istituzionalizzazione di<br />
un’aspettativa sociale, pertanto il concetto di persona indica la realizzazione del ruolo socialmente<br />
assunto da un soggetto, come tale ingenerante un’aspettativa sociale di armonia con la<br />
norma e di compimento dei doveri giuridici inerenti a quel ruolo. Secondo il sillogismo romanistico<br />
dell’attribuzione di soggettività mediante l’imputazione di effetti giuridici, la persona<br />
rappresenta un centro d’imputazione di effetti giuridici. Il concetto, richiamato nel testo,<br />
di esclusione del deviante come contenuto intrinseco della pena, e conseguente riduzio-
192<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
La società del rischio determina una tendenziale prevalenza dei fini latenti<br />
su quelli manifesti della pena, nella misura in cui necessita maggiormente<br />
di un orientamento culturale, mediante il diritto penale, che assicuri<br />
il rispetto della norma primaria, oltre che della sua appendice sanzionatoria,<br />
riaffermando così la validità del precetto. Ne deriva come nelle società<br />
del rischio la pena determinata conformemente ai principi dello Stato<br />
di diritto possa, in taluni contesti dell’ordinamento penale, non apparire<br />
sufficiente.<br />
La riaffermazione controfattuale della validitá del precetto ne presuppone<br />
infatti una violazione marginalizzata. Quando la garanzia delle aspettative<br />
normative (garanzia cognitiva dell’osservanza del diritto) si fa labile e<br />
marginale ‘‘il diritto penale, da reazione della società contro il fatto illecito<br />
di uno dei suoi membri, diviene reazione avverso un nemico’’( 28 ).<br />
Ciò non implica la legittimità di reazioni radicalmente sproporzionate,<br />
ben potendosi riconoscere al nemico – seppure in una logica di conflitto –<br />
una personalità potenziale; è invece certamente possibile superare il limite<br />
della difesa legittima, non rilevando qui aggressioni attuali, ma future, da<br />
cui difendersi( 29 ). Con tale linguaggio lo Stato ‘‘non parla più con i cittadini,<br />
ma minaccia i suoi nemici’’, che del resto sembrano destinati ad aumentare,<br />
in una società che ha perso il legame con una religione di Stato<br />
e con la famiglia come istituzione, in cui la nazionalità èavvertita come caratteristica<br />
incidentale, così concedendo a ciascuno infinite possibilitá di<br />
costruire la propria identità a margine dal diritto, in misura maggiore rispetto<br />
a contesti a forte interazione sociale, caratterizzati dall’attribuzione<br />
alle istanze comunitarie di forme di contrainte sociale( 30 ).<br />
ne del reo alla stregua di una ‘non-persona’ rievoca la dinamica, criticata da E. Goffman,<br />
Modelli di interazione, Bologna, 1971, 12 ss., secondo la quale la conformità del soggetto al<br />
ruolo impersonato gli attribuisce una ‘faccia’ – valore socialmente riconosciuto alla manifestazione<br />
del sé da parte di ciascuno, attraverso la propria condotta – che tuttavia la società è<br />
pronta a revocare, quando il soggetto stesso dimostri la propra incapacità di conformarvisi.<br />
La revoca della ‘faccia’, ovvero la negazione del carattere di persona come parte di una relazione<br />
sociale e di un agire comunicativo, rappresenta pertanto la sanzione per la delusione<br />
delle aspettative normative, ingenerata dalla trasgressione rispetto al frame.<br />
( 28 ) G. Jakobs, Introducciòn, etc., cit., 30.<br />
( 29 ) G. Jakobs, op. loc. ult. cit., osserva come quest’analisi non abbia valore deonticoprescittivo,<br />
ma meramente ontico-descrittivo, a prescindere dalla risoluzione della questione<br />
se il diritto penale del nemico rappresenti ‘‘una forma di diritto’’, precisando che sembra<br />
piuttosto trattarsi di violenza, tout court.<br />
( 30 ) G. Jakobs, Introducciòn, etc., cit., 31. La tesi dell’Autore sembra riprendere, giungendo<br />
tuttavia ad esiti opposti, le considerazioni svolte, in chiave critica, dai neoChicagoans,<br />
ma soprattutto da Goffman, che ha sottolineato come l’assetto normativo delle società attuali,<br />
non traendo legittimazione da parametri etici aprioristicamente condivisi, ma da una mera<br />
adesione individuale a strutture cognitive e convenzionali, si caratterizzi per una destabilizzante<br />
perdita della fiducia durkheimiana in un ordine sociale intrinseco, razionalmente possibile<br />
(E. Goffman, Relazioni in pubblico, Milano, 1981, 171; vedasi altresì A. Salvini, In-
SAGGI E OPINIONI<br />
193<br />
La maggiore percezione sociale del rischio di vittimizzazione implica<br />
allora che, se nel Bürgerstrafrecht la sicurezza cognitiva rappresenta una<br />
condizione da raggiungersi anche incidentalmente, nel Feindstrafrecht diviene<br />
obiettivo principale, non trattandosi del mero mantenimento dell’ordine<br />
a fronte di conflitti interpersonali, ma invece del ristabilimento di una<br />
condizione strutturale, accettabile, mediante la neutralizzazione di coloro<br />
che non offrano una minima garanzia di sicurezza cognitiva, necessaria<br />
per il riconoscimento dell’individuo quale persona.<br />
Il paradigma penologico attuariale ed i ‘‘zero-sum approaches’’( 31 ) dimostrano<br />
come l’illusione sicuritaria comporti la necessaria esclusione dei<br />
soggetti cui si attribuisce un’identità deviante in quanto ritenuti incapaci<br />
di soddisfare le istanze di cooperazione razionale, e pertanto immeritevoli<br />
di godere dei diritti e delle garanzie degli insiders.<br />
La dinamica dell’esclusione del ‘nemico’ abbandona quindi ogni pretesa<br />
rieducativa, precludendo all’outsider la stessa possibilità di azione e di<br />
scelta, mediante istituti (il carcere di massima sicurezza, l’espulsione, la castrazione<br />
per i violent sexual offenders) improntati alla logica dell’incapacitazione<br />
e della segregazione.<br />
Privare il reo – mediante la preclusione della stessa possibilità di agire<br />
– della possibilitá di scegliere, in futuro, se conformarsi ai parametri assiologico-normativi<br />
dell’ordinamento, significa ovviamente sancire la definitiva<br />
sconfitta di ogni teleologismo della pena in chiave risocializzante, ma<br />
in primo luogo significa negare a tale soggetto la qualità di persona, come<br />
destinataria della sittenbildende Kraft delle medesime norme giuridiche ed<br />
in particolare penali.<br />
La negazione della qualità di persona all’outsider sociale riflette del<br />
resto i paradigmi del lessico attuariale: le statistiche sui fattori di rischio<br />
terazionismo e cognitivismo in Erving Goffman. Postfazione a E. Goffman, Stigma. L’identità<br />
negata, tr. it., Milano, 1983, 165 ss.). Ne consegue come la complessità sociale inscriva le<br />
relazioni tra individui all’interno di strutture cognitive a contenuto normativo (frames) rispetto<br />
alle quali la fenomenologia dell’azione rappresenta un meccanismo di significazione. La<br />
condotta individuale ingenera pertanto, nella percezione degli altri consociati, aspettative<br />
normative corrispondenti al frame (nel linguaggio jakobsiano, ruolo) impersonificato dal soggetto.<br />
La delusione di queste aspettative normative da parte del ‘deviante’ implica un netto<br />
indebolimento della sicurezza cognitiva sociale, che impone pertanto la reazione sanzionatoria,<br />
in funzione strumentale alla riaffermazione della validità dell’ordine normativo violato.<br />
L’esclusione dell’individuo che abbia trasgredito al proprio ruolo costituisce pertanto un<br />
meccanismo difensivo, attuato dal contesto sociale di appartenenza, per ribadire la propria<br />
identità e l’ordine normativo ‘minacciato’ dalla violazione del frame.<br />
( 31 ) Le impostazioni basate cioè, come si diceva prima, sulla pretesa impossibilità di<br />
bilanciare tutela della vittima e funzioni strumentali del diritto penale (volte cioè alla salvaguardia<br />
di beni giuridici) da un lato, con istanze individualgarantiste di protezione del reo da<br />
un’ingiustificata, sproporzionata (ed inutile) violenza punitiva dall’altro. Su questi temi, vedansi<br />
i lavori già citatid i D. Garland e B. Hudson.
194<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
e sui tassi di criminalità riducono il singolo, nella propria unicità e complessità<br />
personologica, ad un novero di parametri di rischio, deterministicamente<br />
prevedibile nel proprio agire, cui si nega la contingenza comportamentale<br />
e la libertà di scelta, sostituite dalle certezze deterministiche dei<br />
calcoli fattoriali. Il soggetto è cosi ridotto a mero ‘‘data-constructed bearer<br />
of the charachteristics of danger’’, per il quale ‘‘there is no way back to becoming<br />
a rational moral agent; the route from the fortress to the wilderness is<br />
one-way( 32 )’’.<br />
La figura del nemico rievoca così paradossi foucaultiani: il suo trattamento<br />
è regolato giuridicamente, pur rappresentando la normativizzazione<br />
di una esclusione dalla società in quanto comunità normativa, poiché il nemico<br />
è una non-persona. Il diritto penale del nemico è pertanto una guerra<br />
il cui carattere limitato od assoluto dipende solo dal grado di timore sociale<br />
del nemico stesso: il paradosso nasce dall’impossibilità di una giuridicizzazione<br />
completa, in ragione della rottura della equivalenza (hegeliana) tra razionalità<br />
e personalità( 33 ).<br />
4. Tuttavia, la kantiana ultima ratio – alla cui stregua ciascuno può<br />
essere obbligato (con la minaccia della pena) a partecipare ad una relazione<br />
giuridica garantita, quale la comunità statale, per poter essere assicurato<br />
della garanzia dei suoi diritti (patrimonio intelligibile) – non risolverebbe<br />
la questione della reazione da opporre a quanti – non avvertendo la forza<br />
intimidatrice del precetto – non si lascino obbligare a tale condotta doverosa<br />
se non mediante la segregazione( 34 ), così persistendo ad agire e ad es-<br />
( 32 ) B. Hudson, op. cit., 76.<br />
( 33 ) G. Jakobs, Introducciòn, etc., cit., 31. Va aggiunto che per Hegel il reo è un soggetto<br />
portatore di un paradosso: agisce contraddicendo la razionalità della sottomissione alle<br />
leggi in quanto espressive di un valore assoluto di etica razionale, pertanto posponendo il<br />
rispetto degli altrui diritti e libertà, in nome della soddisfazione egoistica di pulsioni non controllate.<br />
( 34 ) In Sobre la normativización, 57 ss., Jakobs precisa come la doppia componente<br />
della prevenzione (generale positiva e speciale negativa) siano generalmente confusi, tanto<br />
da sembrare uniti, seppure in realtà la specialprevenzione «appartenga ad un contesto di legittimazione<br />
distinto da quello della generalprevenzione integratrice». La ragione dell’offuscamento<br />
di tale distinzione riposa sul fatto che entrambe hanno funzione coattiva, in quanto<br />
la funzione specialpreventiva si esplica nel costringere il reo a comportarsi, almeno esteriormente,<br />
in maniera conforme al diritto, mentre la prevenzione generale positiva lo obbliga a<br />
risarcire il danno prodotto alla vigenza della norma. Tuttavia, tale equiparazione occulta una<br />
differenza ontologica: la prevenzione generale positiva impone di infliggere il dolore della<br />
pena ad un soggetto capace di colpevolezza (per Jakobs, imputabile), perché solo verso tali<br />
persone si ripongono aspettative normative suscettibili di essere tradite, con Hegel: la pena<br />
viene loro inflitta in quanto esseri razionali, percepiti come uguali, cittadini pieni, non esclusi<br />
dalla società, ma idonei a rappresentare un centro d’imputazione di aspettative normative.<br />
Nel caso di non imputabili (o di nemici, che autoescludendosi dalla società non rappresentano<br />
più soggetti da cui aspettarsi la garanzia di aspettative normative) prevale non già la
SAGGI E OPINIONI<br />
195<br />
sere percepiti come perturbatori dell’ordine sociale: nemici. Il funzionalismo<br />
sistemico suggerirebbe di partire dalle nozioni ‘sociali’ di persona<br />
(soggetto mediato per il sociale, rappresentazione di una competenza come<br />
socialmente percepibile), ambito del dovere e norma, quale aspettativa sociale<br />
istituzionalizzata. Se le aspettative normative si dirigono a persone<br />
come portatori di un ruolo, la condizione minima per la loro defraudazione<br />
– che costituisce il reato – è la violazione dei doveri inerenti al ruolo (eventualmente<br />
speciale, nell’ipotesi di soggetti in posizione qualificata).<br />
L’obiettivo della stabilizzazione sociale implica così (in violazione del<br />
diritto al rispetto della dignità individuale) la strumentalizzazione del reo<br />
a fini confermativi dell’identità sociale, la stessa colpevolezza perdendo il<br />
proprio ruolo garantistico di limite alla pena( 35 ). Obiezioni cui Jakobs<br />
ha replicato argomentando dall’attribuzione del carattere di persona come<br />
variabile dipendente dalla realizzazione di una relazione comunicativa socialmente<br />
rilevante, in quanto cioè si contribuisca all’autodescrizione della<br />
società( 36 ). Non si tratterebbe allora di opporre le condizioni di costituzione<br />
della soggettività a quelle di configurazione della società, dal momento<br />
che libertà e soggettività individuale sono un prodotto della struttura<br />
sociale funzionalisticamente intesa. Sarebbe allora la garanzia della te-<br />
prevenzione generale positiva., ma l’effetto specialpreventivo negativo della segregazione.<br />
Dinanzi a tale soggetti la pena non si rapporta alla valutazione retrospettiva della colpevolezza<br />
per gli atti commessi in passato, né alla prognosi di colpevolezza per atti futuri, ma è necessario<br />
che la società si assicuri dalla loro pericolosità. In tale contesto, il soggetto non è<br />
concepito quale persona, ma quale fonte di pericolosità: si tratta di una misura di sicurezza<br />
che peró riceve la denominazione di pena: Sicherungsverwahrung. Tale modo di trattare un<br />
soggetto non deve sembrare necessariamente illegittimo. Come Kant ritiene che il soggetto<br />
che non voglia obbligarsi a tenere una condotta conforme al diritto debba essere separato<br />
dalla società, così il soggetto pericoloso, soggetto a custodia di sicurezza, deve essere segregato,<br />
e la custodia di sicurezza a ció èfinalizzata: ad escludere colui che, in ragione della sua<br />
pericolosità, non garantisce adeguatamente la soddisfazione di aspettative normative, rappresentando<br />
pertanto un nemico.<br />
( 35 ) Che peraltro elide dal suo orizzonte teleologico l’autore, non più destinatario di un<br />
processo rieducativo, che lo trascende: la stabilizzazione dell’identità normativa coinvolge la<br />
società, per mezzo del reo, ma non si finalizza ad esso. In senso analogo, osserva A. Baratta,<br />
Integratión-prevención: una nueva fundamentación de la pena dentro la teoría sistémica, in<br />
Doc. pen., 1985, 3 ss., come tale interpretazione della prevenzione generale positiva implichi<br />
un’applicazione meramente utilitaristica della pena, che strumentalizza il singolo in nome di<br />
un rafforzamento della capacità di coazione psichica dell’ordinamento sui cittadini.<br />
( 36 ) Quasi come se la riaffermazione dell’identità normativa della società mediante la<br />
pena rafforzasse, parallelamente, la stessa personalità individuale del condannato A nostro<br />
avviso, peraltro, le teorie preventivo-integrative richiedono la colpevolezza come condizione<br />
necessaria alla stessa efficacia preventiva da loro perseguita: l’applicazione di pena ad un soggetto<br />
non imputabile non solo non avrà effetti intimiditivi, ma non determinerà neppure<br />
quella stabilizzazione della vigenza della norma che si assume essere il fine della pena. Analogamente,<br />
E. Bacigalupo, Manual de derecho penal, Bogotà, 1998, 149.
196<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
nuta delle aspettative normative e della loro istituzionalizzazione la condicio<br />
sine qua non della configurazione dell’individuo quale persona.<br />
In questa prospettiva, il contenuto precettivo delle norme perde la sua<br />
pregnanza critica ed assiologica, per divenire mero strumento di legittimazione<br />
del reale esistente: l‘hegeliano Stato etico si autorappresenta come<br />
tale a prescindere dalla sua concreta struttura. Non rileva cioè se il contenuto<br />
normativo sia radbruchianamente ingiusto ed intollerabilmente lesivo<br />
anche delle condizioni minime di rispetto della dignità umana, in quanto<br />
l’ordinamento, anche il più totalitario, ripeterebbe la propria legittimità<br />
dalla mera vigenza e dall’assenza di disfunzionalità al suo interno( 37 ).<br />
Ora, posto che la stessa tesi della generalprevenzione positiva rappresenta<br />
un modello formal-positivista, che dà per presupposta la contingente configurazione<br />
della realtà, ne deriva che nella sua autoreferenzialitá, il diritto<br />
penale (che, con Jakobs, ‘‘non vale se non per l’ordine sociale che garantisce’’)<br />
come sistema luhmannianamente inteso trae legittimazione dal fondarsi<br />
su norme legittime, il cui rispetto sia cioè di esigibilità intrinseca.<br />
Certamente, i principi social-assiologici incarnati (à laWelzel) nelle<br />
norme penali costituiscono il prodotto della logica di autoconservazione<br />
ed autocomprensione del sistema stesso, ma il grado di intollerabilità del<br />
Feindstrafrecht lungi dal rappresentare una necessità cogente del sistema,<br />
esprime un’intrinseca disfunzionalità rispetto ad un ordinamento giuridico<br />
– la cui Wertordung costituzionale si conforma ai canoni dello Stato di diritto<br />
– che esprime una Stufenbau dotata di livelli gerarchicamente ordinati<br />
secondo parametri assiologici, così consentendo un sindacato di legittimitá<br />
dei contenuti delle singole norme non già autoreferenziale (sebbene intra-<br />
( 37 ) Al fine di descrivere un diritto penale differenziato a seconda della società, Jakobs<br />
elabora il concetto di Schuldtatbestand, i cui elementi, indici di una mancanza di fedeltà al<br />
diritto da parte del soggetto, sono la carente motivazione giuridica e la competenza del caso<br />
concreto, mentre il Gesamtschuldtatbestand si compone dei caratteri del tipo di colpevolezza<br />
e degli elementi di inesigibilità, costituenti l’Entschuldigungstatbestand. Al tipo di colpevolezza<br />
appartiene l’intiero illecito, in quanto oggettivazione del difetto di motivazione normativa,<br />
necessaria all’imputazione. Il tipo generale di colpevolezza presuppone un fatto tipico, doloso<br />
o colposo, evitabile e non giustificato, nonché la competenza dell’autore, necessaria a<br />
contraddire le aspettative normative (imputabilità, come condizione di normale motivabilità,<br />
ex § 20 StGB, che riconduce imputabilità ed esigibilità al più ampio concetto di capacità di<br />
colpevolezza). Tale concetto sociale di colpevolezza è funzionale all’eliminazione dalla Schuld<br />
del rimprovero etico individuale, ma rappresentando lo Stato l’universale rispetto all’individuo,<br />
ciò èpossibile solo individuando la fonte di eticità dell’uomo nelle sue obiettivazioni,<br />
quale sistema di relazioni incentrate sulla personalità Ora, se la colpevolezza materiale rappresenta<br />
un deficit di fedeltà a norme legittime, il cittadino – il cui ruolo è appunto l’osservanza<br />
del precetto – sebbene libero nella configurazione di se stesso, è tuttavia obbligato,<br />
secondo Jakobs, alla fedeltà all’ordinamento giuridico, la persona non esprimendo la soggettività<br />
del suo portatore, ma la rappresentazione di una competenza socialmente rilevante. In<br />
argomento, G. Ruggiero, Capacità penale e responsabilità degli enti, Torino, 2004, 225 ss..
SAGGI E OPINIONI<br />
197<br />
sistemico) ma eterointegrato, secondo una logica Wertorientiert, capace di<br />
correggerne gli squilibri.<br />
La logica di un sistema complesso, quale il diritto, articolantesi in più<br />
livelli, impone un riequilibrio permanente delle condizioni disfunzionali,<br />
non potendo ammettersi intrasistemicamente ipotesi di ‘diritto positivo ingiusto’,<br />
sebbene garantito da statuto e potere( 38 ). Ne consegue la necessità<br />
di riequilibrare i possibili contrasti – extra od intrasistemici – tra norme appartenenti<br />
a livelli distinti del sistema: una norma contraria al contenuto di<br />
una di grado superiore non potrà mantenere che una vuota vigenza formale.<br />
Il diritto ingiusto – quale in primis il Feindstrafrecht – crea pertanto<br />
uno squilibrio sistemico, rilevabile alla stregua della logica strutturale intrasistemica,<br />
che impone la considerazione del contenuto delle norme, al di là<br />
della loro vigenza formale, e che tale contenuto continuamente verifica alla<br />
luce dei livelli superiori (la Costituzione, in quanto Grundnorm e criterio<br />
supremo di legittimazione delle norme subordinate).<br />
Del resto, l’ordinamento giuridico non potrebbe mai conformarsi alla<br />
logica strumentale (della ragion di Stato) in cui il fine giustifica i mezzi, legittimando<br />
ogni tipo di violazioni ai suoi stessi principi fondamentali, senza<br />
rinnegare il proprio carattere di Rechtsstaat. Nello Stato di diritto è infatti<br />
lo stesso mezzo – inteso quale rispetto di regole e procedure – a garantire il<br />
fine. Perché lo Stato di diritto «non conosce amici né nemici, ma soltanto<br />
innocenti e colpevoli»( 39 ).<br />
5. La questione della capacità di resistenza dello Stato di diritto – e<br />
della sua struttura garantistica, in quanto forma istituzionale strumentale alla<br />
tutela dei diritti fondamentali dell’uomo – di fronte alle sfide promananti<br />
dalle attuali (e sempre più globalizzate) forme di criminalità (soprattutto,<br />
ma non solo terroristica) si ripropone oggi, in maniera tranchant, all’interno<br />
di un contesto mondiale dominato dal sicuritarismo tipico di uno ‘stato di<br />
eccezione permanente’( 40 ), che rinviene una forte copertura simbolica nello<br />
slogan liberticida della ‘War against crime’, la cui stessa semantica esprime il<br />
( 38 ) Secondo Radbruch, il diritto si compone delle idee di giustizia, sicurezza (intesa<br />
quale certezza giuridica), finalità o funzionalità. La Natur der Sache rappresenterebbe poi<br />
il fondamento della progressiva trasformazione di una relazione giuridica in una istituzione<br />
normativa, secondo uno sviluppo naturale che si osserva in virtù di una tipizzazione ed idealizzazione<br />
della individualità della relazione vitale considerata. Incarnata nella figura dell’Antigone<br />
sofoclea, tale idea di razionalità (idonea ad emanciparsi, habermasianamente, da postulati<br />
soggettivi ed individualistici, per assurgere ad un grado di razionalità comunicativa)<br />
sembra legarsi ad una metastorica Sittlichkeit, che rappresenta il parametro di intollerabilità<br />
alla cui stregua il diritto positivo deve cedere alla giustizia. Con Tommaso d’Aquino, potremmo<br />
dire non aversi, nell’ipotesi del diritto ingiusto, «lex, sed corruptio legis».<br />
( 39 ) L. Ferrajoli, op. loc. ult. cit..<br />
( 40 ) Nell’accezione accolta da G. Agamben, Stato di eccezione, Torino, 2003.
198<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
progressivo attenuarsi della differenza (che dovrebbe essere ontologica e<br />
strutturale, non già fenomenica e contingente) tra guerra e diritto.<br />
Emblematica in proposito appare la situazione statunitense( 41 ), ove<br />
l’attribuzione – in virtù dei Patriot Acts del 2001 e del 2002 – al Presidente<br />
degli Stati Uniti del potere insindacabile (e pertanto ab-soluto) di emettere<br />
provvedimenti coercitivi nei confronti di persone od organizzazioni che egli<br />
ritenga coinvolte in attività terroristiche, nonché di istituire tribunali militari<br />
ad hoc per giudicare – in assenza delle garanzie del due process of<br />
law – gli ‘enemy combatants’ ne legittima in realtà l’esercizio di una potestà<br />
di guerra anche all’interno del territorio statunitense, in palese violazione<br />
con il principio montesquieuviano della divisione e della reciproca limitazione<br />
dei poteri.<br />
Si delinea così un graduale (ma non per questo meno insidioso) passaggio<br />
dal Rechtsstaat ad un Machtstaat( 42 ) in cui il diritto, lungi dal limitare<br />
il potere in funzione individualgarantistica, ne diviene il braccio armato.<br />
Del resto, in nome della crociata contro gli ‘Stati canaglia’ si è preteso<br />
di legittimare l’istituzione di un sistema carcerario globale, esteso da Guantanamo<br />
agli Usa, dall’Afghanistan all’Iraq, ove si praticano sistematiche<br />
violazioni dei diritti fondamentali dei detenuti – la cui qualifica di enemy<br />
combatants e criminals è ritenuta sufficiente alla privazione degli status di<br />
prigionieri come anche di detenuti, cui i trattati internazionali riconoscono<br />
essenziali garanzie –. Ridotti al rango di non-persone, gli ‘enemy aliens’ divengono<br />
soggetti ad uno specifico sottosistema dell’ordinamento penale,<br />
autoreferenziale e retto da codici e logiche di guerra. Sembra così profilarsi<br />
uno ‘‘stato di polizia globale, all’insegna di un maccartismo parimenti globale<br />
che rinnova nella patria dell’habeas corpus e delle libertà civili il fenomeno<br />
sudamericano dei desaparecidos’’( 43 ).<br />
Ora, questa involuzione illiberale (in risposta al ‘‘lutto collettivo’’) è in<br />
gran parte riconducibile al ruolo, giocato dall’ordinamento statunitense,<br />
malgrè soi, di parte immediatamente ‘offesa’ dagli eventi dell’11 settembre<br />
2001 ed alla conseguente dimostrazione di vulnerabilità del proprio sistema;<br />
fattori che hanno agito in senso catalizzatore rispetto a tendenze<br />
( 41 ) Che presenta peraltro notevoli analogie con la situazione ordinamentale britannica,<br />
a seguito dell’emanazione del Crime and Terrorism Act del 14 dicembre 2001.<br />
( 42 ) L’espressione è diC. Prittwitz, Derecho penal del enemigo?, inS. Mir Puig-M.<br />
Corcoy Bidasolo (dir. por), La politica criminal en Europa, Barcelona, 2004, 107 ss.. In<br />
argomento, cfr. altresì A. David Aponte, Guerra y derecho penal de enemigo, Santa Fé de<br />
Bogotà, 1999; nonché Id., Krieg und Feindstrafrecht, Baden-Baden, 2004, passim; A. M.<br />
Dershowitz, Rights from wrongs. A secular theory of the origin of rights, New York,<br />
2004, spec. 84 ss..<br />
( 43 ) Così, con la consueta eleganza, L. Ferrajoli, Le libertà nell’era del liberismo, in<br />
QG, 2004, 339; S. Butler, Precatious life. The powers of mourning and violence, London-<br />
New York, 2004; S. Derrida, Voyous, Paris, 2003.
SAGGI E OPINIONI<br />
199<br />
autoritario-repressive latenti. Tuttavia l’incremento dei tassi di criminalità e<br />
la recrudescenza e l’internazionalizzazione del terrorismo, accentuando<br />
nella coscienza collettiva la percezione del rischio di vittimizzazione, hanno<br />
indotto anche negli altri ordinamenti europei una progressiva flessibilizzazione<br />
delle garanzie proprie del Rechtsstaat ed una modulazione di settori<br />
nevralgici del diritto penale (dal crimine organizzato, alla legislazione in<br />
materia di immigrazione, al traffico di stupefacenti, alla delinquenza sessuale)<br />
secondo gli stilemi del Feindstrafrecht.<br />
Non ne sembra esente neppure l’Italia, ove la finalità politica di contrastare<br />
il terrorismo internazionale si è tradotta in interventi legislativi dal<br />
carattere marcatamente autoritario-repressivo, incentrati sulla logica dell’inimicus-hostis.<br />
In particolare, la recente l. 155/2005, recante ‘‘misure urgenti<br />
per il contrasto del terrorismo internazionale’’, introduce numerose<br />
modifiche di carattere sostanziale e processuale alla legislazione antiterroristica,<br />
accentuando la modulazione di questa categoria secondo il paradigma<br />
del Feindstrafrecht, di cui ripropone gli elementi caratterizzanti.<br />
Sotto il profilo dell’anticipazione della soglia d’intervento penale, si segnala<br />
l’introduzione( 44 ) dei delités obstacles di cui agli artt. 270-quater e<br />
270-quinquies, che sanzionano, con la medesima pena della reclusione da<br />
sette a quindici anni, rispettivamente l’arruolamento e l’addestramento<br />
ad attività di violenza o sabotaggio di servizi pubblici essenziali con finalità<br />
di terrorismo anche internazionale, configurando due ipotesi di pericolo indiretto,<br />
il cui disvalore di azione si polarizza sulla proiezione finalistica<br />
della condotta, contrassegnata da un ‘doppio dolo specifico’, la finalità<br />
di terrorismo assurgendo a requisito qualificante gli atti al cui compimento<br />
( 44 ) Si consideri in proposito come la tecnica dell’aggiunzione normativa (ossia le continue<br />
introduzioni di nuove norme incriminatici, peraltro in assenza di un loro coordinamento<br />
organico e sistematico) rappresenti una costante della legislazione emergenziale, in quanto<br />
funzionale ad istanze di legittimazione politica. La carenza di tassatività sistemica, dovuta alla<br />
sovrapposizione di più fattispecie incriminatrici in relazione al medesimo oggetto, comporta<br />
peraltro il rischio di applicazioni giurisprudenziali (se non arbitrarie, quantomeno) discrezionali,<br />
con evidenti ricadute sul canone costituzionale di eguaglianza e ragionevolezza e sul fondamentale<br />
principio assiologico della certezza del diritto. In argomento, per profili più generali,<br />
T. Padovani, La tipicità inafferrabile. Problemi di struttura obiettiva delle fattispecie di<br />
attentato contro la personalità dello Stato, in AA.VV., Il delitto politico dalla fine dell’Ottocento<br />
ai giorni nostri, Quaderni di Critica del diritto, Roma, 1984, 169 ss.. Sul principio di tassatività,<br />
in generale, S. Moccia, La promessa non mantenuta: ruolo e prospettive del principio<br />
di determinatezza/tassatività nel sistema penale italiano, Napoli-Roma, 2001. In merito all’introduzione<br />
di questi due delitti sottolinea L. Pistorelli, Punito anche il solo arruolamento,<br />
in Guida al diritto, 2005, n. 33, 55 come la clausola di riserva in favore del reato di cui all’art.<br />
270-bis c.p. dimostri l’intenzione del legislatore di riservare a tali fattispecie la funzione di<br />
supplire ad eventuali carenze probatorie relative all’imputazione per l’ipotesi associativa, sanzionando<br />
autonomamente, benché in via residuale, condotte ritenute (meramente) sintomatiche<br />
dell’esistenza di organizzazioni terroristiche, ‘‘senza necessità di doverne fornire però la<br />
dimostrazione.
200<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
sono a loro volta finalizzate le condotte base di arruolamento ed addestramento(<br />
45 ). L’eccessiva distanza della condotta dal bene giuridico tutelato<br />
(che lo stesso legislatore identifica nell’ordine democratico e nella sicurezza<br />
pubblica mondiale)( 46 ), non è del resto compensato dal dolo specifico, che<br />
perde ogni funzione selettiva (per determinare invece un’ulteriore anticipazione<br />
della soglia di rilevanza penale) in ragione della sua indeterminatezza.<br />
La sfera di ricettività della fattispecie non riceve delimitazione neppure<br />
dal requisito della finalità di terrorismo, riferibile agli atti di violenza cui è<br />
finalizzato l’addestramento o l’arruolamento, in ragione della omincomprensività<br />
della clausola di cui all’art. 270-sexies c.p.. Alla sensibile Vorfeldkriminalisierung<br />
realizzata dall’autonoma incriminazione di atti meramente<br />
preparatori, assunti dal legislatore come prodromici a più gravi condotte<br />
commesse con finalità di terrorismo, corrisponde del resto – secondo<br />
i canoni della legislazione simbolica – un trattamento sanzionatorio del<br />
tutto sproporzionato rispetto alla idoneità lesiva del fatto, la (draconiana)<br />
comminatoria edittale essendo modulata non giá sulla sua reale gravità,<br />
ma su esigenze di generalprevenzione (sia negativa, a fini cioè di deterrenza;<br />
sia positiva, a fini preformativi, di orientamento culturale)( 47 ).<br />
Si introduce peraltro, nel corpo dell’art. 414 c.p., un’ipotesi aggravata<br />
di istigazione od apologia, ove tali condotte si riferiscano a ‘‘delitti di terrorismo<br />
od a crimini contro l’umanità’’, così riproponendo il controverso<br />
paradigma del Klimaschutzdelikt, che rischiando di attribuire rilevanza penale<br />
a comportamenti meramente sintomatici di una Gesinnung, mira a tutelare<br />
la mera sicurezza cognitiva e la fedeltà dei consociati nella vigenza<br />
dell’ordinamento normativo( 48 ), in antinomia con l’impostazione liberaldemocratica<br />
dello Stato.<br />
( 45 ) Analog., L. Pistorelli, op. loc. ult. cit.. Devesi osservare come mentre l’art. 270quater<br />
punisca soltanto colui che arruoli, ma non colui che si arruoli ai fini descritti, la norma<br />
successiva attribuisca rilevanza penale autonoma anche alla condotta di colui che venga addestrato<br />
alle attività tipizzate.<br />
( 46 ) Così si legge nella Relazione al disegno di legge di conversione, presentato in Senato<br />
il 27 luglio 2005. In realtà, le fattispecie sembrano perseguire finalità (oltre che simbolico-espressive),<br />
processualserventi, essendo cioè funzionali a supplire alle carenze probatorie<br />
cui l’accusa per la fattispecie associativa sovente presenta, incriminandosi autonomamente<br />
(benché in via residuale: in tal senso depone la clausola di sussidiarietà rispetto all’art.<br />
270-bis), condotte ritenute sintomatiche dell’esistenza di organizzazioni terroristiche.<br />
( 47 ) Simile struttura di reati di pericolo indiretto, caratterizzati da una fattispecie soggettivamente<br />
pregnante, da una sensibile anticipazione della soglia di criminalizzazione, e da<br />
una netta sproporzione tra trattamento sanzionatorio e gravità ed idoneità lesiva del fatto;<br />
nonché dalla strutturale indeterminatezza della norma, presentano i delitti introdotti, dagli<br />
artt. 8, comma 5 e 10, comma 4, rispettivamente all’art. 2-bis l. 89571967 (addestramento<br />
indebito alla fabbricazione o all’uso di esplosivi, armi da guerra o altri congegni micidiali),<br />
ed all’art. 497-bis c.p. (possesso e fabbricazione di documenti di identificazione falsi).<br />
( 48 ) A tali delitti G. Jakobs, Kriminalisierung im Vorfeld einer rechtsgutverletzung,
SAGGI E OPINIONI<br />
201<br />
Sul versante processuale emergono sempre di più stilemi inquisitori,<br />
determinandosi una sensibile riduzione delle garanzie individuali ed un<br />
corrispondente ampliamento dei poteri di intervento autonomo, anche in<br />
via precautelare, della polizia giudiziaria, nonché delle competenze, attribuite<br />
dall’art. 226 disp. att. c.p.p., agli organi dei Servizi informativi e di<br />
sicurezza, nello svolgimento di intercettazioni e controlli preventivi sulle<br />
comunicazioni( 49 ). Oltre a prevedere la creazione di unità investigative interforze<br />
antiterrorismo (sul modello della direzione investigativa antimafia),<br />
l’art. 13 l. 155 abbassa a quattro anni, dai precedenti cinque, il limite minimo<br />
di pena dei reati per cui si prevede l’arresto obbligatorio di chiunque<br />
sia colto in flagranza di delitto (consumato o tentato) commesso per finalità<br />
di terrorismo, così da ricondurre a questo regime anche reati, meno gravemente<br />
puniti, presumibilmente connessi ad attività terroristiche.<br />
Analoga ratio presenta l’art.13, cpv., l. 155, che estende la legittimità<br />
dell’arresto facoltativo anche in relazione al delitto di possesso o fabbricazione<br />
di documenti di identificazione falsi, di cui al ‘nuovo’ art. 497 bis<br />
c.p., ed il terzo comma dell’art. 13, che autorizza il fermo di indiziato di<br />
delitto, di cui all’art. 384 c.p.p., ed indipendentemente dagli editti di pena,<br />
nei confronti degli indiziati di un delitto commesso per finalità di terrorismo,<br />
anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico.<br />
Si prevede che la polizia giudiziaria possa procedere al fermo di propria<br />
iniziativa anche qualora l’indiziato sia individuato successivamente ovvero<br />
siano sopravvenuti specifici elementi tali da rendere fondato il pericolo<br />
il pericolo di fuga e non sia possibile, data l’urgenza, attendere la decisione<br />
del pubblico ministero, peraltro precisandosi che il possesso di<br />
documenti falsi costituisca un elemento di specifico rilievo ai fini della disciplina<br />
di cui all’art. 384, co. 3.<br />
Al fine di ampliare le misure di identificazione degli indagati( 50 ), si<br />
ZStW, 1985, 779, riconosce il carattere di radicale incompatibilità con il Bürgerstrafrecht, salve<br />
le ipotesi in cui l’apologia, pur riferendosi ad un reato già commesso – come previsto dal §<br />
140 StGB – si presenti con valenza istigativa.<br />
( 49 ) Notevole è anche l’ampliamento operato alle ipotesi di applicazione delle misure<br />
di prevenzione personali e patrimoniali nate sul terreno della legislazione antimafia, in ragione<br />
delle modifiche apportate dall’art. 14 l. 155 alle l. 1423/1956 e l. 575/1965. Nel quadro<br />
dell’attività preventiva di attentati contro l’incolumità pubblica rientra anche l’incisiva regolamentazione<br />
amministrativa di attività ritenute astrattamente pericolose: dalla disciplina amministrativa<br />
degli esercizi pubblici di telefonia e telematica alle attività di volo a quelle concernenti<br />
esplosivi, alla prevenzione antiterroristica negli aeroporti.<br />
( 50 ) Come sottolineano G. Melillo e A. Spataro, Senza la creazione di una Procura<br />
nazionale a rischio il coordinamento tra gli uffici, inGuida al diritto, 2005, n. 33, 54, in particolare<br />
l’estensione (art. 10 l. cit.) sino a ventiquattr’ore del limite temporale del fermo per<br />
identificazione personale – sul paradigma della garde a vue – se rispondente ad un’oggettiva<br />
difficoltà nell’accertamento rapido dell’identità delle persone e della veridicità dei loro documenti,<br />
rischia tuttavia di indurre surrettiziamente prassi poco garantiste, rivolte a fini di-
202<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
autorizza peraltro il prelievo coatto di saliva o capelli, da parte della polizia<br />
giudiziaria, previa autorizzazione del pubblico ministero, così legittimandosi<br />
un trattamento( 51 ) di dubbia invasività nei confronti dell’indagato, e<br />
che riesce difficile immaginare possa realizzarsi (proprio in quanto coattivo,<br />
e per le sue intrinseche modalità esecutive) nel rispetto ‘‘della dignità<br />
personale del soggetto’’, come pur dispone la legge, con una formula (che<br />
rischia di risultare) meramente declamatoria. Al di là della dubbia efficacia<br />
euristica di tali procedure, non può peraltro sottacersi come questa modifica<br />
del terzo comma dell’art. 354 c.p.p. determini una palese violazione<br />
della riserva di giurisdizione e di legge, implicante quest’ultima la specifica<br />
determinazione dei casi e delle modalità di intervento, nonché dei requisiti<br />
di necessità ed urgenza legittimanti gli accertamenti compiuti dalla p.g. ai<br />
sensi dei commi 2 e 3 dell’art. 354 c.p.p.( 52 ).<br />
La legge 155 estende peraltro le disposizioni dettate in tema di colloqui<br />
investigativi dall’art. 18 bis della legge sull’ordinamento penitenziario<br />
anche alla prevenzione dei delitti commessi per finalità di terrorismo,<br />
anche internazionale ed autorizza l’acquisizione dei dati relativi al traffico<br />
telefonico e telematico, anche sulla base del decreto motivato del pubblico<br />
ministero, in deroga all’art. 132, co. 3, d.lgs. 196/2003, che richiede invece<br />
l’intervento del giudice.<br />
Non mancano del resto, secondo i canoni della ‘‘soave inquisizione’’(<br />
53 ), disposizioni premiali, come quelle previste dall’art. 2 l. 155,<br />
che prevede il rilascio di uno speciale permesso di soggiorno agli stranieri<br />
che collaborano con la giustizia e la cui permanenza nel territorio nazionale<br />
versi da quelli avuti di mira dalla norma. Per questa ragione si è suggerita (Cassese, Ma sul<br />
fermo di polizia servono più garanzie, inLa Repubblica, 22 luglio 2005, cit. dagli Autori) la<br />
previsione di una visita medica di controllo obbligatoria del fermato, al momento del rilascio,<br />
del cui esito dovrebbe avere contezza il magistrato, conformemente alle direttive espresse dal<br />
Comitato del Consiglio d’Europa in materia di prevenzione della tortura. La modifica in esame<br />
è del resto emblematica della più generale tendenza, che informa la legge 155, alla riduzione<br />
delle garanzie proprie del controllo giurisdizionale sull’attività di prevenzione antiterroristica,<br />
in funzione di una rivendicazione della supremazia delle competenze dell’esecutivo<br />
(in tal senso depone peraltro il notevole ampliamento delle ipotesi di ammissibilità delle intercettazioni<br />
preventive, la cui natura eccezionale è motivata proprio dall’assenza del previo<br />
vaglio giurisdizionale sotteso all’autorizzazione del giudice). Di contro,come sottolineano G.<br />
Melillo e A. Spataro, op. cit., 52, sarebbe stata ben più efficace la previsione di un ufficio<br />
centrale di coordinamento delle indagini, tale da consentirne l’armonizzazione ed il sinergismo.<br />
( 51 ) Tuttora escluso dal novero dal novero di quelli che il giudice può disporre in sede<br />
di assegnazione di incarichi peritali, in seguito alla declaratoria di parziale illegittimità dell’art.<br />
244 c.p.p. da parte di C. Cost., sent. 238/1996.<br />
( 52 ) Analogamente, G. Frigo, Straniero «cacciato» senza garanzie, inGuida al diritto,<br />
2005, n. 33, 79.<br />
( 53 ) T. Padovani, La soave inquisizione. Osservazioni e rilievi a proposito delle nuove<br />
ipotesi di ‘‘ravvedimento’’, inRiv. it. dir. proc. pen., 1981, 532.
SAGGI E OPINIONI<br />
203<br />
sia utile ai fini dell’attività investigativa o di intelligence o per il prosieguo<br />
dell’azione penale. La norma concede inoltre il rilascio della carta di soggiorno<br />
allo straniero che abbia fornito un contributo di straordinaria rilevanza<br />
per la prevenzione, nel territorio dello Stato, di attentati terroristici<br />
alla vita od alla incolumità delle persone o per la concreta riduzione delle<br />
conseguenze dannose o pericolose degli attentati stessi ovvero per identificare<br />
i responsabili di atti di terrorismo. La natura premiale di simili istituti<br />
emerge con particolare evidenza in relazione all’ipotesi di rilascio della<br />
carta di soggiorno, che a differenza del caso di concessione del permesso<br />
di soggiorno non implica alcuna valutazione prognostica in ordine alla presumibile<br />
efficacia, a fini investigativi e preventivi, della collaborazione, incentrandosi<br />
invece unicamente sul risultato funzionale della stessa( 54 ).<br />
Non si tratta che della deformazione poliziesca della giurisdizione d’emergenza,<br />
ove il cuore del processo diviene il segreto del confessionale, in<br />
un rapporto impari che vive nell’ombra, vincolando inquisito ed inquisitore<br />
ad una malsana dipendenza: chi collabora è nelle mani dell’accusa, alla<br />
quale a sua volta il primo s’impone, come fonte privilegiata di verità e giustizia(<br />
55 ). Del resto, ‘‘Le domaine de la récompense est le dernier asile où<br />
c’est retranché le pouvoir arbitrarie’’( 56 ).<br />
Come già nel 2001, in sede di conversione si è eliminata la prevista riferibilità<br />
ai reati di cui agli artt. 207-bis, terzo comma, 207-quater e 207quinquies<br />
(limitatamente al compimento di attività con finalità di terrorismo<br />
internazionale), dell’art. 313 c.p., ovvero della subordinazione della<br />
procedibilità ad autorizzazione del Guardasigilli, diretta a consentire una<br />
valutazione di natura politica dei fatti in questione, nella loro possibile rilevanza<br />
sul piano degli equilibri internazionali, a fronte della permanenza<br />
dell’esclusione, per le medesime ipotesi, del principio di difesa, sancito dall’art.<br />
7, n. 1, c.p., come modificato dalla l. 438/2001.<br />
Dalla sintesi dei tratti caratterizzanti la l. 155/2005 emerge pertanto<br />
come il legislatore attuale – ben più che il suo predecessore del 2001( 57 )<br />
– abbia inteso approntare delle misure ‘a tutto campo’ per la prevenzione<br />
e la repressione del terrorismo (anche) internazionale, in deroga rispetto ai<br />
paradigmi tipici del Bürgerstrafrecht – ed in forte analogia con l’idéé direc-<br />
( 54 ) G. Frigo, op. cit., 77.<br />
( 55 ) L. Ferrajoli, Diritto, etc., cit., 864.<br />
( 56 ) J. Bentham, Théorie des peines et des récompenses, Londres, 1811, II part., liv. I,<br />
chap. XII, 159.<br />
( 57 ) La l. 438/2001 – con la quale si è tra l’altro modificata la formulazione dell’art.<br />
270-bis c.p. e si è introdotta la fattispecie di assistenza agli associati, di cui all’art. 270-ter<br />
– ha infatti rappresentato un intervento di dimensioni decisamente ridotte rispetto a quello<br />
del 2005, alle cui lacune tuttavia la legge 155 non sembra avere posto adeguatamente rimedio;<br />
accentuandone anzi i tratti emergenziali ed illiberali ed accordando, nel bilanciamento<br />
tra esigenze socialdifensive ed istanze individualgarantiste, netta prevalenza alle prime.
204<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
trice dei Patriot Acts statunitensi e del Terrorism Act inglese – così introducendo<br />
un sottosistema penale d’eccezione, dalla logica illiberale e socialdifensiva,<br />
modellato sulla figura del nemico, ora individuato nel ‘terrorista’.<br />
Tuttavia, la strutturale carenza di determinatezza delle fattispecie introdotte,<br />
la loro scarsa tassatività sistemica (dovuta alla mancanza di coordinamento<br />
tra le disposizioni) e la conseguente ineffettività delle stesse, induce<br />
a rilevare come l’intervento legislativo in analisi (che nasce peraltro dalla<br />
conversione (straordinariamente tempestiva) di un decreto legge) persegua<br />
la funzione strumentale di catalizzare, a fini di legittimazione politica e di<br />
strategia elettorale, il consenso di un’opinione pubblica sempre più pervasa<br />
– complice anche la strumentalizzazione mediatica del fenomeno terroristico<br />
e criminale in genere – dall’Unsicherheitsgefühl tipico della società<br />
del rischio, in cui cresce la percezione del rischio di vittimizzazione. In<br />
tal senso depone peraltro l’avere il legislatore introdotto, in sede di conversione,<br />
all’art. 270-sexies c.p., la ‘precisazione’, alla cui stregua ‘‘sono considerate<br />
con finalità di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto,<br />
possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione<br />
internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o<br />
costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere<br />
o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le<br />
strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un<br />
Paese o di un’organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definite<br />
terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o<br />
altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia’’.<br />
Tale precisazione si conforma alla direttiva politico-criminale sottesa<br />
alla riformulazione dell’art. 270-bis c.p., da parte della l. 438/2001, volta<br />
ad estendere l’oggettività giuridica tutelata dalla fattispecie, valorizzandone<br />
la dimensione metanazionale. Se infatti si è tradizionalmente attribuita, al<br />
bene giuridico protetto dalla norma, una valenza duplice (da un lato, cioè,<br />
la personalità dello Stato, come indicato peraltro dalla collocazione sistematica<br />
della disposizione e dall’altro, l’ordine pubblico, inteso alla stregua<br />
della Wertordnung costituzionale, su cui incide l’attività eversiva dei terroristi),<br />
la novella del 2001 ha evidenziato come l’ipotesi di atti di violenza<br />
diretti «contro uno Stato estero, un’istituzione od un organismo internazionale»<br />
sottenda la tutela dell’ordinamento costituzionale italiano, anche<br />
nella parte in cui «richiama le norme del diritto internazionale generalmente<br />
riconosciute e le organizzazioni internazionali che operano per assicurare<br />
la pace e la giustizia tra le nazioni (artt. 10 e 11 Cost.), nonché i vincoli<br />
derivanti dagli obblighi internazionali (art. 117 Cost.)»( 58 ).<br />
( 58 ) G. Palombarini, sub art. 270-bis, inA. Crespi – F. Stella – G. Zuccalà,<br />
Commentario breve al codice penale, Padova, 2004, 625.
SAGGI E OPINIONI<br />
205<br />
La finalità del rispetto, costituzionalmente sancito, degli obblighi assunti<br />
in sede internazionale, muterebbe pertanto il concetto di «personalità<br />
dello Stato», evidenziandone la dimensione di soggetto istituzionale titolare<br />
di obblighi sul piano internazionale, tra i quali, in primis, quello di (contribuire<br />
a) garantire la pace e la sicurezza tra le nazioni. Ora, la riformulazione<br />
dell’art. 270-bis c.p., da parte della l. 438/2001, ha rappresentato certamente<br />
– come rilevato da autorevole dottrina( 59 ) – l’ennesima ‘occasione<br />
mancata’ per conferire maggiore determinatezza ad una fattispecie che demandava<br />
alla discrezionalità giudiziale l’interpretazione del concetto di terrorismo,<br />
e conseguentemente (dato l’orientamento soggettivamente pregnante<br />
della norma), l’individuazione del suo stesso ambito applicativo.<br />
Tuttavia, la norma introdotta dalla l. 155 non sembra conseguire i risultati<br />
auspicati, in ragione della omnicomprensività( 60 ) (e conseguente<br />
scarsa selettività) della clausola prevista (che peraltro traspone pedissequamente<br />
il primo alinea dell’art. 1 della Decisione Quadro 2002/475/GAI) e<br />
soprattutto dell’integrale rinvio recettizio operato, dalla formula di chiusura,<br />
alle disposizioni internazionali sul tema, carenti anch’esse (come la<br />
maggior parte del diritto internazionale pattizio) in primo luogo, di tassatività<br />
(si pensi, a titolo meramente esemplificativo, all’art. 2 della Convenzione<br />
di New York per la repressione di attentati terroristici dinamitardi<br />
( 59 ) A. Manna, Erosione delle garanzie individuali in nome dell’azione di contrasto al<br />
terrorismo: la privacy, in RIDPP, 2005, 33 ss.; si segnala in proposito come secondo il Gip di<br />
Milano (sent. 24.1.2005, in www.costituzionalismo.it), la norma non comprenda anche gli<br />
atti di guerriglia, per quanto violenti, posti in essere nell’ambito di conflitti bellici in atto<br />
in altri Stati ed a prescindere dall’obiettivo preso di mira, in quanto ciò determinerebbe ‘‘inevitabilmente<br />
un’ingiustificata presa di posizione per una delle forze in campo, essendo peraltro<br />
notorio che nel conflitto bellico (iracheno: n.d.r.), come in tutti i conflitti dell’era contemporanea,<br />
strumenti di altissima potenzialità offensiva sono stati innescati da tutte le forze in<br />
campo’’.<br />
( 60 ) Comune peraltro alle legislazioni antiterroristiche inglesi e statunitensi. Secondo il<br />
Terrorism Act britannico, infatti, la finalità terroristica è integrata anche dalla minaccia diretta<br />
al raggiungimento di generici fini religiosi, politici o ideologici, realizzabile persino da condotte<br />
costituenti una grave violenza contro la persona od un grave danno alla proprietà. Sottolineano<br />
tuttavia G. Melillo e A. Spataro, op. cit., 54, come le caratteristiche delle condotte<br />
con finalità di terrorismo tipizzate dall’art. 270-sexies siano pressoché assenti nella<br />
maggior parte degli atti terroristici realizzati dalle Brigate rosse o da altre associazioni eversive<br />
nazionali, le quali pertanto non risulterebbero – paradossalmente – riconducibili alla disciplina<br />
di nuovo conio. Rimarca il carattere tautologico della tipizzazione delle condotte con<br />
finalità di terrorismo di cui all’art. 270-sexies, norma inidonea a ‘raggiungere un contenuto<br />
effettivamente autonomo e selettivo rispetto al significato che il termine terrorismo assume<br />
nel linguaggio comune, L. Pistorelli, op. loc. ult. cit. In una diversa prospettiva, evidenzia<br />
la natura – assunta, già prima della legge 155, dalla formulazione della Decisione Quadro<br />
475-Gai del 13 giugno 2002 – di ‘referente esegetico’ di diritto interno per la definizione<br />
di una nozione tecnico-giuridica di ‘terrorismo’, G. Frigo, Straniero «cacciato» senza garanzie,<br />
inGuida al diritto, 2005, n. 33, 82.
206<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
del 15 dicembre 1997, od all’art. 2 della Convenzione di New York per la<br />
repressione del finanziamento del terrorismo, del 9 dicembre 1999).<br />
La dubbia legittimità di tale integrazione di un requisito costitutivo del<br />
precetto da parte di norme – quali quelle di fonte internazionalistica – che<br />
per il loro carattere necessariamente compromissorio (dovuto all’esigenza<br />
di armonizzazione delle legislazioni interne e dal voto all’unanimità, generalmente<br />
previsto per l’approvazione delle disposizioni internazionali) presentano<br />
inevitabilmente una strutturale carenza di determinatezza, appare<br />
infatti in contrasto con il principio costituzionale di precisione della norma<br />
incriminatrice, nella sua funzione precipuamente individualgarantistica.<br />
La norma introdotta all’art. 270-sexies c.p. conferma pertanto la vocazione<br />
simbolico-espressiva e socialdifensiva di una legislazione nata sull’onda<br />
dei ‘bisogni emotivi di pena’ indotti dalla percezione (non di rado<br />
strumentalizzata) del fenomeno criminale, e dall’esigenza di legittimazione,<br />
ancora una volta politica.<br />
Si tratta, in termini più generali, della sovrapposizione della sécurité<br />
alla sûreté. Nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo e del cittadino<br />
del 1879 la sécurité costituiva il diritto del cittadino alla garanzia, da<br />
parte dello Stato, della sicurezza: sicurezza, quindi, nel(e mediante lo)<br />
Stato; la sûreté indicava il diritto ‘naturale ed imprescrittibile’ dell’uomo:<br />
sicurezza (quale sfera di intangibilità) dallo Stato. Le odierne politiche sicuritarie<br />
hanno ridotto questa dicotomia ad un’equazione, sulla base dell’assioma<br />
mistificante secondo cui la sûreté non possa che realizzarsi nella sécurité(<br />
61 ).<br />
Assioma mistificante, si diceva, in quanto teso ad occultare la reale origine<br />
di fenomeni criminali quali in primis il terrorismo; fenomeni che nascono<br />
sul terreno di una profonda caduta di legittimazione dell’ordinamento,<br />
il cui aspetto primario è proprio l’inefficienza dei meccanismi democratici<br />
di controllo sociale( 62 ).<br />
6. L’obiettivo politico di combattere il terrorismo internazionale e la<br />
strumentalizzazione delle istanze repressive scaturite dal diffuso Unsicherheitsgefühl<br />
hanno pertanto riproposto, in primo luogo (ma, come si vedrà<br />
tra breve, non solo) nel settore della legislazione di contrasto al terrorismo<br />
e, più in generale, al crimine organizzato, la logica del delitto politico( 63 ),<br />
( 61 ) M. Palma, Ristretti e detenuti: la situazione europea, inQG, 2004, 437 ss..<br />
( 62 ) E. Resta, Terrorismo e stato della crisi, Quest. Crim., 1979, 27.<br />
( 63 ) Nozione che intendiamo con riferimento all’accezione autoritaria, legata ad un<br />
concetto di ‘ragion di Stato’ che da Machiavelli, a Bodin, all’idealismo di Fiche ed Hegel,<br />
giunge sino a Carl Schmitt. Accezione, questa, notoriamente contrapposta a quella ‘liberale’,<br />
che riconduce al diritto di resistenza (sancito peraltro dall’art. 2 della Dichiarazione del<br />
1789, dall’art. 50 del Progetto di Costituzione italiana, dalle Costituzioni del 1946 e 1947
SAGGI E OPINIONI<br />
207<br />
come luogo di affermazione della ragion di Stato sullo Stato di diritto. La<br />
costruzione di questa categoria di diritto penale ‘speciale’( 64 )ètendenzialmente<br />
accomunata dalla ricorrenza della figura del reato associativo, nelle<br />
sue diverse specificazioni: dall’associazione di stampo mafioso( 65 ) a quella<br />
finalizzata alla tratta di persone (introdotta dalla l. 228/2003)( 66 ), a quella<br />
di taluni Länder tedeschi, dall’art. 20 della Costituzione portoghese del 1976) la legittimità di<br />
ogni atto di opposizione (finanche il delitto politico) all’esercizio arbitrario del potere statuale.<br />
Tale pensiero affonda le proprie radici nell’Antigone sofoclea, nella dottrina paleocristiana<br />
della disobbedienza in caso di conflitto tra precetti religiosi e giuridici, nelle teorie medievali<br />
del tirannicidio, per fondersi con il giusnaturalismo di matrice groziana: cfr. L. Ferrajoli,<br />
Delitto politico, ragion di stato e stato di diritto, in AA.VV., Il delitto politico, etc., cit.,<br />
53 ss.. È peraltro noto il rifiuto del Carrara di trattare la categoria, e le obiezioni opposte alla<br />
tesi del Pessina (tendente a risolvere il conflitto autorità versus libertà a favore della ‘‘sicurezza<br />
interna ed esterna’’ dello Stato), sulla base del paventato rischio che la difesa sociale possa<br />
risolversi nella mera protezione della posizione dei governanti, che si sono posti non ‘‘accanto’’,<br />
ma ‘‘sopra’’ ai consociati. Sul punto, v. F. Colao, Il delitto politico tra Ottocento e Novecento.<br />
Da «delitto fittizio» a «nemico dello Stato», Milano, 1986, 82 ss..<br />
( 64 ) Categoria che ha peraltro visto la progressiva estensione di istituti peculiari, nati<br />
sul terreno della legislazione antimafia, anche al settore dei reati commessi per finalità di terrorismo<br />
o di eversione dell’ordine democratico: si pensi alla disciplina dei collaboratori di<br />
giustizia, all’ormai stabilizzato regime detentivo speciale ex art. 41-bis ord. pen., alle misure<br />
di prevenzione patrimoniale, alle peculiari norme processuali in tema di confisca, intercettazione<br />
telefonica ed attività di polizia sotto copertura: queste ultime peraltro di recente estese,<br />
tra l’altro, anche ai delitti di schiavitù di cui alla l. 228/2003 ed a taluni delitti di sfruttamento<br />
sessuale del minore, di cui alla l. 269/1998. L’estensione di tali istituti – accomunati dalla<br />
finalità repressiva e dalle modalità inquisitorie ed antigarantistiche – a fronte della eterogeneità<br />
dei reati interessati, conferma ulteriormente l’opzione politico-criminale sottesavi, di<br />
costruire una categoria speciale del diritto penale, retta dalla logica del diritto penale del nemico.<br />
( 65 ) La natura di delitto politico è stata del resto riferita anche all’associazione mafiosa,<br />
in quanto momento di ‘‘costruzione ed espressione del potere mafioso’’ (E. Musco, Mafia e<br />
istituzioni,inStudi Costa, 305 ss.; cit. da G. Forti, sub art. 416-bis in A. Crespi-F. Stella-<br />
G. Zuccalà, Commentario breve al codice penale, Padova, 2003). Non puó tuttavia negarsi<br />
al fenomeno mafioso il riconoscimento del suo carattere strutturale della vita politica, economica,<br />
sociale del nostro Paese, contrassegnato dalla ricerca di relazioni d’influenza con la sfera<br />
politica istituzionale, non già per rivolgerne l’assetto, ma anzi per mantenerlo costante ed<br />
esercitare al suo interno la propria sfera di potere (in tal senso, G. Narducci, Terrorismo,<br />
criminalità organizzata e diritto penale, inQG, 2004, 393). Per un quadro generale della legislazione<br />
sul tema, non può tuttavia che rinviarsi a G. Fiandaca (a cura di), La legge antimafia<br />
tre anni dopo. Bilancio di un’esperienza applicativa, Milano, 1986.<br />
( 66 ) Che per i profili, che la caratterizzano, di strutturale indeterminatezza, carente tassatività<br />
sistemica, esasperato rigore repressivo, nonché di ineffettività disnomica e conseguente<br />
funzionalità meramente simbolico-preformativa, rivela come alla base dell’intervento<br />
legislativo del 2003 debba in realtà rinvenirsi la volontà politica di controbilanciare (e quindi<br />
distogliere l’attenzione dal)l’opzione politico-criminale sicuritaria e di stampo socialdifensivo,<br />
sottesa alla legislazione ‘terroristica’ in materia di immigrazione. Lo slittamento della questione<br />
del neo-schiavismo sulla riformulazione dei delitti di cui agli artt. 600 ss. c.p., con particolare<br />
riferimento alla tratta di persone (tema cui sia l’Onu che l’Unione Europea hanno<br />
dedicato diverse convenzioni e decisioni), è cioè funzionale ad occultare gli effetti delle po-
208<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
caratterizzata dalla finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione<br />
dell’ordine democratico, di cui all’art. 270-bis c.p.( 67 ). Settori, questi,<br />
ove il diritto penale si modula tendenzialmente secondo i canoni del Täterstrafrecht<br />
in ragione della potenzialità, intrinseca alla dinamica concorsuale,<br />
di estensione della responsabilità, sempre meno vincolata alla colpevolezza<br />
per il fatto piuttosto che alla appartenenza ad un sodalizio criminale.<br />
La repressione della criminalità organizzata denota una costante sovraesposizione<br />
della figura dell’autore, rinunciandosi alla differenziazione<br />
tra i ruoli centrali e quelli marginali perché ‘‘non esiste più il centro dell’accadimento.<br />
Il nemico è l’organizzazione, la sua rete, la struttura. Una lotta<br />
efficiente ad una organizzazione non si attarda sulla differenziazione tra<br />
ruolo marginale e centrale’’, dal momento che l’appartenenza all’organizzazione<br />
è punita come autoria( 68 ).<br />
Il tratto caratterizzante tali ipotesi criminose – pur nelle loro profonde<br />
diversità –èla connotazione in chiave di ‘nemico’ dell’autore( 69 ), cui lo<br />
litiche di chiusura delle frontiere (dell’Unione e dei suoi Stati membri) e di ‘tolleranza zero’<br />
nei confronti dei migranti. La tesi sembrerebbe confermata dalla tendenza della giurisprudenza<br />
ad applicare la disciplina della legge Merlin anche in relazione ad ipotesi (in particolare,<br />
tratta o riduzione in schiavitù di donne a fini di sfruttamento sessuale o della prostituzione)<br />
compatibili con le incriminazioni di cui ai ‘nuovi’ artt. 600 o 601 c.p., la cui applicazione<br />
sembra invece limitata a rari casi, relativi a vittime minorenni (in tal senso, vds. M.G.<br />
Giammarinaro, Aspetti positivi e nodi critici della normativa contro la tratta di persone, in<br />
QG, 2005, 458. In argomento, sia consentito il rinvio a F. Rresta, voce Personalità individuale<br />
(delitti contro la), inS. Cassese (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, in corso di<br />
pubblicazione per l’editore Giuffré.<br />
( 67 ) Sottolinea L. Ferrajoli, Diritto, etc., 853, come la legislazione dell’emergenza in<br />
Italia abbia conosciuto, dopo una prima fase di ‘diritto speciale di polizia’ (dalla legge Bartolomei<br />
del 1974, alla legge Reale del 1975, alla legislazione sull’ordine pubblico del biennio<br />
’77-’78, volte a duplicare, in capo alla polizia giudiziaria, tutti i poteri istruttori della magistratura),<br />
un diritto penale politico d’eccezione (dal decreto Cossiga del 15.12.1979, alla legge<br />
sui pentiti del 29.5.1982, alla l. 30471982), caratterizzato dalla contestazione dei reati associativi<br />
come ipotesi istruttorie da verificare nel corso del processo, ma comportanti la custodia<br />
cautelare (prorogata nel massimo e resa misura obbligatoria ed automatica, in ragione<br />
dell’obbligo del mandato di cattura e del divieto di libertà provvisoria sulla base del reato<br />
contestato e della sua finalità terroristica; aggravante, questa, speciale, non bilanciabile e pertanto<br />
causa di aumento automatico della pena e della durata della custodia cautelare); dalla<br />
struttura inquisitoria del processo, dominato da logiche premiali e delatorie; dall’introdotta<br />
differenziazione del regime detentivo. A questa fase è seguita l’estensione delle prassi emergenziali,<br />
nate sul terreno della lotta al terrorismo ed alla mafia, a più ampi settori (dalla legislazione<br />
in materia di stupefacenti, ai delitti di schiavitù, a quelli in tema di sfruttamento sessuale<br />
dei minori), con una progressiva soggettivizzazione e differenziazione dello statuto penale<br />
per tipi di autore, nonché una connotazione poliziesca dell’intiera funzione giudiziaria<br />
ed un’accentuazione del contenuto segregativo ed affittivo – non già risocializzante – della<br />
pena.<br />
( 68 ) G. Insolera, Reati associativi, delitto politico e terrorismo globale, inDPP, 2004,<br />
1326.<br />
( 69 ) L’assimilazione tra nemico e criminale è daC. Schmitt, Der Nomos der Erde im
SAGGI E OPINIONI<br />
209<br />
Stato si contrappone in una strategia difensiva che ricorda l’antitesi schmittiana,<br />
escludendo ogni possibile mediazione dialettica.<br />
La sinergia funzionale tra Feindstrafrecht e delitto politico (in quanto<br />
terreno di scontro tra ragion di Stato e nemico-criminale, ma ancor più<br />
tra ragion di Stato e Stato di diritto) emerge in maniera emblematica con<br />
riferimento ai reati associativi, che anche se non direttamente rivolti contro<br />
la sicurezza dello Stato, presentano una nota di sostanziale politicità. L’associazione<br />
criminosa, autoaffermandosi come ordinamento autonomo ed<br />
originario in contrapposizione a quello statale, ed assumendo a fine del sodalizio<br />
la commissione di reati, mira a legittimarne lo statuto, ledendo il<br />
bene costituzionalmente garantito dell’esclusività della normazione penale(<br />
70 ), al fine di delegittimare la stessa istanza statuale.<br />
È la stessa assolutezza del valore che si ritiene leso da questi delitti che<br />
ne connota l’autore quale nemico, e trasformando l’accusa in nemesi, impone<br />
allo Stato una reazione emergenziale, ove per ‘emergenza’ si intende<br />
drammatizzazione della reazione penale, che da strumento di controllo sociale<br />
diviene conflitto, in cui si dissolve ogni garanzia, ‘‘in nome della difesa<br />
essenziale dell’ordinamento’’( 71 ). Del resto, non è forse il diritto il mimo<br />
della guerra?, ci ricorda Nietzsche, con la consueta lungimiranza.<br />
Il paradosso del delitto politico si radica invero nel fatto che la stessa<br />
tutela dell’ordinamento, strumentalmente invocata per legittimare, nella logica<br />
socialdifensiva e sicuritaria della ‘lotta’ alla criminalità, inammissibili<br />
Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Köln, 1950, 232, ricondotta al superamento del<br />
concetto tradizionale di justus hostis, determinatasi con il Trattato di Versailles. Con particolare<br />
riferimento al fenomeno terrorista, osserva acutamente L. Stortoni, Terrorismo e<br />
Stato della crisi, inQuest. Crim., 1979, 7, che se esso è espressione di guerra, gli sono omogenee<br />
‘‘le categorie del nemico esterno che, come tale, va battuto e distrutto’’. Si snoda in altri<br />
termini qui il passaggio dal concetto di inimicus a quello di hostis, che mutuando la sua radice<br />
da hospites, immette la dinamica del conflitto nei confini della comunità politica.<br />
( 70 ) È la tesi di G. Neppi Modona, Criminalità organizzata e reati associativi, in<br />
AA.VV., Beni e tecniche della tutela penale. Materiali per la riforma del codice, a cura del<br />
CRS, Milano, 1987, 118.<br />
( 71 ) A. Gamberini-G. Insolera, Delitto politico: luogo privilegiato per un’indagine<br />
sulla teoria costituzionale del bene giuridico, in AA.VV., Il delitto politico, cit., 41 ss.. Appare<br />
in proposito emblematico un passo della Relazione illustrativa del ddl 3571, successivamente<br />
approvato (l. 155/2001), ove si afferma l’ammissibilità dell’introduzione di norme incriminatici<br />
indeterminate ‘‘allorché si verte su situazioni preliminari alla commissione di reati di terrorismo<br />
e di eversione’’, invocandosi enfaticamente la prevalenza ‘‘del preciso ed indeclinabile<br />
dovere dell’ordinamento alla tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica<br />
contro il terrorismo e l’eversione, anche rispetto ad altri principi costituzionali» (c.a.). Sui paradigmi<br />
della legislazione emergenziale, non puó che rinviarsi a S. Moccia, La perenne emergenza.<br />
Tendenze autoritarie nel sistema penale, Napoli, 1997; nonché, con riferimento specifico<br />
alla legislazione in tema di criminalità organizzata ed ai suoi caratteri, appunto, emergenziali,<br />
Id. (a cura di), Criminalità organizzata e risposte ordinamentali: tra efficienza e garanzia,<br />
Napoli, 1999.
210<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
deroghe ai principi cardine dello Stato di diritto e del sistema penale, si<br />
converte in una mera ragion di Stato, di cui il diritto penale si fa strumento,<br />
convertendosi da Bürgerstrafrecht a Feindstrafrecht.<br />
Inteso quale paradigma della legislazione emergenziale, questo settore<br />
del diritto penale si è contrassegnato da un esasperato rigore sanzionatorio<br />
(con un regime di esecuzione differenziale e fortemente segregativo), sproporzionato<br />
alla idoneità lesiva del fatto e funzionale ad aggregare consensi e<br />
placare la domanda di penalità; da una sensibile anticipazione della soglia<br />
di tutela penale, sino all’autonoma criminalizzazione di atti meramente preparatori<br />
(con la parallela, netta prevalenza, del disvalore di azione su quello<br />
di evento); da una strutturale indeterminatezza del precetto, che si presta<br />
così ad una lettura pericolosamente discrezionale, in sede applicativa; da<br />
una tendenziale soggettivizzazione della fattispecie, in cui l’offesa al bene<br />
protetto si esprime nella proiezione finalistica della condotta ed in cui la<br />
pena – ancorata alla Täterschuld ed alla dimensione prognostico-preventiva<br />
della pericolosità dell’autore – si modula sugli stilemi della neutralizzazione,<br />
programmaticamente escludendosene ogni finalità rieducativa, o, meglio,<br />
di specialprevenzione positiva; da una notevole riduzione delle garanzie<br />
processuali e sostanziali e dal tendenziale ricorso a strategie premiali, incentrate<br />
sul dissociazionismo e sulla collaborazione processuale, e rispondenti<br />
a strutture e logiche radicalmente diverse rispetto a quelle proprie<br />
dei tradizionali istituti processuali e sostanziali di attenuazione od elisione<br />
della responsabilità.<br />
In questo settore del diritto penale la politicità del delitto si radica in<br />
un livello più profondo della mera connotazione nominalistica, per divenire<br />
parametro valoriale di legittimazione, la cui fonte è appunto la ragion politica<br />
di stato, e non i principi – formalistico-cognitivi, non sostanzialistici<br />
ed assiologicamente neutrali – dello Stato di diritto, di cui la crociata<br />
contro il ‘nemico’ ha consentito la violazione. Ponendosi la ragion di Stato<br />
quale parametro di autoregolazione della politica, pre-e meta-giuridico,<br />
essa costituisce il criterio assiologico nel cui nome lo Stato di diritto pretende<br />
di legittimare giuridicamente la propria eversione, difendendosi attraverso<br />
la negazione di sé( 72 ).<br />
Ma la politicità di questa categoria, pur eterogenea, di reati, si rinviene<br />
nella penetrazione della ragion di stato nelle stesse dinamiche dell’imputazione<br />
e del processo, che da procedura cognitiva di fatti – basata sulla<br />
Wertneutralität delle categorie e sulla terzietà del giudizio – diviene ‘‘procedura<br />
potestativa ed inquisitoria, informata al principio – schiettamente<br />
politico – dell’‘‘amico/nemico’’; (..) all’atto della formulazione delle accuse,<br />
( 72 ) L. Ferrajoli, Delitto politico, ragion di stato e stato di diritto, inIl delitto politico,<br />
etc., cit., 57.
SAGGI E OPINIONI<br />
211<br />
quando il nemico è identificato, con l’ausilio di figure di reato indeterminate<br />
come sono i delitti associativi, non già in base a fatti ma direttamente<br />
con riguardo alla sua personalità sovversiva, secondo il modello autoritario<br />
del tipo d’autore che contraddice il principio liberale secondo cui si delinque<br />
in quanto si opera e non in quanto si è; nel corso del processo,<br />
quando ‘‘amici’’ e ‘‘nemici’’ si definiscono in forza del loro schierarsi dalla<br />
parte dell’accusa anziché dalla parte della difesa, che pure è la parte che<br />
l’imputato avrebbe normalmente il diritto di impersonare; nel momento<br />
della condanna, quando pene e ricompense vengono distribuite non già<br />
in base alle responsabilità accertate, ma al contributo recato alla verità accusatoria’’(<br />
73 ).<br />
7. Il delitto politico – categoria funzionalistica, in cui la flessibilità<br />
degli istituti in chiave pragmatica prevale sul momento teleologico – si è<br />
sempre rappresentato quale emblema dell’attacco frontale ai fondamenti<br />
ultimi dell’ordinamento, e nei confronti dei suoi autori la ragion di Stato<br />
è ricorsa costantemente alle armi della neutralizzazione e della costruzione<br />
di identità differenziali (labelling), escludendosi ogni possibilità di mediazione<br />
e, quindi, di reinserimento nella Gesellschaft, sia pur mediante l’irrogazione<br />
della pena. Evidente come su questo terreno il diritto penale abbia<br />
progressivamente mutuato le sue logiche dai codici della guerra e della opposizione<br />
al nemico (identificato da criteri costitutivi e sostanzialistici e da<br />
procedure inquisitorie), dissolvendo ogni istanza garantistica di mediazione<br />
giuridica, in nome della difesa sociale.<br />
Il Feindstrafrecht pertanto, lungi dall’essere la conseguenza meramente<br />
contingente del sicuritarismo dominante nella ‘Società del rischio’ – nata<br />
sul crollo del Welfare e sulle macerie di Ground Zero – vanta radici antiche,<br />
e della sua origine (il delitto politico, appunto) ripropone costantemente<br />
l’antinomia tragica tra ragion di Stato e principi dello Stato di diritto.<br />
Ma la novità della presente congiuntura storico-politica consiste nell’espansione<br />
dei paradigmi della legislazione d’emergenza – nelle forme del<br />
diritto penale del nemico – ben oltre i settori (di ‘tradizionale’ sviluppo<br />
del Feindstrafrecht) del delitto politico. In tal senso depone la progressiva<br />
estensione del paradigma antigarantista, sicuritario e socialdifensivo ai settori<br />
della legislazione (in particolare, ma non solo italiana) in materia di stupefacenti,<br />
sfruttamento sessuale dei minori ed immigrazione.<br />
Rinviando, con riferimento a quest’ultima, alle considerazioni che seguiranno,<br />
appare opportuno rilevare, sia pure in estrema sintesi, come la legislazione<br />
italiana in materia di stupefacenti, di cui al d.p.r. 309/1990 presenti i<br />
( 73 ) L. Ferrajoli, Delitto politico, ragion di stato e stato di diritto, inIl delitto politico,<br />
etc., cit., 52.
212<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
caratteri, tipici del Feindstrafrecht, di esasperato rigore repressivo, notevole<br />
anticipazione dell’intervento penale – sino all’autonoma incriminazione di<br />
atti preparatori e condotte meramente prodromiche all’esposizione a pericolo<br />
del bene protetto, senza che peraltro la ridotta offensività del fatto si rifletta<br />
sul trattamento sanzionatorio – riduzione delle garanzie e dinamica processuale<br />
modulata su logiche inquisitorie e su ‘premi’ alle condotte delatorie.<br />
Queste considerazioni possono estendersi, a fortiori, alla recente riforma<br />
della disciplina degli stupefacenti di cui alla legge 49/2006, che –<br />
in direzione opposta alle politiche di harm reduction – giunge tra l’altro<br />
ad equiparare, per quanto concerne il trattamento sanzionatorio, le droghe<br />
pesanti a quelle leggere – equiparazione del tutto irragionevole e dalle evidenti<br />
finalità simboliche, stante la diversità gravità degli effetti connessi al<br />
consumo dell’uno o dell’altro tipo di stupefacenti –, ripristina la criminalizzazione<br />
della detenzione per uso personale in quantità superiori a quelle<br />
indicate dalla disciplina di settore (contrariamente alla volontà popolare<br />
espressasi in sede referendaria, nel 1993), prevede un netto incremento<br />
della comminatoria edittale delle fattispecie de quibus ed un sistema di sanzioni<br />
amministrative, la cui afflittività ne rivela il carattere sostanzialmente<br />
penale, la subordinazione al regime amministrativo apparendo meramente<br />
funzionale ad eludere le garanzie dello statuto penalistico.<br />
Ne emerge pertanto l’orientamento precipuamente generalpreventivo<br />
(sia in termini di deterrenza che in funzione preformativa di un atteggiamento,<br />
in primis etico, di stigmatizzazione del tossicodipendente: Zero tolerance),<br />
volto a costruire – secondo una dinamica oscillante tra il correzionalismo<br />
terapeutico e la segregazione manicomiale – l’identità differenziale<br />
di un autore malato ma intrinsecamente deviante e pericoloso, pertanto<br />
meritevole di neutralizzazione ed incapacitazione, non già di misure davvero<br />
tese, in chiave specialpreventiva positiva, al trattamento, né tantomeno<br />
dell’apprezzamento (in sede di valutazione della piena capacità di intendere<br />
e volere al momento del fatto) dell’eventuale alterazione psichica<br />
che ne abbia sorretto la condotta.<br />
Analoghe flessioni delle garanzie individuali e dei principi costituzionali<br />
propri del diritto penale (se non liberale, quantomeno ‘comune’) presenta<br />
la legislazione italiana in materia di sfruttamento sessuale del minore,<br />
di cui alla l. 269/1998 (non a caso nota come legge contro la ‘pedofilia’),<br />
incentrata su di una sensibile anticipazione dell’intervento penale – che<br />
giunge sino alla criminalizzazione di comportamenti i quali, per la loro eccessiva<br />
distanza dal bene giuridico di riferimento, sono al più meramente<br />
sintomatici di un vicious behaviour( 74 ) –, su di un rigore repressivo del<br />
( 74 ) Si pensi, in particolare, all’art. 600-quater c.p., che sanziona con pene draconiane<br />
la mera detenzione di materiale pedopornografico, così giungendo ad incriminare un comportamento<br />
che finisce con l’esaurirsi nel foro interno del soggetto; luogo precluso persino
SAGGI E OPINIONI<br />
213<br />
tutto sproporzionato rispetto alla idoneità lesiva (per il bene giuridico protetto)<br />
delle condotte – peraltro descritte da norme strutturalmente indeterminate<br />
– e su di una notevole riduzione delle garanzie processuali.<br />
La tendenza alla costruzione di victimless crimes sembra peraltro accentuarsi<br />
a seguito della riforma operata dalla l. 38/2006, che ha introdotto<br />
nel corpus codicistico l’art. 600-quater.1, ove si prevedono pene draconiane<br />
per condotte di produzione, divulgazione, cessione, detenzione, di materiale<br />
pedopornografico virtuale, ovvero prodotto artificialmente o con fotomontaggi,<br />
in modo da escludere lo sfruttamento sessuale dei minori sin<br />
dalla fase di realizzazione del materiale. Evidente come l’eccessiva distanza<br />
del bene protetto rispetto alla condotta sia in tali ipotesi così accentuata da<br />
riproporre la confusione tra reato e peccato, dal momento che si puniscono<br />
condotte al più meramente sintomatiche di una Gesinnung, ritenuta eticamente<br />
riprovevole e per questo stigmatizzata, al pari del suo autore (il ‘pedofilo-deviante’),<br />
cui si attribuisce lo statuto di ‘nemico interno’, da cui difendersi<br />
con una crociata che sostituisce alla mediazione della sanzione giuridico-penale<br />
la valenza escludente dello stigma( 75 ).<br />
Sembra pertanto che la sollecitazione sicuritaria si stia, anche in questi<br />
settore della legislazione, progressivamente traducendo in una torsione dei<br />
principi costituzionali e delle stesse categorie dommatiche fondamentali del<br />
Bürgerstrafrecht, verso il limbo del diritto penale del nemico.<br />
all’azione del Leviathan, di hobbesiana memoria, o alle fattispecie di produzione e detenzione<br />
di materiale pedopornografico virtuale, di cui all’art. 600-quater.1, introdotto dalla legge<br />
38/2006. Sul punto, sia consentito il rinvio a F. Resta, I delitti contro l’integrità psico-fisica<br />
del minore, alla luce delle recenti riforme, inDir. Form., 2006, n. 2, 63 ss.; Ead., voce Personalità<br />
individuale (delitti contro la), inS. Cassese (a cura di), Dizionario Giuridico, Milano,<br />
2006, in corso di pubblicazione; A. Manna-F. Resta, La riforma della legge sulla pedopornografia.<br />
Una tutela virtuale?, inDir. Int., 2006, n. 3, 1 ss.; F. Resta, Nasenda de un direito<br />
penal do inimigo?, inS.R. Martini Vial, (ORG), Temas atuais en sociologia jurìdica, Santa<br />
Cruz do Sul, 2005, 107 ss.<br />
( 75 ) L’attribuzione alla pena del carattere di misura tesa alla incapacitazione e neutralizzazione<br />
è del resto l’idea ispiratrice della proposta avanzata dal Ministro Calderoli in data<br />
22 giugno 2005, di prevedere per i delinquenti sessuali ed i condannati per i reati di cui alla l.<br />
269/1998, addirittura la castrazione, a sostegno di ciò adducendosi peraltro l’esperienza (del<br />
tutto fallimentare, vista la scarsa riduzione del tasso di recidività) di paesi esteri, tra i quali in<br />
primo luogo il Belgio. Per un recupero del paradigma della innocuizzazione come fine della<br />
pena, in relazione alla selective incapacitation degli high risk offenders negli Usa, ed alla Gesetz<br />
zur Bekämpfung von Sexualdelikten und anderen gefährlichen straftaten, del 26.1.1998, v.<br />
J.M. Silva Sánchez, Estudios de derecho penal, Lima, 2000, 233 ss.; nonché sia consentito il<br />
rinvio a F. Resta, Tutela penale del minore: tra difesa sociale ed incriminazione del ‘‘vicious<br />
behaviour’’. Riflessioni in tema di pornografia minorile, inDir. Form., 2004, 1144-1163; Id.,<br />
Crimini, autori e provocatori: detenzione di materiale pedopornografico e attiività di contrasto,<br />
in Dir. Inf., 2004, 239-271; Manna, La delinquenza sessuale: profili relativi all’imputabilità ed<br />
al trattamento sanzionatorio, inIP, 2004, 867 ss..
214<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
8. Tra i vari contesti della politica criminale italiana, che attualmente<br />
si vanno sempre più modellando secondo gli stilemi della legislazione<br />
emergenziale, il settore della normativa sull’immigrazione rappresenta<br />
uno tra i più interessanti esempi dell’emersione del paradigma del ‘diritto<br />
penale del nemico’( 76 ).<br />
La legislazione in materia si è progressivamente orientata, nello spazio<br />
di sei anni (1998-2004), verso forme di securitarismo sempre più marcate e<br />
repressive, con una irragionevole Vorfeldkriminalisierung (estesa sino alla<br />
criminalizzazione di condotte meramente preparatorie od agevolatorie<br />
non già di illeciti penali, ma addirittura soltanto amministrativi!: cfr. art.<br />
12 T.U. 286/1998 e succ. mod.), una sensibile riduzione delle garanzie processuali<br />
e comminatorie edittali radicalmente sproporzionate rispetto alla<br />
gravità dell’illecito, con la parallela configurazione delle finalità della pena<br />
in termini di segregazione ed innocuizzazione.<br />
Il paradigma dell’esclusione e della segregazione del criminale-nemico<br />
emerge, già a livello puramente lessicale (e pertanto denotativo), dalla semantica<br />
normativa, che si incentra sulle misure (formalmente) amministrative<br />
(ma dalla idoneità afflittiva e stigmatizzante equivalente a quella propria<br />
della pena tout court) dell’espulsione dello straniero dal territorio dello<br />
Stato, del suo accompagnamento coattivo alla frontiera, del trattenimento<br />
dello stesso nei centri di permanenza temporanea. Veri e propri luoghi,<br />
questi, dell’esclusione, in cui le condizioni di vita dei trattenuti denotano<br />
la sistematica violazione dei diritti fondamentali e della dignità dell’uomo,<br />
subendo tali soggetti una degradazione – una deminutio capitis – tale da<br />
renderli non-persone, outsiders sociali( 77 ).<br />
La semantica dell’esclusione si lega del resto – in piena sintonia con la<br />
dinamica schmittiana della costruzione della figura del nemico e con la logica<br />
di guerra che ne è alla base – alla militarizzazione delle strategie repressive<br />
(il richiamo, centrale nel contesto della disciplina in tema di immigrazione,<br />
all’idea di frontiere – sempre più blindate( 78 ) – denota in tal<br />
( 76 ) I tratti caratterizzanti le forme di tutela ante delictum previste dal testo unico delle<br />
leggi di pubblica sicurezza sono state da F. Bricola, Forme di tutela ‘‘ante delictum’’ e profili<br />
costituzionali della prevenzione, inId., Politica criminale e scienza del diritto penale, Bologna,<br />
1997, 96, ricondotta alla politicità della materia, ovvero al necessario affidamento dei<br />
provvedimenti in parola al potere esecutivo, con la conseguente tendenza alla progressiva<br />
amministrativizzazione delle posizioni giuridiche soggettive dei soggetti interessati da queste<br />
norme; alla riduzione dell’intervento giurisdizionale imposta dalla semplificazione e dalla celerità<br />
delle procedure.<br />
( 77 ) A. Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Milano,<br />
1999.<br />
( 78 ) Si consideri come la l. 189/2002 abbia abrogato la disposizione di cui all’art. 3,<br />
comma quarto, t.u. 286/1998, relativa all’automatica reiterazione delle quote di ingresso consentite<br />
per l’anno precedente, nell’ipotesi di mancata emanazione dei decreti di programma-
SAGGI E OPINIONI<br />
215<br />
senso una straordinaria valenza euristica). Ciò che nella normativa in esame<br />
(art. 11, commi 9-bis ss. l. 189/2002) si traduce nell’attribuzione ai corpi<br />
della marina militare di rilevanti funzioni di controllo e sequestro – anche<br />
al di fuori delle acque territoriali, sancendosi così lo spostamento delle<br />
frontiere ben oltre i limiti della sovranità territoriale, in una progressiva<br />
‘deterritorializzazione del diritto’( 79 ) – di navi adibite o coinvolte nel trasporto<br />
illecito di migranti.<br />
Evocativa della logica di guerra e del predominio della forza sul diritto<br />
è del resto la disposizione di cui all’art. 7, comma quinto, d.m. 14 luglio<br />
2003 (attuativo della l. 189/2002) – che sancisce come nel contesto di attività<br />
di contrasto in mare dell’immigrazione clandestina ‘ove si renda necessario<br />
l’uso della forza, l’intensità, la durata e l’estensione della risposta devono<br />
essere proporzionate all’intensità dell’offesa, all’attualità e all’effettività<br />
della minaccia’ – rispetto a cui appare meramente mistificatoria la<br />
clausola del rispetto ‘della salvaguardia della vita umana’ e della ‘dignità<br />
della persona’, posta in apertura della norma.<br />
I tratti caratterizzanti della disciplina italiana dell’immigrazione – c’est<br />
à dire l’internazionalizzazione delle strategie di controllo e l’esternazionalizzazione<br />
dei luoghi e dei confini della segregazione( 80 ) – producano l’esito<br />
illiberale di costruire una categoria di autore: l’immigrato qualificato come<br />
clandestino, cui si attribuisce lo status di nemico pubblico, da escludere e<br />
segregare.<br />
L’attributo della clandestinità non rappresenta del resto – in sintonia<br />
con la logica stigmatizzante del labelling – che il portato dell‘incapacità dell’ordinamento<br />
italiano( 81 ) ad approntare efficaci politiche (non già proibi-<br />
zione annuale dei flussi migratori, attribuendo all’esecutivo la potestà di blindare le frontiere,<br />
secondo un ferreo proibizionismo modellato sui paradigmi della Zero tolerance.<br />
( 79 ) S. Mezzadra-E. Rigo, L’Europa dei migranti, inG. Bronzini-H. Freise-A.<br />
Negri-P. Wagner, Europa, costituzione e movimenti sociali, Roma, 2003, 223. Rileva acutamente<br />
A. Caputo, Immigrazione, diritto penale e sicurezza, inQG, 2004, 368, come lo<br />
spostamento delle frontiere, ‘‘traducendosi nell’esclusione di qualsiasi contatto dello straniero<br />
con il territorio e, quindi, con l’ordinamento dei paesi dell’Unione, comporterà losvuotamento<br />
di fatto del diritto d’asilo (peraltro, già oggi largamente negato dai nostri ordinamenti):<br />
un esito, appunto, drammaticamente paradossale nell’epoca della guerra preventiva, finalizzata,<br />
secondo quanto proclamato dai suoi profeti, all’affermazione della democrazia e delle<br />
libertà occidentali in ogni angolo del globo’’.<br />
( 80 ) A. Caputo, op. loc. ult. cit.<br />
( 81 ) Ma non solo. Si veda, in relazione all’analoga situazione spagnola, il raffinato contributo<br />
di M. Cancio Melià, La expulsión de ciudadanos extranjeros sin residencia legal (art.<br />
89 c.p.), Relazione tenuta in data 4.6.2004, nell’ambito del seminario ‘Retos de la globalización<br />
para el Derecho penal’, presso la Universidad Autónoma de Madrid. Del resto, l’origine<br />
del progressivo e sempre più marcato irrigidimento delle politiche antimigratorie, in Europa<br />
ma direi meglio in tutto il mondo occidentale, deve rinvenirsi in una congiuntura economicopolitica<br />
globale, che, dalla fine della guerra fredda e dalla correlativa caduta della divisione<br />
del mondo in due blocchi contrapposti, ha visto la graduale precarizzazione – nella Risiko-
216<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
zioniste, ma) di integrazione sociale, idonee a consentire la regolarizzazione<br />
dei migranti( 82 ) ricorrendo invece sistematicamente alla misura dell’espulsione(<br />
83 ), che riproduce nei confronti del migrante la dinamica di segrega-<br />
gesellschaft – dei diritti sociali e delle condizioni di impiego; il lento ma inesorabile indebolimento<br />
delle strutture assistenziali del Welfare State; l’incremento delle aree della marginalità<br />
sociale e quindi dei flussi migratori, da ciò derivanti. All’accentuazione in senso autoritario-repressivo<br />
delle politiche migratorie sviluppatesi in questo contesto, hanno indubbiamente<br />
contribuito in misura esponenziale la reazione politica mondiale agli eventi di<br />
Ground Zero e la progressiva diffidenza nei confronti del migrante, assunto quale emblema<br />
del nemico-criminale, di per sé temibile e pericoloso, irriducibilmente diverso, alien. Sottolineano<br />
quest’aspetto ed in particolare il legame tra le politiche migratorie fortemente restrittive<br />
– attuate da Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, in conseguenza dell’11/9 e sovente nel<br />
quadro di una legislazione antiterroristica di stampo repressivo e sicuritario – e l’esigenza di<br />
conferma identitaria delle nazioni occidentali, rispetto (non solo ai Paesi islamici, ma soprattutto)<br />
alle minoranze etniche presenti sui loro territori, J.P. Allinne, Gouverner le crime.<br />
Les politiques criminelle françaises de la révolution au XXIe Siécle, Tome II, Paris, 2004,<br />
170 ss.; J. Angrand, Enfermement identitaire et conflit intrasociétal: conséquences sur le plan<br />
de la sécurité internationale; A. Macleod, Insécurités et sécurité après les événements du 11<br />
septembre: France et Gran Bretagne, inS. J. Kirschbaum, Terrorisme et sécurité internationale,<br />
Bruxelles, 2004, rispettivam.: 217 ss. e 199 ss. e, con riferimento all’ordinamento canadese,<br />
A. Donneur-S. Roussel-V. Chirica, Les conséquences des événements du 11 septembre<br />
sur l’autonomie de la politique étrangère canadienne: les mesures de sécurité et la nouvelle<br />
législation antiterroriste, ivi, 171 ss..<br />
( 82 ) Ad esempio sulla base del decorso del tempo, della mancata commissione di illeciti<br />
penali, o su significativi indici di integrazione, quali in primis il conseguimento di un impiego<br />
lavorativo (in tal senso, A. Caputo, op. cit., 362). Sottolinea C. Longobardo, La disciplina<br />
delle espulsioni dei cittadini extracomunitari: presidi penali ed amministrativi al fenomeno dell’immigrazione,<br />
inS. Moccia (a cura di), Diritti dell’uomo e sistema penale, II, Napoli, 2002,<br />
260, come da un rapporto dell’Eurispes (Eurispes, a cura di, Rapporto Italia 1999, Roma,<br />
1999, 47) possa evincersi che la liberalizzazione degli ingressi degli immigrati comporterebbe<br />
– oltre alla possibilità di una migliore regolamentazione dovuta all’ufficialità degli stessi –<br />
l’impoverimento delle organizzazioni criminali che non di rado creano un ‘bisogno indotto’<br />
di emigrare verso il nostro paese, un netto risparmio delle risorse impiegate per la difesa ed il<br />
controllo delle coste, contribuendo ad abbattere le ‘trincee marittime’ e ad impedire così il<br />
sorgere di ‘trincee cittadine’. L’A. rileva giustamente come la frequente condizione di clandestinità<br />
del migrante, nella misura in cui lo rende maggiormente ricattabile, rappresenti di<br />
per sé un fattore criminogeno, come dimostra il dato secondo cui, a fronte di un notevole<br />
incremento del tasso di clandestinità degli immigrati, il tasso di delittuosità degli stranieri<br />
regolari è inferiore a quello dei cittadini italiani (posizione di recente ribadita da Luigi Mancioni<br />
in La Repubblica, 23 giugno 2005, 15). Ove poi si consideri (C. Longobardo, op.<br />
loc. ult. cit.; D. Padovan, L’immigrato, lo straniero, il carcere: il nuovo razzismo nelle cittadelle<br />
occidentali, inDei del. e delle pene, 1993, 1, 153) come il maggior numero di detenuti<br />
stranieri provenga da comunità contrassegnate da un elevato tasso di immigrati irregolari e<br />
lavoratori stagionali, emerge come le politiche migratorie di zero tolerance, lungi dal favorire<br />
la sicurezza interna, non abbiano che elevato il tasso di devianza, in una spirale in cui le logiche<br />
sicuritarie determinano l’incremento del tasso di insicurezza collettivo: self-fullfilling<br />
prophecy?<br />
( 83 ) La normativa in esame prevede tre forme di espulsione: quella, di cui all’art. 15,<br />
costituente misura di sicurezza; la sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione, di cui<br />
all’art. 16 (le cui eccezioni di illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 27, comma
SAGGI E OPINIONI<br />
217<br />
zione – a sua volta criminogena – riconducendo sul terreno del contrainte<br />
sociale la logica rituale della vendetta.<br />
La stigmatizzazione primaria del migrante e la conseguente costruzione<br />
di questa nuova categoria di nemici pubblici (nonché capri espiatorii<br />
di un sempre più diffuso Unsicherheitsgefühl) svolge peraltro un<br />
ruolo funzionale (in termini di copertura simbolica legittimante la struttura<br />
del sistema sociale) al mantenimento delle condizioni d’impiego salariale<br />
precario e sottopagato, che rappresentano il baricentro del sistema<br />
economico occidentale, fondato sull’esternalizzazione dei processi produttivi,<br />
delocalizzati nei paesi di emigrazione. Di qui la connotazione in<br />
chiave militar-poliziesca delle politiche migratorie ed il loro carattere antinomico<br />
rispetto ad una garanzia pregnante dei diritti fondamentali dell’uomo,<br />
ed in particolare dello jus migrandi sancito quale libertà fondamentale<br />
dal quarto comma dell’art. 35 Cost., nonché dall’art. 13 cpv. della<br />
Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo (se inteso nell’accezione<br />
pregnante di diritto di circolazione transnazionale,e non quale mero diritto<br />
alla fuga)( 84 ).<br />
In tale prospettiva appare particolarmente significativo il teleologismo<br />
dei delitti di favoreggiamento dell’immigrazione e dell’emigrazione clandestina,<br />
di cui all’art. 12 t.u. 286/1998 (come modificato dalla l. 189/2002, sul<br />
punto invariato, salvo un ulteriore aggravio sanzionatorio, dalla l. 271/<br />
2004).<br />
In estrema sintesi, la struttura delle fattispecie( 85 ) si caratterizza per<br />
3, sono state respinte da C. Cost., ordd. 226 e 422/2004, in ragione della ritenuta natura<br />
esclusivamente amministrativa della misura) e la misura (nominalmente) amministrativa di<br />
cui all’art. 13. Il comma 1 dell’art. 3 l. 155/2005 ha peraltro esteso le ipotesi di espulsione<br />
disposte dal Ministro dell’interno o, su sua delega, dal prefetto, ai casi in cui vi siano fondati<br />
motivi di ritenere che la permanenza dello straniero nel territorio nazionale possa in qualsiasi<br />
modo agevolare organizzazioni o attività terroristiche, anche internazionali. In ragione dell’eliminazione,<br />
da parte della l. 155, del comma 3-sexies dell’art. 13 del t.u. imm., ora l’espulsione<br />
amministrativa (sia in generale sia nelle ipotesi di cui all’art. 3 d.l. 144/2005) può essere<br />
disposta anche in relazione allo straniero nei cui confronti si proceda per uno dei delitti di<br />
cui all’art. 407 cpv. c.p.p., nonché di cui all’art. 12 t.u. imm..<br />
( 84 ) A. Caputo, op. cit., 363. Dello stesso vedasi altresì Favoreggiamento all’emigrazione:<br />
questioni interpretative e dubbi di costituzionalità, inQG, 2003, 1243 ss.. Si ricordi del<br />
resto che l’immigrato (il cui abbandono della residenza abituale, non motivato da ragioni<br />
di contrasto politico, né dall’espulsione da parte del Governo di appartenenza, ne esclude<br />
la riconducibilità alle categorie soggettive di ‘rifugiato’ o ‘profugo’) non è destinatario delle<br />
garanzie fondamentali statuite dalla Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati.<br />
In tal senso, C. Longobardo, op. cit., 238-239.<br />
( 85 ) La cui forma base (art. 12, primo comma), sanziona ‘‘chiunque, in violazione delle<br />
disposizioni del presente testo unico, compie atti diretti a procurare l’ingresso nel territorio<br />
dello Stato di uno straniero ovvero atti diretti a procurare l’ingresso illegale in altro Stato del<br />
quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente’’. Il terzo comma<br />
del medesimo articolo prevede un’analoga fattispecie, più gravemente sanzionata, qualificata
218<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
una eccessiva anticipazione dell’intervento penale( 86 ), connessa all’innesto<br />
del paradigma del delitto di attentato su di una condotta agevolatoria dell’altrui<br />
illecito (non già penale, ma meramente) amministrativo (quale è il<br />
primo ingresso contra jus dello straniero nel territorio dello Stato( 87 )), ov-<br />
dal dolo specifico – in funzione non tanto selettiva, data l’evanescenza del suo contenuto,<br />
quanto piuttosto di anticipazione del momento consumativo – di trarre profitto anche indiretto<br />
dalla condotta, ovvero dalla realizzazione del fatto da tre o più persone in concorso tra<br />
loro o utilizzando servizi internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati o<br />
comunque illegalmente ottenuti. I commi 3-bis e3-ter prevedono peculiari circostanze aggravanti,<br />
sottratte – in linea con il rigore repressivo che caratterizza l’intiero ordito normativo –<br />
al bilanciamento. La vocazione simbolico-espressiva della norma ed il carattere emergenziale<br />
delle opzioni politico-criminali ad essa sottese riemerge infine nella prevista esclusione dei<br />
benefici penitenziari ex art. 4-bis ord. pen., per gli autori dei reati di cui all’art. 12, nonché<br />
nella introduzione, di cui al comma 3-quinquies, di una fattispecie premiale. Ora, non puó<br />
omettersi di rilevare la carenza di precisione (nonché i profili di dubbia costituzionalità in<br />
relazione al principio di riserva di legge di cui all’art. 25, cpv., Cost.) della fattispecie di favoreggiamento<br />
dell’emigrazione illegale di cui al primo comma dell’art. 12. Il requisito di illiceità<br />
speciale dell’ingresso illegale non precisa infatti il parametro normativo alla cui stregua<br />
condurre il giudizio di illegalità dell’ingresso stesso. Dovendosi escludere la possibilità di<br />
identificarlo con la disciplina dell’ordinamento italiano (non potendo essa dettare le condizioni<br />
di legalità dell’ingresso in altro Paese), il parametro di illegalità dell’ingresso nel territorio<br />
dello Stato estero (di cui la persona ‘‘non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente’’),<br />
sembra doversi identificare con la disciplina dello Stato di destinazione, che regoli<br />
la materia, con integrale assorbimento del precetto, quindi, nella normativa estera di<br />
riferimento, e con la conseguente denazionalizzazione dell’offesa, parallela all’internazionalizzazione<br />
dell’oggettività giuridica sottesa alla norma (in tal senso, A. Caputo, Favoreggiamento,<br />
etc., cit., 1246).<br />
( 86 ) Cui si ispira, tra l’altro, la fattispecie di pericolo indiretto di cui all’art. 5, comma 8bis,<br />
del t.u., volta a sanzionare la contraffazione o l’alterazione di documenti al fine di determinare<br />
il rilascio di un visto di ingresso o reingresso, di un permesso, una carta od un contratto<br />
di soggiorno. L’eccessiva anticipazione della soglia di intervento penale induce a dubitare<br />
che si tratti di meri ‘reati di sospetto’.<br />
( 87 ) Sottolinea C. Longobardo, op. cit., 254, come già in relazione al d.l. 489/95 siano<br />
state avanzate, dagli esponenti del centro-destra, proposte volte a sanzionare con la reclusione<br />
da tre mesi a tre anni la condotta del cittadino extracomunitario che, eludendo i controlli<br />
di frontiera, avesse fatto ingresso nel territorio dello Stato, o vi si fosse trattenuto sottraendosi<br />
all’esecuzione delle procedure di accompagnamento alla frontiera. Nella medesima<br />
prospettiva repressivo-deterrente si è proposta, già nel 1998, l’introduzione del reato di ingresso<br />
e soggiorno clandestino e abusivo, subordinato all’arresto obbligatorio immediato in<br />
flagranza e ad ‘‘una pena detentiva piuttosto severa per essere efficace e sufficientemente intimidativa’’<br />
(E. Fortuna, Italia Oggi, 26 agosto 1998, cit. da C. Longobardo, op. loc. ult.<br />
cit.) [come se già Beccaria non avesse dimostrato a sufficienza il carattere mistificante ed illusorio<br />
della pretesa equivalenza tra il rigore della comminatoria edittale e l’efficacia generalpreventiva<br />
negativa della norma incriminatrice]. Da ultimo, appare opportuno ricordare l’emendamento<br />
proposto – e successivamente ritirato – dal relatore Luigi Bobbio nell’ambito<br />
del dibattito parlamentare inerente la conversione del d.l. 241/2004, diretto all’introduzione<br />
di un’autonoma fattispecie incriminatrice della condotta di immigrazione clandestina. Sul<br />
punto, v. L. Scomparin, Stranieri e carcere. Tra diritto e realtà,,inLP 2005, 85 ss., cui si<br />
rinvia anche per l’analisi delle difficoltà concrete incontrate dai detenuti stranieri nell’accesso
SAGGI E OPINIONI<br />
219<br />
vero, paradossalmente (in relazione all’ipotesi, di cui al primo comma dell’art.<br />
12, di favoreggiamento dell’emigrazione illegale dall’Italia in assenza<br />
dei requisiti qualificanti di cui al terzo alinea), dell’esercizio di una libertà<br />
– quella di emigrazione – costituzionalmente garantita dall’art. 35, comma<br />
quarto( 88 ).<br />
Ora – a prescindere dalla valenza simbolica dell’utilizzazione del modello<br />
del delitto di attentato, che affondando le proprie radici nei crimina<br />
lesae maiestatis, rappresenta uno dei paradigmi caratteristici della legislazione<br />
d’emergenza – la sinergia funzionale tra lo schema del reato a consumazione<br />
anticipata e la struttura del reato di agevolazione di una condotta<br />
non costituente reato determina un’anticipazione dell’intervento penale,<br />
estesa sino all’autonoma incriminazione di atti (meramente) preparatori<br />
al concorso in un illecito non penale( 89 ), con un’accentuazione della dimensione<br />
prognostica della fattispecie( 90 ) e del suo momento soggettivo,<br />
con il rischio di risolverne il disvalore nella Gesinnung dell’autore( 91 ).<br />
Analoga costruzione in chiave soggettivistica si riscontra nell’ipotesi, di<br />
cui al quinto comma dell’art. 12, di favoreggiamento della permanenza illegale<br />
dello straniero, ove l’Handlungsunwert della fattispecie – la cui condotta<br />
s’innesta sull’agevolazione di un comportamento penalmente irrilevante<br />
– si assorbe interamente nel contenuto (invero poco pregnante) del<br />
dolo specifico (‘al fine di trarre un ingiusto profitto dalla condizione di il-<br />
ai benefici penitenziari, ed in generale per il contenuto nient’affatto rieducativo che l’esecuzione<br />
della pena detentiva presenta (in particolare) rispetto a tali soggetti. In proposito, rileva<br />
lucidamente G. Marotta, Detenuti stranieri in Italia: dimensioni e problematiche del multiculturalismo<br />
penitenziario, inRass. pen. crim., 2003, 2, come, se il ‘mito’ della rieducazione<br />
è in parte tramontato per gli italiani, ‘‘per gli stranieri non [è] neanche iniziato’’.<br />
( 88 ) Parametro normativo la cui valorizzazione (anche in ragione del suo carattere metapositivo,<br />
che l’ordinamento si limita a riconoscere, non già ad attribuire) ha condotto la<br />
Consulta a dichiarare, con sent. 269/1986, l’illegittimità costituzionale della norma di cui all’art.<br />
5, primo comma, l. 1278/1930, volta a sanzionare la condotta di chi, in assenza di fini<br />
lucrativi o della diffusione di notizie od indicazioni false, eccita(sse) con mezzi pubblicitari<br />
all’emigrazione.<br />
( 89 ) Così M. Meneghello-S. Riondato, sub artt. 2, 3, 4, l. 39/1990, inB. Nascimbene<br />
(a cura di), la condizione giuridica dello straniero, Padova, 1997, 237 ss..<br />
( 90 ) Elemento che secondo G. Jakobs, op. loc. ult. cit., costituisce uno dei tratti caratterizzanti<br />
il paradigma del diritto penale del nemico.<br />
( 91 ) Con ciò non si intende peraltro negare la doverosità di un’interpretazione costituzionalmente<br />
orientata delle fattispecie di attentato, ovvero come richiedenti l’idoneità offensiva<br />
della condotta rispetto al fine (come peraltro affermato, in relazione alla norma in esame,<br />
da Cass., I, 5.6.2002, Galgano, in DPP, 2002, 1083, che ha sul punto rigettato l’eccezione di<br />
legittimità costituzionale della fattispecie di cui al comma primo dell’art. 12, per violazione<br />
del principio di tassatività). Si intende invece segnalare il rischio latente nella formulazione<br />
normativa (con particolare riferimento alla ipotesi di favoreggiamento dell’emigrazione clandestina),<br />
soprattutto in considerazione del fatto che mira a sanzionare (peraltro assai gravemente)<br />
l’agevolazione dell’esercizio di una libertà – quella di emigrazione – costituzionalmente<br />
tutelata.
220<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
legalità dello straniero’). È su questo requisito soggettivo, dai contorni sfumati<br />
e dall’oggetto (se non evanescente, quantomeno) poco definito( 92 ),<br />
che si fonda una così avanzata anticipazione dell’intervento penale, contrassegnata<br />
da un rigore repressivo del tutto sproporzionato rispetto alla<br />
idoneità lesiva della condotta. Non solo.<br />
L’ambivalente costruzione della figura del migrante in chiave di soggetto<br />
debole, bisognoso di tutela dall’altrui sfruttamento, appare una mera<br />
copertura simbolica, funzionale ad un’opzione politico-criminale, emergente<br />
dall’intiera disciplina in esame, volta all’isolamento ed all’esclusione<br />
dei migranti – categoria che la stessa normativa, al di là delle fictiones juris,<br />
costruisce come socialmente pericolosa – cui corrisponde peraltro la radicale<br />
assenza di strategie di possibile regolarizzazione e di integrazione sociale<br />
degli stranieri. In tal senso depone peraltro la natura del bene giuridico<br />
protetto dalle fattispecie di cui all’art. 12 t.u. 286/1998 e successive<br />
modifiche, da taluni individuato nel duplice fine di garantire da un lato<br />
l’integrità dei confini e l’effettivo controllo degli ingressi, e, dall’altro, la sicurezza<br />
e la dignità dei soggetti il cui ingresso illegale si agevola, non potendosi<br />
del resto ritenere il loro consenso idoneo a scriminare la condotta,<br />
in ragione dell’indisponibilità del bene della dignità( 93 ).<br />
Ora – a prescindere dalla dubbia idoneità delle fattispecie in analisi ad<br />
approntare un’efficace tutela alla posizione (certamente vulnerabile) del<br />
migrante – la natura plurioffensiva potrebbe affermarsi soltanto in rela-<br />
( 92 ) Secondo i canoni della legislazione simbolica (per ineffettività disnomica: C.E. Paliero,<br />
Il principio di effettività del diritto penale, inRIDPP, 1990, 532; nonché su profili più<br />
generali, Id., Minima non curat praetor, l’ipertrofia del diritto penale e decriminalizzazione<br />
dei reati bagatellari, Padova, 1985, passim), la insufficiente tipizzazione della norma si rivela<br />
strumentale alla sua stessa ineffettività, assolvendo essa una mera funzione di stigmatizzazione<br />
primaria, rispondente ai ‘bisogni emotivi di pena’ (dal legislatore strumentalizzati, anziché<br />
filtrati) nei confronti degli outsiders sociali. L’ontologica carenza di determinatezza della fattispecie<br />
si riverbera anche sulla descrizione della condotta, risolvendosi essa nell’agevolazione<br />
(concetto già di per sé semanticamente polivalente) di comportamenti (a loro volta) non<br />
precisamente individuabili sul piano naturalistico: la permanenza sul territorio dello Stato è<br />
infatti una nozione di genere, suscettibile di integrazione da parte di molteplici condotte. A<br />
conferire maggiore precisione alla fattispecie non potrebbe del resto contribuire il requisito<br />
del carattere illegale della permanenza dello straniero, essendo esso costruito sulla della omnicomprensiva<br />
clausola della violazione delle norme stesse del testo unico. L’eccezione di illegittimità<br />
costituzionale, rispetto all’art. 25 cpv., Cost., dell’identica formula di cui al comma<br />
primo dell’art. 12, è stata comunque ritenuta manifestamente infondata da Cass., Galgano,<br />
cit., argomentando – in maniera a nostro avviso tuttavia non risolutiva – dalla possibilità di<br />
ricomprendere nella sfera applicativa della norma ‘‘ogni possibile applicazione della prevista<br />
attività diretta a favorire l’ingresso di stranieri in Italia con la violazione di ciascuna delle specifiche<br />
disposizioni’’ del testo unico, da ció asseritamene derivando non già la violazione dell’art.<br />
25, cpv., Cost., ma ‘‘soltanto (!) una maggiore difficoltà di individuazione e ricostruzione<br />
della fattispecie concreta’’.<br />
( 93 ) M. Cerase, Il commento, inDPP, 2002, 1347.
SAGGI E OPINIONI<br />
221<br />
zione alle ipotesi di favoreggiamento qualificate dalla finalità lucrativa (art.<br />
12, commi terzo, prima parte, e quinto) ma non certo nei restanti casi. Ove<br />
(in particolare nel primo comma dell’art. 12), non essendo ravvisabili gli<br />
estremi dello sfruttamento, né tantomeno l’azione di organizzazioni criminali,<br />
il bene giuridico si identifica nell’ordine pubblico inteso in un’accezione<br />
a forte connotazione internazionalistica, quale cioè interesse della<br />
personalità internazionale dello Stato al controllo dei flussi migratori transfrontalieri<br />
ed alla loro compatibilità con le convenzioni internazionali stipulate,<br />
in materia, dal Governo( 94 ).<br />
Rispetto a tale interesse, il migrante (a fortiori se irregolare o clandestino)<br />
viene percepito come soggetto pericoloso e l’emigrazione in sé quale<br />
fenomeno ‘emergenziale’ da contrastare con politiche (penali) di Zero tolerance<br />
e di isolamento( 95 ). Cui sembra finalizzata tra l’altro la fattispecie di<br />
favoreggiamento della permanenza illegale dello straniero sul territorio<br />
dello Stato, ove se ne consideri la reale portata e l’inidoneità del solo oggetto<br />
del dolo specifico di sfruttamento( 96 ) ad orientarne lo Schutzaspekt<br />
verso la tutela della dignità del migrante.<br />
La flessibilizzazione delle categorie dommatiche e dei criteri d’imputa-<br />
( 94 ) È la tesi di L. Baima Bollone, Disposizioni contro le immigrazioni clandestine, in<br />
AA.VV., Il nuovo diritto dell’immigrazione, Milano, 2003, 212. La dimensione internazionale<br />
del bene giuridico protetto [scil. dalla ratio tutelae, secondi i canoni dell’attuale tendenza all’amministrativizzazione<br />
del diritto penale; analog., C. Longobardo, op. cit., 255] dalle<br />
norme in tema di immigrazione e la loro idoneità a tutelare un equilibrio (anche) sopranazionale<br />
nella gestione del fenomeno migratorio è ulteriormente avvalorata dalla disciplina<br />
di cui al d.lgs. 12/2005, di attuazione della direttiva 2001/40/CE relativa al riconoscimento<br />
reciproco delle decisioni di allontanamento dei cittadini di Paesi terzi.<br />
( 95 ) Appare in proposito significativo che nella rappresentazione mediatica il fenomeno<br />
migratorio e l’insicurezza cittadina (derivante dalla percezione dell’aumento dei tassi di<br />
criminalità) siano sovente accomunati o descritti in termini strettamente consequenziali, sì<br />
da indurne, nell’opinione pubblica, l’equiparazione, nonché da veicolare una lettura pancriminologica<br />
della realtà dei migranti. Efficaci in proposito le considerazioni di D. Padovan,<br />
op. cit., 155 (riportate da C. Longobardo, op. cit., 260): ‘‘quando la sanzione tocca in modo<br />
particolarmente intenso sia dal lato giudiziario che dal lato della sua gestione a livello della<br />
grande informazione di massa, le minoranze degli immigrati, ciò èsufficiente a imprimere<br />
loro uno ‘‘stigma’’ di pericolosità sociale e percepire quotidianamente l’immigrato come un<br />
criminale allo stato potenziale’’.<br />
( 96 ) Di cui come tale non si richiede la realizzazione, ma la mera proiezione finalistica<br />
della condotta. Ritiene pertanto A. Caputo, Immigrazione, etc., cit., 372, che la ratio latente<br />
della norma sia quella di ‘fare terra bruciata’ attorno allo straniero irregolare; la tesi trovando<br />
peraltro conferma nelle considerazioni svolte da Trib. Roma, 28.2.2002, Thomas, in CP,<br />
2002, 3909, ove si afferma l’insussistenza di un dovere ‘‘di tutte le persone soggette all’ordinamento<br />
(..) di tenere comportamenti miranti all’allontanamento di persone illegalmente<br />
presenti, rendendone ‘‘invivibile’’ la permanenza’’. Sembra pertanto meramente declamatoria<br />
(o forse dettata dalla ‘cattiva’ coscienza della eccessiva latitudine della fattispecie) la clausola<br />
di cui al secondo comma dell’art. 12, alla cui stregua non costituiscono reato ‘‘le attività<br />
di soccorso e assistenza umanitaria prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni
222<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
zione della responsabilità, nonché la strumentalità del precetto penale rispetto<br />
ad esigenze sicuritarie e socialdifensive – tratti, questi, caratterizzanti<br />
il paradigma del diritto penale del nemico – emergono chiaramente dall’evoluzione<br />
normativa subìta dalla fattispecie di ingiustificato trattenimento<br />
dello straniero espulso nel territorio dello Stato (art. 14, comma 5-ter), trasformata<br />
(salvo una ipotesi, peraltro marginale, ancora di carattere contravvenzionale)<br />
da contravvenzione a delitto dalla l. 271/2004, al fine di ovviare<br />
alle censure di incostituzionalità( 97 ) di un arresto obbligatorio privo di<br />
qualsiasi esito sul piano processuale, in quanto previsto per una contravvenzione<br />
la cui comminatoria edittale precludeva l’applicazione di misure<br />
cautelari coercitive.<br />
Con l’esito paradossale di accentuare, in maniera del tutto sproporzionata<br />
rispetto al disvalore del fatto, il rigore repressivo di una fattispecie non<br />
solo di mera inosservanza (einfache Ungehorsam) e (anche astrattamente)<br />
carente di idoneità lesiva rispetto al bene tutelato( 98 ), ma altresì carente<br />
di determinatezza( 99 ).<br />
Profili, questi, debitamente rilevati dalla prima sezione del Tribunale<br />
di Genova, che con l’ordinanza n. 544, emessa in data 10 dicembre<br />
2004, ha sollevato eccezione di illegittimità costituzionale della norma in<br />
esame, per violazione del principio di ragionevolezza-proporzionalità, determinata<br />
in ragione della manifesta ed irragionevole sproporzione dalla<br />
pena prevista dalla riforma del 2004 rispetto non soltanto alla sanzione<br />
comminata solo due anni prima (pur non essendo tale inasprimento sanzionatorio<br />
giustificato da significativi mutamenti del contesto sociale di riferi-<br />
di bisogno comunque presenti nel territorio dello Stato’’. Potrebbe infatti essere diversamente,<br />
in assenza della finalità di sfruttamento?<br />
( 97 ) Rilevate da C. Cost., 223/2004.<br />
( 98 ) Dovendo infatti identificarsi esso con l’ordine e la sicurezza pubblica, ne consegue<br />
l’assoluta inidoneità lesiva, nei confronti di tale bene giuridico, della condotta di mera inottemperanza<br />
ad un decreto di espulsione che lo stesso legislatore qualifica (art. 14, co. 5-bis),<br />
come ‘non immediatamente eseguibile’. In tal senso, v. E. Calcagno, Il commento, inDPP,<br />
2004, 846. Questi rilievi inducono pertanto a ritenere come all’oggettività giuridica in questione<br />
debba ricomprendersi anche la tutela della mera regolarità ed effettività della disciplina<br />
amministrativa di settore.<br />
( 99 ) La declaratoria di infondatezza della questione di illegittimità costituzionale, sollevata<br />
in relazione alla norma in esame, in ragione della carente determinatezza della formula<br />
‘senza giustificato motivo’, è stata infatti resa all’esito di una quantomai articolata sentenza<br />
interpretativa (C. Cost., sent. 5/2004), volta a ridimensionarne (sia pur soltanto in parte)<br />
la latitudine applicativa e la polivalenza semantica, nonché a scongiurare la violazione della<br />
presunzione di non colpevolezza dell’imputato – conseguente ad un’interpretazione della<br />
norma come prescrivente un’indebita inversione dell’onere della prova della sussistenza<br />
del giustificato motivo a carico dell’imputato, sul quale invece graverebbe, ad avviso della<br />
Corte, un mero onere di allegazione dei motivi non conosciuti né conoscibili dal giudice.
SAGGI E OPINIONI<br />
223<br />
mento), ma anche in riferimento alle pene previste per le ipotesi – dall’analoga<br />
ratio – di cui agli artt. 650 c.p. e 2 l. 1423/1956( 100 ).<br />
Questo esasperato rigorismo repressivo (che ingenuamente identifica<br />
nell’incremento della comminatoria edittale lo strumento privilegiato, se<br />
non esclusivo, di controllo della criminalità), la carente determinatezza<br />
della maggior parte delle norme incriminatrici – che mina la certezza del<br />
diritto e la funzione garantista del Tatbestand, rimettendo alla discrezionalità<br />
del giudice l’apprezzamento della penale rilevanza del caso concreto –<br />
la sensibile riduzione delle garanzie sostanziali e processuali( 101 ) e l’antici-<br />
( 100 ) Sul punto, vds. A. Caputo, Prime note sulle modifiche alle norme penali del testo<br />
unico sull’immigrazione, inQG, 2005, 252 ss., il quale rileva come la modifica della norma<br />
determini la riproposizione del regime penal-amministrativo incentrato sul passaggio dall’espulsione<br />
all’ordine di allontanamento, dall’incriminazione della sua inosservanza all’arresto,<br />
dal giudizio direttissimo, nuovamente, all’espulsione. Ne consegue pertanto, ad avviso dell’A.,<br />
come lo Schutzaspekt della norma in esame si polarizzi sulla tutela del regime amministrativo<br />
dell’immigrazione, rivelando il ‘persistente intreccio tra prevenzione e repressione<br />
che del concetto di ordine pubblico rappresenta un tratto saliente».<br />
( 101 ) In ragione non solo dell’adozione di misure amministrative fortemente afflittive in<br />
funzione elusiva dello statuto penalistico, ma anche dell’introduzione di istituti processuali<br />
peculiari, quale ad es. l’arresto obbligatorio anche fuori dei casi di flagranza, per i reati di<br />
cui agli artt. 13 e 13-bis (come modificati dalla l. 27172004, peraltro a seguito di due pronunce<br />
della Consulta volte a rimarcare l’esigenza di elementari garanzie in relazione a provvedimenti<br />
restrittivi della libertà personale), che contrasta con un principio generale dell’ordinamento<br />
costituzionale, alla cui stregua la privazione della libertà personale da parte della<br />
polizia giudiziaria presuppone una situazione di necessità ed urgenza tale (art. 13, co. 3<br />
Cost.), che in assenza di flagranza sembra essere meramente presunta juris et de jure. Si consideri<br />
altresì che tra le ipotesi per cui si consente l’arresto obbligatorio anche fuori dai casi di<br />
flagranza, rientra l’inottemperanza all’ordine del questore conseguente ad espulsione disposta<br />
ai sensi dell’art. 13, comma 2, lett. c), il cui presupposto è la mera appartenenza dello<br />
straniero alla categoria delle persone pericolose od indiziate di far parte di associazioni di<br />
tipo mafioso (artt. 1 l. 1423/1956 e art. 1, l. 675/1965), in assenza di alcuna necessità di indagini<br />
sulla legalità dell’ingresso nel territorio nazionale. Si tratta cioè di un’ulteriore ipotesi<br />
di stigmatizzazione di un tipo normativo d’autore, del tutto svincolata dalla Tatschuld, edi<br />
dubbia legittimità costituzionale. La recente l. 155/2005 ha peraltro disposto ulteriori restrizioni<br />
delle garanzie sostanziali e processuali, nei confronti, tra l’altro, dello straniero appartenente<br />
‘‘ad una delle categorie di cui all’art. 18 l. 152/1975, o nei cui confronti vi siano fondati<br />
motivi di ritenere che la sua permanenza nel territorio dello Stato possa in qualsiasi modo<br />
agevolare organizzazioni o attività terroristiche, anche internazionali’’. In relazione a<br />
questa categoria di ‘‘nemici’’ si prevede (sino al 31 dicembre 2007) un regime espulsivo (affidato<br />
alla determinazione del Ministro dell’Interno o, su sua delega, del prefetto) prescindente<br />
dall’intervento dell’autorità giurisdizionale – sia relativamente al nulla osta che alla<br />
convalida dell’esecuzione, ove non comporti il trattenimento in un centro di permanenza<br />
– oltre a diverse ipotesi premiali, volte ad incentivare la collaborazione dello straniero alle<br />
indagini in materia di terrorismo. L’art. 3 l. 155 ha peraltro riassegnato al Tar la giurisdizione<br />
in materia di controversie sui decreti di espulsione disposti ai sensi della medesima norma<br />
(qualificando così la posizione giuridica soggettiva dello straniero colpito da provvedimento<br />
espulsivo per ragioni di ordine e sicurezza dello Stato come di mero interesse legittimo). La<br />
norma presenta profili di dubbia legittimità costituzionale, in relazione: a) alla previsione del-
224<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
pazione dell’intervento penale, estesa sino alla criminalizzazione di condotte<br />
(o di atti preparatori) in radice inidonee a ledere o ad esporre a<br />
pericolo il bene tutelato( 102 ) – individuano inequivocabilmente nella disciplina<br />
italiana dell’immigrazione, l’emersione del paradigma del Feindstrafrecht.<br />
Nella discrasia tra funzioni simboliche (la disciplina del flusso migratorio)<br />
e funzioni strumentali del precetto (realizzare, con politiche sicuritarie<br />
di Zero tolerance, una segregazione della class dangereux dei migranti)<br />
si radica la valenza simbolico-espressiva e preformativa dell’identità differenziale<br />
del nemico, propria di questa legislazione.<br />
Alla categoria del cittadino, dotato di diritti e garanzie formali e sostanziali,<br />
viene in tal modo contrapposta la sfera della marginalità sociale,<br />
costituita dagli immigrati irregolari, cui i meccanismi di etichettamento ed<br />
esclusione, propri delle forme di contrainte sociale (tra le quali in primis il<br />
diritto penale), negano non soltanto i diritti di cittadinanza, ma altresì la<br />
stessa qualificazione di persone.<br />
La selettività del diritto penale (ed in particolare di questo diritto penale)<br />
relega tali non-persone in un outside rappresentato dal carcere (come<br />
l’esecuzione dell’espulsione dello straniero sottoposto a procedimento penale in assenza del<br />
previo nulla osta del giudice, idonea a violare i principi di cui agli artt. 24 e 25 Cost.; b) alla<br />
previsione dell’esecuzione dell’espulsione con accompagnamento alla frontiera (che secondo<br />
C. Cost., sent. 105/2001, costituisce misura incidente sulla libertà personale) senza attendere<br />
il giudizio di convalida del giudice di pace, in violazione dell’art. 13 Cost.; c) alla previsione<br />
dell’esecuzione immediata del provvedimento di espulsione, la cui efficacia non può essere<br />
sospesa dal giudice amministrativo e che non richiede l’avvenuta convalida della misura dell’accompagnamento,<br />
in contrasto con l’art. 24 Cost., e con l’interpretazione fornitane da C.<br />
Cost., 222/2004, alla cui stregua il giudizio di convalida deve svolgersi in contraddittorio prima<br />
dell’esecuzione dell’accompagnamento alla frontiera, con le garanzie della difesa; d) al<br />
divieto di sospensione dell’efficacia del provvedimento di espulsione da parte del giudice<br />
amministrativo, idoneo a violare gli artt. 3, 24 e 113 Cost., nella misura in cui limita il diritto<br />
alla effettività tutela giurisdizionale, nel contenuto pregnante ribadito da C. Cost., sent. 284/<br />
1974, anche in relazione alla fase cautelare del procedimento amministrativo (in tal senso, O.<br />
Forlenza, Liti sui decreti di espulsione restituite al Tar, inGuida dir., 2005, n. 33, 75). Ancora<br />
in relazione ai profili antigarantistici della disciplina generale di cui al t.u. 286/1998, si<br />
consideri l’esigenza di elementari garanzie giurisdizionali in relazione alle misure restrittive<br />
della libertà personale, ribadita dalle pronunce della Consulta (222 e 223/2004) e sostanzialmente<br />
disattesa anche dalla recente l. 271/2004, che nel modificare il comma 5-bis dell’art.<br />
13 t.u. 286, ha previsto la possibilità di convalidare in questura il provvedimento di accompagnamento<br />
coattivo dello straniero alla frontiera, in assenza del trasferimento presso il centro<br />
di permanenza, così surrettiziamente introducendosi, con il trattenimento presso gli uffici<br />
di polizia, una misura privativa della libertà personale, non garantita dalla convalida dell’autorità<br />
giudiziaria, ex art. 13 Cost.<br />
( 102 ) Come abbiamo visto in relazione a diverse ipotesi di pericolo indiretto, od all’innesto<br />
sul modulo del delitto di attentato, di una condotta agevolatoria di un illecito non penale,<br />
quando non di un comportamento costituente addirittura l’esercizio di un diritto fondamentale<br />
dell’uomo.
SAGGI E OPINIONI<br />
225<br />
luogo esterno al progetto politico della modernità) o dall’espulsione dallo<br />
spazio cittadino.<br />
Seguendo i paradossi della logica attuariale, l’esigenza di produrre censura<br />
‘‘finisce per tracciare i confini della criminalizzazione primaria su<br />
quelli materiali dell’effettiva criminalizzazione secondaria. Si assiste così<br />
ad un’inversione funzionale: dall’analisi degli autori che effettivamente<br />
sono penalizzati e cancerizzati si ridefinisce in una logica deflattiva quali<br />
sono i soli fatti che meritano di essere penalmente perseguiti’’( 103 ).<br />
Del resto, la (latente) finalità sicuritaria della disciplina (in particolare,<br />
ma non solo italiana) dell’immigrazione emerge dall’assoggettamento di<br />
questa categoria di ‘nemici’ ad un sottosistema speciale di Sanktionenrecht,<br />
che si avvale (oltre alla sanzione penale tout court) di misure eccezionali,<br />
( 103 ) Come lucidamente osserva, in un contesto di riflessione più generale, M. Pavarini,<br />
Teoria e prassi del sistema sanzionatorio, inS. Moccia (a cura di), Diritti dell’uomo e<br />
sistema penale, cit., II, 420. Sottolinea D. Melossi, La ‘‘sovrarappresentazione’’ degli stranieri<br />
nei sistemi di giustizia penale europei ed italiano, inDir. Imm. Citt., 2003, (4), 19 ss., come<br />
mai come nel contesto dell’implementazione delle legislazioni in materia di immigrazione il<br />
tasso di incarcerazione costituisca ‘‘allo stesso tempo una misura di criminalità ed una misura<br />
di criminalizzazione’’. La selettività del sistema penale (nonché il tendenziale etnocentrismo<br />
delle agenzie del controllo sociale) è infatti emblematicamente espressa dalla sovrarappresentazione<br />
degli immigrati nelle carceri (non solo, ma in particolare) italiane, dovuta ad un sinergismo<br />
di fattori di ordine ad un tempo socioeconomico, normativo e strutturale. In particolare<br />
sotto il profilo giuspositivo, rilevano in tal senso l’alveo applicativo della disciplina di<br />
cui agli artt. 380 e 381 c.p.p. – che tra le ipotesi di arresto in flagranza ricomprende i reati<br />
più frequentemente commessi (secondo i dati statistici) da stranieri, oltre ai casi di arresto<br />
obbligatorio in flagranza per gli illeciti di inottemperanza all’ordine di allontanamento, di<br />
cui all’art. 14, comma 5-quinquies t.u. 286/1998 e di arresto obbligatorio, anche non in flagranza,<br />
per la condotta di illecito reingresso nel territorio nazionale, di cui all’art. 13, comma<br />
13-ter t.u. cit. –, la vaghezza di molti dei parametri normativi che ne regolano l’applicazione<br />
(in particolare, i criteri disciplinanti l’arresto facoltativo nonché taluni requisiti propri di specifiche<br />
ipotesi di arresto obbligatorio, come quella di cui alla lett. h dell’art. 380 c.p.p.) con il<br />
conseguente ampio margine di discrezionalità rimesso al giudice nella valutazione degli stessi;<br />
la circostanza che il giudizio di fondatezza del pericolo di fuga ai sensi dell’art. 384 c.p.p.,<br />
come modificato dalla l. 128/2001, si fondi anche sull’impossibilità di identificare l’indiziato<br />
(ipotesi notevolmente frequente nei casi di immigrati privi di documenti di identità odin<br />
possesso di documenti falsi, circostanza questa che la l. 155 ha elevato a presunzione qualificata<br />
del pericolo di fuga dell’indiziato, legittimante la polizia giudiziaria a procedere al fermo<br />
di propria iniziativa). Ne consegue come, anche in fase di convalida e di possibile applicazione<br />
della misura cautelare la prospettiva carceraria tenda a privilegiare il migrante che,<br />
benché identificato in base a rilievi dattiloscopici, ‘‘non è generalmente in grado di fornire<br />
idonee garanzie quanto al proprio domicilio, risultando conseguentemente un soggetto rispetto<br />
al quale ritenere agevolmente dimostrata l’esigenza cautelare del pericolo di fuga<br />
ed inadeguata ogni misura diversa dalla custodia in carcere’’ (L. Scomparin, op. cit., 85).<br />
Del resto, anche in caso di sentenza di condanna il ricorso all’istituzione totale privilegia tendenzialmente<br />
il migrante, in ragione della frequente situazione di irregolarità, ritenuta generalmente<br />
incompatibile con la prognosi negativa sulla futura astensione dal reato necessaria<br />
alla concessione della sospensione condizionale della pena (in tal senso, L. Scomparin, op.<br />
cit., 89).
226<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
(formalmente) non penali (ma egualmente afflittive e stigmatizzanti) soltanto<br />
per eludere, surrettiziamente, le garanzie sostanziali e processuali dell’ordinamento<br />
penale, costruendo un ‘‘diritto della segregazione’’( 104 )di<br />
cui emblema significativo – non soltanto per la valenza semantica – è la peculiare<br />
misura dell’espulsione.<br />
Escludente e stigmatizzante ancor più del carcere (qui infatti non si allontana<br />
‘‘soltanto’’ dalla comunità, ma si esclude, addirittura, dai confini<br />
del territorio)( 105 ) essa rappresenta la ipostatizzazione simbolica della neutralizzazione<br />
selettiva del ‘nemico interno’, quale viene costruito – in una<br />
società globale dominata da politiche neoliberiste( 106 ) – il migrante, temibile<br />
nel suo naturale essere-altro, in primo luogo emblema di un freudiano<br />
‘‘regard permanent de l’autre sur soi’’ e pertanto segnato dallo stigma dell’esclusione.<br />
La schmittiana dialettica binaria amico-nemico, inclusione-esclusione,<br />
nella irriducibile alterità dei poli entro cui si muove, esclude ovviamente<br />
ogni funzione (non soltanto risocializzante, ma) comunque diversa dalla<br />
neutralizzazione selettiva mediante segregazione, a sua volta funzionale alla<br />
stigmatizzazione di questi outsiders sociali.<br />
Ma quello dell’esclusione è unmetacodice più ambiguo e dalle dinamiche<br />
più sottili: l’esclusione del nemico, in quanto in primo luogo diverso<br />
( 104 ) L’efficace espressione è diA. Caputo, Immigrazione, etc., cit., 379. In proposito,<br />
non può omettersi di rilevare come anche la misura del trattenimento dello straniero presso i<br />
centri di permanenza temporanea rappresenti un’ipotesi di detenzione amministrativa del<br />
tutto eccezionale, la cui afflittività è stata espressamente riconosciuta da C. Cost.,<br />
10572001, che pur rigettando l’eccezione di costituzionalità in ragione della prevista limitazione<br />
del trattenimento al tempo strettamente necessario all’esecuzione dell’espulsione, ha<br />
precisato che non solo il provvedimento di ‘trattenimento’, ma anche quello presupposto<br />
di accompagnamento coattivo alla frontiera, costituiscono misure incidenti sulla libertà personale<br />
ai sensi dell’art. 13 Cost., a motivo del carattere di immediata coercitività, che vale a<br />
differenziare queste misure dalle altre, incidenti unicamente sulla libertà di circolazione.<br />
( 105 ) Si snoda in altri termini qui il passaggio dal concetto di inimicus a quello di hostis,<br />
che mutuando la sua radice da hospites, immette la dinamica del conflitto nei confini della<br />
comunità politica.<br />
( 106 ) Secondo J. Young, The Exclusive Society, London, 1999, questa caratterizzazione<br />
della società attuale, nata sul crollo del Welfare, determinerebbe la prevalenza di prassi di<br />
neutralizzazione selettiva dei ‘nemici interni’ – identificati nelle fasce marginali e povere –<br />
sulle politiche di integrazione sociale. Il passaggio da una società ‘bulimica’ (che cioè tende<br />
a fagocitare i soggetti ritenuti ostili, sì da neutralizzarne la pericolosità mediante l’inclusione<br />
nel corpo sociale) ad una anoressica (che cioè, quale quella attuale, oppone un rifiuto ‘antropemico’<br />
nei confronti dei soggetti avvertiti come estranei), sarebbe in tal senso funzionale<br />
all’affermazione delle politiche neoliberiste, naturalmente esigenti strategie di criminalizzazione<br />
delle underdog class. Un’interessante illustrazione di questo tema è stata fornita da<br />
M. Pavarini, nella Relazione svolta al Convegno ‘‘Siléte poenologi in munere alieno’’ (Abbadia<br />
di Fiastra, Macerata, 17-18 febbraio 2005); per ulteriori riferimenti al tema ricordiamo la<br />
Relazione svolta, nella medesima sede, da G. Forti, ed al suo L’immane concretezza, Milano,<br />
2000, 134 ss..
SAGGI E OPINIONI<br />
227<br />
e (rappresentato come) altro da sé, è funzionale al rafforzamento dell’identità<br />
di chi esclude( 107 ).<br />
L’identificazione del ‘nemico’ rafforza cioè i confini di una realtà inclusiva,<br />
segnata da un Nomos der Erde che nasce sulla logica della differenziazione<br />
delle identità.<br />
Quella del nemico è del resto una figura che, sorta sul terreno degli<br />
arcana seditionis, ha sempre legittimato la forza dello jus publicum del sovrano,<br />
il solo capace di decidere – ci ricorda Carl Schmitt – sullo stato di<br />
eccezione( 108 ).<br />
Segnata inevitabilmente dalla doppiezza del codice dell’esclusione, e<br />
dalla sottile sinergia con la dinamica della legittimazione del potere, la figura<br />
del criminale-nemico ripropone, oggi più che mai, l’ambivalenza di<br />
un contratto sociale che, nato per includere, finisce con l’incorporare, tragicamente,<br />
la rottura.<br />
Federica Resta<br />
( 107 ) N. Luhmann, Das Recht der Gesellschaft, Frankfurt am Main, 1993, 583. Del<br />
resto, come rilevano M. Pastore, Frontiere, conflitti, identità. A proposito di libera circolazione<br />
e nuove forme di controllo sociale in Europa, inDei del. delle pene, 1993, 3, 31 ss., e C.<br />
Longobardo, op. cit. loc. ult. cit., il riconoscimento esclusivo ai cittadini dell’Unione Europea<br />
del diritto alla libera circolazione all’interno del territorio dell’UE ha costituito, già<br />
dalla Convenzione di Schengen, un fattore preponderante ai fini della definizione, appunto<br />
per contrapposizione, dello status dei cittadini dell’Unione rispetto a quello degli extracomunitari<br />
(la semantica è significativa...) che già fanno parte, de facto, della popolazione europea.<br />
( 108 ) E. Resta Il diritto fraterno, Roma-Bari, 4ª ed., 2005, 99.
LA RELAZIONE DIALETTICA TRA L’IRREFRAGABILITÀ<br />
DEL GIUDICATO <strong>PENALE</strong> ED IL GIUDIZIO DI REVISIONE<br />
229<br />
Sommario: Premessa –1.L’evoluzione del principio di irrefragabilità del giudicato penale. –<br />
2. Il fondamento politico e giuridico del giudicato penale. –3. Il giudicato penale e la revisione.<br />
– 4. Il fondamento politico e giuridico della revisione.<br />
Premessa<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
La vexata quaestio dei rapporti tra l’irrefragabilità del giudicato penale<br />
ed il giudizio di revisione rappresenta, indubbiamente, un luogo ideale di<br />
ricerca di notevole ampiezza e di grande interesse gnoseologico al fine di<br />
una valutazione critica delle dinamiche evolutive del sistema processuale<br />
penale italiano. In tale ambito speculativo convergono e coesistono in armonia<br />
argomenti di carattere prettamente giuridico, riflessioni di matrice<br />
sociologica, suggestioni di ispirazione filosofica ed istanze di tipo politico.<br />
Ripercorrendo e analizzando le esperienze giuridiche del passato che<br />
hanno costituito le tappe fondamentali dell’evoluzione storica dei rapporti<br />
tra il giudicato penale e la revisione, emerge chiaramente la rappresentazione<br />
di una irriducibile conflittualità tra due istituti in perenne tendenza alla<br />
prevaricazione reciproca. Nel corso dei secoli, infatti, tanto più elevato è<br />
stato il grado di resistenza della res iudicata all’interno dell’ordinamento<br />
processuale penale, tanto più ridotti sono stati gli spazi operativi riservati<br />
al giudizio di revisione; tanto più debole è stata l’aspirazione alla certezza<br />
dei rapporti giuridici regolati da una sentenza irrevocabile, tanto più forte è<br />
stata l’esigenza euristica di una verifica del dictum cognitivo attraverso l’esperimento<br />
di un rimedio straordinario. Tale dura conflittualità, che per<br />
lungo tempo ha legato il giudizio di revisione e l’irrefragabilità del giudicato<br />
penale, è stata generata dal fatto che quest’ultimo, invece di essere assunto<br />
come simbolo dell’ineluttabile temporalità del processo, è stato caricato<br />
di significati metagiuridici, che attingono al fondamento logico ed etico<br />
della sentenza penale. Il giudicato penale, infatti, è stato inteso dalla tradizione<br />
giuridica come un dato certo, immutabile ed assoluto che conferisce<br />
dignità ed efficacia alla legge stessa. La revisione, viceversa, è stata costantemente<br />
rappresentata come un rimedio estremo ed eccezionale, da
230<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
contenere, rigorosamente, in limiti di stretta necessità rapportati, esplicitamente<br />
o implicitamente, ad una grave ingiustizia.<br />
Oggi, una graduale ma profonda evoluzione in senso democratico delle<br />
istituzioni e dei rapporti tra Stato e cittadino, insieme ad un significativo<br />
processo di sensibilizzazione delle coscienze degli individui, ha condotto il<br />
sistema processuale penale ad una nuova configurazione del rapporto dialettico<br />
tra l’irrefragabilità del giudicato ed il giudizio di revisione. Abbandonata<br />
definitivamente la secolare posizione di antitesi, i due istituti svolgono,<br />
nell’attuale ordinamento giuridico, un ruolo complementare, al fine<br />
di salvaguardare il medesimo supremo interesse: la certezza del diritto. Il<br />
giudicato penale rappresenta un dato terminale, collegato ad un accertamento<br />
del disvalore ordinamentale del comportamento, irrevocabile ma<br />
non in senso assoluto; esso è oggi un elemento relativamente intangibile<br />
nel quale è dato notevole riconoscimento alla salvaguardia dei diritti e delle<br />
prerogative individuali. La revisione, pur conservando intatta la caratteristica<br />
primigenia di costituire la più intensa manifestazione di reazione ordinamentale<br />
all’ingiustizia, è divenuta l’espressione massima di un esigenza<br />
di integrazione funzionale del sistema processuale in relazione alla non perdurante<br />
attualità della rispondenza tra accertamento giudiziario e giustizia.<br />
La revisione è, oggi più che mai, un istituto essenziale della funzione giurisdizionale<br />
che completa, garantisce e corrobora il giudicato penale, spogliandolo<br />
di quell’alone di sacralità metagiuridica di cui esso, per lungo<br />
tempo, si è ammantato.<br />
1. L’evoluzione del principio di irrefragabilità del giudicato penale.<br />
«Hic unus inter humanas procellas portus, quem si homines fervida voluntate<br />
praeterierint, in undosis semper jurgis errabunt»( 1 ). Con queste parole,<br />
un brocardo medievale si accingeva a descrivere un principio giuridico<br />
molto antico, indispensabile presidio di civiltà: l’intangibilità dell’accertamento<br />
giudiziario penale definitivo.<br />
Dal quadro delle esperienze normative emerse nel mondo e nella storia<br />
affiora con chiarezza come l’incontrovertibilità del dictum cognitivo penale<br />
sia sempre stato considerato un obiettivo fondamentale per una organizzazione<br />
armonica della società civile. Tale incontrovertibilità èstata ed è perseguita<br />
mediante uno strumento tecnico composito, punto di equilibrio e<br />
di sintesi di interessi divergenti: l’istituto del giudicato penale. Un illustre<br />
giurista, Nicolini, diceva: «la differenza tra le varie epoche che l’uomo trascorre<br />
non può essere giammai nella maggiore o minore stabilità della cosa<br />
( 1 ) Tuozzi, L’autorità della cosa giudicata nel civile e nel penale, Torino, 1900, p. 8.
SAGGI E OPINIONI<br />
231<br />
giudicata. Fin che vi è l’uomo, la forza immutabile della cosa giudicata è<br />
uno dei canoni necessari ed eterni dell’umanità»( 2 ).<br />
Per poter comprendere pienamente il valore e l’importanza dell’irrefragabilità<br />
del giudicato penale è, quindi, necessario ripercorrere, seppur<br />
brevemente, le esperienze storiche del passato ed osservare: quando<br />
tale istituto si sia delineato; quale sia stata la sua evoluzione; e quando<br />
abbia acquisito la maturità necessaria per affermarsi come principio fondamentale<br />
in ogni sistema processuale penale, «altera patrona generis humani»(<br />
3 ).<br />
Il concetto che i Romani avevano dell’intangibilità del giudicato penale<br />
si desume chiaramente da una famosa massima di Modestino: «Res judicata<br />
dicitur quae finem controversiarum pronunciatione judicis accipit, quod vel<br />
condemnatione vel absolutione contingit»( 4 ). Da questa definizione di<br />
‘‘res judicata’’ si può dedurre come, nel diritto romano, l’intangibilità del<br />
giudicato producesse i suoi effetti tipici, ogni qual volta si fosse statuito sopra<br />
una accusa con una decisione giurisdizionale definitiva e irrevocabile,<br />
che ‘‘controversis finem dat’’. La definitività era un attributo che la sentenza<br />
acquisiva quando, successivamente alla condemnatio o alla absolutio, non<br />
poteva essere più revocata e corretta dallo stesso giudice. «Iudex postea<br />
quam semel sententiam dixit, postea iudex esse desint, et hoc jure utimur<br />
ut qui semel vel pluris vel minoris condemnavit, amplius corrigere sententiam<br />
suam non possit; semel enim male seu bono officio functus est»( 5 ). Per quanto<br />
riguarda il carattere della irrevocabilità, questo attributo in origine non<br />
era richiesto, perché potesse operare l’autorità della ‘‘res iudicata’’; era sufficiente<br />
che la sentenza fosse definitiva. Il requisito dell’irrevocabilità sorse,<br />
infatti, con la nascita dell’istituto dell’appello. «Roma, ancora ai tempi della<br />
repubblica, era un popolo in via di consolidazione politica: perché essa potesse<br />
resistere alle lotte interne ed esterne occorreva il più rigoroso rispetto<br />
e la più stretta obbedienza all’autorità pubblica, ciò che non si sarebbe ottenuto<br />
se i pareri resi sulle controversie giuridiche dall’autorità giudiziaria<br />
avessero potuti essere discussi e disconosciuti non solo dagli stessi magistrati<br />
in altri giudizi, bensì anche dalle parti e dai cittadini in genere. Quindi<br />
una cosa, una volta e definitivamente giudicata, non doveva essere una<br />
seconda volta ridiscussa e rigiudicata. Solo quando lo stato romano si fu<br />
consolidato e fortificato poté permettere che sorgesse l’appello»( 6 ). Ma anche<br />
allora «ne lites poenae immortales fient vitaeque hominum modus exce-<br />
( 2 ) Nicolini, Della procedura penale nel regno delle due Sicilie, Napoli, I, 1828, p. 33..<br />
( 3 ) Lucchini, Elementi di procedura penale, Firenze, 1899, p. 101.<br />
( 4 ) Modestino, libro septimo Pandectarum, l. 1, Dig. de re judicata, XLII, 1.<br />
( 5 ) L. 55 Dig. de re judicata, XLII, 1.<br />
( 6 ) Rocco, Trattato della cosa giudicata come causa di estinzione dell’azione penale, Roma,<br />
1932, p. 71.
232<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
derent» fu stabilito un certo spazio di tempo, dapprima brevissimo poi gradatamente<br />
più lungo ma sempre limitato e perentorio, entro il quale fosse<br />
possibile appellare, scaduto il quale, scattava il giudicato che metteva fine<br />
per sempre alla lite giudiziaria. Dunque solo la sentenza, ‘‘pronunciatio jiudicis’’,<br />
definitiva e che non poteva essere appellata o per la quale era scaduto<br />
il dies appellationis poteva produrre l’intangibilità della res iudicata.<br />
«Addictos supplicio et pro criminum immanicate damnatus, nulli per vim utque<br />
usurpationem vindicare liceat ac tenere. Quibus in causa criminali humanitatis<br />
consideratione si tempora suffragantur interponendae provocationis<br />
copiam non negamus, ut ubi diligentius examinetur ubi contra hominis salutem<br />
per errorem vel gratiam cognitoris oppressa putatur esse justitia»( 7 ).<br />
Caduto l’impero romano d’occidente, durante il regno longobardo,<br />
venne dimenticato l’istituto della ‘‘res judicata’’. La procedura criminale<br />
barbarica differiva profondamente da quella romana. Il processo penale<br />
longobardo si incentrava principalmente sul ‘‘iudicium Dei’’, l’ordalia. Essa<br />
era una sorta di prova giudiziaria letale, tramite la quale si chiedeva l’intervento<br />
divino, perché si pronunciasse a favore di chi avesse ragione. Se l’accusato<br />
ne usciva incolume, si diceva che la divinità era intervenuta per proteggere<br />
un innocente; se invece soccombeva, lo si considerava colpevole. In<br />
questa epoca, il valore del giudicato era totalmente assoluto e troncava, nel<br />
modo più intransigente, ogni ulteriore questione di colpevolezza; poiché la<br />
divinità si era espressa a nessuno, giudice o parte, doveva essere dato il potere<br />
di mettere in discussione il giudizio da essa emanato. Dunque l’intangibilità<br />
del giudicato si fondava non su una base giuridica, bensì sulla cieca<br />
ignoranza e sulla superstizione, dimenticando secoli di raffinate riflessioni<br />
della dottrina romana sull’istituto della ‘‘res iudicata’’.<br />
Nel periodo carolingio, l’intangibilità del giudicato penale era riconosciuta,<br />
ma il concetto che racchiudeva era molto diverso da quello romano.<br />
Affinché il giudicato potesse costituirsi era necessario che le parti lo accettassero.<br />
Esse potevano anche non accettarlo, ma allora dovevano accusarlo<br />
di falsità ‘‘blasfemare iudicium’’, altrimenti sarebbero stati imprigionati in<br />
attesa che si pronunciassero in un senso o nell’altro. «De clamatoribus<br />
vel caudicis qui nec iudicium scabinorum adquiescere nec blasfemare volunt,<br />
antiqua consuetudo servetur id est ut in custodia recludantur donec unum e<br />
doubus faciant. Et si ad palatium pro hac re reclamaverint et litteras detulerint,<br />
non quidem eis credantur nec tamen in carcere ponantur sed cum custodia<br />
et cum ipsis litteris pariter ad palatium nostrum remittantur, ut ibi discuntiantur<br />
sicut dignum est»( 8 ). Dunque, in mancanza di una denuncia<br />
di falsità del giudizio, si adoperavano mezzi di coazione al fine di strappar<br />
( 7 ) Arcadio eOnorio, impp., l. 29, Cod. de appell. et cons., VII, 62.<br />
( 8 ) Ansegiso, Capitularium, de clamatoribus et causidicis, III, 7.
SAGGI E OPINIONI<br />
233<br />
loro quella manifestazione di volontà consenziente al giudicato, di cui non<br />
si poteva fare a meno. Questa formulazione del principio di intangibilità<br />
del giudicato rispecchiava pienamente una visione primitiva del diritto,<br />
per cui le situazioni di potere dovevano essere corroborate dal consenso.<br />
Nel cuore del XI secolo sorse, nella vita del diritto, una epoca nuova: il<br />
rinascimento giuridico. Esso si presentava alla storia come «il saldarsi miracoloso<br />
del presente con un passato, che la barbarie aveva creduto di infrangere<br />
e che ora, invece, una rinnovata coscienza disseppelliva dalle macerie<br />
e chiamava a nuovi destini»( 9 ). In questo periodo incominciò un movimento<br />
di rivalutazione del diritto romano, ad opera della dottrina giuridica,<br />
attraverso la riscoperta della compilazione giustinianea, ed in particolar<br />
modo dei libri del Digesto «qui dudum neglecti fuerant»( 10 ). Questa reviviscenza<br />
del diritto romano giustinianeo determinò lentamente, insieme<br />
con il diritto canonico, la nascita dello ‘‘ius comune’’. Gli istituti, le norme<br />
e i principi del diritto romano, ridivennero, pur se adattati alle esigenze del<br />
tempo, la struttura portante dei rapporti sociali fra i consociati, e fra essi e<br />
l’autorità pubblica. Se l’apporto normativo dello ‘‘ius commune’’ fu massimo<br />
nel campo dei rapporti civili, ciò avvenne in misura inferiore nel campo<br />
criminale, dove operarono notevolmente gli ‘‘iura propria’’, che, per la loro<br />
freschezza e duttilità, meglio, rispetto all’antico diritto romano, facevano<br />
fronte alle necessità di tutela penale del tempo. In questo periodo si afferma<br />
con vigore il principio giuridico dell’immutabilità del giudicato penale:<br />
«sententia in criminosum facit ius contra eum ubicumque terrarum et pro et<br />
contra omnes»( 11 ). Un passo delle costituzioni di Federico II si rivolgeva<br />
espressamente alle sentenze definitive e stabiliva dei termini per appellare,<br />
trascorsi i quali, esse si consideravano passate in ‘‘cosa giudicata’’. «Appellationum<br />
tempora per quas definitivae sententiae suspendutur certo dierum<br />
spatio iussimus limitari»( 12 ). Anche negli statuti comunali venne più volte<br />
stabilito il principio dell’immutabilità del giudicato e negato perfino, in<br />
omaggio ad esso, un secondo giudizio di appello. Secondo lo statuto della<br />
Repubblica di Firenze una causa criminale, una volta giudicata, non poteva<br />
essere ripresentata una seconda volta, non essendo ammesso neppure l’appello.<br />
«Et non possit de nullitate dici vel opponi vel appellari ab aliqua sententia<br />
vel condemnatione criminali lata per aliquem officialis communis Florentiae<br />
nec dictu judex appellationi conoscere vel se intromittere possit de dictiis<br />
sententiis criminalibus vel de nullitate appellatione, oppositione quae fierent<br />
super eis sub poena librarum quingenatrum»( 13 ). Secondo lo statuto del<br />
( 9 ) Calasso, Medioevo del diritto, Milano, 1954, p. 346.<br />
( 10 ) Mon. Germ. Hist., Scriptores, XXIII, p. 32.<br />
( 11 ) Bartolus et Baldus, inZasius, l. 63, de re judicata, n. 76.<br />
( 12 ) Constitutiones Regni Siciliae, tit. XLIV.<br />
( 13 ) Statuta populi et communis Florentiae, lib. II, rubrica CXXVII.
234<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
comune di Bologna dopo che la sentenza fosse stata pronunziata, questa<br />
rimaneva ferma e immutabile e non era possibile chiedere ed avere un nuovo<br />
giudizio. «Item dicimus quod nullus possit appellare vel restitutione impetrare<br />
contra aliquam condemnationem personalem vel pecuniaria in alique<br />
causa criminali quocumque modo fiat, per quecumque jurisdictionem habentem<br />
vel nullam dicere vel de nullitate opponere si lectae, publicatae et depositae<br />
reperiantur»( 14 ). Dunque durante il basso medioevo il principio giuridico<br />
dell’immutabilità del giudicato fu pienamente riconosciuto, e ciò sia<br />
per le sentenze di assoluzione sia per le decisioni di condanna.<br />
Ma all’inizio del XVI secolo a queste due forme di sentenze se ne aggiunse<br />
una terza, che si credette erroneamente usata anche dai romani,<br />
quella di rilascio momentaneo dell’imputato per difetto di prove ovvero<br />
la ‘‘absolutio pro nunc’’. Questo tipo di sentenza prevedeva che, in caso<br />
di impossibile dimostrazione positiva della innocenza dell’accusato, il processo<br />
non si chiudeva, ma veniva sospeso fino a quando non si fossero scoperte<br />
delle nuove prove di colpevolezza. Diceva Pertile: «sentenziavasi a<br />
questa maniera, che l’inquisito lo si obbligava di ripresentarsi nuovamente<br />
in giudizio ogni qual vota si scoprissero contro di lui nuove prove del reato<br />
per cui era stato processato»( 15 ). Queste sentenze costituivano dei veri e<br />
propri dinieghi di giustizia, perché si risolvevano nel non giudicare e lasciare<br />
sotto la perenne minaccia di un accusa l’inquisito. Le sentenze di ‘‘absolutio<br />
pro nunc’’, nel corso dei secoli, finirono con il sostituire quasi completamente<br />
la tradizionale sentenza di assoluzione, provocando inesorabilmente<br />
la dissoluzione dell’intangibilità del giudicato penale per le decisioni assolutorie.<br />
Ma il grande movimento filosofico del XVIII secolo, che mise in discussione<br />
tutto il vecchio sistema processuale penale, non poteva non portare<br />
la sua attenzione su un principio giuridico fondamentale come quello<br />
della intangibilità del giudicato penale, considerato «ancre de la société»(<br />
16 ). E così in Francia Prost de Royer e in Italia Cremani denunciavano<br />
fermamente «quella grande infamia legalizzata»( 17 ) che era la ‘‘absolutio<br />
pro nunc’’ e reclamavano l’intangibilità di tutte le sentenze penali. Da questo<br />
momento l’irrefragabilità del giudicato penale non venne considerato<br />
un principio che garantiva globalmente la certezza del diritto, ma come<br />
un grande e vitale presidio di libertà individuale e dell’innocenza, un limite<br />
all’attività repressiva dello Stato. Questa idea non rimase a lungo una pura<br />
ed astratta speculazione, e dal campo della teoria scese ben presto a cimen-<br />
( 14 ) Statuta criminalia communis Bonnoniae, de condemnationibus et absolutionibus legendis<br />
et publicandis.<br />
( 15 ) Pertile, Storia del diritto italiano, Padova, 1887, p. 715.<br />
( 16 ) Brissot de Warville, Thèories des lois criminelles, Neufchatel , 1781, II, p. 218.<br />
( 17 ) Cremani, De jure criminali, Ticini, 1787, p. 15.
SAGGI E OPINIONI<br />
235<br />
tarsi nella pratica viva delle leggi. Durante la rivoluzione francese, che travolse<br />
tutto il vecchio diritto criminale, l’Assemblea costituente non poté<br />
non soffermarsi sulla questione dell’intangibilità del giudicato e nella costituzione<br />
del 3-14 settembre del 1791 pose espressamente questa regola:<br />
«tout homme acquitte par un jury légal ne peut plus être repris ni accusé<br />
à raison du même fait». La stessa disposizione venne inserita anche nella<br />
costituzione del 5 fructidor anno III, per ribadirne la obbligatorietà, che<br />
in quel momento storico di grande agitazione, a volte non veniva osservata<br />
nella pratica forense.<br />
L’irrefragabilità del giudicato penale, come principio di libertà, venne<br />
recepito nel codice di istruzione criminale del 1806 di Napoleone, dove<br />
venne espresso nell’art. 360: «toute personne acquittée légalement ne pourra<br />
être plus réprise ni accusée à raison du même fait». Tale codice costituì<br />
da modello per il codice della procedura criminale del Regno di Sardegna<br />
del 1847, che si occupò dell’intangibilità del giudicato penale, limitandosi<br />
in sostanza a riprodurre le corrispondenti disposizioni criminali francesi.<br />
L’articolo 438 fissava: «l’accusato assolto e riguardo al quale siasi dichiarato<br />
non essersi fatto luogo a procedimento non potrà più essere sottoposto a<br />
processo né accusato pel medesimo fatto». Lo stesso principio valeva per le<br />
sentenze contumaciali ed era espresso nell’art. 470: «l’accusato che sarà stato<br />
assolto colla sentenza in contumacia od a riguardo del quale si sarà dichiarato<br />
non essere stato luogo a procedere non potrà più essere sottoposto<br />
a processo né accusato pel medesimo fatto».<br />
Analoghe disposizioni furono inserite infine nel codice unitario di procedura<br />
penale del 1865, che sostituì la legislazione processuale penale di<br />
tutti gli stati preunitari, molti dei quali ammettevano ancora la possibilità<br />
per il giudice di emettere una sentenza di ‘‘absolutio pro nunc’’. Nel lombardo-Veneto,<br />
infatti, l’art 437 del codice di procedura penale austriaco<br />
stabiliva che: «se la sentenza dichiara sospesa l’inquisizione per difetto di<br />
prove l’inquisito viene condotto innanzi la magistratura nel prossimo giorno<br />
feriale, gli viene letta la sentenza, poscia consegnata copia della medesima<br />
e nello stesso tempo gli è significato da chi presiede che, emergendo<br />
nuove prove, verrebbe riassunta l’inquisizione». Nel Regno delle due Sicilie<br />
il codice del 1819, in maniera più garantista per l’imputato, nell’art 136 statuiva<br />
che: «in caso di insufficienza di indizi, pronunziata la libertà provvisoria,<br />
l’imputato non può per lo stesso misfatto essere tradotto nuovamente<br />
davanti la Gran Corte a meno che non sopravvengano nuove prove a di lui<br />
carico dentro due anni».<br />
Dall’esame delle codificazioni del XIX secolo è possibile osservare come<br />
l’intangibilità del giudicato penale fosse legislativamente espressa non<br />
una volta e per sempre, quale divieto generico di risollevare ulteriormente<br />
una disputa criminale già decisa con una pronuncia definitiva, ma nelle sue,<br />
e neppure tutte, applicazioni particolari. Più precisamente, le sparute disposizioni<br />
riguardavano le sentenze assolutorie ed erano applicazioni o
236<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
conseguenze dell’intangibilità del giudicato come derivazione del principio<br />
di libertà individuale. Tutto ciò èlimitativo ed erroneo, perché l’irrefragabilità<br />
del giudicato penale non riguarda e non deve riguardare soltanto le<br />
sentenze assolutorie, bensì anche quelle di condanna, e non tutela e non<br />
deve tutelare soltanto l’interesse della libertà e dell’innocenza, ma anche<br />
quello della repressione e punizione dei reati.<br />
Solo con la codificazione del XX secolo, l’istituto del giudicato penale<br />
fu espresso in modo diretto, organico e non frammentario, configurandosi<br />
come lo strumento giuridico che garantisce la certezza del diritto attraverso<br />
l’immutabilità dell’accertamento operato da una decisione penale irrevocabile.<br />
Il giudicato penale, oggi, si sostanzia in «un vincolo delle autorità pubbliche<br />
e dei privati ad un precetto d’origine giudiziaria, costruito su misura<br />
per il caso singolo, il quale impone il dovere di una o alcune persone di<br />
eseguirlo senza poterlo contestare, il dovere di uno o alcuni giudici di usarlo<br />
come regola del decidere, il dovere dello stesso o di qualsiasi altro giudice,<br />
di fronte al quale sia riproposta la eadem res nei confronti della eadem<br />
persona, di declinare il giudizio»( 18 ).<br />
L’istituto del giudicato penale si articola idealmente sotto due fogge: la<br />
cosa giudicata formale e la cosa giudicata sostanziale. «Entrambe concorrono<br />
a chiudere il cerchio delle garanzie idonee ad assicurare l’intangibilità<br />
del risultato del processo»( 19 ). La cosa giudicata formale tende ad impedire,<br />
nell’ambito di uno stesso procedimento penale, una pluralità indefinita<br />
di sentenze sullo stesso oggetto. Se l’ordinamento giuridico non ponesse un<br />
limite certo al potere di impugnazione, o desse al giudice la facoltà di revocare<br />
liberamente in qualunque momento la decisione emanata, l’imputato<br />
sarebbe esposto ad una irragionevole e illimitata possibilità di reiterazione<br />
di sentenze de eadem re, con grave pregiudizio alla sicurezza dei diritti e<br />
alla stabilità delle situazioni giuridiche pregresse.<br />
La cosa giudicata formale, che si esprime normativamente attraverso<br />
l’irrevocabilità delle sentenze definitive, è disciplinata nel sistema processuale<br />
penale dalla regola contenuta nell’art. 648 c.p.p. che recita: «1. sono<br />
irrevocabili le sentenze pronunciate in giudizio contro le quali non è ammessa<br />
impugnazione diversa dalla revisione. 2. Se l’impugnazione è ammessa<br />
la sentenza è irrevocabile quando è inutilmente decorso il termine per<br />
proporla o quello per impugnare l’ordinanza che la dichiara inammissibile.<br />
Se vi è stato ricorso per cassazione, la sentenza è irrevocabile dal giorno in<br />
cui è pronunciata l’ordinanza o la sentenza che dichiara inammissibile o ri-<br />
( 18 ) Lupacchini, La risoluzione della cosa giudicata penale tra etica e diritto, inGiur.<br />
it., 1996, IV, p. 110<br />
( 19 ) De Luca, «Giudicato, II) diritto processuale penale», in Enc. Giur., XV, Roma,<br />
1988, p. 1.
SAGGI E OPINIONI<br />
237<br />
getta il ricorso. 3. Il decreto penale di condanna è irrevocabile quando è<br />
inutilmente decorso il termine per proporre opposizione o quello per impugnare<br />
l’ordinanza che la dichiara inammissibile». Dunque, attraverso la<br />
cosa giudicata formale l’interna fisiologia del processo spinge gli atti che lo<br />
costituiscono verso un atto conclusivo e definitivo, espressione piena dell’attività<br />
giurisdizionale.<br />
Tuttavia, la cosa giudicata formale costituisce una condizione fondamentale<br />
e imprescindibile, ma non sufficiente a garantire l’intangibilità<br />
del risultato processuale definitivo. La garanzia, infatti, sarebbe vanificata<br />
se lo stesso fatto, per cui l’imputato è stato condannato o assolto con sentenza<br />
irrevocabile, potesse essere oggetto di un ulteriore processo e di conseguenza<br />
nuovamente sottoposto all’accertamento di un giudice diverso.<br />
Non è sufficiente, quindi, l’irrevocabilità della sentenza, ma occorre anche<br />
garantire l’intangibilità del contenuto della stessa, impedendo un nuovo<br />
giudizio de eadem re; a ciò provvede la cosa giudicata sostanziale. Essa infatti<br />
tende ad impedire una illimitata pluralità di processi sullo stesso oggetto,<br />
invocando il risalente principio ‘‘ne bis in idem’’. La cosa giudicata<br />
sostanziale incarna l’autorità e la vincolatività della decisione giurisdizionale,<br />
la quale si presenta nel mondo del diritto in veste di vero e proprio atto<br />
imperativo, altrettanto efficace quanto quello promanante dal legislatore,<br />
una sorta di ‘‘lex specialis’’, «una norma di carattere giudiziario»( 20 ). Tuttavia<br />
occorre fermamente evitare ogni rischio di gratuita idealizzazione della<br />
capacità della cosa giudicata sostanziale e non perdere di vista il dato<br />
normativo che la esprime. Infatti, «la sentenza irrevocabile viene in considerazione<br />
nell’ordinamento giuridico come fatto giuridico in senso stretto.<br />
Essa si pone non già come atto normativo, dotato di efficacia regolamentare,<br />
ma come presupposto di fatto di taluni effetti, che per il suo tramite<br />
si fanno discendere dalla legge. La cosa giudicata sostanziale penale non ha<br />
come oggetto l’accertamento positivo o negativo del reato, cioè la sua efficacia<br />
normativa»( 21 ). Da questa premessa deriva che la cosa giudicata sostanziale<br />
è caratterizzata dalla indifferenza del contenuto della decisione rispetto<br />
al prodursi della sua efficacia tipica e che, quindi, anche la sentenza<br />
di natura processuale irrevocabile è assistita dal ‘‘ne bis in idem’’.<br />
La cosa giudicata sostanziale trova espressione normativa nell’art. 649<br />
c.p.p., che recita: «1. L’imputato prosciolto o condannato con sentenza o<br />
decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a<br />
procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente<br />
considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze. 2. Se ciò<br />
nonostante viene di nuovo iniziato procedimento penale, il giudice in ogni<br />
( 20 ) Cordero, Procedura penale, Milano, 2001, p. 416.<br />
( 21 ) De Luca, op. cit., p.3.
238<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
stato e grado del processo pronuncia sentenza di proscioglimento o di non<br />
luogo a procedere, enunciandone la causa nel dispositivo». L’efficacia preclusiva<br />
riconosciuta alla cosa giudicata sostanziale si basa su due presupposti,<br />
che devono ricorrere entrambi per l’operatività del divieto. Essi sono<br />
uno di natura soggettiva e l’altro di natura oggettiva. Il presupposto di natura<br />
soggettiva è costituito dall’identità tra la persona già sottoposta al processo<br />
conclusosi con una sentenza irrevocabile e quella che si vorrebbe sottoporre<br />
ad un nuovo procedimento penale (eadem persona). Il presupposto<br />
di natura oggettiva è, invece, costituito dall’identità tra il fatto su cui ha gia<br />
deciso una sentenza irrevocabile ed il fatto per il quale si pretenderebbe di<br />
istaurare un nuovo processo penale. In conclusione l’istituto del giudicato<br />
penale, attraverso le sue articolazioni normative, consegue un accertamento<br />
definitivo il quale rappresenta lo scopo stesso dell’attività giurisdizionale e<br />
realizza l’interesse fondamentale dell’ordinamento alla certezza del diritto:<br />
«status reipublicae maxime judicatis rebus continetur»( 22 ).<br />
2. Il fondamento politico e giuridico del giudicato penale.<br />
In ogni periodo storico è stata più o meno profondamente sentita la<br />
necessità etica e politica dell’intangibilità del giudicato penale. La società,<br />
infatti, ha bisogno, al fine della sua conservazione, di porre un termine alle<br />
controversie e di tutelare durevolmente il diritto fra i consociati. «Per questa<br />
ragione essa si organizza politicamente a Stato e crea le leggi tra cui,<br />
quasi ‘‘lex legum’’, la legge penale, che è chiamata ad assicurare la più forte<br />
tutela giuridica: la tutela politica del diritto»( 23 ). Ma la legge penale, affinché<br />
non rimanga una astratta dichiarazione di norme, «una platonica comminatoria<br />
di mali»( 24 ), deve potersi tradurre, nel campo tangibile dei fatti<br />
umani e dei rapporti sociali, in un atto concreto, definitivo ed irrevocabile,<br />
frutto della consumazione di un procedimento giurisdizionale. Dunque vi è<br />
stata sempre la consapevolezza, più o meno piena, che là dove ogni caso sia<br />
ad infinitum giudicabile, ogni lite diventi un focolaio cronico, e che nessun<br />
corpo sociale possa tollerare simili tensioni.<br />
Già in epoca romana i giuristi avvertirono, con straordinaria sensibilità,<br />
l’esigenza sociale che forma la radice politica dell’intangibilità del giudicato.<br />
Cicerone affermava: «perditae civitates disperatis ombibus rebus, hos<br />
solent habere exitus exitiales ut damnati in integrum restituantur, vincti solvantur,<br />
exules reducantur, res judicatae rescindunur. Quae, cum accidunt, ne-<br />
( 22 ) Cicerone, Orat. pro Sylla, c. 22.<br />
( 23 ) Rocco, Trattato della cosa giudicata come causa di estinzione dell’azione penale,<br />
Roma, 1932, p. 239<br />
( 24 ) Rocco, op. cit., p. 240.
SAGGI E OPINIONI<br />
239<br />
mo est quin intelligat, ruere illam rempubblicam. Haec ubi eveniunt nemo<br />
est quin ullam spem salutis reliquam esse arbitretur»( 25 ). Un passo del digesto<br />
afferma che: «singulis controversiis, singulas actiones unumque judicati<br />
finem sufficere probabili ratione placuit ne aliter modus litium multiplicatus<br />
summam atque inexplicabilem faciat difficultatem, maxima si diversa pronunziaretur»(<br />
26 ). Ma se il fondamento politico del giudicato penale è<br />
una costante nello svolgersi delle esperienze normative della storia, diverso<br />
è stato il fondamento giuridico che la dottrina, nel corso dei secoli, ha ricollegato<br />
all’intangibilità del giudicato penale. I romani per giustificare giuridicamente<br />
il giudicato, la ‘‘res judicata’’, enuclearono un principio: «res<br />
judicata pro veritate accipitur»( 27 ). Questa famosa massima fu formulata<br />
da Ulpiano con riferimento ad un specifico tipo di sentenza, per motivare<br />
quanto aveva detto circa la sua efficacia. La generalizzazione della massima<br />
fu assai posteriore e deve verosimilmente ascriversi ai compilatori del digesto,<br />
i quali stralciarono la motivazione dal contesto originario e la riprodussero<br />
isolata nel fr. 207 del titolo 50, 17, avente la rubrica De diversis regulis<br />
iuris antiqui. Con questa massima i giuristi romani intendevano affermare<br />
che la ‘‘res judicata’’ era una fonte autonoma di situazioni giuridiche, che si<br />
poneva nell’ordinamento giuridico non già come verità, ma al posto della<br />
verità: «sententia facit ius»( 28 ). Nelle Istituzioni, a tal proposito, Chiovenda<br />
aveva osservato: «non pensarono affatto i romani ad attribuire a quello che<br />
dice il giudice, per ciò solo che lo dice il giudice, una presunzione di verità;<br />
ed anche il testo famoso ‘‘res judicata pro veritate accipitur’’ vuol dire soltanto<br />
che la pronunzia del giudice, si ha, non già ‘‘come’’ verità, ma ‘‘invece’’<br />
della verità»( 29 ).<br />
Le potenzialità concettuali, racchiuse nella regula e nella sua generalizzazione,<br />
furono espresse e messe a profitto per vasti sviluppi dagli interpreti<br />
medievali e moderni delle fonti romane. I giuristi medievali collocarono<br />
la massima ‘‘res judicata pro veritate accipitur’’ sul terreno probatorio e vi<br />
scorsero il principio secondo cui quanto era stabilito nel giudicato si presupponeva<br />
vero e giusto senza possibilità di prova contraria. Il primo spunto<br />
di una valutazione del giudicato sotto il profilo della prova si trova nelle<br />
Questiones de iuris subtilitatibus, attribuite da Fitting a Irnerio e ora ritenute<br />
opera di un ignoto glossatore del XII Secolo. Nel titolo De probationibus<br />
è presente una proposizione, che in pochissime parole enuncia quella<br />
che, per l’autore, sarebbe l’essenza del giudicato: «res apud iudicem queri<br />
( 25 ) Cicerone, Orat. in Verrem, II, lib. V, c. 6.<br />
( 26 ) L. 6 Dig. XLIV, 2<br />
( 27 ) Ulpiano, D. 1, 5, 25.<br />
( 28 ) D. 25, 3, 3 pr., Ulp. 34 ad ed.; D. 30, 50, 1, Ulp. 24 ad Sab.; D. 49, 1, 14 pr., Ulp.<br />
14 ad ed.; D. 5, 2, 17, 1, Paul. 2 quest.<br />
( 29 ) Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1960, p. 321.
240<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
potest, cum non est quod tollat questionem, ut auctoritas rei judicatae». È da<br />
rilevare che il collegamento con la materia probatoria non è puramente<br />
esteriore, bensì sostanziale, poiché il filo logico, seguito dall’autore, è che<br />
un’istruzione probatoria ed un’argomentazione davanti al giudice hanno<br />
ragione d’essere, quando esiste una materia di indagine e di contrasto, ossia<br />
una quaestio; mentre quando qualcosa ha eliminato la suddetta questio, come<br />
‘‘l’auctoritas rei judicatae’’, viene a mancare la ‘‘res dubia’’ che possa<br />
‘‘queri apud iudicem’’. Ma l’elaborazione più compiuta e matura della teoria<br />
che collocava il fondamento giuridico dell’intangibilità del giudicato sul<br />
terreno probatorio, identificandolo in una presunzione di verità iuris et<br />
de iure, si ebbe nella seconda metà del XIII secolo, con l’opera di Jacques<br />
de Révigny che scrisse: «sed contra res iudicata habetur pro veritate. Si habetis<br />
pro veritate, non est veritas; ...Unde praesumptionem inducit iuris et de<br />
iure sententia condemnatoria. Et eodem modo in absolutoria sententia iudex<br />
absolvit reum ...inducit praesumptionem iuris et de iure»( 30 ).<br />
Nel XVII secolo, anche se ancora prevaleva nel pensiero dei giuristi il<br />
ricorso alla presumptio iuris et de iure per giustificare giuridicamente il giudicato<br />
penale, cominciarono ad affacciarsi al dibattito dottrinale posizioni<br />
eterodosse, che spostavano la ricerca del fondamento giuridico dal terreno<br />
probatorio a quello sostanziale. In questo periodo, infatti, si esprimeva incisivamente<br />
il giurista genovese Scaccia con queste parole: «res iudicata dicitur<br />
illa, quae habetur pro veritate, l. 207 ff. de reg.iur. et l. ingenuum ff. de<br />
statu homin.,et ideo facit ius, quod non potest retractari, quia facit de albo<br />
nigrum, originem reat, equat quadrata rotundis, naturalia sanguinis vincula<br />
et falsum in verum quoad iuris effectum, licet non essentialiter, mutat, et ideo<br />
non est curandum qualiter se habeat veritas»( 31 ).<br />
Nel corso del XVIII secolo questo modo di concepire il fondamento<br />
dell’intangibilità del giudicato, pur con varianti verbali, si diffuse in tutta<br />
l’Italia. In questo periodo De Luca affermava con sicurezza: «licet sententia,<br />
sive unica, sive trina quae in iudicatum transitum fecerit, pro lege habenda<br />
sit, neque ulteriorem admittat impugnationem, idoque faciat de albo nigrum,<br />
seu ens de non ente, atque firmet statum»( 32 ). La massima ‘‘res iudicata<br />
pro veritate accipitur’’ non fu più intesa nel senso che il giudicato, operando<br />
sul terreno probatorio, producesse una praesumptio iuris et de iure<br />
di verità; bensì nel senso che l’accertamento prodotto dalla sentenza definitiva<br />
si sovrapponesse alla verità della natura delle cose, rendendola irrilevante.<br />
Dunque, tra il XVII e XVIII secolo, la massima di Ulpiano, pur spiegando<br />
ancora una funzione essenziale nell’inquadramento del giudicato pe-<br />
( 30 ) Jacques de Révigny, Lectura super codice, Parigi, 1519.<br />
( 31 ) Scaccia, Tractatus de sententia et re judicata, Venezia, 1629.<br />
( 32 ) De Luca, Theatrum veritatis et iustitiae, Venezia, 1726.
SAGGI E OPINIONI<br />
241<br />
nale, non era, però, più intesa nel senso che la ‘‘res iudicata’’ si avesse per<br />
verità e creasse addirittura una presunzione invincibile di verità; bensì in<br />
quello che essa costituiva una nuova situazione giuridica, che stava al posto<br />
della verità. L’abbandono, ormai quasi totale, della teoria della praesumptio<br />
iuris et de iure come giustificazione del giudicato e della sua intangibilità,<br />
lasciò un vuoto nel dibattito dottrinale. Nel contempo, però, fu chiaro a<br />
tutti che il fondamento giuridico andava ricercato non più su un piano formale<br />
ed esteriore come quello probatorio, bensì in una radice sostanziale,<br />
recuperando così la concezione di epoca romana, che i giuristi medievali<br />
avevano abbandonato.<br />
La prima teoria che attribuì al fondamento del giudicato natura sostanziale<br />
fu frutto della elaborazione di Savigny. Nella prima metà del<br />
XIX secolo, egli, analizzando la massima ulpianea ‘‘res iudicata pro veritate<br />
accipitur’’, affermò che la giustificazione giuridica del giudicato risiedeva in<br />
una «finzione giuridica di verità»( 33 ). Secondo Savigny, infatti, la sentenza<br />
definitiva e irrevocabile creava una situazione giuridica sostanziale nuova,<br />
che operava nell’ordinamento come se fosse la ‘‘verità naturale’’.<br />
Un contributo fondamentale al dibattito dottrinale sulla giustificazione<br />
giuridica del giudicato penale e della sua irrefragabilità venne offerto da<br />
Arturo Rocco. Egli fece partire la sua riflessione dalla definitiva demolizione<br />
delle teorie della praesumptio iuris et de iure di verità e della finzione di<br />
verità come fondamento del giudicato. Innanzitutto Rocco osservò che<br />
queste due teorie erano state originariamente elaborate per giustificare giuridicamente<br />
il giudicato civile e poi trasportate nel campo della procedura<br />
penale per dare il medesimo fondamento giuridico al giudicato penale.<br />
Rocco eccepì che queste operazioni speculative non potevano essere corrette<br />
per il fatto che nel giudicato penale, a differenza che in quello civile,<br />
sono coinvolti la vita, la libertà e l’onore dell’uomo; e ciò richiedeva che la<br />
teoria che cercasse di rintracciare la radice giuridica del giudicato penale<br />
prendesse in considerazione direttamente ed esclusivamente il fenomeno<br />
dell’intangibilità delle sentenze penali irrevocabili. Per Rocco, inoltre, l’affermare<br />
che l’intangibilità del giudicato si fondava su una presunzione di<br />
verità o su una finzione di verità era solo uno spostare e non risolvere la<br />
questione del fondamento del giudicato, perché in tal maniera restava ancora<br />
da spiegare su che cosa si fondassero quella presunzione o quella finzione.<br />
Infine, per Rocco, abbracciando queste teorie si veniva a delineare il<br />
giudicato come un istituto giuridico che serviva a legittimare normalmente<br />
l’errore, quasi un «marchio genuino di una merce contraffatta»( 34 ). Rocco,<br />
per costruire la sua teoria, parte da una considerazione: la verità della na-<br />
( 33 ) Savigny, System des heutigen römischen rechts, 1853, p. 285.<br />
( 34 ) Rocco, op. cit., p. 233.
242<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
tura delle cose non esiste, perché tutto quanto l’uomo percepisce ha un valore<br />
soggettivo, in quanto imperfetti e fallibili sono i mezzi umani di cognizione<br />
della realtà. Dunque, l’accertamento operato da una decisione giudiziaria<br />
irrevocabile è in re ipsa conforme alla verità, è l’unica verità esistente,<br />
la verità umanamente conseguibile. L’intangibilità del giudicato penale trova<br />
la sua giustificazione nel fatto che il giudicato è la verità, quale fu giuridicamente<br />
accertata, e segna perciò il raggiungimento dello scopo e della<br />
fine del processo con l’armonia dei due supremi interessi procedurali. Esso<br />
è il «suggello della giustizia che ha fornito il suo compito e dato il suo responso»(<br />
35 ). Per Rocco tutto ciò lo avevano ben presente anche gli antichi<br />
romani quando coniarono la massima ‘‘res iudicata pro veritate accipitur’’.<br />
Infatti, per Rocco, con questa frase essi non intesero imporre ai cittadini<br />
una norma obbligatoria, sia pure sotto forma di presunzione o di finzione,<br />
ma vollero solo costatare un fatto che per loro era evidente e incontestabile,<br />
cioè, che il giudicato era per tutti come la verità; se non fosse stato così non<br />
avrebbero detto ‘‘accipitur’’ ma ‘‘accipiatur’’ o in altro modo simile. Per<br />
Rocco il giudicato penale «si innalza e si purifica; è quasi la religione dell’umana<br />
giustizia»( 36 ).<br />
Questa teoria di Rocco ebbe molto successo e si affermò per lungo<br />
tempo nel dibattito dottrinale. Essa suscitò però la forte opposizione critica<br />
di un insigne giurista, Francesco Carnelutti. Egli osservò come la giustificazione<br />
giuridica del giudicato penale e della sua intangibilità andava ricercata<br />
in una ragione politica, in una ‘‘aliqua utilitas’’ e non in una ragione<br />
logica in un ‘‘tenor rationis’’. Partendo da questa premessa lucida e corretta,<br />
che rimase un punto indiscusso per le riflessioni successive sul tema, egli<br />
giunse però ad estreme e inaccettabili conseguenze. Carnelutti sostenne<br />
che, mentre per il giudicato civile vi era un fondamento giuridico che risiedeva<br />
nella certezza dei rapporti economici e sociali, ciò non era possibile<br />
rintracciarlo nel giudicato penale. Da questa contrapposizione tra i due istituti,<br />
come tra ‘‘essere e avere’’ egli fece discendere, de iure condendo, la necessità<br />
della conservazione del giudicato civile e l’opportunità dell’abolizione<br />
del giudicato penale. Carnelutti fece ciò ponendo questi quesiti: «quando<br />
la posta in gioco non è la proprietà, tua o mia, ma puramente la mia<br />
libertà, qual è la contropartita del sacrificio che l’immutabilità impone alla<br />
giustizia della decisione?»( 37 ); ovvero: «se un lebbroso, sfuggito a una prima<br />
diagnosi, circola liberamente nella società basta il sospetto dello sbaglio<br />
per riacciuffarlo e sottoporlo a un nuovo esame e, viceversa quando si scopre<br />
che il ricoverato in un lebbrosario non è un lebbroso, nessun ostacolo<br />
si oppone alla sua liberazione; ma qual differenza passa, nei campi rispettivi<br />
( 35 ) Lucchini, Elementi di procedura penale, Firenze, 1899, p. 96.<br />
( 36 ) Rocco, op. cit., 1932, p. 243.<br />
( 37 ) Carnelutti, Contro il giudicato penale, inRiv. Dir. Proc., 1951, p. 291.
SAGGI E OPINIONI<br />
243<br />
del corpo e dello spirito, tra lebbroso e delinquente?»( 38 ). Questa teoria<br />
venne demolita da una critica corrosiva quanto pertinente; si osservò infatti<br />
come «tutto un lato del problema, vale a dire la funzione di strumento di<br />
libertà che è insita nel giudicato penale, fosse sfuggito all’autore»( 39 ) di essa,<br />
per nulla preoccupato dell’esigenza di evitare che l’innocente, semel suspectus<br />
e tuttavia assolto, resti, finché viva, «lo zimbello dei pubblici poteri,<br />
magari tirannici, parziali a lui nemici»( 40 ).<br />
In questo momento di fervente dibattito dottrinale sul fondamento<br />
dell’intangibilità del giudicato penale si colloca la riflessione di un illustre<br />
giurista, Giovanni Leone. Egli fa tesoro delle teorie del passato ed elabora<br />
un pensiero che costituisce una pietra miliare della sensibilità e della cultura<br />
giuridica per qualsiasi operatore del diritto. Per Leone il fondamento<br />
giuridico del giudicato penale e della sua intangibilità coincide esattamente<br />
con il suo fondamento politico, perché, come egli osserva, non esiste una<br />
radice ontologica di questo istituto, trattandosi solo di «un problema di<br />
convenienza politica»( 41 ). Leone, inoltre afferma che: «a giustificazione<br />
dell’istituto del giudicato in penale certamente non possono richiamarsi<br />
quelle teorie che sono state elaborate esclusivamente per il giudicato civile.<br />
Non trattandosi, infatti, di una decisione che riguarda rapporti di diritto<br />
privato, non può dirsi che il giudicato serve ad assicurare un bene della vita<br />
ad una delle parti contendenti. Per quanto indubbiamente anche il giudicato<br />
civile non sia affare privato...; non può negarsi che il problema del giudicato<br />
penale supera la limitata barriera della relazione tra due soggetti ed<br />
investe in pieno un superiore interesse della società: l’interesse dello Stato<br />
alla sentenza giusta»( 42 ). Partendo da queste importanti premesse Leone<br />
deduce un duplice fondamento del giudicato penale: l’autorità dello Stato<br />
e la sicurezza giuridica instaurata con la decisione irrevocabile, due aspetti<br />
connaturali di un unico fenomeno: l’intangibilità del giudicato penale come<br />
«espressione della certezza del diritto nel caso concreto»( 43 ). In particolare,<br />
sotto il primo profilo, il giudicato penale garantisce l’esigenza «che la<br />
voce del potere e dello Stato che giudica abbia una forza notevole, che<br />
non diventi l’autorità giudiziaria un trastullo delle parti contendenti, e<br />
non sia ridotta all’ufficio di dar pareri meramente consultivi»( 44 ); sotto il<br />
secondo profilo, il giudicato penale garantisce «l’esigenza della fissità del<br />
( 38 ) Carnelutti, op. cit., p. 294.<br />
( 39 ) Allorio, Nuove riflessioni critiche in tema di giurisdizione e giudicato,inId., Sulla<br />
dottrina della giurisdizione e del giudicato, Milano, 1957, p. 68.<br />
( 40 ) Allorio, op. cit., p. 69.<br />
( 41 ) Leone, Il mito del giudicato, inRiv. Proc. Pen., 1956, p. 173.<br />
( 42 ) Leone, op. cit., p. 173.<br />
( 43 ) Leone, op. cit., p.177.<br />
( 44 ) Coviello, De’ giudicati di stato, inArch. Giur., 1891, p. 175.
244<br />
diritto, ovvero la necessità della permanenza di quello stato di pace che la<br />
decisione ha voluto instaurare mediante la composizione degli interessi in<br />
conflitto»( 45 ). Stato di pace non soltanto tra persona offesa ed imputato<br />
ma anche e principalmente tra società ed imputato. «In sostanza il giudicato<br />
penale placa la aspettativa della società nei confronti di una notitia criminis;<br />
e placa l’aspettativa di giustizia dei soggetti del reato e di quegli altri<br />
individui sui quali il reato incide direttamente»( 46 ). Si profila così un punto<br />
di incontro tra diritto sostanziale e diritto processuale. L’immutabilità del<br />
giudicato penale viene a costituire, infatti, uno strumento che attiene alla<br />
stessa efficacia politica della legge penale, perché ogni insicurezza sulla definitività<br />
dell’accertamento del reato provoca sfiducia nella funzione statale<br />
della persecuzione del crimine, sostitutiva della vendetta privata e satisfattrice<br />
del senso di giustizia della società.<br />
Dunque, possiamo concludere che, l’intangibilità del giudicato penale<br />
poggia su una saldissima base, su un principio cardine dell’ordinamento<br />
giuridico, che affonda le sue radici in una profonda esigenza etica: la certezza<br />
del diritto. Occorre, però, procedere ad una saggia delimitazione di<br />
confini dell’immutabilità del giudicato penale. Essa, infatti, costituisce uno<br />
dei pilastri della funzione giurisdizionale, la quale altrimenti rischierebbe di<br />
fallire al suo scopo, dunque «rebus judicatis standum est»( 47 ). Ma l’immutabilità<br />
del giudicato penale «va depurata da tutti quegli elementi parossistici<br />
e irrazionali che hanno trasformato questo, che doveva essere un istituto<br />
di salvaguardia della sicurezza giuridica, in una specie di castello turrito,<br />
tetragono ad ogni aspirazione di giustizia»( 48 ). Solo cosi l’irrefragabilità<br />
del giudicato penale contribuirà «a rendere il processo penale uno strumento<br />
sempre più affinato di giustizia, che è l’ansia dell’uomo e deve essere<br />
la grande aspirazione di uno Stato democratico»( 49 ).<br />
3. Il giudicato penale e la revisione.<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
Il fondamento dell’intangibilità del giudicato penale è la certezza giuridica<br />
di fronte ad un caso concreto, indispensabile condizione per una<br />
composizione armonica della società. Questa esigenza di carattere generale<br />
può prevalere facilmente sull’esigenza etica di giustizia, quando questa sia<br />
riferita ad un interesse singolo e particolare. Ma, in uno stato democratico,<br />
l’esigenza di giustizia assume, decisamente, il carattere di interesse pubbli-<br />
( 45 ) Allorio, La cosa giudicata rispetto ai terzi, Milano 1935, p. 33.<br />
( 46 ) Leone, op. cit., p. 180.<br />
( 47 ) Fr. 12 § 3, De bonis liberatorum XXXVIII, 2.<br />
( 48 ) Leone, op. cit., p. 197.<br />
( 49 ) Leone, op. cit., p. 198.
SAGGI E OPINIONI<br />
245<br />
co. La democrazia, infatti, il regime della più ampia tutela della dignità<br />
umana, non può tollerare che, in situazioni strettamente inerenti alla vita<br />
dell’uomo, possa una esigenza politica, una esigenza cioè afferente all’organizzazione<br />
della società, schiacciare una vitale esigenza di equità che tocca<br />
interessi fondamentali della persona.<br />
Dunque, il rapporto tra la certezza del diritto e la giustizia, nel nostro ordinamento<br />
giuridico, si pone sotto forma di conflitto tra due esigenze di interesse<br />
generale di pari dignità, ed allora non è possibile semplicemente sacrificarne<br />
una, ma è necessario cercare di armonizzarle, rispettandole entrambe.<br />
L’intangibilità del giudicato penale svolge una funzione certamente<br />
essenziale nell’ordinamento giuridico: rendere concreta ed effettiva la legge<br />
penale. Essa, cioè, opera in modo che la tale legge non rimanga una astratta<br />
dichiarazione di norme, ma si traduca, nella realtà pratica delle azioni umane<br />
e delle relazioni sociali, in un atto imperativo certo e definitivo in relazione<br />
ad un caso concreto.<br />
Affinché possa adempiere al meglio la sua funzione occorre, però, che l’intangibilità<br />
del giudicato penale venga mondata dalle esasperazioni e di quegli<br />
elementi irrazionali, che hanno trasformato questo che doveva essere uno strumento<br />
di tutela della certezza giuridica in un insormontabile ostacolo per qualsiasi<br />
aspirazione di giustizia. La lotta dell’uomo contro l’errore è, sia sul piano<br />
della vita interiore dell’individuo, sia sul piano della vita organizzata della società,<br />
la più alta aspirazione, che contrassegna anche il grado di civiltà diunpopolo.<br />
In questa incessante e continua battaglia etica vi è un momento nel quale<br />
all’ansia di giustizia deve essere posto un limite certo ed invalicabile. In questa<br />
direzione svolge la sua opera l’intangibilità del giudicato penale . L’errore che<br />
sta dietro di essa rimane coperto per sempre. Ma vi è anche un momento in cui<br />
«una specie di cinica legge di irreversibilità»( 50 ) non può sbarrare il passo alla<br />
sopravveniente luce della verità; ed allora deve poter intervenire un istituto capace<br />
di «scongiurare il pericolo che al rigore delle forme siano sacrificate le esigenze<br />
della verità e della giustizia reale»( 51 ): la revisione. Essa costituisce uno<br />
dei più delicati punti di equilibrio del nostro sistema processuale penale, il contemperamento<br />
tra una concezione esasperatamente formalistica della certezza<br />
del diritto e la rinuncia alla stabilità ed alla sicurezza delle relazioni giuridiche.<br />
Attraverso l’istituto della revisione, infatti, l’ordinamento giuridico mira a realizzare<br />
una non facile mediazione tra la rigida tendenza autoconservativa del<br />
giudicato penale e la necessità di verificare l’ipotesi dell’errore giudiziario.<br />
La dottrina tradizionale configurava la relazione tra il giudicato penale<br />
e la revisione come una rigida antitesi, nella quale l’intangibilità del giudicato<br />
costituiva la regola e la revisione invece rivestiva l’eccezione. Quindi<br />
( 50 ) Leone, op. cit., p. 197.<br />
( 51 ) De Marsico, Diritto processuale penale, Napoli, 1966, p. 328.
246<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
per una esigenza di rispetto della intangibilità della sentenza penale irrevocabile,<br />
come conseguenza del valore preclusivo del giudicato, la revisione<br />
era trattata con una sorta di diffidenza mista a timore. La dottrina sosteneva<br />
che la revisione, essendo destinata a demolire il valore del giudicato, non<br />
poteva non avere un carattere estremamente eccezionale. Essa era, perciò,<br />
raffigurata «come una necessaria ed eccezionale ferita da infliggere alla cosa<br />
giudicata»( 52 ). Augenti, configurando la sentenza irrevocabile come una<br />
salda e sicura costruzione, giungeva ad affermare che: «la revisione è il piccone,<br />
è quella che rescinde, che vuole abbattere, e tutti sanno quanto mai<br />
sia difficile radere al suolo ciò che è stato costruito, cioè convincere di questa<br />
necessità, affermando che l’edificio è sbagliato e che un altro va innalzato<br />
al posto del primo»( 53 ). La dottrina tradizionale, quindi, sosteneva<br />
che l’istituto della revisione, anche se necessario per assicurare all’ordinamento<br />
giuridico il mezzo con cui eliminare una sentenza ingiusta, doveva<br />
essere contenuto rigorosamente in limiti di stretta necessità, rapportati<br />
esplicitamente o implicitamente ad una «eccezionale gravità dell’ingiustizia»(<br />
54 ). A tal proposito Augenti diceva: «un giorno la vita smuove un mattone<br />
dell’edificio, fa crollare le fondamenta della decisione e gli uomini rimangono<br />
cauti, guardinghi, dubbiosi, vogliono, insomma l’evidenza, vogliono<br />
che il fatto non sia accaduto, o che sia certo che l’imputato non<br />
lo abbia commesso, vogliono insomma non rimanere smarriti da una realtà<br />
impetuosa che mostra come si siano ingannati e che il cuore, i pensieri, le<br />
parole degli uomini oscillano tra l’essere e il parere, tra ciò che è realtà e ciò<br />
che è illusione e che il confine tra questi due dati è permanentemente incerto»(<br />
55 ).<br />
A queste conclusioni giungeva la dottrina tradizionale, in quanto riteneva<br />
di dovere inevitabilmente prendere in considerazione l’istituto della<br />
revisione in rapporto a quelli che sono gli effetti che il suo intervento provoca<br />
sull’intangibilità del giudicato penale. La scienza giuridica tradizionale<br />
esaminava questo aspetto della revisione come se fosse quello determinante<br />
per la sua indagine conoscitiva, confondendo lo scopo dell’istituto nel quadro<br />
finalistico della politica legislativa, con la sua essenza, che restava in<br />
ombra. Partendo da questa premessa ed inteso il giudicato penale come<br />
«una forza costitutiva e costruttiva, che introduce nel mondo del diritto<br />
qualcosa di nuovo e allo stesso modo di fermo, irrevocabile, di definivo»(<br />
56 ), un dato cioè certo e assoluto, non si poteva coerentemente non<br />
( 52 ) Sabatini, Principi di diritto processuale penale italiano, 1949, p. 353.<br />
( 53 ) Augenti, Lineamenti del processo di revisione, Padova 1949, p. 7.<br />
( 54 ) De Marsico, Lezioni di diritto processuale penale, 1952, p. 284.<br />
( 55 ) Augenti, op. cit., p. 8.<br />
( 56 ) Cesarini Sforza, Il problema dell’autorità, inBollettino dell’istituto di filosofia<br />
del diritto 1940, p. 13.
SAGGI E OPINIONI<br />
247<br />
ammettere che la revisione fosse una rimedio eccezionale. Anche quando,<br />
più saggiamente, la dottrina tradizionale poneva come presupposto della<br />
sua indagine conoscitiva la necessità di considerare la revisione separatamente<br />
rispetto al giudicato penale, ciò non avveniva con la consapevolezza<br />
della completa autonomia ontologica dei due istituti, ma sulla base di una<br />
impostazione, che aveva, come premessa essenziale, il dato assoluto e indiscutibile<br />
della immutabilità del giudicato penale, in conseguenza del suo<br />
carattere di ‘‘verità legale’’. La revisione veniva così configurata come<br />
uno strumento giuridico mirante alla dimostrazione dell’inesistenza di un<br />
giudicato conforme, «nei presupposti e in relazione all’esercizio normale<br />
della giurisdizione, all’istituto voluto dalla legge»( 57 ). Da ciò derivava<br />
che, secondo questa concezione, la revisione poteva intervenire solo dove<br />
vi fosse stata una parvenza di giudicato e non un giudicato vero e proprio,<br />
che, per il fatto di essere destinato ad assumere il valore di verità legale,<br />
non poteva formarsi su una decisione suscettibile di revisione.<br />
Dunque l’idea della dottrina tradizionale, secondo cui la revisione costituiva<br />
un rimedio straordinario di natura anomala, presupponeva che,<br />
nella vita del diritto, la regola fosse costituita dal giudicato esatto e l’eccezione<br />
dal giudicato errato. Una ipotesi questa, smentita dalla logica prima<br />
ancora che dal diritto, e che poteva essere condivisa solo a patto di una incondizionata<br />
fede nel valore dell’intangibilità del giudicato. La dottrina riteneva<br />
infatti di dovere assegnare «un valore di principi assoluti alla immutabilità<br />
ed alla certezza che promanano dal giudicato penale»( 58 ). Era questo<br />
il punto debole della costruzione.<br />
Per poter comprendere in maniera autentica il rapporto che lega il giudicato<br />
e la revisione occorre preliminarmente rigettare l’idea tradizionale dell’intangibilità<br />
del giudicato come principio assoluto e incontestabile; e riconoscere,<br />
viceversa, che l’esigenza di assicurare la certezza del diritto nel caso<br />
concreto non può essere intesa in modo così radicale, da raffigurare il giudicato<br />
come un rigido sbarramento all’insorgenza di qualsiasi istanza di giustizia.<br />
Esso è solamente un limite posto per necessità pratiche «in quel momento<br />
delle vicende processuali in cui è probabile che oramai si sia fatto abbastanza<br />
per scoprire la verità vera, che se ancora non si è scoperta neppure<br />
è da confidare in un migliore esito di esami e riesami ulteriori»( 59 ). Il giudicato<br />
penale riguarda una decisione del giudice così come si è formata nell’esame<br />
del fatto portato alla sua conoscenza ed, in quanto impedisce una rivalutazione<br />
degli stessi elementi che hanno concorso a formare tale decisione,<br />
esso è e deve essere immutabile. Se si ammettesse la possibilità di «introdurre<br />
un riesame degli elementi di giudizio sui quali si è basata la decisione irrevo-<br />
( 57 ) Jannitti Piromallo, La revisione dei giudicati penali, Roma, 1947, p. 20.<br />
( 58 ) Dalia, Le nuove norme sulla revisione, inRiv. It. Dir. Proc. Pen., 1965, p. 799.<br />
( 59 ) Tolomei, Riapertura dell’istruzione e revisione, inSc. Pos., 1934, p. 101.
248<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
cabile, l’esigenza di sicurezza giuridica o lo stato della pace sociale, raggiunta<br />
con il giudicato, potrebbe essere scossa»( 60 ). Ma la certezza e l’immutabilità,<br />
come attributi consequenziali di una pronuncia definitiva, non possono oltrepassare<br />
la decisione e coprire una realtà diversa, non ancora scoperta e<br />
quindi non ancora giudicata. Se infatti dovesse risultare che il giudizio non<br />
poteva essere corretto, essendo emerso che esso aveva dovuto ignorare degli<br />
ulteriori elementi, che se conosciuti avrebbero portato alla formazione di un<br />
giudizio diverso, allora non sarebbe lecito invocare l’intangibilità del giudicato,<br />
per impedire l’esame dei suddetti nuovi elementi. Un istituto come<br />
quello del giudicato penale, costruito per la difesa della società, non deve<br />
mai degenerare in una «paurosa preclusione alla luce della verità e della giustizia»(<br />
61 ). Quando si tratta di accertare l’ingiustizia di una sentenza irrevocabile<br />
non già mediante il riesame del materiale del giudizio, bensì alla luce di<br />
nuovi elementi, «l’errore non può restare affogato nel mito del giudicato»(<br />
62 ).<br />
Questa prospettiva è l’unica che consenta di comprendere veramente<br />
il rapporto che lega la revisione ed il giudicato penale. Essi, pur essendo<br />
due istituti autonomi di pari dignità, si pongono nell’ordinamento giuridico<br />
non come concetti antitetici ma come due entità complementari, al fine di<br />
tutelare il medesimo supremo interesse: la certezza del diritto. Il giudicato<br />
e la revisione, nel sistema penale italiano, si completano a vicenda: il primo<br />
garantisce la certezza giuridica di fronte ad un caso concreto; la seconda,<br />
invece, assicura che la condanna appaia sempre legittima, costituisca cioè,<br />
durevolmente, l’applicazione rigorosa della legge penale e non si ponga mai<br />
come conseguenza di un giudizio rivelatosi in contrasto con essa. Opposto<br />
semmai può sembrare il bene giuridico particolare che è alla base dei due<br />
istituti, perché nel giudicato è l’interesse della comunità a mantenere irrevocabile<br />
la decisione del giudice, mentre nella revisione è l’interesse individuale<br />
del condannato innocente a vedere riconosciuta la sua non colpevolezza.<br />
In conclusione, possiamo affermare che la revisione non deve essere<br />
intesa come una mera eccezione rispetto alla regola dell’intangibilità del<br />
giudicato penale, bensì, occorre riconoscerle la dignità, il valore ed il ruolo,<br />
che l’ordinamento giuridico le riserva nel sistema processuale. Essa non<br />
possiede quel carattere di eccezionalità con cui la dottrina l’ha sempre descritta,<br />
trattandola con una sorta di diffidenza. La revisione è un istituto<br />
fondamentale che completa, garantisce e arricchisce di credibilità il giudicato<br />
penale, sottraendolo a quell’alone di sacralità metagiuridica, di cui esso<br />
tende a circondarsi, per ricondurlo ad una più genuina dimensione giu-<br />
( 60 ) Leone, op. cit., p. 182.<br />
( 61 ) Leone, op. cit., p. 198.<br />
( 62 ) Leone, op. cit., p. 197.
SAGGI E OPINIONI<br />
249<br />
ridica, dove principi in apparenza antitetici, come la certezza del diritto e la<br />
giustizia reale, convivono armonicamente.<br />
4. Il fondamento politico e giuridico della revisione.<br />
I legislatori di ogni tempo hanno avvertito la necessità etica di apprestare<br />
un qualche rimedio contro le decisioni che, dopo l’esperimento di tutti<br />
i mezzi ordinari di impugnazione, si fossero palesate ingiuste. A svolgere<br />
questa nobile funzione non si sono rilevati adatti ed efficaci istituti come<br />
l’amnistia, l’indulto o la grazia, perché, a causa della loro natura essenzialmente<br />
o prevalentemente politica, non riescono ad offrire una solida e non<br />
arbitraria garanzia di giustizia.<br />
Lo strumento giuridico, che si è rivelato realmente capace di scongiurare<br />
«il pericolo che al rigore delle forme siano sacrificate le esigenze della<br />
verità e della giustizia reale»( 63 ), è il giudizio di revisione.<br />
Quando emergono fatti, prove, situazioni nuove, non valutate nel giudizio<br />
conclusosi con una sentenza irrevocabile, che se conosciuti, tempestivamente,<br />
avrebbero condotto al proscioglimento dell’imputato, si ritiene,<br />
allora, che la verità formale, contenuta nella decisione del giudice, debba<br />
cedere il passo alla verità reale e che il giudizio di revisione, in determinati<br />
casi e con le dovute cautele, possa sconsacrare il giudicato al fine di rimuovere<br />
una condanna ingiusta.<br />
Per potere inquadrare compiutamente l’istituto della revisione, la sua<br />
funzione all’interno del sistema processuale e, soprattutto, la sua relazione<br />
dinamica con il giudicato penale, occorre rintracciare e mettere in luce il<br />
suo fondamento giuridico. Se, infatti, non sembra revocabile in dubbio<br />
che il suo fondamento politico consista nell’eliminare una condanna ingiusta,<br />
è necessario però stabilire se, nell’ordinamento giuridico, la revisione<br />
costituisca l’antidoto alla decisione errata o, piuttosto, sia lo strumento empirico<br />
di rilevazione dell’errore giudiziario. Occorre, perciò, distogliere l’attenzione<br />
dallo scopo dell’istituto, nel quadro finalistico di politica legislativa,<br />
e rivolgere una attenta indagine conoscitiva verso l’essenza della revisione.<br />
Riguardo al fondamento giuridico di questo istituto, nel dibattito dottrinale<br />
è possibile rintracciare due costruzioni, che si confrontano e si contrappongono,<br />
confutandosi a vicenda: l’una, tradizionale, per la quale la revisione<br />
sarebbe il rimedio giuridico predisposto dall’ordinamento per eliminare<br />
l’errore giudiziario; l’altra, più recente, per la quale la revisione sa-<br />
( 63 ) De Marsico, Diritto processuale penale, Napoli, 1966, p. 328.
250<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
rebbe, invece, un istituto volto ad assicurare la coerenza dell’ordinamento<br />
giuridico, ed attraverso ciò la certezza del diritto.<br />
In particolare, la dottrina tradizionale sostiene che «il concetto di revisione<br />
postula quello di errore, in senso lato, come falsa rappresentazione<br />
della realtà»( 64 ). Questa costruzione teorica svolge le sue riflessioni partendo<br />
da alcune lucide ed attente considerazioni. Innanzitutto, il diritto risponde<br />
ad esigenze pratiche e la fallibilità èuna componente imprescindibile della<br />
natura umana. Pur prevenuto attraverso mille cautele ed accorgimenti,<br />
l’errore ha sempre la possibilità di manifestarsi nella vita del diritto. È saggio<br />
e ragionevole, quindi, arrendersi all’inevitabilità dell’errore giudiziario, il<br />
quale consiste nell’insufficiente raggiungimento della verità attraverso un<br />
procedimento giurisdizionale di accertamento. Mai, infatti, esso potrà essere<br />
scongiurato del tutto, anche se certamente tecniche di attingimento della verità<br />
sempre più moderne e sofisticate potranno diminuirne l’incidenza statistica.<br />
Una volta che l’errore giudiziario sia stato accettato come accadimento<br />
naturale, secondo la dottrina tradizionale, è assolutamente doveroso<br />
provvedere a disciplinarlo pienamente e tramite criteri giuridici razionali. A<br />
differenza dell’errore interno al procedimento, che nel processo stesso ha i<br />
suoi correttivi, l’errore giudiziario che si fonda su documenti, prove e risultanze<br />
nuovi non conosciuti nel corso dell’iter giudiziario conclusosi con la<br />
condanna irrevocabile, trova rimedio nell’istituto della revisione. «La improvvisa<br />
apparizione di situazioni sconosciute a quanti credevano di possedere<br />
la verità o la sopravvenienza di fatti lontani da ogni normale previsione<br />
inducono a rivedere tutto quanto prima era apparso fisso ed immutabile»(<br />
65 ).<br />
Sulla base di queste considerazioni la dottrina tradizionale configura la<br />
revisione come «un rimedio che gli uomini escogitano perché scompaia o si<br />
attenui quella opposizione violenta, che talvolta si manifesta, tra la finzione<br />
del giudicato e la spontaneità della vita»( 66 ). Il diritto, attraverso la revisione,<br />
contempla l’errore, l’ingiusto; invece di averne timore o vergogna, l’ordinamento<br />
ne fa occasione per un nuovo procedimento, che però nondà<br />
luogo ad una quarta istanza, in quanto si fonda sulla novità dell’accertamento<br />
probatorio. La revisione, pertanto, non è destinata ad inficiare la funzione<br />
giurisdizionale, ma a disciplinare come, dove e quando l’errore possa essere<br />
vagliato ed eventualmente corretto. Del resto, «una giustizia che riconosce<br />
i propri torti e si corregge è una giustizia sublime, è una giustizia che<br />
accusa e giudica se stessa»( 67 ). Certamente, la revisione può adempiere questo<br />
ruolo più facilmente negli ordinamenti democratici. In quelli autoritari,<br />
( 64 ) Augenti, Lineamenti del processo di revisione, Padova, 1949, p. 1.<br />
( 65 ) Augenti, op. cit., p. 1.<br />
( 66 ) Augenti, op. cit., p. 6.<br />
( 67 ) Arena, la revisione dei giudicati, Torino, 1910, p. 433.
SAGGI E OPINIONI<br />
251<br />
infatti, pur non lesinandosi la grazia, stenta ad essere riconosciuto e garantito<br />
un simile mezzo giuridico in grado di correggere l’errore giudiziario, e<br />
questo, o perché si attribuisce alla tutela della dignità umana ed al rispetto<br />
della giustizia un valore minimo, o perché viene respinta, aprioristicamente,<br />
l’ipotesi di errore giudiziario, annegandolo nel mito del giudicato: «il despota<br />
non sbaglia; la sua decisione irrevocabile è lo scudo contro ogni errore»(<br />
68 ). Dunque il fondamento della revisione è presentato dalla dottrina<br />
tradizionale, esclusivamente, come una questione di giustizia. Sul presupposto<br />
che nel processo penale «non si controverte intorno ad un bene della<br />
vita, secondo l’espressione chiovendiana, che entra a far parte del commercio<br />
giuridico, bensì intorno al valore di un uomo, che è il vero protagonista<br />
del dramma penale»( 69 ), la revisione viene delineata come una figura giuridica<br />
autonoma, quasi sganciata dal sistema processuale e dominata esclusivamente<br />
dall’esigenza etica di giustizia. Tale esigenza dello spirito di superare<br />
l’astrattezza, la rigidità e l’insensibilità del diritto è ciò che, per la dottrina<br />
tradizionale, dà alla revisione il potere di infrangere l’intangibilità del<br />
giudicato, quando emerge una contrapposizione tra i fatti stabiliti nella motivazione<br />
di condanna e l’accertamento di fatti nuovi. «Nel processo penale<br />
l’immutabilità del giudicato mantiene un ruolo di primo ordine solo perché<br />
un uguale ruolo è assegnato all’istituto della revisione: una specie di contravveleno<br />
da usarsi quando la verità, che dovrebbe essere pura come l’acqua,<br />
appare inquinata»( 70 ) dall’errore giudiziario.<br />
Questa è la costruzione teorica che la dottrina tradizionale ha elaborato<br />
riguardo il fondamento giuridico della revisione nel sistema processuale<br />
penale. Contro tale formulazione è insorto un orientamento speculativo<br />
che, lentamente ma in maniera inesorabile, ha conquistato considerazione<br />
e consensi. La dottrina moderna, infatti, si è opposta all’idea di potere individuare<br />
la giustificazione giuridica della revisione, semplicemente, nell’esigenza<br />
di correggere l’errore giudiziario. Prima di procedere ad erigere la<br />
sua costruzione teorica riguardo il fondamento della revisione, essa, però,<br />
ha rivolto la sua attenzione a confutare i principali argomenti addotti dalla<br />
dottrina tradizionale a sostegno della concezione della revisione come «rimedio<br />
alla opposizione violenta tra forma e realtà»( 71 ). La dottrina moderna<br />
ha, innanzitutto, eccepito che il rappresentare la revisione solo come rimedio<br />
alla ingiustizia significa analizzare esclusivamente il suo profilo politico<br />
e rinunciare ad avere, quindi, una visione completa dell’istituto, perché<br />
vengono, inevitabilmente, trascurati tutti gli aspetti formali che un<br />
qualsiasi mezzo processuale, per sua natura, sempre possiede. Essa ha,<br />
( 68 ) Vanni, «Revisione del giudicato penale», in Enc. Dir., XL, Milano, 1989, p. 159.<br />
( 69 ) De Luca, I limiti soggettivi del giudicato penale, Milano, 1963, p. 92.<br />
( 70 ) Augenti, op. cit., p. 2.<br />
( 71 ) Augenti, op. cit., p. 1.
252<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
poi, puntualizzato che la giustizia ed il diritto sono due concetti che dal<br />
giurista devono, necessariamente, essere posti su due piani diversi, perché<br />
la commistione tra pensiero giuridico e pensiero naturale conduce spesso a<br />
soluzioni parossistiche ed irrazionali. L’errore giudiziario, secondo la dottrina<br />
moderna, non è un concetto tecnico-giuridico; «esso acquista la rilevanza<br />
di una nozione tecnica solo per l’istituto della riparazione»( 72 ). L’affermazione<br />
di Kelsen, secondo la quale «nella sfera del pensiero giuridico<br />
non esiste persona condannata innocentemente»( 73 ), non è soltanto il corollario<br />
di una concezione formalistica della certezza giudiziaria; è, piuttosto,<br />
la negazione che l’errore giudiziario sia un concetto di diritto. Comunque,<br />
anche accettando l’idea che l’errore giudiziario faccia pienamente parte<br />
dell’ordinamento giuridico, il fare di esso il nucleo causale della revisione,<br />
per la dottrina moderna, è inammissibile, «perché equivale a confondere<br />
il momento conclusivo del processo di revisione (iudicium rescissorium)<br />
con il momento iniziale (condizioni di ammissibilità del iudicium rescindens).<br />
... Sentenza ingiusta non costituisce, di per sé, un concetto giuridico,<br />
ma lo diventa soltanto mediante la revisione; prima non esiste, esiste solo il<br />
giudicato»( 74 ). Infine, la dottrina moderna ha osservato che se l’errore giudiziario<br />
fosse, veramente, non solo la ragione di politica legislativa che ispira<br />
la revisione, ma anche e soprattutto la base concettuale di questo istituto,<br />
non sarebbero neppure concepibili, dal punto di vista puramente logico,<br />
dei limiti tassativi alla possibilità di intervento della revisione sul giudicato.<br />
Con queste osservazioni attente e precise, la dottrina moderna si è<br />
adoperata per demolire la teoria che configurava la revisione come estremo<br />
rimedio per la correzione dell’errore giudiziario, liberando così il terreno<br />
per poter far sorgere una diversa costruzione teorica capace di risolvere,<br />
in maniera più aderente al dato normativo e sistematico, il problema del<br />
fondamento giuridico della revisione.<br />
Secondo la dottrina moderna, per riuscire ad individuare la giustificazione<br />
giuridica della revisione, occorre, inevitabilmente, risalire al concetto<br />
di certezza del diritto, valore fondamentale e struttura portante dell’ordinamento<br />
giuridico. Essa è presa in considerazione, comunemente, solo dall’angolo<br />
visuale delle norme giuridiche. Ma tale rappresentazione è decisamente<br />
insufficiente e parziale. L’ordinamento giuridico, infatti, non si esaurisce<br />
in un complesso di norme, anche se questo ne costituisce l’aspetto essenziale,<br />
ma risulta da tutta l’esperienza giuridica nel suo complesso. Dunque,<br />
l’esigenza di certezza giuridica non si manifesta solamente nei con-<br />
( 72 ) Cristiani, La revisione del giudicato nel sistema del processo penale italiano, Milano,<br />
1970, p. 104.<br />
( 73 ) Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano, 1959, p. 139.<br />
( 74 ) Cristiani, op. cit., p. 103.
SAGGI E OPINIONI<br />
253<br />
fronti delle norme, anche se per esse, in quanto regole di condotta generali,<br />
è più palese, ma riguarda tutti i settori della vita del diritto, dagli atti normativi<br />
generali ed astratti agli atti individuali e concreti. La certezza giudiziaria,<br />
in particolare, è quella che si ottiene dall’esercizio della funzione giurisdizionale.<br />
Essa si caratterizza perché contiene in sé elementi ed aspetti<br />
logici, psicologici e morali. «La certezza che si esprime attraverso il comando<br />
particolare non è mai soltanto derivazione di un atto razionale, ma risente<br />
anche inevitabilmente di giudizi, di esperienze e di fattori psicologici.<br />
Ciò, forse, rende la certezza giudiziaria meno rigorosa sotto il profilo logico,<br />
ma più ricca di valori morali»( 75 ). Dunque, si può concludere che la<br />
certezza giuridica nasce sia dalla uniforme interpretazione delle norme generali,<br />
sia dalla immutabilità di quelle individuali. Ma tale certezza ha un<br />
nemico inesorabile che rischia di compromettere e vanificare ciò che essa,<br />
lentamente, costruisce: le antinomie. «Quando due atti normativi o due atti<br />
individuali si contraddicono, la certezza del diritto è compromessa; e dal<br />
punto di vista sostanziale l’ordinamento giuridico rischia, perlomeno in<br />
quel settore, di mancare al suo scopo»( 76 ). Da ciò sorge l’assoluta necessità<br />
di eliminare e prevenire, ove possibile, le antinomie. In questa direzione<br />
l’ordinamento giuridico impegna, sistematicamente, tutto sé stesso e si serve<br />
di molteplici e diversificati strumenti. Basti pensare, per quanto riguarda<br />
gli atti normativi, al principio di abrogazione tacita per l’incompatibilità tra<br />
la legge anteriore e quella posteriore, contenuto nell’art. 15 delle preleggi.<br />
In questa opera di repressione delle antinomie, l’ordinamento giuridico si è<br />
mostrato particolarmente sensibile verso l’esigenza di certezza nel campo<br />
dell’attività di giurisdizione. La contraddittorietà dei giudicati è stata ed<br />
è considerata una delle più importanti cause in grado di compromettere<br />
la certezza del diritto e, per questa ragione, essa è stata sempre puntualmente<br />
disciplinata e combattuta. Ma tale contraddittorietà non è l’unica<br />
che può rilevare, per la sua azione nefasta, nel campo del corretto esercizio<br />
della giurisdizione penale. Una grave ferita all’ordinamento giuridico può<br />
derivare anche dall’antinomia tra la sentenza definitiva e la sopravvenienza<br />
di nuovi fatti rilevanti sullo stesso oggetto di accertamento. La collettività,<br />
infatti, considera, istintivamente, il giudicato come verità dichiarata e incontestabile<br />
e quindi come razionalità del comando particolare, ma ciò solamente<br />
fino a quando altre fonti di conoscenza, altri elementi di certezza<br />
non ne mettano in crisi il fondamento. «Il momento del giudicato determina<br />
una certezza operante nella psicologia collettiva come elemento del sentimento<br />
di sicurezza giuridica; tuttavia l’eventuale sopravvenienza di altre<br />
fonti di certezza può creare una situazione insuperabile di antinomia fra<br />
( 75 ) Cristiani, op. cit., p. 10.<br />
( 76 ) Cristiani, op. cit., p.9.
254<br />
SAGGI E OPINIONI<br />
la certezza dichiarata in una sentenza ed altre certezze con quella incompatibili,<br />
onde l’ordinamento positivo deve provvedere ad eliminarla, anche a<br />
prezzo di sacrificare, eccezionalmente, l’autorità della cosa giudicata»( 77 ).<br />
La revisione è proprio lo strumento giuridico, che l’ordinamento appresta,<br />
affinché possa esser raggiunto tale obiettivo fondamentale, per una organizzazione<br />
armonica della società.<br />
Dunque, secondo la dottrina moderna, il fondamento giuridico della<br />
revisione risiede nella necessità di porre nel nulla il valore del giudicato penale,<br />
quando, per cause sopravvenute, gli effetti della sentenza definitiva<br />
non sembrano coincidere più con la certezza giuridica. La sentenza che accoglie<br />
l’istanza di revisione non demolisce, come può sembrare in apparenza,<br />
una certezza che dovrebbe essere intangibile, ma fisiologicamente sostituisce<br />
una nuova certezza alla precedente, che già èstata distrutta dal rivelarsi<br />
di una antinomia. Riguardo alla relazione tra errore giudiziario e giudizio<br />
di revisione, la dottrina moderna afferma che: «è fuori dubbio che la<br />
revisione serve a rimediare un errore giudiziario. Ma il primo sintomo rilevatore<br />
dell’esistenza dell’errore è una crisi della certezza che il giudicato<br />
dovrebbe possedere e che invece non sembra possedere. Se la diagnosi circa<br />
l’esistenza della crisi è esatta, e attraverso la sentenza che si pronunzia<br />
sull’istanza di revisione si elimina l’incertezza, non si può al contempo<br />
non eliminare anche l’ingiustizia»( 78 ).<br />
Dunque, si può concludere che entrambe le costruzioni teoriche sul<br />
fondamento della revisione attribuiscono a questo istituto una funzione<br />
di prevalente attuazione di giustizia, mentre il vero ed unico punto di dissenso<br />
tra di esse si riduce alla diversa rilevanza che riservano all’errore giudiziario.<br />
Comunque, dall’esame del dato normativo, l’unico elemento rilevante<br />
per saggiare la fondatezza e l’attendibilità di una costruzione teorica<br />
dottrinale, se ne deve coerentemente desumere che il fondamento giuridico<br />
della revisione risiede nell’esigenza di rimediare alla crisi della certezza giuridica<br />
che deve stare saldamente a base del giudicato, mentre l’eliminazione<br />
dell’errore giudiziario rappresenta, solamente, il risultato effettuale del giudizio<br />
di revisione. Del resto, dal confronto, in chiave comparativa, tra la<br />
vecchia e la nuova disciplina della revisione emerge chiaramente che, mentre<br />
nella vigenza del codice di procedura penale del 1930 la rimozione del<br />
giudicato avveniva già all’esito della fase rescindente, anticipando un risultato<br />
che rischiava di essere smentito nel giudizio rescissorio, oggi, invece,<br />
solamente in caso «di accoglimento della richiesta di revisione, il giudice<br />
revoca la ... condanna e pronuncia il proscioglimento, individuandone la<br />
causa nel dispositivo» (art. 637, 1º comma, c.p.p.). Da ciò si deve dedurre<br />
( 77 ) Cristiani, op. cit.., p. 15.<br />
( 78 ) Cristiani, op. cit., p. 80.
SAGGI E OPINIONI<br />
255<br />
che l’istituto della revisione non è un mezzo di rimozione del giudicato, al<br />
fine di accertare l’esistenza di un errore giudiziario, ma è un strumento giuridico<br />
volto, direttamente e principalmente, a sostituire una nuova certezza<br />
alla precedente, che stava a base del giudicato, quando quest’ultima si è<br />
dissolta a causa del nefasto manifestarsi di una grave antinomia.<br />
Francesco Callari
STUDI E RASSEGNE<br />
257<br />
Studi e rassegne<br />
L’OGGETTO TUTELATO NELLE FATTISPECIE PENALI<br />
IN MATERIA DI RELIGIONE (*)( 1 )<br />
1. Una riflessione attuale sul tema del bene giuridico tutelato dalle fattispecie<br />
codicistiche in materia di religione non può che prendere l’abbrivio<br />
dalla sentenza della Corte Costituzionale del 29 aprile 2005, n. 168.<br />
Espungendo l’ultima sacca di ‘‘privilegio’’ riservata alle offese alla religione<br />
cattolica rispetto a quelle recate agli altri culti ammessi – quella ancòra<br />
contemplata dall’art. 403 c.p. – e recidendo, per tale via, l’ultimo legame<br />
con le scelte di fondo ispiratrici della filosofia del codice Rocco nella<br />
relativa disciplina di settore, questa decisione segna il definitivo commiato<br />
da esse. E, al tempo stesso, spinge necessariamente ad interrogarsi sui due<br />
corollari che in modo più immediato ne discendono: quello della ridefinizione,<br />
sulla scorta del passaggio compiuto, dell’oggetto di tutela delle<br />
fattispecie de quibus; e quello, che vi si riconnette strettamente, (collegato<br />
al problema) della perdurante opportunità, in questo nuovo e differente<br />
contesto, di figure autonome deputate a colpire con la sanzione penale le<br />
offese a qualsivoglia tipo di religione.<br />
2. Sono evidenti le ripercussioni che il processo di equiparazione della<br />
tutela penale riservata a tutte le religioni, portato a termine dalla sentenza<br />
168/2005, determina con riferimento al bene protetto dagli artt. 403 ss.<br />
c.p..<br />
Ricerche accreditate ne hanno messo a fuoco, parallelamente a quanto<br />
è riscontrabile in rapporto alle fattispecie penali a presidio della religione<br />
presenti in altre esperienze, un’inequivoca bidimensionalità( 1 ).<br />
Da una parte, in effetti, la religione gode di una tutela penale in quan-<br />
(*) Il testo riproduce l’intervento svolto dall’autore nel corso del Convegno Religione,<br />
religioni: prospettive di tutela e tutela delle libertà, tenutosi a Pisa nei giorni 7 e 8 ottobre<br />
2005.<br />
( 1 ) Sulla duplice angolazione dalla quale si presta ad essere inquadrata la religione,<br />
quale bene tutelato dalle fattispecie penali poste a suo presidio, cfr. la lucida analisi di P.<br />
Siracusano, I delitti in materia di religione. Beni giuridici e limiti dell’intervento penale, Milano,<br />
1983, p. 67 ss..
258<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
to ‘‘bene di civiltà’’( 2 ). Con questa formula si è soliti designare l’attitudine<br />
della religione, qualunque essa sia, a fungere da fattore di coesione fra tutti i<br />
membri di una collettività, sì da agevolarne, appunto in forza di questo elemento<br />
comune che li avvince, il rispetto delle norme che lo Stato loro indirizza.<br />
In sostanza, l’omogeneità culturale radicata sul comune sentire religioso,<br />
sempre ovviamente che quest’ultimo non sia antinomico al contenuto<br />
delle pretese statuali, faciliterebbe la loro introiezione da parte dei rispettivi<br />
destinatari. In quest’ottica, la religione vedrebbe quindi confermata la propria<br />
valenza di instrumentum regni.<br />
Dall’altra, nondimeno, quale sia in concreto la religione cui spetta la<br />
funzione di coagulare il consenso dei consociati e di cementarne i reciproci<br />
vincoli si può decidere solo sulla base del diritto ecclesiastico vigente in un<br />
certo luogo e in un certo momento storico( 3 ). La tutela penale per tale via<br />
accordata ad una determinata religione piuttosto che a un’altra, fondandosi<br />
esclusivamente sulle scelte contenute nel diritto ecclesiastico di riferimento,<br />
ne disvela il preponderante ruolo di codeterminazione dell’oggetto di tutela;<br />
e, nel contempo, relega il diritto penale ad una funzione meramente<br />
accessoria rispetto alle statuizioni contenutevi. Così è infatti accaduto nella<br />
nostra esperienza, nella quale l’incondizionata supremazia riconosciuta dal<br />
diritto ecclesiastico alla religione cattolica non ha potuto che tradursi nel<br />
farne l’oggetto privilegiato – rispetto a tutte le altre religioni – della tutela<br />
penale nella trama del codice del 1930.<br />
Proprio su questa seconda componente dell’oggetto di tutela delle ipotesi<br />
contenute negli artt. 402 ss. c.p. si sono via via( 4 ) abbattuti i colpi di<br />
scure della Corte Costituzionale, la quale, precisamente a mezzo della sentenza<br />
168/2005, ne ha decretato la completa scomparsa. In effetti, due sono<br />
i tòpoi argomentativi attraverso i quali la giurisprudenza della Corte è<br />
giunta alla conclusione dell’illegittimità costituzionale della disciplina de<br />
qua, nella parte in cui, rifacendosi ai dettami del diritto ecclesiastico vigen-<br />
( 2 ) Il relativo concetto si trova efficacemente scolpito in P. Siracusano, I delitti in<br />
materia di religione, cit., in particolare p. 59 ss..<br />
( 3 ) In argomento cfr. ancòra P. Siracusano, op. ult. cit., p. 69 e 71.<br />
( 4 ) Ripercorrendo in senso logico, prima ancòra che cronologico, le decisioni dei giudici<br />
costituzionali richiamate nel testo, vanno ricordate le sentenze 329/1997 e 327/2002, rispettivamente<br />
dichiarative della illegittimità costituzionale degli artt. 404 e 405 c.p., nella<br />
parte in cui assoggetta(va)no i fatti ivi previsti ad un trattamento sanzionatorio più severo,<br />
in quanto commessi a danno della religione cattolica, rispetto a quello previsto dall’art.<br />
406 c.p., per l’ipotesi in cui gli stessi fatti venissero commessi a danno di un culto ammesso;<br />
nonché la pronuncia 508/2000, contenente la declaratoria di illegittimità tout court dell’art.<br />
402 c.p., che contemplava il vilipendio della religione dello Stato.<br />
Per una considerazione approfondita, nonché preveggente, degli orizzonti delineatisi in<br />
materia già a partire dalla decisione 329/1997 cfr. T. Padovani, La travagliata rinascita dei<br />
delitti in materia di religione, in Studium Iuris, 1998, in particolare p. 922.
STUDI E RASSEGNE<br />
259<br />
te, garantiva una tutela penale più intensa alle offese indirizzate alla religione<br />
cattolica rispetto a quella posta a presidio dei vulnera inferti alle altre<br />
religioni. Da un lato vi è quello poggiante sull’art. 3, comma 1, Cost.<br />
che, garantendo identica tutela a tutti i cittadini ‘‘senza distinzione...di religione’’,<br />
interdice una valutazione differenziata delle offese loro recate, in<br />
relazione ai culti che essi rispettivamente professano, la quale rinvenga appunto<br />
la propria ragione nella tipologia del culto professato. Dall’altro si<br />
colloca quello che affonda le proprie radici nel c.d. principio di laicità dello<br />
Stato, ricavabile dall’art. 8 Cost.. In sostanza, l’equiparazione di tutte le religioni<br />
innanzi alla legge e il vincolo dello Stato a non intervenire per modificarne<br />
l’assetto, che vi sono consacrati, sarebbero invariabilmente contraddetti<br />
da una legislazione che prevedesse un trattamento discriminatorio<br />
sul versante della tutela penale apprestata a favore dell’una o dell’altra a<br />
fronte dell’identità delle offese che queste avessero rispettivamente a ricevere(<br />
5 ).<br />
Eliminate le sperequazioni di dosimetria sanzionatoria fra le offese ad<br />
una religione o all’altra, si staglia il quesito già prospettato in apertura di<br />
questa indagine: qual è, nel quadro odierno, il bene tutelato dalle figure<br />
codicistiche in materia di religione?<br />
3. Esce indenne – rectius, sembra uscire tale – dagli strali della Corte<br />
Costituzionale l’altro polo destinato, con quello or ora esaminato, a delineare<br />
il complessivo oggetto di tutela delle fattispecie penali in materia<br />
di religione: quello della religione come bene di civiltà. Sorge spontaneo,<br />
allora, l’interrogativo: è possibile prospettare una legittimazione della permanenza<br />
di tali fattispecie che faccia perno esclusivamente su di esso?<br />
Tenendo a mente quanto dianzi esposto sulle peculiarità della religione<br />
in questa prospettiva, id est sulla sua idoneità ad operare come fattore di<br />
coesione fra i consociati capace di facilitarne l’adesione ai precetti statuali,<br />
è agevole inferirne come possa godere verosimilmente di questo predicato<br />
soltanto la religione che è comune a tutti i membri della collettività; o,<br />
quanto meno, alla stragrande maggioranza di essi. Il che lascia intendere<br />
come, in questa chiave, si presti a formare oggetto della tutela penale solo<br />
la religione dominante in un determinato contesto storico-sociale. Che<br />
questo dato finisca con il dar luogo ad aporìe insanabili con la parificazione<br />
delle diverse religioni davanti alla legge penale, nella quale è sfociato il pluriennale<br />
cammino della Corte Costituzionale, appare di palmare evidenza.<br />
Questa acquisizione in ordine alle connotazioni che indefettibilmente<br />
deve presupporre una religione, per poter rivestire i caratteri di un bene di<br />
( 5 ) Espliciti richiami al principio di laicità dello Stato, nei termini di cui al testo, si possono<br />
rinvenire nella sentenza 168/2005.
260<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
civiltà ed usufruire, in quanto tale, di protezione penale, non costituisce,<br />
peraltro, l’unico ostacolo a ravvisare in un concetto di religione così ricostruito<br />
un legittimo oggetto di tutela penale.<br />
Anche al di là dell’impiego della religione in termini di instrumentum<br />
regni e (dei pericoli) delle distorsioni in chiave autoritaria che vi sono insite,<br />
è lo stesso pluralismo religioso caratterizzante le società contemporanee, il<br />
quale non è altro che l’ineliminabile pendant del multiculturalismo che le<br />
pervade, a rendere improponibile un ritorno all’identificazione nella religione,<br />
quale bene di civiltà, del bene tutelato dalle norme incriminatici poste<br />
a suo presidio. Una tutela penale irragionevolmente sbilanciata a favore<br />
di una delle religioni – sia pur quella di maggior impatto quantitativo – in<br />
campo si trasformerebbe in un univoco messaggio di intolleranza verso le<br />
altre, che è proprio quanto il pluralismo in tema di religione adombrato<br />
dalla Costituzione( 6 ) (e perfettamente metabolizzato dalla giurisprudenza<br />
costituzionale in argomento) mira ad evitare.<br />
Scartato il recupero della religione come bene di civiltà nell’alveo del<br />
bene giuridico tutelato dalle fattispecie penali in subiecta materia, a causa<br />
del suo insanabile contrasto con le istanze di pluralismo promanati dal nostro<br />
quadro costituzionale, diventa allora di estremo interesse vagliare le soluzioni<br />
elaborate da altre legislazioni, nello sforzo di coniugare il rispetto<br />
per i valori religiosi diffusi nella collettività con quello legato al pluralismo<br />
della loro espressione.<br />
4. È il modello tedesco, quale risultante dalla legge di riforma del 25<br />
giugno 1969, quello che ha suscitato il maggiore interesse della nostra letteratura<br />
in argomento, anche per la possibilità di trarne utili spunti in vista<br />
di una revisione e/o di un definitivo superamento della disciplina dettata<br />
dagli artt. 402 ss. c.p.( 7 ).<br />
Provvedendo alla riscrittura del § 166 StGB, il legislatore (tedesco) del<br />
1969 vi ha contemplato il fatto di chi ‘‘pubblicamente o mediante la diffusione<br />
di scritti vilipende il contenuto della confessione religiosa o ideologica<br />
di terzi, in modo idoneo a turbare la pace pubblica( 8 )’’. Vero che la specifica<br />
(richiesta di una) nota di idoneità a turbare la pace pubblica incorpora<br />
il tratto innovativo di maggior spessore del comportamento tipizzato<br />
dalla fattispecie, che non può non riverberarsi sulla determinazione del bene<br />
giuridico che vi è sotteso, resta parimenti assodato che la nuova confi-<br />
( 6 ) Sul significato del pluralismo, all’interno del globale disegno della nostra Costituzione<br />
e non solo per ciò che attiene alla materia religiosa, cfr., per tutti, G. Zagrebelsky,<br />
Il diritto mite, Torino, 1992, p. 11 ss..<br />
( 7 ) Ampie indicazioni al riguardo sono contenute in P. Siracusano, I delitti in materia<br />
di religione, cit., p. 172 ss..<br />
( 8 ) Corsivo aggiunto.
STUDI E RASSEGNE<br />
261<br />
gurazione della norma si segnala pure per l’ampliamento dei possibili oggetti<br />
materiali della condotta. Oltre alle religioni, infatti, il vilipendio può<br />
investire anche le ideologie. Certo, questo aspetto vale a conferire all’attuale<br />
§ 166 StGB una coloritura decisamente laica, depurandolo della valenza<br />
discriminatoria collegata ad una disciplina che assoggettava a sanzione penale<br />
i vilipendi indirizzati alle sole confessioni religiose e non quelli rivolti<br />
alle convinzioni ideologiche altrui. Nondimeno, l’allargamento dell’intervento<br />
del diritto penale suscita altresì preoccupazioni per la sua vocazione<br />
ad estendersi su territori dai quali era consigliabile si ritraesse( 9 ), specie<br />
perché la sua proiezione a difesa di religioni e/o ideologie rischia inevitabilmente<br />
di collidere con la libertà di opinione dei singoli, che tutti gli ordinamenti<br />
contemporanei puntano a salvaguardare. Questo tipo di preoccupazioni<br />
finisce, comunque, con lo stemperarsi al cospetto della funzione<br />
delimitatrice dell’àmbito di operatività del § 166 StGB che alla c.d. clausola<br />
di idoneità contenutavi si riconosce( 10 ).<br />
Di fatto, le problematiche legate all’individuazione del bene protetto<br />
da queste fattispecie vengono dissolte attraverso il mutamento di paradigma<br />
che le fa rifluire nell’alveo di quelle poste a tutela della pace pubblica;<br />
laddove la clausola di idoneità contenuta nel § 166 StGB, in quanto rapportata<br />
a tale ultimo bene, dovrebbe fungere da criterio di selezione tra<br />
i fatti menzionati nella prima parte della norma che hanno rilevanza penale<br />
e quelli che, viceversa, non la possiedono.<br />
Centra prima facie il suo principale obiettivo, vale a dire quello di sancire<br />
l’abbandono di quella tutela penale della religione che appare incompatibile<br />
con il consolidamento di impostazioni laiche e pluraliste( 11 ), la legge<br />
di riforma del 1969. Ciò che si compie circoscrivendo la sfera di competenza<br />
del diritto penale a quelle sole forme di offesa alla religione che<br />
possono sfociare, appunto, in una messa in pericolo del bene giuridico<br />
(della) pace pubblica.<br />
Molto dubbio è, invece, che, in forza della combinazione fra il bene<br />
tutelato, in tal modo riformulato, e la c.d. clausola di idoneità, a quest’ultima<br />
possa attribuirsi quella valenza restrittiva dei comportamenti penalmente<br />
rilevanti che in astratto le si dovrebbe riconoscere. Questione, questa,<br />
non del tutto secondaria, se è vero che i fautori di una (ri)penalizzazione<br />
a tappeto delle offese alla religione non hanno mancato di elaborare<br />
( 9 ) Per questo genere di riserve cfr. P. Siracusano, I delitti in materia di religione,<br />
cit., p. 178 e nota 58.<br />
( 10 ) Riferimenti a questo tipo di considerazione si rinvengono in P. Siracusano, op.<br />
ult. cit., p. 187 e nota 95.<br />
( 11 ) Che questo fosse precisamente lo scopo perseguito dalla legge 25 giugno 1969 è<br />
esplicitato da Lenckner, in Schönke-Schröder, Strafgesetzbuch. Kommentar, XXV<br />
ed., München, 1997, sub Vorbem § 166 ff., p. 1244.
262<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
progetti di riforma polarizzati proprio sull’eliminazione della clausola de<br />
qua, cui si imputava un’eccessiva delimitazione della sfera applicativa del<br />
§ 166 StGB( 12 ).<br />
Questo tema rimanda, a sua volta, a due campi d’indagine tuttaltro<br />
che scevri di difficoltà: quello della struttura del reato in parola e quello<br />
del ruolo che vi gioca il bene tutelato.<br />
Scontata l’appartenenza del § 166 StGB alla classe dei reati di pericolo,<br />
è discutibile se, sulla base della formula che vi compare e ne fa un archetipo<br />
della categoria tutta tedesca dei reati di idoneità (Eignungsdelikte),<br />
esso vada inquadrato nel novero dei reati di pericolo astratto, di pericolo<br />
concreto, o, addirittura, in un tertium genus( 13 ). Tutto dipende dal rapporto<br />
fra il pericolo evocato dalla condotta tipica e quello richiesto dalla clausola<br />
di idoneità. Se questa si limita a ribadire l’esigenza di un pericolo già<br />
affiorante da quella, è evidente che ciò spinge a ravvisarvi i segni di (un reato<br />
di) pericolo astratto( 14 ). Visto che, in una tale evenienza, l’indicazione<br />
proveniente dalla formula di idoneità nulla aggiunge rispetto alla tipizzazione<br />
del pericolo già operata dal legislatore all’atto della descrizione della<br />
condotta rilevante, ne segue che il solo riscontro della tipicità del fatto è<br />
sufficiente ad attestarne la pericolosità, conformemente allo schema logico<br />
cui sono improntate tutte le fattispecie di pericolo astratto. In casi come<br />
questo, la presenza della c.d. clausola d’idoneità risulta del tutto pleonastica.<br />
Il quadro muta, invece, quando il pericolo designato dalla clausola d’idoneità<br />
rappresenta una concretizzazione del pericolo immanente alla realizzazione<br />
della condotta tipica. In questa dimensione realmente aggiuntiva<br />
rispetto a quest’ultimo, la sua ricorrenza dovrà essere giudizialmente accertata(<br />
15 ). Ciò ne fa un elemento costitutivo della fattispecie, necessario oggetto<br />
del dolo di chi ne integra gli estremi, in una logica che è quella del<br />
(reato di) pericolo concreto.<br />
Date queste premesse, bisogna adesso scendere all’esame della clau-<br />
( 12 ) Sul progetto di legge bavarese del 1986, orientato nel senso indicato nel testo, cfr.<br />
Fischer, Die Eignung, den öffentlichen Frieden zu stören –Zur Beseitigung eines ,,restriktiven‘‘<br />
Phantoms -, inNStZ, 1988, p. 159 s..<br />
( 13 ) Un’esaustiva rassegna delle opinioni in materia è fornita da Fischer, Das Verhältnis<br />
der Bekenntnisbeschimpfung (§ 166 StGB) zur Volksverhetzung (§ 130 StGB), inGA<br />
(Goltdammer’s Archiv für Strafrecht), 1989, p. 446 ss..<br />
Tralasciamo, in questa sede, di occuparci della tesi, invero del tutto isolata nella stessa<br />
letteratura tedesca, propensa a ravvisare nei c.d. delitti di idoneità una categoria autonoma<br />
nell’àmbito dei reati di pericolo, perché ciò rappresenterebbe evidentemente un fuor d’opera<br />
nell’economia di questo lavoro.<br />
( 14 ) Molto chiare, sul punto, le esemplificazioni esposte da Fischer, Das Verhältnis,<br />
cit., p. 448 ss..<br />
( 15 ) Che questa circostanza costituisca l’ubi consistam dei reati di pericolo concreto è<br />
acquisizione comune nella letteratura tedesca: al riguardo, cfr., per tutti, Cramer, in<br />
Schönke-Schröder, Strafgesetzbuch. Kommentar, cit., sub Vorbem §§ 306 ff., p. 2090.
STUDI E RASSEGNE<br />
263<br />
sola d’idoneità contenuta nel § 166 StGB. Qui si esige l’idoneità della<br />
condotta tipica (vilipendio, ecc.) a turbare la pace pubblica. La determinazione<br />
del significato da attribuire in questo caso alla formula d’idoneità<br />
non può prescindere, a questo punto, da una ricognizione, pur massimamente<br />
succinta, del contenuto del bene giuridico-pace pubblica nel sistema<br />
tedesco.<br />
Nella portata ampia e generale che gli è coessenziale, questo suona come<br />
sinonimo di sicurezza giuridica pubblica. Adattato al contesto penalistico<br />
nel quale è calato, nel suo nucleo oggettivo esso designa la sicurezza di<br />
tutti i beni giuridicamente tutelati( 16 ). Se ne prospetta quindi una componente<br />
soggettiva, additata da alcuni( 17 ) nella fiducia della maggioranza circa<br />
il fatto che detti beni restino intatti; e intesa da altri, mediante una sua<br />
trasfigurazione in senso normativo, come un ‘‘dovere generale di volere’’<br />
che ciò accada, id est che detti beni vengano salvaguardati( 18 ). Quale<br />
che sia la forma che si riconosce a questa seconda componente, riveste<br />
maggiore importanza, ai fini che qui interessano, il versante oggettivo della<br />
pace pubblica, del quale l’altro costituisce – come si è visto – soltanto una<br />
proiezione soggettiva o normativa. Se per pace pubblica in senso oggettivo<br />
si intende la sicurezza che tutti i beni giuridici penalmente tutelati non subiscano<br />
lesioni, ne discende che questa risulterà turbata, rectius messa in<br />
pericolo, ogniqualvolta venga posto in essere un fatto suscettibile di evolvere<br />
in un quid penalmente rilevante. Di fatto, si può quindi dire che il<br />
bene giuridico della pace pubblica assolva alla funzione di duplicare, anticipandola,<br />
la tutela che ai beni giuridici penalmente salvaguardati è già offerta<br />
da altre norme penali( 19 ). Per incidens, suggerisce accostamenti con<br />
l’oggetto sostanziale generico del reato di Arturo Rocco questo concetto<br />
di pace pubblica: l’esigenza di sicurezza di tutti i beni giuridici presidiati<br />
da norme penali sottostante a questo non è, in fondo, cosa diversa dall’interesse<br />
dello Stato ‘‘alla sicurezza della propria esistenza’’, che è minata dalla<br />
commissione di qualsivoglia reato, postulato da quello( 20 ).<br />
Torniamo, a questo punto, al problema del significato da attribuire alla<br />
clausola d’idoneità prevista nel § 166 StGB. Alla luce delle acquisizioni<br />
appena raggiunte, sappiamo che il pericolo evocato da tale clausola è di<br />
portata talmente generale, da escludere radicalmente che vi si possa ravvi-<br />
( 16 ) In questo senso Fischer, Die Eignung, cit., p. 163; e, con maggiore incisività, ID.,<br />
Das Verhältnis, cit., p. 451.<br />
( 17 ) Su questo versante soggettivo (del concetto) della pace pubblica cfr., anche per<br />
ulteriori riferimenti di letteratura e giurisprudenza, Lenckner, inSchönke-Schröder,<br />
Strafgesetzbuch. Kommentar, cit., sub § 126, p. 1087.<br />
( 18 ) Sottolinea il punto con particolare chiarezza Fischer, Das Verhältnis, cit., p. 451.<br />
( 19 ) Sul punto cfr. ancòra Fischer, op. ult. cit., ibidem.<br />
( 20 ) Art. Rocco, L’oggetto del reato e della tutela giuridica penale. Contributo alle teorie<br />
generali del reato e della pena, Milano-Torino-Roma, 1913, p. 555.
264<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
sare una concretizzazione del pericolo immanente alle condotte descritte<br />
dalla prima parte del § 166 StGB. Donde il corollario che la norma in parola<br />
delinea un’ipotesi di (reato di) pericolo astratto.<br />
Due indicatori lo confermano.<br />
Da una parte, il dato che nella prassi applicativa non constano casi nei<br />
quali sia stata esclusa la responsabilità a causa di un errore dell’agente, che<br />
avesse ad oggetto precisamente l’idoneità della propria condotta a determinare<br />
il turbamento della pace pubblica, in applicazione del § 16 StGB( 21 ).<br />
Il che si armonizza perfettamente con la ricostruzione del § 166 StGB sub<br />
specie di reato di pericolo astratto, perché solo dei reati di pericolo concreto<br />
è propria la prerogativa che il pericolo per il bene protetto, in quanto<br />
elemento della fattispecie, debba formare oggetto del dolo del suo autore;<br />
sì che, correlativamente, l’errore che lo investe possa giovargli in forza del §<br />
16 StGB.<br />
E, dall’altra, il riscontro del modus procedendi invalso nella giurisprudenza<br />
tedesca in relazione all’integrazione della clausola d’idoneità figurante<br />
nel § 166 StGB. Emblematico, al riguardo, un arresto che, partendo dal<br />
presupposto che da parte ‘‘della componente cattolica della popolazione<br />
non si potesse pretendere l’accettazione’’ di un determinato insulto al proprio<br />
credo religioso, trae tout court la conseguenza che tale vilipendio ‘‘è<br />
idoneo a turbare la pace pubblica’’( 22 ). Il carattere del tutto apodittico dell’assunto<br />
ne fa una vera e propria tautologia. In questo contesto, non pare<br />
azzardato asserire che, nel quadro del § 166 StGB, la clausola d’idoneità,<br />
lungi dal possedere una valenza restrittiva (nella cernita) dei comportamenti<br />
punibili, è ridotta in realtà a mera clausola... di stile. E che gli stessi progetti<br />
di riforma vòlti a sopprimerla, in ragione del suo presunto carattere<br />
restrittivo, altro non erano che battaglie dirette ad eliminare – come icasticamente<br />
è stato scritto – quello che di fatto era un fantasma( 23 ).<br />
4 bis. L’azzeramento della clausola d’idoneità e la conseguente deduzione<br />
che ad ognuna delle condotte descritte dal § 166 StGB si accompagni<br />
automaticamente il turbamento della pace pubblica generano discrasìe palesi<br />
fra gli intendimenti della riforma del 1969 e i suoi esiti applicativi.<br />
Quella puntava ad espungere le offese alla religione, in sé e per sé considerate,<br />
dall’àmbito del penalmente rilevante. Questi, nel momento in cui as-<br />
( 21 ) Rileva questo dato, nell’esperienza giurisprudenziale tedesca, Fischer, Die Eignung,<br />
cit., p. 161.<br />
( 22 ) La decisione è riportata da Fischer, Die Eignung, cit., p. 161 e nt. 24.<br />
( 23 ) Non a caso, il commento di Fischer, citato alla nota che precede, soffermandosi<br />
sul progetto bavarese teso alla soppressione della clausola d’idoneità all’interno del § 166<br />
StGB, lo qualifica, già a partire dal suo titolo (cfr. antea nt. 12), come un’iniziativa rivolta<br />
a rimuovere un Phantom, cioè – appunto – un fantasma.
STUDI E RASSEGNE<br />
265<br />
sociano indefettibilmente alle medesime l’attitudine a turbare la pace pubblica,<br />
finiscono con il farvele rientrare.<br />
A originare il paradosso è la stessa ricostruzione del bene giuridico<br />
della pace pubblica, sopra delineata. Se per tale si intende, in senso oggettivo,<br />
la sicurezza che tutti gli altri beni giuridici penalmente tutelati non<br />
vengano lesi, l’ammetterne l’offesa sulla sola base della realizzazione di vilipendi<br />
alla religione equivale ad affermare che anche quest’ultima ricada<br />
fra i beni giuridici, già altrimenti tutelati, dei quali la pace pubblica deve<br />
garantire la sicurezza.<br />
Anche se è chiaro che un intento siffatto esulava dalle prospettive del<br />
legislatore del 1969, contraddicendole anzi in modo manifesto, è nondimeno<br />
innegabile che un risultato che vi corrisponde si associ ineluttabilmente<br />
al completo svuotamento della clausola d’idoneità operato dalla giurisprudenza.<br />
Laddove, peraltro, sarebbe incongruo scaricare tutto il peso della<br />
mancata corrispondenza fra intento e risultato della riforma sui giudici<br />
chiamati a farne applicazione. Ciò in quanto la constatata inoperatività della<br />
clausola d’idoneità è da riportare alla stessa formulazione del § 166<br />
StGB. In essa si rinviene, infatti, il germe di quella sua strutturazione in<br />
chiave di (reato di) pericolo astratto, che della clausola d’idoneità paralizza<br />
ogni efficacia.<br />
Bisogna, sulla scorta di queste considerazioni, dichiarare il fallimento<br />
della svolta ‘‘laica’’ operata dalla legge di riforma tedesca del 1969? La conclusione<br />
sembra probabilmente eccessiva; ma è certo che, presente l’impulso<br />
di eliminare le fattispecie penali poste a tutela esclusiva della religione,<br />
questo poteva essere sviluppato – come si vedrà – secondo criteri diversi da<br />
quelli effettivamente seguìti.<br />
Né a garanzia delle spinte alla laicità e al pluralismo sottostanti alla riformulazione<br />
del § 166 StGB sembra poter essere un segnale significativo<br />
l’accostamento ai vilipendi delle religioni di quelli aventi ad oggetto le ideologie.<br />
Anche a tacer del fatto che la rivendicazione di una tutela penale per<br />
queste ultime risulta antinomica – il che vale anche per le religioni – a quel<br />
consolidamento maturato per la spontanea adesione dei rispettivi aderenti<br />
che è loro essenziale( 24 ), resta il fatto che si tratta di una garanzia parziale<br />
e, per di più, storicamente datata. L’equiparazione alle religioni delle ideologie,<br />
sotto il profilo della tutela penale, smarrisce ogni senso in un’epoca,<br />
( 24 ) Puntualmente si rileva, nell’Alternativ Entwurf, che la salvaguardia garantita a certe<br />
confessioni o a certe ideologie dall’intervento penale nei confronti delle offese loro recate<br />
potrebbe convertirsi in un segnale della loro debolezza nell’affermarsi ex se presso i consociati.<br />
Ove, infatti, esse godessero di questa forza, non vi sarebbe necessità alcuna di imporre<br />
un’adesione obbligata ai loro valori mercé l’utilizzo dello strumento penale nei confronti di<br />
quanti non vi si riconoscano. Per i necessari riferimenti a quest’ordine di idee cfr. P.<br />
Siracusano, I delitti in materia di religione, p. 235-236 e nt. 34.
266<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
come quella attuale, nella quale le ideologie si sono ormai definitivamente<br />
autoconsunte.<br />
5. Assodato che la via additata dal legislatore tedesco in sede di riforma<br />
delle fattispecie (già) poste a tutela della religione non convince, prima<br />
di prospettare altre soluzioni è bene tornare a soffermarsi sulla disciplina<br />
da noi tuttora vigente. Ciò permetterà, infatti, di metterne a fuoco profili<br />
di incostituzionalità ulteriori rispetto a quelli fino ad oggi riconosciuti dalla<br />
giurisprudenza della Corte Costituzionale. E darà modo di metterli in conto<br />
al fine di elaborare una revisione globale della materia de qua, che non li<br />
ignori e provveda a porvi adeguato rimedio.<br />
Lo sguardo si indirizza, in medias res, alla tipologia dei fatti efficienti a<br />
dar luogo alla c.d. turbatio sacrorum di cui all’art. 405 c.p.. Riportato anche<br />
il turbamento di funzioni della religione cattolica alla cornice sanzionatoria<br />
stabilita dall’art. 406 c.p., in luogo di quella più severa contenuta nell’originario<br />
art. 405 c.p., dalla sentenza della Corte Costituzionale 9 luglio<br />
2002, n. 327, resta problematica l’equiparazione fra il fatto di impedimento<br />
e quello di turbamento (sott.: di tali funzioni, a qualunque culto queste ineriscano)<br />
che vi compare.<br />
La questione risulta inesplorata negli orizzonti dei penalisti. Sorprende<br />
relativamente la cosa, perché gli studi più approfonditi sulle fattispecie de<br />
quibus sono stati spesso appaltati agli ecclesiasticisti( 25 ). Eppure, che le<br />
espressioni ‘‘impedimento’’ e ‘‘turbamento’’ designino due forme ben distinte<br />
di offesa al bene istituzionale – nella concezione del codice Rocco<br />
– della religione traspare in modo lampante dalla Relazione ministeriale<br />
sul relativo progetto( 26 ). Vi si legge, infatti, che ‘‘ogni doloso impedimento<br />
o turbamento non può...non produrre una menomazione, effettiva o potenziale,<br />
della libertà di culto’’( 27 ). E, in ciò, è dato cogliere con immediatezza<br />
come la limitazione effettiva di quest’ultima si abbini alla condotta di impedimento;<br />
mentre quella potenziale si associ a quella di turbamento.<br />
Del che si trova conferma inequivocabile nel passaggio sùbito successivo<br />
della Relazione: quello in cui si dice che ‘‘non è concepibile un impedimento<br />
o turbamento’’, senza che ciò si risolva in una ‘‘lesione ounattentato<br />
contro la legittima estrinsecazione del culto’’( 28 ).<br />
( 25 ) Si deve a M. Fiore, Il reato di «turbatio sacrorum». Contributo all’ermeneutica dell’art.<br />
405 c.p., Padova, 1978, la monografia più completa su questa norma.<br />
( 26 ) I tratti caratterizzanti l’impostazione del codice Rocco in materia di tutela della<br />
religione sono esposti con chiarezza da Manzini, Trattato di diritto penale, V ed., Vol.<br />
VI, Torino 1983 , p. 53.<br />
( 27 ) Questo passo della Relazione è riportato da P. Siracusano, I delitti in materia di<br />
religione, cit., p. 158; e da Manzini, Trattato di diritto penale, cit., p. 53, nt. 1.<br />
( 28 ) Per gli indispensabili riferimenti alla Relazione cfr., ancòra, P. Siracusano, op.<br />
ult. cit., p. 158 e nt. 255; Manzini, op. ult. cit., ibidem.
STUDI E RASSEGNE<br />
267<br />
Queste acquisizioni possono essere tradotte nel compendioso corollario<br />
che l’impedimento e il turbamento delle funzioni religiose vanno intesi,<br />
rispettivamente, come eventi di danno edipericolo rispetto al bene tutelato<br />
dall’art. 405 c.p..<br />
Sviluppando ulteriormente l’indicazione della Relazione ministeriale<br />
da ultimo riportata, vale a dire quella alla cui stregua l’impedimento corrisponde<br />
alla lesione del bene protetto e il turbamento ad un attentato al medesimo,<br />
emerge ictu oculi come l’espressione ‘‘attentato’’ non vada qui presa<br />
alla lettera, sì che il turbamento debba essere considerato come un delitto<br />
di attentato. Se così fosse, infatti, il turbamento, come fatto (ipoteticamente)<br />
diretto all’impedimento dell’esercizio di funzioni religiose (e salva<br />
altresì l’esigenza della sua idoneità all’uopo( 29 )), dovrebbe ex se dar luogo<br />
ad un’ipotesi di delitto consumato( 30 ). Così, peraltro, non è, in quanto<br />
l’art. 405 c.p. contempla, accanto alla situazione di pericolo delle funzioni<br />
in parola, l’impedimento delle medesime. Ciò posto, pare assai più plausibile<br />
ritenere che la Relazione ministeriale, alludendo al turbamento in termini<br />
di ‘‘attentato’’ nei confronti dell’esercizio del culto, abbia inteso riferirvisi<br />
come ad una forma di tentativo.<br />
Il che non manca di avere ripercussioni significative sulla (identificazione<br />
della) struttura del reato enucleato dall’art. 405 c.p.. Essa sembra essere,<br />
precisamente, quella di un delitto nel quale il tentativo (il turbamento delle<br />
funzioni) viene equiparato alla sua consumazione (il loro impedimento).<br />
Se e in quanto la si condivida, questa ricostruzione veicola un’aporìa<br />
tuttaltro che indifferente nel sistema. Se ne ravvisa una prerogativa essenziale<br />
nell’indefettibile ancoraggio del reato ad un’offesa ad un bene protetto<br />
proprio nella disciplina del tentativo( 31 ); e, d’altra parte, questa si presta<br />
anche ad essere letta come una conferma dell’ispirazione oggettiva del sistema,<br />
laddove prevede che alla meno grave offesa al bene protetto, insita<br />
nella sua messa in pericolo ad opera del tentativo, consegua un trattamento<br />
meno severo di quello riservato alla sua lesione effettiva, perfezionata dal<br />
delitto consumato( 32 ). Esistono, certo, delle eccezioni a questa regola, ossìa<br />
( 29 ) Nel senso che l’idoneità degli atti costituisce un requisito imprescindibile anche<br />
dei delitti di attentato cfr. già Vannini, Il problema giuridico del tentativo, Milano, 1950,<br />
p. 23, a giudizio del quale in questa categoria di delitti non vi può essere un allargamento<br />
della punibilità rispetto al tentativo, come invece accadrebbe ove si prescindesse dalla presenza<br />
di questo elemento ai fini della loro integrazione.<br />
( 30 ) Per questa definizione del delitto di attentato M. Romano, Commentario sistematico<br />
del codice penale. Art. 1-84, III ed., Milano, 2004, p. 602.<br />
( 31 ) Cfr., sul punto, Marinucci-Dolcini, Corso di diritto penale. 1. Le norme penali:<br />
fonti e limiti di applicabilità. Il reato: nozione, struttura e sistematica, III ed., Milano, 2001, p.<br />
528 s..<br />
( 32 ) Cfr. ancòra Marinucci-Dolcini, Corso, cit., p. 529; M. Romano, Commentario<br />
sistematico del codice penale. I, cit., p. 587.
268<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
dei casi nei quali tentativo e consumazione vengono equiparati sotto il profilo<br />
sanzionatorio. Ma si preferisce degradarle a mera quantité négligeable,<br />
relegandole per lo più alla sola materia (del diritto penale) doganale.<br />
In realtà sono più numerose( 33 ). E fanno sorgere tutte quante i medesimi<br />
dubbi di legittimità costituzionale per l’irragionevolezza insita nel riservare<br />
un identico trattamento sanzionatorio ai responsabili di offese di<br />
grado ben diverso, quali quelle che si ricollegano, rispettivamente, al delitto<br />
tentato e a quello consumato.<br />
Del tutto naturale, quindi, che un analogo contrasto con l’art. 3 Cost.<br />
infici l’art. 405 c.p., ove si ritenga che anche al suo interno sia incorporata<br />
un’equiparazione fra delitto tentato e delitto consumato.<br />
6. Esaurita la fase di analisi critica dei modelli di tutela penale della<br />
religione presenti nel nostro sistema e di alcune soluzioni alternative maturate<br />
nell’esperienza tedesca, è giunto ora il momento di misurarci con<br />
una prospettiva construens, indirizzata a tracciare linee di una possibile<br />
riforma della materia. Còmpito, questo, che mette capo al (e trova giustificazione<br />
nel) principio di laicità dello Stato, ribadito da ultimo dalla<br />
sentenza 168/2005 della Corte Costituzionale. Poiché un risvolto ineliminabile<br />
ne è rappresentato dall’equidistanza dello Stato da tutte le confessioni<br />
religiose professate, ciò nonpuòche prefigurare l’idea di un possibile,<br />
se non doveroso, distacco da un paradigma di tutela penale della<br />
religione storicamente polarizzato sulla protezione quale interesse pubblico<br />
di una sola delle religioni esistenti; e, soprattutto, sulla impostazione<br />
di fondo che la tutela penale di qualsivoglia culto dovesse comunque<br />
aver luogo nell’interesse dello Stato. Alpuntochelatuteladellalibertà<br />
di culto del singolo veniva letta soltanto in chiave di proiezione indiretta<br />
di quella che lo Stato medesimo assicurava a quel culto( 34 ). Filosofia,<br />
questa, che la stessa esperienza tedesca, in ultima analisi, è ben lungi dallo<br />
smentire.<br />
Eclissata l’interposizione dello Stato nell’interesse alla tutela penale dei<br />
culti, la quale ne sottintendeva inevitabilmente l’opzione a favore di uno o<br />
più di essi, sembra meritevole di esplorazione la via di una protezione penale<br />
a vantaggio della libertà individuale di culto. Che questo tipo di scelta<br />
non si sia affacciata agli orizzonti del legislatore tedesco nella sua elaborazione<br />
del 1969 non sorprende: è un sentiero estraneo ai geni della tradizione<br />
culturale delle codificazioni germaniche in materia di tutela penale della<br />
( 33 ) Per una rassegna di queste ipotesi sia consentito il rinvìo aM. Mantovani, Le<br />
violazioni tributarie nel sistema tedesco: sanzioni penali e sanzioni amministrative, in AA.<br />
VV., Sussidiarietà ed efficacia nel sistema sanzionatorio fiscale, a cura di Insolera e Acquaroli,<br />
Milano, 2005, p. 233 s.<br />
( 34 ) Sul punto rinviamo sempre a Manzini, op. ult. cit., ibidem.
STUDI E RASSEGNE<br />
269<br />
religione( 35 ). Non lo è, invece, per la nostra esperienza. Il codice Zanardelli<br />
del 1889 intitolava gli artt. 140-144 – al cui interno quelli dal 140 al 142<br />
corrispondevano ai delitti contro il sentimento religioso del codice vigente,<br />
mentre quelli successivi rinvengono il loro pendant nei delitti contro la pietà<br />
dei defunti previsti dal codice Rocco – ai delitti ‘‘contro la libertà dei culti’’.<br />
E – aspetto di portata ancòra maggiore – il vilipendio per causa religiosa<br />
(art. 141 del codice del 1889) non era perseguibile d’ufficio, ma a querela di<br />
parte. Titolare del diritto di querela, a sua volta, altri non era che il singolo<br />
credente pubblicamente offeso in presenza dell’intenzione dell’offensore di<br />
recare offesa non a lui, ma alla religione( 36 ) che questi professava.<br />
È allora il caso di invocare un ‘‘zurück zu Zanardelli’’, ossìa un ritorno<br />
alle scelte compiute in materia da quel codice penale?<br />
La risposta è sicuramente affermativa se ci si riferisce alla specifica prospettiva<br />
delineata nel codice del 1889 rispetto ai vilipendi in materia religiosa.<br />
Il loro inquadramento nell’alveo della (tutela penale attribuita alla) libertà<br />
del singolo non può che essere preferibile al loro ancoraggio ad un bene superindividuale<br />
di incerta e discutibile determinazione, quale risulta essere la<br />
religione nell’ottica del codice Rocco, specie a séguito dei mutamenti indotti<br />
per effetto delle più recenti decisioni della Corte Costituzionale in materia.<br />
È, viceversa, completamente negativa quanto alla riproposizione delle<br />
modalità di aggressione al bene giuridico della libertà individuale di culto<br />
tratteggiate nell’art. 141 del codice Zanardelli. Vi si puntualizza, infatti, che<br />
la condotta tipica si sostanzia nel vilipendere ‘‘pubblicamente...chi lo professa’’.<br />
Diamo qui per noti tutti i problemi posti dal rapporto fra le fattispecie<br />
di vilipendio in genere e la libertà di manifestazione del pensiero, garantita<br />
dall’art. 21 Cost.( 37 ). Problemi di questo tipo germinano perché la condotta<br />
di vilipendio non è un succedaneo dell’offesa ad una persona, eventualmente<br />
riportabile al paradigma dell’ingiuria o della diffamazione; ma<br />
deve la sua genesi proprio all’esigenza di colmare i vuoti di tutela in rapporto<br />
a determinati beni da proteggere, laddove le predette fattispecie comuni<br />
non risultano utilizzabili. Colmare l’horror vacui nascente dall’inapplicabilità<br />
di altre fattispecie costituisce (il motivo del)l’origine storica delle<br />
ipotesi di vilipendio( 38 ). È appena il caso di ricordare a quante e quali cen-<br />
( 35 ) Segnala il dato che lo stesso codice tedesco del 1871, malgrado talune aperture a<br />
favore della tutela penale della religione intesa come un quid di carattere marcatamente individuale,<br />
si attesti ‘‘su uno standard più arretrato di realizzazione’’ di questa opzione rispetto<br />
alla svolta operata in tale direzione dal codice Zanardelli P. Siracusano, I delitti in materia<br />
di religione, cit., p. 42.<br />
( 36 ) Su questa opzione del codice Zanardelli cfr. Majno, Commento al codice penale<br />
italiano, Verona, 1890, p. 422.<br />
( 37 ) Su queste problematiche, oggetto di ampie discussioni, rinviamo all’analisi di C.<br />
Fiore, I reati di opinione, Padova, 1972, p. 114 ss..<br />
( 38 ) Cfr., al riguardo, Conso, Contro i reati di vilipendio, inInd. pen., 1970, p. 550.
270<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
sure vada incontro quel concetto di ‘‘tenere a vile’’ qualcuno o qualcosa<br />
sotto il profilo del canone costituzionale della determinatezza della fattispecie<br />
penale( 39 ).<br />
In epoca relativamente recente si è cercato di stemperare la polemica<br />
relativa a queste fattispecie, evidenziando come il vilipendio non sia un<br />
quid minoris rispetto all’offesa nei delitti contro l’onore; quanto, piuttosto,<br />
un aliud rispetto alle medesime, destinato a trovare applicazione quando<br />
l’offesa non investa persone fisiche, ma ‘‘entità’’( 40 ). Secondo questa ricostruzione,<br />
dunque, vi sarebbe offesa ogniqualvolta questa sia rivolta ad una<br />
persona fisica; vilipendio, invece, quando l’offesa si indirizzi ad un’istituzione,<br />
sotto tale paradigma potendo essere sussunta – nell’impianto del codice<br />
Rocco – proprio la religione.<br />
L’argomentazione, a ben vedere, sembra tuttaltro che irresistibile. La<br />
smentisce precisamente l’art. 403 c.p., parlando di vilipendio con riferimento<br />
ad una persona fisica; edioffesa, invece, in relazione alla religione.<br />
Dal che traspare la completa fungibilità dei due termini, in luogo del loro<br />
meditato impiego per descrivere situazioni diverse, che l’impostazione da<br />
ultimo esposta suppone.<br />
Se così è, nulla esclude che possa darsi un’offesa alla religione mediante<br />
offesa alla persona che la professa o di un ministro del relativo culto.<br />
Nel disegno, che qui proponiamo, di impiegare su questo terreno le fattispecie<br />
codicistiche comuni, sopprimendo lo specifico capo dedicato ai delitti<br />
in materia di religione (artt. 403-406 c.p.), l’ipotesi schizzata dall’art.<br />
403, comma 1, c.p. potrebbe essere ricompresa, nella parte in cui prevede<br />
che l’offesa abbia luogo pubblicamente, nell’alveo dell’ingiuria aggravata dalla<br />
presenza di più persone (art. 594, comma 2, c.p.). In tal caso, il delitto<br />
resterebbe procedibile a querela di parte. D’altra parte, per l’ulteriore evenienza<br />
che destinatario dell’offesa sia un ministro del culto, sarebbe disponibile<br />
la circostanza aggravante comune di cui all’art. 61, n. 10, c.p..<br />
In relazione al vilipendio di cose previsto dall’art. 404 c.p., se ne potrebbe,<br />
in primis, restringere la rilevanza a quei fatti che attingano la soglia<br />
di determinatezza e lesività – dove la lesività èrichiesta precisamente in<br />
funzione della determinatezza – propria del danneggiamento. Quindi si potrebbe<br />
intervenire sull’art. 635, comma 2, n. 3, c.p., sostituendo il riferimento<br />
ivi contenuto ai soli edifici destinati al culto con quello, di maggiore<br />
ampiezza, alle cose che formano oggetto di culto, vi sono consacrate, o so-<br />
( 39 ) Lo evidenzia sempre Conso, Contro i reati, cit., p. 547, laddove rileva come, malgrado<br />
i molteplici tentativi di definirne il concetto, non si sia mai pervenuti a ‘‘dire nulla che<br />
possa soddisfare e – aggiungo – tranquillizzare non soltanto il cittadino, ma anche il giurista’’.<br />
( 40 ) Così Prosdocimi, voce Vilipendio (reati di), inEnc. del Dir., vol. XLVI, Milano,<br />
1993, p. 739.
STUDI E RASSEGNE<br />
271<br />
no comunque destinate al suo esercizio (cfr. art. 404, comma 1, c.p.). Per<br />
tale via, ai fatti di danneggiamento ricadenti su tali cose si renderebbe applicabile<br />
la fattispecie di danneggiamento aggravato contemplata, appunto,<br />
dall’art. 635, comma 2, n. 3, c.p..<br />
7. Del tutto eccentrica rispetto alla prospettiva di una tutela penale<br />
della religione incentrata sull’aspetto individuale della sua professione è<br />
la c.d. turbatio sacrorum. Anche il codice Zanardelli la trattava a parte( 41 )<br />
e i relativi commenti evidenziavano come il turbamento delle funzioni religiose<br />
(art. 140 di quel codice) involgesse non soltanto problematiche attinenti<br />
alla libertà individuale di religione, ma anche profili di ordine pubblico(<br />
42 ).<br />
Soltanto da un’analisi del tutto superficiale si potrebbe essere tentati di<br />
operare un accostamento fra l’impedimento e il turbamento di funzioni religiose<br />
(art. 405 c.p.), da una parte; e l’interruzione o il turbamento di un<br />
pubblico servizio (art. 340 c.p.), dall’altra. Malgrado esso sia disciplinato<br />
da norme di diritto pubblico (cfr. gli artt. 25 ss. R.D. 18 giugno 1931, n.<br />
773, Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), ciò non basta a fare dell’esercizio<br />
di funzioni religiose un pubblico servizio. E, anche qualora lo si<br />
volesse per assurdo ammettere, ciò condurrebbe ad un’irragionevole estensione<br />
della qualifica di incaricato di pubblico servizio in capo a tutti coloro<br />
che promuovono o dirigono funzioni religiose. La conseguente applicazione<br />
a loro carico dello statuto penale della pubblica amministrazione risulterebbe,<br />
a questo punto, del tutto antinomica rispetto a quella valorizzazione<br />
della religione come momento prettamente individuale, che una riforma<br />
della normativa penale in materia sarebbe –secondo quanto abbiamo finora<br />
sostenuto– deputata a perseguire.<br />
Più fruttuoso è seguire l’indicazione che collega la tutela penale del regolare<br />
esercizio delle funzioni religiose ad esigenze di ordine pubblico.<br />
Possono servire da utile modello, limitatamente a questa tematica, le<br />
fattispecie all’uopo contenute nel codice penale tedesco. Non deve evidentemente<br />
stupire l’idea di raccordarsi a questo sistema in subiecta materia,<br />
perché qui non è in gioco la tutela della religione come momento individuale,<br />
ma quello della pace pubblica (i cui punti di contatto con il nostro<br />
concetto di ordine pubblico sono lampanti).<br />
Sdoppia in due fattispecie la materia il legislatore tedesco: nel § 167 si<br />
occupa del turbamento dell’esercizio della religione; nel § 167a del turbamento<br />
di un funerale.<br />
( 41 ) Uno spaccato eloquente ed esaustivo delle questioni esaminate in giurisprudenza e<br />
in letteratura sotto la vigenza del codice Zanardelli è fornito da M. Fiore, Il reato di «turbatio<br />
sacrorum», cit., p. 23 ss.<br />
( 42 ) In tal senso Majno, Commento al codice penale italiano, cit., p. 419.
272<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
Di particolare interesse, ai fini che qui rilevano, appare sicuramente l’ipotesi<br />
tratteggiata dal § 167, 1, 1 StGB: quella di chi turba le funzioni religiose<br />
o gli atti religiosi di una chiesa che si trova sul territorio nazionale o<br />
di un’altra società religiosa ‘‘intenzionalmente e in modo grave’’( 43 )( 44 ).<br />
Dunque, non qualsiasi turbamento di funzioni religiose si inquadra nel<br />
§ 167 StGB, ma solo quello contrassegnato da peculiari note di disvalore<br />
oggettivo e soggettivo: dalla gravità del fatto, sotto il primo profilo; dal dolo<br />
intenzionale, sotto il secondo.<br />
Questa fattispecie viene correttamente intesa come una figura (di delitto)<br />
di pericolo astratto( 45 ). In effetti, la condotta tipizzata dal legislatore,<br />
anche e proprio in ragione dell’intensità del turbamento richiesto, autorizza<br />
la prognosi di un pericolo per la pace pubblica che vi è immanente. Alla<br />
base di questo giudizio sta, in effetti, una regola di esperienza che autorizza<br />
la previsione che da un turbamento della specie di quello postulato dalla<br />
norma possa scaturire un pericolo per la pace pubblica collegato alle reazioni<br />
di quanti prendono parte alle funzioni o agli atti ivi richiamati, in<br />
quanto ‘‘provocati’’ dal turbamento de quo.<br />
Mutatis mutandis, ci sembra che una fattispecie così congegnata, anche<br />
se – diversamente dalla soluzione invalsa nell’esperienza tedesca – comprensiva<br />
anche del turbamento di un funerale (per il quale il § 167a StGB<br />
si limita a esigere la presenza di un dolo intenzionale o, quanto meno, diretto),<br />
possa avere pieno diritto di cittadinanza anche da noi. La sua sede<br />
naturale potrebbe essere, ovviamente, quella dei delitti contro l’ordine<br />
( 43 ) Corsivo aggiunto.<br />
( 44 ) Con riferimento al testo del § 167, 1, 1 StGB, nel quale si richiede che il turbamento<br />
avvenga ‘‘in großer Weise’’, la traduzione che ne abbiamo personalmente fornito e<br />
che si sostanzia nell’intendere questa espressione come indicativa di un (turbamento che avviene<br />
in un) modo grave si discosta sensibilmente da quella che vi ravvisa l’esigenza che esso<br />
– sott.: il turbamento – abbia luogo ‘‘in modo grossolano’’ (così P. Siracusano, I delitti in<br />
materia di religione, cit., p. 217).<br />
La divergenza non ha una portata meramente terminologica.<br />
Nel lessico penalistico, al concetto di grossolano si abbina l’inidoneità a ledere o a porre<br />
in pericolo il bene protetto. Basti pensare alle opinioni orientate, pur con motivazioni fra<br />
loro assai distanti, verso la non punibilità del falso grossolano; cioè di quell’attività di falsificazione<br />
che, potendo essere riconosciuta come tale da chiunque, non è per ciò stesso idonea<br />
a mettere in pericolo la pubblica fede. Che questo rappresenti l’esatto contrario delle<br />
peculiari note di pericolosità che devono contrassegnare la condotta tipizzata dal § 167, 1,<br />
1 StGB è, del resto, in modo implicito ma inequivoco riconosciuto dallo stesso P. Siracusano.<br />
Si conviene, infatti, sul dato che, ai fini dell’integrazione della fattispecie de qua, i turbamenti<br />
debbano essere durevoli o pesanti (cfr. P. Siracusano, op. ult. cit., p. 218). E si ammette,<br />
con ciò, che possano farvi ingresso soltanto quelli che raggiungono un’elevata soglia di pericolosità.<br />
Il che val quanto dire che quelli viceversa grossolani – nell’accezione qui esposta –<br />
esuleranno dalla stessa.<br />
( 45 ) Cfr. Lenckner, inSchönke-Schröder, Strafgesetzbuch Kommentar, cit., sub §<br />
167, p. 1250.
STUDI E RASSEGNE<br />
273<br />
pubblico. La strutturazione della fattispecie, in quanto comprensiva della<br />
nota della gravità del fatto, consentirebbe, in base a quanto sopra esposto,<br />
di superare ogni riserva in ordine al ricorso ad una figura di pericolo astratto(<br />
46 ). E avrebbe altresì il pregio di scongiurare quell’incongrua – nonché<br />
costituzionalmente illegittima – parificazione fra tentativo e consumazione,<br />
che connota l’attuale art. 405 c.p..<br />
Marco Mantovani<br />
( 46 ) Conduce una serrata critica nei confronti della categoria dei reati di pericolo<br />
astratto Stella, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime,<br />
I ed., Milano, 2001, p. 441 ss..<br />
Ne sottolinea i riflessi rispetto ai reati contro l’ordine pubblico che si possono riportare<br />
a quel modello Forti, inCrespi-Stella-Zuccalà, Commentario breve al codice penale,<br />
IV ed., Padova, 2003, sub Nota introduttiva al Titolo V, p. 1138.
STUDI E RASSEGNE<br />
TIPIZZAZIONE E INDIVIDUAZIONE DEL SOGGETTO ATTIVO<br />
NEI REATI PROPRI: TRA LEGALITÀ ED EFFETTIVITÀ<br />
DELLE NORME PENALI<br />
275<br />
Sommario: 1. Considerazioni introduttive. – 2. Tipizzazione e individuazione del soggetto<br />
attivo nei reati propri. – 3. Il problema della delega di funzioni nelle organizzazioni<br />
complesse. – 4. Trasferimento della qualifica soggettiva e delega di obblighi. – 5. La<br />
delega di funzioni come modalità di adempimento di obblighi penalmente rilevanti.<br />
– 6. Modelli di delega di funzioni e ruolo della qualifica soggettiva extrapenalistica<br />
nel ‘‘tipo’’ criminoso. – 7. Spunti ricostruttivi su natura ed efficacia della delega di funzioni.<br />
– 8. Modelli, condizioni di efficacia e onere probatorio della delega di funzioni.<br />
1. Considerazioni introduttive. – Tra i temi della dogmatica del reato<br />
proprio( 1 ) particolarmente dibattuto è quello relativo alla determinazione<br />
( 1 ) Sul reato proprio, nella manualistica, v. C. Fiore, Diritto penale, parte generale, I,<br />
Torino, 1995, p. 158 ss.; F. Antolisei, Manuale di diritto penale, parte generale, Milano,<br />
2000, p. 171; A. Pagliaro, Principi di diritto penale, parte generale, Milano, 2003, p. 166<br />
ss.; G. Fiandaca, E.Musco, Diritto penale, parte generale, Bologna, 2004, p.142 ss.; F.<br />
Mantovani, Diritto penale, parte generale, Padova, 2001, p.115 ss.; T. Padovani, Diritto<br />
penale, Milano, 2002, p. 87 ss.; R. Riz, Lineamenti di diritto penale, parte generale, Padova,<br />
2002, p. 98 ss.; G. Marinucci, E.Dolcini, Manuale di diritto penale, parte generale, Milano,<br />
2004, p. 125 ss.; F. Palazzo, Il fatto di reato, Torino, 2004, p. 37 ss.; Id., Corso di<br />
diritto penale, Parte generale, II ed., Torino, 2006, p. 225 ss.; D.Pulitanò, Diritto penale,<br />
Torino, 2005, p. 206. Inoltre v. G. Allegra, Sulla rilevanza giuridica della posizione del soggetto<br />
attivo del reato, inRiv. it. dir. pen., 1936, p. 512 ss.; Id., Sulla rilevanza giuridica della<br />
posizione del soggetto attivo del reato, inRiv.it.dir.pen., 1937, p. 21 ss.; Id., Norme penali speciali<br />
e reati speciali, inAnnali, 1939, pp. 95 ss. e 117 ss.; Id., Posizione e qualificazione del<br />
soggetto attivo del reato, inRiv. pen., 1949, p. 155 ss.; G. Bettiol, Sul reato proprio, Milano,<br />
1939, p.1ss.; G. Maiani, In tema di reato proprio, Milano, 1965, 1ss.; A. Fiorella, Sui rapporti<br />
tra il bene giuridico e le particolari condizioni personali, A.Stile (a cura di), Bene giuridico<br />
e riforma della parte speciale, Napoli, 1985, p.193 ss.; E. Venafro, voce Reato proprio,<br />
in Dig. disc. pen., XI, 1996, Torino, p. 337 ss.; G. P. De Muro, Il bene giuridico proprio<br />
quale contenuto dei reati a soggettività ristretta, inRiv.it. dir. proc. pen., 1998, p. 945 ss.;<br />
Id., Tipicità ed offesa del bene giuridico nelle fattispecie proprie del diritto penale dell’economia,<br />
inRiv. trim. dir. pen. ec., 1998, p. 815 ss.; F. Cingari, Sul concorso dell’extraneus nel<br />
reato proprio, inInd. pen. 2004, p. 943 ss.; M. Pelissero, Il concorso nel reato proprio, Milano,<br />
2004, 1 ss.; M. Romano, Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, 2004, p.
276<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
dei criteri che devono orientare il giudice nella individuazione del soggetto<br />
responsabile. In particolare, il problema della individuazione del soggetto<br />
attivo del reato proprio si pone sotto due angoli visuali: da un lato, quando<br />
la norma incriminatrice tipizza il soggetto attivo del reato proprio facendo<br />
riferimento ad una qualifica formale di origine extrapenale, si pone ovviamente<br />
la necessità di verificare quale soggetto sia investito delle attribuzioni<br />
costitutive della qualità soggettiva; e dall’altro, quando il soggetto in possesso<br />
della particolare qualifica soggettiva richiesta dalla norma incriminatrice<br />
delega alcune delle funzioni inerenti alla qualifica ad un altro soggetto<br />
privo della qualifica soggettiva, si pone il problema di determinare condizioni<br />
e limiti di efficacia di tale trasferimento di funzioni.<br />
Nel primo caso, ci si chiede se debba essere considerato soggetto attivo<br />
del reato proprio solamente il soggetto in possesso della particolare qualifica<br />
formale richiesta dalla norma incriminatrice, oppure se possa essere<br />
considerato autore del reato proprio anche colui che, pur non essendo<br />
in possesso della particolare qualifica formale, di fatto esercita i poteri inerenti<br />
alla qualifica soggettiva.<br />
Nella seconda ipotesi, ci si chiede, da un lato, se la delega di alcune<br />
funzioni inerenti alla qualifica soggettiva comporti anche il trasferimento<br />
della qualifica soggettiva, e dall’altro lato, se, per effetto della delega il delegante<br />
si liberi dalle proprie responsabilità e il soggetto delegato acquisti la<br />
legittimazione al reato proprio.<br />
Si tenterà qui di affrontare queste problematiche avendo riguardo, da<br />
un lato, alla struttura del reato proprio, ed in particolare al significato che<br />
in questi reati assume il riferimento alla particolare qualifica soggettiva di<br />
origine extrapenalistica, e dall’altro lato, ai mai facili rapporti tra esigenze<br />
di legalità e di effettività delle norme penali.<br />
2. Tipizzazione e individuazione del soggetto attivo nei reati propri. –<br />
Come è noto, la tipizzazione del soggetto attivo del reato può avvenire attraverso<br />
il riferimento ad una qualità naturalistica oppure normativa. Nel-<br />
348; A. Gullo, Il reato proprio. Dai problemi «tradizionali» alle nuove dinamiche d’impresa,<br />
Milano, 2005 p. 1 ss. Nella recente letteratura tedesca in generale sul reato proprio v. W.<br />
Langer, Das Sonderverbrechen, Berlin, 1972; H.H. Jescheck, T.Weigend, Lehrbuch des<br />
Strafrechts, Allgemeiner Teil, 5. Aufl, Berlin, 1996, p. 266 ss.; G. Jakobs, Derecho penal, Parte<br />
general. Fundamento y teoría de la imputación, Madrid, 1997, p. 214; K. Lenckner, in<br />
Schönke -Schröder, Strafgesetzbuch Kommentar, 2 Aulf., Munchen, 2001, 131 vor §<br />
13, p. 201; K. Kühl, vor 33 § 13, in Lackner/Kühl, Strafregesetzbuch mit Erlauterungen,<br />
Munchen, 2001, p. 70. Nella recente manualistica spagnola v. F. Muñoz Conde, M.García<br />
Arán, Derecho penal, Parte general, Valencia, 2000, p. 294 ss.; S. Mir Puig, Derecho<br />
penal, parte general, (Fundamentos y teoria de delito), Barcellona, 1990, p. 169 ss.<br />
Nella dottrina francese vedi per tutti Merle R. - Vitu A., Traité de droit criminel, Paris,<br />
1984, p. 491ss.
STUDI E RASSEGNE<br />
277<br />
l’ipotesi in cui il legislatore tipizza il soggetto attivo del reato attraverso il<br />
riferimento ad una qualità naturalistica non si pongono problemi particolari<br />
nella individuazione del soggetto attivo del reato. Così, ad esempio,<br />
non ci sono dubbi sul fatto che nel delitto di infanticidio previsto dall’art.<br />
578 c.p. il soggetto attivo del reato sia solamente colui che possiede la qualità<br />
di madre.<br />
Più problematica risulta, invece, l’individuazione del soggetto attivo<br />
del reato nell’ipotesi in cui la tipizzazione del soggetto attivo del reato avviene<br />
attraverso il riferimento ad una qualifica formale di origine extrapenalistica.<br />
In questo caso, ci si chiede se sia legittimato al reato proprio il c.d.<br />
‘‘soggetto di fatto’’, cioè colui che, pur non essendo in possesso della particolare<br />
qualifica formale richiesta dalla norma incriminatrice a causa ad<br />
esempio della nullità, della revoca, della decadenza o mancanza della nomina,<br />
di fatto esercita le funzioni e i poteri tipici del soggetto qualificato.<br />
Così, ad esempio, rispetto al reato proprio di bancarotta impropria, ci si<br />
chiede se soggetto attivo debba essere considerato solamente colui che<br />
ha la qualifica formale di amministratore oppure anche il c. d. amministratore<br />
di fatto( 2 ).<br />
( 2 ) Sulla responsabilità penale dell’amministratore di fatto, v., tra gli altri, G. Escobedo,<br />
I cosiddetti amministratori di fatto delle società anonime e il reato di quasi bancarotta<br />
semplice, inGiust. pen., 1933, VIII, p. 685; P. Nuvolone, Il diritto penale del fallimento<br />
e delle altre procedure concorsuali, Milano, 1955, p. 47 ss.; Id., Il diritto penale<br />
del fallimento, Milano, 1965, p. 47 ss.; Id., Il diritto penale delle società commerciali, in<br />
Il diritto penale degli anni settanta, Padova, 1982, p. 250 ss.; C. Pedrazzi, Gestione d’impresa<br />
e responsabilità penali, inRiv. soc. 1962, p. 220 ss.; Id., voceSocietà commerciali<br />
(disciplina penale), in Dig.disc.pen. , XIII, Torino, 1998, p. 351; M. Romano, Profili penali<br />
del conflitto di interessi dell’amministratore di società per azioni, Milano, 1967, p. 20;<br />
L. Conti, E.Bruti Liberati, Esercizio di fatto dei poteri di amministrazione e responsabilità<br />
penali nell’ambito delle società irregolari, in AA.VV., Il diritto delle società commerciali,<br />
Milano, 1971, p. 119 ss.; G. Marinucci -M.Romano, Tecniche normative nella<br />
repressione penale degli abusi degli amministratori di società per azioni, inIl diritto penale<br />
delle società commerciali, Milano, 1971, p. 93; T. Padovani, Reato proprio del datore di<br />
lavoro e persona giuridica, inRiv. it. dir. proc. pen., 1979, p. 1179; G. Casaroli, Bancarotta<br />
c.d. impropria: note su alcuni punti-chiave in tema di soggetto attivo del reato, inInd.pen.<br />
1979, p. 209 ss.; D. Pulitanò, Posizioni di garanzia e criteri di imputazione personale<br />
nel diritto penale del lavoro, inRiv. giur. lav., 1982, IV, p. 102; Id., voce Inosservanza di<br />
norme di lavoro, inDig. disc. pen., VII, Torino, 1993, p. 68 ss.; A. Traversi, Responsabilità<br />
penali d’impresa, Padova, 1983, p. 154; G. Fornasari, I criteri di imputazione soggettiva<br />
del delitto di bancarotta semplice, inGiur. comm., 1988, I, p. 650; A. Fiorella, Il<br />
trasferimento di funzioni, Firenze, 1985, p. 282 ss.; Id., I principi generali del diritto penale<br />
dell’impresa, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, Dir.da<br />
F. Galgano, Vol. 25, L. Conti, Il diritto penale dell’impresa, Padova,2001,56ss.;A.<br />
Pagliaro, Problemi del diritto penale dell’impresa, inInd. pen., 1985, p. 17 ss.; M. La<br />
Monica, voceReati societari, inEnc. dir., XXXVII, Milano, 1987, p. 960 ss.; G. Fornasari,<br />
I criteri di imputazione soggettiva del delitto di bancarotta semplice, in Giur.
278<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
A questo proposito, soprattutto con riferimento ai reati propri del diritto<br />
penale dell’impresa, sono due le tesi che si contendono il campo.<br />
Secondo una prima opinione (teoria formale-civilistica)( 3 ), sostenuta<br />
da una parte della dottrina, nella individuazione del soggetto attivo del reato<br />
proprio occorre utilizzare un criterio rigorosamente formale. Più precisamente,<br />
si afferma che, quando la norma incriminatrice tipizza il soggetto<br />
attivo del reato proprio attraverso il riferimento ad una particolare qualifica<br />
formale di origine extrapenalistica, le qualità soggettive devono essere interpretate<br />
nel loro esatto significato normativo, in quanto sono richiamate<br />
dalla fattispecie incriminatrice ‘‘con tutta la loro pregnanza normativa’’,<br />
cioè per attribuire rilevanza a determinati poteri e doveri giuridici. Da questo<br />
punto di vista, si osserva che, quando la norma incriminatrice tipizza il<br />
soggetto attivo del reato facendo riferimento ad una qualifica soggettiva di<br />
origine extrapenale, non è possibile considerare autore del reato anche colui<br />
che, pur non essendo titolare della qualifica formale e quindi del compendio<br />
di poteri e doveri giuridici a cui essa si riferisce, di fatto esercita le<br />
funzioni tipiche del soggetto qualificato, in quanto si finirebbe per svilire la<br />
tassatività del reato proprio( 4 ). Dunque, poiché le qualifiche formali e il<br />
compedio di poteri e doveri giuridici a cui si riferiscono contribuiscono<br />
a tracciare i confini del fatto tipico e della responsabilità penale, la estensione<br />
della responsabilità penale al di là dei limiti segnati dalla qualifica formale<br />
non sarebbe ammissibile, in quanto si tradurrebbe in una analogia in<br />
malam partem( 5 ).<br />
comm., 1988, I, p. 650; F. Mucciarelli, Responsabilità dell’amministratore di fatto, inLe<br />
soc., 1989, p. 121 ss.; S. Canestrari, I soggetti responsabili. La delega di funzioni e responsabilità<br />
a titolo di concorso di persone nei reati tributari, inAA.VV.,I reati in materia<br />
fiscale, a cura di P. Corso e L. Stortoni - Giurisprudenza sistematica di diritto penale, diretta<br />
da Bricola e Zagrebelsky, Torino, 1990, p. 130; F. Antolisei, Manuale di diritto<br />
penale, Leggi complementari, Milano, 1999, p. 53 ss.; E. Musco, Diritto penale societario,<br />
Milano, 1999, p. 22; A. Alessandri, Parte generale, inC.Pedrazzi, A.Alessandri, L.<br />
Foffani, S.Seminara, S.Spagnolo, Manuale di diritto penale delle impresa, Bologna,<br />
2000, p. 65 ss.; Id., Voce Impresa (responsabilità penali),inDig. disc. pen., 1992, VI, p.<br />
206 ss.; U. Bulso, Profili problematici della responsabilità penale concorsuale dell’amministratore<br />
c.d. «inerte» per il delitto di bancarotta fraudolenta commesso dall’amministratore<br />
«di fatto», inRiv. dir. pen. ec., 2001, p.190; G. Marra, Legalità ed effettività delle norme<br />
penali, Torino, 2002, p. 1 ss.<br />
( 3 ) Cfr. C. Pedrazzi, Gestione d’impresa, cit., p. 220 ss.; Id., voce Società commerciali<br />
(disciplina penale), cit., p. 351; M. Romano, Profili penali, cit., p. 20; T. Padovani, Reato<br />
proprio, cit., p. 1179; D. Pulitanò, Posizioni di garanzia, cit., p. 102; Id., voce Inosservanza,<br />
cit., p. 64 ss.; A. Fiorella, Il trasferimento di funzioni, cit., p. 282 ss.; A. Alessandri, Parte<br />
generale, inC.Pedrazzi, A.Alessandri, L.Foffani, S.Seminara, S.Spagnolo, Manuale<br />
di diritto penale, cit., p. 65 ss.; Id., Voce Impresa (responsabilità penali), cit., p. 206 ss.; G.<br />
Marra, Legalità ed effettività, cit., p. 69 ss.<br />
( 4 ) Cfr. T. Padovani, Reato proprio, cit., p.1183; C. Pedrazzi, Gestione d’impresa,<br />
cit., p. 220 ss.; M. Romano, Profili penali, cit., p. 20 ss.
STUDI E RASSEGNE<br />
279<br />
Nella prospettiva formalistica, le condotte ‘‘sostanzialmente’’ riconducibili<br />
alle fattispecie proprie poste in essere da soggetti privi della qualità<br />
soggettiva con il preciso intento di eludere la legge penale, non potendo<br />
essere punite in base alla fattispecie monosoggettiva propria potrebbero essere<br />
sanzionate solamente attraverso il ricorso allo schema del concorso<br />
dell’extraneus nel reato proprio( 6 ).<br />
Sennonché, il ricorso allo schema del concorso dell’extraneus nel reato<br />
proprio non solo comporta delle indubbie difficoltà probatorie ma anche e<br />
soprattutto difficoltà di ordine dogmatico. Si pensi alle difficoltà che si incontrano<br />
nella configurabilità del concorso dell’extraneus nel reato proprio<br />
nell’ipotesi in cui il soggetto qualificato non abbia eseguito la condotta tipica<br />
oppure pur avendo eseguito la condotta tipica del reato proprio non<br />
versi in dolo( 7 ).<br />
Ebbene, al fine di scongiurare l’emersione di significative lacune di tutela<br />
e di agevolare la repressione dei comportamenti realmente offensivi dei<br />
( 5 ) Cfr. A. Alessandri, voce Impresa (Responsabilità penali), cit., p. 206 ss.; M. La<br />
Monica, Diritto penale commerciale, II, Milano, p. 36.<br />
( 6 ) Dottrina e giurisprudenza concordano circa l’ammissibilità del concorso dell’extraneus<br />
nel reato proprio. Nella dottrina italiana v. G. Bettiol, Sul reato, cit., p. 435 ss.; R.A.<br />
Frosali, Il concorso di persone nei ‘‘reati propri’’ e nei ‘‘reati di attuazione personale’’,inScuola<br />
pos. 1949, p. 28 ss.; A. Moro, Sul fondamento della responsabilità giuridica, cit., p. 25; F.<br />
Antolisei, Manuale di diritto penale, cit., p. 574; C. Pedrazzi, Il concorso di persone nel<br />
reato, 1952, Palermo, p. 15 ss.; R. Dell’Andro, La fattispecie plurisoggettiva in diritto penale,<br />
Milano, 1956, p. 131 ss.; M. Gallo, Lineamenti di una teoria sul concorso di persone<br />
nel reato, Milano, 1957, p. 104 ss.; T. Padovani, Le ipotesi speciali di concorso nel reato,<br />
Milano, 1973, pp. 110 ss. e 250; S. Seminara, Tecniche normative e concorso di persone<br />
nel reato, Milano, 1987, p. 394 ss.; G. Insolera, voce Concorso di persone nel reato, in<br />
Dig. disc. pen., II, Torino, 1988, p. 493 ss.; C. Fiore, Diritto penale, parte generale, II, Le<br />
forme di manifestazione del reato, concorso di reati e concorso di norme, Torino, 1995, p.<br />
121 ss.; G. Grasso, inM.Romano, G.Grasso, Commentario sistematico del codice penale,<br />
II, Milano, 1996, sub. art. 117, p. 225; E. Venafro, voce Reato, cit. p. 343 ss.; G. P. Demuro,<br />
Tipicità e offesa, cit., p. 847 ss.; A. Pagliaro, Principi, cit., p. 581 ss; Id., Il concorso,<br />
cit., p. 976 ss.; F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 563; G. Fiandaca ,E.Musco, Diritto<br />
penale, cit., p. 480; M. Pelissero, Il concorso, cit., p. 11 ss.; A. Gullo, Il reato, cit., p. 237<br />
ss. Nella letteratura tedesca v. G. Jakobs, Derecho penal, p. 831; C. Roxin, Autoría y dominio<br />
del hecho en derecho penal, Barcellona, 2000, p. 388 ss.; Kühl, inLackner- Kühl,<br />
StGB, Strafgesetzbuch mit Erlauterungen, Munchen, 24 Auflage, 2001, § 28, p. 181 ss.; K.<br />
Lackner, inSchönke - Schröder, StGB, §28. Nella letteratura spagnola v. F. Muñoz<br />
Conde, M.García Arán, Derecho penal, cit., p. 515 ss. In giurisprudenza v. Cass. pen.,<br />
sez. VI, 31 gennaio 1996, Alberuzzo, in Riv. pen, 1997, p. 515, in tema di illecita concorrenza<br />
mediante violenza o minaccia; Cass. pen., sez. VI, 25 maggio 1995, Tontoli, in Riv. pen.,<br />
1996, p.374, in tema di abuso d’ufficio; Cass. pen., sez. V, 29 novembre 1990, Bordoni,<br />
in Giust. pen., 1991, II, p. 645, in tema di bancarotta patrimoniale e documentale; Cass.<br />
pen., sez. VI, 17 giugno 1982, Favilla, in Giust. pen. 1982, III, 677.<br />
( 7 ) Sui problemi di ordine dogmatico che pone la configurabilità dell’extraneus nel reato<br />
proprio v. M. Pelissero, Il concorso, cit., p. 249 ss.; G.P. De Muro, Tipicità ed offesa,<br />
cit., p. 815 ss.; A. Gullo, Il reato, cit., p. 237 ss.; F. Cingari, Sul concorso, cit., p. 957 ss.
280<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
beni tutelati dalle fattispecie costruite in forma propria, una parte della dottrina(<br />
8 ) suggerisce di interpretare le qualità soggettive formali in chiave funzionale<br />
(teoria funzionalistica). Più in particolare, si afferma che la qualifica<br />
formale richiesta dalla norma incriminatrice va interpretata in modo autonomo<br />
rispetto alle formulazioni civilistiche, alla stessa stregua di quello<br />
che avviene, senza difficoltà, con i concetti di ‘‘possesso’’ o di ‘‘altruità’’ della<br />
cosa.( 9 ) In effetti, se la qualificazione formale di un soggetto dipende dal<br />
complesso delle funzioni di cui è titolare, allora anche colui che, pur non<br />
essendo titolare della qualifica formale, di fatto esercita tali funzioni, dal<br />
momento che si viene a trovare nella posizione richiesta dalla norma penale<br />
rispetto al bene giuridico tutelato, è legittimato a realizzare il reato proprio(<br />
10 ). Pertanto, del reato proprio può essere chiamato a rispondere come<br />
intraneo non solamente colui che è titolare della qualifica formale richiesta<br />
dalla norma incriminatrice, ma anche chi, avendo assunto le funzioni inerenti<br />
alla qualifica, è in grado di eseguire la condotta tipica e di aggredire<br />
o proteggere i beni tutelati dalla norma che configura il reato proprio( 11 ).<br />
Questa impostazione a nostro avviso va incontro ad alcune insuperabili<br />
obiezioni.<br />
In primo luogo, va detto che non è condivisibile la ‘‘visione’’ del reato<br />
proprio, ed in particolare del ruolo svolto dalle qualifiche extrapenalistiche<br />
nell’ambito della fattispecie propria, sottesa alla impostazione funzionalista.<br />
In effetti, questa impostazione sembra muovere dall’idea che nei reati<br />
propri il riferimento alla qualifica formale serve ad individuare semplicemente<br />
il soggetto che in virtù dei poteri di cui è titolare è in grado di realizzare<br />
la condotta tipica descritta dalla norma incriminatrice( 12 ). Da questo<br />
punto di vista, nei reati propri ad essere qualificato più che il soggetto<br />
attivo sarebbe la condotta tipica realizzabile appunto solamente da colui<br />
che si trova nella titolarità di certi poteri che la qualifica soggettiva compendia(<br />
13 ).<br />
Al contrario, a nostro avviso, nei reati propri in cui la tipizzazione del<br />
( 8 ) Cfr. L. Conti,E.Bruti Liberati, Esercizio di fatto dei poteri di amministrazione e<br />
responsabilità penali nell’ambito delle società irregolari, cit., p. 119 ss.; A. Pagliaro, Problemi,<br />
cit., p. 17 ss.; P. Mangano, Titolarità degli obblighi penali in materia fallimentare, in<br />
Giust. pen., 1986, II, p. 437 ss.; F. Mucciarelli, Responsabilità dell’amministratore di fatto,<br />
cit., p. 121 ss.; L. Conti, I soggetti, in AA.VV., Trattato di diritto penale dell’impresa, Milano,<br />
1990, p. 231 ss.; F. Antolisei, Manuale di diritto penale, Leggi complementari, Milano,<br />
1999, p. 53 ss.<br />
( 9 ) Cfr. A. Pagliaro, Problemi, cit., p. 21.<br />
( 10 ) Cfr. A. Pagliaro, Problemi, cit., p. 21.<br />
( 11 ) Cfr. F. Antolisei, Manuale di diritto penale, cit., p. 53.<br />
( 12 ) Cfr. F.Vassalli, La responsabilità penale per il fatto dell’impresa, A. Iori, Organizzazione<br />
dell’impresa e responsabilità penale nella giurisprudenza, Firenze, 1981, p. 32.<br />
( 13 ) Cfr. G. Marra, Legalità, cit., p. 225.
STUDI E RASSEGNE<br />
281<br />
soggetto attivo avviene attraverso il richiamo a una qualifica extrapenalistica,<br />
il riferimento alla qualità soggettiva assume un significato molto più<br />
pregnante di quello di designazione del soggetto capace di realizzare la<br />
condotta tipica. Più precisamente, il riferimento alla qualifica formale sembra<br />
non solo e non tanto richiamare la titolarità del compendio di poteri<br />
che consentono al soggetto di aggredire (nei reati propri commissivi) o<br />
di proteggere (nei reati propri omissivi) il bene tutelato dalla norma incriminatrice,<br />
quanto piuttosto attribuire rilevanza ad una ‘‘posizione’’, ad un<br />
‘‘ruolo’’ giuridicamente riconosciuto che rivela sia una particolare capacità<br />
di offesa sia una specifica attitudine a tutelare il bene giuridico( 14 ). In questa<br />
prospettiva, poiché a caratterizzare il reato proprio non è semplicemente<br />
l’attitudine del soggetto alla esecuzione della condotta tipica, ma la particolare<br />
posizione, per così dire, di ‘‘privilegio’’ nei confronti del bene giuridico<br />
tutelato da questi rivestita, solamente colui che si trova in tale posizione<br />
sembra possa essere legittimato al reato proprio( 15 ).<br />
In secondo luogo, il riferimento all’esercizio fattuale dei poteri corrispondenti<br />
a quelli sottesi alla qualifica normativa come criterio di individuazione<br />
del soggetto attivo del reato proprio non sembra in grado di assicurare<br />
un accettabile grado di certezza, tale da sottrarre l’individuazione<br />
del soggetto attivo del reato alla logica del ‘‘caso per caso’’. Più in particolare,<br />
l’utilizzo del criterio funzionale rischia di portare ad una dilatazione<br />
imprevedibile dei confini proprio di quei reati in cui, invece, il riferimento<br />
alla qualifica formale sembra garantire un elevato tasso di precisione e di<br />
certezza. A questo proposito, si pensi alle difficoltà che pone l’individuazione<br />
dei presupposti e degli indici di riconoscimento della controversa figura<br />
dell’amministratore di fatto, che ha dato vita ad applicazioni molto dilatate<br />
e spesso discutibili.<br />
In terzo luogo, va osservato come l’interpretazione in chiave funzionale<br />
delle qualifiche soggettive, a ben vedere, non sembra capace di garantire<br />
un tasso di effettività delle norme penali maggiore rispetto all’interpretazione<br />
formalistica. In particolare, si allude al fatto che l’interpretazione in<br />
chiave funzionale non consente di punire il comportamento del soggetto<br />
in possesso della qualifica formale che non eserciti di fatto i poteri tipici<br />
( 14 ) Sul ruolo della qualità soggettiva nel ‘‘tipo’’criminoso v. G. Bettiol, Sul reato,<br />
cit., p. 1 ss.; G. Maiani, In tema di reato proprio, cit., 1 ss.; A. Fiorella, Sui rapporti tra<br />
il bene giuridico e le particolari condizioni personali, cit., p. 193 ss.; G. P. De Muro, Il bene<br />
giuridico proprio, cit., p. 945 ss.; Id., Tipicità ed offesa del bene giuridico, cit., p. 815 ss.; S.<br />
Fiore, I caratteri del rapporto tra tecnica legislativa, principi di garanzia ed esigenze di tutela<br />
nella tipizzazione delle qualifiche soggettive, inCritica dir. 2001, p. 73; A. Gullo, Il reato,<br />
cit., p. 19 ss.; M. Pelissero, Il concorso, cit., p. 137 ss.; F. Cingari, Sul concorso dell’extraneus,<br />
cit., p. 950 ss.<br />
( 15 ) Cfr. T. Padovani, Diritto penale del lavoro. Profili generali, IV ed., Milano, 1994,<br />
cit., p. 28 ss. e 72 ss.; D. Pulitanò, voce Inosservanza, cit., p. 68 ss.
282<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
sottesi alla qualifica. In effetti, se ciò che rileva ai fini della legittimazione al<br />
reato proprio non è la titolarità della qualifica formale, ma l’esercizio effettivo<br />
dei poteri ad essa sottesi, allora il soggetto che, pur essendo formalmente<br />
titolare della qualifica di diritto, si astiene dall’esercizio dei poteri<br />
non potrebbe essere in nessun caso punibile. Così, ad esempio, con riferimento<br />
ai reati societari e fallimentari, l’interpretazione in chiave funzionale<br />
delle qualifiche formali non consentirebbe di affermare la parallela responsabilità<br />
penale dell’amministratore di diritto e di fatto nell’ipotesi in cui il<br />
primo, munito dell’elemento soggettivo, si limiti ad astenersi dall’impedire<br />
la commissione dei reati da parte dell’amministratore di fatto. In effetti,<br />
l’obbligo di impedimento del reato da parte dell’amministratore di fatto<br />
non potrebbe essere individuato in capo a colui che, pur essendo titolare<br />
della qualifica soggettiva formale, è stato ‘‘soppiantato’’ dall’amministratore<br />
di fatto( 16 ).<br />
La giurisprudenza dal canto suo, proprio per evitare queste lacune di<br />
tutela, soprattutto nel settore dei reati propri del diritto penale dell’impresa,<br />
non si limita ad interpretare in chiave funzionale le qualifiche formali e<br />
ad attribuire rilevanza esclusivamente all’esercizio effettivo dei poteri piuttosto<br />
che alla titolarità della qualifica formale, ma piuttosto estende la norma<br />
incriminatrice a chi, pur non essendo titolare della qualifica formale, di<br />
fatto esercita i poteri ad essa corrispondenti. Più precisamente, la giurisprudenza,<br />
evidentemente consapevole dei vuoti di tutela ai quali condurrebbe<br />
sia l’interpretazione in chiave rigorosamente formale sia quella rigorosamente<br />
funzionale, equipara i ‘‘soggetti di diritto’’ a quelli ‘‘di fatto’’.<br />
Così, ad esempio, con riferimento ai reati societari e fallimentari, per un<br />
verso si sostiene che l’assunzione consapevole della carica di amministratore<br />
è sufficiente, in termini oggettivi, a fondare la responsabilità penale anche<br />
indipendentemente dall’effettivo esercizio delle funzioni e, per un altro<br />
verso, si afferma la responsabilità dell’amministratore di diritto in carica<br />
per i reati commessi dall’amministratore di fatto non solo quando abbia<br />
agito di comune accordo con quello ma anche, ai sensi dell’art. 40 cpv.<br />
c.p., per omesso impedimento dell’evento( 17 ).<br />
Orbene, l’equiparazione de iure condito tra qualità soggettive non corrispondenti,<br />
a nostro modo di vedere, se, da un lato, è indubbiamente in<br />
grado di assicurare un elevato tasso di effettività delle norme penali; dall’altro<br />
lato, sembra contrastare con il nucleo essenziale del divieto di analogia<br />
( 16 ) Cfr. A. Alessandri, voce Impresa (responsabilità penali), cit., p. 208.<br />
( 17 ) Cfr. Cass. pen., sez. V, 27 aprile 2000, Ragogna, in Cass. pen. 2001, p. 1622; Cass.<br />
pen., sez. V, 2 giugno 1999, Murra, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2000, p. 482; Cass. pen., sez. V,<br />
6 maggio 1999, Grossi, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1999, p. 1198; Cass. pen., sez. V, 5 febbraio<br />
1998, Riccieri, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1999, p. 467; Cass. pen., sez. V, 27 maggio 1996,<br />
Perelli, in Cass. pen., 1997, p. 2232.
STUDI E RASSEGNE<br />
283<br />
in malam partem( 18 ), che non si limita a vietare di estendere le norme penali<br />
a fatti che non rientrano nei limiti del significato linguistico delle parole usate<br />
dal legislatore per descrivere il fatto tipico, ma che impone di non estendere<br />
la norma incriminatrice, e quindi la pena prevista, a fatti eterogenei<br />
quanto a disvalore rispetto a quelli previsti dal legislatore( 19 ). In effetti,<br />
se, da un lato, è indubbio che la titolarità sia di fatto che di diritto della qualifica<br />
soggettiva è in grado di porre il soggetto che né ètitolare in una particolare<br />
relazione con il bene giuridico tutelato al punto tale da manifestare<br />
analoghe esigenze di tutela, dall’altro lato, è anche vero che la ‘‘posizione’’<br />
del soggetto titolare della qualifica formale consente a quest’ultimo di realizzare<br />
l’offesa secondo modalità diverse da quelle che potrebbe realizzare<br />
colui che di fatto esercita alcuni dei poteri inerenti alla qualifica soggettiva.<br />
In particolare, si pensi ai reati propri a struttura omissiva in cui il riferimento<br />
a soggetti determinati serve ad individuare come garanti della integrità di<br />
certi beni giuridici soggetti che in base alla normativa extrapenale si trovano<br />
nella posizione più adatta per garantire una efficace tutela al bene giuridico(<br />
20 ). Così, ad esempio, si pensi ai numerosi reati propri omissivi propri<br />
previsti in materia di sicurezza del lavoro in cui il destinatario dell’obbligo<br />
giuridico di attivarsi è individuato nel datore di lavoro, in quanto è il soggetto<br />
a cui la normativa extrapenale attribuisce la titolarità dei poteri necessari<br />
a garantire in modo effettivo la tutela dell’integrità dei lavoratori( 21 ). E<br />
più in generale, si pensi al reato omissivo improprio in cui l’obbligo giuridico<br />
di impedimento dell’evento grava su coloro che sono titolari di autentici<br />
e preesistenti poteri giuridici di impedimento dell’evento (titolari della<br />
c.d. posizione giuridica di garanzia)( 22 ). Ebbene, a differenza dei reati omis-<br />
( 18 ) Cfr. F. Giunta, Reati societari e qualifiche soggettive: questioni normative ed interpretative,<br />
inDir. prat. delle soc., 2004, n. 19, p. 33 secondo il quale l’equiparazione tra qualifiche<br />
soggettive tra loro non corrispondenti equivale ad una analogia in malam partem.<br />
( 19 ) Cfr. G. Contento, Principio di legalità e diritto penale giurisprudenziale, in Scritti<br />
1964-2000, G. Spagnolo (a cura di), Roma-Bari 2002, p. 230 (originariamente in Foro it.,<br />
1988, V, p. 484), p. 231 ss.; F. Palazzo, Regole e prassi dell’interpretazione penalistica nell’attuale<br />
momento storico, inDiritto privato 2001-2002. L’interpretazione e il giurista, VII-<br />
VIII, Padova, p. 522 ss.<br />
( 20 ) Cfr. A. Gullo, Il reato, cit., p. 122.<br />
( 21 ) Cfr. T. Padovani, Diritto penale del lavoro, cit., p. 61 ss.<br />
( 22 ) Sul reato omissivo improprio v. F. Sgubbi, La responsabilità penale per omesso impedimento<br />
dell’evento, Padova, 1975; G. Fiandaca, Il reato commissivo mediante omissione,<br />
Milano, 1979; Id., Diritto penale, cit., p. 546 ss.; G. Grasso, Il reato omissivo improprio,<br />
Milano, 1983; I. Leoncini, Obbligo di attivarsi, obbligo di garanzia e obbligo di sorveglianza,<br />
Torino, 1999; F. Giunta, La posizione di garanzia nel contesto della fattispecie omissiva impropria,<br />
inDir. pen. proc., 1999, p. 625 ss.; F. Mantovani, Diritto penale,cit., p. 166 ss.; Id.,<br />
L’obbligo di garanzia ricostruito alla luce dei principi di legalità, di solidarietà, di libertà edi<br />
responsabilità personale, inRiv. it. dir. proc. pen., 2001, p. 337; Id., Causalità, obbligo di garanzia<br />
e dolo nei reati omissivi,inRiv. it. dir. proc. pen., 2004, p. 984 ss.; F. Palazzo, Il fatto,<br />
cit., p. 73 ss.; Id., Corso di diritto penale, cit., p. 257 ss.; M. Romano, Commentario sistema-
284<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
sivi comuni come l’omissione di soccorso, in cui il rapporto di protezione<br />
rispetto al bene giuridico non sussiste prima del verificarsi della situazione<br />
di pericolo, nei reati propri omissivi la posizione di garanzia preesiste al verificarsi<br />
della situazione tipica e si concreta esclusivamente in capo ad alcuni<br />
soggetti che l’ordinamento ha posto in una particolare posizione giuridica<br />
nei confronti del bene giuridico tutelato. In questa prospettiva, quindi, i<br />
reati propri a struttura omissiva presentano un contenuto di disvalore diverso<br />
da quello dei reati omissivi comuni, consistente non solo nella violazione<br />
del dovere di attivarsi ma anche nella violazione del particolare e predeterminato<br />
rapporto di garanzia (affidamento) del bene tutelato.<br />
Pertanto, nelle ipotesi in cui la norma incriminatrice individua il soggetto<br />
attivo del reato proprio facendo riferimento ad una qualifica formale<br />
di origine extrapenalistica, l’estensione della norma incriminatrice anche a<br />
quei soggetti che, pur non essendo titolari della particolare qualifica formale<br />
di fatto si trovano nella condizione di potere sfruttare una qualsiasi posizione<br />
di vantaggio per l’aggressione al bene giuridico (nei reati propri<br />
commissivi) oppure che si trovano nella possibilità materiale di adempiere<br />
l’obbligo di attivarsi (nei reati propri omissivi) equivarrebbe ad applicare la<br />
norma penale, e quindi la pena, ad un fatto con un contenuto di disvalore<br />
diverso da quello previsto dalla legge.<br />
Dunque, l’equiparazione tra qualità soggettive tra loro non corrispondenti,<br />
nella misura in cui comporta l’equiparazione di fatti tra loro eterogenei<br />
dal punto di vista del disvalore, non può che essere riservata alla<br />
competenza esclusiva del legislatore. Ebbene, in una prospettiva de iure<br />
condendo, l’equiparazione tra soggetti di diritto e di fatto, come conferma<br />
anche l’esperienza comparatistica, può realizzarsi secondo una pluralità di<br />
modelli.<br />
In primo luogo, viene in considerazione la possibilità di inserire nella<br />
parte generale del codice una norma che equipari le qualifiche formali richiamate<br />
dalla fattispecie propria all’esercizio di fatto dei poteri ad esse<br />
corrispondenti. In questa prospettiva, ad esempio, si colloca lo Schema<br />
di delega legislativa per un nuovo codice penale del 1992, elaborato dalla<br />
commissione presieduta dal Prof. Pagliaro, secondo il quale quando ‘‘la<br />
legge penale indichi il soggetto attivo mediante una qualifica soggettiva,<br />
che implichi la titolarità di un dovere o di un potere giuridico, essa ha come<br />
destinatario il formale titolare della stessa o chi, mediante l’esercizio di fatto<br />
di una attività, è divenuto titolare di tali doveri o poteri giuridici’’( 23 ).<br />
tico del codice penale, I, cit., p. 378; D. Pulitanò, Diritto penale, cit., p. 259 ss. Nella letteratura<br />
tedesca v. per tutti H. H. Jescheck, T.Weigend, Lehrbuch des Strafrechts, cit., p.<br />
605 ss.<br />
( 23 ) Cfr. Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale, inDocumenti<br />
Giustizia, n. 3, 1992.
STUDI E RASSEGNE<br />
285<br />
In secondo luogo, sempre nella parte generale, il legislatore potrebbe<br />
inserire una clausola di equiparazione con riferimento però solamente a determinate<br />
qualità soggettive. E in questa prospettiva, ad esempio, si orientano<br />
i codici penali tedesco, spagnolo e portoghese, che rispettivamente<br />
agli artt. 14, 31, 12, attraverso la formula dell’agire per conto di altri, equiparano<br />
l’amministratore di diritto a quello di fatto( 24 ).<br />
Infine, viene in considerazione la possibilità di introdurre, al di fuori<br />
della parte generale del codice penale, una clausola di equiparazione di determinate<br />
qualità soggettive formali ad efficacia limitata ad alcune fattispecie<br />
incriminatrici. In questa prospettiva, ad esempio, si colloca l’art. 2639<br />
c.c., di recente introdotto dal d.lg. n. 61 del 2002, che equipara ai soggetti<br />
formalmente titolari della funzione civilistica coloro che svolgono la stessa<br />
funzione diversamente qualificata o che esercitano in modo continuativo e<br />
significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione( 25 ).<br />
Ebbene, tra le possibili tecniche legislative di equiparazione, a ben vedere,<br />
sembrano preferibili quelle che forniscono una soluzione di ordine<br />
generale al problema delle qualifiche soggettive( 26 ). In effetti, la selezione<br />
delle fattispecie oggetto della equiparazione, come dimostra anche la recente<br />
esperienza dell’art. 2639 c.c., non essendo sempre in grado di rispondere<br />
a criteri di ragionevolezza, rischia di indurre la giurisprudenza ad interpretazioni<br />
analogiche a scapito proprio dell’obbiettivo legalista che la tipizzazione<br />
delle clausole di equiparazione persegue( 27 ).<br />
3. Il problema della delega di funzioni nelle organizzazioni complesse. –<br />
Il problema della individuazione del soggetto attivo del reato proprio, oltre<br />
che nell’ipotesi in cui il soggetto privo della qualifica formale richiesta dalla<br />
norma incriminatrice per la sussistenza del reato proprio esercita di fatto le<br />
funzioni inerenti alla qualifica, si pone anche quando il soggetto titolare<br />
della qualifica formale deleghi, con un atto di autonomia privata, ad un<br />
soggetto non qualificato alcune delle funzioni inerenti alla qualifica sogget-<br />
( 24 ) Cfr. G. Marra, Legalità ed effettività, cit., p. 32 ss.; Id., La responsabilità penale<br />
dell’amministratore di fatto: un excursus critico sull’esperienza della RFT,inStudi Urb., n. 50-<br />
2, 1999-2000, p. 127 ss.; O. Di Giovine, «L’estensione delle qualifiche soggettive», inA.<br />
Giarda e S. Seminara (a cura di), I nuovi reati societari: diritto e processo, Padova, 2002,<br />
p. 27.<br />
( 25 ) Cfr. Sull’art. 2639 c.c. v. O. Di Giovine, «L’estensione delle qualifiche soggettive»,<br />
cit., p. 5; P. Veneziani, «Sub art. 2639», in A. Lanzi e A. Cadoppi (a cura di). I nuovi reati<br />
societari. Commentario al D.lgs. 11 aprile 2002, n. 61, Padova, 2002, p.186 ss.; A. Maccari,<br />
Commento ad art. 2639 c.c., inI nuovi illeciti penali ed amministrativi riguardanti le società<br />
commerciali, F.Giunta (a cura di), Torino 2002, p. 212 ss.; L. Foffani, voce Società, in<br />
Commentario breve alle leggi penali complementari, Palazzo-Paliero (a cura di), Padova,<br />
2003, p. 1917 ss.; F. Giunta, Reati societari e qualifiche soggettive, cit., p. 31 ss.<br />
( 26 ) Cfr. P. Veneziani, «Sub art. 2639», cit., p. 200.<br />
( 27 ) Cfr. F. Giunta, Reati societari e qualifiche soggettive, cit., p. 33.
286<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
tiva. Infatti, in questa circostanza, ci si chiede, da un lato, se il trasferimento<br />
di alcune funzioni inerenti alla qualifica soggettiva dal delegante al delegato<br />
comporti anche il trasferimento della qualifica soggettiva e, dall’altro<br />
lato, se il soggetto delegato per effetto della delega possa essere considerato<br />
soggetto attivo (c.d. intraneo) del reato proprio( 28 ).<br />
( 28 ) Nell’ampia letteratura sulla delega di funzioni v., tra gli altri, P. Aldrovandi,<br />
Orientamenti attuali e giurisprudenziali in materia di delega di compiti penalmente rilevanti,<br />
in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995, p. 699; Id., Concorso nel reato colposo e diritto penale dell’impresa,<br />
Milano, 1999, p.125 ss.; Id., I profili evolutivi dell’illecito tributario, Padova, 2004,<br />
ed. provvisoria, p. 174 ss.; A. Alessandri, voce Impresa (responsabilità penali), cit., p. 209<br />
ss.; Id.; Delega di funzioni, in AA.VV., Manuale di diritto penale dell’impresa, Bologna, 1998,<br />
p. 54; F. Bellagamba, Sulla responsabilità penale nella delega di funzioni,inCass. pen. 1996,<br />
p. 1272 ss.; S. Bonini, Problemi e prospettive della responsabilità penale nell’impresa e della<br />
delega di funzioni alla luce dei d.leg. 626/1994 e 242/1996 in materia di sicurezza del lavoro,in<br />
Arch. giur., 1997, p. 575; S. Canestrari, La delega di funzioni e responsabilità a titolo di<br />
concorso di persone nei reati tributari, in AA.VV., I reati in materia fiscale, a cura di Corso<br />
e Stortoni - Giurisprudenza sistematica di diritto penale, diretta da Bricola e Zagrebelsky, Torino,<br />
1990, p. 135; F. Centonze, Ripartizione di attribuzioni aventi rilevanza penalistica e<br />
organizzazione aziendale. Un nuovo orientamento della giurisprudenza di legittimità, inRiv.<br />
it. dir. proc. pen., 2000, p. 369 ss.; V. Fedele, Una pronuncia in tema di requisiti essenziali<br />
della delega di funzioni in materia ambientale,inCass. pen. 2004, p. 4205 ss.; C. Fioravanti,<br />
Delega di funzioni, doveri di vigilanza e responsabilità penale, inGiur. it., p. 1993, II, p. 771;<br />
A. Fiorella, Il trasferimento di funzioni, cit., 1 ss.; Id., I principi generali del diritto penale<br />
dell’impresa, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, Dir. da F.<br />
Galgano, Vol. 25, L. Conti, Il diritto penale dell’impresa, Padova, 2001, 104 ss.; G. Flora, I<br />
soggetti penalmente responsabili nell’impresa societaria, inStudi in onore di Nuvolone, II, Milano,<br />
1991, p. 543 ss.; Id., L’individuazione dei soggetti responsabili all’interno della società<br />
con particolare riguardo ai reati colposi, in AA.VV., Verso un nuovo codice penale, Milano,<br />
1993, p. 456; A. Gargani, Ubi culpa ibi omissio. La successione di garanti in attività inosservanti,<br />
inInd. pen., 2000, p. 590; Id., Sulla successione nella posizione giuridica di garanzia,<br />
in Studium Iuris 2004, p. 910 ss.; M. Giarrusso, Orientamenti dottrinali ed evoluzione giurisprudenziale<br />
sui problemi della responsabilità nell’esercizio dell’impresa e sull’efficacia della<br />
delega di funzioni, inCass. pen., 1984, p. 2042; G. Grasso, Organizzazione aziendale e responsabilità<br />
penale per omesso impedimento dell’evento, inArch. pen., 1982, p. 744; Id., Il<br />
reato omissivo improprio, cit., p. 419; A. Gullo, La delega di funzioni in diritto penale: brevi<br />
note a margine di un problema irrisolto, inRiv. it. dir. proc. pen., 1999, p. 1508; Id., Il reato,<br />
cit., p. 105 ss.; B. M. Gutierrez, Le deleghe di poteri, Milano, 2004; M. Mantovani, Il<br />
principio di affidamento nella teoria del reato colposo, Milano, 1997, p. 245; T. Padovani,<br />
Il problema dei soggetti nel diritto penale del lavoro nel quadro della più recente giurisprudenza,<br />
inLeg. pen., 1981, p. 415; Id., Diritto penale del lavoro, cit., 61 ss.; Id., Il nuovo volto del<br />
diritto penale del lavoro, inRiv. it. dir. pen. econ., 1996, p. 1157; Id., Reato proprio, cit., p.<br />
1183; A. Pagliaro, Problemi, cit., p. 26; E. Palombi, La delega di funzioni nel diritto penale<br />
dell’impresa,inGiust. pen., 1985, II, 679; M. A. Pasculli, Rilevanza della delega di funzioni:<br />
riflessioni in tema di responsabilità diretta delle persone giuridiche, inRiv. trim. dir. pen.<br />
ec., 2003, p. 293 ss.; C. Pedrazzi, Gestione d’impresa, cit., p. 220 ss.; Id., Profili problematici<br />
del diritto penale dell’impresa, inRiv. it. dir. pen. econ., 1988, 125 ss.; A. Petrozzi, Colpevolezza<br />
o solvibilità: quale criterio per la responsabilità del delegante?, inRiv. it. dir. proc. pen.<br />
2001, 1052 ss.; D. Pulitanò, voce Igiene e sicurezza del lavoro (tutela penale), in Dig. disc.<br />
pen., VI, Torino, 1992, p. 102; Id., voce Igiene e sicurezza del lavoro (tutela penale), in Dig.
STUDI E RASSEGNE<br />
287<br />
Come è noto, nelle imprese di grandi, medie e anche piccole dimensioni,<br />
il moltiplicarsi degli obblighi connessi all’esercizio dell’attività imprenditoriale<br />
inducono il datore di lavoro a delegare taluni compiti di particolare<br />
complessità a propri dipendenti oppure a professionisti che svolgono<br />
senza vincoli di subordinazione le attività delegate. Non è infatti immaginabile<br />
che l’amministratore di una s.p.a ma anche il titolare di una impresa<br />
individuale si occupi personalmente dell’adempimento della moltitudine di<br />
obblighi penalmente rilevanti che sono imposti dalla legislazione previdenziale,<br />
commerciale e in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro.<br />
Sennonché, se, da un lato, l’esigenza che scaturisce dalla realtà socioeconomica<br />
dell’impresa suggerisce di attribuire rilevanza alla delega di funzioni<br />
e di non ricondurre sempre e comunque la responsabilità penale al<br />
soggetto in possesso della qualità soggettiva e titolare dell’obbligo penalmente<br />
sanzionato; dall’altro lato, si avverte l’esigenza di evitare che la delega<br />
di funzioni possa divenire lo strumento attraverso il quale modificare<br />
i modelli di responsabilità precostituiti dal legislatore( 29 ) e portare a quella<br />
Schünemann definisce ‘‘irresponsabilità organizzata’’( 30 ).<br />
4. Trasferimento della qualifica soggettiva e delega di obblighi. – Sulla natura<br />
ed efficacia della delega di funzioni, attualmente, a contendersi il campo<br />
sono, come è noto, essenzialmente due indirizzi teorici: da un lato, quello<br />
c.d. funzionale o oggettivo, e dall’altro, quello c.d. formale o soggettivo( 31 ).<br />
Secondo l’impostazione funzionale( 32 ), in presenza di particolari re-<br />
disc. pen., Aggiornamento, Torino, 2000, p. 388; Id., voce Inosservanza, cit., p. 64; Id., Posizioni<br />
di garanzia, cit., p. 178; I. Schincaglia, La rilevanza della delega di funzioni nel diritto<br />
penale d’impresa, inInd. pen., 2002, p. 152; F. Stella, Criminalità di impresa: nuovi<br />
modelli di intervento, inRiv. it. dir. proc. pen., 1999, p. 1262; A. Valenzano, Appunti in<br />
tema di trasferimento di funzioni, inRiv. trim. dir. pen. econ., 2001, p. 990; P. Veneziani,<br />
Infortuni sul lavoro e responsabilità per omesso impedimento dell’evento: problemi attuali, in<br />
Riv.trim.dir.pen.ec. 1998, 493 ss.; T. Vitarelli, Profili penalistici della delega di funzioni.<br />
Sicurezza del lavoro e soggetti responsabili, Messina, 2002; K. Volk, Sistema penale e criminalità<br />
economica, Napoli, 1998; M. Zalin, Efficacia della delega di funzioni nel diritto penale<br />
dell’ambiente, inRiv. trim. dir. pen. ec., 2002, p. 694 ss.<br />
( 29 ) Cfr. T. Padovani, Diritto penale del lavoro, cit., p. 63; F. Mantovani, Diritto<br />
penale, cit., p. 123; A. Gullo, Il reato, cit., p. 125.<br />
( 30 ) Cfr. B. Schünemann, Unternehmekriminalitat und Strafrecht, Berlin, 1979, p.<br />
30 ss.<br />
( 31 ) Cfr. F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 123 ss.; A. Gullo, Il reato, cit., p.<br />
129. In particolare, v. A. Pagliaro, Problemi, cit., p. 20 che parla della contrapposizione<br />
tra una teoria ‘‘formale civilistica’’ e una teoria ‘‘funzionalistica’’.<br />
( 32 ) Cfr. A. Fiorella, Il trasferimento di funzioni, cit., p. 13 ss. e 87 ss. che distingue<br />
tra incarico di funzioni ed incarico di esecuzioni, riconoscendo efficacia liberatoria per il delegante<br />
solamente al primo; A. Pagliaro, Profili, cit., p. 21 ss.; L. Zavalloni, D.Bonaretti,<br />
Delegabilità della responsabilità penale ed amministrativa nell’ambito dell’impresa, Milano,<br />
1991; E. Palombi, La delega di funzioni, cit., p. 679 ss.
288<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
quisiti messi a fuoco nel tempo dalla giurisprudenza ed oggetto di intenso<br />
dibattito dottrinale( 33 ), con la delega di funzioni il delegante trasferisce al<br />
delegato sia gli obblighi penalmente rilevanti sia la qualifica soggettiva di<br />
cui è titolare( 34 ). Si muove dall’idea che ai fini della titolarità degli obblighi<br />
penalmente rilevanti e della responsabilità per il loro inadempimento ciò<br />
che conta è l’esercizio effettivo della funzione cui l’obbligo inerisce. Dunque,<br />
nell’ipotesi in cui tali funzioni trapassano dal delegante al delegato per<br />
effetto della c.d. delega, anche gli obblighi e le responsabilità si trasferiscono<br />
dal primo al secondo( 35 ). Da questo punto di vista, la delega di funzioni<br />
produce due effetti diversi: da un lato, privando il delegante della qualifica<br />
soggettiva che costituisce elemento costitutivo del reato proprio lo libera<br />
da una eventuale responsabilità penale; dall’altro lato, attribuendo all’incaricato<br />
la medesima qualifica del delegato svolge una efficacia costitutiva di<br />
responsabilità ai sensi della fattispecie propria. Pertanto, in caso di inadempimento<br />
degli obblighi trasferiti mentre il delegato, divenuto titolare della<br />
qualifica soggettiva, deve essere chiamato a rispondere come intraneo ai<br />
sensi della norma incriminatrice che configura il reato proprio, il delegante<br />
avendo perduto tale qualifica non può più essere chiamato a rispondere ai<br />
base alla fattispecie propria( 36 ). Da questo punto di vista, la delega di funzioni<br />
si dice che opera sul piano dell’elemento materiale del reato, in quanto<br />
per un verso fa venire meno nei confronti del delegante e per un latro<br />
verso costituisce in capo al delegato un elemento materiale del reato costituito<br />
dalla qualifica soggettiva.<br />
Questa impostazione che riconosce alla delega di funzioni efficacia sul<br />
piano della tipicità suscita non poche perplessità( 37 ).<br />
In primo luogo, va detto che l’idea secondo la quale attraverso un atto<br />
di autonomia privata come la delega di funzioni, il soggetto qualificato titolare<br />
di obblighi penalmente rilevanti si possa liberare della responsabilità<br />
penale, da un lato, sembra contrastare con il principio della inderogabilità<br />
delle posizioni di garanzia previste dall’ordinamento( 38 ). Dall’altro lato,<br />
sembra contrastare anche con la ratio dei reati propri in cui la tipizzazione<br />
del soggetto attivo avviene attraverso il riferimento a qualifiche formali, che<br />
è quella di costituire garanti di determinati beni bisognosi di tutela raffor-<br />
( 33 ) Sui requisiti di validità della delega di funzioni elaborati nel tempo dalla giurisprudenza<br />
v. infra §8.<br />
( 34 ) Cfr. A. Fiorella, Il trasferimento di funzioni, cit., p. 87 ss.<br />
( 35 ) Cfr. A. Fiorella, Il trasferimento di funzioni, cit., p. 113 ss.<br />
( 36 ) Cfr. A. Wiesener, Die strafrechtliche Verantwortlichkeit von Stellvertretern und<br />
Organem, Frankfurt, 1971, p. 147 ss.; A. Fiorella, Il trasferimento di funzioni, cit., p.<br />
187 ss.<br />
( 37 ) Per una critica della tesi della rilevanza obiettiva della delega di funzioni, si veda<br />
per tutti T. Padovani, Diritto penale del lavoro, cit., p. 63 ss.<br />
( 38 ) Cfr. D. Pulitanò, Posizioni di garanzia, cit., p. 180.
STUDI E RASSEGNE<br />
289<br />
zata quei soggetti che non solo hanno la possibilità materiale di tutelarli ma<br />
che in virtù della propria posizione di ‘‘vertice’’ sono più di chiunque altro<br />
capaci di garantirne l’integrità( 39 ).<br />
In secondo luogo, un altro limite della tesi della rilevanza oggettiva<br />
della delega, a ben vedere, sembra individuabile nella difficoltà di tenere<br />
distinto il fenomeno del trasferimento della qualifica da quello delle funzioni<br />
ad essa collegate. Più precisamente, l’approccio oggettivista sembra sovrapporre<br />
due fenomeni che debbono rimanere distinti: il trasferimento (o<br />
delega) delle funzioni (poteri-obblighi) di garanzia e la successione nella<br />
posizione di garanzia( 40 ).<br />
Il fenomeno del trasferimento (o delega) delle funzioni di garanzia ricorre<br />
quando il garante originario trasferisce alcuni dei suoi poteri-doveri<br />
ad un nuovo soggetto che diventa un ulteriore garante dei beni affidati a<br />
quello originario. In questo caso, si ha un effetto cumulativo di funzioni<br />
di garanzia e non la liberazione del delegante dalla propria originaria posizione<br />
di garanzia( 41 ). Infatti, il garante originario non trasferisce la propria<br />
posizione di garanzia, ma solamente alcune funzioni di garanzia che ineriscono<br />
alla propria posizione di garanzia.<br />
Al contrario, il fenomeno della successione nella posizione di garanzia<br />
ricorre quando il garante originario trasferisce l’intera posizione di garanzia<br />
ad un nuovo garante. Così, ad esempio, si ha successione nella posizione di<br />
garanzia quando l’imprenditore trasferisce l’azienda ad un altro imprenditore<br />
che diventa il nuovo e unico garante dei beni affidati dalla legge a chi<br />
si trova nella posizione di imprenditore( 42 ). In questo caso, l’imprenditore<br />
– garante originario – avendo ceduto la propria posizione ad un altro soggetto,<br />
dal momento che ha trasferito la fonte di pericolo e non ha più la<br />
possibilità di intervenire direttamente né di accedere in concreto all’utilizzazione<br />
e alla gestione dei fattori di rischio, non può più essere considerato<br />
titolare di alcun obbligo di garanzia( 43 ).<br />
Dunque, solamente la successione nella posizione di garanzia e non anche<br />
la mera delega di alcune funzioni inerenti alla qualifica (posizione), può<br />
determinare il risultato radicale e definitivo della liberazione integrale del<br />
soggetto cedente dalla funzione impeditiva, cioè dalla posizione giuridica<br />
di garante( 44 ).<br />
( 39 ) Cfr. T. Padovani, Diritto penale del lavoro, cit., p. 63 ss.<br />
( 40 ) Per la differenza tra delega di funzioni e successione nella posizione di garanzia v.<br />
A. Gargani, Ubi culpa, cit., p. 592 ss.; Id., Sulla successione, cit., p. 909 ss.<br />
( 41 ) Cfr. A. Gargani, Sulla successione, cit., p. 911.<br />
( 42 ) Cfr. A. Gargani, Ubi culpa, cit., p. 592.<br />
( 43 ) G. Grasso, Organizzazione aziendale, cit., p. 752; A. Gargani, Ubi culpa, cit., p.<br />
592 ss.<br />
( 44 ) Cfr. A. Gargani, Ubi culpa, cit., p.593; Id., Sulla successione, cit., p. 911.
290<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
In terzo luogo, e sotto il profilo politico-criminale, va osservato come<br />
la tesi oggettivistica non sembra condurre a una soluzione appagante nel<br />
caso in cui il delegante venga a conoscenza di eventuali inadempienze<br />
del delegato( 45 ). Infatti, la coerente applicazione dei principi enunciati<br />
dai funzionalisti condurrebbe ad esonerare il delegante da ogni responsabilità,<br />
in quanto, non essendo più titolare della qualifica soggettiva, già<br />
sul piano oggettivo, non sarebbe più il destinatario dell’obbligo penalmente<br />
rilevante rimasto inadempiuto. Né, peraltro, paiono convincenti le soluzioni<br />
prospettate dai funzionalisti che giungono a configurare la responsabilità<br />
del delegante che venga a conoscenze delle inadempienze del delegato<br />
attraverso lo schema del concorso dell’extraneus nel reato proprio( 46 ).<br />
Infatti, in assenza di un contributo psicologico o materiale alla violazione<br />
dei doveri penalmente sanzionati di cui per effetto della delega è titolare<br />
il delegato, la configurabilità del concorso dell’estraneo-delegante nel reato<br />
proprio del delegato potrebbe essere affermata solamente attraverso il riconoscimento<br />
della permanenza in capo al delegante di un intrasferibile dovere<br />
di controllo sull’operato del delegato rilevante ai sensi dell’art. 40 cpv.<br />
c.p., riconoscimento che finirebbe però per mettere in crisi i postulati di<br />
fondo della teoria oggettivistica che riconosce alla delega rilevanza proprio<br />
sul piano della tipicità. Senza considerare poi il paradosso di far rispondere<br />
a titolo di concorrente extraneus l’originario destinatario del reato proprio,<br />
ribaltando così la logica del reato proprio e con essa le scelte fatte dal legislatore<br />
in sede di selezione dei garanti, scelte compiute tenendo conto dei<br />
particolari rapporti tra la qualifica e il bene giuridico tutelato( 47 ).<br />
Infine, e soprattutto, va detto che attribuendo alla delega di funzioni<br />
efficacia ‘‘costitutiva’’ di responsabilità per il delegato e ‘‘liberatoria’’ per<br />
il delegante si rischia di concentrare la responsabilità penale verso il ‘‘basso’’<br />
con la conseguenza, da un lato, di lasciare esenti da pena i soggetti che<br />
in virtù delle propria posizione di vertice, concorrendo a determinare la<br />
politica dell’impresa, sono i ‘‘veri’’ responsabili degli illeciti penali costruiti<br />
in forma propria( 48 ); e dall’altro lato, di affidare la tutela dei beni giuridici<br />
bisognosi di tutela rafforzata a soggetti, che proprio a causa della propria<br />
posizione di subordinazione gerarchica all’interno delle aziende, non sono<br />
in grado di garantirne una adeguata protezione.<br />
5. La delega di funzioni come modalità di adempimento di obblighi penalmente<br />
rilevanti. – Per evitare che attraverso la delega di funzioni si giun-<br />
( 45 ) Cfr. T. Padovani, Diritto penale del lavoro, cit., p. 74 ss.; G. Grasso, Il reato<br />
omissivo improprio, cit., p. 434 ss.<br />
( 46 ) La soluzione è proposta da A. Pagliaro, Problemi, cit., p. 23.<br />
( 47 ) Cfr. A. Gullo, La delega di funzioni, cit., p. 1516.<br />
( 48 ) Cfr. T. Padovani, Diritto penale del lavoro, cit., p. 49 ss.
STUDI E RASSEGNE<br />
291<br />
ga a violare il principio di legalità e a deresponsabilizzare i soggetti che sono<br />
responsabili della politica d’impresa, una parte della dottrina suggerisce<br />
una ricostruzione in chiave soggettivistica dell’istituto( 49 ). Più precisamente,<br />
si sostiene che la delega di funzioni non può assumere rilevanza sul piano<br />
oggettivo ma solamente su quello soggettivo. In particolare, si osserva<br />
come, nei reati propri a struttura omissiva, il fatto che l’obbligo di attivarsi<br />
è diretto in via esclusiva al soggetto in possesso della particolare qualità<br />
soggettiva non gli impedisce di ricorrere attraverso la delega di funzioni alla<br />
collaborazione di altri soggetti per l’adempimento dei propri obblighi penalmente<br />
rilevanti. In tal caso, la delega di funzioni, se, da un lato, non può<br />
assumere rilevanza ai fini della esclusione della responsabilità per il fatto<br />
omissivo del soggetto qualificato, dall’altro lato, non può neppure considerarsi<br />
irrilevante. Più precisamente, una volta che il soggetto qualificato delega<br />
il compito di adempiere agli obblighi penalmente sanzionati di cui è<br />
titolare esclusivo ad un altro soggetto, assumendo su di sè il rischio dell’inadempimento<br />
altrui, avrà l’onere di controllare che il delegato adempia ai<br />
compiti attribuiti. Pertanto, in caso di delega di funzioni affinché il soggetto<br />
qualificato possa essere chiamato a rispondere dell’omissione propria a<br />
titolo di colpa occorrerà che non abbia esercitato nei confronti del delegato<br />
il controllo concretamente esigibile( 50 ). A questo proposito, si osserva come<br />
ai fini della valutazione della colpa del delegante assumeranno rilievo,<br />
da un lato, le dimensioni della struttura organizzativa nell’ambito della quale<br />
è intervenuta la delega di funzioni, in quanto in una impresa di grandi<br />
dimensioni non è possibile esigere dall’imprenditore lo stesso controllo sull’attività<br />
del delegato, che invece è doveroso attendersi in imprese di più<br />
piccole dimensioni. Dall’altro lato, ai fini della valutazione della colpa<br />
del soggetto delegante assumerà rilievo anche la ragionevolezza dell’affidamento<br />
degli obblighi, che a sua volta dipenderà dalla posizione e dalle caratteristiche<br />
del delegato( 51 ).<br />
Per quanto riguarda, poi, la posizione del delegato, si afferma che la sua<br />
responsabilità penale potrà essere apprezzata unicamente sul piano del concorso<br />
dell’extraneus nel reato proprio. Più precisamente, si osserva che con<br />
l’accettazione della delega di funzioni il delegato si assume un obbligo diretto<br />
all’impedimento del reato del delegante-intraneo rilevante ai sensi dell’art. 40<br />
cpv. c.p. Pertanto, in caso di inadempimento il delegato potrebbe essere chiamato<br />
a rispondere, ai sensi degli artt. 40 cpv. e 110 c.p., per concorso mediante<br />
omissione nel reato (proprio) omissivo del delegante( 52 ).<br />
( 49 ) Per questa impostazione v., per tutti, T. Padovani, Diritto penale del lavoro, cit.,<br />
p. 61 ss.<br />
( 50 ) Cfr. T. Padovani, Diritto penale del lavoro, cit., p. 84.<br />
( 51 ) Cfr. T. Padovani, Diritto penale del lavoro, cit., pp. 85-86.<br />
( 52 ) Cfr. T. Padovani, Diritto penale del lavoro, cit., pp. 93-94.
292<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
Nei confronti di questa impostazione che attribuisce rilevanza sul piano<br />
meramente soggettivo alla delega di funzioni, si è detto che corre il rischio<br />
di configurare ipotesi di responsabilità da posizione, in violazione del<br />
principio costituzionale di personalità della responsabilità penale di cui all’art.<br />
27 Cost( 53 ). Più in particolare, si osserva come non attribuire efficacia<br />
scriminante alla delega di funzioni significherebbe chiamare a rispondere il<br />
delegante per il mancato compimento di un’azione doverosa che non poteva<br />
di fatto realizzare per avere trasferito ad altri i poteri necessari all’adempimento(<br />
54 ).<br />
Sennonché, questa preoccupazione, peraltro ricorrente, non sembra<br />
cogliere nel segno. Infatti, il delegante con la delega di funzioni non trasferisce<br />
la propria qualifica, la propria posizione, l’intera corona di poteri e<br />
doveri di cui è titolare, ma solamente alcune funzioni che consentono al<br />
delegato di adempiere agli obblighi delegati. Pertanto, il delegante, nonostante<br />
la delega, rimanendo titolare della propria qualifica e della posizione<br />
di ‘‘preminenza’’ all’interno dell’azienda, è comunque sempre in grado di<br />
adempiere agli obblighi che ha delegato.<br />
Ebbene, a ben vedere, questo rilievo critico nei confronti dell’impostazione<br />
soggettivistica, sembra (ancora una volta) legato alla non chiara messa<br />
a fuoco della distinzione tra il fenomeno del trasferimento delle funzioni<br />
di garanzia e quello della successione nella posizione di garanzia( 55 ). Infatti,<br />
si potrebbe ipotizzare la configurazione di ipotesi di responsabilità per<br />
fatto altrui laddove la delega di funzioni fosse in grado di trasferire la posizione<br />
di garanzia di cui il delegante è titolare. In questo caso, infatti, esigere<br />
l’adempimento dell’obbligo di garanzia da chi non si trova più nella<br />
posizione di garanzia equivarrebbe a configurare una responsabilità per fatto<br />
altrui. Al contrario, nel caso della delega di funzioni il delegante viene<br />
chiamato a rispondere dell’inadempimento degli obblighi delegati, in quanto<br />
titolare della posizione di garanzia originaria che la delega di funzioni<br />
non ha eliminato( 56 ). In effetti, nella prospettiva soggettivistica la compatibilità<br />
con il principio di personalità della responsabilità penale è assicurata<br />
dalla equilibrata applicazione dei normali criteri di imputazione soggettiva<br />
della responsabilità penale( 57 ). Da questo punto di vista, il rischio di<br />
( 53 ) Cfr. G. Fiandaca, Il reato commissivo, cit., p. 202 ss.<br />
( 54 ) Cfr. G. Fiandaca, Il reato commissivo, cit., p. 202; G. Grasso, Organizzazione<br />
aziendale, cit., p. 745 ss.; E. Palombi, Delega, cit., p. 679.<br />
( 55 ) Cfr. A. Gargani, Ubi culpa, cit., p. 592; Id., Sulla successione, cit., p. 910 ss.<br />
( 56 ) Cfr. D. Pulitanò, voce Igiene e sicurezza, cit., p. 107; A. Gargani, Ubi culpa,<br />
cit., p. 592; Id., Sulla successione, cit., p. 910 ss.<br />
( 57 ) In questo senso sembrano orientate le motivazioni delle decisioni della Corte Costituzionale<br />
che ha sempre teso a respingere le questioni di costituzionalità sollevate in relazione<br />
alle norme penali che collegano la responsabilità al ‘‘ruolo’’ ricoperto nell’ambito delle<br />
organizzazioni complesse: v. Corte cost. 1982, n. 198, in Foro it., I, 1983, p. 570; Corte cost.
STUDI E RASSEGNE<br />
293<br />
incorrere in responsabilità da posizione non pare legato alla esclusione della<br />
efficacia liberatoria alla delega di funzioni, ma può essere rappresentato<br />
dall’utilizzo di criteri di valutazione della colpevolezza, sotto il profilo della<br />
culpa in vigilando ed in eligendo, eccessivamente rigorosi( 58 ).<br />
E neppure pare condivisibile il rilievo secondo il quale il ruolo della<br />
delega di funzioni non può in nessun caso essere confinato esclusivamente<br />
sul piano della colpevolezza. Più precisamente, si osserva come anche nella<br />
prospettiva soggettivistica il contenuto della posizione di garanzia del delegante<br />
muta per effetto della delega, dal momento che si trasforma in un<br />
obbligo di sorveglianza la cui portata deve di volta in volta essere determinata<br />
in relazione a variabili come le dimensioni dell’impresa e la ragionevolezza<br />
dell’affidamento dell’incarico( 59 ).<br />
Sennonché, a ben vedere, per effetto della delega di funzioni non sembra<br />
mutare tanto il contenuto dell’originario obbligo di garanzia di cui è<br />
titolare il delegante, quanto piuttosto quello del dovere di diligenza (della<br />
regola cautelare) alla stregua del quale deve essere valutato l’adempimento<br />
del delegante. È evidente come una volta che il garante originario decide di<br />
adempiere ai propri obblighi attraverso il ricorso alla delega di funzioni,<br />
cioè avvalendosi dell’opera di un incaricato, il dovere di diligenza muterà<br />
di contenuto sostanziandosi nell’obbligo di vigilare sul comportamento<br />
del delegato( 60 ).<br />
Piuttosto, ciò che non convince dell’impostazione soggettivistica è la<br />
ricostruzione della efficacia della delega di funzioni nei confronti del delegato.<br />
Più precisamente, non persuade l’idea secondo la quale per effetto<br />
della delega di funzioni il delegato verrebbe ad acquistare un obbligo di<br />
impedimento del reato del delegante integrato dalla violazione degli obblighi<br />
di cui quest’ultimo è titolare in via esclusiva( 61 ). In effetti, se, da un lato,<br />
non ci sono dubbi sul fatto che l’obbligo di garanzia finalizzato all’impedimento<br />
del reato altrui può discendere anche da un atto di autonomia<br />
privata come è appunto la delega di funzioni( 62 ), dall’altro lato, l’impegno<br />
1976, n. 173, in Giur. pen. 1976, I, p. 297; Corte cost. 1959, n. 39, in Riv. it. dir. proc. pen.,<br />
1959, p. 915.<br />
( 58 ) Cfr. D. Pulitanò, voce Igiene e sicurezza, cit., p. 107.<br />
( 59 ) Cfr. G. Grasso, Il reato omissivo improprio, cit., p. 437; Id., Organizzazione aziendale,<br />
cit., p. 751; A. Fiorella, Il trasferimento di funzioni, cit., p. 177; M. Mantovani, Il<br />
principio di affidamento, cit., p. 324; P. Aldrovandi, Orientamenti dottrinali, cit., p. 700;<br />
Id., Concorso nel reato colposo, cit., p. 131.<br />
( 60 ) Sui rapporti tra obbligo di diligenza e obbligo di garanzia v. G. Fiandaca, Il reato<br />
commissivo, cit., p. 104; G. Grasso, Il reato omissivo improprio, cit., p. 372 ss; F. Giunta,<br />
Illiceità e colpevolezza nella responsabilità penale, Padova, 1993, p. 233 ss.<br />
( 61 ) Cfr. M. Mantovani, Il principio di affidamento, cit., p. 313 ss.<br />
( 62 ) Cfr. G. Grasso, Il reato omissivo improprio, cit., p. 263 ss.; F. Giunta, La posizione<br />
di garanzia, cit., p. 621 ss.; I. Leoncini, Obbligo, cit., p. 223 ss.; F. Mantovani, Di-
294<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
assunto dal delegato nei confronti del delegante di attivarsi per l’impedimento<br />
dei reati di quest’ultimo non sembra che si possa ricondurre nell’ambito<br />
della categoria degli obblighi di garanzia rilevanti ex art. 40<br />
cpv. c.p., per mancanza di un correlativo potere giuridico di impedimento<br />
del reato( 63 ). In sostanza, ai fini della insorgenza in capo al delegato di un<br />
obbligo di impedimento del reato rilevante ex art. 40 cpv. c.p., è di ostacolo<br />
la mancanza di un autentico potere giuridico di impedimento del reato<br />
del delegante, in quanto il delegato, pur essendosi assunto l’obbligo di attivarsi<br />
al fine di impedire che il delegante commetta il reato omissivo, non<br />
ha alcun potere giuridico per indurre l’intraneus (anche contro la sua volontà)<br />
ad adempiere all’obbligo penalmente rilevante di cui è titolare in<br />
via esclusiva( 64 ).<br />
Al problema della responsabilità del delegato, a nostro avviso, sembra<br />
fornire una soluzione più appagante quella parte della dottrina che, pur negando<br />
alla delega di funzioni efficacia liberatoria sul versante della responsabilità<br />
del delegante, riconosce a quest’ultimo la possibilità di costituire<br />
nuove e autonome posizioni di garanzia in capo al delegato( 65 ). In questa<br />
prospettiva, la delega di funzioni assumerebbe una duplice efficacia: soggettiva<br />
per quanto riguarda la responsabilità del delegante e oggettiva sul<br />
versante della responsabilità del delegato. In effetti, si afferma come eccezion<br />
fatta per i reati propri c.d. di mano propria, in cui a venire in rilievo<br />
sono adempimenti necessariamente personali, come ad esempio i reati tributari<br />
a struttura omissiva( 66 ), esistono reati propri incentrati sull’inadempimento<br />
di una ‘‘obbligazione di risultato’’, come ad esempio i reati della<br />
legislazione antinfortunistica, rispetto ai quali è possibile ipotizzare che il<br />
titolare della qualifica soggettiva (intraneo) possa attraverso la delega di<br />
funzioni costituire in capo al delegato una nuova qualifica soggettiva e<br />
una nuova posizione di garanzia nei limiti delle attribuzioni delegate( 67 ).<br />
ritto penale, cit., p. 173 ss.; Id., L’obbligo di garanzia, cit., p. 345 ss.; F. Palazzo, Corso di<br />
diritto penale, cit., p. 261 ss.; Id., Il fatto, cit., p. 78.<br />
( 63 ) Sulla necessità che all’obbligo giuridico di impedire l’evento corrispondano effettivi<br />
poteri giuridici impeditivi v. I. Leoncini, Obbligo, cit., p. 70 ss.; F. Mantovani, L’obbligo,<br />
cit., p. 346; F. Palazzo, Corso di diritto penale, cit., p. 266 ss.; Id., Il fatto, cit., p. 78.<br />
( 64 ) In quest’ordine di idee si pone anche M. Mantovani, Il principio di affidamento,<br />
cit., p. 317-318.<br />
( 65 ) In questo senso, anche se con sfumature in parte diverse, v. G. Grasso, Il reato<br />
omissivo improprio, cit., p. 438 ss.; D. Pulitanò, Posizioni di garanzia, cit., p. 180 ss.; Id.,<br />
voce Igiene e sicurezza del lavoro, cit., p. 107ss.; A. Alessandri, voce Impresa (responsabilità<br />
penali), cit., p. 212 ss.; P. Aldrovandi, Concorso nel reato colposo, cit. p. 158; Id., A. Gargani,<br />
Sulla successione, cit., p. 911; A. Gullo, Il reato, cit., 150 ss.; Id., La delega di funzioni,<br />
cit., p. 1517 ss.<br />
( 66 ) Ci si riferisce alle numerose fattispecie proprie di pura omissione che caratterizzavano<br />
la disciplina dei reati tributari nel vigore della Legge n. 516 del 1982.<br />
( 67 ) Cfr. C.Pedrazzi, Profili problematici, cit., p. 140 ss.
STUDI E RASSEGNE<br />
295<br />
Il riconoscimento della possibilità di costituire attraverso la delega di funzioni<br />
nuove qualifiche soggettive e posizioni di garanzia, che si vanno ad<br />
aggiungere a quella del delegante, comporta che la responsabilità del delegato<br />
possa essere affermata direttamente ai sensi della fattispecie propria e<br />
non attraverso il ricorso allo schema del concorso mediante omissione dell’extraneus<br />
nel reato proprio omissivo del delegante( 68 ).<br />
6. Modelli di delega di funzioni e ruolo della qualifica soggettiva extrapenalistica<br />
nel ‘‘tipo’’ criminoso. – La contrapposizione tra questi due modelli<br />
di delega di funzioni proposti dalla dottrina, quello c.d. funzionale o<br />
oggettivo, e quello c.d. formale o soggettivo, può in qualche modo essere<br />
ricomposta, almeno da un punto di vista teorico, nella prospettiva della c.d.<br />
‘‘teoria della doppia misura della colpa’’, che attribuisce rilevanza sul piano<br />
della tipicità alla violazione della regola di diligenza obiettiva( 69 ). Infatti, se<br />
si nega alla delega di funzioni, come ritengono i sostenitori della teoria soggettivistica,<br />
efficacia sul piano oggettivo, nel caso in cui il delegante abbia<br />
adempiuto ai propri doveri di vigilanza sull’attività del delegato, il comportamento<br />
inadempiente di quest’ultimo non gli è attribuibile oggettivamente<br />
come fatto proprio a causa della mancanza della violazione della regola<br />
cautelare (c.d. misura oggettiva della colpa)( 70 ) e la sentenza di assoluzione<br />
anche in questo caso dovrebbe recare la formula perché il ‘‘fatto non sussiste.’’<br />
Tuttavia, se, da un lato, non ci sono dubbi sul fatto che la contrapposizione<br />
tra i due principali modelli ricostruttivi di delega di funzioni non<br />
deve essere enfatizzata, dall’altro lato, è di tutta evidenza come alla base<br />
delle possibili diverse ricostruzioni vi siano due modelli molto diversi di<br />
reato proprio( 71 ). Da un lato, i funzionalisti sembrano muovere da un modello<br />
di reato proprio a qualifica, per così dire, ‘‘debole’’ in cui soggetto<br />
attivo è da considerare chiunque sia titolare di poteri che consentono l’esecuzione<br />
della condotta tipica e in cui il riferimento alla qualifica extrapenalistica<br />
serve a descrivere più che il soggetto attivo la condotta tipica. In<br />
questa prospettiva, la titolarità della qualifica soggettiva è unposterius ri-<br />
( 68 ) Cfr. C.Pedrazzi, Profili problematici, cit., p. 142 e nota 50.<br />
( 69 ) Cfr. G. Marinucci, Il reato come azione, Milano, 1971, p. 157 ss.; M. Romano,<br />
Commentario, I, cit., p. 457 ss.; S. Canestrari, L’illecito penale preterintenzionale, Padova,<br />
1089, p. 101 ss.; G. Fornasari, Il principio di inesigibilità nel diritto penale, Padova, 1990,<br />
p. p. 321 ss.; G. Forti, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990, p. 138 ss.; M. Donini,<br />
Illecito e colpevolezza nell’imputazione del reato, Milano, 1991, p. 38 ss.; F. Palazzo, Il<br />
fatto, cit., p. 123 ss.; Id., Corso di diritto penale, cit., pp. 308 ss. e 471 ss.<br />
( 70 ) Cfr. D. Pulitanò, voce Inosservanza, cit., p. 71; Id., voce Igiene e sicurezza, cit.,<br />
p. 107; P. Aldrovandi, Orientamenti, cit., p. 700; A. Gullo, La delega di funzioni, cit., p.<br />
1514.<br />
( 71 ) Cfr. A. Gullo, Il reato, cit., pp. 129 ss. e 145 ss.
296<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
spetto al possesso dei poteri che consentono l’adempimento degli obblighi<br />
penalmente rilevanti, nel senso che la titolarità della qualifica e degli obblighi<br />
ad essa collegati discende dalla titolarità dei poteri consentanei al loro<br />
adempimento( 72 ). Dall’altro lato, i formalisti muovono da un modello di<br />
reato proprio, per così dire, a qualifica ‘‘forte’’ in cui il soggetto attivo è<br />
colui che si trova in una particolare posizione nei confronti del bene giuridico<br />
ed in cui la qualifica soggettiva extrapenalistica serve a indicare non<br />
tanto e non solo la titolarità dei poteri necessari alla esecuzione della condotta<br />
tipica, ma la titolarità di una particolare posizione che pone il soggetto<br />
in rapporto ‘‘privilegiato’’ con il bene giuridico e che denota una speciale<br />
attitudine alla sua offesa (nei reati propri commissivi) o difesa (nei reati<br />
propri omissivi propri e impropri).<br />
In effetti, coloro che muovono dall’idea che nei reati propri il riferimento<br />
alla qualifica formale serve ad individuare i soggetti che in virtù<br />
dei poteri di cui sono titolari sono in grado di realizzare la condotta descritta<br />
dalla norma incriminatrice sono portati a pensare, da un lato, che soggetto<br />
attivo del reato proprio sia chiunque, a prescindere dalla titolarità<br />
della qualifica formale, eserciti effettivamente i poteri consentanei all’adempimento<br />
degli obblighi penalmente rilevanti; e dall’altro lato, che,<br />
quando in forza della c.d. delega, i poteri che consentono l’adempimento<br />
degli obblighi penalmente rilevanti trapassano dal delegante al delegato,<br />
gli obblighi e le responsabilità che a tali poteri sono collegati gravano esclusivamente<br />
su quest’ultimo( 73 ).<br />
Sennonché, a ben vedere, se si interpretano le qualifiche soggettive in<br />
chiave funzionalistica e si ritiene che ai fini della individuazione del soggetto<br />
attivo dei reati propri deve assumere rilevanza non già la titolarità della<br />
qualifica formale ma l’esercizio effettivo dei poteri ad essa corrispondenti, a<br />
essere coerenti, più che ritenere che la liberazione del delegante dalla responsabilità<br />
penale consegua al trasferimento della titolarità della funzione<br />
cui l’obbligo inerisce, si dovrebbe essere portati a superare del tutto il problema<br />
della delega di funzioni( 74 ). In effetti, se ai fini della individuazione<br />
del soggetto attivo dei reati propri assume rilevanza unicamente l’esercizio<br />
( 72 ) Cfr. A. Pagliaro, Il concorso dell’estraneo nei delitti contro la pubblica amministrazione,<br />
inDir. pen. proc., 1995, p. 975 che definisce questo modello di reato proprio «a<br />
struttura inversa».<br />
( 73 ) Cfr. A. Fiorella, Il trasferimento di funzioni, cit., p. 113 ss.<br />
( 74 ) In dottrina, in questo senso, v. A. Pagliaro, Problemi generali, cit., p. 22; F.<br />
Stella, Criminalità di impresa, cit., p. 1262 ss.; F. Centonze, Ripartizione di attribuzione<br />
aventi rilevanza penalistica, cit., p. 369 ss.; V. Fedele, Una pronuncia in tema di requisiti essenziali<br />
della delega di funzioni in materia ambientale, inCass. pen., 2004, p. 4214 ss. In giurisprudenza<br />
v. Cass. pen., sez. IV, 3 marzo 1998, Brambilla, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, p.<br />
364; Cass. pen., sez. III, 26 febbraio 1998, Caron, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, p. 364 ss.<br />
secondo le quali ai fini dell’individuazione dei soggetti responsabili all’interno dell’impresa
STUDI E RASSEGNE<br />
297<br />
effettivo dei poteri sottesi alla qualifica soggettiva a prescindere dalla titolarità<br />
della qualifica formale, allora l’obbligo di attivarsi penalmente rilevante<br />
andrà considerato di titolarità di chiunque disponga effettivamente<br />
dei poteri consentanei all’adempimento. In questa prospettiva, a ben vedere,<br />
ai fini dell’individuazione dei soggetti responsabili all’interno dell’impresa<br />
ciò che conta non è che certi poteri siano o non siano formalmente<br />
delegati, ma l’effettiva e concreta ripartizione dei compiti all’interno dell’impresa(<br />
75 ).<br />
Al contrario, se si muove dall’idea che la ratio della tipizzazione del<br />
soggetto attivo (attraverso il riferimento ad una qualifica extrapenalistica)<br />
nei reati (propri) omissivi propri e impropri risponde all’esigenza di attribuire<br />
rilevanza ad una posizione, ad un ruolo giuridicamente riconosciuto<br />
che rivela una specifica attitudine alla difesa di determinati beni giuridici,<br />
allora si sarà portati a pensare, da un lato, che legittimato al reato proprio<br />
può essere solamente chi è titolare della qualifica formale extrapenalistica;<br />
e dall’altro lato, che l’incarico conferito dall’originario ed esclusivo titolare<br />
dell’obbligo ad un extraneus affinché questi presti l’attività necessaria per<br />
l’adempimento dell’obbligo non è suscettibile di sortire un effetto liberatorio<br />
per il primo. In effetti, se la ratio della costruzione in forma propria delle<br />
fattispecie incriminatrici va individuata nella particolare posizione di privilegio<br />
nei confronti della tutela di determinati beni giuridici, la liberazione<br />
del soggetto qualificato dagli obblighi connessi alla qualifica potrà avvenire<br />
solamente attraverso l’abbandono di quella posizione, di quel ruolo e non<br />
già attribuendo, tramite la delega di funzioni, ad altri soggetti i poteri necessari<br />
per l’adempimento di tali obblighi.<br />
Ebbene, questo modello di reato proprio e di interpretazione delle<br />
qualifiche soggettive formali extrapenali, a nostro modo di vedere, è da<br />
preferire in quanto pare più adeguato rispetto a quello delineato dall’approccio<br />
funzionale a fronteggiare la criminalità d’ impresa. In questa prospettiva,<br />
infatti, la responsabilità per la violazione degli obblighi finalizzati<br />
alla tutela degli interessi (come la vita, l’integrità fisica e l’ambiente, ecc.)<br />
ciò che conta non è che certi poteri siano o non siano formalmente delegati, ma l’effettiva e<br />
concreta ripartizione dei compiti all’interno dell’impresa.<br />
( 75 ) Cfr. F. Centonze, Ripartizione di attribuzione aventi rilevanza penalistica, cit., p.<br />
369 ss.; F. Stella, Criminalità di impresa, cit., p. 1263 che osservano come il superamento<br />
della problematica della delega di funzioni comporterebbe il vantaggio di liberare il soggetto<br />
titolare della qualifica formale (imprenditore, amministratore, ecc.) in caso di inadempimento<br />
dell’obbligo di attivarsi penalmente rilevante dall’onere di dovere dimostrare l’esistenza<br />
della delega di funzioni e dei suoi requisiti per andare esente da responsabilità penale, gravando<br />
piuttosto sulla Pubblica accusa l’onere di individuare colui che all’interno dell’impresa<br />
avendo di fatto i poteri necessari per l’adempimento dell’obbligo ne era il reale titolare. In<br />
giurisprudenza, v. Cass. pen., sez. IV, 3 marzo 1998, Brambilla, cit., p. 364; Cass. pen., sez.<br />
III, 26 febbraio 1998, Caron, cit., p. 364 ss.
298<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
potenzialmente in conflitto con l’esercizio dell’impresa( 76 ) rimane ancorata<br />
in capo a quei soggetti che all’interno delle imprese rivestono posizioni,<br />
ruoli di vertice e che in forza di questi sono in grado non solo di adempiere<br />
agli obblighi di attivarsi posti a tutela di tali interessi, ma soprattutto di<br />
contribuire a determinare le condizioni per il corretto adempimento di tali<br />
obblighi.<br />
7. Spunti ricostruttivi su natura ed efficacia della delega di funzioni. –<br />
Nonostante che l’assenza di una precisa e vincolante indicazione normativa<br />
a favore di quest’ ultimo modello di reato proprio a qualifica ‘‘forte’’ contribuisca<br />
a non rendere agevole la ricostruzione della natura ed efficacia<br />
della delega di funzioni nelle organizzazioni complesse, alcuni punti fermi<br />
sono non solo possibili ma anche necessari.<br />
Anzitutto, occorre tenere distinti gli effetti della delega di funzioni nei<br />
confronti del delegante da quelli che produce sulla posizione del delegato(<br />
77 ).<br />
Per quanto riguarda la posizione del delegante, va detto che la delega<br />
di funzioni non sembra possa operare sul piano oggettivo con efficacia<br />
quindi liberatoria di responsabilità, quanto piuttosto sul piano soggettivo<br />
con efficacia scusante per il dante causa( 78 ).<br />
In primo luogo, e da un punto di vista sostanziale, infatti, la titolarità<br />
degli obblighi penalmente rilevanti non pare dipendere solamente dalla titolarità<br />
dei poteri consentanei all’adempimento, ma anche, e soprattutto,<br />
dalla particolare ‘‘posizione’’ del delegante espressa dalla qualifica soggettiva<br />
extrapenalistica. Pertanto, solamente con la cessione di tale posizione il<br />
delegante potrà integralmente essere liberato dai propri obblighi. E questo<br />
legame tra la titolarità degli obblighi aventi penalistico rilievo e il ‘‘ruolo’’<br />
che al delegante riconosce la legge extrapenale nell’ambito dell’impresa appare<br />
tanto più inscindibile se si pensa che il sicuro (efficace) adempimento<br />
degli obblighi posti a tutela di interessi potenzialmente confliggenti con<br />
quelli dell’impresa (come, ad esempio, la sicurezza dei lavoratori, l’ambiente,<br />
l’interesse dello Stato alla riscossione dei tributi, ecc.) difficilmente potrà<br />
essere garantito senza la collaborazione dei vertici dell’impresa. In sostanza,<br />
non è pensabile che con la delega di funzioni il delegante si liberi<br />
integralmente degli obblighi delegati fondamentalmente in quanto, dal momento<br />
che le imprese sono strutture organizzative complesse in continua<br />
evoluzione che operano in un contesto socio-normativo altrettanto mutevole,<br />
ai fini dell’adempimento degli obblighi delegati occorre, da un lato, un<br />
continuo adeguamento delle scelte di preposizione effettuate attraverso le<br />
( 76 ) Cfr. A. Alessandri, voce Impresa (responsabilità penali), cit., p. 197 ss.<br />
( 77 ) Cfr. D. Pulitanò, Igiene e sicurezza, cit., p. 106.<br />
( 78 ) Cfr. T. Padovani, Diritto penale del lavoro, cit., 61 ss.
STUDI E RASSEGNE<br />
299<br />
deleghe e, dall’altro lato, un costante controllo sull’attività dei soggetti delegati,<br />
che solamente coloro che si collocano al vertice della piramide aziendale<br />
grazie alla propria posizione possono effettuare( 79 ).<br />
In secondo luogo, e da un punto di vista tecnico-formale, come si è già<br />
avuto modo di accennare( 80 ), in presenza di una effettiva delega di funzioni<br />
non sembra mutare il contenuto dell’originario obbligo di garanzia di cui<br />
è titolare il delegante, quanto piuttosto quello del dovere di diligenza alla<br />
stregua del quale deve essere valutato l’adempimento del delegante.<br />
Questa ricostruzione sembra, peraltro, trovare conferma anche nell’atteggiamento<br />
della giurisprudenza che è ben lungi dal riconosce efficacia<br />
pienamente liberatoria alla delega di funzioni( 81 ). In effetti, sia nel settore<br />
della sicurezza del lavoro( 82 ) che in quello degli illeciti ambientali( 83 ) come<br />
in quello del diritto tributario (nel vigore della Legge 516/1982) ( 84 ) se, da<br />
un lato, in presenza di una serie di requisiti la giurisprudenza attribuisce<br />
rilevanza alla delega di funzioni, dall’altro lato, tende anche ad affermare<br />
che il delegante rimane comunque titolare non solo di un dovere di controllo<br />
o di vigilanza sull’attività o inattività del delegato ma anche di un dovere<br />
di intervento qualora sia venuto a conoscenza delle inadempienze del<br />
delegato( 85 ).<br />
Peraltro, alla delega di funzioni si potrebbe essere portati ad attribuire<br />
( 79 ) Cfr. A. Alessandri, voce Impresa (responsabilità penali), cit., pp. 213-214.<br />
( 80 ) Vedi retro §5.<br />
( 81 ) In questo senso v. Cass. pen., sez. IV, 11 giugno 2003, Bevilacqua, in Giuda dir.,<br />
fasc. 37, p. 77; Cass. pen., 16 ottobre 2000, Colombo, in Dir. pen. proc., 2001, p. 335; Cass.<br />
pen., 29 settembre 2000, Bertani, in Guida dir., 2001, fas. 2, pp. 88-89; Cass. pen., sez. III, 3<br />
dicembre 1999, Natali, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2000, p. 449, nonché ivi, 2003, p. 293; Cass.<br />
pen., 26 novembre 1996, Perilli, in Cass. pen., 1997, p. 3549; Cass. pen., sez. III., 1 agosto<br />
1995, Bruno, in Dir. prat. lav., 1995, n. 37, p. 2439; Cass. pen., sez. III, 14 luglio 1991, T., in<br />
Il fisc. 1991, p. 648; Cass. pen., sez. III, 9 gennaio 1991, B.E., in Il fisc. 1991, p. 3898; Cass.<br />
pen., sez. III, 24 maggio 1991, L.P., in Il fisc. 1991, p. 5432; Cass. pen., 17 ottobre 1989,<br />
Velo, in Cass. pen., 1991, p. 1459; Cass. pen., sez. IV, 2 giugno 1989, Tedeschi, in Riv.<br />
pen., 1990, p. 679, nonché inCass. pen. 1990, p. 1795.<br />
( 82 ) Cfr. Cass. pen., sez. IV, 11 giugno 2003, Bevilacqua, in Giuda dir., fasc. 37, p. 77;<br />
Cass. pen., 16 ottobre 2000, Colombo, in Dir. pen. proc. 2001, p. 335; Cass. pen., 29 settembre<br />
2000, Bertani, in Guida dir., 2001, fasc. 2, p. 89; Cass. pen., 26 novembre 1996, Perilli, in<br />
Cass. pen., 1997, p. 3549; Cass. pen., 1 agosto 1995, Bruno, in Dir.prat.lav. 1995, n. 37, p.<br />
2439; Cass. pen., sez. IV, 2 giugno 1989, Tedeschi, in Riv. pen., 1990, p. 679, nonché in<br />
Cass. pen., 1990, p. 1795; Cass. pen., 17 ottobre 1989, Velo, in Cass. pen., 1991, p. 1459.<br />
( 83 ) Cfr. Cass. pen. sez. III, 3 dicembre 1999, Natali, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2000, p.<br />
449, nonché ivi, 2003, p. 293.<br />
( 84 ) Cfr. Cass. pen., sez. III, 14 luglio 1991, T., in Il fisc. 1991, p. 648; Cass. pen., sez.<br />
III, 9 gennaio 1991, B. E., in Il fisc. 1991, p. 3898; Cass. pen., sez. III, 24 maggio 1991, L.P.,<br />
in Il fisc. 1991, p. 5432.<br />
( 85 ) Cfr. D. Pulitanò, voce Igiene e sicurezza, cit., p. 107-108; P. Aldrovandi,<br />
Orientamenti dottrinali, cit., p. 707; M. Mantovani, Il principio di affidamento, cit., p.<br />
275 ss., che afferma come « ... la (ri)emersione di una responsabilità penale – a titolo con-
300<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
efficacia liberatoria quantomeno in quei casi, che la dottrina francese definisce<br />
di ‘‘designation primaire de responsable’’( 86 ), in cui la delega di funzioni<br />
avviene nei confronti di un soggetto non solo nominativamente individuato<br />
dal legislatore ma i cui poteri sono stati predefiniti analiticamente dalla legge.<br />
In questi casi, dal momento che il contenuto della posizione di garanzia del<br />
delegato è predefinita dal legislatore, la delega potrebbe svolgere efficacia<br />
costitutiva sul versante della responsabilità del delegante. Così, ad esempio,<br />
si pensi all’art. 19 del D.lgs. 626/1994 che fissa in modo espresso i poteri del<br />
responsabile della sicurezza, e all’art. 6, comma 1, del D.lgs. 496/1996 che<br />
esonera il committente dagli obblighi trasferiti al responsabile dei lavori in<br />
quanto i suoi poteri sono stati predeterminati dalla legge.<br />
Sennonché, a ben vedere, in casi come questi in cui i la ripartizione dei<br />
poteri e degli obblighi penalmente rilevanti non è effettuata dal delegante<br />
attraverso la delega di funzioni ma dalla legge, poiché non ci sono poteri da<br />
trasferire non sembra si possa parlare di delega di funzioni in senso proprio,<br />
quanto piuttosto di atto di nomina idoneo ad individuare i soggetti<br />
responsabili che l’ordinamento ha costituito garanti a titolo originario dell’adempimento<br />
di obblighi penalmente rilevanti( 87 ).<br />
Orbene, se alla delega di funzioni propriamente intesa, non è possibile<br />
riconoscere rilevanza liberatoria di responsabilità occorre però attribuirle<br />
piena efficacia sul piano della colpevolezza. In effetti, la compatibilità<br />
con il principio di personalità della responsabilità sancito dall’art. 27 della<br />
Costituzione dei reati propri che limitano il novero dei soggetti attivi del<br />
reato in funzione del ‘‘ruolo’’ ricoperto nell’ambito delle organizzazioni<br />
complesse è assicurato, da un lato, dal riconoscimento ai soggetti costituiti<br />
garanti dell’adempimento degli obblighi penalmente sanzionati della possibilità<br />
di avvalersi della delega di funzioni per il loro adempimento; e dall’altro<br />
lato, dalla corretta applicazione dei criteri di imputazione soggettiva,<br />
in particolare sotto il profilo della colpa( 88 ).<br />
Dunque, in presenza di una delega di funzioni effettivamente rilasciata<br />
dal delegante, in caso di inadempimento degli obblighi delegati, la sua re-<br />
corsuale – del datore di lavoro in relazione alle violazioni poste in essere dal dirigente nell’espletamento<br />
delle mansioni affidategli e delle quali il primo sia venuto a conoscenza, attesta,<br />
inequivocabilmente, come la distribuzione a tale categoria di obbligati di specifici compiti<br />
in materia di sicurezza del lavoro non importa, contro quanto viceversa sostenuto dall’indirizzo<br />
funzionalista, un’efficacia liberatoria tout court del dante incarico in ordine<br />
all’inosservanza degli obblighi connessi alle mansioni devolute al dirigente»; T. Vitarelli,<br />
Le responsabilità, inLe deleghe di poteri, cit., p. 43-44.<br />
( 86 ) Cfr. M. Catala, Notion de Délégation: formes, conditions, limites et cas, in La responsabilité<br />
des chefs d’enterprise en matiere d’hygiene et de securité du travail, JCP, 1976, p.<br />
161.<br />
( 87 ) Cfr. G. Morgante, Le posizioni di garanzia, cit., p. 108.<br />
( 88 ) Cfr. D. Pulitanò, voce Igiene e sicurezza, cit., p. 107.
STUDI E RASSEGNE<br />
301<br />
sponsabilità colposa, sotto il profilo della culpa in eligendo e in vigilando,<br />
andrà accertata non solo avendo riguardo alle dimensioni dell’impresa e alla<br />
ragionevolezza dell’affidamento degli obblighi ad un determinato delegato,<br />
ma anche agli oggettivi rapporti tra gli adempimenti richiesti al delegato<br />
e la sua posizione all’interno dell’organizzazione complessa, e alle effettive<br />
possibilità di rendersi conto degli inadempimenti del delegato.<br />
Da questo punto di vista, non sembra condivisibile l’orientamento<br />
della giurisprudenza( 89 ) che, pur attribuendo in astratto alla delega di<br />
funzioni efficacia scusante, in concreto, ancorando la colpa a criteri spesso<br />
irrealistici ed eccessivamente rigidi tali da ingenerare vere e proprie presunzioni<br />
di colpa, finisce per dar luogo a ipotesi di responsabilità oggettiva(<br />
90 ). In particolare, l’affermazione della sussistenza della culpa in vigilando<br />
del delegante sull’operato del delegato, da un lato, non si può fondare<br />
sul fatto che il delegante ‘‘non poteva non rendersi conto’’ della inidoneità<br />
tecnica o delle omissioni del delegato, ma deve trovare riscontro<br />
in elementi probatori, dei quali è necessario dar conto nelle motivazioni<br />
delle sentenze, dai quali sia possibile desumere che il delegante non era<br />
legittimato a fare affidamento sulle capacità e sul rispetto degli obblighi<br />
all’adempimento dei quali il delegato si è impegnato con l’accettazione<br />
della delega( 91 ). Dall’altro lato, la sussistenza della colpa non si può fondare<br />
sul riconoscimento in capo al delegante di un dovere di vigilanza sulla<br />
condotta del delegato di una tale pregnanza da comportare anche<br />
adempimenti di carattere tecnico( 92 ).<br />
Passando ad analizzare gli effetti della delega di funzioni nei confronti<br />
del delegato, sembra possibile riconoscere alla delega di funzioni l’attitudine<br />
a costituire in capo al delegato un obbligo di attivarsi rilevante direttamente<br />
ai sensi della norma che configura il reato proprio che si va ad ag-<br />
( 89 ) Cfr. Cass. pen., sez. III, 14 luglio 1991, T., in Il fisc. 1991, p. 648; Cass. pen., sez.<br />
III, 9 gennaio 1991, B.E., in Il fisc. 1991, p. 3898 ; Cass. pen., sez. III, 31 gennaio 1984,<br />
Gurschler, in Riv. pen. 1984, p. 986; Cass.pen., sez. III, 17 ottobre 1984, Mannocci, in Cass.pen.<br />
1986, p. 581; Tribunale di Milano, sez. IV, 13 ottobre 1999, in Riv. it. dir. proc. pen.,<br />
2001, p. 1048 ss. (con nota critica di A. Petrozzi, Colpevolezza o solvibilità: quale criterio<br />
per la responsabilità del delegante?, inRiv. it. dir. proc. pen., 2001, p. 1052 ss.)<br />
( 90 ) Mette in evidenza questo aspetto, con riferimento al settore dei reati tributari (nel<br />
vigore della L. 516/1982), P. Aldrovandi, I profili evolutivi dell’illecito tributario, cit.,<br />
p.121; Id., Concorso nel reato colposo, cit., p. 140; Id., Orientamenti dottrinali, cit., pp.<br />
711-712.<br />
( 91 ) Cfr. M. Mantovani, Il principio di affidamento, cit., p.359 ss. che afferma come<br />
nella ripartizione delle responsabilità tra delegante e delegato a guidare deve essere il c.d.<br />
principio di affidamento, in base al quale il delegante può confidare nella condotta diligente<br />
del delegato almeno fino a quando non acquisisce la effettiva conoscenza dell’inadempimento<br />
del delegato oppure di situazioni dalle quali è dato desumere, con alta probabilità, l’esistenza<br />
delle violazioni stesse.<br />
( 92 ) Cfr. Tribunale di Milano, sez. IV, 13 ottobre 1999, cit., p. 1048 ss.
302<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
giungere a quello di cui è titolare il delegante( 93 ). In effetti, con la delega di<br />
funzioni il titolare della qualifica soggettiva (intraneo) costituisce in capo al<br />
delegato una nuova posizione di garanzia e una nuova qualifica soggettiva<br />
che si vanno ad aggiungere a quelle di cui è titolare il delegante in via primaria(<br />
94 ). In sostanza, per effetto della delega di funzioni il delegato, nell’ambito<br />
e nei limiti delle attribuzioni delegate, assume il ruolo di garante<br />
degli interessi tutelati dalla norma che configura il reato proprio e quindi<br />
anche la medesima qualifica soggettiva del delegate( 95 ).<br />
Dal punto di vista pratico-applicativo, come si è già avuto modo di accennare(<br />
96 ), il riconoscimento della possibilità di costituire attraverso la delega<br />
di funzioni nuove qualifiche soggettive e posizioni di garanzia che si<br />
vanno ad aggiungere a quella del delegante comporta che la responsabilità<br />
del delegato possa essere affermata direttamente ai sensi della fattispecie<br />
monosoggettiva propria e non attraverso il ricorso allo schema del concorso<br />
dell’extraneus nel reato proprio che pare difficilmente configurabile( 97 ).<br />
In effetti, in assenza di un contributo materiale alla realizzazione del reato<br />
proprio omissivo del delegante la responsabilità concorsuale del delegato<br />
non sembra si possa affermare in base allo schema del concorso mediante<br />
omissione( 98 ). Infatti, se, da un lato, non ci sono dubbi sul fatto che l’obbligo<br />
di garanzia finalizzato all’impedimento del reato altrui può discendere<br />
anche da un atto di autonomia privata come è appunto la delega di fun-<br />
( 93 ) In questo ordine di idee si pone, ad esempio, P. Aldrovandi, Concorso nel reato<br />
colposo, cit., p. 137, che rileva come sia oltremodo difficile rinvenire nel settore della sicurezza<br />
del lavoro pronunce giurisprudenziali in cui si è affermata la responsabilità del delegato<br />
facendo riferimento allo schema del concorso dell’extraneus nel reato proprio. Nella generalità<br />
dei casi l’affermazione della responsabilità del delegato avviene a titolo monosoggettivo<br />
sulla base delle norme che configurano il reato proprio.<br />
( 94 ) Cfr. G. Morgante, Le posizioni di garanzia, cit., p. 107; A. Gargani, Ubi culpa,<br />
cit., p. 522; Id., Sulla successione, cit., p. 911.<br />
( 95 ) Cfr. C. Pedrazzi, Profili problematici, cit., pp. 141-142; A. Alessandri, voce Impresa<br />
(responsabilità penali), cit., p. 213 secondo il quale se non si attribuisse alla delega di<br />
funzioni l’idoneità a costituire una aggiuntiva posizione di garanzia e una ulteriore qualifica<br />
soggettiva in capo al delegato «...si verrebbe a negare la premessa normativa e fattuale della<br />
delega, per farla rifluire in un mero incarico di esecuzione, disattendendo quella colorazione<br />
di autonomia che rappresenta la ragione stessa del fenomeno, sia nel vivo dell’organizzazione<br />
sia sul fronte delle esigenze di tutela.».<br />
( 96 ) Vedi retro § 5.<br />
( 97 ) Cfr. C. Pedrazzi, Profili problematici, cit., p. 142 e nota 50.<br />
( 98 ) In senso contrario si è espressa, invece, una parte delle giurisprudenza che, nel settore<br />
dei reati tributari sotto la vigenza della legge n. 516 del 1982, con riferimento alle fattispecie<br />
proprie di pura omissione che caratterizzavano la disciplina degli illeciti tributari prima<br />
dell’entrata in vigore del D.lgs. 74/2000, da un lato, escludeva che il delegato potesse<br />
divenire titolare dell’obbligo di attivarsi rilevante ai sensi della fattispecie (propria) omissiva<br />
propria, e dall’altro lato, individuava in capo allo stesso un obbligo di impedimento del reato<br />
del delegante rilevante ai sensi dell’art. 40 cpv. c.p.: ad esempio, v. Cass.pen., sez. III, 9 gennaio<br />
1991, B.E., in Il fisc. 1991, p. 3898.
STUDI E RASSEGNE<br />
303<br />
zioni, dall’altro lato, l’impegno assunto dal delegato di attivarsi per l’impedimento<br />
dei reati del delegante non sembra che possa assumere rilevanza ai<br />
sensi dell’art. 40 cpv. c.p. per la mancanza di un correlativo vero e proprio<br />
potere giuridico di impedimento del reato del delegante( 99 ).<br />
Sennonché, si potrebbe essere portati a pensare di limitare l’efficacia<br />
‘‘costitutiva’’ della delega di funzioni ai soli reati propri che sanzionano<br />
la violazione di un’‘‘obbligazione di risultato’’, e ad escluderla invece con<br />
riferimento a quelli che sanzionano la violazione di un obbligo di tipo eminentemente<br />
personale che, essendo reati propri c.d. di mano propria( 100 ),<br />
non ammettono l’esecuzione per via mediata( 101 ).<br />
Tuttavia, a ben vedere, la natura personale degli obblighi di attivarsi<br />
se, da un lato, costituisce un valido motivo per escludere alla delega efficacia<br />
liberatoria sul versante della responsabilità del delegante, dall’altro<br />
lato, non sembra possa essere di ostacolo al riconoscimento alla delega<br />
di funzioni dell’attitudine a costituire nuove posizioni di obbligo che si<br />
vanno a cumulare con quelle del destinatario primario del dovere di attivarsi(<br />
102 ). Infatti, per effetto della delega di funzioni il delegato non solo<br />
acquista un obbligo di attivarsi che si va ad aggiungere a quello di cui è<br />
titolare il delegante ma anche la titolarità della qualifica soggettiva e con<br />
questa la legittimazione al reato proprio. Pertanto, non si verifica quella<br />
sfasatura tra titolarità della qualifica soggettiva e esecuzione della condotta<br />
tipica che impedisce la realizzazione del disvalore dei reati propri di c.d.<br />
mano propria.<br />
8. Modelli, condizioni di efficacia e onere probatorio della delega di funzioni.<br />
– Il tema della c.d. delega di funzioni nelle organizzazioni complesse<br />
nella prassi giurisprudenziale viene affrontato non tanto avendo riguardo al<br />
profilo dogmatico della sua natura ed efficacia, quanto piuttosto attraverso<br />
l’analisi dei c.d. ‘‘requisiti’’ di validità( 103 ). In effetti, la giurisprudenza al di<br />
( 99 ) Vedi retro § 5.<br />
( 100 ) Sui reati di mano propria o di attuazione personale cfr. R. A. Frosali, Il concorso<br />
di persone, cit., p. 29 ss.; S. Seminara, Tecniche normative, cit., p. 381 ss.; M. Romano,<br />
Commentario sistematico del codice penale, I, cit., p. 348; M. Pelissero, Consapevolezza della<br />
qualifica dell’intraneus e dominio finalistico sul fatto nella disciplina del mutamento del titolo<br />
di reato,inRiv. it. dir. proc. pen., 1996, p. 347; G. P. De Muro, Il bene giuridico proprio,<br />
cit., p. 855 ss.; A. Gullo, Il reato, cit., p. 58 ss. Nella dottrina tedesca v. H.H. Jescheck,T.<br />
Weigend, Lehrbuch, cit., 266; C. Roxin, Autoría y dominio del hecho en derecho penal, Barcellona,<br />
2000, p. 434 ss.<br />
( 101 ) Cfr. C. Pedrazzi, Profili problematici, cit., p. 141 ss.<br />
( 102 ) In quest’ordine di idee si colloca anche P. Aldrovandi, Concorso nel reato colposo,<br />
cit., p. 158.<br />
( 103 ) Sulle condizioni di ‘‘validità’’ della delega di funzioni in giurisprudenza, tra le tante,<br />
v. Cass. pen., sez. VI, 13 ottobre 2000, Colombo, in Dir. pen. proc. 2001, p. 335; Cass.<br />
pen., sez. III, 3 dicembre 1999, Natali, cit., p. 293; Cass. pen., sez. III, 23 settembre
304<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
là di apodittiche affermazioni circa la permanenza o meno della responsabilità<br />
del delegante, si limita ad individuare una serie di requisiti finalizzati<br />
ad evitare, da un lato, di ricondurre sempre e comunque la responsabilità<br />
penale al soggetto in possesso della qualità soggettiva e titolare dell’obbligo<br />
penalmente sanzionato e, dall’altro lato, di modificare i modelli di responsabilità<br />
prefigurati dal legislatore.<br />
In particolare, tra i requisiti che la giurisprudenza, attraverso un processo<br />
di progressiva stratificazione, è giunta a porre a fondamento della<br />
validità della delega di funzioni, viene, anzitutto, in considerazione la complessità<br />
organizzativa dell’impresa( 104 ). Più precisamente, si ritiene che<br />
per potersi ricorrere alla delega di funzioni occorre che l’impresa abbia<br />
una complessità organizzativa o comunque delle dimensioni tali da impedire<br />
o rendere troppo difficoltoso al garante originario l’adempimento degli<br />
obblighi penalmente rilevanti. In secondo luogo, affinché la delega possa<br />
essere considerata vera ed effettiva, si richiede che la divisione delle<br />
mansioni avvenga in base a precise norme interne all’organizzazione dell’impresa(<br />
105 ), che si cristallizzi in un atto avente forma scritta( 106 ), che<br />
il delegante non si sia ingerito nella gestione delle competenze del delega-<br />
1997, Prato, in Foro it. 1998, II, p. 247 ss.; Cass. pen., sez. III, 27 luglio 1995, Gentili, Dir.<br />
prat. lav. 1995, p. 2439; Cass. pen., sez. IV, 4 ottobre 1989, Bolzoni, in Riv. pen., 1990, p.<br />
984; Cass. pen., Sez. III, 1 ottobre 1980, Fabbri, in Cass. pen. Mass. ann., 1982, p. 364; Cass.<br />
pen., Sez. IV, 6 aprile 1978, Bortoluzzi, in Cass. pen. Mass. ann. ,1980, p. 234; Cass. pen.,<br />
Sez. III, 22 maggio 1975, Campobasso, in Cass. pen. Mass. Ann., 1977, p. 238. In dottrina,<br />
tra gli altri, v. M. Giarrusso, Orientamenti dottrinali ed evoluzione giurisprudenziale sui problemi<br />
della responsabilità nell’esercizio dell’impresa e sull’efficacia della delega di funzioni, cit.,<br />
p. 2044.<br />
( 104 ) Cfr., ad es., Cass. pen., sez. III, 3 dicembre 1999, Natali, cit., p. 293; Cass.<br />
pen., sez. III, 23 aprile 1996, Zanoni, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1997, p. 1006; Cass.<br />
pen., sez. III, 31 agosto 1993, Robba, in Riv. trim dir. pen. ec., 1994, p. 315; Cass.<br />
pen., sez. III, 3 marzo 1992, Veronesi, in Riv. giur. ed., I, p. 700; Cass. pen., sez. VI,<br />
22 gennaio 1983, Zanelli, in Cass. pen. mass. ann., 1984, p. 531; Cass. pen., sez. IV,<br />
23 aprile 1981, Larcher, in Mass. giur. del lav. 1982, p. 851; Cass. pen., sez. III, 1 ottobre<br />
1980, Fabbri, in Cass. pen., 1982, p. 364; Cass. pen., sez. III, 22 maggio 1975, Campobasso,<br />
in Cass. pen. mass. ann. 1977, p. 238; Cass. pen., sez. II, 21 aprile 1975, Bergamaschi,<br />
in Cass. pen. mass. ann. 1976, p. 1019; Cass. pen., sez. III, 6 febbraio 1975, Gilardi,<br />
in Cass. pen. 1976, p. 625.<br />
( 105 ) Cfr., ad es., Cass.pen., sez. VI, 13 ottobre 2000, Colombo, in Dir. pen. proc. 2001,<br />
p. 335; Cass. pen., sez. VI, 20 febbraio 1980, Fabbri, cit.; Cass. pen., sez. IV, 25 giugno<br />
1979, Tini, in Cass. pen., 1980, p. 144; Cass. pen., sez. II, 2 febbraio 1976, Lebole, in Cass.<br />
pen., 1977, p.1025.<br />
( 106 ) Cfr., ad. es., Cass. pen., sez. III, 3 dicembre 1999, Natali, cit., 293; Cass. pen.,<br />
sez. IV, 27 gennaio 1994, Cassarà, in Cass. pen., 1996, p. 1270 (con nota di F. Bellagamba,<br />
Sulla responsabilità penale nella delega di funzioni, cit., p. 1272 ss.); Cass. pen., sez. IV, 23<br />
marzo 1987, Dechigi, in Mass. giur. del lav. 1988, p. 728 e in Zavalloni Bonaretti, Delegabilità<br />
della responsabilità penale ed amministrativa nell’ambito dell’impresa, Milano, 1991, p. 104<br />
ss.; Cass. pen., 14 febbraio 1986, Cancarini, in Mass. Giur. del lav. 1986, p. 672.
STUDI E RASSEGNE<br />
305<br />
to( 107 ), e che quest’ultimo sia dotato di una autonomia decisionale e di<br />
spesa( 108 ). Inoltre, la validità del trasferimento di funzioni viene subordinata<br />
al fatto che il delegato sia in possesso di una specifica idoneità tecnico-professionale<br />
all’adempimento degli obblighi delegati( 109 ), e al fatto<br />
che il delegante non sia venuto a conoscenza delle inadempienze del delegato(<br />
110 ).<br />
Orbene, se, da un lato, è comprensibile che la giurisprudenza non abbia<br />
fornito una soluzione al problema dogmatico della natura della delega<br />
di funzioni e si sia limitata a fissarne i requisiti di rilevanza; dall’altro lato, è<br />
altrettanto evidente come solamente dopo avere risolto la questione della<br />
natura del trasferimento di funzioni può porsi la successiva questione relativa<br />
ai requisiti di validità dello stesso( 111 ).<br />
In effetti, i c.d. requisiti di validità della delega di funzioni enucleati<br />
dalla giurisprudenza sembrano assumere rilevanza diversa a seconda del<br />
modello di delega dal quale si muove. Ed infatti, se si muove dal modello<br />
di delega di funzioni proposto dai funzionalisti, che riconosce alla delega<br />
efficacia sul piano oggettivo, a ben vedere, solamente alcuni dei requisiti<br />
enucleati dalla giurisprudenza sembrano assumere rilevanza. Infatti, in<br />
una prospettiva oggettivistica ciò che conta è che il trasferimento di funzioni<br />
si sia realizzato effettivamente, e cioè che al delegato siano stati trasferiti<br />
validamente i poteri giuridici consentanei all’adempimento degli obblighi<br />
penalmente rilevanti trasferiti. Da questo punto di vista, gli unici requisiti<br />
della delega di funzioni che possono assumere rilevanza sembrano essere<br />
quelli necessari al passaggio delle funzioni penalmente rilevanti (poteri e<br />
doveri giuridici) dal delegante al delegato. Così, ad esempio, mentre il requisito<br />
della adeguatezza tecnico-professionale del delegato e quello della<br />
autonomia decisionale e di spesa sembrano necessari ai fini del passaggio<br />
delle funzioni dal delegante al delegato, sia il requisito della complessità organizzativa<br />
dell’impresa sia il fatto che il delegante sia venuto a conoscenza<br />
( 107 ) Cfr. Cass. pen., sez. II, 3 agosto 2000, Biadene, in Riv. trim. dir. pen. ec. 2001,<br />
p. 960.<br />
( 108 ) Cfr., ad es., Cass. pen., sez. III, 27 luglio 1995, Gentili, in Dir. prat. del lav. 1995,<br />
p. 2439; Cass. pen., sez. III, 15 luglio 1994, Galvagno, in Dir. prat. del lav. 1994, p. 2547.<br />
( 109 ) La giurisprudenza è costante nel richiedere l’idoneità tecnico-professionale del<br />
delegato a svolgere le mansioni che gli vengono delegate v., ad es., Cass.pen., sez. III, 3 dicembre<br />
1999, Natali, cit., p. 293; Cass. pen., sez. III, 21 giugno 1985, Signorino, in Giust.<br />
pen., 1986, II, c. 704; Cass. pen., Sez. III., 1 ottobre 1980, Fabbri, cit., p. 364; Cass.<br />
pen., sez. IV, 30 settembre 1977, Sacchi, in Cass. pen., 1979, p. 969; Cass. pen., sez. IV,<br />
14 febbraio 1978, D’Andrea, in Cass. pen. mass. ann., 1979, p. 714.<br />
( 110 ) Cfr., ad es., Cass. pen., sez. IV, 2 giugno 1989, Tedeschi, in Riv. pen., 1990, p.<br />
679, nonché inCass. pen., 1990, p. 1795.<br />
( 111 ) Cfr. T. Padovani, Diritto penale del lavoro, cit., p. 63 ss.; A. Alessandri, voce<br />
Impresa (responsabilità penali), cit., p. 210.
306<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
delle inadempienze del delegato non sembrano in grado di assumere rilevanza(<br />
112 ).<br />
Al contrario, se ci si muove in una prospettiva rigorosamente soggettivistica,<br />
e si limita la rilevanza della delega di funzioni al piano della colpevolezza,<br />
quasi tutti i requisiti enucleati dalla giurisprudenza sembrano assumere<br />
rilevanza: da quelli della adeguatezza tecnico-professionale del delegato<br />
e della sua autonomia decisionale e di spesa, a quelli della mancata<br />
ingerenza e della mancata conoscenza delle inadempienze del delegato. Ma<br />
anche il requisito della complessità organizzativa dell’impresa è suscettibile<br />
di assumere rilevanza ai fini del giudizio sulla colpevolezza del delegante<br />
almeno sotto due diversi profili. Da un lato, il requisito in parola assume<br />
rilevanza per stabilire se la delega di funzioni è necessaria ai fini dell’adempimento<br />
degli obblighi penalmente rilevanti di cui è titolare il delegante. In<br />
effetti, nella prospettiva soggettivistica, la delega di funzioni potrà assumere<br />
rilevanza come causa di esclusione della colpevolezza nelle ipotesi in cui<br />
la complessità o le dimensioni dell’organizzazione dell’impresa rendono<br />
impossibile o particolarmente difficoltoso per il delegante l’adempimento<br />
personale dell’obbligo di agire. Più difficilmente, la delega di funzioni potrà<br />
assumere rilevanza come causa di esclusione della colpevolezza del delegante<br />
nei casi in cui le dimensioni dell’azienda e la natura dell’organizzazione<br />
sono tali da consentire al delegante di adempiere agevolmente ai propri<br />
obblighi (si pensi, ad esempio, ad una impresa individuale con un solo<br />
dipendente). Dall’altro lato, la complessità e le dimensioni dell’impresa assumono<br />
rilevanza ai fini della valutazione del grado di diligenza esigibile<br />
nel controllo sull’operato del delegato, in quanto in una impresa di grandi<br />
dimensioni non è possibile esigere dall’imprenditore lo stesso controllo sull’attività<br />
del delegato, che invece è doveroso attendersi in imprese di più<br />
piccole dimensioni( 113 ).<br />
Tuttavia, va osservato come alcuni dei requisiti della delega di funzioni<br />
individuati dalla giurisprudenza sembrano difficilmente collocabili sia nella<br />
prospettiva oggettivistica che in quella soggettivistica. In particolare, si allude<br />
ad alcuni requisiti, comunemente considerati dalla giurisprudenza come<br />
afferenti al piano della effettività della delega di funzioni, che tutt’ al<br />
più sembrano potere attenere al piano probatorio. Così, ad esempio, in alcuni<br />
casi la giurisprudenza ha ritenuto necessario ai fini della validità della<br />
delega di funzioni non solo il fatto che essa debba trovare riscontro nelle<br />
norme interne dell’impresa ma anche il fatto che sia conferita in forma<br />
scritta( 114 ). Ebbene, il requisito della forma scritta della delega di funzioni<br />
( 112 ) Cfr. A. Fiorella, I principi, cit., p. 104 ss.<br />
( 113 ) Cfr. T.Padovani, Diritto penale del lavoro, cit., p. 63.<br />
( 114 ) Cfr. Cass. pen., sez. IV, 27 gennaio 1994, Cassarà, in Cass. pen., 1996, p. 1270<br />
(con nota di F. Bellagamba, Sulla responsabilità penale nella delega di funzioni, cit., p.
STUDI E RASSEGNE<br />
307<br />
potrebbe assumere rilevanza ai fini della validità della delega solamente nei<br />
casi in cui da essa dipenda la costituzione in capo al delegato dei poteri e<br />
dei doveri giuridici delegati( 115 ), in tutti gli altri casi l’unica rilevanza che<br />
può assumere sembra essere sul piano probatorio.<br />
A proposito del profilo probatorio, va osservato come la soluzione<br />
della questione della natura ed efficacia della delega di funzioni sembra<br />
pregiudiziale anche rispetto a quella della ripartizione dell’onere probatorio<br />
della delega di funzioni e dei suoi requisiti.<br />
Ed infatti, se si muove dall’impostazione funzionalista, dal momento<br />
che con la delega di funzioni il delegante trasferisce al delegato la qualifica<br />
soggettiva che legittima al reato proprio, non spetterà al delegante l’onere<br />
di provare l’esistenza della delega di funzioni e dei suoi presupposti di validità<br />
bensì al P.M., sul quale grava l’onere della prova degli elementi costituitivi<br />
del reato( 116 ).<br />
In una prospettiva soggettivistica, invece, dal momento che la delega di<br />
funzioni non assume rilevanza ai fini della cessione della qualifica soggettiva<br />
dal delegante al delegato ma come modalità di adempimento degli obblighi<br />
penalmente rilevanti di cui il delegante è garante in modo originario, sarà<br />
quest’ultimo a dovere dimostrare di avere adempiuto attraverso il conferimento<br />
della delega di funzioni, la cui esistenza dovrà essere dimostrata in<br />
modo rigoroso ma comunque utilizzando tutti i mezzi di prova ammessi<br />
nel processo penale. Da questo punto di vista, non può essere condiviso l’orientamento<br />
giurisprudenziale che richiede che la esistenza della delega di<br />
funzioni debba essere provata per iscritto( 117 ) o addirittura attraverso forme<br />
di pubblicizzazione del trasferimento di funzioni quali, ad esempio, le<br />
annotazioni nello statuto della società( 118 ), in quanto nel processo penale,<br />
ai sensi degli artt. 192, 193 c.p.p., fermo rimanendo l’obbligo di motivazione,<br />
il giudice è libero di attribuire a ciascun elemento di prova la rilevanza<br />
probatoria che, in relazione al caso concreto, reputa più adeguata( 119 ).<br />
Una volta dimostrata l’esistenza della delega di funzioni, spetterà poi<br />
al P.M. nell’ambito dell’accertamento della colpevolezza fornire la prova<br />
della insussistenza dei c.d. requisiti di validità. In particolare, il P.M., ai fini<br />
dell’accertamento della colpevolezza del delegante, dovrà dimostrare, al di<br />
là di ogni ragionevole dubbio, che la delega di funzioni non era necessaria<br />
1272 ss.); Cass. pen., sez. IV, 23 marzo 1987, Dechigi, in Zavalloni Bonaretti, Delegabilità<br />
della responsabilità penale ed amministrativa nell’ambito dell’impresa, Milano, 1991, p.<br />
104 ss.; Cass. pen., sez. III, 14 febbraio 1986, Canarini, in Mass.Giur. del lav. 1986, p. 672.<br />
( 115 ) Cfr. A. Fiorella, I principi, cit., p. 115; M. Zalin, Efficacia della delega di funzioni,<br />
cit., p. 710.<br />
( 116 ) Cfr. A. Fiorella, I principi, cit., p. 124 ss.<br />
( 117 ) Cfr. nota n. 106.<br />
( 118 ) Cfr. Cass. pen., sez. III, 14 febbraio 1986, Canarini, cit. p. 672.<br />
( 119 ) Cfr. P. Tonini, Manuale di procedura penale, Milano, 2003, p. 194 ss.
308<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
in rapporto all’assetto organizzativo e alle dimensioni dell’impresa, che il<br />
delegato non era idoneo dal punto di vista tecnico-professionale all’adempimento<br />
degli obblighi delegati o che non era in possesso della necessaria<br />
autonomia gestionale e di spesa, che il delegante non aveva controllato in<br />
modo adeguato l’operato del delegato o che era consapevole delle sue violazioni.<br />
Francesco Cingari
STUDI E RASSEGNE<br />
SCHIAVITÙ E SERVITÙ NEL DIRITTO <strong>PENALE</strong> (*)( 1 )<br />
309<br />
Sommario: 1. L’art. 600 del codice penale: un testo nuovo e una vecchia questione. –<br />
2. Dottrina e giurisprudenza di fronte all’originario testo dell’art. 600 c.p. – 3. Il nuovo<br />
reato di ‘‘riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù’’. Struttura della norma. –<br />
4. La nozione di schiavitù. – 5. La nozione di servitù. – 6. Il bene giuridico protetto<br />
come criterio-guida dell’interpretazione. – 7. Considerazioni conclusive.<br />
1. L’art. 600 del codice penale: un testo nuovo e una vecchia questione.<br />
La legge 11 agosto 2003 n. 228 è intervenuta a riscrivere interamente<br />
l’art. 600 del codice penale quando la vecchia norma, dopo essere stata a<br />
lungo confinata fra le tante ‘‘lettere morte’’ del Codice Rocco, conosceva<br />
una stagione di feconda applicazione giurisprudenziale. Le poche, pesanti<br />
parole del vecchio testo punivano con la reclusione da cinque a quindici<br />
anni chiunque riducesse una persona in schiavitù o in condizione analoga<br />
alla schiavitù. La fattispecie astratta, e più specificamente la sub-fattispecie<br />
della riduzione in ‘‘condizione analoga’’ alla schiavitù (di gran lunga la più<br />
applicata), sembrava qualificare in modo calzante, e punire con adeguata<br />
severità, le più gravi fra le situazioni di sfruttamento lavorativo e sessuale<br />
prodotte, con crescente frequenza, dal caotico intensificarsi dei flussi migratori<br />
legati alla ‘‘globalizzazione’’ e all’implosione dell’Impero sovietico.<br />
L’art. 600, d’altronde, aveva resistito alle censure di legittimità costituzionale<br />
cui era stato sottoposto( 1 ), motivate dalla genericità della fattispecie<br />
(*) L’articolo, che si compone del contributo di entrambi gli autori, è stato redatto da<br />
Alessandro Giuseppe Cannevale quanto ai paragrafi 2.2.; 4.2; 5; 6.1.; 6.3; 6.4; 7, e da Chiara<br />
Lazzari quanto ai paragrafi 1; 2.1.; 3; 4.1.; 6.2; 6.5.<br />
( 1 ) Da ultimo, con la sentenza Cass., Sez. V, 6 dicembre 2000, Bali, in CED Cass., rv.<br />
218464, la Corte di Cassazione aveva ritenuto manifestamente infondata la questione, sollevata<br />
in rapporto all’art. 25, secondo comma, della Costituzione, per asserita violazione del<br />
principio di tassatività delle fattispecie incriminatrici, e all’art. 3, per la disparità di trattamento<br />
che si sarebbe prodotta a seguito della dichiarata illegittimità costituzionale dell’art.<br />
603 c.p. (Plagio). In precedenza, si consideri, Cass., Sez. V, 7 dicembre 1989, Iret Elmar,<br />
in Foro it., 1990, II, c. 369.
310<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
e dal richiamo all’analogia, e sembrava essersi stabilmente insediata fra le<br />
componenti vitali del sistema penale.<br />
Difficile, peraltro, sottrarsi al timore che le applicazioni concrete della<br />
norma fossero guidate da un pericoloso empirismo, che poteva indurre l’interprete<br />
a sovrapporre l’analisi sociologica alla qualificazione giuridica, e<br />
perfino spingerlo verso ‘‘pregiudiziali etniche’’, tali da rendere più agevole<br />
e tranquillizzante ravvisare la ‘‘condizione analoga alla schiavitù’’ nelle situazioni<br />
di sfruttamento delle quali si fossero resi responsabili soggetti provenienti<br />
dalle patrie delle ‘‘nuove mafie’’, e riservare contestazioni meno<br />
pesanti – quali lo sfruttamento della prostituzione aggravato dalla violenza,<br />
i delitti previsti dal testo unico sull’immigrazione o il sequestro di persona –<br />
alle pratiche di sfruttamento attuate da protagonisti nostrani( 2 ).<br />
Il rischio nasceva dalla difficoltà di individuare la ‘‘soglia’’ oltre la quale<br />
si producesse, per effetto di condotte di sfruttamento lavorativo o sessuale,<br />
quella particolare condizione della persona offesa che la norma incriminatrice<br />
non definiva, e quindi di tracciare il confine che separava i reati<br />
di sfruttamento della prostituzione, così come i reati contro l’incolumità e<br />
contro la libertà della persona, dall’ipotesi di riduzione in schiavitù. La labilità<br />
di questo confine era il più vistoso riflesso concreto delle questioni<br />
teoriche sollevate da chi lamentava l’incostituzionalità dell’art. 600.<br />
In sede di presentazione del disegno di legge, il rappresentante del<br />
Governo sottolineava in modo particolare l’esigenza di ridurre le ‘‘incertezze<br />
interpretative’’ cui aveva dato luogo la fattispecie di ‘‘riduzione in schiavitù’’<br />
prevista all’art. 600 c.p. e la ‘‘difficoltà di provare la sussistenza di uno<br />
stato di assoggettamento analogo alla schiavitù quando alla persona residui<br />
( 2 ) L’humus delle ‘‘nuove schiavitù’’ è indubbiamente rappresentato da condizioni socio-economiche<br />
e, in qualche caso, da tradizioni culturali estranee all’Italia (un’analisi aggiornata<br />
delle cause e delle caratteristiche attuali dei fenomeni migratori all’origine dei fenomeni<br />
di tratta e riduzione in schiavitù è stata condotta da L. De Ficchy, Gli stranieri autori e vittime<br />
del reato, inAtti dell’Incontro di Studi su tratta e fenomeni migratori organizzato dal<br />
C.S.M. a Roma, 9-10 ottobre 2003, inwww.cosmag.it, sito del Consiglio Superiore della Magistratura),<br />
ma è pur vero che la casistica impone un minimo di riflessione. Le sentenze della<br />
Suprema Corte che si sono espresse per la sussistenza del reato in concreto mostrano, quanto<br />
al nome degli imputati, un’impressionante sequenza di cognomi slavi e comunque cognomi<br />
stranieri. In senso opposto, basti pensare alla decisione di un giudice di merito (GUP Trib.<br />
Nuoro, 20 gennaio 1994, Aprile, in Riv. giur. sarda, 1995, p. 178) che, pur accedendo alla<br />
tesi della schiavitù come condizione di fatto, è pervenuto all’assoluzione di imputati che,<br />
avendo prelevato una ragazza tunisina dalla famiglia d’origine per farne la loro domestica,<br />
l’avevano – secondo quanto si legge nella ricostruzione del fatto – costantemente sottoposta<br />
a ogni genere di vessazione (gravi limitazioni alla libertà di movimento, privazione di ogni<br />
occasione di socializzazione e di qualsiasi contatto con la famiglia, ricorso a una serie continua<br />
e abituale di atti lesivi della sua integrità fisica e morale, della sua libertà e del suo decoro,<br />
sequenza di atti di disprezzo, di umiliazione e di asservimento), ripetutamente picchiata<br />
e costantemente lasciata scalza e indecorosamente vestita.
STUDI E RASSEGNE<br />
311<br />
un certo margine di autodeterminazione’’( 3 ). Si sottolineava in tal modo il<br />
pericolo di un’eccessiva compressione della sfera di applicazione della norma,<br />
rispetto all’esigenza di reprimere gravi fenomeni criminali con le sanzioni<br />
proprie dei delitti contro la personalità individuale, ma è evidente che<br />
nell’interpretare un’espressione generica si può eccedere anche nella direzione<br />
opposta.<br />
In effetti, l’attuale quadro normativo sembra totalmente diverso dal<br />
precedente, anche se la condizione della persona offesa continua a caratterizzare<br />
il reato di cui al novellato art. 600 c.p. Tale condizione è oggi definita<br />
‘‘schiavitù o servitù’’, e alla condotta di ‘‘riduzione’’ in schiavitù o servitù<br />
si è aggiunta quella di ‘‘mantenimento’’, ma la differenza fondamentale<br />
è che il legislatore non ha lasciato all’interprete il compito di definire la nozione<br />
di schiavitù o servitù, ma ha anzi prodotto un notevole sforzo di ‘‘tipizzazione’’<br />
delle condotte illecite, percepibile anche dal grossolano confronto<br />
‘‘quantitativo’’ fra il nuovo testo e la scarna norma abrogata.<br />
Nonostante queste differenze, e nonostante questo sforzo di sostenere<br />
l’opera dell’interprete attraverso cardini testuali meglio definiti, un’analisi<br />
appena approfondita delle nuove fattispecie mostra margini di indeterminatezza<br />
non meno preoccupanti di quelli che affliggevano la norma preesistente.<br />
In questa poco confortante situazione, le indicazioni interpretative<br />
desumibili dalla collocazione sistematica della norma e dalla considerazione<br />
del bene giuridico protetto appaiono essenziali per definire un ubi consistam<br />
concettuale, utile a valutare se le concrete situazioni di assoggettamento<br />
che l’interprete si troverà a valutare siano qualificabili come ‘‘schiavitù’’<br />
o ‘‘servitù’’ e quindi punibili con le severe sanzioni previste dall’art. 600. Il<br />
che è quanto dire che ancora oggi, così come accadeva prima della novella<br />
del 2003, per le nozioni di ‘‘schiavitù’’ e di ‘‘condizione analoga alla schiavitù’’,<br />
le nozioni di ‘‘schiavitù’’ e ‘‘servitù’’ vanno ricostruite sulla base di<br />
dati estranei al testo dell’art. 600.<br />
2. Dottrina e giurisprudenza di fronte all’originario testo dell’art. 600 c.p.<br />
2.1. Se, dunque, la nuova legge pone problemi vecchi, sarà utile ricordare<br />
quale fosse lo ‘‘stato dell’arte’’ ermeneutica all’atto dell’intervento innovatore.<br />
Il quale peraltro, almeno in parte, è modellato proprio sulla giurisprudenza<br />
formatasi con riguardo al vecchio testo.<br />
Il precedente art. 600 c.p. sanzionava la condotta di chiunque ‘‘riducesse’’<br />
una persona ‘‘in schiavitù, o in una condizione analoga alla schiavitù’’.<br />
Poiché per istituire un’analogia occorre aver chiaro il termine di para-<br />
( 3 ) Camera dei deputati, 18 settembre 2001, n. 1584.
312<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
gone, definire la ‘‘schiavitù’’ era essenziale per delimitare tanto la prima<br />
quanto la seconda ipotesi.<br />
Una prima questione era quella di scegliere a quale concetto fare riferimento(<br />
4 ). Escluso il diritto interno – che non conosceva la schiavitù –<br />
ed escluso il riferimento a una particolare disciplina positiva dell’istituto,<br />
tratta dal passato o magari dai residui, miseri ordinamenti schiavisti, per<br />
l’evidente arbitrarietà di una simile scelta( 5 ), non restava che scegliere se<br />
richiamarsi a una nozione socio-culturale di schiavitù, che individuasse il<br />
nucleo essenziale e immutabile dell’istituto, o ricavare la nozione dal diritto<br />
internazionale pattizio recepito dall’Italia, vale a dire dall’unico ramo<br />
dell’ordinamento al quale era possibile fare rinvio per conferire alla<br />
nozione un significato tecnico-giuridico di diritto positivo, così attribuendo<br />
alla nozione di schiavitù il carattere di elemento normativo della fattispecie(<br />
6 ).<br />
Il richiamo al diritto internazionale – e segnatamente alla Convenzione<br />
di Ginevra del 1926( 7 ) – s’impose fin dall’inizio, almeno con riguardo al<br />
concetto di schiavitù in senso stretto, non solo per la manifestata intenzione<br />
del legislatore( 8 ), ma anche per la difficoltà di cristallizzare una definizione<br />
certa e condivisa. Maggiori dissensi si registravano con riguardo alla nozione<br />
di ‘‘condizione analoga’’ alla schiavitù, secondo alcuni ricavabile dalla<br />
Convenzione del 1956( 9 ), e che altri individuavano invece in una situazione<br />
( 4 ) Cfr. F. Lemme, voce Schiavitù, inEnc. giur. (Treccani), vol. XXVIII, 1992, Torino,<br />
p. 1 nel senso indicato nel testo. Per l’opinione minoritaria si veda, G. Spagnolo, voce<br />
Schiavitù (dir. pen.), inEnc. dir., vol. XLI, 1989, p. 633 ss. Sulla medesima questione, con<br />
una rassegna delle diverse opinioni manifestatesi sull’argomento, si consideri, da ultimo,<br />
C. Negri, La tutela penale contro la tratta di persone, inG.Tinebra eA.Centoze (a cura<br />
di), Il traffico internazionale di persone, Milano, 2004, p. 222 ss.<br />
( 5 ) Per una rassegna delle differenze, anche notevoli, registratesi nella disciplina dell’istituto,<br />
v. G. Franciosi, voce Schiavitù (diritto romano), inEnc. dir., XLI, 1989, Torino, p.<br />
620 ss. e l’ampia biblografia ivi citata.<br />
( 6 ) Per l’applicazione di questo concetto all’art. 600, si confronti, C. Visconti, Riduzione<br />
in schiavitù: un passo avanti o due indietro delle Sezioni unite, inForo it., pt. II, c. 314<br />
ss. In giurisprudenza, si veda, Cass., Sez. V, 24 ottobre 1995, Senka, in CED Cass., rv.<br />
204369.<br />
( 7 ) La Convenzione di Ginevra sull’abolizione della schiavitù del 25 settembre 1926,<br />
resa esecutiva in Italia con R.D. 26 aprile 1928, n. 1723, all’art.1 qualifica la schiavitù come<br />
stato o condizione di un individuo sul quale si esercitano gli attributi della proprietà o taluni di<br />
essi.<br />
( 8 ) Relazione del Ministro guardasigilli sul progetto definitivo di un nuovo codice penale,<br />
in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, V, p. II, Roma, 1929,<br />
p. 409 ss.<br />
( 9 ) La Convenzione supplementare sulla schiavitù di Ginevra in data 7 settembre<br />
1956, ratificata e resa esecutiva in Italia con L. 20 dicembre 1957, n. 1304, parifica ad ogni<br />
effetto alla schiavitù talune condizioni tassativamente elencate: la servitù per debiti; il servaggio<br />
o servitù della gleba; le istituzioni e pratiche sociali che consentano: la vendita di una donna<br />
nubile come sposa anche in assenza del di lei consenso, la cessione di una donna a un terzo a
STUDI E RASSEGNE<br />
313<br />
socio-economica riconoscibile dal comune sentire, svincolata da definizioni<br />
di diritto positivo( 10 ).<br />
Distinto – anche se, talvolta, erroneamente confuso con il primo – il<br />
problema del carattere giuridico o fattuale della condizione definibile come<br />
‘‘schiavitù’’, foriera della sanzione penale per chi l’avesse provocata. Per i<br />
teorici della schiavitù come condizione ‘‘di diritto’’, lo status di schiavo doveva,<br />
per assumere rilevanza ai fini dell’integrazione della fattispecie, essere<br />
consacrato e disciplinato in un ordinamento. In altri termini le limitazioni, i<br />
doveri e gli obblighi propri di quella condizione dovevano, secondo questa<br />
opinione, essere previsti in una norma giuridica e quindi conformi a un<br />
‘‘dover essere’’ di carattere giuridico. E si doveva trattare, a quanto sembra,<br />
di un ordinamento statale, poiché non risulta essere mai stata presa in considerazione<br />
l’ipotesi di una schiavitù ‘‘di diritto’’ in un ordinamento giuridico<br />
privo di base territoriale.<br />
Secondo l’opinione opposta, le compressioni subite dalla vittima nella<br />
sfera della propria libertà personale, tali da disegnare la condizione di<br />
schiavo, ben potevano essere imposte dal soggetto attivo in via di mero fatto,<br />
e di fatto essere conseguenza di una necessità materiale dettata dalla violenza,<br />
‘‘dover essere’’ in senso materiale.<br />
Si parla di un problema distinto dal primo, perché sarebbe stato in<br />
teoria possibile accedere alla tesi della schiavitù ‘‘di diritto’’ e misurare il<br />
carattere ‘‘schiavista’’ di un determinato ordinamento sulla base di una nozione<br />
socio-culturale o giusnaturalistica di schiavitù, piuttosto che assumere<br />
come parametro – fissato ‘‘in negativo’’ – i divieti posti dalla Convenzione<br />
di Ginevra; così come era – ed effettivamente è stato – possibile praticare<br />
la tesi della schiavitù come condizione ‘‘di fatto’’, misurando la situazione<br />
effettivamente vissuta dalla persona offesa alla stregua delle previsioni<br />
delle Convenzioni del 1926 e del 1956( 11 ).<br />
Nell’intenzione del legislatore del 1930, resa palese dai Lavori Prepa-<br />
titolo oneroso da parte del marito, della famiglia o del clan, il trasferimento della donna per<br />
successione alla morte del marito, la vendita di un minore di anni diciotto da parte dei genitori<br />
o del tutore, in vista dello sfruttamento del suo lavoro o della sua persona.<br />
( 10 ) Per il primo orientamento si veda, Cass., Sez. V, 24 ottobre 1995, Senka, cit., rv.<br />
204369. Per il secondo, si veda più ampiamente Cass., Sez. Un., 20 novembre 1996, Ceric, in<br />
Foro it., 1997, pt. II, c. 315 ss.<br />
( 11 ) Si veda, in giurisprudenza, la diversa impostazione seguita da un lato da Cass., Sez.<br />
Un., 20 novembre 1996, Ceric, in Dir. pen. proc., 1997, p. 713 ss. e in Foro it., 1997, II, c.<br />
315 ss., con nota di C. Visconti e da Cass., sez. III, 7 settembre 1999, Catalini, CED Cass.,<br />
rv. 214517, le quali negano alle previsioni dell’art. 1 della Convenzione del 1956 la valenza di<br />
elenco tassativo delle condizioni analoghe alla schiavitù, dall’altro da Cass., Sez. V, 24 ottobre<br />
1995, Senka, cit., rv. 204369, che, pur accedendo senza riserve alla tesi della schiavitù e<br />
della condizione analoga alla schiavitù come condizioni di mero fatto, trova nelle disposizioni<br />
di quella convenzione il parametro alla stregua del quale qualificare una determinata situazione<br />
personale ‘‘di fatto’’ come ‘‘condizione analoga alla schiavitù’’.
314<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
ratori e dalla Relazione preliminare, la schiavitù era nozione ‘‘di diritto’’, in<br />
quanto situazione giuridica che priva il soggetto della capacità giuridica e<br />
dello status libertatis (servile caput, nullum jus habet)( 12 ). Le prime tre fattispecie<br />
di delitti contro la personalità individuale riguardavano la ‘‘schiavitù<br />
di diritto’’, mentre la ‘‘schiavitù di fatto’’ era contemplata all’art. 603<br />
(Plagio).<br />
Per molto tempo gli interpreti si adeguarono a questa indicazione, riguardante<br />
l’intero art. 600: quindi non la sola schiavitù in senso stretto, ma<br />
anche le condizioni ad essa analoghe( 13 ). Per individuare le situazioni concrete<br />
nelle quali si realizzava la ‘‘schiavitù di diritto’’, si operava un rinvio<br />
alle previsioni della Convenzione di Ginevra del 1926 e si riteneva punibile<br />
la costituzione o il mantenimento dell’istituto giuridico che quel trattato<br />
qualificava come schiavitù( 14 ).<br />
Se il concetto di ‘‘schiavitù di diritto’’ era da intendersi riferito al ‘‘diritto’’<br />
di un ordinamento statale, era perfettamente coerente affermare che<br />
le condotte di riduzione in schiavitù non potessero concretamente realizzarsi<br />
se non all’estero( 15 ), in un ordinamento cioè che – per essere rimasto<br />
estraneo alla Convenzione di Ginevra del 1926 o per avere violato gli obblighi<br />
con essa assunti – riconoscesse e disciplinasse la schiavitù. Sarebbe<br />
stato assurdo, del resto, sostenere che la schiavitù si potesse configurare come<br />
una situazione ‘‘di diritto’’ in territorio italiano, nell’atto stesso di inter-<br />
( 12 ) Cfr., C. Saltelli -E.Romano Di Falco, Commentario del codice penale, pt. II,<br />
vol. II, 1931, Torino, p. 981. In giurisprudenza, si veda, Cass., Sez. V, 30 settembre 1971,<br />
Braibanti, in Cass. pen., 1972, p. 235 s.<br />
( 13 ) A. Usai, Ancora sulla schiavitù di fatto, inRiv. giur. sarda, 1995, p. 190 ss.<br />
( 14 ) Cfr. L. Sola, Il delitto di ‘‘riduzione in schiavitù’’: un caso di applicazione, inForo<br />
it., 1989, pt. II, c. 121 ss.; M.P., I bambini argati e la riduzione in schiavitù,inInd. pen., 1987,<br />
p. 113 ss.<br />
( 15 ) In tal senso, si consideri, subito dopo l’entrata in vigore del codice Rocco, già il<br />
pensiero di V. Manzini, Diritto penale, vol. VIII, 1937, Torino, p. 53 ss. Sostiene l’A. ‘‘è<br />
evidente che questo delitto non può verificarsi mai nel territorio metropolitano, imperiale<br />
o coloniale italiano, né in altro Stato, nel quale non sia giuridicamente ammessa la schiavitù<br />
né altra condizione personale analoga. Ma può darsi che qualche Stato barbaro conservi o<br />
introduca nel suo ordinamento giuridico l’istituto della schiavitù o altro istituto analogo, e<br />
perciò la disposizione dell’art. 600 c.p. giustificata, tanto più che essa adempie all’impegno<br />
internazionale assunto dall’Italia con la Convenzione di Ginevra del 25 settembre 1926, approvata<br />
con R.D. 26 aprile 1928 n. 1723’’. Secondo l’A., nell’ipotesi in cui uno straniero soggetto<br />
a schiavitù o ad altra condizione analoga in uno Stato schiavista sia trasportato in territorio<br />
italiano, lo stato personale di schiavitù non avrebbe valore giuridico in Italia, ‘‘perché<br />
lo stato delle persone è regolato dalla legge dello Stato cui esse appartengono solo in quanto<br />
non sia contrario al nostro ordine pubblico o alle convenzioni internazionali divenute diritto<br />
interno. Nel detto caso, pertanto, il fatto di mantenere in Italia la persona in quella condizione,<br />
costituisce il delitto preveduto nell’art. 603 c.p.’’. In senso conforme, anche, G. Maggiore,<br />
Principi di diritto penale, parte speciale, 1938, Bologna, p. 684 s., e U. Conti, Il codice<br />
penale illustrato, vol. II, 1936, Milano, p. 317 s.
STUDI E RASSEGNE<br />
315<br />
pretare la norma che sanzionava la schiavitù con pesante pena. La schiavitù<br />
non può essere una situazione di diritto in un ordinamento che ripudia la<br />
schiavitù: che adotta convenzioni internazionali che la aboliscono, che la<br />
prevede come reato e che, prima ancora, non conosce distinzioni fra gli uomini<br />
sul piano della personalità giuridica.<br />
È chiaro che con ciò si giungeva alla sostanziale abrogazione della fattispecie<br />
di riduzione in schiavitù, essendo più che remota l’ipotesi del concreto<br />
assoggettamento a sanzione penale di condotte scaturite da ordinamenti<br />
‘‘barbari’’( 16 ) che, ignorando convenzioni internazionali del più ampio<br />
respiro internazionale( 17 ), persistessero nel riconoscere e disciplinare la<br />
schiavitù. La totale assenza di una casistica reale dispensò opportunamente<br />
gli operatori del diritto dal confrontarsi con le questioni pratiche che la tesi<br />
della ‘‘schiavitù di diritto’’ avrebbe potuto sollevare ( 18 ).<br />
La sanzione della ‘‘schiavitù di fatto’’ era demandata, nelle intenzioni<br />
del legislatore, a una distinta fattispecie incriminatrice, intitolata al plagio(<br />
19 ) (art. 603), che contemplava la condotta di chi sottoponesse una persona<br />
al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione. Il<br />
‘‘totale stato di soggezione’’ era assimilato alla schiavitù quoad poenam, e<br />
tuttavia, dettando una previsione autonoma, il legislatore marcava una differenza<br />
concettuale, mostrando di considerare il ‘‘totale stato di soggezione’’<br />
come una condizione personale che non meritava di essere qualificata<br />
‘‘analoga alla schiavitù’’. Disancorata dal riferimento a una tangibile condizione<br />
di assoggettamento materiale, l’applicazione corrente della norma rischiava<br />
di avventurarsi negli infidi territori del condizionamento psichico,<br />
che era arduo definire concettualmente e ancor più arduo verificare scientificamente.<br />
Una più affidabile sanzione della ‘‘schiavitù di fatto’’ poteva essere individuata<br />
nella sub-fattispecie della ‘‘riduzione in condizione analoga alla<br />
schiavitù’’. Fu in questo varco, in effetti, che si introdusse il cuneo che portò,<br />
al termine di un percorso interpretativo segnato dalla pressione delle ‘‘nuove<br />
schiavitù’’, al definitivo affermarsi della tesi della ‘‘schiavitù di fatto’’.<br />
Buona parte della dottrina includeva l’ipotesi di ‘‘riduzione in condizioni<br />
analoghe alla schiavitù’’ nella poco apprezzata categoria delle ‘‘fattispecie<br />
ad analogia esplicita’’, e la additava come esempio di uso anticosti-<br />
( 16 ) V. Manzini, Diritto cit., p. 53 ss.<br />
( 17 ) Gli Stati membri della Società delle Nazioni avevano sottoscritto la Convenzione<br />
di Ginevra del 1926. Altri strumenti internazionali di contrasto alla schiavitù erano stati introdotti,<br />
già nel 1930, in ambiti più ristretti. Vedi, più ampiamente, M. Saulle, voce Schiavitù<br />
(diritto internazionale), inEnc. dir., vol. XLI, 1989, Torino, p. 641 ss.<br />
( 18 ) Quali: il luogo e la data di consumazione del reato (si pensi alla persona nata schiava)<br />
e all’individuazione dei soggetti responsabili.<br />
( 19 ) Sull’origine storica del termine e sull’evoluzione dell’istituto si veda, Corte cost., 8<br />
giugno 1981, n. 96, in Giur. cost., 1982, pt. II, p. 748 ss.
316<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
tuzionale della tecnica dell’analogia, atteso che, in assenza di qualsiasi indicazione<br />
legislativa idonea ad inquadrare la schiavitù in un più ampio concetto<br />
di genere, l’individuazione delle condizioni analoghe alla schiavitù risultava<br />
integralmente rimessa al giudice( 20 ).<br />
Per evitare contrasti col dettato costituzionale, alcuni interpreti non videro<br />
rimedio migliore che estendere anche al concetto di ‘‘condizioni analoghe<br />
alla schiavitù’’ la qualifica di nozione ‘‘di diritto’’. Soccorreva allo scopo<br />
un trattato internazionale sopravvenuto (al Codice e alla Costituzione):<br />
si sostenne che, con la ratifica della Convenzione supplementare di Ginevra<br />
del 17 novembre 1956 (legge 20 dicembre 1957 n. 1304), la nozione di<br />
‘‘condizione analoga alla schiavitù’’ era stata sottratta all’‘‘arbitrio giudiziario’’(<br />
21 ), poiché il trattato enumerava analiticamente le situazioni parificate<br />
alla schiavitù per il diritto internazionale (e quindi anche per il diritto penale,<br />
che al diritto internazionale doveva adeguarsi), includendo fra di esse<br />
‘‘tutte le istituzioni o pratiche in forza delle quali un fanciullo o un adolescente<br />
minore di diciotto anni può essere ceduto dai genitori o da uno di<br />
essi o dal tutore ad un terzo, dietro pagamento o meno, in vista dello sfruttamento<br />
della persona o del suo lavoro’’ (art. 1, lett. d).<br />
Alcune fra le prime, concrete applicazioni giurisprudenziali dell’art.<br />
600 si registrarono per l’appunto in casi di sfruttamento dei minori. In particolare,<br />
di minori destinati all’accattonaggio, di minori comprati e venduti<br />
perché destinati all’accattonaggio e ai furti (c.d. minori argati). Quindi, in<br />
( 20 ) Zanotti, Il principio di determinatezza e tassatività, inInsolera -Mazzacuva -<br />
Pavarini -Zanotti (a cura di), Introduzione al sistema penale, vol. I, 1997, p. 146. L’A.<br />
distingue due situazioni, con esiti opposti. In taluni casi, osserva, il rinvio al procedimento<br />
analogico non lede il dettato costituzionale: ciò accade laddove il legislatore potrebbe utilizzare<br />
una tecnica di normazione sintetica, ma, anziché indicare il genus (cioè un segno linguistico<br />
di sintesi che indichi il parametro attraverso il quale compiere la valutazione di rilevanza),<br />
elenca taluni elementi del genus affiancando poi ad essi la formula di chiusura. Le contravvenzioni<br />
di cui agli art. 710 e 711 c.p. sono un esempio di questa tecnica: si prevede il<br />
fatto di consegnare o vendere grimaldelli o altri strumenti atti ad aprire o sforzare serrature<br />
da parte di chi fabbrica chiavi o eserciti il mestiere di fabbro, chiavaiuolo od altro simile mestiere.<br />
La norma contiene certamente il parametro di riferimento univoco (l’oggetto dell’attività)<br />
alla cui stregua valutare se la situazione di fatto assuma rilievo penale. Tanto ciò èvero<br />
che la formula potrebbe convertirsi in una di questo tipo ‘‘chiunque fabbrica o vende oggetti<br />
diretti ad aprire o forzare serrature’’. Al contrario, fattispecie quali quella degli artt. 600 e<br />
601 c.p. non contengono un parametro valutativo univoco. Ravvisano nel vecchio testo dell’art.<br />
600 una violazione del principio costituzionale di determinatezza anche Bricola, La<br />
discrezionalità nel diritto penale, 1965, p. 297 ss.; M. Gallo, Appunti di diritto penale,<br />
vol. I, La legge penale, 1999, p. 94 ss.; Zanotti, Il principio cit., p. 146 ss. e, nella manualistica,<br />
G. Marinucci -E.Dolcini, Corso di diritto penale, vol. I, 2001, Milano, p. 181 ss.<br />
( 21 ) Monaco, Sub art. 600 c.p., inCrespi -Stella -Zuccalà (a cura di), Commentario<br />
breve al codice penale, 1999, ed. III, p. 1670. Nel senso del testo, anche, Cass., Sez.V, 9<br />
febbraio 1990, Seyfula, in Cass. pen., 1992, p. 1203.
STUDI E RASSEGNE<br />
317<br />
situazioni riconducibili alle previsioni della Convenzione supplementare<br />
del 1956( 22 ).<br />
Si faceva però strada, nel contempo, un’applicazione dell’art. 600 a<br />
‘‘schiavitù di fatto’’ estranee alle previsioni della Convenzione del<br />
1956( 23 ). Una spinta autorevolissima – e alla prova dei fatti decisiva – verso<br />
la definitiva affermazione della tesi della ‘‘schiavitù di fatto’’ si registrò con<br />
( 22 ) Si trattava di minori provenienti dalla Macedonia, ceduti dai loro genitori a nomadi<br />
slavi, che li sottoponevano a percosse e a digiuni forzati in caso di insuccesso. Si veda: Ass.<br />
Milano, 27 ottobre, 1986, Ahmet Iskender, in Ind. pen., 1987, p. 113 ss.; Ass. Milano, 18<br />
maggio 1988, Salihi Andrija, in Foro it., 1989, pt. II, c. 121 ss.; Cass., Sez. V, 7 dicembre<br />
1989, Iret Elamr, ivi, 1990, c. 369 ss.; Cass., Sez. V, 9 febbraio 1990, Seyfula, cit., c.<br />
1203. In dottrina, per tutti, cfr., Spagnolo, voce Schiavitù cit., p. 636 ss.; F. Mantovani,<br />
Diritto penale, parte speciale, vol. I, Delitti contro la persona, 1995, Padova, p. 335 ss.<br />
( 23 ) Cass., Sez. V, 7 dicembre 1989, Emaz, in Dir. fam. pers., 1991, p. 60 ss., per la<br />
dottrina si consideri, in commento alla sentenza appena citata, M. Dogliotti, La schiavitù<br />
è ancora tra noi, ivi, p. 62 ss.; F. Dell’Ongaro, I minori argati, ovvero la moderna schiavitù,<br />
ivi, 1990, p. 1112 ss.; R. Pezzano, commento alla sentenza Cass., sez. V, 7 dicembre 1989,<br />
Emaz, in Foro it., 1990, pt. II, c. 369 ss. Secondo la S.C. ‘‘ritenuto che la schiavitù e la condizione<br />
analoga alla schiavitù, di cui agli artt. 600 e 602 c.p., non consistono necessariamente<br />
in situazioni di diritto, ma anche in situazioni di fatto, la posizione di condizione analoga alla<br />
schiavitù è oggi evincibile dalla Convenzione di Ginevra del 17 settembre 1956 (ratificata<br />
con l. n. 1304/1957) che integra la Convenzione di Ginevra sulla schiavitù 25 settembre<br />
1926 (ratificata con r.d. n. 1723/1928). La Corte ritenne manifestatamene infondate, in riferimento<br />
all’art. 3 Cost. (per presunta disparità di trattamento tra nomadi che sfruttavano per<br />
la perpetrazione sistematica di reati i propri figli e nomadi che allo stesso scopo sfruttavano<br />
minori da essi acquistati dai genitori o per il tramite di intermediari) ed all’art. 25, comma 2,<br />
Cost. (per presunta violazione del principio di tassatività della norma penale circa la previsione<br />
del reato di riduzione in condizione analoga alla schiavitù) le questioni di legittimità<br />
costituzionale degli artt. 600 e 602 c.p. Chiunque riduca in condizione analoga alla schiavitù<br />
una persona (specie se minore d’età) od acquisti una persona trovatesi nella condizione predetta,<br />
non può invocare la inevitabile ignoranza della legge penale: trattasi invero di norme<br />
conformi al principio di riconoscibilità, vale a dire tali da essere percepite anche come norme<br />
extra penali di civiltà, indubbiamente vigenti nell’ambiente socio-culturale in seno al quale le<br />
norme stesse operano’’.<br />
Per la giurisprudenza di merito v. Ass. App. Firenze, 23 marzo 1993, Tapiri, in Foro it.,<br />
1994, pt. II, c. 298 ss., con nota di A. Di Martino, ‘‘Servi sunt, immo homines’’. Schiavitù e<br />
condizione analoga nell’interpretazione di una corte di merito, inForo it., 1994, pt. II, c. 298<br />
ss. La Corte di Assise, osserva che ‘‘il fatto di prendere in consegna, in cambio di somme di<br />
denaro, soggetti minori al fine di sfruttarli attraverso il costringimento sistematico al furto o<br />
all’accattonaggio integra il reato di cui all’art. 600 c.p., in quanto la situazione personale nella<br />
quale i minori vengono a trovarsi in seguito all’acquisto costituisce condizione analoga alla<br />
schiavitù, contemplata dall’at. 1, lett. d) della Convenzione di Ginevra 7 settembre 1956, ratificata<br />
con l. 20 dicembre 1957, n. 1304 (nella specie, si è in punto di diritto sostenuto che la<br />
schiavitù e la condizione analoga devono essere ritenuti elementi normativi della fattispecie,<br />
la cui valutazione può essere comunemente compiuta o alla stregua di una norma giuridica<br />
che qualifichi – positivamente o negativamente – una specifica situazione di fatto come schiavitù<br />
o condizione analoga, ovvero in applicazione di parametri storico-sociali, che consentano<br />
la repressione di fenomeni caratterizzati dai medesimi aspetti di offesa della personalità<br />
individuale connotanti le figure di schiavitù storicamente note’’.
318<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
la sentenza 6 agosto 1981 n. 96 con la quale la Corte costituzionale dichiarò<br />
l’illegittimità costituzionale del reato di plagio di cui all’art. 603 c.p., nel<br />
presupposto che le condotte di riduzione in ‘‘schiavitù di fatto’’ fossero<br />
previste e punite dall’art. 600 c.p.( 24 ).<br />
La parola fine fu messa dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione. Il<br />
S.C. non si attardò sulla definizione di ‘‘schiavitù’’, limitandosi ad ammettere<br />
che in essa fosse ‘‘insita una connotazione di diritto’’ e quasi depositando<br />
la prima parte dell’art. 600 nel triste limbo delle norme mai applicabili<br />
in concreto( 25 ). Qualificò invece la ‘‘condizione analoga alla schiavitù’’, ritenendola<br />
‘‘situazione di fatto identica, quanto al peso che ne subisce chi ne<br />
sia oggetto, alla condizione materiale dello schiavo, con la sola particolarità<br />
che – a differenza di quest’ultimo – la vittima non può perdere lo stato giuridico<br />
di uomo libero.’’ Una simile situazione di fatto non doveva necessariamente<br />
tradursi in una delle ‘‘pratiche sociali’’ della Convenzione supplementare<br />
di Ginevra del 1956, le cui disposizioni ‘‘non esaurivano la virtualità<br />
espansiva della nozione’’ (e non assumevano quindi la funzione di ‘‘elemento<br />
normativo’’ della fattispecie( 26 )). In tal modo, secondo la Corte, non<br />
risultava violato il principio costituzionale di determinatezza, perché, ‘‘es-<br />
( 24 ) Corte cost., 8 giugno 1981, cit., p. 748 ss. La Consulta rilevava come la pronuncia<br />
d’illegittimità dell’art. 603 non generasse un vuoto di tutela penale, poiché le condizioni analoghe<br />
alla schiavitù, richiamate rispettivamente dagli artt. 600 e 602 c.p., non potevano essere<br />
intese restrittivamente, sì da comprendere solo ‘‘situazioni di diritto’’. La contraria interpretazione<br />
nasceva secondo la Corte da un’errata lettura della Convenzione di Ginevra del<br />
1926, nonché della Convenzione supplementare del 1956: fra le ‘‘istituzioni e pratiche analoghe<br />
alla schiavitù’’, alcune sono condizioni di fatto realizzabili senza alcun atto o fatto normativo<br />
che le autorizzi’’, consistendo in situazioni di asservimento della persona umana rese<br />
socialmente possibili ‘‘per prassi, tradizione e circostanze ambientali’’. Sul tema v. G. Porco,<br />
Schiavitù un fenomeno in trasformazione, inGiust. pen., 1998, c. 733 s.<br />
( 25 ) Per una disamina esaustiva e completa, in tema di schiavitù e tratta, nel diritto internazionale,<br />
si veda E. Rosi, La tratta di essere umani e il traffico di migranti. Strumenti internazionali,<br />
inCass. pen., 2001, p. 1986 ss.; V. Militello, Partecipazione all’organizzazione<br />
criminale e standards internazionali d’incriminazione, inRiv. it. dir. proc. pen., 2003, p. 184<br />
ss.; E. Di Francesco, La Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale<br />
e i protocolli aggiuntivi: contenuti e linee evolutive, inGli stranieri, 2000, p. 427<br />
ss.; G. Fera, Conferenza per la firma della Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine<br />
organizzato transnazionale e relativi protocolli, inRiv. pol., 2001, p. 133 ss. Più in generale, e<br />
con una impostazione attenta all’evoluzione giurisprudenziale, si veda, F. Spiezia, F.Frezza,<br />
N.M.Pace, Il traffico e lo sfruttamento di esseri umani. Primo commento alla legge di<br />
modifica alla normativa in materia di immigrazione ed asilo, Milano, 2002, passim; D. Manzione,<br />
La lotta alla tratta degli esseri umani, inLeg. pen., 2004, fasc. 2, p. 327 s.<br />
( 26 ) C. Visconti, Riduzione, cit., c. 314 ss. L’A. dà atto dell’esistenza di un orientamento<br />
giurisprudenziale secondo cui la locuzione ‘‘condizioni analoghe alla schiavitù’’ va intesa<br />
alla stregua di un elemento normativo di fattispecie che, in quanto tale, rinvia per la determinazione<br />
del suo contenuto ad una fonte esterna alla norma incriminatrice, fonte individuabile<br />
nel caso specifico nell’art. 1 della Convenzione supplementare contro la<br />
schiavitù del 1956, che contempla una serie di fattispecie concrete rientranti nella nozione
STUDI E RASSEGNE<br />
319<br />
sendosi ormai tradotto il concetto di schiavitù in una nozione storica e culturale,<br />
il significato della locuzione ‘condizione analoga’ può essere determinativamente<br />
recepito dai destinatari del precetto penale’’ come descrittivo<br />
della condizione di un individuo che – in conseguenza ‘‘dell’esercizio<br />
da parte di taluno di attributi del diritto di proprietà’’ – si trovi ‘‘(pur conservando<br />
nominativamente lo status di soggetto dell’ordinamento giuridico)<br />
nell’esclusiva signoria dell’agente, il quale materialmente ne usi, ne<br />
tragga frutto o profitto e ne disponga, similmente al modo in cui, secondo<br />
le conoscenze storiche, confluite nell’attuale patrimonio socio-culturale<br />
della collettività, il padrone un tempo esercitava la propria signoria sullo<br />
schiavo’’( 27 ).<br />
In dottrina non mancarono voci critiche, secondo le quali la Corte<br />
autorizzava esplicitamente il giudice di merito a fare ricorso, nella individuazione<br />
del fatto penalmente rilevante, al procedimento analogico, in violazione<br />
dell’art. 25, comma 2, Cost.( 28 ). Non si sono invece registrate opinioni<br />
dissenzienti né nella giurisprudenza di merito né in quella di legittimità( 29 ).<br />
di schiavitù, tra le quali si segnala, per la sua aderenza all’attuale realtà criminologia, quella<br />
prevista dalla lett. d): ‘‘ogni istituzione o pratica in forza della quale un fanciullo o un adolescente<br />
minore degli anni diciotto è consegnato sia dai suoi genitori o da uno di loro, sia dal<br />
tutore, ad un terzo, contro pagamento o meno, in vista dello sfruttamento della persona o del<br />
lavoro di detto fanciullo o adolescente. E tuttavia, in seno a tale orientamento, non sono<br />
mancate pronunzie di merito che hanno ulteriormente sviluppato l’impostazione appena riportata,<br />
fino a rischiare, però, di pregiudicare il principale pregio e cioè quello di puntare ad<br />
un equilibrato compromesso tra l’esigenza politico-criminale di praticare una interpretazione<br />
aggiornata della fattispecie di riduzione in schiavitù adatta a punire qualsiasi pratica riconducibile<br />
al fenomeno dei bambini argati, e la non meno rilevante esigenza di mantenere la<br />
norma penale entro limiti di elasticità applicativa compatibili con il principio costituzionale<br />
di determinatezza e tassatività’’.<br />
( 27 ) Cass., Sez. Un., 20 novembre 1996, Ceric, cit., p. 713 ss. In dottrina, si veda, M.<br />
Solaroli, Il delitto di riduzione in schiavitù, come fattispecie a forma vincolata, inDir. pen.<br />
proc., 1997, p. 713; E. Amati, Sul concetto di ‘‘condizione analoga alla schiavitù’’,inCass.<br />
pen., 1998, p. 36 ss.<br />
( 28 ) Cfr. F. Viganò, Sub art. 600, inDolcini -Marinucci (a cura di), Codice penale<br />
commentato, pt. II, vol. II, 1999, Milano, p. 3118 s.; M. Solaroli, Il delitto cit., p. 713 ss.,<br />
quest’ultimo rileva che ‘‘la previsione di cui all’art. 1 della Convenzione di Ginevra, piuttosto<br />
che fornire un elenco tassativo di «condizioni analoghe» alla schiavitù, risponde piuttosto alla<br />
ratio di estendere quanto più possibile la tutela della persona umana, specificando l’applicabilità<br />
della convenzione anche a situazioni di fatto e di diritto che la concisa definizione dell’esclavage<br />
in apparenza non era idonea a ricomprendere e che invece sono vere e proprie<br />
«forme di manifestazione» della schiavitù. Ma anche ammesso che l’elenco delle «condizioni<br />
analoghe» di cui all’art. 1 della Convenzione del 1956 debba considerarsi tassativo, l’opinione<br />
riferita non risulterebbe del tutto convincente. Appare piuttosto evidente l’incongruenza insita<br />
nel ritenere, da un lato, che la condizione analoga sia ravvisabile anche in una situazione<br />
di fatto, per poi escludere, dall’altro, che tali situazioni possano essere diverse da quelle previste<br />
dalle fonti normative da invocarsi in via esclusiva ad integrazione della norma penale’’.<br />
( 29 ) Per la giurisprudenza di legittimità, si veda, tra le altre, Cass., Sez. III, 7 luglio<br />
1998, Matarazzo, in CED Cass., rv. 211543, la pronuncia rileva come ‘‘la nozione di condi-
320<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
2.2. È anche troppo evidente che, essendo intervenuta una legge nuova,<br />
è inutile attardarsi sull’interpretazione della vecchia. Dell’antico dibattito<br />
sull’art. 600 è però ancora oggi utile sottolineare da un lato le questioni realmente<br />
sollevate – che restavano inespresse, o espresse sotto la metafora della<br />
‘‘schiavitù di fatto’’ o delle ‘‘schiavitù di diritto’’ – dall’altro le questioni eluse,<br />
perché queste ultime si ripropongono tutte con la nuova disciplina.<br />
Dietro il sottilissimo velame di un dibattito che maneggiava definizioni<br />
tecnico-giuridiche, si agitavano questioni legate al trattamento penale delle<br />
nuove forme di schiavitù. Più di tutte, si agitava la questione del trattamento<br />
penale della prostituzione forzata, specie quando condotta su base transnazionale.<br />
Non v’è dubbio che, all’origine, l’art. 600 non era ‘‘pensato’’ per sanzionare<br />
le condotte di prostituzione forzata. Se la Relazione Preliminare del<br />
codice del 1930 rimandava alla Convenzione di Ginevra – espressione di<br />
una trattatistica che separava la materia della schiavitù, sostanzialmente intesa<br />
come pratica del lavoro forzato, da quella dello sfruttamento sessuale e<br />
del trasporto di donne da avviare alla prostituzione( 30 ) – la scelta del legi-<br />
zione analoga alla schiavitù di cui agli artt. 600 e 602 c.p. non si esaurisce con le descrizioni<br />
contenute nelle Convenzioni di Ginevra del 1926 e del 1956, sussistendo tutte le volte in cui<br />
sia ricollegabile l’effetto del totale asservimento di una persona al soggetto responsabile della<br />
condotta stessa. Tale totale asservimento equivale alla condizione di un individuo che venga<br />
a trovarsi (pur conservando nominalmente lo status di soggetto nell’ordinamento giuridico)<br />
ridotto nell’esclusiva signoria dell’agente, il quale materialmente ne usi, ne tragga profitto e<br />
ne disponga’’. In senso conforme: Cass., Sez. V, 18 dicembre 2000, Gjini, ivi, rv., 217846;<br />
Cass., Sez. III, 21 maggio 2003, Marin, ivi, rv. 224978.<br />
( 30 ) Se unica è stata l’elaborazione culturale che ha condotto la Comunità internazionale<br />
al ripudio della schiavitù (slavery) e della tratta (trafficking), è pur vero che, agli albori<br />
dell’abolizionismo, la normativa internazionale usava considerare separatamente, e differentemente<br />
trattare, da un lato la ‘‘schiavitù’’, intesa come soggezione per fini di sfruttamento<br />
del lavoro, dall’altro il trasporto di persone a fini di prostituzione o di sfruttamento sessuale,<br />
fenomeno definito come ‘‘tratta’’. Di ‘‘tratta’’ si parlava con riguardo alle prostitute, e quindi<br />
con riguardo alle sole donne – anzi, inizialmente, alle sole ‘‘bianche’’ – in seguito anche con<br />
riguardo ai minori dei due sessi, e la repressione dello sfruttamento sessuale è stata per lungo<br />
tempo meno condivisa e meno incisiva della repressione del lavoro forzato.<br />
L’Accordo internazionale per la soppressione della tratta delle bianche (firmato a Parigi il<br />
18.5.1904, reso esecutivo in Italia con R.D. 9.4.1905 n.171), concluso fra le principali potenze<br />
europee dell’epoca ma aperto all’adesione di altri Stati, prevedeva misure di cooperazione<br />
internazionale ‘‘al fine di assicurare alle donne maggiorenni, ingannate o costrette, e alle donne<br />
minorenni, una protezione efficace contro la tratta delle bianche’’. L’accordo era complementare<br />
alla Convenzione internazionale relativa alla repressione della tratta delle bianche, che<br />
fu poi stipulata soltanto il 4 maggio 1910 (e resa esecutiva in Italia con R.D. 25 marzo 1923,<br />
n. 1207). L’accordo del 1904 definisce la tratta come la condotta di chi per soddisfare la passione<br />
altrui, indirizza, trattiene o dirotta, senza il suo consenso, una donna o una ragazza minorenne<br />
sulla via della deboscia. LaConvenzione internazionale per la soppressione della tratta<br />
delle donne e dei fanciulli, firmata a Ginevra il 30 settembre 1921 e resa esecutiva in Italia<br />
con R.D. 31 ottobre 1923 n. 2749, elaborata nell’ambito della Società delle Nazioni – e quin-
STUDI E RASSEGNE<br />
321<br />
slatore sembrava ribadita con la legge 20 febbraio 1958, n. 75, che preve-<br />
di con applicazione territoriale più ampia rispetto alle precedenti – estende la repressione<br />
della tratta a tutti i fanciulli, di entrambi i sessi, ed elimina qualsiasi riferimento testuale alle<br />
donne ‘‘bianche’’. Con la successiva Convenzione internazionale per la soppressione della tratta<br />
delle donne maggiorenni, sottoscritta a Ginevra l’11 ottobre 1933, sono incluse tra le persone<br />
oggetto della tratta le donne maggiorenni consenzienti. Come rileva M. C. Maffei,<br />
Tratta, prostituzione forzata e diritto internazionale – Il caso delle ‘‘donne di conforto’’, Milano,<br />
1998, passim, la vittima della ‘‘tratta delle bianche’’, in quanto non ridotta alla condizione<br />
di bene patrimoniale propria dello schiavo, non si riteneva privata dello status libertatis, anche<br />
se era esclusa la rilevanza del consenso da essa prestato alla pratica illecita, per il prevalere<br />
dell’interesse pubblicistico al contenimento del fenomeno della prostituzione.<br />
Il movimento per l’abolizione della schiavitù trae origine dalle dichiarazioni dei diritti<br />
individuali delle rivoluzioni americana e francese. La solenne affermazione del divieto della<br />
schiavitù e della tratta è fatto proprio dalle potenze europee in una serie di accordi bilaterali<br />
e multilaterali e in conferenze internazionali. Il Congresso di Vienna (1815) dichiara che il<br />
commercio degli schiavi è ‘‘contraria al diritto delle genti e alla morale internazionale’’; il<br />
Trattato di Londra (1841), concluso fra Gran Bretagna, Russia, Prussia, Austria e Francia,<br />
pone fine al traffico degli schiavi in Africa il ripudio della schiavitù è ribadito in occasione<br />
della Conferenza di Berlino del 1888 e della Conferenza di Bruxelles del 1880. Si veda funditus<br />
M.R. Saulle, op. cit, p. 641 ss..<br />
In materia di repressione della schiavitù, il primo strumento condiviso dagli Stati membri<br />
della Società delle Nazioni è la già citata Convenzione di Ginevra sull’abolizione della<br />
schiavitù del 25 settembre 1926, resa esecutiva in Italia con R.D. 26 aprile 1928, n. 1723.<br />
Con la Convenzione supplementare sulla schiavitù di Ginevra in data 7 settembre 1956, ratificata<br />
e resa esecutiva in Italia con L. 20 dicembre 1957 n. 1304, è resa esplicita l’estensione<br />
della nozione di schiavitù a situazioni estranee allo sfruttamento del lavoro. Ancora dieci anni<br />
dopo, peraltro, sarà palesemente orientata alla sola repressione del lavoro forzato la disposizione<br />
dell’art. 8 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 10 dicembre 1966,<br />
che vieta la schiavitù, la servitù e, più in generale, ogni forma di lavoro forzato, con le sole<br />
eccezioni tassativamente previste. In sede europea, sul tema della schiavitù e del lavoro forzato<br />
vanno menzionati l’art. 4 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950, la<br />
Carta sociale europea, adottata dal Consiglio d’Europa del 1961 e l’art. 5 della Carta dei diritti<br />
fondamentali dell’Unione Europea (Nizza, 7 dicembre 2000).<br />
Tratta di esseri umani e sfruttamento della prostituzione restano strettamente collegati<br />
nella Convenzione per la repressione dei due fenomeni adottata dall’O.N.U. con risoluzione<br />
dell’Assemblea Generale 2 dicembre 1949 n. 317 resa esecutiva con l. 23 novembre 1966, n.<br />
1173. Tradizionalmente, la normativa dell’Unione Europea accomuna traffico di esseri umani<br />
e sfruttamento dei minori (Azione Comune 24 febbraio 1997, art. K1 del Trattato di Amsterdam,<br />
Conclusioni del Consiglio europeo di Tampere).<br />
La Convenzione n. 182 relativa alla proibizione delle forme peggiori di lavoro minorile<br />
e all’azione immediata per la loro eliminazione, adottata dall’organizzazione internazionale<br />
del lavoro il 17 giugno 1999, ratificata e resa esecutiva con legge n. 148 del 2000, comprende<br />
tra le ‘‘forme peggiori’’ tutte le forme di schiavitù nonché l’impiego, l’ingaggio e l’offerta del<br />
minore a fine di prostituzione, di produzione di materiale pornografico. Ad ogni forma di<br />
tratta di esseri umani, indipendentemente dal fine, può applicarsi il fondamentale strumento<br />
di accertamento e repressione adottato dalla Comunità internazionale nei confronti dei crimini<br />
contro l’umanità (art. 7 dello Statuto della Corte penale internazionale – Roma, 17 luglio<br />
1998). Il secondo dei due Protocolli facoltativi alla Convenzione sui diritti del fanciullo<br />
del 20 novembre 1989, adottati dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la Risoluzione<br />
n. 54/263 del 25 maggio 2000, ratificata con l. 11 marzo 2002 n. 46, concernente la
322<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
deva le ipotesi di induzione al trasferimento nel territorio di un altro Stato<br />
di una persona destinata a esercitare la prostituzione (art. 3, n. 6) e di partecipazione<br />
ad ‘‘associazioni e organizzazioni nazionali od estere’’ dedite al<br />
reclutamento di persone destinate alla prostituzione e allo sfruttamento<br />
della prostituzione (art. 3, n. 7), nonché l’aggravante speciale dell’uso della<br />
violenza per queste e per le altre ipotesi dell’art. 3 (art. 4, n. 1). Con queste<br />
disposizioni, il fenomeno dello sfruttamento della prostituzione sembrava<br />
destinato a restare interamente racchiuso nel recinto della legge speciale.<br />
Dopo la breccia aperta con la sentenza n. 96 del 1981 della Corte costituzionale,<br />
e dopo l’ulteriore apertura registrata con l’applicazione dell’art.<br />
600 a un’ipotesi – quella dei ‘‘bambini argati’’ – che, pur essendo sociologicamente<br />
lontana dalle tradizionali pratiche di schiavitù dell’epoca<br />
coloniale, presentava rispetto ad esse il denominatore comune della destinazione<br />
delle vittime al lavoro forzato, intervennero – con un ‘‘peso’’ e una<br />
frequenza incomparabilmente superiori, data la vasta incidenza del fenomeno<br />
– le applicazioni in tema di prostituzione forzata, frutto di un’interpretazione<br />
ancor più distante dalle ‘‘intenzioni’’ del legislatore, ma comunque<br />
consolidatasi nel tempo, almeno nella giurisprudenza.<br />
Il nuovo orientamento riceveva una sorta di successiva, indiretta ratifica<br />
da parte del legislatore già con la legge 3 agosto 1998, n. 269, che includeva<br />
la prostituzione minorile (art. 600 bis) fra i delitti contro la personalità<br />
individuale, e che esplicitamente qualificava nel titolo del reato (Norme<br />
contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo<br />
sessuale in danno dei minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù) lo<br />
sfruttamento della prostituzione e lo sfruttamento sessuale come manifestazioni<br />
di riduzione in schiavitù( 31 ).<br />
La legge 228 del 2003 conferma il definitivo superamento della que-<br />
vendita dei fanciulli, la prostituzione e la pornografia minorili prevede fra l’altro (art. 3) l’obbligo<br />
per gli Stati contraenti di assoggettare a sanzione penale l’offerta, la consegna o l’accettazione,<br />
con qualsiasi mezzo, di un minore a scopo di sfruttamento sessuale, trasferimento<br />
lucrativo di organi o impiego in lavori forzati, e altri strumenti di tutela dei minori dallo<br />
sfruttamento sia lavorativo che sessuale.<br />
Il primo dei due Protocolli addizionali alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la<br />
criminalità organizzata transnazionale del 12-15 dicembre 2000, Protocollo per prevenire, reprimere<br />
e sanzionare la tratta di persone, specialmente donne e fanciulli, che completa la Convenzione<br />
delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, al quale la novella<br />
del 2003 dichiaratamente s’ispira (si veda, fra gli altri, l’intervento dell’On. A. Finocchiaro,<br />
alla Commissione II, Giustizia, seduta del 10 ottobre 2001, e la relazione al<br />
disegno di legge del Governo, Camera dei deputati, n. 1584, del 18 settembre 2001) e la Decisione-Quadro<br />
del Consiglio dell’Unione Europea del 19 luglio 2002 sulla lotta alla tratta<br />
degli esseri umani, pubbl. in Gazz. Uff. Comunità europee del 1 agosto 2002, parificano<br />
espressamente e compiutamente ogni forma di sfruttamento lavorativo e sessuale.<br />
( 31 ) Sul rapporto fra la legge 269 e l’evoluzione della nozione di schiavitù v. G. Porco,<br />
Schiavitù cit., p. 733 ss.
STUDI E RASSEGNE<br />
323<br />
stione. Nella formulazione introdotta dall’art. 1, l’art. 600 comma 1, parte<br />
seconda, c.p. si riferisce anche alle ‘‘prestazioni sessuali’’ e, fra le aggravanti<br />
speciali previste dal comma 3, è compreso il fine di sfruttamento della prostituzione.<br />
Per anni la questione è stata se l’art. 600 potesse applicarsi allo sfruttamento<br />
sessuale. Con l’affermare la nozione di schiavitù ‘‘di fatto’’ la giurisprudenza<br />
dava risposta positiva, e per tal modo intendeva mostrarsi sensibile<br />
alla gravità dei fenomeni di sfruttamento etichettati come ‘‘nuove<br />
schiavitù’’ (in gran parte identificabili con il trasporto e l’avviamento forzato<br />
alla prostituzione di giovani extracomunitarie).<br />
Più in ombra restava il problema del quando, ossia a quali condizioni,<br />
applicare l’art. 600 allo sfruttamento della prostituzione, così come alle altre<br />
forme di sfruttamento lavorativo e sessuale dell’essere umano.<br />
Se da parte degli uni si ‘‘cestinava’’ una norma giudicata incostituzionale<br />
o virtualmente inapplicabile, in quanto destinata a sanzionare improbabili<br />
riflessi interni di rigurgiti schiavistici registrati in lande remote, da<br />
parte degli altri si sottolineava la necessità di ‘‘attualizzare’’ le applicazioni<br />
della norma, ma non si producevano troppi sforzi per chiarire a quali condizioni<br />
la violenza e la sopraffazione producessero una condizione di fatto<br />
definibile come ‘‘analoga alla schiavitù’’, ritenuta riconoscibile dai destinatari<br />
del precetto in virtù di referenze storiche universalmente condivise e<br />
definita come soggezione a unà‘signoria assoluta’’, come asservimento ‘‘totale’’<br />
o ‘‘completo’’, tale da ridurre l’uomo alla condizione di cosa. Peraltro,<br />
la realtà delle nuove ‘‘schiavitù’’ aveva indotto la giurisprudenza a ritenere<br />
ravvisabile la fattispecie in situazioni nelle quali la condizione di asservimento<br />
presentava spazi più o meno ampi di libertà( 32 ). Quali e quanti potessero<br />
essere questi spazi, perché la soggezione potesse continuare a qualificarsi<br />
come ‘‘completa’’ o ‘‘totale’’, restava questione assai poco esplorata.<br />
3. Il nuovo reato di ‘‘riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù’’.<br />
Struttura della norma.<br />
In siffatto panorama interpretativo – sedato dall’intervento delle Sezioni<br />
Unite, ma con esiti non esaltanti – si inserisce la novella del 2003, prodotto<br />
dell’esame congiunto di due distinti elaborati, la proposta di legge n.<br />
1255 presentata il 9 luglio 2001 da 26 deputati e il disegno di legge n. 1584<br />
presentato dal governo il 18 settembre 2001, approvati in un testo unificato<br />
dalla Camera dei Deputati il 27 novembre 2001 e sottoposti a progressive<br />
modifiche nell’arco di tre successivi passaggi parlamentari. Scopo dichiara-<br />
( 32 ) Per tutte, si veda, Cass., sez. V, 18 dicembre 2000, Gjini, cit., rv., 217846.
324<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
to sia della proposta( 33 ) che del disegno( 34 )èstato quello di uniformare<br />
l’ordinamento italiano, con anticipo rispetto ai tempi fissati, agli impegni<br />
presi con la stipula del primo dei due Protocolli addizionali alla Convenzione<br />
delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale del<br />
12-15 dicembre 2000( 35 ).<br />
La struttura della nuova legge ricalca fedelmente quella del Protocollo:<br />
a una parte ‘‘penale sostanziale’’ seguono, tanto nel Protocollo quanto nella<br />
Legge, una parte ‘‘processuale’’ e una parte ‘‘amministrativa’’, con le differenze<br />
legate alla diversa natura delle norme: alle definizioni e agli impegni<br />
propri della norma internazionale (che definisce la tratta di persone e impegna<br />
gli Stati a perseguirla con la sanzione penale, a munirsi di adeguati<br />
strumenti amministrativi di contrasto al fenomeno criminale, ad apprestare<br />
idonea tutela alle vittime) corrispondono ipotesi di reato, norme di procedura,<br />
misure amministrative.<br />
Il Protocollo ha per oggetto la ‘‘tratta’’( 36 ), intesa sia come trasporto<br />
forzato che come compravendita di esseri umani, fenomeno al quale – stando<br />
alla lettera – il codice penale dedicava e dedica ancora oggi i soli articoli<br />
601 e 602. I conditores nazionali hanno però inteso intervenire anche sul-<br />
( 33 ) Si veda, fra gli altri, l’intervento dell’On. A. Finocchiaro, alla Commissione II (giustizia),<br />
seduta del 10 ottobre 2001.<br />
( 34 ) Camera dei deputati, 18 settembre 2001, n. 1584.<br />
( 35 ) La Convenzione è stata aperta alla firma il 12 dicembre 2000 e firmata da 127 Stati<br />
dopo negoziati durati due anni. È entrata in vigore con la ratifica da parte del quarantesimo<br />
Stato. Il testo degli accordi è stato elaborato da un Comitato nominato dall’Assemblea generale<br />
delle Nazioni Unite 53/111 del 9 dicembre 1998. L’altro Protocollo addizionale disciplina<br />
il contrasto al fenomeno dell’immigrazione clandestina (smuggling of migrants, o contrabbando<br />
di migranti). In conseguenza del carattere ‘‘addizionale’’ dei Protocolli rispetto<br />
alla Convenzione, l’adesione ai Protocolli è consentita ai soli Stati che hanno sottoscritto<br />
la Convenzione e le disposizioni dei Protocolli devono essere interpretate secondo i principi<br />
fissati dalla Convenzione (art. 37 Conv.).<br />
( 36 ) L’etimo tractare rimanda al trasporto e alla compravendita, ma la nozione di ‘‘tratta’’<br />
nel diritto internazionale comprende tutte le possibili condotte di sfruttamento degli esseri<br />
umani: l’art. 2 del Protocollo, nel definire la tratta, enumera tutte le possibili forme di<br />
cessione e di trasporto forzato, ma menziona anche comportamenti – quali il ‘‘reclutamento’’<br />
e il ‘‘dare alloggio e accoglienza’’ a persone destinate allo sfruttamento – estranei tanto al significato<br />
etimologico di ‘‘tratta’’, quanto, soprattutto, al concetto di ‘‘tratta’’ accolto dal diritto<br />
penale italiano. In italiano, e nelle altre lingue di origine latina, il fenomeno denominato<br />
in inglese trafficking of human beings si traduce con termini derivati dal latino tractare, mentre<br />
il termine ‘‘traffico’’, così come i corrispondenti termini delle altre lingue neolatine, è correntemente<br />
utilizzato nell’ambito dell’espressione ‘‘traffico di migranti’’ (Smuggling of migrants),<br />
e quindi per definire il fenomeno dell’immigrazione clandestina, strettamente connesso<br />
al fenomeno della tratta di esseri umani dal punto di vista socio-economico, ma da<br />
esso sempre distinto nella normativa internazionale. L’uso del termine ‘‘traffico’’ per tradurre<br />
‘‘smuggling’’ e del termine ‘‘tratta’’ per tradurre ‘‘trafficking’’ produce i piccoli inconvenienti<br />
propri dei false friends. Sull’argomento, si rinvia a M. C. Maffei, Tratta cit., passim.; E.Rosi,<br />
La tratta cit., p.1986, ss.
STUDI E RASSEGNE<br />
325<br />
l’art. 600, e quindi sull’insieme delle ‘‘tradizionali’’ fattispecie incriminatrici<br />
previste al titolo XII, capo III, sezione I del codice penale, vale a dire sui<br />
reati contro la personalità individuale, presenti già nell’impianto originario<br />
del Codice del 1930 e rimasti da allora pressoché immutati( 37 ). Di più: il<br />
dibattito parlamentare che ha dato vita alla nuova legge si è in massima<br />
parte focalizzato sulla modifica dell’art. 600 e il nuovo art. 600 rappresenta<br />
il punto centrale della riforma, quanto meno sul versante del diritto penale<br />
sostanziale.<br />
Non stupisce che, per attuare un accordo internazionale sulla tratta di<br />
esseri umani, il legislatore nazionale abbia dovuto mettere mano in primo<br />
luogo alla fattispecie della riduzione in schiavitù: il nuovo art. 600 assume,<br />
esattamente come il vecchio, il ruolo essenziale di definire la condizione<br />
della persona vittima dei reati di tratta di cui ai successivi articoli 601 e<br />
602( 38 ).<br />
Con l’entrata in vigore della legge 228 del 2003, il diritto penale conosce<br />
– per la prima volta – una nozione di schiavitù dettata direttamente dal<br />
legislatore, e ad essa si affianca quella di servitù. Secondo la nuova norma,<br />
( 37 ) Con la sola eccezione dell’introduzione del comma 2 dell’art. 601 c.p. – ipotesi aggravata<br />
di tratta, avente per oggetto minori da destinare alla prostituzione – dovuta a quella<br />
stessa legge 3 luglio 1998, n. 269 che aveva introdotto le nuove fattispecie previste agli articoli<br />
600 bis, ter, quater, quinquies e sexiesi, c.p.<br />
( 38 ) Contrariamente a quanto ritengono alcuni fra i primi commentatori della norma<br />
(G. Amato, La condizione della vittima qualifica il reato, in Guida dir., 13 settembre<br />
2003, fasc. 35, p. 115 ss.; A. Peccioli, Giro di vite contro i trafficanti di esseri umani: le novità<br />
della legge sulla tratta di persone, inDir pen. proc., 2004, fasc. 1, p. 32 ss.) che ritengono<br />
riferibile ai soggetti posti in condizione di schiavitù o servitù solo la generica ipotesi di ‘‘tratta’’<br />
formulata in apertura del primo comma ed estensibili a qualsiasi essere umano le ipotesi<br />
di costrizione o induzione al trasferimento delineate dopo la congiunzione ‘‘ovvero’’ – l’art.<br />
601 c.p. nel suo insieme si riferisce esclusivamente alle persone che si trovano ‘‘nelle condizioni<br />
di cui all’art. 600 c.p.’’, come risulta chiaramente dal testo. Il pronome ‘‘la’’, utilizzato<br />
due volte nella seconda parte dell’art. 601, primo comma, a proposito della persona offesa<br />
del reato (ovvero... la induce... o la costringe...) non è grammaticalmente riferibile a una<br />
qualsiasi persona, ma solo alla ‘‘persona che si trova nelle condizioni dell’art. 600 c.p.’’. Peraltro,<br />
se l’art. 601 primo comma c.p, formulasse davvero due ipotesi da distinguere in ragione<br />
della diversa qualità della persona offesa (una persona ridotta in condizione di schiavitù<br />
o servitù nella prima ipotesi, una persona qualsiasi nella seconda), resterebbero imperscrutabili<br />
le ragioni per le quali il legislatore si sarebbe determinato a usare tecniche espositive tanto<br />
diverse nell’uno e nell’altro caso, confezionando una fattispecie estremamente generica per le<br />
persone di cui all’art. 600 c.p. – in contrasto con lo sforzo di ‘‘tipizzazione’’ manifestato nelle<br />
altre disposizioni sostanziali della novella – e riservando precisione e dettaglio alla tratta delle<br />
persone che non versano in condizione di schiavitù o servitù. L’unico dato testuale che depone<br />
per l’intenzione del legislatore di estendere la nozione di tratta anche a persone che non<br />
versino nelle condizioni di cui all’art. 600 c.p. resta il titolo dell’art. 601 c.p. (Tratta di persone),<br />
specie se raffrontato al titolo dell’art. 602 c.p., riferito ai soli schiavi. Ma si tratta, com’è<br />
noto, di un dato che non può assumere influenza decisiva sull’interpretazione, posto che<br />
il titolo di una norma è estraneo al contenuto precettivo della medesima.
326<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
‘‘chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di<br />
proprietà ovvero chiunque riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione<br />
continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero<br />
all’accattonaggio o comunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento,<br />
è punito con la reclusione da otto a venti anni’’. La struttura del primo comma<br />
dell’art. 600 – analoga, almeno all’apparenza, a quella del primo comma<br />
del successivo art. 601 – presenta la giustapposizione di due ipotesi distinte,<br />
la prima delle quali delineata in termini più generici rispetto alla seconda:<br />
ciò che sta dopo l’«ovvero» è un novero di ipotesi dettagliatamente descritte,<br />
che compongono quella che si suole definire una «tipizzazione».<br />
Al secondo comma dell’art. 600, il legislatore dettaglia ulteriormente la<br />
seconda ipotesi: ‘‘la riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha<br />
luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno,<br />
abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o<br />
psichica o di una situazione di necessità, o mediante la dazione di somme<br />
di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona’’.<br />
La condotta del soggetto attivo è definita, nel titolo, in modo simmetrico<br />
per le due fattispecie: ‘‘riduzione e mantenimento’’. L’esplicita previsione<br />
della condotta di ‘‘mantenimento’’ risponde all’esigenza di superare<br />
problemi interpretativi del passato( 39 ).<br />
L’espressione riportata nella prima parte dell’art. 600 primo comma<br />
nuovo testo corrisponde alla lettera alla nozione di ‘‘condizione analoga alla<br />
schiavitù’’ accolta dalle Sezioni Unite della Suprema Corte( 40 ), a sua volta<br />
desunta direttamente dalla nozione di schiavitù fissata nel testo della Convenzione<br />
di Ginevra del 1926. Si noti che, secondo la Corte, era la ‘‘condizione<br />
analoga’’ alla schiavitù, e non la schiavitù, a identificarsi nel riflesso<br />
‘‘effettuale’’ delle previsioni della Convenzione di Ginevra del 1926, e ad<br />
essere definibile come ‘‘esercizio di attributi del diritto di proprietà’’, poiché<br />
la schiavitù era ‘‘stato’’ di diritto, e non ‘‘condizione’’ di fatto. Si assiste<br />
dunque, per effetto dell’intervento del legislatore, a una peculiare traslazione<br />
semantica: la condizione personale qualificabile, sulla base dell’insegnamento<br />
della Suprema Corte, come ‘‘analoga alla schiavitù’’ è ora definita<br />
dal legislatore ‘‘schiavitù’’. Cancellato, con poco rimpianto, il reato di riduzione<br />
in stato di schiavitù di diritto (secondo la Corte: riduzione in schiavitù<br />
( 39 ) G. Amato, Un nuovo sistema cit., p. 40 ss. Nei Lavori Preparatori si veda l’intervento<br />
del Relatore della legge, On. Angela Finocchiaro, la quale, alla seduta del 19 novembre<br />
2001, affermava ‘‘questa è la ragione per cui abbiamo scritto nel testo ‘‘riduce o mantiene’’,<br />
perché ci riferiamo ad una condotta totalmente soppressiva della libertà personale, che non è<br />
solo quella che si consuma nel momento in cui si riduce un soggetto in schiavitù, ma anche<br />
quando, soggetto altro, conoscendo la situazione di schiavitù o servitù, la mantenga a profitto<br />
proprio o di altri.<br />
( 40 ) Nella sentenza Cass., Sez. Un., 20 novembre 1996, Ceric, cit., p. 713 ss.
STUDI E RASSEGNE<br />
327<br />
in senso stretto, prima parte del vecchio art. 600), resta la riduzione (e il<br />
mantenimento) in condizione di schiavitù di fatto( 41 ).<br />
Il quadro così disegnato presenta un’evidente singolarità: a due distinte<br />
condizioni di assoggettamento della persona offesa – la prima delle quali,<br />
secondo l’orientamento espresso dal legislatore, è ‘‘assoluta’’ e più difficile<br />
da provare, laddove l’altra tollera un ‘‘certo margine di autodeterminazione’’<br />
e appare più facilmente riscontrabile in concreto – è collegata la medesima<br />
pena per il soggetto attivo. Tanto basta a temere che il nuovo art. 600<br />
sia destinato a un destino di ‘‘parziale desuetudine’’ simile a quello toccato<br />
al vecchio articolo. Così come, nel vigore della vecchia disciplina, le applicazioni<br />
pratiche si rivolgevano all’ipotesi di riduzione in ‘‘condizione analoga’’<br />
alla schiavitù, piuttosto che a quella di riduzione in schiavitù in senso<br />
stretto, è prevedibile che la pubblica accusa preferirà ora misurarsi – nell’identità<br />
della sanzione – con la seconda delle due ipotesi delineate dalla<br />
norma, piuttosto che con la prima. Se la maggiore vitalità della seconda<br />
ipotesi dell’art. 600 vecchio testo dipendeva dal possibile riferimento della<br />
prima ipotesi alla ‘‘schiavitù di diritto’’, condizione impalpabile e in ogni<br />
senso remota, la pratica potrebbe privilegiare la seconda ipotesi del nuovo<br />
testo (‘‘soggezione continuativa’’ in varie forme e con vari fini attuata) per<br />
non confrontarsi con la prova della ‘‘soggezione assoluta’’ della persona offesa.<br />
Il timore di una scarsa vitalità della fattispecie di riduzione o mantenimento<br />
in schiavitù è alimentato dalla diversa tecnica utilizzata nell’una e<br />
nell’altra ipotesi. La condizione servile è disegnata assemblando un novero<br />
di previsioni raffiguranti le varie forme nelle quali concretamente si atteggia<br />
il fenomeno dello sfruttamento, secondo una tecnica di ‘‘tipizzazione’’<br />
che ricorda quella utilizzata in sede internazionale nel Protocollo di Palermo<br />
sulla tratta di esseri umani, laddove l’ipotesi della riduzione in schiavitù<br />
si richiama alla solenne proclamazione di un trattato più antico, che ha distillato<br />
l’essenza concettuale della schiavitù, più che offrirne una descrizione<br />
plastica. L’opera di raffronto fra la fattispecie astratta e il caso concreto<br />
sembra dunque a tutta prima più facile con riguardo alla riduzione o al<br />
mantenimento in servitù.<br />
Tuttavia anche la fattispecie della riduzione o mantenimento in schiavitù<br />
esiste, e converrà interrogarsi sul suo ambito di applicabilità, indivi-<br />
( 41 ) Con ciò non resteranno impuniti, se mai se ne troveranno in futuro, gli schiavisti<br />
‘‘di diritto’’ – gli ipotetici cittadini dello ‘‘Stato barbaro’’ che pongano in essere condotte punibili<br />
dalla legge penale italiana ex art. 10 c.p. – poiché simili soggetti saranno pur sempre, a<br />
loro volta, ‘‘schiavisti di fatto’’: se una persona è ridotta o mantenuta in stato di schiavitù, in<br />
applicazione della legge di uno Stato che preveda l’istituto della schiavitù, si presume (a meno<br />
che lo status di schiavo sia una mera ‘‘formalità’’) che egli sia ridotto o mantenuto nella<br />
corrispondente condizione di fatto.
328<br />
duando – possibilmente – un ambito concreto, piuttosto che una remota<br />
area di fantasiosi ‘‘casi di scuola’’, se non altro per tentare di scongiurare<br />
il rischio che la norma possa un giorno o l’altro svegliarsi dal sonno della<br />
desuetudine, per essere piegata ad applicazioni ingiustificate o irragionevoli.<br />
4. La nozione di schiavitù.<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
4.1. Il titolo dell’art. 600 (riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù)<br />
enuncia due condotte del soggetto attivo (riduzione o mantenimento),<br />
ciascuna delle quali riferita a due condizioni della persona offesa (schiavitù<br />
o servitù), ma alla simmetria del titolo non corrisponde la simmetria del testo.<br />
Le condotte della seconda parte sono definite con l’uso dei verbi corrispondenti<br />
ai sostantivi del titolo (‘‘chiunque riduce o mantiene’’...), riferiti<br />
alla condizione definita come ‘‘servitù’’. Da questo punto di vista, la tecnica<br />
legislativa presenta qualche analogia con quella utilizzata dal legislatore del<br />
1930: anche qui l’evento (che la condotta del soggetto attivo deve cagionare)<br />
è rappresentato da una particolare condizione personale della vittima,<br />
anche se nella nuova fattispecie di ‘‘riduzione o mantenimento in servitù’’<br />
la condizione personale della persona offesa è descritta in dettaglio, e sono<br />
indicati i comportamenti attraverso i quali il soggetto attivo deve produrre<br />
o mantenere quella condizione.<br />
La prima fattispecie sembra, invece, qualificabile come reato di mera<br />
condotta( 42 ). Secondo il testo, il reato è perfezionato quando si esercitino<br />
sulla persona offesa poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà, e<br />
non è quindi richiesto – almeno apparentemente – il prodursi di alcun<br />
evento( 43 ).<br />
L’espressione ‘‘esercizio di poteri corrispondenti’’ chiarisce, senza possibilità<br />
di equivoci, che la nozione penalistica di schiavitù è – stavolta anche<br />
nelle intenzioni del legislatore – una condizione di fatto: se nel testo approvato<br />
con la legge 228, contrariamente a quanto previsto in precedenti progetti<br />
di riforma, non si specifica che la schiavitù può essere ‘‘anche di fatto’’<br />
( 42 ) In senso conforme, Cass., Sez. III, 20 dicembre 2004, Galiceanu, in Guida dir.,<br />
2005, fasc. 9, p. 93 ss. Si tratta, peraltro, di un’affermazione incidentale: la contestazione<br />
è riferita promiscuamente alla riduzione in schiavitù e alla riduzione in servitù, ma le questioni<br />
con le quali la S.C. si misura concretamente riguardano la seconda ipotesi. È da escludere,<br />
di conseguenza, che la fattispecie della riduzione in schiavitù possa qualificarsi ‘‘a forma libera’’,<br />
come invece ritiene G. Amato, Un nuovo sistema cit., p. 40 ss. Del resto l’espressione<br />
‘‘esercitare poteri’’ non designa la mera produzione di un effetto, come invece avviene con le<br />
espressioni tipiche delle fattispecie di reato a forma libera.<br />
( 43 ) Peraltro, il titolo designa questa fattispecie come ‘‘riduzione o mantenimento in<br />
schiavitù’’, così delineando una sorta di ‘‘evento ope legis’’, da intendersi comunque prodotto<br />
per effetto della condotta descritta nel testo.
STUDI E RASSEGNE<br />
329<br />
è perché, nell’attuale formulazione, la nozione è solo di fatto( 44 ). Non è<br />
sanzionato ‘‘l’esercizio del diritto di proprietà’’, perché l’ordinamento<br />
non conosce (né riconosce) la proprietà sull’individuo, ma una situazione<br />
di fatto che riproduca l’esercizio del diritto di proprietà, il simulacro di<br />
un diritto inesistente come tale.<br />
Nulla dice la norma riguardo all’esercizio di poteri corrispondenti ai<br />
diritti reali parziali. Lungi dall’incorrere in un’irragionevole omissione( 45 ),<br />
il legislatore ha evitato un’aggiunta superflua. Non esistono ‘‘poteri corrispondenti’’<br />
all’usufrutto che non siano anche corrispondenti alla proprietà,<br />
mentre l’esercizio di poteri corrispondenti agli altri diritti reali su una persona<br />
umana non è neppure concepibile in rerum natura. In una Convenzione<br />
internazionale, che ha come destinatari gli Stati e come oggetto gli ordinamenti<br />
giuridici, ha un senso stigmatizzare (e imporre agli Stati di abrogare)<br />
norme che rendano gli esseri umani oggetto di diritti reali( 46 ), poiché,<br />
se si vietassero solo le norme che riconoscono la proprietà dell’uomo sull’uomo,<br />
potrebbero restar salve le norme che consentono di rendere l’essere<br />
umano oggetto di un diritto reale parziale. Laddove, invece, si debbano<br />
sanzionare comportamenti materiali, il divieto di esercitare i poteri corrispondenti<br />
al diritto di proprietà include il divieto di esercitare i poteri corrispondenti<br />
ai diritti reali parziali.<br />
Dispensato dal compito di definire la ‘‘schiavitù’’ (in presenza di una<br />
definizione dettata dal legislatore), l’interprete deve oggi individuare i po-<br />
( 44 ) Nel corso della precedente legislatura erano stati presentati due progetti di modifica<br />
dell’art. 600 c.p., C 5350 e C 5881, unificati in un testo base poi modificato dalla Commissione<br />
Giustizia, che prevedevano un’esplicita menzione della connotazione ‘‘di fatto’’ della<br />
schiavitù: ‘‘Chiunque riduce una persona in uno stato di schiavitù o di servitù è punito con<br />
la reclusione da otto a venti anni. Agli effetti della legge penale si intende per schiavitù la<br />
condizione di una persona sottoposta, anche solo di fatto, ai poteri corrispondenti a quelli<br />
dell’esercizio del diritto di proprietà o di un altro diritto reale o vincolati al servizio di<br />
una cosa. Agli effetti della legge penale si intende per servitù la condizione di soggezione<br />
di una persona costretta o indotta a rendere prestazioni sessuali o di altra natura’’. Anche<br />
nel c.d. ‘‘Progetto Pagliaro’’, risalente al 1996, si proponeva di definire come schiava la persona<br />
sottoposta, anche solo di fatto, a poteri corrispondenti al diritto di proprietà. Su questi<br />
progetti si veda, più ampiamente, A. Peccioli, Giro di vite, cit., p. 37.<br />
( 45 ) Come invece ritengono, in dottrina, G. Amato, Un nuovo sistema cit., p. 42; A.<br />
Peccioli, Giro di vite, cit., p. 37. Del resto, noto è il dibattito sorto, a questo riguardo,<br />
in sede di Lavori Preparatori alla legge di modifica del codice penale in ordine ai reati di<br />
riduzione in schiavitù e tratta. In tale sede, si ebbe modo di rilevare che il solo riferimento<br />
al ‘‘diritto di proprietà sull’individuo’’ fosse restrittivo e che si dovesse, invece, estendere la<br />
portata della norma fino a comprendere anche i diritti reali. Ciò nondimeno, simili intuizioni<br />
non confluirono nel testo di legge, poi approvato e, oggi vigente.<br />
( 46 ) Lemme, voce Schiavitù cit., p. 1 ss. L’Autore osserva che ‘‘nell’ordinamento interno<br />
potrebbero essere disciplinati con riguardo esclusivo agli esseri umani, come le c.d. servitudes<br />
personnelles fiorite nell’alto feudalesimo come trasformazione del colonato nella servitù<br />
della gleba’’.
330<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
teri corrispondenti all’esercizio del diritto di proprietà dell’uomo sull’uomo.<br />
Non è detto che quest’ultimo compito sia più facile del primo. Una<br />
lettura squisitamente letterale dell’ipotesi descritta all’art. 600 primo comma,<br />
prima parte, unita a un semplicistico riferimento al classico novero degli<br />
attributi del diritto di proprietà (ius utendi, fruendi, abutendi...), conduce<br />
a conseguenze inaccettabili. Si noti che la legge delinea un’ipotesi di reato<br />
solo eventualmente permanente, che può essere perfezionato anche mediante<br />
condotte istantanee identificabili in un solo atto di ‘‘esercizio del potere’’.<br />
Non può invero desumersi dall’uso del plurale (‘‘poteri’’) il requisito<br />
dell’iterazione della condotta con riguardo all’esercizio di almeno due poteri<br />
diversi, e men che meno una connotazione di abitualità della condotta<br />
punibile: il sostantivo al plurale dopo la preposizione ‘‘di’’ sottende indeterminazione<br />
nel numero e nella specie e quindi, sul piano grammaticale,<br />
equivale semplicemente – con il pregio di una maggiore sintesi – all’espressione:<br />
‘‘di uno qualsiasi dei poteri’’. Si noti ancora che la norma prescinde<br />
dall’uso di violenza, minaccia o inganno( 47 ), e perfino dalla specifica esclusione<br />
delle condotte ammesse e regolate dalle leggi civili (‘‘chiunque esercita’’<br />
e non ‘‘chiunque illecitamente esercita’’).<br />
Quando una norma penale contiene un elemento normativo etero-determinato,<br />
richiamato con una nozione giuridica il cui significato è ricavabile<br />
da una fonte extra-penale, il richiamo dovrebbe essere riferito al medesimo<br />
significato che la nozione assume in ambito extra-penale, per il<br />
principio di ‘‘unicità dell’ordinamento’’( 48 ). La legge penale si riferisce<br />
con frequenza alla nozione di ‘‘proprietà’’ e ai poteri del proprietario: talvolta<br />
ai fini dell’applicazione della norma penale rileva la sussistenza del di-<br />
( 47 ) Cfr., V. Musacchio, La nuova normativa penale contro la riduzione in schiavitù e<br />
la tratta di persone (L. 11 agosto 2003, n. 228), in Giur. it., 2004, n. 12, p. 2447 s. L’A. rileva<br />
che ‘‘dalla formulazione della fattispecie incriminatrice si evince che la riduzione o il mantenimento<br />
nello stato di soggezione avviene quando la condotta è attuata non soltanto mediante<br />
violenza, minaccia e inganno, ma anche abuso di autorità, o approfittamento di una situazione<br />
di necessità. Sia la seconda delle fattispecie previste dal nuovo art. 600 (riduzione o<br />
mantenimento in servitù) sia le previsioni del Protocollo addizionale di Palermo includono,<br />
fra le situazioni di ‘‘soggezione continuativa’’ e di sfruttamento, anche quelle prodotte approfittando<br />
dell’altrui stato di bisogno, e non si rinviene quindi alcuna ragione di carattere sistematico<br />
per escludere dal novero delle condotte punibili le ipotesi nelle quali la proprietà<br />
sia esercitata senza trarre vantaggio da alcuno dei classici ‘‘vizi del consenso’’. In giurisprudenza,<br />
(Cass., Sez. III, 20 dicembre 2004, Galiceanu, cit., p. 93 ss.), si riconosce che, nell’ipotesi<br />
di riduzione in servitù, ‘‘l’evento, consistente nello stato di soggezione in cui la vittima<br />
è costretta a svolgere determinate prestazioni, deve essere ottenuto dall’agente, alternativamente,<br />
mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità ovvero approfittamento di<br />
una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità.<br />
( 48 ) Cfr. M. Petrone, Il nuovo art. 5: L’efficacia scusante dell’ignorantia juris inevitabile<br />
e i suoi riflessi sulla teoria generale del reato, inCass. pen., 1990, p. 697 ss; F. Antolisei,<br />
Manuale di diritto penale, parte speciale, vol. I, Milano, 1992, p. 224.
STUDI E RASSEGNE<br />
331<br />
ritto di proprietà sulla cosa( 49 ), altre volte viene invece in considerazione il<br />
possesso uti dominus o la ‘‘disponibilità’’ della cosa( 50 ). Nel nostro caso, il<br />
richiamo all’esercizio dei poteri corrispondenti al diritto di proprietà evoca,<br />
con la massima chiarezza, una situazione possessoria: in ciò si sostanzia<br />
l’opzione, definitivamente fatta propria dal legislatore del 2003, favorevole<br />
alla connotazione ‘‘di fatto’’ della nozione penalistica di schiavitù.<br />
4.2. Ora, non è impossibile concepire il possesso di una ‘‘cosa’’ della<br />
quale non si possa acquistare la proprietà: quel genere di possesso è preso<br />
in considerazione dall’art.1145 c.c.( 51 ), e che quella disposizione ne sancisca<br />
in via generale la giuridica irrilevanza agli effetti civilistici non vale a<br />
escludere – vale anzi a confermare – la configurabilità del fenomeno sul<br />
piano naturalistico, e la conseguente possibilità di contemplarlo e regolarlo<br />
in sede penale. Il ‘‘possesso’’ dell’uomo sull’uomo non può avere alcun rilievo<br />
civilistico (in primis: non potrà produrre usucapione), ma ben può assumere<br />
rilievo penale e, più specificamente, porsi come elemento costitutivo<br />
di una fattispecie incriminatrice. Nulla impedisce, del resto, di qualifi-<br />
( 49 ) Cfr., Cass., Sez. IV, 12 febbraio 1981, San Pietro, in CED Cass., rv. 150517, il S.C.<br />
rileva che ‘‘l’ultimo comma dell’art. 428 c.p. prevede la non punibilità del naufragio o della<br />
sommersione della imbarcazione di proprietà dell’agente, se dal fatto non sia derivato in concreto<br />
pericolo per l’incolumità pubblica. La norma fa riferimento al concetto di proprietà nel<br />
senso civilistico di rapporto reale tra soggetto e cosa; rapporto che sussiste non solo allorché<br />
la cosa appartenga ad un solo soggetto, ma anche quando sia in comunione a più persone’’.<br />
Conformemente, si veda anche Cass., Sez. I, 4 aprile 1989, Wiseman, in CED Cass., rv.<br />
183421; Cass., Sez. VI, 28 settembre 1989, Renzi, ivi, rv. 182327; Cass., Sez. III, 27 febbraio<br />
1990, Toma, ivi, rv. 183964; Cass., Sez. I, 8 luglio 1991, Mendella, ivi, rv. 187903; Cass., Sez.<br />
III, 27 novembre 1997, Ciorba, ivi, rv. 210169; Cass., Sez. VI, 5 maggio 1998, Zufolo, ivi, rv.<br />
179241; Cass., Sez. VI, 29 novembre 2001, Zaccone, ivi, rv. 220936.<br />
( 50 ) In tal senso, in giurisprudenza, Cass., Sez. I, 10 febbraio 1993, Sepe, in CED Cass.,<br />
rv. 193334, a questo riguardo osserva la S.C. ‘‘ai fini della configurabilità del delitto di possesso<br />
ingiustificato di valori previsto dall’art. 12 quinquies comma secondo d.l. 8 giugno<br />
1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, deve escludersi che sia il diritto<br />
di proprietà quello condizionante l’intervento sanzionatorio, intendendosi invece il rapporto<br />
di disponibilità come situazione di mero fatto per la quale, pur al di fuori di una giuridica<br />
titolarità di diritti sulla cosa, il soggetto tuttavia realizzi pur sempre un’autonoma utilizzazione<br />
della stessa. (Nella specie si è esclusa la disponibilità della cosa nella situazione del comodatario,<br />
in assenza di una prova della simulazione del rapporto di comodato’’. In questi termini,<br />
si veda anche, Cass., Sez. II, 22 ottobre 1985, Cecconello, ivi, rv. 172205; Cass., Sez. II,<br />
19 novembre 1985, Bruni, ivi, rv. 171928; Cass., Sez. II, 3 marzo 1989, Barbuto, ivi, rv.<br />
182001. E, più recentemente, si veda Cass., Sez. III, 24 marzo 1998, Galantino, in CED<br />
Cass., rv. 210749, Cass., Sez. V, 17 marzo 2000, Cannella, ivi, rv. 215834; Cass., Sez. Un.,<br />
24 maggio 2004, Focarelli, ivi, rv. 228164, Cass., Sez. Un., 24 maggio 2004, Romagnoli, inedita.<br />
( 51 ) Cfr. ancora la pronuncia delle Sezioni unite della Corte di cassazione (Cass., Sez.<br />
Un., 20 novembre 1996, Ceric, cit., p. 713 ss.) che richiama l’argomento proprio in rapporto<br />
all’esercizio sull’essere umano degli attributi del diritto di proprietà.
332<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
care l’essere umano come un ‘‘bene’’, o almeno, per così dire, come un ‘‘bene<br />
di fatto’’, non compreso nelle previsioni degli articoli 810 e 812 c.c. solo<br />
perché non può ‘‘formare oggetto di diritti’’, quindi solo per l’assenza di<br />
una connotazione giuridica, non per differenze riscontrabili sul piano naturalistico.<br />
I veri problemi nascono quando si tenta di trasporre nelle applicazioni<br />
concrete della norma i ‘‘poteri di fatto’’ dell’uomo che si comporti come<br />
proprietario dell’uomo, ricavandoli dai ‘‘diritti’’ del proprietario: il diritto<br />
di ‘‘godere’’ e il diritto di ‘‘disporre’’ del bene in modo ‘‘pieno ed esclusivo’’<br />
(art.832 c.c.). Quanto al potere di ‘‘godere’’ il problema è che, interpretando<br />
alla lettera la norma, se ne estende l’ambito di applicazione in guisa tale<br />
da valicare ampiamente i limiti dell’assurdo. Quanto al potere di ‘‘disporre’’,<br />
la difficoltà consiste nell’individuare quando un determinato comportamento<br />
del soggetto attivo possa essere qualificato come ‘‘corrispondente’’<br />
(possessorio o di fatto) di un atto di disposizione giuridica che per l’ordinamento<br />
statale non esiste, perché l’essere umano non può essere comprato,<br />
né venduto, né ceduto.<br />
I requisiti di ‘‘pienezza’’ ed ‘‘esclusività’’ nel godimento di un bene<br />
possono essere propriamente riferiti alla configurazione giuridica del diritto<br />
di proprietà, mentre, se l’esercizio del possesso si scompone nell’esercizio<br />
dei singoli ‘‘poteri’’ nel quale esso si sostanzia, ci si trova di fronte a singole<br />
forme di ‘‘uso’’ che, prese singolarmente, non comportano ‘‘dominio’’<br />
e neppure ‘‘soggezione’’. Riferite all’essere umano, singole forme di ‘‘godimento’’<br />
e di ‘‘uso’’ sono proprie di alcune fra le più comuni e ‘‘fisiologiche’’<br />
relazioni sociali. Se ‘‘godere’’ del bene-essere umano significa usufruire della<br />
sua persona, del suo lavoro, delle sue energie fisiche, delle sue potenzialità<br />
intellettuali, è evidente che l’esercizio di uno o più ‘‘poteri corrispondenti’’<br />
al ‘‘diritto di godimento’’ teoricamente spettante all’ipotetico proprietario<br />
del bene-essere umano in molti casi è, e non può che restare, pienamente<br />
lecito: a rigore, anche chi assume una persona alle proprie dipendenze<br />
esercita sul dipendente lo ius utendi, e quindi ‘‘poteri corrispondenti<br />
a quelli del diritto di proprietà’’, in quanto dispone del tempo e delle energie<br />
del lavoratore subordinato( 52 ).<br />
( 52 ) In dottrina, si veda, V. Musacchio, La nuova normativa penale, cit., p. 2448, secondo<br />
questo Autore l’art. 600 c.p. potrebbe applicarsi al datore di lavoro che ‘‘approfitti<br />
della situazione di necessità in cui si può trovare una persona che non può rivolgersi a nessuno<br />
per avere un aiuto (per esempio, un immigrato clandestino) e che, di fatto, è costretta<br />
ad accettare qualsiasi condizione di lavoro per sopravvivere, ottenendo in cambio di prestazioni<br />
di lavoro massacranti e precarie solo la promessa di un’inesistente possibilità di regolarizzazione,<br />
un modesto peculio per l’acquisto di cibo e la possibilità di dormire nel cantiere’’.<br />
La tesi è però riferita alla fattispecie della riduzione in servitù, che presenta come elemento<br />
essenziale lo sfruttamento continuativo della persona offesa. A rigore, invece, il<br />
datore di lavoro esercita comunque un potere corrispondente al diritto di proprietà, e più
STUDI E RASSEGNE<br />
333<br />
Includere nella fattispecie il requisito dell’antigiuridicità – o dell’illiceità<br />
penale, o dell’uso di violenza o minaccia – porterebbe, a prescindere dalle<br />
questioni teoriche legate al fondamento dell’operazione, a ridurre, ma<br />
non a eliminare gli eccessi irragionevoli: troverebbero posto nella fattispecie<br />
dell’art. 600 tutte le condotte oggi inquadrabili nell’art. 610 c.p. e le numerosissime<br />
ipotesi di delitto, previste dal codice e dalle leggi speciali,<br />
comprendenti la violenza privata come elemento costitutivo( 53 ).<br />
Per orientarsi entro confini definiti, l’interprete deve quindi ricorrere,<br />
per così dire, a un requisito di antigiuridicità ‘‘specifica’’, tale da giustificare<br />
la pesante sanzione prevista dalla norma. La prima delle due difficoltà interpretative<br />
cui si è fatto cenno consiste, per l’appunto, nell’individuare questo<br />
requisito, e con esso la peculiare connotazione che il ‘‘godimento’’ del beneessere<br />
umano deve assumere per essere sussumibile nella fattispecie.<br />
Tale connotazione non può ricavarsi dall’analisi del singolo atto di<br />
‘‘godimento’’ (per esempio: la fruizione di una determinata prestazione lavorativa),<br />
perché il testo dell’art. 600 non offre alcuna indicazione volta a<br />
delimitare, sulla base di particolari caratteristiche intrinseche, il novero delle<br />
prestazioni che comportano esercizio di poteri corrispondenti al diritto<br />
di proprietà. L’analisi della fattispecie concreta dovrà allora estendersi al<br />
complesso dei rapporti correnti fra il (presunto o potenziale) soggetto attivo<br />
del reato e la (presunta o potenziale) persona offesa, per verificare che i<br />
‘‘diritti’’ e i ‘‘poteri’’ dell’uno, e gli ‘‘obblighi’’ e i ‘‘doveri’’ dell’altra, siano<br />
quelli propri di una relazione fra schiavo e padrone( 54 ). E l’osservazione<br />
deve essere condotta – ad onta della definitiva opzione legislativa per la nozione<br />
di schiavitù ‘‘di fatto’’ – alla luce di categorie giuridiche: per stabilire<br />
se il ‘‘godimento’’ del bene-essere umano sia un godimento uti dominus<br />
(rectius: un esercizio di un potere corrispondente al diritto di proprietà),<br />
si dovrà stabilire se la potenziale persona offesa sia titolare degli ‘‘obblighi<br />
di fatto’’ e dei ‘‘doveri di fatto’’ propri dello schiavo, e se il potenziale soggetto<br />
attivo sia, sempre ‘‘di fatto’’, titolare dei ‘‘diritti’’ e dei ‘‘poteri’’ propri<br />
del padrone.<br />
esattamente un potere corrispondente al diritto di godimento, anche se non pratica condizioni<br />
retributive e normative particolarmente vessatorie.<br />
( 53 ) Non si ritiene che il ragionamento debba limitarsi ai casi di violenza privata consistenti<br />
nella costrizione a fare qualcosa, poiché anche la costrizione a tollerare o ad omettere<br />
potrebbe essere qualificata come ‘‘uso’’ della persona offesa.<br />
( 54 ) Più che nella più volte citata sentenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione,<br />
(Cass., Sez. Un., 20 novembre 1996, Ceric, cit., p. 713 ss.) un approfondimento della distinzione<br />
fra singoli atti di esercizio dei poteri o attributi corrispondenti al diritto di proprietà e<br />
rapporto interpersonale concretamente configurato nel suo complesso in guisa corrispondente<br />
all’esercizio di fatto della proprietà o di altri diritti reali minori può essere trovato in Ass.<br />
Roma, 23 febbraio 2001, Bilbilushi, in Cass. pen., 2001, p. 2212 s., con nota di L. Benanti,<br />
Il delitto di riduzione in schiavitù in una pronuncia della Corte di Assise di Roma.
334<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
L’ipotesi di esercizio del potere (corrispondente al diritto) di ‘‘disporre’’<br />
della persona sembra ricorrere nei casi di compravendita di esseri umani.<br />
Se l’art. 601 è riferibile alle sole persone già ridotte in schiavitù o servitù,<br />
allora l’art. 600 può essere applicato alla cessione di persone (originariamente)<br />
libere, così colmando un vuoto lasciato dall’art. 601 sul piano<br />
della ragionevolezza e dell’adeguamento agli impegni internazionali assunti<br />
dall’Italia( 55 ), perseguendo le attività di commercio di esseri umani non ridotti<br />
in condizione di schiavitù o servitù. Si tratta però di individuare a<br />
quali condizioni l’attività materiale di consegna della persona offesa, accompagnata<br />
da un passaggio di denaro, possa essere qualificata come esercizio<br />
di un potere di disposizione. Il problema si presenta, con gli adattamenti<br />
del caso, anche nei meno probabili casi di contratti che trasferiscano<br />
diritti reali parziali o diritti di godimento o di contratti unilaterali. È chiaro<br />
che di ‘‘compravendita’’ (così come di locazione o donazione o costituzione<br />
di usufrutto) non si può propriamente parlare a proposito di esseri umani,<br />
o almeno non se ne può parlare utilizzando quelle qualificazioni giuridiche<br />
con i corrispondenti effetti previsti dal diritto civile, poiché tutti i contratti<br />
aventi per oggetto esseri umani sono improduttivi di effetti civili per il nostro<br />
ordinamento. In pratica ci si troverà di fronte ad attività materiali rispetto<br />
alle quali si dovrebbe istituire un giudizio di ‘‘somiglianza’’ o ‘‘analogia’’<br />
rispetto a situazioni qualificabili come atti di disposizione: un compito<br />
pericolosamente vicino a quello che toccava all’interprete nel vigore<br />
del vecchio art. 600, a proposito delle ‘‘condizioni analoghe’’ alla schiavitù.<br />
Il problema può sembrare simile a quello che si presenta per le fattispecie<br />
di ‘‘vendita’’ di stupefacente, perché – fuori dei casi di uso e cessione<br />
lecita – anche i contratti che hanno per oggetto sostanze stupefacenti non<br />
sono suscettibili di produrre effetti sul piano civilistico( 56 ). Ma la somiglianza<br />
è solo apparente: in quel caso, la consegna materiale esaurisce di<br />
per sé il problema della configurabilità della fattispecie, e qualche interrogativo<br />
può sorgere solo nei casi (in pratica marginali) di pattuizioni non accompagnate<br />
dal trasferimento materiale della sostanza. Quando si tratta di<br />
( 55 ) Riservando al trasporto di persone già schiave le sanzioni previste dall’art. 601<br />
c.p., si lascerebbe ingiustificatamente impunito – o si lascerebbe soggetto alla più mite sanzione<br />
prevista all’art. 605 c.p. per il sequestro di persona – chi si dedica al trasporto forzato<br />
di persone originariamente libere (e che provoca, col proprio comportamento, un maggiore<br />
deterioramento della condizione personale dell’offeso, facendolo ‘‘precipitare’’ nel ruolo di<br />
vittima della tratta a partire da uno stato di libertà). D’altronde con la stipula del Protocollo<br />
di Palermo, gli Stati si sono impegnati a tutelare – nelle peculiari, incisive forme dettate dall’accordo<br />
– non solo le persone già ridotte in schiavitù, ma ogni essere umano.<br />
( 56 ) Per una sintetica ma efficace riflessione sulle nozioni di ‘‘vendita’’ e ‘‘acquisto’’ di<br />
stupefacenti, e per un’aggiornata rassegna giurisprudenziale sull’argomento, si veda, G. Leo,<br />
Sul momento consumativo delle fattispecie di acquisto e vendita di sostanze stupefacenti,inDir.<br />
pen. proc., 2005, n. 2, p. 169.
STUDI E RASSEGNE<br />
335<br />
un essere umano, però, le cose non sono così semplici: la traditio, in questo<br />
caso, può presentarsi con connotati concreti evanescenti (la manifestazione<br />
concreta della vendita può essere, per esempio, il semplice fatto che sia un<br />
nuovo sfruttatore a presentarsi a incassare i proventi della prostituzione<br />
della persona offesa) e soprattutto non assume una così chiara e inequivocabile<br />
valenza semantica, in rapporto alla situazione delineata dalla fattispecie<br />
astratta. La consegna materiale della persona offesa in cambio di un<br />
prezzo (per esempio la consegna della ragazza avviata alla prostituzione<br />
da uno sfruttatore a un altro, con pagamento di un corrispettivo per i ‘‘diritti’’<br />
di sfruttamento), mai qualificabile come ‘‘vendita’’ agli effetti civilistici,<br />
non può essere qualificata come vendita agli effetti dell’applicazione dell’art.<br />
600 c.p. se non verificando che il cedente esercitasse (con l’atto stesso<br />
della vendita o anche in precedenza) un ‘‘potere di fatto corrispondente al<br />
diritto di proprietà’’ sulla persona ceduta, e che questo potere si sia trasferito<br />
all’acquirente: è in effetti possibile che i protagonisti del nostro esempio<br />
si siano accordati perché l’uno ceda all’altro, in cambio di un corrispettivo,<br />
il potere di riscuotere periodicamente una somma fissa da una prostituta<br />
che eserciti l’attività in una casa, che a questo accordo si accompagni il<br />
trasferimento della prostituta da una dimora nella disponibilità del cedente<br />
a una dimora nella disponibilità del cessionario, ma che la prostituta sia<br />
pienamente e liberamente consenziente alla nuova situazione così come alla<br />
precedente, e che la accetti per la semplice necessità di disporre di un appartamento<br />
intestato ad altri. Si registrerebbe in un caso del genere un contratto<br />
dalla causa illecita, ma non il trasferimento di un ‘‘potere corrispondente<br />
all’esercizio del diritto di proprietà’’ su un essere umano.<br />
Si comprende, dunque, come la ‘‘lettura’’ dei comportamenti materiali<br />
potenzialmente qualificabili come ‘‘compravendita’’ si presenti, nel caso di<br />
traditio avente per oggetto un essere umano, assai più complessa rispetto<br />
all’ipotesi di cessione di stupefacente, poiché il passaggio di denaro e la<br />
‘‘consegna’’ della persona potranno essere qualificati come compravendita<br />
solo all’esito di un’analisi delle relazioni interpersonali che legano cedente,<br />
cessionario e ceduto.<br />
E si comprende anche come questa analisi (così come quella delle relazioni<br />
interpersonali sottese al ‘‘godimento’’ del bene-essere umano), e la<br />
qualificazione che ne rappresenta il risultato, comportino l’utilizzo di categorie<br />
giuridiche: per verificare se una persona è stata davvero ‘‘venduta’’<br />
agli effetti penali, non si può prescindere dal qualificare il concreto ed effettuale<br />
atteggiarsi dei suoi rapporti con il presunto cedente e con il presunto<br />
cessionario in termini di ‘‘obblighi’’, ‘‘diritti’’ e ogni altro termine<br />
che designi le situazioni soggettive che compongono uno status giuridico.<br />
Per delineare la nozione di schiavitù di fatto, e per individuare le corrispondenti<br />
condotte di ‘‘riduzione’’ o ‘‘mantenimento’’, è inevitabile fare riferimento<br />
a uno status o condizione che, se può qualificarsi come ‘‘di mero<br />
fatto’’ in rapporto all’ordinamento giuridico statale (che non conosce la
336<br />
condizione di schiavo, né il diritto di proprietà dell’uomo sull’uomo) ha comunque<br />
una valenza giuridica, poiché il ‘‘metro’’ con il quale la situazione<br />
‘‘di mero fatto’’ deve essere misurata, è pur sempre una categoria giuridica.<br />
5. La nozione di servitù.<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
L’ulteriore condizione personale delineata dall’art. 600, e qualificabile<br />
come ‘‘servitù’’, è definita nella seconda parte del primo comma e nel secondo<br />
comma, come ‘‘stato di soggezione continuativa’’, che deve essere<br />
provocato o mantenuto con una delle modalità indicate al secondo comma<br />
e che si sostanzia nel costringere la persona offesa a prestazioni che ne comportino<br />
lo sfruttamento.<br />
Tra le prestazioni che comportano sfruttamento sono indicate le prestazioni<br />
lavorative o sessuali e l’accattonaggio. L’elenco non è tassativo (...o<br />
comunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento...), ed è comunque<br />
difficile ipotizzare prestazioni diverse da quelle esplicitamente enumerate(<br />
57 ). È invece tassativo, ancorché massimamente ampio, l’elenco delle<br />
modalità attraverso le quali deve essere ‘‘attuata la condotta’’: violenza, minaccia,<br />
inganno, abuso d’autorità, approfittamento di una situazione d’inferiorità<br />
fisica o psichica o di una situazione di necessità, promessa o dazione<br />
di denaro o altra utilità a chi abbia autorità sulla persona.<br />
È ravvisabile un problema di coordinamento tra siffatta elencazione e l’espressione<br />
‘‘costringendola’’ utilizzata al primo comma, che appare assai più<br />
riduttiva e suscettibile di escludere dal novero delle condotte punibili, ad onta<br />
delle indicazioni del secondo comma, le situazioni nelle quali la vittima non sia<br />
‘‘costretta’’ ma ‘‘indotta’’ alla prestazione che ne comporti lo sfruttamento.<br />
La particolare tecnica espositiva prescelta dal legislatore – definizioni<br />
di schiavitù e servitù al primo comma, ulteriore specificazione riguardante<br />
la nozione di servitù al secondo comma – lascia desumere che al secondo<br />
comma si sia inteso designare una ‘‘nozione convenzionale’’ di stato di soggezione,<br />
tale da ampliare il significato letterale di ‘‘costrizione’’; all’opposto,<br />
si potrebbe sostenere che alla soggezione attuata in una qualsiasi delle forme<br />
previste al secondo comma debba comunque seguire una fase di costrizione<br />
vera e propria (nella quale lo sfruttatore, gettata la maschera usata<br />
per l’inganno o rinunciando alle condizioni che consentivano l’abuso o<br />
l’approfittamento, si determini alla franca violenza)( 58 ), ma questa soluzio-<br />
( 57 ) Il prelievo di organi, finalità che integra una delle aggravanti speciali previste al<br />
terzo comma, non comporta, a rigore, uno stato di soggezione ‘‘continuativa’’, e può rientrare<br />
piuttosto nelle previsioni della prima parte del primo comma, in quanto atto di disposizione<br />
della persona.<br />
( 58 ) Propende per questa tesi A. Peccioli, Giro di vite cit., p. 38, l’A. rileva ‘‘pone
STUDI E RASSEGNE<br />
337<br />
ne sembra contraddetta dalla possibilità di attuare, mediante una delle condotte<br />
descritte al secondo comma, non la sola ‘‘riduzione’’ ma anche il<br />
‘‘mantenimento’’ in servitù (da altri provocata per la prima volta mediante<br />
condotte di ‘‘riduzione’’)( 59 ).<br />
La norma chiarisce esplicitamente che lo stato di ‘‘soggezione continuativa’’<br />
può manifestarsi sia mediante prestazioni lavorative (compreso<br />
l’accattonaggio) sia mediante prestazioni sessuali, ed è quindi pacifico<br />
che la prostituzione forzata possa rientrare nell’ambito di applicabilità della<br />
norma( 60 ). Rimane però aperto il problema di stabilire a quali condizioni le<br />
condotte sussumibili in fattispecie di reato contro la libertà individuale (sequestro<br />
di persona o violenza privata) o contro la moralità pubblica (sfruttamento<br />
della prostituzione mediante violenza) possano qualificarsi come<br />
‘‘riduzione o mantenimento in servitù’’.<br />
La diligente ‘‘tipizzazione’’ delle condotte punibili non deve generare<br />
illusioni: i contorni di questa ipotesi di reato sono ben lontani dallo stagliarsi<br />
con luminoso nitore nel panorama delle fattispecie incriminatrici.<br />
La ‘‘tipizzazione’’ si attua nella duplice direzione delle modalità attraverso<br />
le quali il soggetto attivo realizza la situazione di assoggettamento (violenza,<br />
minaccia, inganno, abuso di una situazione di necessità...) e della destinazione<br />
riservata alla persona sfruttata (lavoro, prestazioni sessuali, accattonaggio).<br />
Nella prima ‘‘direzione’’, l’elenco comprende tutte le modalità<br />
astrattamente ipotizzabili, con la sola eccezione, puramente teorica e<br />
comunque priva di rilievo penale, dell’assoggettamento spontaneo della<br />
persona offesa, non solo libera da costrizioni e minacce, ma neppure pressata<br />
dal bisogno( 61 ). Nella seconda direzione, sono elencate tutte le più<br />
qualche interrogativo la possibilità che lo stato di soggezione possa essere realizzato unicamente<br />
attraverso l’impiego dello strumento ingannatorio, che presuppone un’immediatezza<br />
la cui efficacia è destinata ad esaurirsi. In realtà, una volta esaurita l’efficacia dell’inganno<br />
perché, per esempio, il soggetto passivo ha acquistato la consapevolezza della falsità delle<br />
promesse con cui era stato attirato nella sfera di dominio altrui, il soggetto attivo può continuare<br />
a mantenere in uno stato di schiavitù la vittima solo con l’impiego delle altre modalità<br />
alternative (violenza/minaccia).’’<br />
( 59 ) Sembra già indirizzarsi in questo senso una delle prime applicazioni del nuovo art.<br />
600 c.p. in sede di legittimità, Cass, Sez. III, 20 dicembre 2004, Galiceanu, cit., p. 93, con<br />
nota di G. Amato. Nel caso all’esame del S.C., il capo d’imputazione era formulato anche<br />
con riferimento all’uso di violenza e minaccia, ma in motivazione la Corte rileva che la fattispecie<br />
‘‘richiede una condotta del soggetto attivo qualificata da minaccia, violenza, inganno,<br />
abuso di autorità, o approfittamento di situazioni di inferiorità o di necessità’’, così affermando<br />
che può ricorrere anche una sola delle indicate connotazioni.<br />
( 60 ) In questi termini, si veda anche, V. Musacchio, La nuova normativa, cit., p. 2448.<br />
( 61 ) Che una simile ipotesi, e le fantasiose ipotesi di soggezione indotta da condizionamento<br />
psichico e pratiche magiche, non siano sussumibili nelle previsioni della norma è tuttavia<br />
sufficiente a escludere che, per questa nuova fattispecie, si pongano questioni di costituzionalità<br />
analoghe a quelle che indussero la Corte costituzionale a dichiarare costituzionalmente<br />
illegittimo l’art. 603.
338<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
comuni destinazioni delle persone oggetto di sfruttamento, forse tutte<br />
quelle astrattamente ipotizzabili, e si è comunque aggiunta, come si è visto,<br />
una ‘‘clausola di chiusura’’ (‘‘o comunque a prestazioni che ne comportino<br />
lo sfruttamento’’) tale da escludere che l’elenco sia da considerare<br />
tassativo.<br />
In sostanza, si tratta di due elenchi che assumono il senso dell’inclusione,<br />
e non mai dell’esclusione, di ipotesi di modalità e destinazione dello<br />
sfruttamento. La ‘‘tipizzazione’’ potrà assumere la funzione pratica di evitare<br />
che un caso concreto di sfruttamento sfugga alla severa sanzione penale<br />
prevista dalla norma, e non mai la funzione opposta.<br />
Ora, posto che uno stato di ‘‘soggezione continuativa’’ senza costrizione<br />
o induzione del soggetto passivo a prestazioni che ne comportino lo<br />
sfruttamento sarebbe null’altro che una soggezione teorica o potenziale,<br />
l’essenza della fattispecie è null’altro che la riduzione o mantenimento di<br />
una persona in stato di soggezione continuativa: se il legislatore si fosse fermato<br />
a quel punto, se il primo comma dell’art. 600 si fosse chiuso con l’espressione<br />
‘‘soggezione continuativa’’ e se il secondo comma fosse stato totalmente<br />
eliminato, il senso della norma sarebbe rimasto lo stesso.<br />
Il carattere continuativo della soggezione è un requisito meramente<br />
temporale, e si traduce in un concetto di ‘‘durata apprezzabile’’ affidato<br />
al senso della misura dell’interprete( 62 ). Poiché la ‘‘soggezione’’, intesa<br />
in senso naturalistico, è propria dell’intero novero delle condotte inquadrabili<br />
in numerose ipotesi di reato (si pensi, per restare alle più comuni,<br />
al sequestro di persona di cui all’art. 605 c.p., allo sfruttamento della prostituzione<br />
mediante violenza, minaccia o inganno di cui agli articoli 3 e 4<br />
n.1 l. 20 febbraio 1958 n. 75, allo sfruttamento degli immigrati clandestini<br />
di cui all’art.12 commi 3 e seguenti d.l.vo 25 luglio 1998 n. 286), c’è da<br />
chiedersi se il carattere ‘‘continuativo’’ della soggezione sia elemento sufficiente<br />
a trasmodare da una di queste fattispecie alla più grave ipotesi di<br />
riduzione o mantenimento in servitù. C’èda chiedersi, per esempio, se lo<br />
sfruttamento della prostituzione mediante violenza sia sempre inquadrabile<br />
nella fattispecie di riduzione o mantenimento in servitù, purchéprotratta<br />
per un periodo di tempo tale da poter essere qualificata ‘‘continuativa’’(<br />
63 ).<br />
( 62 ) Il riferimento al carattere continuativo della soggezione è di per sé sufficiente a<br />
inquadrare la fattispecie di riduzione e mantenimento in servitù fra i reati a effetti permanenti.<br />
Si vedrà che la stessa qualificazione deve essere attribuita anche alla prima fattispecie dell’art.<br />
600 c.p., pur in assenza di esplicite indicazioni testuali, in base a considerazioni di carattere<br />
sistematico.<br />
( 63 ) Sul punto si veda, ancora, fra i Lavori Preparatori, l’intervento dell’On Finocchiaro<br />
che, alla seduta già citata del 10 ottobre 2001, osservava ‘‘lo sfruttamento della prostituzione<br />
è secondo me, peraltro ed altrimenti, punibile con le altre norme appartenenti al nostro<br />
ordinamento, ma siccome mi rendo conto che è una questione sulla quale si sta accendendo
STUDI E RASSEGNE<br />
339<br />
Gli sconvolgimenti che si produrrebbero nell’intero sistema penale in<br />
conseguenza di una risposta positiva inducono, già di per sé soli, a pretendere<br />
l’individuazione di un peculiare connotato di intensità, o di una peculiare<br />
qualità, che si aggiunga al connotato di durata per delimitare la nozione<br />
di ‘‘soggezione’’ propria della condizione di servitù. La soggezione di cui<br />
all’art. 600 deve necessariamente distinguersi da un qualsiasi stato di soggezione,<br />
nel senso letterale dell’espressione: è il sostantivo (soggezione) che<br />
deve assumere un significato particolarmente ristretto, più ristretto del significato<br />
comune, visto che l’unico aggettivo che lo accompagna (continuativa)<br />
si riferisce alla durata, e non all’intensità o alla qualità della condizione<br />
personale definita come ‘‘servitù’’.<br />
Come si vede, la seconda fattispecie prevista all’art. 600 pone un problema<br />
perfettamente analogo a quello posto dalla prima: l’eccessiva ampiezza<br />
del significato letterale delle espressioni usate dal legislatore rispetto<br />
all’esigenza di definire un ambito ragionevole di applicazione della norma.<br />
Lì era ‘‘l’esercizio di poteri corrispondenti al diritto di proprietà’’, qui la<br />
‘‘soggezione continuativa’’ a presentare un significato letterale talmente ampio<br />
da includere condotte che nessuno sarà mai disposto a vedere sussunte<br />
nelle previsioni dell’art. 600.<br />
Per focalizzare un ambito di applicazione altrimenti troppo vasto, è<br />
inevitabile indirizzarsi nella medesima direzione seguita con riguardo alla<br />
nozione di schiavitù: estendere l’analisi al complesso delle relazioni interpersonali<br />
fra colui che attua e colui che subisce la soggezione, e condurla<br />
alla luce di categorie giuridiche: gli obblighi, i doveri, i diritti, i poteri e le<br />
altre situazioni giuridiche soggettive che possano definire la condizione di<br />
‘‘servo’’, e distinguerla da una qualsiasi ‘‘soggezione’’.<br />
6. Il bene giuridico protetto come criterio-guida dell’interpretazione.<br />
6.1. L’analisi testuale delle due fattispecie previste nel novellato art.<br />
600 ci sta portando ad attribuire al legislatore del 2003 una di quelle rivoluzioni<br />
care al Principe di Salina. Desiderosi di mostrarsi sensibili alla realtà<br />
delle ‘‘nuove schiavitù’’ e agli impegni assunti con un trattato sottoscritto in<br />
un dibattito, direi che possiamo anche accantonarla, in maniera tale che la Commissione possa<br />
riesaminarla magari in una sospensione della seduta’’. La questione è qui enunciata con<br />
riguardo allo sfruttamento della prostituzione che, di per sé, non comporta l’esercizio di violenza<br />
o minaccia.<br />
Quanto all’ipotesi di sequestro di persona, poiché questa fattispecie richiede a sua volta,<br />
secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, che la privazione della libertà si<br />
protragga per una durata apprezzabile, c’è da chiedersi se il sequestro di persona comporti<br />
sempre la riduzione o il mantenimento in servitù.
340<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
territorio italiano, i conditores si sono determinati a un cambiamento totale<br />
nella formulazione della norma. Si è visto, tuttavia, come la prima fattispecie<br />
(riduzione o mantenimento in schiavitù) recepisca in toto una definizione<br />
fissata – con riguardo all’ipotesi di ‘‘condizioni analoghe alla schiavitù’’ –<br />
dalla più autorevole pronuncia giurisprudenziale resa nel vigore della vecchia<br />
disciplina. Nel formulare la seconda fattispecie (riduzione o mantenimento<br />
in servitù), il legislatore del 2003 ha invece imitato la puntigliosa tecnica<br />
espressiva del Protocollo addizionale di Palermo – per il vero acconcia,<br />
più che alle esigenze di una legge, a quelle di un trattato internazionale,<br />
che deve adattarsi il più possibile alle svariate tradizioni lessicali dei singoli<br />
ordinamenti – ma ha in definitiva riproposto, nel nucleo essenziale dell’ipotesi<br />
criminosa, il concetto di ‘‘soggezione’’ che, secondo le elaborazioni dottrinali<br />
e giurisprudenziali consolidate negli ultimi anni di applicazione della<br />
norma abrogata, costituiva il connotato essenziale delle condizioni personali<br />
disegnate dal vecchio art. 600 c.p.<br />
E allora, visto che il nuovo art. 600 non qualifica la ‘‘soggezione’’ se<br />
non mediante uno scontato connotato di continuità (difficile ipotizzare, e<br />
ancor più difficile provare, una condizione di schiavitù momentanea), è<br />
utile tornare, con un minimo di approfondimento in più, airisultatiinterpretativi<br />
registratisi con riguardo alla caratterizzazione dello stato di<br />
soggezione proprio della vecchia norma. Più di tutto ai risultati della giurisprudenza,<br />
ché la dottrina ha piuttosto rilevato la genericità della fattispecie,<br />
così rinunciando in partenza a contribuire a definirla. Quei risultati<br />
potrebbero essere utili, visto che di ‘‘soggezione’’ si deve tuttora discutere,<br />
stavolta per indicazione espressa del legislatore, visto che il legislatore<br />
medesimo non ha dettagliato la qualità o l’intensità della soggezione,<br />
e visto che l’individuazione di uno specifico connotato qualitativo<br />
della ‘‘soggezione’’ appare necessaria per non dilatare oltre ogni ragionevole<br />
limite l’ambito di applicabilità delle ipotesi criminose poste nel nuovo<br />
art. 600.<br />
Peraltro va registrata fin d’ora, al fine di evitare confusioni, un’ulteriore<br />
difficoltà che è destinato a incontrare chiunque intenda distinguere le<br />
due fattispecie del nuovo art. 600 (non rassegnandosi ad accantonare la<br />
prima): tanto la nozione di ‘‘esercizio di poteri, o attributi, corrispondenti<br />
al diritto di proprietà’’, quanto la nozione di ‘‘soggezione’’ erano riferiti,<br />
dalla giurisprudenza formatasi prima della novella, al concetto di ‘‘condizioni<br />
analoghe alla schiavitù’’. Se i risultati di quella elaborazione fossero<br />
ritenuti tuttora vitali, si dovrebbe chiarire se essi siano da riferire all’una<br />
o all’altra o a entrambe le nuove fattispecie.<br />
Nel vigore della vecchia norma, i tentativi di catturare l’essenza della<br />
condizione ‘‘di fatto’’ dello schiavo avevano raccolto prede poco sostanziose.<br />
Da un lato si ricorreva alla metafora della ‘‘reificazione’’, rilevando che<br />
lo schiavo – o colui che vive una condizione analoga alla schiavitù –è‘‘trattato<br />
come una cosa’’ o ‘‘reificato’’. Dall’altro si sosteneva che la condizione
STUDI E RASSEGNE<br />
341<br />
di assoggettamento, per essere equiparabile alla schiavitù, dovesse essere<br />
‘‘totale’’ o ‘‘completa’’( 64 ).<br />
Si trattava, però, di indicazioni interpretative vaghe e insoddisfacenti.<br />
Sostenere che la ‘‘reificazione’’ del soggetto fosse l’elemento caratterizzante<br />
della condizione di fatto dello schiavo (e quindi anche l’elemento che consentiva<br />
di qualificare ‘‘analoga alla schiavitù’’ la condizione personale di un<br />
determinato soggetto) significava proporre una metafora espressiva ed efficace,<br />
ma non aggiungere nulla a una definizione giuridica, posto che, dal<br />
punto di vista letterale o naturalistico, l’uomo non può ‘‘trasformarsi’’ in cosa,<br />
e che ciascuno è libero di fissare come vuole le condizioni alle quali ritenere<br />
spendibile la metafora della reificazione. Si può affermare, per esempio,<br />
che ogni violenza sessuale trasforma la vittima in oggetto: lo si può fare<br />
senza timore di essere contraddetti ma senza poter pretendere adesioni alla<br />
propria posizione, visto che si sta solo utilizzando un’immagine retorica.<br />
Anche l’identificazione della schiavitù nella soggezione ‘‘totale’’ o<br />
‘‘completa’’ si risolveva nel ricorso a un’immagine retorica, poiché una soggezione<br />
siffatta non appare riscontrabile in natura, se non per periodi limitatissimi<br />
di tempo, e non è quindi idonea a disegnare uno status, ma solo<br />
una situazione momentanea di privazione della libertà. La giurisprudenza<br />
si rendeva conto che i casi peggiori di sfruttamento si protraggono nel tempo<br />
(troppo a lungo per essere compatibili con una violenza fisica esercitata<br />
continuativamente), non implicano costrizione assoluta e neppure sorveglianza<br />
diuturna, sono compatibili con margini più o meno ampi di autodeterminazione<br />
e perfino con certe forme di ‘‘collaborazione’’ non forzata<br />
da parte della vittima, che abbia interiorizzato la propria condizione e i doveri<br />
a essa connessi. La realtà concreta dei fenomeni di sfruttamento insorgeva<br />
contro l’assolutezza della definizione, e induceva a contraddirla con<br />
avvertenze, limitazioni ed eccezioni. Così, quella stessa giurisprudenza<br />
che aveva accolto la tesi che identificava nella soggezione ‘‘totale’’ l’essenza<br />
della condizione ‘‘analoga alla schiavitù’’ affermava che più o meno ampi<br />
margini di libertà di circolazione e di assenza di sorveglianza fossero compatibili<br />
con la condizione di schiavo( 65 ) e, addirittura, che il reato di riduzione<br />
in schiavitù potesse ritenersi perfezionato in ipotesi nelle quali non<br />
era integrata l’ipotesi del sequestro di persona( 66 ). Una volta escluso che<br />
( 64 ) Così Cass., Sez. III, 19 maggio 1998, Matarazzo, in CED Cass., rv. 211543; Cass.,<br />
Sez. III, 7 settembre 1999, Catalini, ivi, rv. 214517; Cass., Sez. I, 11 dicembre 2002, Ugbo,<br />
ivi, rv. 223026. Tanto la via della metafora dell’uomo come ‘‘cosa’’ quanto la via dell’identificazione<br />
della condizione dello schiavo con la soggezione totale sono praticate, nel presupposto<br />
della loro assoluta identità.<br />
( 65 ) Così esplicitamente Cass., Sez. V, 27 ottobre 2000, Gjini, in CED Cass., rv.<br />
217846.<br />
( 66 ) Cass., Sez. Un., 20 novembre 1996, Ceric, cit, p. 713 s.
342<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
‘‘totalità’’ e ‘‘completezza’’ dell’assoggettamento fossero connotati da riscontrare<br />
alla lettera – una volta attribuito al requisito della ‘‘totalità’’ o della<br />
‘‘completezza’’ non un chiaro e concreto significato naturalistico, ma un<br />
imprecisato significato metaforico – ciascuno restava libero di fissare la soglia<br />
della ‘‘totalità’’ o della ‘‘completezza’’ a un determinato livello di assoggettamento<br />
piuttosto che a un altro, e sostenere che una determinata situazione<br />
concreta di soggezione fosse qualificabile come ‘‘totale’’ o ‘‘parziale’’,<br />
‘‘completa’’ o ‘‘incompleta’’.<br />
6.2. Le Sezioni Unite della Cassazione sembravano intraprendere un<br />
percorso diverso, laddove ancoravano il concetto di ‘‘condizione analoga<br />
alla schiavitù’’ al concreto atteggiarsi delle manifestazioni storiche del fenomeno<br />
della schiavitù, identificando detta condizione in una ‘‘situazione di<br />
fatto identica, quanto al peso che ne subisce chi ne sia oggetto, alla condizione<br />
materiale dello schiavo’’( 67 ). Ci si riferiva così a situazioni sperimentate<br />
nella realtà, piuttosto che a un’immagine retorica o a un irrealistico<br />
concetto ‘‘assoluto’’ di soggezione. Questa strada era però appena accennata<br />
dal Supremo Collegio, e in definitiva abbandonata laddove – forse in<br />
conseguenza della difficoltà di cogliere le connotazioni ‘‘immutabili’’ di<br />
una condizione regolata, nel diritto degli Stati schiavisti, nelle forme più varie<br />
– si scorgeva la ‘‘condizione analoga’’ alla schiavitù nel ‘‘riflesso effettuale’’<br />
delle previsioni della Convenzione di Ginevra del 1926.<br />
Secondo la Suprema Corte, se la schiavitù era, a mente della Convenzione,<br />
lo stato (di diritto) dell’individuo sul quale si esercitavano, in applicazione<br />
delle norme di uno Stato schiavista, uno o più fra gli ‘‘attributi del<br />
diritto di proprietà’’, era da qualificarsi ‘‘analoga alla schiavitù’’ la condizione<br />
(di fatto) dell’individuo sul quale quei medesimi attributi fossero esercitati<br />
illegittimamente, all’interno di un ordinamento che aveva ripudiato la<br />
schiavitù. Si trasmigrava così da una referenza storica concreta a una referenza<br />
puramente concettuale, desunta dalle previsioni di un trattato.<br />
Si rendeva necessario, a questo punto, determinare quando ‘‘l’uso o l’abuso’’<br />
di una persona configurasse riduzione in condizione analoga alla<br />
schiavitù: impossibile rispondere che questo avviene sempre, posto che l’abuso<br />
è caratteristico di tutti i reati contro la persona, e che l’uso si registra<br />
finanche nel più lecito dei rapporti di lavoro subordinato. La Corte ritenne<br />
di risolvere la questione postulando l’equivalenza fra condizione di schiavitù<br />
e soggezione all’esercizio degli attributi della proprietà, così rinunciando<br />
a storicizzare la nozione di schiavitù e ravvisando l’esercizio degli attributi<br />
della proprietà ‘‘le quante volte... sia dato verificare l’esplicazione di una<br />
condotta cui sia ricollegabile l’effetto del totale asservimento d’una persona<br />
( 67 ) Nella medesima sentenza citata alla nota precedente.
STUDI E RASSEGNE<br />
343<br />
umana al soggetto responsabile della condotta stessa’’. Il totale asservimento<br />
era a sua volta identificato, in altro passo della motivazione, nell’uso della<br />
persona ‘‘come di cosa propria’’. Con il che si tornava alla ricerca metafisica<br />
della ‘‘assolutezza’’ o della ‘‘totalità’’, e all’immagine letteraria dell’uomo<br />
trasformato in cosa.<br />
La teoria della schiavitù come soggezione ‘‘assoluta’’ si radicava, più o<br />
meno consapevolmente, in una visione eminentemente ‘‘materiale’’ del bene<br />
giuridico protetto dalla norma( 68 ). Ai delitti contro la ‘‘personalità individuale’’<br />
era e resta tuttora dedicata la prima sezione del capo dedicato ai<br />
delitti contro la ‘‘libertà individuale’’. Sono i più gravi fra questi delitti, e<br />
sono posti prima dei delitti contro la ‘‘libertà personale’’, contro la ‘‘libertà<br />
morale’’, contro la ‘‘inviolabilità del domicilio’’ e contro la ‘‘inviolabilità dei<br />
segreti’’( 69 ). La collocazione ‘‘apicale’’, segnata tanto dalla priorità di posizione<br />
quanto dalla gravità della pena, poteva e può tuttora indurre a ravvisare<br />
nella ‘‘totalità’’ dell’aggressione al bene-libertà la caratteristica essenziale<br />
dei delitti contro la personalità individuale. In conseguenza di tale impostazione,<br />
una parte della dottrina ha sottolineato, con specifico riguardo<br />
all’art. 600, che ‘‘le incriminazioni previste’’ dalla norma sarebbero ‘‘volte a<br />
impedire l’annientamento totale della personalità derivante dall’assoggettamento<br />
dell’uomo che cessa di essere persona per diventare res, al dominio<br />
altrui’’( 70 ), ossia a stigmatizzare tutte quelle condotte consistenti ‘‘nello impadronirsi<br />
di un uomo per porlo in condizione di non potersi aiutare da<br />
sé’’( 71 ), o per dirlo con le parole del Carrara ‘‘nella violenta e fraudolenta<br />
abduzione di un uomo per farne lucro o per fine di vendetta’’( 72 ).<br />
Secondo questa impostazione, la ‘‘personalità individuale’’ si identifica<br />
nel complesso delle manifestazioni nelle quali può esplicarsi la libertà individuale(<br />
73 ), e la lesione del bene giuridico protetto si traduce nella perdita<br />
( 68 ) In altri casi, status libertatis e libertà materiale sono accomunati indistintamente,<br />
senza particolari approfondimenti (anche perché l’approfondimento non è funzionale alla<br />
questione concreta affrontata). Così Cass., Sez. III, 5 marzo 2003, Rubino, in Cass. pen.,<br />
2004, p. 2878, resa in tema di prostituzione minorile (art. 600 bis c.p.) ravvede il bene giuridico<br />
protetto nella ‘‘integrità e libertà fisica e psichica del minore’’. La questione concreta<br />
era la distinzione con i reati di cui alla l. n. 75 del 1958.<br />
( 69 ) Sul confronto fra i criteri sistematici seguiti in materia dal codice Zanardelli e dal<br />
codice Rocco v. ampiamente G. M. Flick, voce Libertà individuale (delitti contro), inEnc.<br />
dir., vol. XXIV, 1974, Torino, p. 540.<br />
( 70 ) T. Brasiello, voce Personalità individuale (delitti contro), inN.ss. dig. it., vol.<br />
XII, 1965, Torino, p. 1092 s.<br />
( 71 ) L’espressione appartiene a E. Pessina, Diritto penale italiano, vol. VI, 1909, Fano,<br />
p. 483.<br />
( 72 ) ‘‘Hominis vel servi fraudolenta soppressio lucri faciendi causa facta’’. Carrara, Programma<br />
del Corso didiritto criminale, parte speciale, vol. II, Firenze, 1902, § 1667.<br />
( 73 ) Cfr., Crivellari, Codice penale, vol. V, 1894, Torino, p. 469. Osserva l’Autore<br />
‘‘la nota essenziale che nell’associazione deve accompagnare l’opera dell’individuo è la liber-
344<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
totale della libertà personale e nella riduzione della persona offesa ‘‘in un<br />
completo stato di assoggettamento al potere del colpevole( 74 )’’.<br />
Non mancavano, peraltro, voci autorevoli che avvertissero l’improduttività<br />
della ricerca di una ‘‘soggezione assoluta’’ in senso materiale. Primo<br />
fra tutti il Manzini, che individuava l’essenza della condizione di schiavitù<br />
nella perdita dello status libertatis e nella conseguente ‘‘costituzione di un<br />
rapporto di padronanza’’, e che concepiva la lesione degli aspetti materiali<br />
della libertà personale come un mero riflesso di quel particolare rapporto.<br />
Conviene riportare il passo che riassume il pensiero dell’illustre Autore:<br />
‘‘la legge, insomma, vuole prevenire e reprimere la costituzione di rapporti<br />
di padronanza, per effetto dei quali un uomo possa venire a trovarsi<br />
sotto l’altrui illegittima potestà, con perdita più o meno ampia della propria<br />
libertà di movimento, di determinazione e di azione. Il delitto, pertanto,<br />
implica non solo una restrizione (che può spingersi fino alla privazione)<br />
della libertà personale del soggetto passivo, ma altresì e indispensabilmente<br />
un più o meno ampio assoggettamento a servizio (gratuito o retribuito),<br />
senza del quale potrà immaginarsi prigionia o altro, ma non schiavitù o altra<br />
condizione analoga’’( 75 ).<br />
tà, la quale costituisce uno dei diritti ingeniti e primitivi della natura umana, come una di<br />
quelle condizioni senza cui l’uomo rimarrebbe svestito della qualità che lo distingue dagli<br />
altri esseri. La libertà dell’uomo individuo non è l’injuriae licentia, ma quell’autonoma riconosciuta<br />
e protetta dalla legge, in virtù della quale l’uomo deve essere rispettato nel libero<br />
determinarsi ai vari atti della vita, finché non leda la libertà degli altri e i diritti della legge<br />
medesima. La negazione di libertà èlo stato di violenza, al quale l’uomo soggiace è lavis<br />
dalla quale è sopraffatto. La libertà individuale è la costante facoltà dell’uomo di esercitare<br />
le attività proprie, così fisiche come morali, a servizio dei suoi bisogni. Senza questo sarebbe<br />
inutile l’esistenza e l’integrità personale, le quali non sono beni in loro stesse se non in quanto<br />
servono di strumento all’esercizio dell’attività personale. Perciò, in un senso più vasto e in un<br />
concetto più puramente speculativo, la libertà èil diritto, poiché l’idea del diritto si compendia<br />
nell’idea di libertà, nessuno potendo dire e sentire di essere libero senza al tempo stesso<br />
esercitare uno degli speciali diritti che gli competono, sia che usi delle sue facoltà interne od<br />
esterne. Però la parola: libertà dev’essere considerata in un senso più concreto, non mera<br />
potenza, ma come attuale estrinsecazione della potenza, la quale può essere in qualche<br />
suo momento impedita senza essere tolta’’.<br />
( 74 ) Cfr., C. Saltelli -E.Romano Di Falco, Commentario del codice penale, cit., p.<br />
981 s. ‘‘Il diritto leso è qui la personalità individuale considerata, non come un aspetto o una<br />
direzione determinata della libertà individuale, non come una o più delle singole manifestazioni<br />
in cui può esplicarsi la libertà individuale, ma come il complesso di tali manifestazioni,<br />
considerate, cioè, nella loro totalità, singolarmente prevedute nelle sezioni che seguono e che<br />
si riassumono nello status libertatis. La personalità individuale, che è la suprema ed essenziale<br />
caratteristica della personalità umana, è, insomma, qui tutelata come un bene inteso come<br />
stato di diritto e come stato di fatto. L’individuo cessa, per effetto del delitto contro la personalità<br />
individuale, di avere una propria personalità, o, se questa gli è conservata come stato<br />
di diritto, egli è ridotto, di fatto, in un completo stato di assoggettamento al potere del colpevole’’<br />
( 75 ) V. Manzini, Diritto penale, cit., p. 55 ss.
STUDI E RASSEGNE<br />
345<br />
La distinzione fra ‘‘prigionia’’ e ‘‘schiavitù’’ arriva al cuore del problema.<br />
Per trovare realizzata la condizione di schiavitù, non occorre muovere<br />
alla ricerca della mancanza totale di libertà di movimento, della sorveglianza<br />
diuturna, della costrizione assoluta. Il punto essenziale non è l’annullamento<br />
capillare della libertà nelle sue più minute manifestazioni, quanto<br />
l’aggressione portata al nucleo essenziale di prerogative che definiscono<br />
lo status di persona libera( 76 ).<br />
6.3. Questa indicazione è valida ancora oggi, perché èimmutata la collocazione<br />
sistematica della norma, e perché l’assenza, nel testo attuale dell’art.<br />
600, di connotati qualitativi idonei a definire compiutamente la schiavitù<br />
e la servitù mediante referenze interne, impone di involgere l’elemento<br />
sistematico nell’operazione ermeneutica( 77 ). Che questi delitti si trovassero<br />
( 76 ) Cfr. G. Amato, La nuova formulazione della fattispecie cancella le vecchie incertezze<br />
applicative, cit., p. 96 ss.: ‘‘Il reato di cui all’art. 600 del c.p. tutela, pacificamente, lo status<br />
libertatis dell’individuo, con particolare riferimento alla dignità dello stesso, così da prevenire<br />
e reprimere la costituzione e/o il mantenimento di rapporti di padronanza, per effetto dei<br />
quali questo, assoggettato all’illegittima potestà di altri, risulti privato delle capacità relative<br />
alla personalità individuale’’. Come ricordato dall’A., la stessa indicazione è ricavabile da<br />
Cass., Sez. V, 1º luglio 2002, DimitriJevic Dragojub, in CED Cass., rv. 222621. Sia l’Autore<br />
che la sentenza si limitano a indicare il bene protetto, senza ulteriormente specificare le caratteristiche<br />
del ‘‘rapporto di padronanza’’, poiché si occupano, in via principale, del rapporto<br />
fra l’art. 600 e altre fattispecie incriminatrici. C. Saltelli -E.Romano Di Falco, Commentario<br />
cit., p. 979, rilevano che i delitti contro la ‘‘personalità’’ (capo I) si caratterizzano<br />
perché compromettono lo status, la condizione personale dell’individuo quale soggetto di diritti.<br />
Secondo G. Mazzi, Sub Art. 600, inCodice penale, Rassegna di giurisprudenza e di dottrina,<br />
a cura di Lattanzi –Lupo, 2000, Milano, p. 496, attraverso le figure delittuose in<br />
parola, la legge penale mira a proteggere la personalità individuale come una sorta di specificazione<br />
della libertà individuale, nella sua accezione di status libertatis. Per G. Spagnolo,<br />
voce Schiavitù cit., p. 620 s., la norma posta all’art. 600 c.p. ‘‘risponde all’esigenza di prevenire<br />
e reprimere la costituzione o il mantenimento di padronanza, per effetto dei quali un<br />
uomo, trovandosi sotto l’illegittima potestà di altri, sia privato delle capacità relative alla personalità<br />
individuale’’.<br />
( 77 ) L’esigenza appare particolarmente pressante nelle ipotesi di riduzione in schiavitù<br />
mediante approfittamento di uno stato di necessità, Cass., Sez. III, 24 dicembre 2004, Galiceanu,<br />
cit., p. 93 ss. ha chiarito che ‘‘la nozione di necessità (di cui all’art. 600) non corrisponde<br />
a quella precisata nell’art. 54 c.p., ma è piuttosto paragonabile con la nozione di bisogno<br />
di cui all’art. 1148 c.c., e va intesa come qualsiasi situazione di debolezza o di mancanza<br />
materiale o morale, adatta a condizionare la volontà della persona. Infatti, come nel<br />
caso di rescissione del contratto per lesione, nella ipotesi di riduzione in schiavitù, di cui<br />
si tratta, si verifica una sproporzione fra la prestazione della vittima e quella del soggetto attivo,<br />
che deriva dallo stato di bisogno della prima di cui il secondo approfitti per trarne vantaggio.’’<br />
È evidente che, a fronte di un così ampio concetto di ‘‘stato di necessità’’, rischiano<br />
di cader preda dei rigori della norma anche semplici contratti di lavoro recanti condizioni<br />
più o meno vessatorie per il lavoratore, se non si chiariscono a sufficienza le peculiari connotazioni<br />
che lo status personale del soggetto passivo deve presentare ai fini dell’integrazione<br />
della fattispecie.
346<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
– e si trovino tuttora – collocati al primo dei capi dedicati alla tutela della<br />
libertà sottolineava – e sottolinea tuttora – la gravità dell’aggressione: l’uomo<br />
libero cessa di essere tale, non è semplicemente ostacolato nell’esercizio<br />
della libertà. La condizione della persona offesa è quella di chi si vede di<br />
fatto negato l’esercizio dei diritti e delle altre situazioni giuridiche soggettive<br />
di vantaggio connesse alla qualità di persona come soggetto giuridico,<br />
e che di fatto cessa di essere persona come soggetto dell’ordinamento giuridico.<br />
Il soggetto attivo del reato non nega – e, almeno in territorio italiano,<br />
non potrebbe negare – ‘‘in diritto’’ alla persona offesa le prerogative<br />
che l’ordinamento gli riconosce, ma ‘‘di fatto’’ fa sì che essa non possa concretamente<br />
usufruirne.<br />
La negazione della ‘‘personalità individuale’’ deve oggi attuarsi con le<br />
condotte tipiche previste dall’art. 600 novellato, vale a dire con l’esercizio<br />
di ‘‘poteri corrispondenti al diritto di proprietà’’ (primo comma prima parte),<br />
oppure realizzando o mantenendo una ‘‘soggezione continuativa’’ (primo<br />
comma seconda parte e secondo comma)( 78 ).<br />
Se è tutt’altro che una novità identificare nella privazione dei diritti della<br />
personalità l’essenza degli status soggettivi previsti dall’art. 600 (ieri la schiavitù<br />
e le condizioni ad essa analoghe, oggi la schiavitù e la servitù), vale la<br />
pena sottolineare tre implicazioni qualificabili come corollari di questa impostazione:<br />
1) le condizioni soggettive previste dall’art. 600 postulano un potere<br />
illecito, al quale il soggetto passivo è sottoposto; 2) l’individuazione di un<br />
siffatto potere alternativo, che pure è potere ‘‘di mero fatto’’ (non riconosciuto<br />
dall’ordinamento statale e dal diritto internazionale) e anzi illecito, richiede<br />
l’utilizzo di categorie giuridiche; 3) la condizione di schiavitù o di servitù<br />
esiste se e in quanto le norme dettate dal potere illecito a disegnare la condizione<br />
della persona offesa siano norme ‘‘efficaci’’ e ‘‘vigenti’’. Quest’ultimo<br />
è il punto cruciale sul piano delle applicazioni concrete della norma, perché<br />
ancorando la verifica della sussistenza di una condizione di schiavitù o servitù<br />
alla verifica dell’effettiva ‘‘vigenza’’ delle norme che disegnano quella condizione<br />
in un ordinamento illecito, contrapposto all’ordinamento statale, si<br />
segue un criterio sufficientemente determinato, radicato su un’indicazione<br />
positiva del legislatore (il bene giuridico protetto), produttivo di percorsi logici<br />
verificabili in sede di controllo della motivazione. E si sfugge alle nebbie<br />
che avvolgono le metafore della ‘‘reificazione’’ e della soggezione ‘‘totale’’.<br />
Tanto la prima quanto la seconda ipotesi dettate dall’art. 600 rimandano<br />
all’esercizio di un potere e a un corrispondente assoggettamento. Quindi<br />
non solo ‘‘sottrazione’’ della persona offesa al potere dello Stato, e ai diritti<br />
che lo Stato le riconosce e che intende garantirle, ma anche assoggettamento<br />
a un potere diverso e antagonista rispetto a quello dello Stato, che<br />
( 78 ) Conf. G. Amato, La nuova formulazione cit., p. 95.
STUDI E RASSEGNE<br />
347<br />
non solo conculca la libertà personale (ed eventualmente lede l’incolumità)<br />
dell’offeso, ma attribuisce di fatto all’offeso uno status personale caratterizzato<br />
dall’assenza di diritti. La condotta dell’agente provoca una sorta di<br />
‘‘eclissi dello Stato’’ – in specie: dei riflessi concreti che l’ordinamento giuridico<br />
statale produce sulla condizione della persona con il riconoscimento<br />
dei diritti della personalità – e proietta l’ombra di un potere diverso, illecito<br />
e antagonista, che di fatto destina la persona offesa allo status di individuo<br />
privo della personalità giuridica e oggetto di diritti altrui.<br />
Che la presenza di un potere antagonista a quello dello Stato sia connaturale<br />
alla condizione di schiavitù è una realtà colta perfettamente dal<br />
Manzini, che definisce lo schiavo come persona soggetta alla ‘‘altrui illegittima<br />
potestà’’. Sarebbe un grave errore logico, d’altronde, ritenere che una<br />
simile presenza caratterizzi lo stato di schiavitù ‘‘di diritto’’, e sia invece<br />
estranea alla condizione di schiavitù (e servitù) ‘‘di fatto’’. Quel che caratterizza<br />
la schiavitù ‘‘di diritto’’ è che la potestà, e il correlato stato di soggezione,<br />
sono previsti e disciplinati dalle norme di uno Stato, ma il rapporto<br />
potestà-soggezione che rappresenta l’essenza del fenomeno-schiavitù è<br />
sempre e comunque una relazione giuridica, e quindi la schiavitù è sempre<br />
e comunque un fenomeno giuridico, in quanto la ‘‘potestà’’ è potere di dettare<br />
norme e garantirne l’applicazione in una determinata sfera di rapporti<br />
interpersonali e in un numero di casi accettabilmente elevato: prevedere<br />
ipotesi di illecito e applicare le relative sanzioni.<br />
La classica nozione di ‘‘schiavitù di diritto’’ dovrebbe essere più propriamente<br />
designata come ‘‘schiavitù di diritto statale’’, ma la schiavitù, in<br />
una prospettiva formalista e relativistica, è sempre ‘‘di diritto’’, in quanto<br />
posizione giuridica soggettiva disegnata da un sistema di norme e garantita<br />
da un ‘‘ordinamento’’ che regola rapporti interpersonali. Che questo sistema<br />
di norme sia il risultato dell’esercizio di un ‘‘potere di fatto’’ non è altro<br />
che l’espressione di un connotato essenziale di ogni fenomenologia giuridica,<br />
poiché il diritto esiste solo ove vi sia forza sufficiente a farlo applicare(<br />
79 ). Dal punto di vista dell’ordinamento statale questo sistema di norme<br />
è illecito (lo stesso poteva dirsi, peraltro, con riguardo all’antica ‘‘schiavitù<br />
di diritto’’ in rapporto al nostro ordinamento statale), ma ciò nonostante<br />
esiste e disegna uno status di soggezione( 80 ).<br />
( 79 ) Sul concetto di ordinamento giuridico come sistema di norme di fatto provviste di<br />
un accettabile grado di ‘‘vigenza’’ e, più in generale, sul rapporto fra ‘‘diritto’’ e ‘‘forza’’, si<br />
veda, H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, 1952, passim e, nello specifico,<br />
il capitolo V. A questo Autore si rimanda come alla migliore espressione del relativismo<br />
giuridico, senza neppure tentare approfondimenti bibliografici su temi fondamentali di<br />
teoria generale del diritto.<br />
( 80 ) Attribuire rilevanza in sede penale a una posizione giuridica soggettiva disegnata<br />
da un ordinamento antagonista non è bizzarro né eccezionale: basti pensare alla posizione di<br />
‘‘capo’’ di un’associazione per delinquere (art. 416 comma terzo c.p.) o di ‘‘dirigente’’ di
348<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
Questa impostazione non comporta una nozione di libertà misurata<br />
sulla rinuncia dello Stato all’esercizio della potestà, ed è anzi coerente<br />
con la nozione, propria dello Stato liberale, di libertà come condizione<br />
umana ‘‘preesistente al diritto’’ e dal diritto garantita (nozione rinvigorita,<br />
con la novella del 2003, dall’attuale configurazione della schiavitù come<br />
condizione ‘‘di fatto’’): ciò che la norma penale tutela non è la potestà dello<br />
Stato, ma lo stato di libertà della persona, aggredito nel suo nucleo essenziale<br />
dalla ‘‘illegittima potestà’’( 81 ).<br />
Il potere illecito, cui la persona offesa soggiace, non è necessariamente<br />
il prodotto di una realtà criminale organizzata. Non si deve pensare che la<br />
condizione di persona sulla quale si esercitano poteri corrispondenti al diritto<br />
di proprietà (schiavo), o di persona in stato di soggezione continuativa<br />
(servo) debba essere affermata e perpetuata mediante una struttura radicata<br />
e complessa. Meno che mai è necessario che una simile struttura assuma<br />
il c.d. ‘‘controllo del territorio’’ proprio delle organizzazioni di tipo mafioso.<br />
È indubbio che l’esigenza di far ‘‘rivivere’’ l’art. 600 – e le sue severe<br />
sanzioni – sia storicamente legata anche alla percezione della valenza lato<br />
sensu ‘‘eversiva’’ di un reato che sfidava l’ordinamento statale, riproducendo<br />
un istituto giuridico da esso ripudiato. La norma, però, non si spinge<br />
fino a chiedere che il soggetto attivo sia ‘‘cittadino’’ di un ordinamento antagonista<br />
assimilabile a uno ‘‘Stato nello Stato’’ o a uno ‘‘Stato in più Stati’’.<br />
un’associazione per delinquere di tipo mafioso (art. 416 bis comma secondo c.p.) e, più in<br />
generale, al concetto stesso di ‘‘vincolo’’ associativo. La posizione di capo di un’organizzazione<br />
criminale è certamente ‘‘di fatto’’ nel senso che nessuno Stato la riconosce, ma esprime<br />
sinteticamente l’applicazione di categorie giuridiche (poteri-doveri, obblighi-diritti) a una relazione<br />
interpersonale. Le obbligazioni derivanti dal ‘‘vincolo’’ associativo, così come le prerogative<br />
del ‘‘capo’’, non potranno essere fatte valere in giudizio dinanzi a un tribunale dello<br />
Stato, ma sono comunque espressione di un ‘‘dover essere’’ di tipo giuridico (sollen sein), si<br />
traducono in ‘‘norme’’ dettate da un potere e in ‘‘sanzioni’’ che quel potere è in grado di applicare.<br />
( 81 ) Cfr., G. Mazzi, Sub Art. 600, cit., p. 496. Questo Autore ritiene che ‘‘è stata generalmente<br />
rilevata la diversa impostazione ideologica del legislatore nella redazione del vigente<br />
codice penale, rispetto al codice penale Zanardelli del 1889. Il mutamento di indirizzo<br />
– condusse al superamento della categoria unitaria dei delitti contro la libertà previsti nel<br />
codice Zanardelli, con l’estrapolazione delle libertà politiche e la configurazione della tutela<br />
della libertà in forma esclusivamente individualistica – è significativamente espresso nella Relazione<br />
ministeriale sul progetto del codice penale II, 364, secondo cui la libertà individuale è<br />
intesa non già come concezione astratta di un bene naturale preesistente alla costituzione della<br />
società giuridica, sebbene come il complesso delle condizioni necessarie allo svolgimento<br />
delle attività consentite per la libera esplicazione della personalità umana. Si veda ancora C.<br />
Saltelli -E.Romano Di Falco, Commentario cit., p. 979, Gli Autori sostengono che<br />
‘‘poiché la libertà individuale è stata considerata, nel suo concreto contenuto, come un insieme<br />
di particolari e concreti interessi appartenenti alla persona, ne è derivato, dal punto di<br />
vista di un’esatta sistemazione legislativa, che i delitti contro la libertà individuale costituiscono,<br />
nel nuovo codice, una sottospecie dei delitti contro la persona.’’
STUDI E RASSEGNE<br />
349<br />
Lo status di schiavo o di servo sarà particolarmente evidente in realtà siffatte<br />
– per esempio, in situazioni nelle quali le persone che reclutano e<br />
sfruttano donne costrette alla prostituzione, trasportandole da uno Stato<br />
all’altro, siano in grado di punire eventuali ribellioni mediante ritorsioni<br />
sui familiari delle vittime rimasti in patria – ma anche in un gruppo ristretto,<br />
per esempio in una comunità, in una setta o in altra ‘‘istituzione totale’’,<br />
o addirittura in ambito familiare, possono prodursi situazioni nelle quali un<br />
soggetto è di fatto privato della personalità individuale, e ridotto alla condizione<br />
di oggetto dei diritti altrui( 82 ).<br />
L’esistenza di un simile ‘‘sistema di norme’’, per quanto elementare, e<br />
la sua ‘‘vigenza’’ in ambito più o meno ristretto, sono essenziali per definire<br />
i concetti giuridici che tuttora sono compresi nelle previsioni dell’art. 600,<br />
e i cui confini non sono ricavabili mediante diretti riferimenti al nostro ordinamento(<br />
83 ).<br />
6.4. Come si è visto, la prima fattispecie dell’art. 600 c.p. comprende il<br />
( 82 ) Contra: Cass., Sez. V, 1º luglio 2002, DimitriJevic Dragojub, cit., rv. 222621 La<br />
massima della sentenza distingue la ‘‘sottoposizione a vessazioni in ambito familiare’’ (che<br />
di per sé non integra il reato) e ‘‘l’esercizio del diritto di proprietà’’.<br />
( 83 ) Nel valutare la configurabilità del reato di cui all’art. 600 c.p., la giurisprudenza ha<br />
inevitabilmente continuato a riferirsi a categorie giuridiche, anche dopo la definitiva affermazione<br />
della tesi della ‘‘schiavitù di fatto’’. A titolo di esempio, si consideri la massima di Cass.,<br />
Sez. V, 4 aprile 2002, Mike, in CED Cass., rv. 222631, stando a quest’ultima ‘‘è ammissibile il<br />
concorso formale tra i reati di riduzione in schiavitù (art. 600 c.p.) e di induzione, favoreggiamento<br />
o sfruttamento della prostituzione (artt. 3 e 4 l. n. 75 del 1958), nel caso in cui una<br />
cittadina straniera sia costretta, dopo essere stata venduta, a riscattare la propria libertà con i<br />
proventi dell’attività di meretricio cui venga indotta con violenza e maltrattamenti, laddove<br />
l’obbligo di pagare un prezzo per riscattare la condizione nativa di libertà si configura come il<br />
quid pluris caratterizzante il reato di riduzione in condizione analoga alla schiavitù’’. Come si<br />
vede, secondo il S.C., la situazione materiale di soggezione alla violenza è comune alle altre<br />
fattispecie sotto esame, mentre è la situazione giuridica (un’obbligazione che non può essere<br />
riconosciuta come tale dal nostro ordinamento, ma che può esistere solo in un ordinamento<br />
diverso da quello statale) che caratterizza la condizione assimilabile alla schiavitù.<br />
Ancor più evidente, se possibile, il ricorso a categorie giuridiche in Cass., Sez. I, 11 dicembre<br />
2002, Ugbo, cit., rv. 223025, che ha ritenuto rilevante – per configurare il reato di<br />
acquisto di schiavi in concorso con il reato di riduzione in schiavitù – la mera variazione del<br />
‘‘titolo’’ del possesso, non accompagnata dalla consegna materiale del soggetto passivo da<br />
una persona all’altra: ‘‘il soggetto che si sia reso responsabile della riduzione di taluno in<br />
schiavitù (art. 600 c.p.) può commettere anche il reato di cui all’art. 602 c.p., non solo<br />
nel caso in cui alieni ad altri la persona resa schiava, ma anche in quello in cui ne acquisti<br />
la ‘proprietà esclusiva’, avendo in precedenza contribuito a rendere schiava la medesima persona,<br />
senza tuttavia diventarne l’unico «proprietario»’’. La S.C. sente l’esigenza di virgolettare<br />
le nozioni giuridiche utilizzate nella motivazione, all’evidente fine di sottolineare che non<br />
si parla di «proprietà» riconosciuta dall’ordinamento giuridico statale. E tuttavia, in assenza<br />
di un mutamento dello stato di fatto, è il mutamento di un «titolo giuridico» che integra la<br />
fattispecie criminosa, e deve pur postularsi un ordinamento che quel «titolo» riconosca.
350<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
concetto di ‘‘proprietà’’. La fattispecie dell’art. 602 involge, a sua volta, i<br />
concetti di ‘‘alienazione’’ e ‘‘acquisto’’. È evidente che, perché a questi concetti<br />
giuridici corrispondano fenomeni materiali suscettibili di assumere rilevanza<br />
giuridica per effetti tanto pesanti, non si può prescindere da un requisito<br />
di ‘‘effettività’’, id est di ‘‘vigenza’’ dell’ordinamento o sistema di<br />
norme che di fatto realizza la proprietà dell’uomo sull’uomo, l’acquisto e<br />
la vendita di esseri umani.<br />
Quando la norma penale si riferisce a un potere corrispondente al diritto<br />
di proprietà su una persona, evoca le fattispecie concrete in cui tale<br />
potere si realizza, e cioè quello specifico rapporto di fatto esistente tra l’agente<br />
e la persona (resa schiava) che subisce l’altrui potere corrispondente<br />
al diritto di proprietà. In altri termini, la norma penale incriminatrice richiama<br />
quella situazione giuridica presente in quello specifico ordinamento<br />
a cui appartengono l’agente e la vittima e che presenta le peculiarità di praticare<br />
– se non di definire in una norma cristallizzata e dettagliata – la proprietà<br />
dell’uomo sull’uomo.<br />
Lo stesso può dirsi per l’acquisto e la vendita: in effetti il legislatore,<br />
che all’art. 600 ha usato l’espressione ‘‘esercizio di poteri corrispondenti<br />
al diritto di proprietà’’, all’art. 601 avrebbe dovuto parlare di ‘‘comportamenti<br />
corrispondenti all’acquisto o alla vendita’’ della persona, perché, nell’un<br />
caso come nell’altro, la nozione giuridica non può essere riferita all’ordinamento<br />
statale (che, se non riconosce la proprietà sulla persona, inevitabilmente<br />
non riconosce la vendita o l’acquisto della medesima). D’altronde<br />
‘‘proprietà’’ e ‘‘vendita’’ sono nozioni giuridiche, e la qualificazione giuridica<br />
di un fatto materiale non è possibile se non riferendosi comunque aunordinamento<br />
giuridico, inteso come sistema di norme provviste di un sufficiente<br />
grado di effettiva vigenza. La persona A trasporta una giovane ragazza,<br />
sottratta alla famiglia, fino all’appuntamento con la persona B; la persona<br />
B consegna del denaro alla persona A e porta via con sé la ragazza. Tutto<br />
ciò non può essere qualificato come ‘‘alienazione’’ e ‘‘acquisto’’ della ragazza<br />
secondo l’ordinamento statale, ma solo secondo l’ottica del ‘‘sistema di norme’’<br />
convenzionalmente accettato da A e B, che consente a B di ritenersi il<br />
nuovo padrone della ragazza, ad A di ritenersi legittimo possessore del denaro.<br />
Entrambi sanno bene che non potranno ricorrere a tribunali dello Stato<br />
se i soldi sono falsi o se la ragazza è gravemente ammalata e inidonea al<br />
lavoro, ma confidano nel rispetto spontaneo di un ‘‘codice’’ criminale o in<br />
meccanismi sanzionatori di autotutela o di tutela attuata da sodali. Se un simile<br />
sistema di norme non esiste, e se non esistono di fatto meccanismi dissuasivi<br />
e repressivi che garantiscano un apprezzabile grado di adeguamento<br />
dei soggetti interessati a quel sistema di norme, la consegna di A a B e il<br />
pagamento del prezzo sono un gioco, non una compravendita.<br />
Che la condizione di schiavo o di servo, vale a dire di soggetto privato<br />
di fatto dello status libertatis, si definisca mediante il ricorso a categorie<br />
giuridiche, è affermazione gravida di conseguenze concrete. Il punto essen-
STUDI E RASSEGNE<br />
351<br />
ziale da tenere presente è che la personalità individuale è cancellata da una<br />
norma o da un sistema di norme (dettate dalla ‘‘illegittima potestà’’), non<br />
dalla realtà materiale: sparisce dall’orizzonte del dover essere in senso giuridico<br />
(sollen sein), non da quello del dover essere in senso materiale (mussen<br />
sein). La libertà individuale dello schiavo o del servo non può essere<br />
esercitata nel senso che c’è una norma che pone lo schiavo sotto il dominio<br />
altrui, non nel senso che è sempre e comunque ostacolata da un impedimento<br />
materiale. Una norma esiste ed è vigente non quando è osservata<br />
sempre (anzi: in quel caso diventa inutile), ma quando raggiunge un accettabile<br />
grado di osservanza, ovvero quando l’ipotesi di illecito si realizza<br />
concretamente in un numero di casi non così alto da produrre la desuetudine<br />
e la ‘‘rottura’’ dell’ordinamento( 84 ).<br />
Le connotazione ‘‘giuridica’’ della condizione di schiavo o di servo si<br />
riverbera nel trattamento giuridico dei casi concreti di assoggettamento<br />
che presentino spazi più o meno ampi di libertà materiale della vittima( 85 ).<br />
Simili spazi, evidentemente, possono essere il frutto di una graziosa concessione<br />
dello sfruttatore, e possono addirittura facilitare lo sfruttamento. Il<br />
‘‘padrone’’ può lasciare che siano dallo schiavo esercitate alcune manifestazioni<br />
esteriori dello status libertatis perché preferisce atteggiare in quella<br />
forma una relazione interpersonale che comunque si muove interamente<br />
sul registro potestà-soggezione( 86 ). Ma non è solo questo il punto. Quel<br />
( 84 ) H. Kelsen, Lineamenti cit., p. 100 s. L’Autore ritiene che ‘‘deve esserci possibilità<br />
di una discrepanza fra l’ordinamento normativo e l’ambito degli eventi ad esso riferibili, perché,<br />
senza una tale possibilità, un ordinamento normativo non avrebbe assolutamente alcun<br />
significato. Se si trattasse di fondare un ordinamento sociale, a cui corrispondesse sempre e<br />
in tutte le circostanze l’effettivo comportamento degli uomini, la norma fondamentale dovrebbe<br />
suonare così: deve avvenire ciò che effettivamente avviene, oppure: tu devi ciò che<br />
tu vuoi. Un ordinamento di questo genere sarebbe privo di senso, così come lo sarebbe<br />
un altro ordinamento al quale non corrispondessero in nessun modo i fatti cui si riferisce.<br />
Un ordinamento normativo deve perdere la sua validità di fronte alla realtà che cessa di corrispondergli<br />
fino a un certo grado. La validità di un ordinamento giuridico, che regola il<br />
comportamento di determinati uomini, si trova pertanto in un sicuro rapporto di dipendenza<br />
col fatto che il comportamento reale di questi uomini corrisponde all’ordinamento giuridico<br />
o anche, come si suol dire, alla sua efficacia. Questo rapporto (che magari potrebbe essere<br />
rappresentato come tensione fra dover essere ed essere) non può esser determinato in altro<br />
modo che con un limite superiore e uno inferiore. La possibilità della corrispondenza non<br />
può superare un massimo stabilito né discendere sotto un minimo stabilito’’.<br />
( 85 ) Quelli che nella relazione al disegno di legge sono definiti ‘‘margini di autodeterminazione’’<br />
e ritenuti compatibili con le previsioni dell’art. 600 c.p.<br />
( 86 ) Cass., Sez. V, 18 dicembre 2000, Gjini, cit., rv. 217846. Nella pronuncia si osserva<br />
che ‘‘ai fini della configurabilità del reato di riduzione in schiavitù previsto dall’art. 600 c.p.,<br />
la condizione di segregazione e assoggettamento all’altrui potere di disposizione non viene<br />
meno allorquando essa temporaneamente si allenti, consentendo momenti di convivialità e<br />
apparente benevolenza, finalizzati allo scopo di meglio piegare la volontà della vittima e vincerne<br />
la resistenza’’.
352<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
che interessa sottolineare è che anche gli spazi di libertà che la vittima si<br />
prende contro la volontà dello sfruttatore possono essere compatibili con<br />
il rapporto potestà-soggezione caratterizzante la condizione di schiavitù o<br />
servitù, in quanto, dal punto di vista dell’ordinamento illecito che disegna<br />
e impone quella condizione, possono configurarsi come realizzazione concreta<br />
di un’ipotesi di illecito (ipotesi alla quale si collega una sanzione) e<br />
possono non inficiare la ‘‘vigenza’’ dell’ordinamento: purché la sanzione<br />
venga applicata o purché, almeno, il numero di illeciti che sfuggono alla<br />
sanzione sia contenuto entro limiti accettabili, tali da non compromettere<br />
la vitalità dell’ordinamento e il perseguimento dei suoi fini. Se la prostituta<br />
sfruttata sfugge una o più volte dal luogo di prostituzione, o se in una o più<br />
occasioni si rifiuta di lavorare, o se riesce a occultare una parte dei suoi<br />
guadagni, ciò non vuol dire necessariamente che ella conservi lo status libertatis,<br />
perché il suo comportamento può essere qualificato come una<br />
‘‘evasione’’ o come una ‘‘insubordinazione’’, quindi come un illecito perseguibile<br />
secondo norme che restano efficaci e ‘‘vigenti’’ anche se il soggetto<br />
riesce a sfuggire all’applicazione della sanzione, purché (o finché) i fenomeni<br />
di ribellione non assumano frequenza e dimensioni tali da dissolvere il<br />
potere che ha dettato la norma.<br />
Per verificare la sussistenza dell’una o dell’altra fattispecie prevista all’art.<br />
600, è fuorviante focalizzare l’indagine sullo stato materiale di costrizione<br />
più o meno ‘‘completa’’. Ciò che conta non è tanto verificare se il soggetto<br />
passivo sia recluso in appartamento o possa uscire per strada, né sele<br />
sue tasche siano perennemente vuote o all’inverso provviste di un più o meno<br />
consistente peculio. Quel che conta è che i movimenti del soggetto, le<br />
sue espressioni di pensiero o il suo patrimonio siano il risultato non dell’esercizio<br />
di una libertà ma della concessione del soggetto attivo, che sceglie<br />
di atteggiare la propria potestà in una forma piuttosto che un’altra, ovvero<br />
in atti di insubordinazione che espongono il soggetto al rischio concreto di<br />
una sanzione.<br />
Il potere illegittimo si misura inevitabilmente con il potere statale: per<br />
esempio il soggetto attivo eviterà, di regola, di darsi ad atti di violenza nei<br />
confronti della persona offesa in presenza di una pattuglia della ‘‘Volante’’<br />
e, se intende sfruttare la prostituzione di una minorenne, potrà avere cura<br />
di procurarsi un passaporto falso che la faccia apparire maggiorenne. Ma,<br />
anche se co-esistente con il potere statale, il potere illegittimo può ritenersi<br />
comunque esistente (o ‘‘efficace’’ o ‘‘vigente’’), laddove riesca di fatto ad<br />
esplicarsi nella direzione dello sfruttamento della persona offesa: laddove,<br />
cioè, il potere statale non sia di fatto in condizione di spezzare – con l’effetto<br />
dissuasivo o repressivo delle sanzioni previste dall’ordinamento – la<br />
relazione potestà-soggezione instauratasi fra lo sfruttatore e la sua vittima.<br />
La distinzione fra la condizione di ‘‘schiavitù’’ e quella di ‘‘servitù’’ –<br />
che non può in alcun modo essere ricercata, in assenza di dati positivi di<br />
conforto, sul terreno di una maggiore o minore ‘‘completezza’’, ‘‘totalità’’
STUDI E RASSEGNE<br />
353<br />
o ‘‘intensità’’ della soggezione – può ravvisarsi nella direzione nella quale il<br />
rapporto potestà-soggezione riesce ad affermarsi. L’esercizio di un potere<br />
‘‘corrispondente al diritto di proprietà’’ (che connota la condizione di<br />
schiavitù) èla manifestazione concreta di un potere che si esplica in tutte<br />
le direzioni nelle quali si può ‘‘godere e disporre’’ dell’essere umano: anche<br />
un solo potere può essere di fatto esercitato, ma la singola attività di esercizio<br />
del potere può essere qualificata come ‘‘corrispondente al diritto di<br />
proprietà’’ quando tutti i poteri siano potenzialmente in condizione di essere<br />
esercitati.<br />
La condizione di servitù è invece disegnata dal legislatore con riguardo<br />
a singole destinazioni di sfruttamento della persona (lavoro, prostituzione,<br />
accattonaggio...). La potestà, e il correlativo sfruttamento, sono one-sided,<br />
indirizzati verso una specifica destinazione e uno specifico ‘‘uso’’ della persona<br />
offesa, come si evince dalla subordinata con la quale il legislatore, nella<br />
seconda parte del primo comma, delimita in un’area determinata di ‘‘uso<br />
della persona, la direzione dello sfruttamento (costringendola a prestazioni...<br />
etc.). È quindi compatibile con la condizione di servitù uno status libertatis<br />
della persona offesa nelle sfere di attuazione della personalità estranee<br />
a quella oggetto della potestà e dello sfruttamento: così potranno essere<br />
considerati in condizione di servitù immigrati clandestini costretti a prestazioni<br />
massacranti in locali angusti, ma liberi di autodeterminarsi nelle relazioni<br />
sessuali( 87 ).<br />
La direzione unilaterale dello sfruttamento distingue la particolare ipotesi<br />
di ‘‘compravendita’’ prevista nell’ultima parte dell’art. 600 secondo<br />
comma (riduzione o mantenimento in stato di servitù mediante la promessa<br />
o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla<br />
persona) e la vendita qualificabile come esercizio di potere corrispondente<br />
al diritto di proprietà, inquadrabile nella prima ipotesi dell’art. 600 laddove<br />
la persona offesa non rivesta la qualità richiesta dal successivo art. 601.<br />
Resta certamente difficile il compito di ‘‘leggere’’ la relazione corrente<br />
fra soggetto attivo e persona offesa, verificando se, ad onta di spazi di libertà,<br />
essa sia caratterizzata dal rapporto potestà-soggezione. Nessuna definizione<br />
di ‘‘schiavitù’’ o ‘‘servitù’’ potrà tradursi nella ricetta per qualificare<br />
ogni situazione con criteri automatici e mediante analisi semplici e super-<br />
( 87 ) A riguardo, si rinvia a Ass. App. Firenze, 23 marzo 1993, Tapiri, cit., c. 298 ss., la<br />
pronuncia fondava proprio sulla unilateralità dello sfruttamento la caratteristica delle ‘‘condizioni<br />
analoghe’’ alla schiavitù di cui al vecchio testo dell’art. 600 c.p. Osservava la Corte<br />
che ‘‘il concetto stesso di schiavitù è riconducibile ad una situazione di fatto, e si differenzia<br />
da quello di «condizione analoga» solo dal punto di vista quantitativo, consistendo quest’ultima<br />
nella limitazione di aspetti specifici, ma particolarmente significativi, della libertà individuale,<br />
tali da comportare una complessiva menomazione dello status libertatis del soggetto,<br />
equiparabile, sul piano normativo, alla schiavitù stricto sensu’’.
354<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
ficiali, trattandosi pur sempre di interpretare una relazione interpersonale<br />
in relazione a categorie giuridiche. Verificare se alla persona offesa sia precluso,<br />
per effetto di una delle condotte tipiche indicate dalla norma, l’esercizio<br />
delle situazioni giuridiche che compongono lo status libertatis, e se il<br />
soggetto attivo eserciti sulla persona offesa una potestà giuridicamente piena<br />
(nel caso della schiavitù), o limitata al particolare uso al quale è finalizzato<br />
lo sfruttamento (nel caso della servitù), è comunque un’analisi che può<br />
essere condotta sulla base di dati obiettivi e di processi logici manifestabili<br />
nella motivazione di un provvedimento giudiziario.<br />
6.5. Individuato il nucleo essenziale della condizione di schiavitù e della<br />
condizione di servitù, i ‘‘fondamentali’’ delle due fattispecie sono ricavabili<br />
senza particolari difficoltà. Si tratta in entrambi i casi di reato a effetti<br />
permanenti, poiché le condotte devono produrre uno status o condizione<br />
personale che, come ogni altro status, non può per sua natura essere istantaneo.<br />
Anche se, come si è visto, il dato testuale suggerirebbe di qualificare<br />
la fattispecie della riduzione o mantenimento in schiavitù come reato di<br />
mera condotta, l’esercizio di uno o più poteri corrispondenti al diritto di<br />
proprietà deve – per essere qualificato tale, e non identificarsi nella semplice<br />
fruizione di prestazioni personali – produrre o perpetuare la condizione<br />
personale propria dello schiavo. Il connotato di continuità èrichiesto in relazione<br />
alla condizione della persona offesa, e nulla autorizza a trasferire<br />
indebitamente quel requisito alla condotta del soggetto attivo: non è possibile<br />
escludere a priori, anche se è assai difficile ipotizzare in pratica,<br />
che una soggezione continuativa sia prodotta mediante una condotta istantanea,<br />
e non vi è quindi alcun dato testuale o sistematico che induca a includere<br />
fra gli elementi della fattispecie il requisito dell’abitualità della condotta.<br />
Entrambe le ipotesi criminose prevedono il dolo generico( 88 ), mentre<br />
( 88 ) In senso contrario sembra esprimersi Cass., Sez. fer., 10 settembre 2004, B.S., almeno<br />
per quanto può desumersi dalla sintesi esposta in Dir. pen. proc., 2004, n. 12, p. 1487 s.<br />
Il S.C. osserva che ‘‘nell’ambito dei delitti contro la libertà individuale ed in maniera più specifica<br />
sotto il profilo della tutela della personalità individuale’’ il che indica ‘‘nella tutela dell’autodeterminazione<br />
e della affermazione della personalità individuale’’ deve ricondursi il<br />
bene giuridico protetto in tale specifico ambito normativo. E pertanto il delitto è ipotizzabile<br />
solo allorché la affermata ‘‘signoria’’ dell’uomo sull’uomo si traduca, o sia finalizzata a tradursi,<br />
nello sfruttamento della persona o del lavoro. Pertanto la cessione di un neonato, uti filii,<br />
verso il pagamento di una somma di denaro o altra utilità, proprio perché non implicante il<br />
fine di lucro o di altra utilità, non può sussumersi nell’ambito della fattispecie di cui all’art.<br />
600 c.p.; né può valere l’argomento della «riserva mentale» di tale futura utilità perché contraria,<br />
tale esegesi, ai principi generali del diritto penale, che rifiutano la considerazione di<br />
qualsivoglia forma di tale riserva in futuro’’. La conclusione cui è giunto il S.C. nel caso concreto<br />
appare condivisibile, ma ad essa si poteva pervenire non già facendo leva sull’assenza<br />
del ‘‘fine di lucro’’ in capo agli acquirenti del neonato, ma semplicemente rilevando che il<br />
neonato inserito nella nuova famiglia non vive la condizione di assoggettamento propria del-
355<br />
il requisito del dolo specifico è posto solo per la configurabilità dell’aggravante<br />
di cui al terzo comma: la fattispecie della riduzione o mantenimento<br />
in servitù prevede, in particolare, una serie di destinazioni, ovvero di possibili<br />
‘‘usi’’ della persona offesa, ma queste indicazioni connotano le modalità<br />
di attuazione dello sfruttamento, e non il fine perseguito dal soggetto<br />
attivo. Anche se lo sfruttamento produce in rerum natura un profitto (patrimoniale<br />
o non patrimoniale), è lo sfruttamento che, perché sia integrato<br />
l’elemento soggettivo del reato, deve essere oggetto diretto della percezione<br />
cosciente e della volontà dell’agente. Non vi è alcuna ragione per escludere<br />
la configurabilità del tentativo, come risultato dell’interruzione dell’azione<br />
o della mancata produzione dell’evento: è piuttosto la prova dell’astratta<br />
idoneità degli atti compiuti a produrre la condizione di schiavitù o servitù<br />
che si presenterà nei fatti difficile. Non è da escludere, però, che questa<br />
prova possa essere conseguita, specie laddove la condotta all’esame dell’interprete<br />
risulti inserita in un quadro di ‘‘precedenti’’, realizzati – dal medesimo<br />
soggetto o da altri soggetti a lui collegati – con analoghe modalità<br />
operative e condotti a termine ‘‘con successo’’, vale a dire producendo lo<br />
stato di schiavitù o di servitù di una o più persone offese.<br />
7. Considerazioni conclusive.<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
Per confrontarsi sia con la prima che con la seconda delle fattispecie<br />
delineate dal nuovo art. 600, l’interprete deve munirsi di una chiave di lettura<br />
utile a trovare a quelle nozioni un significato diverso, e più limitato, da<br />
quello che assumono nel linguaggio comune. E l’opera di delimitazione del<br />
concetto di ‘‘esercizio di poteri corrispondenti al diritto di proprietà’’ e di<br />
‘‘soggezione’’ non può che fondarsi sull’unico dato proveniente dal legislatore<br />
suscettibile di assumere rilievo ermeneutico: la collocazione dell’art.<br />
600 e il bene giuridico protetto della norma. Di conseguenza, va ravvisato<br />
nella lesione del nucleo essenziale della personalità individuale il connotato<br />
essenziale che la condotta tipica dovrà presentare per essere sussunta nell’una<br />
o nell’altra fattispecie.<br />
Se i diritti fondamentali – il diritto di circolare liberamente nel territorio,<br />
di disporre delle proprie risorse fisiche e intellettuali, di manifestare il<br />
pensiero, di essere proprietario di beni, titolare di diritti reali e obbligatori<br />
– qualificano la personalità giuridica individuale, è la privazione di quei di-<br />
lo schiavo o del servo. Quindi, la compravendita del neonato – illecita in quanto comporta<br />
come minimo un’alterazione di stato civile – non segna quel passaggio del soggetto dalla soggezione<br />
alla ‘‘illegittima potestà’’ di taluno alla soggezione ad altra ‘‘illegittima potestà’’ che è<br />
invece caratteristica essenziale della ‘‘compravendita’’ di esseri umani punibile ex art.<br />
600 c.p.
356<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
ritti a connotare la condizione di ‘‘schiavo’’ o di ‘‘servo’’. Chi si trovi in simile<br />
condizione, potrà pure usufruire di spazi di libertà materiale, ma solo<br />
restando nei limiti concessi dal ‘‘proprietario’’ o ‘‘padrone’’, oppure esponendosi<br />
al rischio concreto delle sanzioni predisposte nel sistema di norme<br />
che disegna e impone il suo status di soggezione all’altrui ‘‘illecita potestà’’.<br />
Solo nell’ambito di un simile sistema assumono un senso, uno spessore e<br />
una concreta consistenza le espressioni – usate dal legislatore nel descrivere<br />
condotte punibili come reati contro la personalità individuale – che rimandano<br />
a concetti giuridici e che non possono essere riferiti al diritto prodotto<br />
dall’ordinamento statale, per il carattere di illiceità loro attribuito non<br />
solo dalla norma incrimatrice, ma dall’intero sistema: la ‘‘proprietà’’ di<br />
un soggetto (art. 600), ‘‘l’autorità’’ su di esso acquisita (art. 601) il suo ‘‘acquisto’’,<br />
la sua ‘‘alienazione’’, la sua ‘‘cessione’’ (art. 602).<br />
Non si torna, con ciò, alla nozione di ‘‘schiavitù di diritto’’ propria delle<br />
più antiche interpretazioni dell’art. 600: non è il diritto di un ordinamento<br />
statale a riconoscere e regolare lo status di schiavo o servo penalmente<br />
rilevante, ma un sistema di norme che può di fatto instaurarsi in qualsiasi<br />
rapporto interpersonale: dall’insieme dei soggetti che partecipano a un’associazione<br />
criminale o che ne subiscono le vessazioni, alla ‘‘setta’’ o alla ‘‘comunità’’,<br />
fino a un qualsiasi setting familiare.<br />
D’altro lato non si torna alla tesi che ravvedeva nella ‘‘pienezza’’ o nella<br />
‘‘completezza’’ della soggezione il connotato essenziale della condizione di<br />
fatto qualificabile, nel vigore della vecchia disciplina, come ‘‘analoga alla<br />
schiavitù’’ e oggi come ‘‘schiavitù’’ o ‘‘servitù’’ ai sensi e per gli effetti di<br />
cui all’art. 600 novellato. O almeno: vi si torna con l’avvertenza che la soggezione<br />
del soggetto passivo di quelle fattispecie, e la correlativa potestà,<br />
sono ‘‘piene’’ solo in senso giuridico, e possono essere compatibili con spazi<br />
di libertà materiale frutto della graziosa concessione del soggetto agente<br />
o della rischiosa ribellione della vittima.<br />
Il connotato della ‘‘pienezza’’, così intesa, va riferito al complesso delle<br />
situazioni soggettive che compongono lo status del soggetto nell’ipotesi di<br />
schiavitù, e alla singola area nella quale si attua lo sfruttamento nell’ipotesi<br />
di servitù.<br />
Stabilire quando, di fatto, si producano sia la realizzazione della condotta<br />
tipica sia la lesione del bene giuridico protetto è il compito essenziale<br />
del giudice di merito. Trattandosi di provare una situazione di fatto definita<br />
mediante una qualificazione giuridica, è inevitabile anche che la valutazione<br />
sia fondata su ‘‘indici di riconoscibilità’’ di natura eminentemente<br />
indiziaria.<br />
Il novero di simili indici è stato largamente sperimentato ed esplorato<br />
dalla giurisprudenza formatasi, sulla scia delle citate pronunce delle Sezioni<br />
Unite della Corte di Cassazione, in tema di ‘‘riduzione in condizione analoga<br />
alla schiavitù’’ disciplinata dal vecchio testo dell’art. 600 c.p. Devono<br />
fra essi essere comprese, in primo luogo, le situazioni che distaccano la per-
STUDI E RASSEGNE<br />
357<br />
sona offesa dall’ordinamento statale, predisponendola alla soggezione a un<br />
diverso sistema di norme: lo sradicamento dalla comunità; il trasporto in<br />
luogo sconosciuto; la privazione dei documenti, gli ostacoli frapposti a ogni<br />
forma di socializzazione. In secondo luogo, i comportamenti mediante i<br />
quali si disegna la condizione della persona offesa come persona sostanzialmente<br />
privata dei diritti della personalità: l’imposizione di norme di comportamento<br />
più o meno dettagliate, la previsione e l’applicazione di sanzioni<br />
più o meno gravi per le violazioni degli ordini; le limitazioni alle comunicazioni;<br />
la privazione di ogni apprezzabile risorsa economica; le sevizie e<br />
gli abusi sessuali.<br />
Chiaro che non tutte queste situazioni dovranno realizzarsi in ciascun<br />
singolo caso, ma se ne dovrà valutare ogni volta il peso e il significato concreto.<br />
Non per verificare se la soggezione sia ‘‘completa’’ o ‘‘totale’’, ma se il<br />
soggetto sia sottoposto a una ‘‘illegittima potestà’’ che gli attribuisce il ruolo<br />
di suddito privo di diritti. In questo quadro, sarà più facile attribuire a<br />
circostanze che testimonino un’apparente autonomia del soggetto passivo<br />
una valenza di conferma, più che di smentita, della configurabilità della fattispecie:<br />
è difficile conciliare una definizione di ‘‘soggezione completa’’ o<br />
‘‘totale’’ con l’assenza di vigilanza e controllo dell’agente sulla persona offesa,<br />
o con un temporaneo allontanamento di quest’ultima dai luoghi nei<br />
quali l’agente la obbliga a soggiornare, ma se il soggetto non controlla la<br />
vittima perché confida nella spontanea osservanza dei suoi ordini, e l’allontanamento<br />
è vissuto e temuto come una fuga, allora queste situazioni manifestano<br />
a loro volta l’esistenza e la vigenza del sistema di norme che opprime<br />
la persona offesa e ne annienta la personalità.<br />
Se è auspicabile che, per effetto di una riflessione sui criteri ermeneutici<br />
desumibili dalla collocazione sistematica della norma, l’ambito di applicabilità<br />
delle nuove fattispecie dell’art. 600 risulti meglio determinato, potrebbe<br />
restare sostanzialmente inalterato, rispetto alle applicazioni che hanno<br />
caratterizzato gli ultimi anni di vita della vecchia disciplina, il ‘‘repertorio’’<br />
degli elementi di valutazione di carattere sintomatico, rilevanti per verificare<br />
nel caso concreto la sussistenza delle condizioni personali previste<br />
dall’art. 600. Un risultato che non merita di essere considerato sconfortante,<br />
posto che sono sempre gli stessi, prima e dopo il 2003, i problemi che i<br />
fenomeni criminali interessati da questa norma pongono alla sensibilità<br />
umana e professionale dell’interprete.<br />
Alessandro Giuseppe Cannevale<br />
Chiara Lazzari
STUDI E RASSEGNE<br />
ABUSO E IRREGOLARITÀ NELLA CONTRAFFAZIONE<br />
DELLA FIRMA SU DOCUMENTI RELATIVI<br />
AD OPERAZIONI DI INVESTIMENTO MOBILIARE<br />
359<br />
Sommario: 1. Il problema. – 2. La contraffazione della firma del cliente nella normativa di<br />
settore. – 3. La contraffazione della firma nella disciplina penalistica generale. – 4. Lo<br />
statuto del promotore e la disciplina penalistica (ed anche civilistica) generale.<br />
1. L’art. 98, 2º comma, lett. a, n. 3, reg. Consob approvato con deliberazione<br />
del 1º giugno 1998 n. 11522 e successive modificazioni ed integrazioni,<br />
prevede la radiazione (fatta salva la facoltà della Consob di applicare<br />
la sospensione, ‘‘tenuto conto delle circostanze e di ogni elemento disponibile’’,<br />
art. 98, 3º comma) del promotore finanziario per la violazione normativa<br />
descritta in oggetto.<br />
La norma presenta un delicato nodo interpretativo, rappresentato dall’enucleazione<br />
dell’ambito della fattispecie sottostante, enucleazione finalizzata<br />
a verificare se essa consista nella contraffazione, da parte del promotore,<br />
di firme dell’investitore ‘‘tout court’’ – su moduli e documenti contrattuali,<br />
evidentemente – e quindi abbia rilevanza solo materiale e fattuale<br />
o se di converso, in un’ottica affatto opposta contraddistinta in termini di<br />
giuridicità, essa richieda altresì la sussistenza di un elemento ulteriore, rappresentato<br />
dall’abuso a carico del cliente.<br />
La domanda non è priva di rilievo sul piano pratico, in quanto non tutte<br />
le contraffazioni di firme del cliente da parte del promotore – a prescindere<br />
dal giudizio di disvalore intrinseco su di esse – costituiscono od anche solo<br />
comportano od implicano forme di abuso a danno del cliente: basti pensare<br />
al caso di firma non conforme apposta dal promotore solo perché il modulo o<br />
il documento su cui era stata originariamente apposta la firma autentica del<br />
cliente è stato smarrito ed il cliente non è reperibile per l’apposizione di firma<br />
su modulo o documento dallo stesso contenuto; in via più generale, ci si riferisce<br />
a tutti i casi in cui l’apposizione della firma non conforme sia rispettosa<br />
delle istruzioni o comunque della volontà inequivoca del cliente( 1 ).<br />
( 1 ) Sulla problematica M. De Mari - L. Spada, Orientamenti in tema di intermediari e<br />
promotori finanziari, parte V, in Foro it., 2002, parte I, c. 2138 segg.
360<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
Il chiaro disposto della norma, non facendo alcuna distinzione in relazione<br />
all’abuso, sembra quindi propendere per la prima soluzione.<br />
2. A un esame più attento, la soluzione emergente dalla lettera della<br />
norma si rivela priva di solide basi, come appare indubitabile sol che si<br />
pensi all’intero impianto normativo di settore. La norma rilevante, in<br />
proposito, è infatti quella di cui all’art. 95, 1º comma, reg. Consob n.<br />
11522/98 – cui non a caso, a quanto consta, fa riferimento la Consob<br />
nei provvedimenti sanzionatori –, che fissa gli obblighi di diligenza, correttezza<br />
e trasparenza a carico dei promotori: ebbene, tale norma non costituisce<br />
nient’altro che la specificazione per il promotore, collaboratore qualificato<br />
dell’intermediario, degli stessi obblighi previsti proprio per l’intermediario<br />
dall’art. 21, 1º comma, d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 ‘‘Testo unico<br />
delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli<br />
articoli 8 e 21 della l. 6 febbraio 1996, n 52’’, e tale ultima norma fa riferimento<br />
espresso all’interesse dei clienti come qualificazione di detti obblighi.<br />
L’interesse, che per antonomasia si caratterizza per l’impulso verso beni<br />
e servizi in funzione di valori ed esigenze e pertanto per la considerazione<br />
dei menzionati beni e servizi in chiave strumentale e rappresenta la forma<br />
mediata giuridicamente del bisogno, viene leso solo da abusi e non da<br />
comportamenti (pur gravemente) irregolari, quali le falsificazioni di firme<br />
senza danno per il cliente, che prescindono da ogni considerazione, anche<br />
strumentale, dei beni e dei servizi.<br />
Conseguentemente, dal sistema normativo emerge inequivocabilmente<br />
che la contraffazione viene (rigorosamente) sanzionata in quanto violazione<br />
del precetto generale che impone al promotore di comportarsi con correttezza<br />
e, in tale ottica, di non ledere l’interesse dei clienti: ebbene, tale precetto<br />
generale viene violato esclusivamente nelle forme di contraffazione<br />
che comportino anche abusi a danno dei clienti, con la conseguenza indefettibile<br />
che la sola contraffazione di firme, nella sua materialità, non è sufficiente.<br />
Due obiezioni possono tuttavia essere mosse alle conclusioni raggiunte<br />
ed occorre quindi esaminarle.<br />
Da un punto di vista estrinseco rispetto all’impostazione adottata, si<br />
potrebbe sostenere che la vigente normativa, perfezionando quella precedente<br />
(quale introdotta dalla l. 2 gennaio 1991, n. 1, ‘‘Disciplina dell’intermediazione<br />
mobiliare e disposizioni sull’organizzazione dei valori mobiliari’’),<br />
ha inserito la disciplina degli intermediari in una più complessa regolamentazione<br />
delle operazioni e dei mercati , con la conseguenza indefettibile<br />
che la correttezza, la diligenza e la trasparenza degli operatori a tutela<br />
dei clienti di cui all’art. 21, 1º comma, lett. a, d. lgs. n. 58/98 costituiscono<br />
solo alcuni dei valori – tutti posti in posizione paritaria tra di loro – e non<br />
più, nel loro insieme, il valore principale: nella normativa, secondo tale im-
STUDI E RASSEGNE<br />
361<br />
postazione, non sussisterebbe più la ‘‘GrundNorm’’, quale chiave di lettura<br />
delle altre, ‘‘GrundNorm’’ che in altra sede ho identificato nell’obbligo degli<br />
intermediari e dei loro collaboratori di fare in modo che il cliente sia<br />
sempre e costantemente posto in condizione di ‘‘effettuare consapevoli scelte<br />
di investimento o disinvestimento’’ (art. 28, 3º comma, reg. Consob n.<br />
11522/98 e trattasi di precetto fondamentale che, ancorché espresso solo<br />
a livello di normazione secondaria, discende ‘‘de plano’’ dalle stesse norme<br />
primarie, tra cui fondamentale per l’appunto l’art. 21, 1º comma, lett. a, d.<br />
lgs. n. 58/98).<br />
Tale impostazione, del tutto contraria a quella qui seguita, sembrerebbe<br />
trovare un punto di appoggio nello stesso art. 21, 1º comma, lett. a, d.<br />
lgs. n. 58/98, che non a caso fa riferimento non solo all’interesse dei clienti,<br />
ma anche all’integrità dei mercati.<br />
Secondo tale impostazione, l’interesse dei clienti non rappresenterebbe<br />
più la chiave di lettura unica ed esaustiva dei criteri comportamentali<br />
dell’intermediario e la norma andrebbe posta in stretta correlazione all’art.<br />
5, 1º comma, d. lgs. n. 58/98, che pone quali obiettivi della vigilanza pubblica<br />
in materia, oltre alla trasparenza ed alla correttezza dei comportamenti<br />
e – a monte – alla tutela dei clienti, la sana e prudente gestione degli intermediari<br />
e – a monte – la stabilità, competitività e buon funzionamento<br />
del sistema finanziario.<br />
Non è questa la sede ovviamente per affrontare criticamente in via generale<br />
suddetta impostazione: al momento, è sufficiente evidenziare che la<br />
stessa trascura la portata veramente innovativa della normativa di settore<br />
rispetto alla normativa bancaria ed in genere alla tradizionale normativa<br />
imperativa in materia economica, portata innovativa consistente nell’introduzione<br />
di precetti e di disposizioni, imperativi, dalla rilevanza civilistica,<br />
tale da penetrare all’interno dei tradizionali strumenti civilistici, trasformandoli<br />
profondamente, senza restare all’esterno in una consueta visione<br />
pubblicistica.<br />
In tale ottica, la tutela civilistica del cliente – tale da finalizzare il comportamento<br />
dell’intermediario alla salvaguardia delle esigenze fondamentali<br />
medie del cliente stesso – resta il valore fondamentale della normativa,<br />
rispetto a cui gli altri si pongono in termini di presupposto o di completamento.<br />
Prescindendo dall’esame in via generale dell’impostazione in questione,<br />
è da osservare che la stabilità, la competitività ed il buon funzionamento<br />
del sistema finanziario, quali valori diversi dalla tutela delle ragioni contrattuali,<br />
ruotano intorno all’efficienza sia delle imprese sia del mercato, ritenuta<br />
presupposto essenziale della stessa tutela delle ragioni contrattuali<br />
degli investitori.<br />
Il concetto di efficienza è di natura economica ed operativa e non può<br />
essere inteso nel senso anche di regolarità di comportamenti, valori questi<br />
propri dei settori pubblici: anche in materia economica la regolarità – lesa
362<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
per antonomasia dai falsi – è un valore importante per impedire arbitrii, ma<br />
non è provvista di tutela autonoma, richiedendo norme specifiche e particolari.<br />
Ne esce confermato che l’art. 95, comma 1º reg. Consob n. 11522/98<br />
non può che essere riferito alla correttezza intesa quale tutela delle ragioni<br />
contrattuali dei risparmiatori, inibendo le sole contraffazioni che comportino<br />
abusi.<br />
Da un punto di vista intrinseco rispetto all’impostazione adottata,si<br />
potrebbe obiettare che il concetto di abuso corre il rischio di rivelarsi troppo<br />
lato e privo di pregnanza, in quanto le istruzioni del cliente possono essere<br />
a loro volta oggetto di attività non corretta e di manipolazione del promotore:<br />
ebbene, la contraffazione inficia la riferibilità della disposizione al<br />
cliente, con la conseguenza inevitabile che la conformità del risultato della<br />
stessa alle istruzioni del cliente assicura tale riferibilità e fa venir meno la<br />
natura illecita della contraffazione. La mancanza di correttezza del promotore<br />
nell’acquisizione di tali istruzioni costituisce illecito in relazione ad altre<br />
disposizioni normative e pertanto non rileva in relazione alla<br />
contraffazione<br />
In definitiva, le sanzioni di cui alla disciplina di settore ed in particolare<br />
la radiazione non sono in nessun modo applicabili, pur in caso di apposizione<br />
di firme non conformi, ove manchi qualsivoglia forma di abuso a<br />
danno del cliente( 2 ).<br />
3. Un’analisi ulteriore da effettuare riguarda il rapporto tra la disciplina<br />
di settore e quella penalistica generale che, come è noto, sanziona autonomamente<br />
la contraffazione ‘‘tout court’’: tale ulteriore analisi, ultronea<br />
rispetto al quesito posto ed alla sua soluzione, che come visto, emerge in<br />
termini autosufficienti dalla disciplina di settore, è peraltro preziosa al fine<br />
di verificare se, una volta accertato che l’ipotesi in questione non costituisce<br />
una violazione della normativa di settore che comporta l’applicazione della<br />
radiazione dall’albo e comunque anche delle altre sanzioni minori, la sussistenza<br />
di un grave reato non fornisca spazio all’Autorità di Vigilanza per<br />
un’applicazione analogica delle sanzioni, applicazione analogica certamente<br />
non legittima in base ai principi generali, ma che potrebbe rinvenire considerazioni<br />
(quanto meno) di opportunità.<br />
In tale ottica, l’orientamento dominante ravvisa il reato in presenza del<br />
solo aspetto fattuale della sussistenza di firme non conformi o comunque,<br />
più in generale, di documenti non autentici, di per sé idonei a ledere la<br />
( 2 ) Sui valori protetti dalla normativa G. Minervini, Il controllo del mercato finanziario,inGiur.<br />
comm., 1992, I, pag. 5 segg.; B. Bianchi, Commento all’art. 5, in AA.VV., Commentario<br />
al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, a cura di<br />
G. Alpa e F. Capriglione, t. I, Padova, 1998, pag. 63 segg.
STUDI E RASSEGNE<br />
363<br />
pubblica fede, tutelata dalla normativa penalistica in esame: peraltro, secondo<br />
autorevole orientamento, anche se minoritario, l’apposizione di firme<br />
non conformi che non consista in una lesione di interessi dell’interessato<br />
non configura addirittura gli estremi della contraffazione ‘‘tout court’’.<br />
Si è infatti evidenziato che i reati di falso sono sì lesivi della pubblica<br />
fede ma non si realizzano per il solo espletamento di falsi, occorrendo anche<br />
la lesione di valori ed interessi sostanziali rilevanti dell’ordinamento diversi<br />
dalla pubblica fede e che sono specificatamente protetti dalle singole<br />
norme incriminatici dei falsi: in altri termini, si è rilevato che i reati di falso<br />
sono reati plurioffensivi, offensivi di diversi valori, con la conseguenza che,<br />
perché si concretizzi il reato, è necessaria la lesione dei diversi valori. Si è<br />
quindi concluso, in termini di rigorosa consequenzalità ,‘‘che è giuridicamente<br />
irrilevante (e perciò non punibile) non solo il falso che non è idoneo<br />
ad ingannare (il falso grossolano) ma anche il falso che non può ledere e neppure<br />
mettere in pericolo gli interessi specifici che trovano una garanzia nella<br />
genuità e veridicità dei mezzi probatori’’( 3 ).<br />
Da parte dello stesso orientamento si è quindi aggiunto che ‘‘la punibilità<br />
debba essere negata per difetto dell’elemento soggettivo, tra l’altro nei<br />
seguenti casi che sono stati spesso prospettati nelle diverse opinioni svoltesi in<br />
dottrina: a) taluno falsifica un ordine dell’Autorità per giocare ad alcune persone<br />
un pesce d’aprile; b) un individuo imita la firma esclusivamente per dimostrare<br />
la sua abilità calligrafica; c) un incisore riproduce una moneta per<br />
( 3 ) Le parole citate nel testo sono di F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte<br />
speciale,II, sesta edizione aggiornata a cura di L. Conti, Milano, 2002, pag. 517; Id. Sull’essenza<br />
dei reati contro la fede pubblica, inRiv. it. dir. pen., 1951, pag. 625. In giurisprudenza,<br />
nello stesso senso, Cass., 10 dicembre 1963, in Giust., pen. , 1964, II, pag. 848; Cass. 9 giugno<br />
1965, in Giust. pen., 1965, II, pag. 1176; Cass. 30 ottobre 1968, in Giur. it., 1969, II,<br />
pag. 328; Cass. 21 marzo 1969, in Giust. pen., 1970, II, pag. 647; Cass. 8 ottobre 1970,<br />
in Giust. pen., 1971, II, pag. 850; Cass. 13 maggio 1987, in Riv. pen., 1987, pag. 303; spunti<br />
in tal senso in Cass. 2 giugno 1999, in Rep. Foro it, 2000, n. 3;contra, Cass., 13 gennaio 1978,<br />
in Cass. pen., 1980, pag. 62; Cass., 18 giugno 1980, in Riv. pen., 1982, pag. 92; Cass., 15<br />
luglio 1981, in Riv. pen., 1982, pag. 528; Cass., 9 dicembre 1981, in Giust. pen., 1982,II,<br />
pag. 578; Cass., 22 giugno 1982, in Giust. pen., 1983, II, pag. 359; Cass., 29 aprile 1985,<br />
in Giur. it., 1986,II, pag. 191; Cass., 3 maggio 1985, in Giust. pen., 1986, II, pag. 425; Cass.,<br />
30 gennaio 1986, in Riv. pen., 1987, pag. 360; Cass., 17 aprile 1986, in Riv. pen. 1987, pag.<br />
267; Cass., 4 ottobre 1986, in Giur. it., 1988,II, pag. 334; Cass., 10 marzo 1987, in Riv. pen,<br />
1988, pag. 77; Cass., 18 dicembre 1987, in Riv. pen. , 1989, pag. 853; Cass., 3 novembre<br />
1988, in, Giur. it., 1990, II, pag. 100; Cass., 14 novembre 1989, in Cass. pen, 1991, I,<br />
pag. 779; Cass., 5 luglio 1990, in Cass. pen., 1994, pag. 1522; Cass., 27 settembre 1990,<br />
in Riv. pen., 1991, pag. 484; Cass., 7 ottobre 1992, in Mass. Cass. pen., 1993, fasc. 3, pag.<br />
41; Cass., 19 ottobre 1992, in Riv. pen., 1992, pag. 923; Cass., 24 marzo 1993, in Mass. Cass.<br />
pen., 1993, fasc. 12, pag. 10; Cass., 22 maggio 1998, n. 1051, in Cass. pen., 2000, pag. 287;<br />
Cass., 2 ottobre 1998, n. 11774, in Giust. pen., 1999, II, pag. 715; Cass., 19 novembre 1998,<br />
in Giust. pen. , 1999, II, pag. 460; Cass., 25 gennaio 2000, in Ced Cass., rv. 215582; Cass. 27<br />
novembre 2001, n. 28608, in Dir. giust., 2001, pag. 67.
364<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
puro fine di studio artistico; d) un industriale fabbrica senza autorizzazione<br />
un piccolo quantitativo di carta filigranata a scopo di esperimento’’, ma tale<br />
ultimo spunto non ha avuto seguito a livello giurisprudenziale( 4 ).<br />
Tale orientamento si rivela sul primo punto particolarmente plausibile –<br />
anche se come detto minoritario – e trova espresse conferme normative, sol<br />
che si pensi che alcuni reati di falso sono perseguibili di ufficio (i falsi in atto<br />
pubblico ed i falsi in scritture ed atti privati ove consistenti in testamenti olografi)<br />
ed altri no (tutti i falsi negli altri atti e falsi privati): la differenza non<br />
può che essere fornita dalla natura, a seconda dei casi disponibile o no, degli<br />
interessi e valori coinvolti ed ulteriori rispetto alla pubblica fede, la cui consistenza,<br />
identica in tutti i casi, non si rivela quindi intrinsecamente in grado<br />
di spiegare la differenza di tutela, che deve in via di stretta consequenzialità<br />
logica trovare spiegazione al di fuori di essa, di modo che la natura di reati<br />
plurioffensivi dei reati di falso sembra trovare pacifica conferma.<br />
Ad ulteriore approfondimento, la conferma normativa è solo apparente<br />
e proprio tale aspetto rappresenta il punto debole della teoria in esame,<br />
pur fondamentale: se la differenza essenziale di tutela e di repressione discende<br />
dagli interessi esterni alla pubblica fede, la conclusione indefettibile<br />
è che quest’ultima viene ad essere priva di tutela intrinseca. La categoria<br />
dei reati di falso viene quindi a presentarsi, con tale costruzione, quale priva<br />
di caratterizzazione.<br />
La stessa qualificazione della categoria quali reati plurioffensivi finisce<br />
con l’essere messa in discussione , in quanto la pubblica fede da bene leso<br />
si viene a trasformare in un criterio riassuntivo privo di precettività.<br />
La teoria in questione ha il merito di aver ancorato i reati di falso ad<br />
una rigorosa concezione di offensività, senza attestarsi su un piano di mera<br />
regolarità e di mero rispetto delle forme e della sacralità degli atti: in tale<br />
ottica, la rilevanza degli altri valori ed interessi viene a ricevere, come visto,<br />
sì un’espressa conferma normativa, che peraltro inficia l’unitarietà stessa e<br />
quindi l’identità della figura( 5 ).<br />
( 4 ) Le parole citate nel testo sono sempre di F. Antolisei, Manuale di diritto penale.<br />
Parte speciale, II, cit., pag. 520; anche Id., Sull’essenza dei reati contro la fede pubblica, cit.,<br />
pag. 625 segg., secondo cui il reato richiede una causa fraudandi, la quale non sussiste per<br />
antonomasia se il reato non è preordinato ad a arrecare un danno ad alti ed un vantaggio<br />
asé; A. De Marsico, Falsità in atti, inEnc. dir., vol. XVI, Milano, 1967, pag. 560 segg.,<br />
secondo cui il consenso dell’avente diritto scrimina soltanto i falsi che non siano pubblici<br />
o ad essi equiparati; la non punibilità di detta condotta deriva non soltanto dalla natura<br />
del documento , ma dalla consapevolezza che l’agente abbia di agire in esecuzione della volontà<br />
dell’avente diritto; nello stesso senso Trib. Bologna, 10 aprile 1970, in Giur. merito,<br />
1970, pag. 128; contra, Cass., 8 ottobre 1986, in Riv. pen., 1987, pag. 781; Cass., 10 ottobre<br />
1997, in Ced. Cass., rv. 209271.<br />
( 5 ) Nello stesso senso dell’autorevole insegnamento di Antolisei vi sono F. Bricola, l<br />
problema del falso consentito, inArch., pen., 1959, I, pag. 273 segg.; Id., Teoria generale del<br />
reato, inNovissimo Digesto Italiano, vol. XIX, Torino, 1974, pag. 7 segg.; A. Malinverni,
STUDI E RASSEGNE<br />
365<br />
Un tentativo di soluzione può essere rinvenuto solo da un’enucleazione<br />
– che si snodi in senso opposto a quello dominante – del concetto di<br />
pubblica fede.<br />
La pubblica fede, quale base della convivenza civile, è un mezzo necessario<br />
per un ordinato andamento della vita di ogni giorno: la pubblica fede<br />
è pertanto non un valore di per sé, ma un valore strumentale a quei valori<br />
sottostanti all’ordinato andamento della convivenza, non è meramente riassuntivo<br />
di tanti diversi valori da tutelare, ma è un valore specifico presupposto<br />
di tali ultimi valori.<br />
La pubblica fede è lesa solo ove sono lesi gli interessi ed i valori sottostanti:<br />
la pubblica fede da valore sostanziale in sé diventa uno schema procedurale<br />
atto ad assicurare la genuinità degli atti in via strumentale rispetto<br />
al perseguimento di valori sostanziali pubblici o privati che siano; l’imperatività<br />
dello schema è limitata alla sua funzione testé descritta.<br />
La categoria dei reati di falso ritrova la propria unitarietà attorno alla<br />
pubblica fede , senza che questa abbia un valore ipostatico del tutto insufficiente<br />
a spiegare la differenza di tutela tra i vari reati.<br />
Viene così recuperata la parte più vitale dell’autorevole orientamento<br />
minoritario sopra visto, rivolto a non svincolare la categoria da un rigoroso<br />
ricorso al concetto di offensività, assolutamente irrilevante ove la tutela del-<br />
Teoria del falso documentale, Milano, 1958, passim, che si incentrano sui reati di falso, quali<br />
reati plurioffensivi e, conseguentemente , non riconoscono rilevanza al consenso della parte<br />
quando la genuinità èposta a tutela ed a garanzia anche degli interessi di un numero a priori<br />
indeterminato di terzi., a meno che non vi sia detto consenso di terzi; A. Nappi, I delitti<br />
contro la fede pubblica, in AA.VV., Giurisprudenza sistematica del diritto penale, diretta da<br />
F. Bricola e G. Zabrezelsky, Codice penale, parte speciale, vol. I, Torino, 1984, pag. 563<br />
segg.; C. Pedrazzi, Il fine dell’azione delittuosa, inRiv. it. dir. pen., 1950, pag. 26 segg., secondo<br />
cui l’agente deve rivolgere la falsità verso un risultato vantaggioso per sé e lesivo degli<br />
altri, in modo da trascendere il fatto tipico e determinare la lesione del bene giuridico protetto;<br />
A. Proto, Il problema dell’antigiuridicità nel falso documentale, Palermo, 1951, passim,<br />
il quale, richiamandosi alla dottrina tedesca della spiritualizzazione del documento, ritiene<br />
che una scrittura sia genuina anche quando non provenga dall’autore apparente, sicché<br />
il falso autorizzato non sarebbe mai punibile; U. Dinacci, Profili sistematici del falso documentale,<br />
Napoli, 1969, passim; Id., Dell’invalidità dell’atto nella teoria del falso punibile, in<br />
Giust. pen., 1984, II, pag. 258 segg.; Id., Bene giuridico e dolo nelle falsità documentali, in<br />
AA.VV., Riflessioni ed esperienze sui profili oggettivi e soggettivi della falsità documentali,<br />
a cura di Id. - G. Latagliata - L. Mazzo, Padova, 1986, pag. 27 segg., G. Zuccalà, Brevi<br />
considerazioni sui delitti contro la fede pubblica, ivi, pag. 47 segg.; I. Giacona, Appunti in<br />
tema di falso c.d. consentito e atti invalidi, inForo it., 1993, pag. 436 segg.; Id., Appunti<br />
in tema di falso c.d. grossolano, innocuo e inutile, ivi, 1993, pag. 491 segg.; C. Fiore, L’azione<br />
socialmente adeguata nel diritto penale, Napoli, 1966, passim; Id., Il falso autorizzato non<br />
punibile, inArch. pen, 1960, pag. 276 segg., secondo cui il bene giuridico serve per la determinazione<br />
dei termini dei divieto della norma penale ed opera come tale nella ricostruzione<br />
del fatto penalmente rilevante; dopo l’individuazione dell’oggetto della tutela occorre appunto<br />
accertare i limiti normativi della protezione penale del bene attraverso l’esame dei caratteri<br />
della condotta e del valore dell’azione.
366<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
la veridicità fosse del tutto indipendente rispetto alla lesione degli altri interessi<br />
e valori sostanziali( 6 ): rispetto a quest’ultimo si opera peraltro il recupero<br />
in termini non estrinseci ma intrinseci rispetto alla pubblica fede.<br />
La differenza con tale orientamento non è meramente nominale. La<br />
tutela della veridicità dei documenti quale mezzo per la tutela degli altri<br />
valori e quindi la tutela dello schema procedurale assicurano che la lesione<br />
di tali valori sostanziali sia accertata in via univoca, senza difficoltà probatorie<br />
(dovendosi altrimenti ricorrere alla sola truffa). Conseguentemente, la<br />
pubblica fede quale comprensiva di tali valori ed interessi sostanziali, nell’ancorare<br />
questi ultimi a determinate forme ed a determinate procedure, è<br />
pregiudicata solo se questi ultimi stessi sono lesi con determinate modalità,<br />
mentre la loro lesione con altre modalità può configurare gli estremi di altri<br />
illeciti dalla valenza più generale (come detto, essenzialmente truffa).<br />
In tale ottica, una concezione rigorosamente strumentale delle forme e<br />
( 6 ) Sull’offensività e sul bene giuridico, senza pretesa di esaustività alcuna, G. Bettiol,<br />
L’odierno problema del bene giuridico, inArch. pen., 1959, I, pag. 273, secondo cui<br />
il bene giuridico è indispensabile alla nozione di reato, perché senza la lesione del bene giuridico<br />
della vita sociale è impossibile qualsiasi giudizio di antigiuridicità; G. Dahm, Der Methodenstreit<br />
in der heutigen Strafrechtswissenschaft, inSStW, 1938, pag. 233 segg.; T. Gallas,<br />
Zur Kritik del Lehre wom Verbrechen als Rechtsgutverletzung, inGegenwartsfragen der<br />
Strfrecthswissenshaft,1936, pag. 49 segg.; A. Pagliaro, Bene giuridico e interpretazione della<br />
legge penale, in AA.VV., Studi in onore di F. Antolisei, vol. II, Milano, 1994, pag. 394 segg.;<br />
F. Schaffstein, Verbreche als Pflichhtsverletzung, 1935,inZStW, vol. 57, pag. 301; Id., Der<br />
Streit um das Rechtsgutverletzungsdogma, inDt. Strafr,1937, pag. 335, che negano la validità<br />
giuridica del concetto di bene giuridico e la sua funzione per la delimitazione del fatto tipico;<br />
l’interpretazione teologica implicherebbe un circolo vizioso in quanto il fine sul quale occorrerebbe<br />
accertare il contenuto della norma non potrebbe che ricavarsi dalla stessa norma; D.<br />
Santamaria, La condotta punibile, Milano, 1990, pag. 52, secondo cui il bene giuridico non<br />
può essere l’unico criterio in cui un sistema penale ancorato al principio nullum crimen sine<br />
lege, infatti se il modello legale non contiene l’espressa descrizione di bene protetto, non per<br />
questo viene meno il dovere dell’interprete di ricercarlo con l’interpretazione, H. Welzel,<br />
Uber den substantielle Begriff des Strafgesttzes, in AA.VV., Festschirft fur Kohlrausch, 1944,<br />
pag. 105 segg.; che si schiera contro il tradizionale valore del bene giuridico e per una concezione<br />
personale dell’illecito: non è la legge ad attribuire un significato ai dati della realtà in<br />
quanto essa non fa che registrare valori impliciti delle strutture ontologiche dell’esperienza.<br />
In giurisprudenza, fanno ricorso all’offensività Corte Cost., 11 luglio 2000, n. 263, in Cass.<br />
pen., 2000, pag. 2951; Corte Cost., 21 novembre 2000, n. 519, in Cass. pen. , 2001, pag.<br />
2015; Cass., 8 aprile 1998, n. 7551, in Cass. pen., 1998, pag. 3219; Cass., 17 aprile 1998,<br />
n. 8612, in Cass. pen, 1999, pag. 2368; Cass., 18 giugno 1998, n. 1943, in Fisco, 1999,<br />
pag. 382; Cass., 22 ottobre 1998, n. 12936, in Riv. pen., 1999, pag. 274; Cass.,10 dicembre<br />
1998, n. 845, in Ced Cassazione, 2000; Cass., 26 novembre 1999, n. 2733, in Riv. pen., 2000,<br />
pag. 282; Cass., sez. un., 21 giugno 2000, n. 17, in Cass. pen., 2001, pag. 69; Cass., 6 luglio<br />
2000, n.9984, in Cass. pen., 2001, pag. 2529; Cass., 21 dicembre 2000, n. 6925, in CedCassazione,<br />
2001, rv 218282; Cass., 15 gennaio 2001, n. 35, in Dir. prat. trib., 2001, II, pag. 718;<br />
Cass., 5 marzo 2001, n. 16041, in Riv. pen., 2001, pag. 637; Cass.,12 novembre 2001, n. 564,<br />
in CedCassazione, 2002, rv220448; contra, Cass., 9 marzo 1999, n. 5044, in Giur. imp., 1999,<br />
pag. 718.
STUDI E RASSEGNE<br />
367<br />
delle procedure rispetto agli interessi sostanziali comporta che la veridicità<br />
e l’autenticità degli atti costituiscono elementi di certezza per la tutela di<br />
quei valori sostanziali,intorno a cui ruota la categoria dei falsi: contrariamente<br />
a quanto sostenuto dall’autorevole orientamento minoritario di cui<br />
sopra, l’elemento soggettivo del reato sussiste, anche se relativo alla sola veridicità<br />
ed all’autenticità degli atti e non ai valori ed agli interessi sostanziali,<br />
sol che si verifichi – pur non voluta – la lesione di tali valori ed interessi –<br />
proprio per il collegamento indissolubile tra di loro sia pur nel senso di<br />
strumentalità dei primi ai secondi. In altri termini, la lesione degli interessi<br />
e valori sostanziali rappresenta una condizione obiettiva di punibilità, con<br />
l’ulteriore corollario che la lesione della strumentalità dell’autenticità e della<br />
veridicità degli atti comporta un’inversione dei profili probatori.<br />
Quale ulteriore elemento di differenziazione, quello che rileva è rappresentato<br />
(secondo l’autorevole orientamento minoritario) dall’astratta<br />
idoneità alla lesione o no degli interessi sostanziali, mentre secondo quanto<br />
qui evidenziato dalla concreta lesione o no degli interessi e dei valori sostanziali.<br />
La mancanza dell’abuso si realizza solo in presenza di concreta ed univoca<br />
riferibilità dell’atto all’autore, dal che discende ulteriormente che la<br />
consapevolezza effettiva del volere (dell’autore) è l’unico vero elemento<br />
che comporta, in presenza di un falso, il mancato ricorrere degli estremi<br />
del reato( 7 ).<br />
Per inciso, per completezza, i casi di falso innocuo non configurano gli<br />
estremi del reato per mancata lesione della pubblica fede in una concreta<br />
ottica di offensività, immanente a reati di falso.<br />
Chiuso l’inciso, in virtù dei due elementi sopra esposti, l’abuso e la sua<br />
mancanza trovano quindi una portata univoca e dalla caratterizzazione<br />
esclusiva.<br />
La portata dell’autenticità e della veridicità degli atti e dei documenti<br />
quali elementi atti a comportare l’inversione della prova fa sì che i reati di<br />
falso si contraddistinguono per la tutela della certezza dei rapporti giuridici<br />
che si rivela meramente strumentale rispetto ai valori sostanziali, mentre l’identificazione<br />
dell’elemento esclusivo del reato nell’effettività della riferibilità<br />
dell’atto all’autore mostra i limiti della tutela penale della certezza, limiti<br />
che sembrano invero estremamente circoscritti viste le difficoltà di una<br />
ricostruzione effettiva di una situazione immateriale quale l’effettiva riferibilità<br />
di un atto falso o comunque dalla firma falsa.<br />
Nel sistema penalistico la mancanza di lesione della pubblica fede in<br />
presenza di un falso materiale si rivela un’ipotesi non realistica ed eccezio-<br />
( 7 ) L’offensività richiede quindi una effettiva verifica della concretezza del bene giuridico:<br />
in senso critico, M. Romano, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, Milano,<br />
1987, pag. 434 segg.
368<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
nale. Ciò in quanto la riferibilità effettiva dell’atto all’autore incontra dei<br />
limiti probatori difficilmente superabili.<br />
A monte, la riferibilità effettiva dell’atto all’autore viene ad essere rimessa,<br />
nel sistema civilistico, alla dialettica processuale tra le parti.<br />
Il discorso si rovescia del tutto nella disciplina del mercato finanziario,<br />
in cui l’accertamento dell’effettività dei rapporti – qual riconducibili alla<br />
consapevolezza delle scelte di investimento del cliente, sopra citato art.<br />
28, 2ºcomma, reg. Consob n. 11522/98 – è l’aspetto essenziale: di qui la<br />
residualità della figura della lesione della pubblica fede in un ambito in<br />
cui l’ordinamento è rivolto ad assicurare in altro modo tale effettività, residualità<br />
consistente nel rappresentare una valvola di chiusura, pronta a<br />
scattare in mancanza di accertamenti sostanziali, accertamenti sostanziali<br />
che rappresentano il fulcro della disciplina( 8 ).<br />
Per trarre le fila del discorso, la lesione della pubblica fede rappresenta<br />
quindi l’ipotesi di lesione della riferibilità dell’atto alla volontà dell’interessato<br />
che discende da un falso materiale: il rapporto che ne consegue tra irregolarità<br />
ed abuso è rilevante,consistente nella circostanza che il mancato<br />
rispetto delle forme e delle procedure comporta un’inversione della prova,<br />
ma non la violazione. La procedura trova il limite nella prova effettiva della<br />
sussistenza degli estremi, mentre questa si rivela illimitata e quindi la certezza<br />
dovrebbe rivestire esclusivamente un valore residuale. Alla luce delle<br />
problematiche di ordine probatorio, tale valore apparentemente residuale<br />
si trasforma in valore centrale, con l’esclusione della materia del mercato<br />
mobiliare( 9 ).<br />
In premessa, è d’interesse notare che i reati di falsi materiali in scritture<br />
privati, quali i casi oggetto delle presenti note, sono punibili a querela –<br />
anche gli assegni sono scritture private a tutti gli effetti tranne che per l’entità<br />
della pena, art. 491 c.p. – e quindi la tutela della riferibilità dell’atto<br />
all’interessato non è imperativa,mentre le conclusioni cambiano per la riferibilità<br />
dell’operazione all’interessato, vista l’inderogabilità della disciplina<br />
del mercato mobiliare – in via generale art. 23, 6º comma, d. lgs. n. 58/<br />
98 –: nel concreto, tale inderogabilità ruota intorno all’esigenza di assicurare<br />
che il risparmiatore sia posto, come visto, in condizione di effettuare<br />
‘‘consapevoli scelte di investimento o disinvestimento’’ (art. 28, 2º comma,<br />
reg. Consob n. 11522/98, già citato), con la presenza di controlli pubblici<br />
rigorosi.<br />
In tale ottica, i profili probatori vengono rimessi ad un procedimento<br />
( 8 ) Sul punto, in via generale, M. Salvatore, Servizi di investimento e responsabilità<br />
civile, Milano, 2004, passim.<br />
( 9 ) Sui profili probatori in materia penalistica, proprio nelle attività sui mercati mobiliari,<br />
F. Sgubbi, Il risparmio come oggetto di tutela penale, inGiur. comm., 2005, I, pag. 340<br />
ss.
STUDI E RASSEGNE<br />
369<br />
amministrativo caratterizzato da celerità e immediatezza idonei a ridurne la<br />
portata: la certezza esce confermata nel settore finanziario quale valore del<br />
tutto residuale.<br />
In definitiva, se nessun interesse apprezzabile dell’interessato – rappresentato<br />
nel caso di falsificazione di firme dal soggetto la cui firma viene<br />
resa da altro soggetto – viene leso, il reato di falso in scrittura privata non<br />
sussiste. Nel caso oggetto delle presenti note, tale ipotesi di mancata lesione<br />
dei interessi apprezzabili dell’interessato sussiste ogniqualvolta la falsificazione<br />
venga posta in essere dal promotore per realizzare l’operazione nei<br />
termini disposti dal cliente o comunque l’operazione stessa si riveli conforme<br />
alla volontà inequivoca proprio del cliente.<br />
Ad ulteriore approfondimento, tale volontà inequivoca del cliente può<br />
anche non essere espressa e ci si riferisce alla mancanza di impugnativa dell’operazione<br />
da parte del cliente: anche se non si è verificata prescrizione o<br />
decadenza dell’impugnativa dello stesso cliente – ed ogni previsione contrattuale<br />
in tal senso non può non rivelarsi irrimediabilmente inefficace –<br />
, l’accettazione dell’operazione non può non essere univocamente ricavata<br />
dalla mancata impugnativa di operazioni ripetute dello stesso tipo, mancata<br />
impugnativa che, proprio perché non casuale ma riferibile alla volontà consapevole<br />
del cliente, nient’altro significa che conferma pacifica delle stesse<br />
operazioni (ciò può avere riflessi anche sul piano civilistico, con conseguente<br />
validità degli atti e delle operazioni)( 10 ).<br />
4. Si possono riassumere le conclusioni di cui ai precedenti paragrafi,<br />
vale a dire che l’apposizione di firme non conformi a quelle del cliente, in<br />
mancanza di abuso a danno del cliente:<br />
a) non configura gli estremi della violazione della norma di settore;<br />
b) non configura gli estremi del falso ‘‘tout court’’ ed in particolare:<br />
manca la lesione degli interessi specifici protetti dalle singole norme<br />
penali od addirittura secondo l’opinione più radicale sopra espressa manca<br />
la lesione della pubblica fede; il mancato accoglimento che l’orientamento<br />
qui condiviso incontra in giurisprudenza si presume possa essere superato<br />
mediante una enucleazione del concetto di pubblica fede conforme a criteri<br />
rigorosamente ruotanti intorno al valore centrale dell’offensività;<br />
c) addirittura la mancanza di abuso non coincide in nessun modo con<br />
il consenso dell’avente diritto; il consenso dell’avente diritto – che pur<br />
escluderebbe il reato in quanto i reati in questione suono punibili a querela<br />
– non ha rilievo in quanto nel settore finanziario la disciplina è inderogabile,<br />
con la conseguente imperatività della riferibilità dell’operazione alla<br />
( 10 ) In via generale si rimanda a M. Romano, Commentario sistematico del codice penale,<br />
vol. I, cit., pag. 434 segg.
370<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
volontà dell’interessato; il consenso dell’interessato in mancanza di riferibilità<br />
dell’operazione all’interessato non ha rilievo proprio per la mancanza di<br />
derogabilità della nostra materia; per la mancanza di formalismi, la riferibilità<br />
dell’operazione può peraltro emergere in maniera non solo espressa<br />
ma in termini anche impliciti (per esempio mancata impugnativa sistematica<br />
di più operazioni dello stesso segno) e quindi viene meno anche la possibilità<br />
per il cliente, una volta che le operazioni manifestino un segno economico<br />
negativo, di rivalersi in via civilistica nei confronti del promotore (e<br />
quindi anche dell’intermediario responsabile in via oggettiva per gli abusi<br />
del promotore, art. 31, 3º comma, d. lgs. n. 58/98).<br />
Il caso in questione presenta un interesse che trascende la sua portata<br />
pratica, pur ragguardevole, in quanto nella sempre più capillare e stringente<br />
regolamentazione dell’economia si prescrivono precetti, tesi non solo a salvaguardare<br />
correttezza e diligenza, ma anche regolarità dei comportamenti,<br />
vale a dire rispondenza ad ordine e certezza secondo criteri predefiniti, anche<br />
indipendentemente dal perseguimento di interessi e valori sostanziali: la<br />
regolarità viene correttamente ritenuta precondizione dei valori sostanziali<br />
testè citati, questi ultimi solo espressamente citati, a differenza della stessa<br />
regolarità data per presupposta e quindi tutelata in termini non sempre<br />
esaustivi, vale a dire con sanzioni dettate solo per alcuni casi espressi di violazioni<br />
ma senza norme generali di chiusura proprio a causa di tale mancata<br />
espressa definizione e delle conseguenti difficoltà nella sua elaborazione e<br />
ricostruzione; di qui la necessità di provvedere a tale elaborazione e ricostruzione<br />
della portata della regolarità e delle sue violazioni( 11 ).<br />
La regolarità dei comportamenti è una precondizione essenziale di<br />
correttezza e diligenza, per antonomasia insussistenti in sua assenza in<br />
quanto solo comportamenti regolari forniscono certezza dei rapporti e predefinizione<br />
di assenza e quindi elimina l’arbitrio dell’intermediario o comunque<br />
pone le condizioni per una riduzione di tale arbitrio entro limiti<br />
angusti: e non è un caso che la normativa fornisca sempre maggiore importanza<br />
all’organizzazione, vale a dire non solo all’attività dell’impresa e più<br />
in genere ai rapporti con i terzi, ma anche al momento interno della vita<br />
d’impresa, vale a dire a quella fase in cui si predispongono i mezzi e le<br />
strutture e le procedure dell’impresa stressa. La regolarità èun valore fondamentale<br />
dell’attività d’impresa, ancorché privo di contenuto sostanziale.<br />
Comportamenti irregolari su aspetti essenziali dell’attività – e la falsità dei<br />
( 11 ) Che l’approvazione tacita prevista dai contratti bancari in caso di mancata impugnazione<br />
delle operazioni riportate negli estratti conto sia efficace per l’annotazione sul conto<br />
nella sua consistenza e realtà effettuale, ma non per la validità e l’efficacia giuridica degli<br />
atti e/o dei rapporti dai quali l’annotazione scaturisce, è pacifico in giurisprudenza, per tutte,<br />
v. Cass., 11 settembre 1998, n. 9897, in Arch. civ.,1997, pag. 1198.; Cass., 14 maggio 1998, n.<br />
1486, ined.
STUDI E RASSEGNE<br />
371<br />
documenti dei clienti è certamente un’irregolarità che attiene ad aspetti essenziali<br />
dell’attività – hanno in sé gli estremi, a livello potenziale, di gravi<br />
violazioni. Peraltro, la possibilità dell’arbitrio che deriva da siffatte irregolarità<br />
non necessariamente si traduce in effettività di arbitrio: un disordine<br />
imprenditoriale può anche accompagnarsi ad una situazione di buona fede,<br />
senza lesione di interessi sostanziali. Pertanto, le irregolarità attinenti a profili<br />
essenziali, in presenza di lesione di interessi sostanziali ed in nesso pur<br />
potenziale con questa, rendono le violazioni attinenti a tali ultimi lesioni<br />
non solo gravi ma anche prive di ogni esimente e comunque frutto di un<br />
disegno imprenditoriale illecito. Il disegno imprenditoriale non può essere<br />
circoscritto alla fissazione delle strategie, venendo necessariamente a comprendere<br />
anche la predisposizione dei relativi mezzi: ed infatti l’impresa è<br />
un’organizzazione caratterizzata dalla necessità dell’efficienza economica,<br />
vale a dire dall’ottimizzazione dei mezzi in funzione dei fini.<br />
In assenza di lesione di interessi sostanziali, le irregolarità attinenti ad<br />
aspetti essenziali non hanno realizzato la potenzialità di gravi violazioni che<br />
esse in nuce indubitabilmente contengono – sia pur a livello solo astratto e<br />
non concreto –, con la conseguenza indefettibile che richiedono sì repressione<br />
ma non penale e, in campo amministrativo, non interdittivo dell’esercizio<br />
dell’attività. Aperto e chiuso l’inciso, nella stessa ottica, le irregolarità<br />
che non configurano gli estremi della lesione degli interessi sostanziali sono<br />
tali da non dover essere sanzionate nemmeno in sede civilistica( 12 ).<br />
Conseguentemente, nella normativa penalistica, nella quale sono ammissibili<br />
i reati di solo pericolo, i reati – con la pena della reclusione –<br />
per le sole irregolarità sono prospettabili esclusivamente dove l’ordine pregiudicato<br />
è strumentale, anche in via potenziale ma secondo criteri di ragionevolezza<br />
e di rigorosa effettività, a valori costituzionali: occorre quindi,<br />
non solo che ad essere – anche potenzialmente – pregiudicato sia effettivamente<br />
l’ordine sociale e non un mero ordine materiale e comunque dalla<br />
valenza non essenziale per la società, ma anche che il pericolo ai valori costituzionali<br />
protetti dall’ordine sociale sia posto in termini di stretta dipendenza<br />
dalla violazione dei precetti; la falsità di documenti se non inficia la<br />
( 12 ) Sulla validità, da un punto civilistico, degli atti e delle operazioni, è pacifico che la<br />
nullità del contratto per la mancanza della forma scritta di cui all’art. 23 d. lgs. n. 58/98, vale<br />
solo per il contratto quadro iniziale e non per i contratti relativi ai singoli atti ed alle singole<br />
operazioni (Trib. Milano, 24 maggio 2005, ined., ha correttamente ritenuto che per i singoli<br />
atti e le singole operazioni la forma scritta abbia valenza probatoria e che in mancanza di<br />
forma scritta la forma possa essere raggiunta anche ‘‘aliunde’’; v. anche Trib. Milano, 20<br />
maggio 1995, ined.; Cass., 7 settembre 2001, n. 11495; Trib. Venezia, 22 novembre 2004;<br />
Id., 8 giugno 2005; Id., 7 luglio 2005; Trib. Monza, 7 marzo 2005; Trib. Milano, 24 maggio<br />
2005; Id., 25 luglio 2005; Trib. Genova, 2 agosto 2005; Consob, Comunicazione del 3 agosto<br />
2005, n. 5055217.
372<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
conformità dell’operazione all’interesse del soggetto protetto non realizza<br />
una di queste ipotesi( 13 ).<br />
D’altro canto, nella normativa di settore, le irregolarità sono reputabili<br />
gravi violazioni solo nel caso in cui il pericolo di violazione degli altri valori<br />
sostanziali sia effettivo e tale violazione possa essere esclusa solo da fattori<br />
eccezionali ed imprevedibili: in altri termini, occorre che l’irregolarità costituisca<br />
nel concreto un’anticamera della violazione dei valori sostanziali<br />
ed anche in tale situazione la falsità di documenti conforme all’interesse<br />
del soggetto protetto non rientra.<br />
Conseguentemente, in un’ottica di politica del diritto tesa a salvaguardare<br />
la regolarità dei comportamenti degli operatori economici, al fine di<br />
una valorizzazione dell’adeguatezza dell’organizzazione di impresa (in cui<br />
i promotori quali agenti – al contratto di agenzia si ricorre per lo più nella<br />
prassi, anche se la norma prevede anche il contratto di lavoro dipendente<br />
ed il mandato, art. 31, 2º comma, d. lgs. n. 58/98 – e quindi lavoratori autonomi<br />
ma dalla prestazione continuativa e sottoposti a penetranti controlli,<br />
art. 21, 1º comma, lett. d, d. lgs. n. 58/98, svolgono un ruolo rilevante),<br />
emerge l’opportunità di introdurre nella normativa di settore una norma<br />
che per le irregolarità non secondarie e che non rappresentino gravi violazioni,<br />
quale quella in esame, in via di proposta definibili ‘‘ipotesi di violazioni<br />
di altre norme che si rivelino oggettivamente idonee a ledere gravemente<br />
l’ordinato andamento dell’attività’’, preveda l’afflizione di (anche molto)<br />
pesanti sanzioni pecuniarie, evitando altre sanzioni( 14 ).<br />
Francesco Bochicchio<br />
( 13 ) Sull’importanza dei profili organizzativi (ruotanti introno alla regolarità) quale<br />
mezzo indispensabile per la valorizzazione di quelli comportamentali (ruotanti intorno alla<br />
correttezza, professionalità e trasparenza), F. Santi, La responsabilità delle società e degli enti,Milano,<br />
2004, passim (sulla responsabilità amministrativa delle imprese – per la c.d. ‘‘colpa<br />
da organizzazione’’ – conseguente a responsabilità penale dei propri esponenti di cui al d.<br />
lgs. 8 giugno 2001, n. 231 ‘‘Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche,<br />
delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’art.11 ,<br />
legge 29 settembre 2000, n. 300’’), nonché, in via generale, M. Rabitti, Rischio organizzativo<br />
e responsabilità degli amministratori, Milano, 2004, passim.<br />
( 14 ) Sulla distinzione tra i due profili, contra, in via generale, F. Capriglione, L’impresa<br />
bancaria tra controllo ed autonomia, Milano, 1983, passim.
STUDI E RASSEGNE<br />
NOTITIAE CRIMINIS, BANCA D’ITALIA<br />
ED AUTORITÀ GIUDIZIARIA<br />
§ 1. L’informazione nel mercato finanziario.<br />
373<br />
‘‘L’intermediazione finanziaria è importante non solo perché maneggia<br />
denaro, ma anche e soprattutto perché maneggia informazioni’’( 1 ).<br />
Nel volubile e tormentato panorama che offrono i mercati finanziari<br />
non sono molti i punti di riferimento certi. Uno di questi, però,èil comune<br />
riconoscimento che riveste l’informazione per il corretto funzionamento di<br />
tali mercati.<br />
Il mercato finanziario prima di essere un luogo di scambio di valori<br />
economici è innanzitutto un luogo ove si scambiano informazioni poiché<br />
gli operatori finanziari basano le proprie scelte di mercato sulle informazioni<br />
in proprio possesso; e condizioni in grado di garantire l’efficienza<br />
del mercato, ovvero la capacità dell’ambiente operativo di riflettere rapidamente<br />
i prezzi e le informazioni riguardanti i titoli quotati in esso sono,<br />
dalla dottrina economica, individuati nella concorrenza perfetta tra gli operatori,<br />
nella diffusione immediata e gratuita delle informazioni, nel rapido<br />
adeguamento dei prezzi in occasione di nuove informazioni( 2 ).<br />
Considerato il mercato finanziario come l’insieme di ‘‘tutte le negoziazioni<br />
aventi ad oggetto attività e passività finanziarie, indipendentemente<br />
dalle caratteristiche di queste ultime, ricomprendendovi quindi anche le<br />
negoziazioni degli strumenti monetari e riconducendo nell’ambito delle<br />
operazioni dello stesso tutte le operazioni che sono poste in essere per tra-<br />
( 1 ) Flick, Criminalità economica e criminalità organizzata: profili giuridici, inNote a<br />
margine della Questione Europea, suppl. al nº 4 della Rassegna dell’Arma dei Carabinieri,<br />
1992, 43. Dello stesso Autore, sull’argomento: Informazione bancaria e giudice penale: presupposti<br />
di disciplina. Problemi e prospettive, inBanca Borsa e Titoli di credito, 1988,I, 441 ss.<br />
( 2 ) ‘‘Il rilievo del tutto particolare che la nuova legislazione finanziaria, ed in particolare<br />
quella bancaria, assegna alla c.d. ‘‘trasparenza’’ non deve sorprendere. Tra le molte cose<br />
che servono per privatizzare l’economia in un Paese due sono indispensabili. Primo: ci vuole<br />
una borsa efficiente, trasparente, liquida. Secondo: ci vuole un sistema bancario con le stesse<br />
caratteristiche’’. Patalano, Reati e illeciti nel diritto bancario, Torino, 2003, 9.
374<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
sferire e trasformare mezzi finanziari dai settori in avanzo ai settori in disavanzo’’(<br />
3 ), rileva ictu oculi il ruolo di rilievo rivestito dall’informazione, l’esigenza<br />
di informazione per la competitività.<br />
Le regole sulle informazioni non sono prodotti spontanei del mercato.<br />
Nel mercato gli operatori forniscono solo le informazioni che ritengono<br />
utili, mantenendo il segreto su ciò che stimano utile non comunicare e<br />
che spesso è indispensabile per la controparte. L’imposizione di obblighi<br />
di informare sono di derivazione pubblica, ‘‘la macchina pubblica partecipa<br />
al flusso di informazioni mediante la regolazione che può imporre a<br />
soggetti privati e a soggetti pubblici di fornire dati ed informazioni. In<br />
questo modo il mercato viene regolato dal potere pubblico in quanto la tutela<br />
e la regolazione dell’informazione gli vengono imposte in modi diversi,<br />
in relazione ai diversi mercati, diversamente segmentati e regolati’’( 4 ).<br />
Le diverse norme predisposte dal legislatore sono finalizzate a garantire<br />
forme di trasparenza, giustificate dalle peculiarità delle operazioni economiche<br />
che avvengono nell’ambito dello stesso mercato finanziario e riguardano<br />
sia i flussi informativi che debbono assicurare la trasparenza degli<br />
operatori nei confronti degli organi di vigilanza preposti al settore( 5 ), sia il<br />
flusso delle informazioni che gli operatori debbono fornire al pubblico con<br />
riferimento alla propria attività( 6 ), sia i flussi d’informazione che vanno dai<br />
( 3 ) Definizione fornita da: Costi, Informazione e mercato, inBanca Impresa e Società,<br />
1989, 206. Per Bessone (Mercato finanziario e regole di vigilanza – Le grandi linee del sistema<br />
e i problemi della net economy, inGiur. Merito, 2001, IV, 1467) ‘‘nel linguaggio del legislatore<br />
della materia finanziaria, mercato è un assetto organizzativo che favorisce l’incontro tra<br />
domanda ed offerta di valori mobiliari, assicura efficienza ed osservanza di regole alle transazioni<br />
che ne determinano lo scambio, provvede ai servizi occorrenti per lo svolgimento delle<br />
attività di mercato e precostituisce garanzie di tutela dei diritti di quanti sul mercato operano.<br />
Garanzie di tutela che per gli investitori devono presentare tutta la consistenza stabilita<br />
dalla norma dell’art. 47 Cost., ove al «risparmio in tutte le sue forme» si assicura doverosa<br />
protezione’’.<br />
( 4 ) Predieri, Lo Stato come riduttore di asimmetrie informative nella regolazione dei<br />
mercati, in AA.VV., Mercato finanziario e disciplina penale, Milano, 1993, 69.<br />
( 5 ) La Banca d’Italia che ha il potere di conoscere qualunque dato relativo alle imprese<br />
bancarie ed alle loro operazioni; l’Isvap che ha il potere di acquisire qualunque informazione<br />
dalle compagnie d’assicurazione, sia sulla loro attività, sia sulle loro operazioni ed infine la<br />
Consob che può chiedere notizie concernenti gli emittenti o gli intermediari operanti sui<br />
mercati ufficiali o inseriti in operazioni di sollecitazione del pubblico risparmio. Questi poteri<br />
di conoscenza si espandono nelle ipotesi di vigilanza consolidata anche ad operatori istituzionalmente<br />
sottratti al potere di controllo dei diversi organi di vigilanza, ed è, altresì, legislativamente<br />
previsto che le diverse autorità debbano coordinarsi nello svolgimento della<br />
loro attività laddove questa presenti elementi in comune.<br />
( 6 ) Anche con riferimento alle informazioni destinate al pubblico gli ordinamenti del<br />
mercato finanziario prevedono l’obbligo di una trasparenza maggiore di quella imposta<br />
dal diritto comune; non solo, normalmente si stabilisce il controllo da parte di un organo<br />
pubblico, o comunque da parte di un organo esterno, sulla completezza e sulla veridicità dell’informazione<br />
richiesta.
STUDI E RASSEGNE<br />
375<br />
soci verso la società, sia, infine, le forme di circolazione delle informazioni<br />
transnazionali che introducono forme di coordinamento tra gli organi di<br />
vigilanza dei vari settori del mercato stesso, e le informazioni che debbono<br />
essere comunicate all’autorità giudiziaria o che da questa debbono essere<br />
indirizzate agli organi di controllo del settore.<br />
Trasparenza rafforzata, dunque, la cui esigenza deve essere individuata,<br />
principalmente, nel carattere dei beni scambiati sul mercato finanziario<br />
e nella rilevanza dello stesso per lo sviluppo delle economie di mercato(<br />
7 ).<br />
La ‘‘razionalità dell’operatore economico’’ richiamata come postulato<br />
in molte teorie economiche e che presuppone il possesso di un bagaglio informativo<br />
idoneo a consentire scelte consapevoli, trova la sua necessaria valorizzazione<br />
in questo ambito: se è vero che la conoscenza dei beni che vengono<br />
trattati su di un mercato è indispensabile per consentire comportamenti<br />
razionali e quindi per garantire l’allocazione ottimale delle risorse,<br />
nell’ambito del mercato finanziario la necessità di garantire la conoscenza<br />
degli oggetti negoziati impone un grado di trasparenza che risulta superfluo<br />
nei mercati nei quali i beni hanno una loro definizione fisica percepibile<br />
indipendentemente dalle informazioni fornite dal produttore o dal negoziatore<br />
del bene stesso( 8 ). ‘‘In un mercato nel quale i prodotti in vendita<br />
non si pesano, non si toccano, non si assaggiano, non si apprezzano con lo<br />
sguardo, ma il cui valore è in larga misura dipendente da vicende e prospettive<br />
sottostanti, è chiaro che solo chi è correttamente informato è in<br />
condizione di perseguire e tutelare razionalmente i propri interessi’’( 9 ).<br />
‘‘Alcuni snodi della dinamica «risparmiatore – offerta – investimento»<br />
appaiono luoghi ideali per le «imboscate» alla disponibilità dei risparmiatori’’(<br />
10 ). In questa prospettiva, pertanto, si richiede un’adeguata protezione<br />
non solo garantendo la stabilità e l’affidabilità patrimoniale del soggetto<br />
che riceve il risparmio da gestire, ma anche prestando maggiore tutela<br />
ed attenzione in due momenti fondamentali: il momento del formarsi della<br />
decisione di investire ed il momento della gestione del risparmio investito.<br />
Un altro motivo che caratterizza i mercati finanziari per la necessità diun<br />
particolare grado d’informazione è costituito dal fatto che sugli stessi si<br />
scambiano beni presenti con la promessa di beni futuri, la cui concreta esi-<br />
( 7 ) In questo senso: Costi, Informazione e mercato, cit., 208; ultra: Ragusa Maggiore,<br />
La trasparenza ed il mercato del credito, inDir. Fall., 1989, I, 145 ss.<br />
( 8 ) La negoziazione avente ad oggetto la compravendita di un’automobile, ad esempio,<br />
postula una individuazione abbastanza precisa dell’oggetto del contratto; la definizione dello<br />
stesso, comunque, non è rimessa al contenuto di un contratto.<br />
( 9 ) Rordorf, Importanza e limiti dell’informazione nei mercati finanziari, inGiur.<br />
Comm., 2002, I, 773.<br />
( 10 ) Alessandri, Offerta di investimenti finanziari e tutela del risparmiatore, in<br />
AA.VV., Mercato finanziario e disciplina penale, cit., 205.
376<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
stenza può essere esposta a vicende non controllabili da colui che acquista<br />
il prodotto finanziario e che dipendono in larga misura da colui che promette<br />
il bene futuro. Di qui l’importanza di conoscere, nella massima misura<br />
possibile, le vicende soggettive dell’ente che ha emesso il prodotto finanziario<br />
e più in generale le circostanze che possono incidere sull’esistenza<br />
e sulla consistenza del bene futuro oggetto di negoziazione.<br />
L’interesse all’esistenza di un mercato finanziario efficiente ma stabile,<br />
la circostanza che lo stesso sia un mercato del risparmio diffuso sul quale si<br />
muovono i grandi flussi di risparmio che dipartendosi dai settori di avanzo<br />
e procedendo verso i settori in disavanzo consentono il finanziamento dell’intero<br />
sistema economico, la natura dei beni scambiati, rendono dunque<br />
ragione della peculiarità della trasparenza esistente sugli stessi sia verso il<br />
pubblico, sia verso gli organi di controllo.<br />
‘‘La stessa esistenza di un libero mercato ha il suo presupposto nelle<br />
istituzioni in cui si consolida la libertà individuale nelle sue estrinsecazioni<br />
economiche: non è pensabile senza una tutela del patrimonio individuale,<br />
nel duplice senso di protezione della libertà di godimento contro aggressioni<br />
esterne e di protezione della libertà di disposizione contro condizionamenti<br />
riferibili a violenza, a frode, ad abuso di situazioni di inferiorità<br />
psichica o di bisogno. A livello di sistema – di mercato – lo statuto di libertà<br />
non equivale a vuoto di disciplina, anzi postula una difesa contro turbative<br />
capaci di sconvolgere le regole del gioco’’( 11 ).<br />
Molto brevemente, per quanto concerne in particolare il sistema bancario,<br />
si può anticipare che le norme dedicate alla trasparenza sono organizzate<br />
essenzialmente attorno a quattro filoni( 12 ):<br />
( 11 ) Pedrazzi, voce Mercati finanziari (disciplina penale), inDig. Disc. Pen., vol. VII,<br />
Torino, 1993, 653.<br />
( 12 ) L’informazione è un concetto che attualmente ha superato i limiti della tradizionale<br />
destinazione agli azionisti, per dirigersi al pubblico ed al mercato. Ma non tutta la tematica<br />
dell’informazione va iscritta nell’ambito della tutela del risparmiatore. Una parte consistente<br />
del flusso informativo è diretta anche agli organi di controllo, oltre ad esservene una<br />
parte che mira a realizzare una trasparenza finalizzata ad impedire la penetrazione della criminalità<br />
organizzata nel mercato finanziario. Infatti, gli obiettivi perseguiti dal legislatore mediante<br />
l’intervento, anche attraverso sanzione penale, nell’ambito dell’economia possono essere<br />
individuati nella: trasparenza, efficienza, legalità. Tali obiettivi trovano una coincidenza e<br />
parziale sovrapposizione con quelli tipici della lotta alla criminalità organizzata ed al riciclaggio.<br />
Il perseguimento dell’obiettivo della trasparenza aumenta la probabilità per l’organizzazione<br />
criminale di essere scoperta e si risolve, perciò, in una controspinta alla stessa spinta<br />
criminogena verso il profitto illecito, nella logica di un bilanciamento tra costi e benefici<br />
di quest’ultimo in chiave di impunità. In una prospettiva economica (prima ancora che giuridica)<br />
l’obiettivo della trasparenza si risolve in una garanzia di par condicio per i diversi operatori<br />
del settore, ancorando ad esso gli ulteriori e complementari obiettivi dell’efficienza e<br />
della concorrenzialità del mercato ed altresì della legalità: ciò dovrebbe valere, infatti, ad evitare<br />
la soccombenza dell’impresa ‘‘onesta’’ (con costi ovviamente più elevati) rispetto all’impresa<br />
‘‘mafiosa’’. In argomento, ultra: Castaldo, Tecniche di tutela e di intervento nel nuovo
STUDI E RASSEGNE<br />
377<br />
– trasparenza degli enti creditizi verso la Banca d’Italia;<br />
– trasparenza degli enti creditizi verso gli altri enti creditizi;<br />
– trasparenza dei prenditori di credito verso gli enti creditizi;<br />
– trasparenza degli enti creditizi verso prenditori di credito e depositanti.<br />
La maggiore disponibilità di informazioni pone, infatti, il mercato in<br />
condizione di esercitare un controllo sull’efficienza e sulla redditività degli<br />
intermediari, incentiva un corretto svolgimento dei processi concorrenziali,<br />
accentua l’esigenza di efficaci norme di autocontrollo aziendale nelle stesse<br />
banche.<br />
‘‘La definitiva affermazione della concorrenza quale regime di mercato<br />
ottimale per l’esercizio dell’attività imprenditoriale bancaria e le più ampie<br />
possibilità di ricorso al mercato dei capitali che la nuova cornice regolamentare<br />
riserva alle banche hanno rafforzato la domanda di informazioni<br />
adeguate sulla situazione economica, patrimoniale e finanziaria degli intermediari’’(<br />
13 ).<br />
Mentre la trasparenza verso la Banca d’Italia è totale e mira a consentire<br />
l’esercizio delle funzioni di vigilanza sulla stabilità degli enti e di custode<br />
della liquidità del sistema, la seconda forma di trasparenza si concretizza<br />
nel servizio della Centrale dei rischi e nella prassi delle informazioni<br />
interbancarie; lo scopo perseguito da questo circuito interno è sempre la<br />
stabilità del sistema creditizio( 14 ).<br />
Il principio di correttezza è l’ispiratore degli obblighi di trasparenza<br />
dei prenditori di credito verso gli enti creditizi; tale principio, al quale debbono<br />
in generale attenersi le parti, trova in questo campo un’attuazione rigorosa,<br />
ponendo al contraente l’obbligo, non previsto dal diritto comune,<br />
di svelare integralmente alla controparte le proprie condizioni economicopatrimoniali(<br />
15 ).<br />
diritto penale bancario,inRiv. Trim. Dir. Pen. Econ., 1994, 401 ss.; Bosco-Sanarighi, L’infiltrazione<br />
del crimine organizzato nell’economia legale, inRiv. G. di F., 2000, 2353 ss.<br />
( 13 ) Trequattrini, Vigilanza informativa, in AA.VV., La nuova legge bancaria, vol. II,<br />
Milano, 1996, 777.<br />
( 14 ) La centrale dei rischi è diretta a consentire agli intermediari finanziari il possesso<br />
di tutte le informazioni necessarie relative ai singoli clienti per una corretta erogazione del<br />
credito, essenziale al fine di assicurare la stabilità del sistema creditizio. I dati nominativi trattati<br />
dalla centrale dei rischi presso la Banca d’Italia hanno carattere riservato e sono sottratti<br />
all’accesso dei privati in quanto la loro gestione è riconducibile all’attività di vigilanza della<br />
stessa Banca d’Italia e, in quanto tale, rientrante nel disposto dell’art. 7 T.U. In argomento:<br />
Consiglio di Stato, sez. VI, 7 ottobre-10 novembre 2004 nº 7277, in Guida al Diritto, nº 48/<br />
2004, 96 ss.<br />
( 15 ) Le diverse forme di trasparenza, pur nella loro rapida rassegna, mostrano il comune<br />
scopo di presidiare la correttezza e completezza dell’informazione, sul presupposto che<br />
questa sia idonea a consentire una compiuta valutazione della bontà dell’investimento proposto,<br />
dei livelli di rischio che presenta, ma anche offrire uno screening il più completo possibile<br />
del mercato, degli operatori e degli utenti.
378<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
Soprattutto l’ultimo filone evidenzia come l’informazione nel mercato<br />
bancario non sia volta solo a favorire la stabilità degli enti creditizi, ma<br />
anche destinata a porre il risparmiatore nella condizione di effettuare consapevolmente<br />
le proprie scelte finanziarie, ad essere un ‘‘operatore economico<br />
razionale’’: ‘‘tutta l’attività di acquisizione delle informazioni sugli impieghi<br />
ultimi del risparmio che il risparmiatore avrebbe dovuto effettuare<br />
in proprio è delegato all’ente creditizio, che si assume il relativo rischio, garantendo<br />
al depositante la restituzione delle somme depositate; e l’ordinamento<br />
si fa, a sua volta, almeno in linea di principio, garante dell’impegno<br />
assunto dall’ente creditizio nel momento in cui persegue la stabilità dell’ente<br />
creditizio’’( 16 ). L’operatore delega alla banca il compito di investire<br />
consapevolmente il suo risparmio ricevendo da questa la garanzia contro<br />
eventuali errori nel momento in cui questa si assume il rischio della restituzione(<br />
17 ). Anche in questo caso, in definitiva, la trasparenza a fini di sta-<br />
La trasparenza, pertanto, acquista diverse valenze: consiste in un complesso di regole,<br />
in un modus operandi, che consente alle autorità creditizie di esercitare i controlli previsti<br />
dalla legge sugli operatori, essendo quello bancario un mercato regolamentato nel quale le<br />
attività di controllo e vigilanza assumono importanza fondamentale e la visibilità garantisce<br />
l’esercizio e l’effettività dei controlli; è adottata come trasparenza delle condizioni contrattuali<br />
nei rapporti con la clientela, requisito fondamentale nei rapporti tra banca e cliente, non<br />
dovendo, a quest’ultimo, risultare nulla oscuro o ambiguo perché la natura fiduciaria dei rapporti<br />
tra cliente e banca non risulti viziata o compromessa da comportamenti elusivi di una<br />
esauriente e corretta informazione. Di contro, anche la posizione del cliente deve risultare<br />
trasparente sia con riferimento alla completezza e veridicità delle informazioni che deve fornire<br />
alla banca sia in relazione agli obblighi di segnalazione che gravano sulla stessa in adempimento,<br />
ad esempio, della normativa antiriciclaggio ex L. 197/1991, e successive modifiche.<br />
‘‘Appare chiaro che l’ordinamento richiede agli operatori del mercato finanziario non<br />
solo di dare trasparenza, ma, prima ancora, di essere trasparenti, di risultare cioè conformi a<br />
normativa e quindi corretti, diligenti, preparati, informati. Il concetto di trasparenza si estende<br />
così a comprendere non solo le comunicazioni e le informazioni fornite alla clientela e<br />
provenienti dalla clientela stessa, ma anche quelle provenienti dalle banche e dirette al mercato<br />
e agli organismi di controllo’’. Patalano, Reati e illeciti del diritto bancario, cit., 28<br />
( 16 ) Costi, Informazione e mercato, cit., 212.<br />
( 17 ) Per Giani (voce Credito e risparmio, in AA.VV., Dizionario di diritto pubblico dell’economia,<br />
Rimini, 1998, 337) ‘‘nel mercato della borsa il risparmiatore che intende investire<br />
il proprio denaro opera sulla base di una scelta personale e nella consapevolezza di assumere<br />
per intero, in relazione alla quota di capitale investito, il rischio di impresa. Ove lo stesso<br />
risparmiatore decida, invece, di ricorrere al mercato creditizio, egli intende contenere l’aleatorietà<br />
del proprio investimento ottenendo una remunerazione dal proprio risparmio unicamente<br />
attraverso il sorgere di un rapporto contrattuale con una banca, la quale si impegna a<br />
restituire quanto depositato con la maggiorazione derivante dagli interessi. Poiché però essa<br />
provvederà a sua volta a far affluire tale risparmio verso coloro che domandano denaro (in<br />
primis gli imprenditori) i quali assumeranno l’obbligo di restituirlo, pare evidente come l’attività<br />
bancaria presenti caratteristiche tali da consentire la soddisfazione degli interessi dei<br />
risparmiatori soltanto a condizione che essa venga svolta in modo corretto, in modo cioè<br />
che risulti comunque garantita la stabilità patrimoniale e la solvibilità del soggetto che la<br />
esercita. Pertanto, costituendo l’attività bancaria un fattore indispensabile per il funziona-
STUDI E RASSEGNE<br />
379<br />
bilità persegue lo stesso fine ultimo della trasparenza a favore del risparmiatore:<br />
mira a garantire l’ottima allocazione del risparmio offrendo in<br />
tal senso una precisa assicurazione al risparmiatore. Questa stessa esigenza<br />
giustifica l’interesse all’informazione da parte dei prenditori di credito;<br />
un’informazione che consenta loro di scegliere tra le diverse forme di finanziamento<br />
bancario e fra i diversi enti creditizi.<br />
È opportuno qui richiamare la fondamentale funzione svolta dagli enti<br />
operanti sul mercato con riferimento alla gestione delle informazioni ed al<br />
fenomeno delle asimmetrie informative. I concetti di investimento – mercato<br />
– risparmio si collocano in un’area nella quale il rischio è connaturato;<br />
la conoscenza e l’informazione sono i primi e naturali antidoti al rischio.<br />
Sapere è la necessaria premessa per valutare il rischio e decidere se investire<br />
o no.<br />
Anche sul mercato mobiliare la trasparenza si articola in un flusso informativo<br />
che emittenti e negoziatori in valori mobiliari debbono far pervenire<br />
alla CONSOB ed in un flusso d’informazioni, solo in parte coincidente<br />
con il primo, che gli stessi debbono far giungere alla categoria dei<br />
risparmiatori, previo controllo di un organo pubblico (CONSOB) il quale<br />
ha il compito di verificarne la completezza ed, entro certi limiti, la veridicità(<br />
18 ).<br />
mento del sistema economico capitalistico, e coinvolgendo essa molteplici interessi, in primo<br />
luogo quelli dei risparmiatori, ma anche dei soggetti produttivi, non può non sottostare comunque<br />
ad un certo grado di controllo pubblico’’.<br />
( 18 ) Le società che emettono strumenti finanziari negoziati su mercati regolamentati<br />
sono tenute ad una serie di obblighi ben tipizzati di informazione periodica (bilanci e relazioni<br />
periodiche) e di informazione in caso di determinati eventi straordinari (aumenti di capitale,<br />
fusioni, scissioni, sollecitazioni all’investimento, OPA). Accanto a questi, esiste un obbligo<br />
di informazione genericamente enunciato dall’articolo 114 dlg. 58/1998: l’obbligo per<br />
le società quotate e per chiunque le controlli di informare il pubblico dei fatti che accadono<br />
nella sfera di attività di tale società (o di quelle da loro controllate) ogni qual volta questi fatti<br />
siano idonei, se resi pubblici, ad influenzare sensibilmente il prezzo degli strumenti finanziari<br />
emessi dalle società medesime. ‘‘Non si rischia di esagerare affermando che il menzionato<br />
articolo 114 T.U.I.F. è il pilastro intorno al quale è costruito gran parte dell’intero sistema<br />
dell’informazione dei mercati finanziari italiani’’ (Rordorf, Importanza e limiti dell’informazione<br />
nei mercati finanziari, cit., 776). ‘‘Tale prescrizione riveste un ruolo centrale ai fini del<br />
raccordo tra gli obiettivi della trasparenza societaria e della c.d. efficienza informativa del<br />
mercato finanziario. Essa invero sancisce a carico degli emittenti quotati il dovere di rendere<br />
pubblici «senza indugio» tutti i fatti in grado di riflettersi sulla quotazione dei valori di riferimento,<br />
così garantendo un loro pronto assorbimento nei prezzi e, al contempo, una parità<br />
conoscitiva da parte degli azionisti e degli investitori’’ (Seminara, La tutela penale del mercato<br />
finanziario, in AA.VV., Manuale di diritto penale dell’impresa, Bologna, 2000, 557).<br />
Parallelamente l’art. 115 dlg. 58/1998 prevede che la CONSOB, al fine di vigilare sulla<br />
correttezza delle informazioni fornite al pubblico, possa richiedere comunicazioni e notizie,<br />
assumere informazioni dagli amministratori ed effettuare ispezioni. Inoltre a sottolinearne<br />
l’importanza, in quanto disposizioni poste a presidio della veridicità delle informazioni rilasciate<br />
da emittenti quotate o aventi ad oggetto emittenti quotate ed il cui comune denomi-
380<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
Le principali funzioni del mercato mobiliare consistono nella soddisfazione<br />
della domanda di mezzi finanziari da parte dei soggetti economici attraverso<br />
l’offerta ai risparmiatori di valori mobiliari, sotto forma di titoli e<br />
di garantire una facile liquidità dei titoli quotati. Il mercato, inoltre, svolge<br />
un’ulteriore funzione fondamentale per l’economia: esso è un indicatore<br />
che permette alle autorità statali la conoscenza di dati, propensioni, tendenze,<br />
indici, in grado di fornire un supporto per le scelte di politica economica,<br />
ovvero per individuare gli interessi e le priorità d’intervento.<br />
La peculiarità del mercato mobiliare risiede nel fatto che non esiste un<br />
sistema di vigilanza pubblica diretto a garantire l’adempimento delle promesse<br />
effettuate dagli enti emittenti di valori mobiliari o quanto meno il<br />
soddisfacimento delle aspettative che i risparmiatori avevano sui titoli acquistati.<br />
Di qui la necessità, per il risparmiatore, di conoscere, al di là di<br />
quanto sia necessario nel mercato del credito, le vicende dell’ente emittente<br />
e le modalità di impiego del proprio risparmio, per poter effettuare scelte<br />
che riflettano, nel limite del possibile, i valori reali dei titoli esistenti sul<br />
mercato e poter quindi consentire al mercato di assicurare un’allocazione<br />
ottima delle risorse. ‘‘In altri termini, nel mercato mobiliare s’impone anche<br />
la trasparenza su oggetti per i quali la stessa diventa inutile in presenza di<br />
un adeguato controllo di stabilità sugli emittenti. L’informazione nel mercato<br />
mobiliare assume, pertanto in questa prospettiva, un’importanza maggiore<br />
di quella che la stessa riveste nel mercato bancario, non trovando<br />
alcun surrogato nella esistenza di un controllo di stabilità sugli enti emittenti’’(<br />
19 ).<br />
‘‘Il flusso di informazioni da parte dei soggetti controllati nei confronti<br />
della CONSOB – costituente a sua volta un necessario presupposto per lo<br />
svolgimento dei suoi compiti di vigilanza – è imposto anche dalla imperfezione<br />
del mercato finanziario e dalla incapacità dei risparmiatori di avere<br />
accesso a (ovvero di affrontare i costi necessari per la raccolta di) tutte le<br />
informazioni rilevanti ai fini delle loro decisioni. La presenza della<br />
CONSOB si giustifica, dunque, già su un piano fisiologico (cioè senza necessità<br />
di pensare alla prevenzione di illeciti), in quanto essa ammortizza la<br />
diseguale distribuzione di conoscenze nel mercato, assicurando una parità<br />
di accesso di tutti gli investitori ai fatti più significativi; inoltre, questa diffusione<br />
delle informazioni si converte in una maggiore rappresentatività dei<br />
natore è rappresentato dalla loro particolare significatività per il destinatario, individuabile<br />
nella CONSOB (quale organo di vigilanza), nella società o nel pubblico, il legislatore delegato<br />
le aveva presidiate con sanzione penale portata dall’art. 174 dlg. 58/1998 (‘‘False comunicazioni<br />
ed ostacolo alla CONSOB’’), ora confluita nel generale disposto di cui all’art. 2638<br />
c.c. (novellato con L. 61/2002).<br />
( 19 ) Costi, Informazione e mercato, cit., 215.
STUDI E RASSEGNE<br />
381<br />
prezzi e così contribuisce all’efficienza del mercato, evitando una dispersione<br />
delle risorse’’( 20 ).<br />
La trasparenza è uno strumento indispensabile per far sì che il risparmio<br />
si avvii verso gli impieghi ritenuti capaci di maggiore redditività<br />
e trovi, pertanto, collocazione ottimale, garantendo il buon funzionamento<br />
del mercato e valorizzando la sua funzione di luogo nel quale si assicura<br />
una parte importante del finanziamento delle imprese da parte del risparmio<br />
diffuso.<br />
Correttezza e trasparenza costituiscono elementi imprescindibili per<br />
preservare la fiducia dei risparmiatori, soprattutto laddove si consideri,<br />
ai fini che qui interessano, che l’attività bancaria è espressamente definita<br />
come raccolta di risparmio tra il pubblico ed esercizio del credito, aventi<br />
caratteri d’impresa, perseguendo la sana e prudente gestione, la stabilità<br />
complessiva, l’efficienza e la competitività del sistema finanziario( 21 ).<br />
§ 2. L’informazione strumento primo per un’efficace attività di vigilanza.<br />
L’informazione gioca un ruolo cruciale nell’esercizio della funzione di<br />
vigilanza bancaria. Questa, infatti, consiste in una attività di raccolta, elaborazione<br />
e produzione di informazioni sulla situazione tecnica e sull’andamento<br />
gestionale degli intermediari creditizi, finalizzata all’assunzione di<br />
decisioni e provvedimenti volti a garantire la stabilità del sistema finanziario.<br />
La stretta correlazione strumentale intercorrente tra le informazioni<br />
e la vigilanza si è articolata e sviluppata in modo significativo soprattutto<br />
negli ultimi anni.<br />
In un sistema economico-finanziario statico, chiuso e poco sviluppato,<br />
nel quale l’operatività degli intermediari è limitata, il mercato esprime una<br />
modesta domanda d’informazioni e le fonti pubbliche sull’attività delle<br />
banche sono scarne. Si instaura, così, un modello informativo asimmetrico,<br />
nel quale l’autorità di vigilanza ha un rilevante vantaggio nei confronti degli<br />
operatori. L’attribuzione ad essa di un pieno potere di accesso all’informazione<br />
costituisce un correttivo alla scarsa conoscibilità esterna del valore<br />
( 20 ) Seminara, La tutela penale del mercato finanziario, in AA.VV., Manuale di diritto<br />
penale dell’impresa, cit., 542.<br />
( 21 ) La sana e prudente gestione, finalità dell’attività di vigilanza della Banca d’Italia,<br />
presenta uno stretto collegamento con la tutela del risparmio di cui al portato costituzionale<br />
dell’art. 47 Cost., considerata la fondamentale funzione svolta dalle stesse banche nel sistema<br />
economico e la necessità di preservarle da inquinamenti derivanti da attività illegali e la necessità,<br />
altresì, di mantenere fiducia nella correttezza del mercato e degli operatori anche in<br />
relazione alla tipologia degli investimenti che vi si operano.
382<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
degli attivi e passivi bancari e compensa la mancanza di un efficace vaglio<br />
delle realtà aziendali da parte del mercato.<br />
In un sistema, invece, come quello attuale caratterizzato da dinamismo,<br />
competitività ed aperture a sempre nuove realtà economiche, si accrescono<br />
le esigenze informative degli operatori e della stessa autorità di<br />
vigilanza. Il sistema informativo vede accrescersi di elementi e notizie<br />
che sono utilizzate per valutare la capacità patrimoniale ed organizzativa<br />
degli intermediari a sopportare i rischi. La vigilanza, dunque, diventa un<br />
momento essenziale dell’attività della banca centrale consistendo nel complesso<br />
di norme ed interventi che hanno come obiettivo la stabilità e l’efficienza<br />
dei sistemi bancari. Attualmente la sempre maggiore importanza attribuita<br />
a questi obiettivi pone sempre più in risalto l’azione di vigilanza<br />
che deve, però, contemporaneamente lasciare margini operativi alle decisioni<br />
delle singole aziende( 22 ).<br />
Essa si articola in vari poteri di controllo che possono essere distinti in:<br />
– controlli strutturali, che mirano ad intervenire sulle caratteristiche fondamentali<br />
di un sistema finanziario (norme in materia di specializzazione,<br />
controlli all’entrata, ontrolli sulla struttura di bilancio, ecc.) – structural<br />
regulation;<br />
– controlli sul grado di rischio, cioè controlli sul grado di rischio di singole<br />
operazioni posti in essere da intermediari (liquidità e solvibilità delle<br />
banche) e controlli per prevenire i dissesti bancari o attenuarne le conseguenze<br />
– prudential regulation;<br />
– controlli sulla correttezza e sulla trasparenza delle informazioni fornite alla<br />
clientela ed al pubblico in generale (fair play regulation).<br />
Nel sistema attuale il modello di vigilanza adottato è di tipo prudenziale,<br />
neutro rispetto alle decisioni organizzative ed operative delle imprese<br />
bancarie. I controlli riguardano soprattutto i rischi assumibili e l’obiettivo è<br />
quello di assicurare un soddisfacente grado di equilibrio complessivo nella<br />
gestione degli intermediari, imponendo standard di comportamento ritenuti<br />
adeguati. Si è realizzato un intenso rafforzamento della vigilanza con<br />
l’estensione della sua disciplina, degli obblighi informativi e dell’arricchimento<br />
del contenuto delle segnalazioni.<br />
La norma dell’art. 51 dlg. 385/1993 (T.U.L.B.) in materia di vigilanza<br />
informativa conferma, a questo riguardo, che la Banca d’Italia è destinataria<br />
di un flusso di informazioni che comprende bilanci, segnalazioni pe-<br />
( 22 ) ‘‘Dal punto di vista della vigilanza preoccupa soprattutto la relativa facilità con la<br />
quale gli intermediari possono trovarsi anche inconsapevolmente coinvolti in operazioni illecite,<br />
ciò che rappresenta un pericolo per la stabilità non solo del singolo soggetto, ma dell’intero<br />
sistema, anche a motivo delle sempre più fitte connessioni tra i vari operatori dei<br />
mercati monetari e finanziari e tra gli stessi mercati’’. Urbani, Supervisione bancaria e lotta<br />
al riciclaggio, inBanca Borsa Titoli di Credito, 2002, IV, 482.
STUDI E RASSEGNE<br />
383<br />
riodiche e ogni altro dato o documento richiesto. Alla stessa, inoltre, compete<br />
la determinazione delle modalità e dei termini per la trasmissione di<br />
queste informazioni da parte delle banche. Il complesso informativo così<br />
raccolto è di natura sia statistico-contabile sia amministrativa: segnalazioni<br />
di vigilanza, verbali di assemblea, bilanci d‘esercizio, dichiarazioni degli organi<br />
aziendali.<br />
I controlli di natura cartolare delineati dall’art. 51 T.U.L.B. mirano,<br />
dunque, a conseguire, sulla base dei flussi informativi periodici, una conoscenza<br />
completa ed adeguata della struttura, della solidità e della funzionalità<br />
degli intermediari creditizi per seguirne nel tempo l’evoluzione rapportata<br />
alle dinamiche di mercato, percepirne i mutamenti, proteggere il sistema<br />
da infiltrazioni criminali, condizione necessaria per un consapevole<br />
e tempestivo intervento che le diverse situazioni possono richiedere ai fini<br />
e per gli obiettivi di cui all’art. 5 T.U.L.B.( 23 ).<br />
Le forme di controllo profilatesi in Europa sull’attività bancaria hanno<br />
determinato un allentamento dei vincoli regolamentari a vantaggio della<br />
concorrenzialità con la conseguenza di abbattere le barriere all’entrata di<br />
una impresa nel settore bancario, facilitare l’apertura di nuove filiali, sviluppare<br />
i servizi bancari. In quest’ottica nel settore del credito lo scopo ultimo<br />
dei sistemi di regolamentazione e vigilanza è la sicurezza del sistema<br />
finanziario nel suo complesso, ma, nell’applicazione ai singoli enti che operano<br />
sul mercato i controlli hanno per oggetto le gestioni aziendali e quindi<br />
devono adeguarsi all’evoluzione delle forme di attività imprenditoriale ed<br />
alle innovazioni ad essa connesse. Sta alla base di una corretta gestione bancaria<br />
la promozione di interventi correttivi, ove appaiono necessari, ma<br />
senza sostituirsi all’autonomia delle decisioni aziendali. È un rapporto dialettico<br />
nel quale gli organi ispettivi, senza entrare nel merito di singoli rapporti<br />
e di singole operazioni, devono tuttavia contribuire ad individuare,<br />
per prevenire, quelle operazioni che possono pregiudicare il perseguimento<br />
delle finalità economiche: la tutela del risparmio e l’ordinato svolgimento<br />
dell’attività creditizia. Questa, infatti, è un’attività d’impresa ma è anche<br />
un servizio svolto nell’interesse del pubblico e la protezione di questo passa<br />
attraverso elementi caratterizzanti l’attività d’impresa: in definitiva gli elementi<br />
con i quali l’imprenditore ‘‘prudente’’ (erede della tradizionale dili-<br />
( 23 ) ‘‘Non vi è alcun dubbio che il legislatore ha inteso fissare il principio della piena<br />
conoscibilità da parte dell’organo di vigilanza di ogni circostanza relativa alla struttura e all’operatività<br />
degli enti vigilati; che la Banca d’Italia può chiedere ed ottenere dalle banche,<br />
con le modalità e nei termini più opportuni, tutti i dati e le informazioni di natura contabile,<br />
amministrativa, documentale o di altro genere, ritenuti utili; che in nessun caso le banche<br />
possono opporre un diritto alla riservatezza, essendo sanzionata, sia in via amministrativa<br />
che penale la violazione degli obblighi di corretta comunicazione alla Banca d’Italia’’. Berionne,<br />
Commento all’art. 51 T.U., inCapriglione, Commentario al testo unico delle leggi<br />
in materia bancaria e creditizia, vol. I, Padova, 2001, 383.
384<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
genza del bonus pater familias) valuta e vigila sul buon andamento della sua<br />
azienda, diventano gli elementi di un controllo ‘‘pubblico’’ per una ‘‘sana e<br />
prudente gestione’’ (art. 5 T.U.L.B.)( 24 ).<br />
L’articolo ha un contenuto programmatico; recepisce il principio comunitario<br />
della libera concorrenza, affermando i valori dell’efficienza e<br />
della competitività, che si affiancano a quello tradizionale e fondamentale<br />
della stabilità complessiva del sistema finanziario. La vigilanza, pertanto, si<br />
definisce come la funzione finalizzata al perseguimento delle finalità indicate<br />
nell’art. 5 T.U.L.B. e consiste in un complesso di poteri, tra loro integratisi,<br />
essenzialmente di amministrazione attiva e di controllo su attività<br />
economiche di privati finalizzati a soddisfare il principio costituzionale<br />
della tutela del risparmio in tutte le sua forme ex art. 47 Cost.( 25 ).<br />
I controlli di bilancio ed un efficace sistema informativo sono gli elementi<br />
principi di questa vigilanza prudenziale.<br />
Pertanto il valore dell’attività di vigilanza dipende in misura determinante<br />
dalla qualità e dalla significatività delle informazioni acquisite. E la<br />
disponibilità di dati è un presupposto necessario per l’esercizio di un’adeguata<br />
vigilanza informativa, ma non sufficiente. Ad essa deve essere affiancata,<br />
altresì, l’adozione di procedure informatiche di controllo e di rettifica<br />
degli errori ed una costante verifica dei dati acquisiti anche mediante ispezioni:<br />
nell’impianto del T.U. bancario la vigilanza informativa di cui all’ar-<br />
( 24 ) ‘‘Le autorità creditizie esercitano i poteri di vigilanza a esse attribuiti dal presente<br />
decreto legislativo, avendo riguardo alla sana e prudente gestione dei soggetti vigilati, alla stabilità<br />
complessiva, all’efficienza e alla competitività del sistema finanziario nonché all’osservanza<br />
delle disposizioni in materia creditizia. La vigilanza si esercita nei confronti delle banche, dei<br />
gruppi bancari e degli intermediari finanziari. Le autorità creditizie esercitano, altresì, gli altri<br />
poteri a esse attribuiti dalla legge’’.<br />
( 25 ) Il panorama degli interventi legislativi finora attuati mostra come il mercato finanziario<br />
sia attraversato principalmente da una duplice esigenza: da un lato, quella di tutelare,<br />
ad ampio raggio, il risparmiatore nelle sue scelte di allocazione del risparmio, dall’altro quella<br />
di preservare il mercato stesso dagli inquinamenti che possono derivare dall’impiego in esso<br />
di risorse provenienti dall’attività della criminalità organizzata. L’informazione e la trasparenza,<br />
pertanto, divengono funzionali non solo alla protezione del risparmiatore-investitore, ma<br />
anche alle ulteriori esigenze pertinenti non solo all’ordine pubblico, ma concernenti la stessa<br />
tutela dell’ordine economico. L’art. 47 Cost. riguarda il risparmio nella sua complessità ed<br />
oggettività, nella sua accezione dinamica, come componente del processo di sviluppo economico<br />
e quindi identificatesi con l’interesse ad una migliore allocazione della ricchezza e con<br />
l’interesse ad una più robusta struttura economica. Prospettiva che non è in antitesi con la<br />
tutela dell’interesse del singolo risparmiatore. Anzi.<br />
Le autorità di vigilanza, pertanto, assolvono una funzione conforme al dettato costituzionale<br />
di cui all’art. 47 Cost. e la presenza di fattispecie penali a presidio del sistema è riconducibile<br />
all’interesse ad una ottimale allocazione delle risorse economiche ed alla trasparenza<br />
e correttezza dell’attività di quanti si rivolgono al risparmio collettivo o si offrono di<br />
gestirlo, in una generale prospettiva di tutela del mercato e del patrimonio degli investitori<br />
ex art. 47 Cost.
STUDI E RASSEGNE<br />
385<br />
ticolo 51 è affiancata e correlata con quella regolamentare (art. 53) ed ispettiva<br />
(art. 54). I poteri attribuiti alla Banca d’Italia di richiedere l’invio di<br />
segnalazioni periodiche ed ogni altro dato e documento nonché la trasmissione<br />
di bilanci e situazioni contabili sono alla base dei controlli cartolari<br />
che trovano il necessario completamento negli accertamenti ispettivi, struttura<br />
portante dell’intero sistema di supervisione.<br />
L’accertamento ispettivo consente una visione più immediata e sicura<br />
della situazione aziendale. Esso, infatti, mediante l’accesso in loco consente<br />
una verifica ‘‘sul campo’’ dell’effettivo rispetto dei vincoli prudenziali di cui<br />
all’art. 53 T.U.L.B. e rappresenta un’indispensabile integrazione della vigilanza<br />
informativa: a differenza del controllo cartolare che poggia la sua efficacia<br />
sulla veridicità delle informazioni e dei dati forniti, l’analisi ispettiva<br />
si basa su quanto analizzato e riscontrato dall’accertatore. È lo stesso organo<br />
di controllo che ‘‘entra in banca’’ e verifica l’andamento e la gestione<br />
della stessa. Inoltre gli accertamenti ispettivi si configurano quale necessario<br />
presupposto per l’esercizio dell’eventuale azione correttiva dell’organo<br />
di vigilanza, in quanto per loro natura finalizzati ad individuare, in<br />
sinergia con le risultanze dell’analisi cartolare, le situazioni di inefficienza,<br />
irregolarità ed instabilità che richiedono interventi della stessa autorità di<br />
vigilanza varianti dalle sanzioni amministrative, ai provvedimenti prudenziali<br />
particolari, al divieto di intraprendere nuove operazioni, all’amministrazione<br />
straordinaria, alla liquidazione coatta ed infine alle sanzioni penali<br />
mediante inoltro all’autorità giudiziaria della notizia criminis: ‘‘l’efficacia<br />
dell’attività ispettiva, inoltre, è favorita dalla condizione di totale trasparenza,<br />
nei confronti della Banca d’Italia, da parte degli enti vigilati. Sui loro<br />
esponenti ricade, infatti, l’obbligo di collaborare, producendo, con adeguata<br />
sollecitudine, tutti i documenti richiesti e ogni altro elemento (informazioni,<br />
valutazioni, opinioni) che consenta il perseguimento dei fini istituzionali<br />
del controllo sulle banche. Il legislatore ha inteso dare particolare<br />
rilievo a tale dovere, tutelando con il presidio penale l’attività di vigilanza<br />
(art. 134 T.U.L.B., ora art. 2638 c.c.), ove la condotta degli esponenti degli<br />
enti vigilati risulti di ostacolo all’esercizio di tale funzione’’( 26 ).<br />
‘‘L’ente creditizio è un gestore d’informazioni; la capacità del management<br />
di cogliere con immediatezza, fin dal loro primo manifestarsi, i segnali<br />
del mercato e il contesto operativo costituisce un vantaggio competitivo. Le<br />
segnalazioni statistiche trasmesse alla Banca d’Italia costituiscono la materia<br />
prima dell’attività di vigilanza’’( 27 ).<br />
L’impresa ‘‘banca’’ deve essere in grado di produrre reddito al variare<br />
( 26 ) Barbagallo, Vigilanza ispettiva, in AA.VV., La nuova legge bancaria, vol. II, Milano,<br />
1996, 926.<br />
( 27 ) Gammaldi, I sistemi informativi direzionali nelle banche nell’ottica della vigilanza,<br />
in Banche e Banchieri, 1994, nº 3, 177.
386<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
delle condizioni di mercato; la raccolta e la gestione delle informazioni si<br />
pone come condizione essenziale al corretto ed efficiente esercizio dell’attività<br />
bancaria volta a raccogliere il risparmio onde erogare credito. Non<br />
solo. ‘‘All’impresa bancaria il legislatore ha attribuito una funzione di collaborazione<br />
nella lotta contro la criminalità organizzata, per il fatto che essa<br />
costituisce il centro di riferimento di un complesso qualificato di notizie<br />
che, opportunamente elaborate, possono in notevole misura facilitare l’accertamento<br />
dei reati. La banca tende così a diventare una banca-dati a disposizione<br />
del giudice e della polizia giudiziaria e vede ampliati e trasformati<br />
i suoi compiti tipici’’( 28 ).<br />
Profonde sono le modifiche intervenute nell’evoluzione del sistema<br />
creditizio italiano: da un iniziale ruolo centrale di pochi soggetti bancari,<br />
con limitate categorie di operatori che agivano in un ambiente scarsamente<br />
competitivo ed in mercati caratterizzati da un’elevata segmentazione per<br />
territorio, comparti di attività e per prodotti offerti, si è passati alla rapida<br />
diffusione dell’innovazione, alle diverse opportunità offerte dalla tecnologia<br />
e, non ultimi, gli stessi interventi delle autorità creditizie. Tutto ciò<br />
ha determinato un arricchimento dei prodotti, un ampliamento del numero<br />
di operatori, un diverso assetto organizzativo del sistema finanziario nel suo<br />
complesso.<br />
Il penetrante mutamento che il sistema creditizio italiano ha subito<br />
dagli anni ottanta ad oggi, anche e soprattutto su sollecitazione della normativa<br />
comunitaria, ha dunque portato alla globalizzazione dell’attività,<br />
con conseguente necessità di approntare nuovi strumenti di vigilanza e tutela<br />
che, al contempo, non ponessero ‘‘catene e vincoli’’ al naturale sviluppo<br />
del mercato ed alla necessaria competitività dello stesso e degli operatori.<br />
La forte vocazione europeista della disciplina del credito ha determinato<br />
il legislatore nazionale ha porre a fondamento dell’intera materia<br />
il ‘‘principio della concorrenza’’. La sua centralità determina che la vigilanza<br />
sia non solo circoscritta alla sana e prudente gestione dell’ente creditizio,<br />
ma anche all’efficienza e competitività dell’intero sistema finanziario.<br />
Ed uno dei presupposti perché il mercato possa funzionare è individuato<br />
dalla libertà dell’utente di accedervi sulla base della propria scelta autonoma,<br />
offrendo e ricevendo informazioni corrette e veritiere. La ‘‘razionalità<br />
dell’operatore economico’’ è al centro dell’economia del benessere: ciascun<br />
soggetto tende a massimizzare il proprio interesse personale, identificato<br />
con l’utilità se si tratta di consumatori ovvero con il profitto se si tratta<br />
di imprese. Alla base di ciò èposta la capacità di elaborare le informazioni<br />
ricevute per poter scegliere.<br />
In uno scenario in rapido mutamento, anche le modalità di condu-<br />
( 28 ) Mazzi, voce Reati bancari, inEnc. del Diritto, vol. XXXVIII, Milano, 1987, 924.
STUDI E RASSEGNE<br />
387<br />
zione dell’attività di vigilanza sono andate evolvendosi in risposta ai cambiamenti<br />
dei mercati, dell’operatività e della regolamentazione. Ai maggiori<br />
gradi di libertà riconosciuti agli intermediari si sono accompagnati<br />
fattori di maggiore instabilità del contesto operativo; questi due elementi<br />
amplificano la necessità di percepire con immediatezza i possibili rischi sia<br />
da parte delle autorità creditizie sia da parte degli stessi operatori. Il mutato<br />
panorama conseguente all’integrazione dei sistemi economico-finanziari<br />
ha, altresì, accentuato e moltiplicato i rischi dell’attività rendendonecessario<br />
raccogliere, confrontare e rielaborare un quantitativo notevole di<br />
dati: ‘’oltre che dal rischio di credito, le notti dei banchieri sono assillate<br />
da incubi quali il rischio di mercato, il rischio di tasso, il rischio di cambio<br />
e via seguitando. E se le preoccupazioni degli operatori bancari aumentano,<br />
quelle dell’autorità di vigilanza non diminuiscono. Si accrescono, infatti,<br />
anche i rischi di sistema e di contagio. Conseguentemente sono stati<br />
resi più incisivi alcuni strumenti di controllo’’( 29 ). La piena collaborazione<br />
delle istituzioni creditizie è discesa anche dalla consapevolezza che ogni<br />
forma d’inquinamento dell’economia legale comporta un gravissimo rischio<br />
per la libertà del mercato ed, in prospettiva, per l’esistenza del mercato<br />
stesso.<br />
La disciplina dell’informazione imposta agli operatori del mercato finanziario,<br />
per le operazioni che nello stesso si effettuano, richiede pertanto<br />
un grado di trasparenza diverso, maggiore rispetto a quello previsto dal diritto<br />
comune. ‘‘Tutto il settore è stato oggetto di una particolare disciplina<br />
che ha progressivamente portato l’impresa bancaria fuori dalla normativa<br />
civilistica dettata per l’imprenditore, sino alla sua sottoposizione a forme<br />
di vigilanza da parte dello Stato o comunque di soggetti pubblici’’( 30 ).<br />
L’interesse all’esistenza di un mercato finanziario efficiente e stabile e<br />
la natura dei beni scambiati sullo stesso rendono ragione della particolare<br />
attenzione all’informazione e della peculiarità della trasparenza esistente sia<br />
verso gli organi di controllo, sia verso il pubblico: ‘‘trasparenza e stabilità<br />
non sono strumenti alternativi, ma complementari, utilizzati dagli ordinamenti<br />
per conseguire un solo obiettivo: l’allocazione ottima del risparmio<br />
nei sistemi economici che attribuiscono al mercato finanziario un ruolo decisivo<br />
per il loro sviluppo’’( 31 ).<br />
L’accresciuta concorrenza e la complessità dell’attività finanziaria,<br />
accentuata dal generalizzato ampliamento della gamma dei prodotti offerti,<br />
unitamente alle nuove ‘‘frontiere’’ poste dalla globalizzazione dei<br />
( 29 ) Cerase, Il reato di falso interno bancario, inCass. Pen., 1995, 423.<br />
( 30 ) Giani, voce Credito e risparmio, in AA.VV. Dizionario di diritto pubblico dell’economia,<br />
cit., 335.<br />
( 31 ) Dini, I problemi dell’intermediazione finanziaria, inNote a margine della questione<br />
europea, suppl. al nº 4 della Rassegna dell’Arma dei Carabinieri, 1992, 57.
388<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
mercati e dalla new-economy e net-economy( 32 ), hanno generato un aumento<br />
del grado di rischiosità. Di qui l’esigenza di un sistema di supervisione<br />
che svolga un’azione efficace in quanto la maggiore autonomia<br />
riconosciuta alle istituzioni creditizie amplia le esigenze conoscitive dell’organo<br />
di vigilanza che deve poter disporre in modo tempestivo di informazioni<br />
e dati, analitici ed attendibili, per il corretto svolgimento<br />
delle sue funzioni. L’attività di controllo, che viene condotta in via amministrativa<br />
ed ispettiva, si concentra sui principali aspetti tecnici della<br />
gestione degli intermediari finanziari e trova nel bilancio la base di riferimento<br />
dell’attività di vigilanza.<br />
In questa prospettiva si collocano gli interventi della Banca d’Italia<br />
nella messa a punto dei flussi informativi. Nel definire la struttura dei dati<br />
da richiedere alle aziende di credito, la stessa Banca ha tenuto presenti le<br />
finalità di politica monetaria, quelle di controllo prudenziale nonché quelle<br />
di autogoverno delle imprese. La fase successiva alla raccolta trasforma i<br />
dati in informazioni disponibili per il pubblico, per i mercati, per le<br />
banche.<br />
Nella sua attività di produttore di statistiche creditizie e finanziarie<br />
verso l’esterno, la Banca d’Italia, considerando i diversi obiettivi degli utilizzatori<br />
finali, mette a disposizione di chi è chiamato ad assumere decisioni<br />
un articolato sistema informativo, che può contribuire a ridurre i<br />
margini d’incertezza nell’assunzione delle decisioni. Le informazioni e i<br />
dati raccolti per l’esercizio dell’attività di vigilanza, una volta controllati,<br />
rielaborati e trasformati in un articolato sistema statistico costituiscono<br />
il c.d. ‘‘flusso di ritorno’’, consentendo agli operatori economici, e non,<br />
di disporre di informazioni obiettivizzate provenienti da un organo indipendente<br />
e con un riscontro effettuato sul mercato. Forse questo mostra<br />
al meglio l’importanza e l’utilità pragmatica della circolazione dell’informazione<br />
nel settore.<br />
( 32 ) Il concetto di ‘‘mercato globale’’ come possibilità di operare su tutti i mercati indistintamente,<br />
con sempre minori vincoli, e la ‘‘globalizzazione economica’’ intesa come il<br />
fenomeno per cui vi sono operatori che agiscono in paesi diversi e che servono mercati mondiali<br />
senza che sia necessario un loro radicamento nazionale prevalente, assumono una valenza<br />
diversa con l’evoluzione in atto del concetto stesso di mercato. Lo sviluppo della moderna<br />
telematica porta sempre più a dematerializzare il concetto di mercato e a sostituirlo con il<br />
concetto di informazione; il mercato non è più solo il luogo fisico di incontro della domanda<br />
e dell’offerta di beni, il mercato è ora la rete network, la rete delle informazioni concernenti<br />
ogni genere di attività, non solo economica, e presenta un aspetto che supera la concezione<br />
territoriale. In argomento: Capriglione, Information technology e attività finanziaria, in<br />
Nuova Giur. Civ. Comm., 2001, II, 375 ss.; D’Alfonso, La globalizzazione dell’economia<br />
ed i suoi effetti, inRiv. G. di F., 1997, 1131 ss.; Di Nuzzo, New economy e mercato globale,<br />
in Riv. G. di F., 2000, 1961 ss.
STUDI E RASSEGNE<br />
§ 3. Dalla cultura del segreto alla cultura dell’informazione.<br />
389<br />
‘‘Il sistema bancario, intendendo con tale espressione l’insieme delle<br />
banche che fanno parte di questo sistema, è il centro naturale in cui vengono<br />
ad accumularsi dati e notizie che interessano le aziende e i soggetti<br />
con i quali quel sistema si pone come interlocutore privilegiato ed, in<br />
una certa misura per l’attività svolta, «obbligato»’’( 33 ).<br />
La banca diviene il luogo naturale di arrivo di notizie e ‘‘contenitore’’<br />
delle stesse. Notizie che l’azienda acquisisce nell’esercizio delle sue attività<br />
riguardanti dati ed informazioni ‘‘sensibili’’ ed essenziali del soggetto.<br />
Inoltre si tratta di notizie che la banca è tenuta, per la sua specifica attività,<br />
ad elaborare in maniera periodica e continuativa nell’ambito del mantenimento<br />
e dell’amministrazione dei naturali rapporti con la clientela.<br />
La banca è dunque luogo di notizie, ma è anche il luogo del segreto<br />
bancario inteso, in generale, quale vincolo di riservatezza per gli istituti<br />
di credito in ordine agli affari dei clienti.<br />
Argomento controverso quello del segreto bancario ‘‘che dà luogo ad<br />
una problematica tanto attraente quanto sfuggente’’( 34 ), ‘‘tanto da potersi<br />
sostenere, provocatoriamente, che esso è nato in segreto ed è morto in segreto’’(<br />
35 ).<br />
Non vi è dubbio che il fenomeno della globalizzazione dei mercati<br />
abbia oggi accelerato i tempi per un ripensamento anch’esso globale del<br />
segreto bancario. Ciò soprattutto con la consapevolezza della necessità di<br />
uno sforzo sinergico a livello internazionale per combattere il fenomeno<br />
della criminalità economica ed attuare un sistema globale ed integrato di<br />
vigilanza e controlli sui mercati( 36 ).<br />
( 33 ) Buonomo, Attività bancaria e insider trading, cit., 138.<br />
( 34 ) Alibrandi, I reati bancari, Milano, 1976, 7.<br />
( 35 ) Flick, Informazione bancaria e giudice penale: presupposti di disciplina, problemi e<br />
prospettive, inBanca Borsa Titoli di Credito, 1988, I, 454.<br />
( 36 ) Da tempo la dottrina mette in guardia sullo strettissimo rapporto tra il riciclaggio<br />
dei profitti della criminalità organizzata ad opera di strutture finanziarie e la destabilizzazione<br />
del mercato che consegue a questo inquinamento. È comunque da rilevare che questa<br />
consapevolezza della capacità inquinante e destabilizzante del fenomeno de quo ha rappresentato<br />
lo stimolo più significativo per gli intermediari, soprattutto bancari, ad accettare un<br />
ruolo attivo attraverso la disciplina dell’informazione ed altresì per le legislazioni nazionali e<br />
le autorità di controllo dei mercati per intensificare un’azione di contrasto. In argomento,<br />
oltre alla tradizionale manualistica, diffusamente: Flick, Intermediazione finanziaria, informazione<br />
e lotta al riciclaggio, inRiv. Soc., 1991, I, 434 ss.; Manna, Riciclaggio e reati connessi<br />
all’intermediazione mobiliare, Torino, 2000, 132 ss.; Carta-Altiero, I nuovi scenari del riciclaggio<br />
ed i connessi effetti monetari, inRivista G. di F., 2000, 983 ss.; Di Nuzzo, Gli obblighi<br />
antiriciclaggio delle categorie economiche a rischio, inRivista G. di F., 2000, 741 ss.;<br />
Capriglione, L’antiriciclaggio tra prevenzione sociale e disinquinamento del settore finanziario,<br />
inBanca Borsa e Titoli di credito, 1998, I, 417 ss.
390<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
Riservatezza e trasparenza rappresentano gli storici poli antitetici attorno<br />
ai quali ruotano gli interessi delle banche, dei risparmiatori, delle<br />
autorità di controllo e degli organi pubblici ed istituzionali in generale.<br />
Sono numerose le opinioni che individuano nella esistenza e nella tutela<br />
del segreto bancario uno dei meccanismi fondamentali per l’efficienza<br />
ed il buon funzionamento del settore preposto alla gestione del risparmio:<br />
il segreto sarebbe posto a presidio non solo degli interessi privati dei<br />
clienti, ma di quelli più generali del sistema economico, in quanto fattore<br />
principale che stimolerebbe ed incoraggerebbe la formazione del risparmio<br />
bancario, mediante l’accesso e l’affidamento al mercato stesso.<br />
Al contrario, viene evidenziato in altre posizioni il profilo della trasparenza<br />
quale strumento imposto dai doveri inderogabili di solidarietà sociale<br />
al fine di raggiungere obiettivi pubblici primari non solo di natura penale<br />
(accertamento e repressione dei reati), ma anche di natura valutaria-tributaria<br />
e più in generale di ordine politico-economico( 37 ).<br />
La stessa Corte Costituzionale (sentenza 03.02.1992 nº 51) ha ribadito<br />
che il segreto bancario consiste in un dovere di riserbo cui sono tradizionalmente<br />
tenute le imprese bancarie in relazione alle operazioni, ai conti<br />
e alle posizioni concernenti gli utenti dei servizi da esse erogate. A tale dovere,<br />
tuttavia, non corrisponde nei singoli clienti delle banche una posizione<br />
giuridica soggettiva costituzionalmente protetta, né, meno che meno,<br />
un diritto della personalità, poiché la sfera di riservatezza con la quale vengono<br />
di solito circondati i conti e le operazioni degli utenti dei servizi bancari<br />
è direttamente strumentale all’obiettivo della sicurezza e del buon andamento<br />
dei traffici commerciali( 38 ).<br />
( 37 ) Per una rassegna delle posizioni in merito, ed in generale sul segreto bancario, ci si<br />
riporta a quanto indicato in: Schiavolin, voce Segreto bancario, inDigesto Disc. Comm.,<br />
vol. XIII, Torino, 1996, 354 ss.; Di Amato, voce Segreto (Segreto Bancario), inEnc. Giur.<br />
Treccani, vol. XXVIII, Roma, 1992; Petragnani Gelosi, La tutela penale del segreto bancario<br />
e l’insider trading, in AA.VV. (coordinati da Meyer-Stortoni), Diritto penale della<br />
banca, del mercato mobiliare e finanziario, Torino, 2002, 255 ss.; Di Gregorio-Mainolfi,<br />
Le indagini bancarie, Milano, 2002; Polo, Accertamenti bancari e tutela del diritto alla riservatezza,<br />
inRivista G. di F., 1999, 1601 ss.<br />
( 38 ) Dalla definizione data dalla Consulta si desume che il segreto bancario è da inquadrarsi<br />
come una vera e propria consuetudine e in quanto tale deve essere interpretato sulla<br />
base dei comportamenti degli istituti di credito e sulla convinzione psicologica di chi lo utilizza.<br />
Inoltre esso si identifica come un dovere incombente sull’impresa bancaria e non come<br />
un diritto, costituzionalmente garantito per il cliente. Infine esso è diretto a garantire la sicurezza<br />
e il buon andamento del commercio. Valutato in questo modo il segreto bancario è<br />
riconosciuto e tutelato dalla Costituzione solo in base ai principi relativi ai rapporti economici<br />
e in particolare dagli articoli 41, commi 2 e 3, 42, comma 2, e 47, comma 1, della Costituzione.<br />
Questi articoli nella volontà di indirizzare e coordinare l’attività commerciale ed<br />
economica in senso lato e allo scopo di favorire il risparmio e regolare il sistema creditizio<br />
conferiscono ampia delega al legislatore ordinario per fissare le regole specifiche che consentano<br />
il raggiungimento dello scopo.
STUDI E RASSEGNE<br />
391<br />
Prevalentemente ammessa l’esistenza di tale segreto( 39 ), ne resta controversa<br />
la fonte, ed il fondamento giuridico. Dottrina e giurisprudenza nel<br />
corso degli anni hanno delineato diverse e contrapposte teorie, principalmente<br />
suddivisibili in due grossi filoni a seconda che si rintracci il fondamento<br />
in una fonte-atto (legge) o una fonte-fatto (consuetudine).<br />
Brevemente, e per quanto possibile sinteticamente, si passa da un primo<br />
orientamento che individua il fondamento del segreto bancario nell’art. 10<br />
della legge bancaria del 1936-38 che imponeva (come tuttora impone l’art.<br />
7 T.U.) l’obbligo del segreto d’ufficio anche nei confronti delle pubbliche<br />
amministrazioni sulle notizie o informazioni riguardanti le aziende di credito<br />
sottoposte al controllo della Banca d’Italia( 40 ), ad un altro che riporta il segreto<br />
bancario nella cerchia dei diritti inviolabili dell’uomo ex art. 2 Cost. in<br />
combinato disposto con gli articoli 41 e 47 Cost. a seconda che il cliente sia<br />
una persona giuridica o un risparmiatore-persona fisica( 41 ).<br />
Vi è poi chi ha ritenuto di rinvenire la disciplina del segreto bancario<br />
all’interno della parte speciale del codice penale e, segnatamente, nell’art.<br />
622 c.p. ‘‘Rivelazione di segreto professionale’’( 42 ). Infine non manca chi ripete<br />
il fondamento della figura de qua dalla disposizione dell’art. 10 della<br />
legge bancaria 1936-38: la violazione di tale principio trova, quindi, la sua<br />
incriminazione nel reato di cui all’art. 622 c.p.( 43 ).<br />
Dall’altro lato, il fondamento del segreto viene ravvisato nella consuetudine,<br />
fatto universale che funziona come strumento di integrazione dei<br />
contratti bancari ex art. 1374 c.c., per cui la banca assume l’obbligo del segreto<br />
anche in assenza di un’apposita clausola contrattuale: l’obbligo del<br />
riserbo è a carico della banca in quanto comportamento costantemente osservato<br />
da tempo immemorabile nella convinzione della sua assoluta obbligatorietà(<br />
44 ). È la posizione sostenuta dalla dottrina che più teneva alla im-<br />
( 39 ) ‘‘Nella legislazione sulle banche vi sono solo cenni al segreto: per ricordarlo incidentalmente,<br />
o rimuoverlo in certi casi. Il segreto di banca è spesso considerato nella legislazione<br />
fiscale ed in quella volta a reprimere la criminalità organizzata allo scopo di consentirne<br />
il superamento. Il travaglio delle posizioni dottrinarie in argomento sono molto diverse tra<br />
loro tanto da riconoscere un’ampia estensione al segreto o giungerlo a disconoscerlo’’: Paterniti,<br />
Manuale dei reati, vol. II, Milano, 130.<br />
( 40 ) Ruta, Il sistema della legislazione bancaria, Roma, 1975; Nuvolone, Problemi di<br />
diritto penale bancario, inBanca Borsa e Titoli di credito, 1976, I, 176 ss.<br />
( 41 ) Bernardi, Segreto bancario, segreto della banca, segreto d’ufficio: fra indeterminatezza<br />
normativa e inerzia legislativa, inRiv. It. Dir. Proc. Pen., 1984, 766 ss.; Mazzacuva,<br />
Riflessi penalistici del segreto bancario, inBanca Borsa e Titoli di credito, 1984, 315 ss.<br />
( 42 ) Antolisei, Manuale di diritto penale – Leggi complementari, vol. I, Milano, 1993,<br />
92 ss.<br />
( 43 ) Alibrandi, I reati bancari, cit., 77 ss. Ove, naturalmente, si rimanda per un approfondimento<br />
delle varie posizioni dottrinali e giurisprudenziali.<br />
( 44 ) Mantovani, Sul diritto penale della informazione societaria e dell’impresa, inIndice<br />
Penale, 1987, 25 ss.; Gianfelici, Il segreto bancario, Milano, 1996.
392<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
penetrabilità degli istituti di credito: sarebbe un’abitudine antica, ed ormai<br />
consolidata, ad assicurare il riserbo sull’attività delle banche ed i rapporti<br />
che intercorrono con la clientela.<br />
La scelta interpretativa privatistica, che assegna al segreto bancario un<br />
fondamento consuetudinario e lo assimila al segreto professionale, ne determina<br />
l’oggetto in maniera ampia: allo stesso modo e con la medesima<br />
portata del segreto professionale, al quale accedono, sostanzialmente, tutte<br />
le notizie che il professionista ha conosciuto nell’espletamento ed in ragione<br />
della sua attività. Sicché il segreto bancario coprirebbe tutte le notizie<br />
che concernono i rapporti delle stessa con la clientela, apprese dagli istituti<br />
di credito nel corso dei rapporti stessi. Pertanto il segreto non avrebbe ad<br />
oggetto solo notizie a contenuto tecnico, ma anche tutte le altre apprese dai<br />
funzionari nell’espletamento della loro attività.<br />
La scelta interpretativa pubblicistica, che assimila il segreto bancario a<br />
quello d’ufficio, invece, perviene a conclusioni diverse sull’oggetto. In quest’ottica<br />
il segreto assume un oggetto squisitamente tecnico, nel riferimento<br />
a notizie e dati specifici dell’attività bancaria. Notizie e dati che non abbiano<br />
tali requisiti non potrebbero esserne oggetto.<br />
Questa breve e sintetica rassegna ha subito messo in evidenza che non<br />
esiste una norma ad hoc che fondi e sanzioni il segreto bancario, legittimando<br />
dubbi sulla vigenza stessa di un istituto non disciplinato espressamente<br />
da alcuna norma di legge, ciononostante esistono numerosi provvedimenti<br />
legislativi che ne delimitano l’operatività, implicitamente confermandone<br />
l’esistenza.<br />
Un primo nucleo di casi che fa eccezione al tradizionale dovere di riserbo<br />
delle banche in ordine alle informazione sulla clientela, oltre a<br />
quanto previsto dall’ampia normativa in materia tributaria-fiscale( 45 ), riguarda<br />
lo scambio di informazioni che intercorre tra gli stessi istituti bancari<br />
(c.d. informazioni iterbancarie) e tra questi e la Banca d’Italia (c.d. centrale<br />
dei rischi)( 46 ).<br />
Altro caso è ravvisabile nel potere della Banca d’Italia di richiedere<br />
ogni tipo di informazione agli istituti al fine di espletare i compiti di vigilanza<br />
ex art. 51 ss. T.U. In questo caso nessun tipo di segreto può essere<br />
opposto all’organo di vigilanza nell’esercizio delle sue funzioni.<br />
( 45 ) Le prime limitazioni del segreto bancario si sono avute in tema di accertamenti<br />
fiscali con il D.P.R. 26/10/1972 nº 633 e con il D.P.R. 29/09/1973 nº 600 e poi via via nelle<br />
successive leggi in materia.<br />
( 46 ) Si realizza in merito una vera e propria circolazione di informazioni: le singole banche<br />
hanno il dovere di comunicare alla ‘‘centrale dei rischi’’ l’importo dei crediti concessi ai<br />
clienti ed il loro utilizzo e come ‘‘flusso di ritorno’’ la Banca d’Italia segnala periodicamente<br />
alle singole banche il globale importo degli affidamenti concessi agli stessi. Lo scopo è, evidentemente,<br />
quello di consentire al settore bancario di valutare l’effettiva posizione di rischio<br />
dei soggetti che usufruiscono dei finanziamenti.
STUDI E RASSEGNE<br />
393<br />
Il codice di procedura penale disciplina gli accertamenti presso banche<br />
agli articoli 248-255-256, che, inseriti nel libro delle prove, prevedono, rispettivamente,<br />
perquisizioni, sequestri e dovere di consegna di documenti<br />
per gli impiegati di banca nell’ambito delle procedure giudiziarie volte ad<br />
accertare precise ipotesi di reato. Le istituzioni creditizie possono rappresentare<br />
il tramite attraverso cui passa, e talora si realizza, una variegata<br />
gamma di illeciti, che vanno dal riciclaggio del c.d. denaro sporco, ai reati<br />
fiscali, al finanziamento di imprese mafiose e terroristiche. In tutti questi<br />
casi la prove necessarie alla configurazione delle fattispecie delittuose sono<br />
desumibili essenzialmente dall’esame delle operazioni bancarie: di fronte<br />
all’inquirente la banca può svolgere funzioni di archivio dato che le negoziazioni<br />
lasciano sempre traccia( 47 ).<br />
L’erosione maggiore, forse, è dovuta alla normativa antiriciclaggio di<br />
cui alla L. 197/1991, e successive modifiche, che ha introdotto una serie<br />
di obblighi di segnalazione delle operazioni e di identificazione degli autori<br />
delle stesse( 48 ). L’esatto presupposto teorico che questa forma di criminalità<br />
èmossa da interessi economici ha spinto il legislatore a prescrivere e<br />
consentire indagini aventi ad oggetto i movimenti di denaro connessi alle<br />
attività illecite; allo scopo sono stati consentiti, appunto, l’accesso e i conseguenti<br />
accertamenti presso gli istituti di credito. ‘‘Il motivo di fondo di<br />
questa normativa, nella parte in cui inquadra l’intreccio di attività delinquenziali<br />
ed economiche, è quello di consentire, non solo a fine di repressione<br />
ma anche di prevenzione, la disponibilità di notizie e dati patrimoniali<br />
in possesso di enti pubblici e privati e di consentire accertamenti<br />
presso banche anche al di fuori di un procedimento penale pendente’’( 49 ).<br />
Pertanto, tutta la normativa accennata rimuove di fatto il segreto bancario,<br />
consentendo la richiesta di informazioni, l’esame di documenti ed il<br />
loro eventuale sequestro. I soggetti autorizzati a tali condotte hanno un potere<br />
di accertamento e accesso presso le banche, mentre queste debbono<br />
consentirlo. In tali condizioni l’ampiezza e la portata del segreto bancario<br />
appare veramente ridotta, non potendo valere per situazioni che richiedano<br />
accertamenti anche determinati dal mero sospetto di illeciti o per i controlli<br />
sulla stessa attività bancaria. Il segreto, quindi, ha ormai assunto una prevalente<br />
valenza privatistica. Può avere un ruolo, cioè, nei rapporti tra pri-<br />
( 47 ) Capriglione, La responsabilità del banchiere: evoluzione giurisprudenziale e prospettive<br />
di riforma, inBanca Borsa Titoli di credito, I, 1990, 348.<br />
( 48 ) In argomento, con riferimento anche alle istruzioni della Banca d’Italia e con indicazione<br />
di bibliografia, mi permetto il rinvio al mio: La normativa antiriciclaggio dopo il<br />
decalogo bis della Banca d’Italia,inStudi Parmensi, Padova, 1997, 27 ss.; Lo Monaco-Mengali,<br />
Dieci anni di attività del comitato antiriciclaggio, inIl Fisco, all. nº 21/2003 al nº 34 del<br />
22/09/2003.<br />
( 49 ) Paterniti, Manuale dei reati, vol. II, cit., 138.
394<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
vati, restando a garanzia della normalità degli stessi, soprattutto nella contrapposizione<br />
concorrenziale. In tal senso il segreto può evitare l’illecito<br />
vantaggio derivante dalla piena conoscenza dei termini economici dell’altrui<br />
attività, e può svolgere un ruolo socialmente accettabile perché, conseguentemente,<br />
volto alla moralizzazione delle attività economiche private.<br />
L’area di rispetto di questo segreto è quella pertinente al singolo rapporto<br />
intrattenuto dalla clientela con la banca. Nel rapporto contrattuale clientebanca<br />
dovrà individuarsi la parte di notizie e dati indisponibili, e soprattutto<br />
verso chi opera tale indisponibilità: visto che non è pensabile verso<br />
la pubblica autorità.<br />
Il superamento, o il mancato rispetto, del limite contrattuale de quo<br />
può dar causa a responsabilità civile. Quanto alla responsabilità penale sarà<br />
necessario valutare i singoli casi: sarà da valutare la singola situazione nella<br />
quale il funzionario di banca non rispetta il segreto del cliente ed i motivi<br />
che lo hanno determinato a ciò. Sarà necessario vedere se le notizie e le informazioni<br />
non difesi attengano strettamente ad un’operazione bancaria,<br />
ovvero se più ampiamente attengano a situazioni personali del cliente<br />
che sono state confidenzialmente comunicate al funzionario in occasione<br />
di operazioni bancarie, potendosi configurare, in quest’ultimo caso, un’ipotesi<br />
di tutela penale del segreto professionale.<br />
Quindi l’informazione e la trasparenza, originariamente concepite e<br />
tutelate in funzione del solo risparmiatore, sono state ritenute, da un certo<br />
momento in poi, funzionali a preservare il mercato finanziario dagli inquinamenti<br />
che ne potevano derivare dall’impiego nello stesso di risorse provenienti<br />
dall’attività della criminalità organizzata, ma soprattutto sono state<br />
finalizzate e funzionalizzate alla sua tutela: al progressivo passaggio dalla<br />
qualificazione pubblicistica dell’attività bancaria a quella tipicamente imprenditoriale<br />
e privatistica, è corrisposto un progressivo aumento dei doveri<br />
di informazione verso l’autorità investigativa e giudiziaria, spostandosi<br />
da una cultura del segreto ad una cultura della trasparenza. Tutto ciò nella<br />
convinzione che la corretta circolazione delle informazione ed il porsi come<br />
trasparente giovi al sistema nel suo complesso, rafforzandolo, prevenendo<br />
infiltrazioni criminali e rafforzando la fiducia in esso, e richiamando a sé,<br />
pertanto, il risparmio( 50 ).<br />
Oggi appare interessante la disciplina dell’informazione, anziché<br />
quella del segreto, rovesciando il tradizionale angolo di visuale. Da alcuni<br />
anni, infatti, viene sanzionato penalmente l’obbligo di talune comunica-<br />
( 50 ) Lo stesso viene rilevato da Melchionda (Mercato dei valori mobiliari (tutela penale<br />
del), cit., 1) con riferimento al mercato mobiliare evidenziando come le disposizioni introdotte<br />
dal legislatore segnino il radicale passaggio da un sistema c.d. di corporation law ad<br />
un’area di securities law. Ove prende corpo la filosofia della trasparenza con un profondo<br />
ripensamento dell’informazione e della disciplina societaria in generale.
STUDI E RASSEGNE<br />
395<br />
zioni, prescritte per far chiarezza sulla gestione delle banche. L’osservanza<br />
delle regole del mercato c.d. strumentali, la cui osservanza è imposta agli<br />
operatori finanziari allo scopo di assicurare la concreta e tempestiva possibilità<br />
di accertamento degli illeciti, consente il corretto ricorso al presidio<br />
penalistico in materia: doveri di segnalazione e di collaborazione variamente<br />
connotata rappresentano il volano indispensabile per garantire l’effettività<br />
della disciplina finale della protezione, efficienza e stabilità del<br />
mercato.<br />
‘‘Il sistema dei controlli interni ed esterni, la stessa collaborazione che<br />
le banche sono tenute a prestare per il perseguimento di interessi della collettività,<br />
i notevoli ridimensionamenti del segreto bancario, dimostrano<br />
come oggi innanzitutto la collettività, e quindi la legislazione, assegnino<br />
una particolare collocazione e funzione di garanzia all’impresa bancaria,<br />
e richiedano una visibilità tutta particolare e specifica dell’attività sua e<br />
dei suoi esponenti’’( 51 ).<br />
Infine, l’opzione per la trasparenza dei rapporti economico-finanziari<br />
non porta con sé solo un rilievo di carattere etico, ma anche un’importante<br />
valutazione in ordine alla tanto evocata autoregolamentazione da parte<br />
delle banche. La richiesta di queste di non essere ‘‘costrette’’ in reticoli<br />
comportamentali e controlli ‘‘invadenti’’ passa necessariamente da una cultura<br />
della trasparenza e della fiducia nel loro operato sul mercato, nell’ottica<br />
del fondamentale principio dell’art. 47, I comma, Cost.<br />
§ 4. Informazione bancaria, organo di vigilanza ed autorità giudiziaria: il<br />
reperimento delle notitiae criminis.<br />
Informazione e mercato finanziario, dunque. Cui prodest?<br />
A tutti:<br />
– agli investitori-risparmiatori, i quali saranno attratti da un mercato<br />
chiaro e trasparente, che sia in grado di fornire informazioni veritiere<br />
che consentano l’attuazione del principio della c.d. razionalità dell’operatore<br />
economico;<br />
– agli intermediari, che agendo da canale di comunicazione tra le informazioni<br />
prodotte ed i bisogni informativi degli utenti contribuiscono a facilitarne<br />
l’accesso al mercato, incentivando l’investimento e l’afflusso del<br />
risparmio;<br />
– al mercato, il quale attraverso una politica improntata alla circolazione di<br />
informazioni chiare, precise e veritiere può improntarsi alla concorrenza,<br />
all’efficienza e stabilità;<br />
( 51 ) Patalano, Reati ed illeciti del diritto bancario, cit., 266.
396<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
– all’autorità di controllo, la quale può attuare la sua peculiare funzione di<br />
vigilanza e guida mediante uno screening informativo che consenta di essere<br />
garante della legalità, del corretto funzionamento del mercato e dell’efficiente<br />
allocazione del risparmio e delle risorse economiche;<br />
– alla repressione dei fenomeni criminali, in quanto si può tranquillamente<br />
affermare che il primo motivo di impunità per un illecito è la mancata<br />
conoscenza che l’illecito sia stato compiuto.<br />
Le fattispecie penali poste a presidio del corretto funzionamento dell’attività<br />
bancaria e finanziaria, unitamente alla necessità di garantire l’effettivo<br />
ed efficiente esercizio dei poteri di vigilanza conferiti dall’ordinamento<br />
all’organo di controllo, e segnatamente alla Banca d’Italia, hanno determinato<br />
la coesistenza nel sistema di diverse incriminazioni specificamente delineate,<br />
oltre a quelle contenute nel codice penale.<br />
Ma ‘‘non esiste una ricca casistica giurisprudenziale di queste responsabilità.<br />
Le ragioni possono consistere tanto nella intrinseca «specificità»<br />
delle norme incriminatici, peraltro spesso modificate, e delle condotte sanzionate,<br />
quanto nella scarsa attenzione sino ad ora prestata al mondo bancario<br />
da parte della magistratura inquirente. La quale, attivandosi di norma<br />
sulla base di una notitia criminis, difficilmente indaga autonomamente in<br />
un terreno che non le è congeniale. E d’altro canto la complessa procedura<br />
con la quale l’organo di vigilanza vaglia i presupposti per attivare le Procure<br />
della Repubblica rende molto rare le segnalazioni di reato. Nondimeno,<br />
la progressiva sensibilizzazione della magistratura nei confronti dei<br />
crimini economici, il riconoscimento della loro incidenza sul corretto svolgimento<br />
dell’attività imprenditoriale pubblica e privata, l’allarme sociale<br />
evocato da eventi enfatizzati dai mezzi di comunicazione lasciano ragionevolmente<br />
supporre che questo campo sarà, nel futuro, battuto con crescente<br />
tenacia e professionalità’’( 52 ).<br />
Problematica notoriamente esistente nei rapporti tra autorità giudiziaria<br />
e settore creditizio per quanto attiene in senso ampio l’acquisizione<br />
d’informazioni da parte della prima nei confronti del secondo ed alla regolamentazione<br />
delle relative procedure: ‘‘si deve constatare necessariamente<br />
un elevato tasso di conflittualità, più o meno latente e talvolta conclamato<br />
in modo clamoroso, o quanto meno d’incomprensione reciproca fra i due<br />
interlocutori del confronto’’( 53 ).<br />
L’impresa-banca, infatti, raccoglie, gestisce e conserva, in termini tra<br />
loro logicamente e strettamente interdipendenti, denaro e informazioni:<br />
sia nella fase della raccolta del risparmio che in quella di esercizio del cre-<br />
( 52 ) Nordio, Commento all’art. 134 T.U., inEllero-Nordio, Reati societari e bancari,<br />
Padova, 1998, 273.<br />
( 53 ) Flick, Informazione bancaria e giudice penale: presupposti di disciplina. Problemi e<br />
prospettive, inBanca Borsa e Titoli Credito, 1988, I, 441.
STUDI E RASSEGNE<br />
397<br />
dito. La banca può dunque costituire l’interlocutore privilegiato dell’autorità<br />
giudiziaria sia nell’attività di prevenzione, sia in quella di repressione di<br />
fatti illeciti con riferimento sia alla criminalità organizzata che a quella comune,<br />
sotto il duplice profilo della individuazione delle fonti di finanziamento<br />
e dell’individuazione dei mezzi di riciclaggio e di trasferimento<br />
dei profitti; oltre a tutte le ipotesi in cui la ricostruzione dell’iter di trasferimento<br />
di denaro e della acquisizione di disponibilità economiche da parte<br />
di taluno si risolve in un accertamento probatorio rilevante ai fini penali(<br />
54 ).<br />
‘‘Nel momento in cui il legislatore costituente ha previsto una norma<br />
come l’art. 41 Cost. ha dato per scontato, come possibile e come doveroso,<br />
un intervento del legislatore ordinario diretto ad assicurare il «non contrasto»<br />
tra attività economica privata e utilità sociale e a determinare i programmi<br />
e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata<br />
possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali’’( 55 ).<br />
In quest’ambito si inseriscono gli interventi dello Stato nell’economia<br />
nell’ottica di un processo di sviluppo e di protezione del sistema attraverso<br />
la predisposizione di normative specifiche anche con l’utilizzo dello strumento<br />
penalistico poiché ‘‘criminalità economica e criminalità organizzata<br />
sono sempre meno accezioni diverse: i mercati finanziari diventano terreno<br />
fertile e ideale, da un lato, e terreno «necessitato», dall’altro, per l’accumulazione,<br />
la trasformazione e l’investimento dei proventi illeciti. I mercati finanziari<br />
sono quindi luogo di commissione di reati e luogo dove i proventi<br />
di altri reati cercano legittimazione, rispettabilità, regolarizzazione’’( 56 ).<br />
L’obiettivo di prevenire e reprimere i modi di immissione della ricchezza<br />
di provenienza illecita nel sistema dell’economia legale e l’utilizzazione<br />
dello stesso in maniera distorta o per scopi illegali, dovrà essere perseguito<br />
in misura sempre crescente, anche all’interno di una strategia di<br />
cooperazione internazionale. Tale strategia non può prescindere da una<br />
sempre più fattiva collaborazione da parte degli intermediari finanziari, at-<br />
( 54 ) ‘‘Per la banca v’è la tentazione di accentuare la logica tradizionale di tipo privatistico<br />
e imprenditoriale non tanto e non solo rivendicando esigenze e istanze tradizionali di<br />
difesa ad oltranza della riservatezza e del segreto bancario nell’interesse diretto e immediato<br />
del cliente, nonché in quello mediato del settore; quanto e soprattutto rivendicando istanze<br />
di eccessività e sproporzione – anche rispetto ai risultati conseguibili nel campo dell’indagine<br />
– dei costi economici e tecnici cui le richieste di informazione dell’autorità giudiziaria danno<br />
luogo. (...) Per il giudice, per contro, v’è la tentazione di accentuare nei confronti della banca<br />
la logica di tipo pubblicistico e solidaristico’’. Flick, Informazione bancaria e giudice penale:<br />
presupposti di disciplina. Problemi e prospettive, cit., 444.<br />
( 55 ) Corso, Profili penali e processuali penali della disciplina del mercato finanziario, in<br />
Riv. Trim. Dir. Pen. Econ., 1995, 1077.<br />
( 56 ) Corso, Profili penali e processuali penali della disciplina del mercato finanziario,<br />
cit., 1079.
398<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
tesa la posizione nevralgica che occupano nell’economia e nella finanza, la<br />
professionalità specifica di cui sono portatori e la presenza capillare nel territorio.<br />
Tale contributo è essenziale per un efficace svolgimento dell’azione<br />
di contrasto all’inquinamento del sistema economico.<br />
Soprattutto attraverso una pronta acquisizione ed un’ampia utilizzazione<br />
dei dati provenienti dal sistema creditizio, gli effetti dirompenti della<br />
penetrazione nei circuiti dell’economia legale delle ricchezze di derivazione<br />
illecita potranno essere, se non completamente neutralizzati, adeguatamente<br />
contenuti. Ugualmente, le puntuali modalità di registrazione contabile<br />
e di acquisizione di informazioni e notizie adottate dagli istituti di credito<br />
consentono, almeno tendenzialmente, una precisa individuazione dei<br />
singoli flussi finanziari e dei collegamenti interpersonali tra i diversi soggetti<br />
interessati, con risultati utilizzabili anche a fini probatori nell’ambito<br />
del procedimento penale.<br />
L’importanza della trasparenza in materia economica è alla base di<br />
tutte le più recenti modifiche del diritto societario e bancario, compreso<br />
quello penale, e la trasparenza postula non solo permeabilità ai controlli<br />
esterni, ma, soprattutto, cooperazione con gli organi investigativi.<br />
Sempre più spesso per poter svolgere efficacemente le funzioni ad esse<br />
attribuite dall’ordinamento le autorità di vigilanza devono coordinare le<br />
proprie attribuzioni e condividere il patrimonio informativo di cui sono titolari.<br />
Il legislatore, però, ha assegnato ruoli diversi; se è vero che il patrimonio<br />
informativo e d’esperienza di cui dispone la Banca d’Italia è strumento<br />
essenziale per contrastare forme di criminalità che si avvalgono<br />
del sistema, è altrettanto vero che le finalità essenzialmente repressive del<br />
fenomeno criminale cui si ispira la legislazione penale hanno indotto il legislatore<br />
a porre altri organi e non quello di vigilanza bancaria al centro<br />
dell’impianto organizzativo apprestato allo scopo.<br />
L’interesse della Banca d’Italia nel contrasto alle condotte illecite, al di<br />
là della naturale sensibilità alle istanze collettive di pieno rispetto della legalità,<br />
è di tipo ‘‘riflesso’’, nel senso che l’impegno e la collaborazione con<br />
le altre pubbliche autorità nel contrasto del fenomeno sono funzionali alla<br />
preservazione della stabilità degli intermediari e dell’efficienza e competitività<br />
del sistema finanziario, obiettivi ai quali, diversamente dalla repressione<br />
dei fenomeni criminali, l’organo di vigilanza deve invece attendere<br />
con un ruolo di preminenza.<br />
I rapporti collaborativi tra autorità possono svilupparsi in modi diversi<br />
e a vari livelli, partendo dal semplice scambio d’informazioni per arrivare a<br />
vere e proprie forme di collaborazione. Il patrimonio informativo e di esperienza<br />
che deriva dallo svolgimento dell’attività di supervisione del mercato<br />
creditizio e più in generale di quello finanziario nonché dalla collaborazione<br />
con le altre autorità di settore, fa sì che l’organo di vigilanza possa<br />
dare un contributo di fondamentale importanza nello svolgimento delle indagini<br />
aventi ad oggetto fenomeni di criminalità economica o che per inte-
STUDI E RASSEGNE<br />
399<br />
grarsi si avvalgano del sistema economico. Però, ‘‘un tale coinvolgimento<br />
non deve in alcun modo far perdere di vista le competenze proprie di ciascuna<br />
autorità, le quali escludono che alla Banca d’Italia, ma in pari modo<br />
qualsiasi altra autorità di vigilanza, siano affidati compiti investigativi: l’attività<br />
di vigilanza tende a prevenire situazioni patologiche dei singoli intermediari,<br />
che potrebbero dar luogo a crisi sistemiche; la giustizia penale interviene,<br />
invece, al fine si reprimere attività illecite’’( 57 ).<br />
Ma un sistema penale non può conseguire le sue finalità sia preventive<br />
sia repressive se mancano gli input iniziali necessari per attivare i meccanismi<br />
di controllo e di repressione e questo è maggiormente avvertito<br />
con riferimento al mercato finanziario la cui tradizionale impenetrabilità<br />
e riservatezza preseleziona e riduce drasticamente le possibili fonti informative.<br />
In un sistema come il nostro guidato dal principio portato dall’art. 24<br />
Cost. per il quale la responsabilità penale è personale, la presunzione di<br />
non colpevolezza sposta sul pubblico ministero l’onere della prova dell’esistenza,<br />
consistenza e attribuibilità dell’illecito penale e, pertanto, è immediatamente<br />
intuitivo come l’effettività di tutti gli interventi penali nella disciplina<br />
del mercato finanziario sia condizionata alla verifica processuale<br />
della tesi accusatoria e, innanzitutto, alla capacità degli inquirenti (pubblico<br />
ministero e polizia giudiziaria) di trovare elementi idonei a giustificare l’apertura<br />
e lo sviluppo di un’indagine preliminare e sufficienti a determinare<br />
il magistrato requirente all’esercizio dell’azione penale.<br />
Avendo il legislatore chiamato a collaborare – doverosamente ed in<br />
modo qualificato – i soggetti che a vario titolo sono coinvolti nel mercato<br />
finanziario, i flussi informativi sono stati incanalati normativamente in due<br />
direzioni: dall’autorità giudiziaria alla Banca d’Italia e dall’organo di controllo<br />
all’autorità giudiziaria.<br />
Nel primo caso di deroga extra codicem all’art. 329 c.p.p., previsto soprattutto<br />
in materia di normativa antiriciclaggio, il legislatore impone un<br />
flusso di notizie dal procedimento penale all’autorità bancaria al massimo<br />
livello, affinché il Governatore della Banca d’Italia possa assumere le iniziative<br />
ed adottare i provvedimenti di sua competenza, privilegiando, così,<br />
non solo il momento meramente repressivo, ma consentendo al sistema<br />
bancario stesso di rendersi consapevole di una modalità di proprio uso illecito<br />
per consentirgli di impedirne o contrastarne in futuro ogni tentativo<br />
di reiterazione.<br />
In questo caso non solo vi è una comunicazione della pendenza di un<br />
procedimento per un reato di criminalità economica, che sarebbe di per sé<br />
comunicazione interdetta ex art. 335 c.p.p., ma vi è un’informativa circa il<br />
( 57 ) Urbani, Supervisione bancaria e lotta al riciclaggio, cit., 501. In argomento, ultra:<br />
Mangione, Mercati finanziari e criminalità organizzata: spunti problematici sui recenti interventi<br />
normativi di contrasto al riciclaggio, inRiv. It. Dir. Proc. Pen., 2000, 1102 ss.
400<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
contenuto e le risultanze emergenti dalle indagini preliminari idonea a<br />
porre il Governatore della Banca d’Italia in grado di adottare gli atti di<br />
sua competenza. ‘‘La peculiarità del caso in esame è che l’eccezione alla regola<br />
di cui all’art. 329 c.p.p. non è dovuta a ragioni interne al procedimento<br />
penale («quando è necessario per la prosecuzione delle indagini»),<br />
ma a ragioni esterne riconosciute meritevoli di particolare attenzione e<br />
cura, quale può essere l’adozione di regole valide per il sistema bancario<br />
idonee ad impedire il ripetersi di casi analoghi a quello sub judice’’( 58 ).<br />
Altra disposizione, in particolare, è inserita nel decimo comma dell’art.<br />
5 L. 197-1991 come modificato dal dlg. 153-1997, ove si stabilisce<br />
che qualora l’Ufficio Italiano Cambi (UIC), a seguito della sua attività<br />
di verifica dell’osservanza da parte degli intermediari abilitati delle norme<br />
in tema di trasferimento di valori e di analisi dei dati, ritenga che emergano<br />
anomalie rilevanti per l’eventuale individuazione di fenomeni di riciclaggio,<br />
dopo aver effettuato i necessari approfondimenti di carattere finanziario,<br />
d’intesa con l’autorità di vigilanza di settore, ne informa gli organi<br />
investigativi. In questo caso, dunque, viene prevista una duplice<br />
forma di collaborazione tra autorità. La prima (preliminare) riguarda<br />
l’UIC e la Banca d’Italia e si propone di sollecitare l’acquisizione di elementi<br />
valutativi; la seconda coinvolge, invece, l’autorità giudiziaria che<br />
raccoglie l’informativa dell’autorità amministrativa indipendente nella<br />
sua attività di vigilanza. Parallela disposizione è contenuta anche negli articoli<br />
185-186 dlg. 58-1998 (T.U. delle disposizioni in materia di intermediazione<br />
finanziaria).<br />
Tale flusso di notizie non può essere a senso unico e pertanto all’obbligo<br />
di comunicazione da parte dell’autorità giudiziaria corrisponde un<br />
analogo obbligo in capo al Governatore della Banca d’Italia di comunicare<br />
le iniziative assunte e i provvedimenti adottati sulla base dell’input ricevuto,<br />
anche se, sotto quest’ultimo aspetto, a questo flusso informativo in direzione<br />
dell’autorità giudiziaria non si trova un riscontro corrispondente nell’opposta<br />
direzione dall’autorità giudiziaria a quella di vigilanza, nonostante<br />
la piena consapevolezza circa i notevoli vantaggi che possono derivare<br />
in materia da un’intensa e reciproca collaborazione tra i soggetti<br />
preposti alle indagini e le autorità settoriali di supervisione pubblica.<br />
Il legislatore, dunque, ha riaffermato l’obbligo di collaborare alla rilevazione<br />
di irregolarità e operazioni sospette da parte degli organi investigativi,<br />
stante l’interesse pubblico a preservare l’attività economica e, in particolare,<br />
l’intermediazione creditizia e finanziaria dal coinvolgimento in illeciti<br />
di qualsiasi natura e stante l’interesse degli intermediari stessi ad una<br />
( 58 ) Corso, Profili penali e processuali penali della disciplina del mercato finanziario,<br />
cit., 1095.
STUDI E RASSEGNE<br />
401<br />
autotutela che porti all’esclusione di chi vìola le regole del mercato, della<br />
concorrenza e del sistema penale.<br />
Nello specifico, il dlg. 385-1993 all’art. 7 occupandosi dell’attività di<br />
vigilanza della Banca d’Italia ribadisce la configurabilità di un segreto d’ufficio<br />
opponibile alle pubbliche amministrazioni ma non alla magistratura<br />
penale: il segreto non copre i casi previsti dalla legge per le indagini su violazioni<br />
sanzionate penalmente.<br />
L’aspetto maggiormente rilevante, però, non è tanto quello della risposta<br />
alle richieste provenienti dal pubblico ministero, quanto quello di<br />
un eventuale obbligo di denunciare i fatti di rilievo penale emersi a seguito<br />
dell’attività di vigilanza: i dipendenti della Banca d’Italia, nell’esercizio delle<br />
funzioni di vigilanza, sono pubblici ufficiali e hanno l’obbligo di riferire esclusivamente<br />
al Governatore tutte le irregolarità constatate, anche quando assumono<br />
la veste di reati.<br />
La norma, dunque, vieta al singolo dipendente dell’organo di controllo<br />
di denunciare direttamente all’autorità giudiziaria fatti di rilievo penale ed<br />
indica come destinatario esclusivo il Governatore (analoga disposizione si<br />
ritrova anche nel dlg. 58-1998 all’art. 4, comma 11).<br />
Con riferimento al dettato legislativo, il Governatore ha il dovere di<br />
denuncia, come ogni altro pubblico ufficiale, allorché ravvisi nel fatto il<br />
fumus di un reato: e reato significa un fatto che, per la contemporanea presenza<br />
dell’elemento oggettivo e di quello soggettivo, può corrispondere al<br />
modello astrattamente delineato dalla norma incriminatrice. Né le difficoltà<br />
inerenti la valutazione tecnica circa la configurazione del fatto come reato,<br />
difficoltà particolarmente accentuate in un settore quale quello dei reati<br />
bancari, sono sufficienti a trasformare la situazione soggettiva di obbligo<br />
per il Governatore in un potere discrezionale.<br />
È da escludere, dunque, che le norme vogliano consentire al Governatore<br />
della Banca d’Italia (o al Presidente della CONSOB) di valutare se<br />
inoltrare o no la denuncia di un’irregolarità di rilievo penale, rendendo<br />
facoltativa una segnalazione che la loro veste pubblica rende invece obbligatoria.<br />
‘‘Questa canalizzazione delle notitiae criminis risponde allo scopo<br />
di consentire all’autorità l’immediata instaurazione del contraddittorio<br />
con gli interessati e l’adozione di tutti i provvedimenti necessari a tutela<br />
del mercato, rimanendo ovviamente esclusa ogni valutazione discrezionale<br />
sulla trasmissione dell’informativa alla Procura della Repubblica competente’’(<br />
59 ).<br />
In questo modo, senza escludere il diritto-dovere dell’autorità giudiziaria<br />
(ex artt. 112 Cost. e 50 c.p.p.) di avviare indagini sugli eventuali reati<br />
( 59 ) Seminara, La tutela penale del mercato finanziario, in AA.VV., Manuale di diritto<br />
penale dell’impresa, Bologna, 2000, 527.
402<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
ogniqualvolta ne venga a conoscenza, l’inoltro della notitia criminis all’unico<br />
organo costituzionalmente deputato all’accertamento ed alla repressione<br />
delle condotte penalmente rilevanti avverrà tramite una funzione di<br />
‘‘filtro’’ effettuata dal Governatore che, rivestendo comunque la qualifica<br />
di pubblico ufficiale, dovrà ‘‘passare’’ la notizia di reato alle Procure della<br />
Repubblica.<br />
Tale procedura divide la dottrina sulla sua ragion d’essere.<br />
Per alcuni tale procedura nelle finalità del legislatore contempera il rispetto<br />
delle esigenze di vigilanza con la necessità che le notizie di reato vengano<br />
trasmesse al naturale destinatario, il P.M.: ‘‘la ragion d’essere delle<br />
norme si rinviene in primo luogo nella necessità di ricondurre la responsabilità<br />
dell’inoltro della denuncia all’organo posto al vertice dell’amministrazione;<br />
in secondo luogo e di conseguenza nella necessità che sia quest’ultimo,<br />
in base a tutti gli elementi in suo possesso, a valutare la sussistenza,<br />
sia in fatto sia in diritto, della notizia di reato; in terzo luogo nella necessità<br />
che, qualora a tale notizia possano conseguire effetti destabilizzanti sull’esercizio<br />
della funzione creditizia e di raccolta del risparmio, l’organo amministrativo<br />
che è preposto al controllo del settore sia in grado di agire efficacemente<br />
e tempestivamente per evitare o limitare i danni che possono<br />
derivare alla funzione o al mercato o a soggetti estranei dall’inoltro della<br />
notitia criminis’’( 60 ).<br />
Infatti, ‘‘se è vero che l’intervento della magistratura viene in tal modo<br />
ad essere differito, è anche vero che ciò avviene al fine di poter disporre di<br />
una notizia di reato più completa e già arricchita degli elementi di conforto<br />
(attività compiuta e relativa documentazione): si delinea il rischio di indagini<br />
preliminari fatte da altri soggetti e meramente valutate dal pubblico<br />
ministero ai fini delle sue determinazioni, ma il legislatore ha preferito<br />
non rinunciare alla professionalità e qualificazione del portatore della notizia<br />
di reato, in ciò anticipando di oltre un anno quella riforma dell’art.<br />
347 c.p.p. che ha sostituito con un più elastico «senza ritardo» l’obbligo<br />
di riferire la notizia di reato originariamente previsto, per la polizia giudiziaria,<br />
in termini più perentori’’( 61 ). Inoltre, se è esatto che l’art. 7 T.U. si<br />
riferisce anche a reati non inerenti al sistema del credito, ma altresì a reati<br />
che, consumati all’esterno dell’ordinamento sezionale, pervengono a conoscenza<br />
di quest’ultimo, il meccanismo della denuncia (doverosa) da parte<br />
del Governatore finisce per agevolare l’accertamento, altrimenti delicato,<br />
di reati economici, diversi da quelli strettamente bancari.<br />
Il T.U. bancario qualificando i dipendenti della Banca d’Italia, nell’e-<br />
( 60 ) Alibrandi, Considerazioni in tema di procedibilità dei reati bancari,inBanca Borsa<br />
Titoli di Credito, 1981, I, 340.<br />
( 61 ) Corso, Profili penali e processuali penali della disciplina del mercato finanziario,<br />
cit., 1101.
STUDI E RASSEGNE<br />
403<br />
sercizio delle funzioni di vigilanza, come pubblici ufficiali e sottraendoli all’obbligo<br />
di denuncia ex art. 331 c.p.p. ed imponendo loro di riferire le irregolarità<br />
riscontrate, ‘‘anche quando assumono la veste di reati’’, esclusivamente<br />
al Governatore, conferma ‘‘la peculiarità e la delicatezza dell’attività<br />
di vigilanza svolta dalla Banca d’Italia: gli effetti negativi sul sistema<br />
finanziario, che potrebbero essere determinati dalla divulgazione di notizie<br />
relative a fatti che vedessero coinvolte banche o altri intermediari e per i<br />
quali si ravvisi un fumus di reato, hanno indotto il legislatore ad accentrare<br />
nel vertice dell’Istituto tale obbligo al fine di consentire l’adozione di quei<br />
provvedimenti necessari a scongiurare il prodursi di tali effetti’’( 62 ).<br />
La ratio di tale eccezione al disposto dell’art. 331 c.p.p. deve essere individuata<br />
nella tipicità dell’attività bancaria, che rende necessario e opportuno<br />
mediare tra l’esigenza di perseguire i reati e quella di evitare che tramite<br />
la divulgazione di tali notizie si possano determinare crisi di fiducia<br />
nel pubblico dei risparmiatori sulla solvibilità di taluni intermediari con<br />
conseguente pericolo di ripercussioni negative sulla stabilità del singolo intermediario<br />
interessato e, più in generale del sistema bancario nel suo complesso:<br />
‘‘una volta informato il Governatore dei fatti penalmente rilevanti,<br />
quest’ultimo non si deve ritenere esentato dall’obbligo di portarne a conoscenza<br />
l’autorità giudiziaria, ma deve provvedervi immediatamente. La disposizione,<br />
in realtà, consente al Governatore di non effettuare la denuncia<br />
semplicemente per il tempo necessario ad assumere quei provvedimenti di<br />
vigilanza atti ad evitare che la diffusione della notizia criminis pregiudichi<br />
l’attività di vigilanza stessa’’( 63 ).<br />
Altri autori, al contrario, non hanno mancato di rilevare che nonostante<br />
il vantaggio di salvaguardare il sistema creditizio in generale, tali regole<br />
pongono ostacoli seri all’accertamento dei reati, anche se non tipicamente<br />
bancari, commessi nell’ambito delle aziende di credito( 64 ).<br />
In particolare, viene evidenziato non solo il fattore temporale con riferimento<br />
al ‘‘ritardo’’ nella comunicazione della notizia di reato, ma anche il<br />
fatto che questa subisce necessariamente un ‘‘condizionamento’’ dovuto all’impostazione<br />
subita dall’organo di vigilanza. Il pubblico ministero non<br />
sarà subito dominus delle indagini preliminari con potere-dovere di impostarle<br />
e strutturarle in modo autonomo. Egli, infatti, riceverà dall’organo di<br />
( 62 ) Urbani, Supervisione bancaria e lotta al riciclaggio, cit., 502.<br />
( 63 ) Codemi, Commento all’art. 7 T.U.L.B., in AA.VV., La nuova legge bancaria, cit.,<br />
138.<br />
( 64 ) In argomento: Cavallari, Spunti processuali penali in tema di attività bancaria, in<br />
Banca Borsa e Titoli di Credito, 1976, I, 390 ss.; D’Agostino, I reati bancari, in AA.VV.,<br />
Trattato di diritto penale dell’impresa (a cura di Di Amato), vol. III, Padova, 1992, 206<br />
ss.; Antolisei, Manuale di diritto penale-Leggi complementari, vol. I, Milano, 1993, 103<br />
ss.; Magistro, Banche ed altri intermediari finanziari: tecniche investigative, inRiv. G. di<br />
F., 1995, 471 ss.
404<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
controllo un insieme di notizie ed un’istruttoria amministrativa che potrebbero<br />
condizionarlo o ritardarlo negli accertamenti ai fini dell’esercizio dell’azione<br />
penale.<br />
Per i sostenitori di tale orientamento, pertanto, una volta che si assuma<br />
violato un precetto, il procedimento penale deve necessariamente avviarsi,<br />
svolgersi e pervenire ad una conclusione, e perché questo avvenga è necessario<br />
che il naturale destinatario delle notitiae criminis possa fin da subito<br />
attivarsi. Il titolare del procedimento per le indagini preliminari, infatti,<br />
fruisce, inevitabilmente, di un margine di discrezionalità quando dispone<br />
le indagini stesse, organizza il lavoro investigativo, impiega la polizia giudiziaria,<br />
ed il limite all’uso del potere discrezionale viene individuato anche<br />
nella tempestività della comunicazione; presupposto, questo, per consentire<br />
all’organo dell’accusa di compiere solo indagini utili e conferenti, tralasciando<br />
quelle superflue alla luce del combinato disposto degli articoli<br />
326 e 358 c.p.p.<br />
§ 5. Novità dal disegno di legge del 03.02.2004 – C. 4705: ‘‘Interventi per<br />
la tutela del risparmio’’, ora legge 28.12.2005 n. 262.<br />
Il disegno di legge di iniziativa governativa recante interventi per la tutela<br />
del risparmio, ed attualmente nelle more dei tempi tecnici richiesti dalla<br />
pubblicazione, approvato dal Parlamento e promulgato quale legge<br />
28.12.2005 n. 262 ‘‘Disposizioni per la tutela del rispamio e la disciplina<br />
dei mercati finanziari’’, intende configurare una competenza istituzionale<br />
organica sul bene del risparmio, tutelato dall’art. 47 Cost., mediante la trasformazione<br />
della CONSOB in una nuova autorità che esercita i propri poteri<br />
per assicurare la tutela del risparmio e degli investitori, la fiducia del<br />
mercato, la trasparenza e la correttezza dei comportamenti dei soggetti vigilati,<br />
l’informazione del risparmiatore.<br />
Le norme recate dal provvedimento de quo non si limitano a riformare<br />
il sistema dei controlli, ma si estendono ad una serie di ulteriori ambiti d’intervento:<br />
la disciplina degli abusi di mercato, la trasparenza delle attività<br />
svolte nei c.d. paradisi fiscali, i conflitti d’interessi fra banche ed imprese,<br />
la circolazione degli strumenti finanziari esteri, i conflitti d’interessi degli<br />
organismi d’investimento collettivo del risparmio, i sistemi d’indennizzo<br />
dei risparmiatori, il governo societario e l’apparato sanzionatorio.<br />
In particolare viene offerto un riassetto delle autorità di vigilanza sul<br />
mercato, attraverso il mantenimento di quelle attualmente esistenti, ma<br />
concentrando alcune competenze in capo alla CONSOB che è, altresì, destinata<br />
a perdere il proprio nome per assumere quello di Autorità per la tutela<br />
del risparmio. La variazione proposta dalla legge vuole evidenziare il<br />
passaggio da un sistema incentrato su una burocratica e compartimentata<br />
vigilanza per soggetti e settori ad uno ispirato alla tutela dei risparmiatori e
STUDI E RASSEGNE<br />
405<br />
quindi orientato più dalla parte della domanda che da quella dell’offerta,<br />
come testimoniato dall’art. 21 della legge stessa.<br />
In quest’ottica si pone anche l’art. 22 L. 262/2005 il quale stabilisce<br />
che ‘‘Nell’esercizio dei poteri di vigilanza informativa ed ispettiva le Autorità<br />
di cui all’art. 20 possono avvalersi, in relazione alle specifiche finalità<br />
degli accertamenti, del corpo della Guardia di Finanza, che agisce con i poteri<br />
ad esso attribuiti per l’accertamento dell’imposta sul valore aggiunto e<br />
delle imposte sui redditi utilizzando strutture e personale esistenti in modo<br />
da non determinare oneri aggiuntivi. Tutte le notizie, le informazioni e i<br />
dati acquisiti dal corpo della Guardia di Finanza nell’assolvimento dei<br />
compiti previsti dal comma 1 sono coperti dal segreto di ufficio e vengono<br />
senza indugio comunicati esclusivamente alle autorità competenti’’.<br />
Il Corpo della Guardia di Finanza tra i suoi compiti assolve le funzioni<br />
di polizia economica e finanziaria a tutela dei mercati finanziari e mobiliari,<br />
ivi compreso l’esercizio del credito e la sollecitazione del pubblico risparmio,<br />
ma contestualmente restano ferme sempre le sue competenze e<br />
prerogative di polizia giudiziaria. Pertanto, sintetizzando, la Guardia di Finanza,<br />
anche quando agisce su richiesta dell’autorità di vigilanza, è organo<br />
di polizia giudiziaria e come tale obbligato a riferire le notizie di reato al<br />
pubblico ministero ex art. 347 c.p.p., che, a sua volta, ricevuta la comunicazione,<br />
è obbligato a procedere ai sensi degli artt. 326 e 358 c.p.p.<br />
La conseguente sovrapposizione di indagini (amministrativa e giudiziaria),<br />
con tutti i rischi derivanti dalla possibilità di divergenti direttive e<br />
prescrizioni impartite dalle autorità di vigilanza e dal pubblico ministero<br />
ovvero di autonome iniziative della stessa Guardia di Finanza nonché di<br />
possibili fughe di notizie destabilizzanti il mercato prima ancora che sia accertata<br />
la fondatezza dell’eventuale addebito, rappresenta una concreta<br />
possibilità consentita dall’attuale legge; inoltre ci si chiede in cosa consista<br />
l’avvalersi ossia se si riferisca al solo personale, o a tutti i mezzi a sua disposizione<br />
come, ad esempio gli archivi informatici.<br />
Nel disegno di legge era inserito all’art. 32 una norma, non riprodotta<br />
nel provvedimento finale, che si rifà a quanto già presente nel testo unico<br />
bancario (art. 7): tutte le notizie, le informazioni e i dati in possesso dell’Autorità<br />
in ragione delle sue attività di vigilanza sono coperte dal segreto d’ufficio<br />
anche nei confronti delle pubbliche amministrazioni. Il segreto non può<br />
essere opposto all’autorità giudiziaria quando le informazioni richieste sono<br />
necessarie per le indagini o i procedimenti relativi a violazioni sanzionate penalmente.<br />
I dipendenti dell’Autorità, nell’esercizio delle funzioni di vigilanza,<br />
sono pubblici ufficiali. Il presidente e i commissari dell’Autorità, i dipendenti,<br />
i consulenti e gli esperti dei quali essa si avvale sono vincolati dal<br />
segreto d’ufficio e hanno l’obbligo di riferire esclusivamente alla commissione<br />
tutte le irregolarità constatate.<br />
Permangono, comunque, problemi interpretativi. Infatti anche attribuendo<br />
la massima estensione al segreto d’ufficio per il presidente, i com-
406<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
missari, i dipendenti, i consulenti e gli esperti dell’Autorità per la tutela del<br />
risparmio – fino al punto di ritenere che il loro obbligo di riferire esclusivamente<br />
alla commissione tutte le irregolarità constatate valga a sottrarli all’operatività<br />
dell’art. 361 c.p. – in ogni caso nulla è previsto né in ordine ai<br />
presupposti in presenza dei quali l’Autorità ètenuta a trasmettere le informative<br />
di reato al pubblico ministero, né relativamente ai rapporti tra la<br />
Guardia di Finanza e l’autorità giudiziaria.<br />
Non può essere sottaciuto che la stessa in quanto organo di polizia giudiziaria<br />
soggiace, tra l’altro, agli obblighi portati dall’art. 347 c.p.p. operando<br />
in un ambito di diretta dipendenza dal pubblico ministero con un<br />
ruolo di osservatorio avanzato dello stesso organo d’accusa e di agile strumento<br />
investigativo, avendo le attribuzioni della polizia giudiziaria le stesse<br />
finalità di quelle del pubblico ministero e cioè la ricerca e l’acquisizione<br />
delle fonti di prova oltre al compimento di un complesso di attività e accertamenti<br />
volti a permettere al magistrato requirente di stabilire la fondatezza<br />
della notizia di reato e decidere quindi sulla sussistenza o meno dei<br />
presupposti per dare inizio al processo penale.<br />
In una siffatta situazione, dunque, la presenza e l’utilizzo della Guardia<br />
di Finanza, così come previsto dalla legge, offre l’ingresso ‘‘tempestivo’’<br />
dell’autorità giudiziaria, con l’esercizio delle sue attribuzioni, nell’ambito<br />
della procedura amministrativa di accertamento bancario attuata dalle<br />
autorità di vigilanza, ma rendendo forse ancora più opportuno potenziare<br />
e valorizzare la collaborazione reciproca tra autorità giudiziaria ed autorità<br />
amministrativa al fine di garantire non solo celerità ed efficacia, ma soprattutto<br />
riservatezza nell’ottica dell’effettiva protezione dei mercati.<br />
Giovanna Fanelli
STUDI E RASSEGNE<br />
NUOVI PROFILI DELL’AZIONE <strong>PENALE</strong><br />
NEL PROCEDIMENTO DAVANTI AL GIUDICE DI PACE<br />
407<br />
Sommario: 1. Considerazioni introduttive. – 2. Promovimento dell’azione penale ex art.<br />
12, 15 comma 1 e 17 comma 4 d. lgs. n. 274 del 2000. – 3. Formulazione dell’imputazione<br />
da parte del pubblico ministero ex art. 25 comma 2 d. lgs. n. 274 del 2000. – 4.<br />
Segue: parere contrario od omesso intervento dell’organo pubblico ex art. 25 d. lgs. n.<br />
274 del 2000. – 5. Conclusioni.<br />
1. Considerazioni introduttive. – A seguito dell’emanazione del d. l. 27<br />
luglio 2005 n. 144 conv. in l. 31 luglio 2005 n. 155 recante misure urgenti<br />
per il contrasto del terrorismo internazionale, il tema dell’esercizio dell’azione<br />
penale (e della connessa vocatio in iudicium dell’imputato) nel rito<br />
penale di pace pare assumere rinnovata attualità.<br />
In proposito, è opportuno premettere che la Costituzione all’art. 112<br />
sancisce che «il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale»,<br />
da intendersi in senso stretto( 1 ). Peraltro, sulla base di tale articolo<br />
è sostenibile soltanto che «il legislatore ordinario non possa sottrarre l’esercizio<br />
dell’azione penale al pubblico ministero: non che quest’ultimo ne<br />
abbia l’esclusiva titolarità»( 2 ). Come rilevato anche dalla Consulta, «il di-<br />
( 1 ) ... così distinguendola dall’azione penale di tipo cautelare (cioè volte all’applicazione<br />
di una misura contemplata dal libro IV del c.p.p.), esecutivo (in quanto la regiudicanda<br />
inerisce all’attuazione di un precedente provvedimento giurisdizionale), complementare e di<br />
prevenzione criminale, come sottolinea G. Ubertis, Sistema di procedura penale, I, Principi<br />
generali, Utet, Torino, 2004, p. 123.<br />
( 2 ) G. Ubertis, Sistema di procedura penale, I,Principi generali, cit., p. 124. Nello stesso<br />
senso, cfr. M. Chiavario, L’azione penale fra diritto e politica, <strong>Cedam</strong>, Padova, 1995, p.<br />
34 ss.; O. Dominioni, Azione penale, inD. disc. pen., I, Utet, Torino, 1989, p. 406 ss.; Id.,<br />
sub art. 50, inCommentario del nuovo codice di procedura penale, diretto da E. Amodio-O.<br />
Dominioni, I, Giuffrè, Milano, 1989, p. 294 ss.; E. Marzaduri, Azione: IV) diritto processuale<br />
penale, inEnc. giur. Treccani, IV, Roma, 1996, p. 3; M. Scaparone, Elementi di procedura<br />
penale. I principi costituzionali, Giuffrè, Milano, 1999, p. 85.<br />
Del resto, la tesi del monopolio dell’azione penale in capo all’organo dell’accusa sarebbe<br />
smentita allo stesso livello costituzionale, laddove, nelle ipotesi di alto tradimento e di attentato<br />
alla Costituzione compiuti dal Presidente della Repubblica, l’art. 90 prevede la messa
408<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
sposto costituzionale facendo obbligo al Pubblico Ministero di esercitare<br />
l’azione penale non vuole escludere, come risulta anche dai lavori preparatori,<br />
che ad altri soggetti possa essere conferito analogo potere. Ciò che<br />
la ratio dellanormaescludeèche al Pubblico Ministero possa essere sottratta<br />
la titolarità dell’azione penale in ordine a determinati reati (salvo<br />
che nelle ipotesi costituzionalmente previste), con la conseguenza che la<br />
titolarità dell’azione penale in tanto può essere legittimamente conferita<br />
anche a soggetti diversi dal Pubblico Ministero in quanto con ciò non<br />
si venga a vanificare l’obbligo del Pubblico Ministero medesimo di esercitarla»(<br />
3 ).<br />
Pertanto, pare doversi ritenere con sufficiente certezza che non solo<br />
non sia sancito a livello costituzionale un monopolio del pubblico ministero<br />
in ordine all’esercizio dell’azione penale ma anche che sia consentito al legislatore<br />
«prevedere azioni penali sussidiarie o concorrenti rispetto a quella<br />
obbligatoriamente esercitata dal Pubblico Ministero»( 4 ).<br />
Tuttavia, il legislatore del 1988 con l’art. 231 norme coord. c.p.p.( 5 )ha<br />
ritenuto di espellere dall’ordinamento le ipotesi di esercizio dell’azione penale<br />
da parte di soggetti diversi dal pubblico ministero( 6 ): invero tale scelta<br />
troverebbe giustificazione non nella scarsa sensibilità degli interessi sopra<br />
in stato di accusa ad opera del «Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei<br />
suoi membri» che, inoltre, elegge «uno o più commissari» cui affidare l’esercizio delle «funzioni<br />
di pubblico ministero» davanti alla Corte costituzionale, ai sensi dell’art. 13 l. cost. 11<br />
marzo 1953 n. 1.<br />
( 3 ) Così C. cost., sent. 26 luglio 1979 n. 84, in Giur. cost., 1979, p. 640.<br />
( 4 ) Cfr. C. cost., sent. 26 luglio 1979 n. 84, cit., p. 640.<br />
Sotto quest’ultimo profilo, non può che essere condivisa la tesi di chi (G. Ubertis, Sistema<br />
di procedura penale, I,Principi generali, cit., p. 125) sostiene che in questo modo sarebbe<br />
esteso l’ambito della partecipazione popolare all’amministrazione della giustizia – conformemente<br />
a quanto stabilito dall’art. 102 comma 3 Cost. in applicazione del principio della<br />
sovranità popolare di cui all’art. 1 comma 2 Cost. – «e più efficacemente tutelabili gli interessi<br />
– come quelli inerenti, per esempio, all’ambiente o alla salute – collettivi o diffusi, nonché<br />
più facilmente rimediabili le eventuali carenze dell’accusatore nella scelta (oggettivamente<br />
dipendente pure dal carico di lavoro dei singoli uffici in rapporto al loro organico) su<br />
quando, per che cosa e come procedere».<br />
( 5 ) In proposito, v. R. Collidà, sub art. 231, inCommento al nuovo codice di procedura<br />
penale, coordinato da M. Chiavario, La normativa complementare, II, Norme di coordinamento<br />
e transitorie, Utet, Torino, 1992, p. 179 ss.; G.P. Voena, sub art. 231, inCommentario<br />
del nuovo codice di procedura penale, diretto da E. Amodio-O. Dominioni, Appendice,<br />
a cura di G. Ubertis, Giuffrè, Milano, 1990, p. 183 ss.<br />
( 6 ) Ad esempio, l’azione del quivis de populo in materia di reati elettorali (art. 100<br />
d.p.r. 16 maggio 1960 n. 570 per la composizione e l’elezione degli organi delle amministrazioni<br />
comunali); l’azione del prefetto in materia di bonifica delle paludi e dei terreni paludosi<br />
(art. 153 ultimo comma r.d. 8 maggio 1904 n. 368); l’azione dell’intendente di finanza in materia<br />
di contravvenzioni alle leggi sull’imposta degli zuccheri (art. 28 d.m. 8 luglio 1924) o,<br />
infine, l’azione ‘‘collettiva’’ in materia di frodi alimentari (art. 46 r.d.l. 15 ottobre 1925 n.<br />
2033 conv. in l. 10 marzo 1926 n. 562). Su tale ultima tipologia di azione, v. E. Amodio,
STUDI E RASSEGNE<br />
409<br />
indicati, ma nel contesto della difficoltà (anteriormente all’introduzione,<br />
avvenuta con l. 7 dicembre 2000 n. 397, delle norme in tema di indagini<br />
difensive) «di regolare l’attività investigativa (comunque imprescindibile<br />
per poter attivare la giurisdizione sulla base di un fondamento probatorio)<br />
condotta da soggetti diversi dal pubblico ministero, nonché del riconoscimento<br />
di un ruolo maggiormente significativo alla persona offesa dal reato<br />
e agli enti esponenziali degli interessi lesi dal reato, secondo quanto risulta,<br />
tra l’altro, dagli art. 90 ss. c.p.p. se confrontati con il sistema a suo tempo<br />
delineato dal c.p.p. 1930»( 7 ).<br />
In particolare, con specifico riferimento all’esercizio dell’azione penale,<br />
nel codice di rito vigente, gli atti di inizio (costituenti numerus<br />
clausus( 8 )) corrispondono a quelli di «instaurazione del processo effettuata<br />
definendo l’oggetto particolare di esso con l’elevazione dell’imputazione<br />
(cfr. art. 405 comma 1, 409 comma 5 e 550 comma 1<br />
c.p.p. ...)»( 9 ).<br />
Parimenti ai medesimi atti si richiama sostanzialmente l’art. 60 c.p.p.,<br />
che elenca appunto quelli attributivi della qualità di imputato( 10 ). Quindi, i<br />
concetti codicistici di ‘‘esercizio dell’azione penale’’, ‘‘formulazione dell’imputazione’’,<br />
‘‘imputato’’ si saldano tra loro( 11 ), tant’è che, in definitiva, è<br />
corretto sostenere che si «ha assunzione della qualità di imputato nel momento<br />
in cui il pubblico ministero dà inizio all’azione penale, procedendo<br />
L’azione penale delle associazioni dei consumatori per la repressione delle frodi alimentari, in<br />
Riv. it. proc. pen., 1974, p. 515).<br />
In generale sul tema, di recente, M. Caianiello, Poteri dei privati nell’esercizio dell’azione<br />
penale, Giappichelli, Torino, 2003, passim.<br />
Per un’articolata classificazione, poi, dei diversi tipi di azione penale esercitata da soggetti<br />
diversi dal pubblico ministero, v. G. Ubertis, Azione penale e sovranità popolare, in<br />
Riv. it. dir. proc. pen., 1975, p. 1206 ss.<br />
( 7 ) G. Ubertis, Sistema di procedura penale, I,Principi generali, cit., p. 125.<br />
( 8 ) In tal senso, v., per tutti, O. Dominioni, sub art. 50, cit., p. 289.<br />
( 9 ) Cfr. G. Ubertis, Sistema di procedura penale,I,Principi generali, cit., p. 124, il quale<br />
precisa che gli atti di inizio sono anche «quelli che, sebbene compiuti durante il suo svolgimento,<br />
immettono nel processo un nuovo oggetto sommantesi all’originario (attraverso la<br />
contestazione di un reato connesso o di un fatto nuovo, come previsto, rispettivamente, dagli<br />
art. 423 comma 1 e 517 comma 1 c.p.p. e dagli art. 423 comma 2 e 518 comma 2 c.p.p.)».<br />
( 10 ) È appena il caso di osservare che non vi è corrispondenza assoluta tra l’art. 60<br />
comma 1 e l’art. 405 comma 1 c.p.p., perché il primo menziona anche il decreto di citazione<br />
diretta a giudizio previsto dall’art. 552 c.p.p. nel procedimento davanti al tribunale in composizione<br />
monocratica. Nessuna delle due norme, invece, fa riferimento all’ipotesi contemplata<br />
dall’art. 409 comma 5 c.p.p. e relativa all’imputazione coatta a seguito di rigetto della<br />
richiesta di archiviazione.<br />
( 11 ) D. Grosso, L’udienza preliminare, Giuffrè, Milano, 1991, p. 28, rileva dal combinato<br />
disposto degli art. 60 comma 1 e 405 comma 1 c.p.p. la «stretta concatenazione tra<br />
esercizio dell’azione penale, formulazione dell’imputazione ed assunzione della qualità di imputato».
410<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
alla formulazione di un addebito in uno di quegli atti tipici»( 12 ) o, in termini<br />
simili, «imputato è la qualifica che una persona assume a seguito del<br />
promovimento dell’azione penale nei suoi confronti»( 13 ).<br />
Tuttavia, l’unitarietà (e la stretta concatenazione cronologica) dei concetti<br />
sopra ricordati, che caratterizza il procedimento ‘‘ordinario’’, sembrava<br />
non trovare conferma nel procedimento davanti al giudice di pace,<br />
prima delle modifiche introdotte dal d. l. 27 luglio 2005 n. 144 conv. in<br />
l. 31 luglio 2005 n. 155.<br />
Infatti, a norma dell’art. 3 d. lgs. n. 274 del 2000, la veste di imputato<br />
veniva assunta «dalla persona alla quale il reato è attribuito nella citazione a<br />
giudizio disposta dalla polizia giudiziaria o nel decreto di convocazione<br />
delle parti emesso dal giudice di pace», cioè in un atto comunque successivo<br />
a quello di formulazione dell’imputazione, effettuata dal pubblico ministero<br />
secondo le modalità esaminate infra, § 2, 3 e 4.<br />
Ora tuttavia – come si analizzerà più dettagliatamente nel paragrafo<br />
successivo –, la disposizione in esame, laddove si riferisce all’assunzione<br />
della qualità di imputato con la citazione a giudizio disposta dalla polizia<br />
giudiziaria, pare possa essere letta in sintonia con gli art. 60 e 405 c.p.p.,<br />
grazie al suindicato intervento legislativo.<br />
Più precisamente, l’art. 17 comma 4 lett. a d. l. 27 luglio 2005 n. 144<br />
conv. in l. 31 luglio 2005 n. 155, pur modificando solo l’art. 20 (ma non<br />
anche l’art. 3( 14 )) d. lgs. n. 274 del 2000, ha previsto che la citazione in<br />
giudizio dell’imputato venga disposta non più dalla polizia giudiziaria ma<br />
dal pubblico ministero( 15 ), facendo coincidere, pertanto, l’assunzione della<br />
qualità di imputato con la citazione a giudizio (disposta dal pubblico ministero),<br />
in conformità agli art. 60 e 405 c.p.p. Coincidenza temporale che<br />
non è dato riscontrare, invece – secondo quanto verrà rilevato infra, §3<br />
– nel procedimento attivato col ricorso della persona offesa, dove lo status<br />
di imputato è ricollegato all’emissione da parte del giudice del decreto di<br />
convocazione delle parti, cioè a un atto successivo all’avvenuta formulazione<br />
dell’imputazione, ai sensi dell’art. 25 d. lgs. n. 274 del 2000, da parte<br />
del pubblico ministero.<br />
2. Promovimento dell’azione penale ex art. 12, 15 comma 1 e 17<br />
( 12 ) G. Tranchina, I soggetti, inD. Siracusano-A. Galati-G. Tranchina-E.<br />
Zappalà, Diritto processuale penale, I, Giuffrè, Milano, 2004, p. 162.<br />
( 13 ) O. Dominioni, sub art. 60, cit., p. 383.<br />
( 14 ) È indubbio, comunque, che esigenze di coordinamento avrebbero dovuto indurre<br />
il legislatore, come conseguenza della modifica dell’art. 20 d. lgs. n. 274 del 2000, a riformulare<br />
pure l’art. 3 (oltre che gli art. 12 e 15) d. lgs. in esame.<br />
( 15 ) ... probabilmente nell’ottica di alleggerire il carico di incombenti che grava sulla<br />
polizia giudiziaria, perché la stessa possa contrastare, con maggiore efficacia e più forze, l’emergenza<br />
del terrorismo internazionale.
STUDI E RASSEGNE<br />
411<br />
comma 4 d. lgs. n. 274 del 2000. – Nel procedimento davanti al giudice<br />
di pace sono previste tre modalità alternative di esercizio dell’azione penale.<br />
La prima, dettata dagli art. 12( 16 ) e 15 comma 1( 17 ) d. lgs. n. 274 del<br />
2000, disponeva originariamente che il pubblico ministero esercitasse l’azione<br />
penale, formulando l’imputazione e autorizzando la citazione a giudizio<br />
dell’imputato. La seconda, contemplata dall’art. 17 comma 4 d. lgs.<br />
n. 274 del 2000, prevede la formulazione dell’imputazione su ordine del<br />
giudice, qualora lo stesso non accolga la richiesta di archiviazione. La terza,<br />
infine, prevista dall’art. 25 comma 2 del medesimo d. lgs. (sulla quale ci si<br />
soffermerà nei due paragrafi successivi), è inserita in un subprocedimento –<br />
avviato dal ricorso immediato della persona offesa – in cui il pubblico ministero<br />
può intervenire e «formula[re] l’imputazione confermando o modificando<br />
l’addebito contenuto nel ricorso».<br />
Sulla prima modalità di promovimento dell’azione penale ha inciso recentissimamente,<br />
come si accennava, l’emanazione del d. l. 27 luglio 2005<br />
n. 144 conv. in l. 31 luglio 2005 n. 155, il cui art. 17 comma 4 lett. a, ha<br />
modificato l’art. 20 d. lgs. n. 274 del 2000, disponendo che la citazione<br />
a giudizio dell’imputato, in origine disposta dalla polizia giudiziaria su<br />
autorizzazione del pubblico ministero, sia ora effettuata dal pubblico ministero<br />
stesso. Conseguentemente l’esercizio dell’azione penale – riservato in<br />
via esclusiva all’attore pubblico – dovrebbe ora identificarsi solo con l’elevazione<br />
dell’imputazione innestata nella citazione a giudizio, dovendosi ritenere<br />
caducato (pur in assenza di uno specifico intervento di coordinamento<br />
normativo – indubbiamente doveroso – da parte del legislatore) il<br />
riferimento, contenuto negli art. 12 e 15 comma 1 d. lgs. n. 274 del<br />
2000, all’autorizzazione alla polizia giudiziaria per la citazione dell’imputato.<br />
Sotto questo specifico profilo, invero, anteriormente alla modifica in<br />
questione, si discuteva in dottrina se l’esercizio dell’azione penale avvenisse<br />
per mezzo «di due momenti autonomi, ed ugualmente indispensabili»( 18 )<br />
oppure tramite un unico atto di natura propulsiva contenente l’imputa-<br />
( 16 ) ... ossia quando il pubblico ministero, presa direttamente notizia di un reato di<br />
competenza del giudice di pace (ovvero ricevuta da privati o da pubblici ufficiali o incaricati<br />
di un pubblico servizio), non ritenga necessario procedere ad atti di indagine.<br />
( 17 ) ... ovvero a seguito della ricezione da parte dell’organo dell’accusa della relazione<br />
conclusiva sulle indagini espletate di propria iniziativa dalla polizia giudiziaria.<br />
( 18 ) H. Belluta, sub art. 15, inCommento al d.lgs. 28/8/2004 (giudice di pace), in<br />
Leg. pen., 2001, p. 104, e A. Confalonieri, La citazione in giudizio disposta dalla polizia<br />
giudiziaria, inIl giudice di pace. Un nuovo modello di giustizia penale, a cura di A. Scalfati,<br />
<strong>Cedam</strong>, Padova, 2001, p. 219 che parla, in proposito, di «due atti distinti, ma interdipendenti<br />
fra loro».
412<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
zione( 19 ), dibattendosi inoltre con riguardo al relativo regime di invalidità(<br />
20 ).<br />
Volgendo ora specificamente l’attenzione alla formulazione dell’addebito,<br />
va precisato che mentre sulla base dell’art. 12 d. lgs. n. 274 del 2000, il<br />
pubblico ministero formula di persona l’imputazione, ai sensi dell’art. 15<br />
del medesimo d. lgs., lo stesso, – come chiarisce anche la relazione al d.<br />
lgs. in argomento( 21 )–, nel formulare l’imputazione, in caso di coincidenza<br />
tra la propria scelta e quella della polizia giudiziaria, potrà utilizzare l’ipotesi<br />
di imputazione( 22 ) predisposta dalla polizia stessa nella relazione conclusiva<br />
trasmessagli a norma dell’art. 11 comma 2 d. lgs. n. 274 del<br />
2000( 23 ), eventualmente correggendola o integrandola( 24 ). Ma pare eccessivo<br />
sostenere, in proposito, che «la polizia giudiziaria partecipi in misura<br />
significativa all’esercizio dell’azione penale»( 25 ).<br />
Inoltre, posto che l’art. 20 comma 1 (come pure l’art. 15) d. lgs. n. 274<br />
del 2000 tace sul contenuto dell’addebito, «in virtù del rinvio alle disposizioni<br />
del codice di rito, operato dall’art. 2, il pubblico ministero è tenuto,<br />
comunque, ad osservare la regola desumibile dagli artt. 417 c. 1 lett. b, 429<br />
( 19 ) In tal senso, cfr. F. Caprioli, Esercizio dell’azione penale: soggetti, morfologia,<br />
controlli, inIl giudice di pace. Un nuovo modello di giustizia penale, cit., p. 167-168, nota<br />
14, secondo il quale, inoltre, «la struttura sintattica dell’art. 15 ... lascia chiaramente intendere<br />
che la fattispecie non si perfeziona se non nel momento in cui la formulazione dell’accusa<br />
viene innestata nel provvedimento di autorizzazione».<br />
( 20 ) Infatti, per una parte della dottrina (A. Scalfati, I moduli introduttivi del giudizio,<br />
inLa competenza penale del giudice di pace, Ipsoa, Milano, 2000, p. 100), l’assenza dell’autorizzazione<br />
non avrebbe prodotto «conseguenze invalidanti, ipotizzandosi che la presenza<br />
di una imputazione già formulata e di un’apposita richiesta avanzata in tal senso equivalgano,<br />
per via implicita, ad aver eliminato ogni ostacolo all’attività convocativa» ma, subito<br />
dopo, precisando, in un’ottica più rigorosa, che «l’assenza dell’atto autorizzativo del pubblico<br />
ministero [avrebbe precluso] alla polizia l’esercizio del susseguente potere, causando altrimenti<br />
un difetto genetico della citazione, con riflessi riconducibili all’art. 178 comma 1<br />
lett. c. e 179 c.p.p.». Secondo un altro orientamento (H. Belluta, sub art. 15, cit., p.<br />
104; A. Confalonieri, La citazione a giudizio disposta dalla polizia giudiziaria, inIl giudice<br />
di pace. Un nuovo modello di giustizia penale, cit., p. 219) l’eventuale mancanza dell’autorizzazione<br />
a citare l’imputato sarebbe stata sanzionabile con una nullità di ordine generale assoluta.<br />
( 21 ) Relazione al d. lgs. 28 agosto 2000 n. 274, inDir. e giust., 2000, n. 31, p. 45.<br />
( 22 ) In proposito C. Pansini, La fase delle indagini preliminari,inIl giudice di pace. Un<br />
nuovo modello di giustizia penale, cit., p. 153, precisa come «il legislatore abbia, nella sostanza,<br />
investito gli organi di polizia del compito di formulare essi stessi una sorta di ‘imputazione<br />
embrionale’».<br />
( 23 ) Relazione al d. lgs. 28 agosto 2000 n. 274, cit., p. 45.<br />
( 24 ) A. Ciavola, Chiusura delle indagini ed esercizio dell’azione penale, inIl giudice di<br />
pace nella giurisdizione penale, a cura di G. Giostra e G. Illuminati, Giappichelli, Torino,<br />
2001, p. 203-204, secondo la quale, inoltre, l’atto del pubblico ministero deve essere confezionato<br />
per iscritto.<br />
( 25 ) A. Nappi, Guida al Codice di Procedura Penale, Giuffrè, Milano, 2004, p. 664.
STUDI E RASSEGNE<br />
413<br />
c. 1 lett. c e 552 c. 1 lett. c, c.p.p.: ‘l’enunciazione in forma chiara e precisa<br />
del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare<br />
l’applicazione di misure di sicurezza, con l’indicazione dei relativi articoli di<br />
legge’»( 26 ).<br />
Quanto all’acquisizione della veste di imputato, la modifica intervenuta,<br />
pur difettando – secondo quanto già sottolineato – di coordinamento,<br />
ha il pregio, perlomeno, di risolvere la sfasatura temporale, prima<br />
esistente, tra esercizio dell’azione penale e assunzione della qualità di imputato(<br />
27 ): ora, infatti, l’esercizio dell’azione penale con la formulazione del-<br />
( 26 ) Cfr. G. Varraso, sub art. 20 D. Lgs. n. 28 agosto 2000, n. 274, inCodice di procedura<br />
penale commentato, a cura di A. Giarda-G. Spangher, II, Ipsoa, Milano, 2001, p.<br />
2739. Nello stesso senso, cfr. A. De Francesco, L’erosione del principio della direzione delle<br />
indagini e del monopolio nell’azione penale del pubblico ministero nel procedimento penale<br />
avanti al giudice di pace, inInd. pen., 2003, p. 173; A. Giarda, Principi e regole del procedimento,<br />
inIl giudice di pace. Un nuovo modello di giustizia penale, cit., p. 80; R. Normando,<br />
L’esercizio dell’azione e la richiesta di giudizio nel processo penale, Giappichelli, Torino,<br />
2000, p. 229.<br />
Di parere contrario, v. E. Aghina – P. Picciali, Il Giudice di pace penale, Edizioni<br />
Giuridiche Simone, Napoli, 2001, p. 112, per i quali la formulazione dell’imputazione<br />
non sarebbe «corredata dai criteri di ‘chiarezza’ e ‘precisione’ imposti dall’art. 552<br />
c.p.p.». Il rilievo non può essere condiviso, in quanto il pubblico ministero deve attenersi<br />
nel formulare l’imputazione, ex art. 2 d. lgs. n. 274 del 2000, alle prescrizioni del codice<br />
di rito applicabili per rinvio; del resto, una descrizione solo ‘‘sommaria’’ dell’imputazione<br />
da parte del pubblico ministero risulterebbe lesiva del diritto di difesa.<br />
( 27 ) Per tentare, peraltro, di armonizzare tale scelta col combinato disposto degli art.<br />
60 e 405 c.p.p., si sarebbero potute avanzare due letture esegetiche alternative.<br />
Anzitutto, se la citazione a giudizio in esame presentava, come si legge anche nella relazione<br />
stessa al d. lgs., «una struttura a formazione complessa, nel senso che esso [era] composta<br />
dall’imputazione formulata dal pubblico ministero, inserita nella citazione a comparire,<br />
che [era] atto proprio della polizia giudiziaria» (Relazione al d. lgs. 28 agosto 2000 n. 274,<br />
cit., p. 48), non sarebbe stato inesatto ritenere che «l’atto del pubblico ministero [fosse]<br />
un atto interno che d[ava] inizio all’azione, la quale, però, p[oteva] dirsi compiutamente<br />
esercitata solo quando sarebbe interv[enuto] il provvedimento di vocatio in iudicium della<br />
polizia giudiziaria» (così, sebbene criticamente, A. Ciavola, Chiusura delle indagini ed esercizio<br />
dell’azione penale, inIl giudice di pace nella giurisdizione penale, cit., p. 201): in conformità,<br />
pertanto, con la previsione dell’art. 3 d. lgs. n. 274 del 2000.<br />
Sulla base della seconda lettura, invece, l’assunzione della qualità di imputato sarebbe<br />
potuta coincidere con la citazione della polizia giudiziaria, in perfetta sintonia con l’art. 3 d.<br />
lgs. 274 del 2000, se si fosse ritenuto che con tale citazione veniva posta in essere una vera e<br />
propria azione penale.<br />
Tale argomentazione faceva leva sul duplice rilievo che, per un verso, sarebbe stata la<br />
citazione della polizia giudiziaria a possedere «tutti gli elementi essenziali, che generalmente<br />
si rinvengono nell’azione penale» e, per l’altro, che «la formulazione dell’imputazione operata<br />
dal pubblico ministero [avrebbe potuto] essere oggetto di accertamento giudiziale se e<br />
solo se [fosse stata] ‘riportata’ nella citazione» (per la presente citazione e quella immediatamente<br />
precedente, v. A. De Francesco, L’erosione del principio della direzione delle indagini<br />
e del monopolio nell’azione penale del pubblico ministero nel procedimento penale avanti<br />
al giudice di pace, cit., p. 179).
414<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
l’imputazione innestata nella citazione determina l’assunzione in capo alla<br />
persona sottoposta alle indagini della qualifica di imputato, conformemente<br />
agli art. 60 e 405 c.p.p.<br />
La sfasatura in questione (ora comunque superata)( 28 ), riconducibile<br />
forse a una svista del legislatore, non avrebbe dovuto tuttavia produrre<br />
alcun grave inconveniente, stante la ritenuta applicabilità anche al rito penale<br />
di pace dell’art. 61 c.p.p., che estende, come noto, i diritti, le garanzie<br />
e ogni altra disposizione relativa all’imputato alla persona sottoposta alle<br />
indagini( 29 ).<br />
Per quanto, invece, concerne la seconda modalità di esercizio dell’azione<br />
penale, la stessa è costituita, anche nel procedimento penale davanti<br />
al giudice di pace, dalla formulazione dell’imputazione su ordine del giudice<br />
(che non accolga la richiesta di archiviazione): la specifica previsione<br />
è contenuta nell’art. 17 comma 4 d. lgs. n. 274 del 2000. In tale ipotesi,<br />
l’elevazione dell’imputazione, in assenza di un’apposita disciplina sul punto<br />
o di una previsione contemplante la convocazione delle parti davanti a sé<br />
«con decreto analogo a quello previsto dall’art. 27 d. lgs. 274 del 2000 per<br />
l’ipotesi di ricorso immediato»( 30 ), dovrebbe coincidere con l’emissione<br />
della citazione da parte del pubblico ministero ex art. 20 d. lgs. n. 274<br />
del 2000 (così come modificato), analogamente a quanto avviene nel pro-<br />
In realtà, la soluzione comunque preferibile (anche se implicante la rinuncia ad armonizzare<br />
l’art. 3 d. lgs. n. 274 del 2000 con gli art. 60 e 405 c.p.p.), confortata anche dal tenore<br />
letterale dell’art. 15 d. lgs. n. 274 del 2000, pareva quella secondo cui era (ed è) il pubblico<br />
ministero e non la polizia giudiziaria a esercitare l’azione penale. Infatti, l’organo d’accusa<br />
risultava (e risulta) l’unico titolare dell’azione penale che si sarebbe dovuta ritenere esercitata<br />
con l’atto contenente l’imputazione e l’autorizzazione alla citazione, dovendo consistere il<br />
compito della polizia giudiziaria unicamente nella formazione materiale della citazione (la<br />
quale, costituendo atto proprio della polizia stessa, doveva essere sottoscritta da un ufficiale<br />
di polizia giudiziaria ex art. 20 comma 4 d. lgs. n. 274 del 2000. Adesso, invece, costituendo<br />
atto del pubblico ministero, la citazione deve essere sottoscritta, ai sensi dell’art. 17 comma 4<br />
lett. b d. l. 27 luglio 2005 n. 144 conv. in l. 31 luglio 2005 n. 155, «a pena di nullità, dal<br />
pubblico ministero o dall’assistente giudiziario» e deve essere notificata non più a cura della<br />
polizia giudiziaria, ma dell’ufficiale giudiziario).<br />
( 28 ) ... sfasatura che non risultava «in alcun modo imposta dalla logica sistematica dell’art.<br />
60 c.p.p., dove non si presuppone un’assoluta corrispondenza tra le modalità di formulazione<br />
dell’imputazione e le ipotesi di vocatio in iudicium» (così E. Marzaduri, Le disposizioni<br />
sulla competenza penale del giudice di pace, inCompendio di procedura penale, diretto<br />
da G. Conso-V. Grevi, <strong>Cedam</strong>, Padova, 2003, p. 1048) né, tanto meno, conforme alla lettera<br />
degli stessi art. 12 comma 1 e 15 comma 1 d. lgs. n. 274 del 2000, che, ancor prima della<br />
vocatio disposta dalla polizia, si riferivano alla «citazione dell’imputato» (e non, come avrebbero<br />
dovuto, della persona sottoposta alle indagini).<br />
( 29 ) G. Ichino, La fase delle indagini preliminari nei reati di competenza del giudice di<br />
pace, inLa competenza penale del giudice di pace, cit., p. 93; R. Orlandi, I soggetti, inIl<br />
giudice di pace nella giurisdizione penale, cit., p. 89-90.<br />
( 30 ) In tal senso, invece, cfr. G. Ichino, La fase delle indagini preliminari nei reati di<br />
competenza del giudice di pace, inLa competenza penale del giudice di pace, cit., p. 95.
STUDI E RASSEGNE<br />
415<br />
cedimento davanti al tribunale monocratico per i casi di esercizio dell’azione<br />
penale mediante citazione diretta a giudizio. Proprio in riferimento<br />
a tali casi, la Consulta ha rilevato infatti come «non [vi sia] dubbio che,<br />
in ipotesi di ‘imputazione coatta’ riguardante reati per i quali è prevista<br />
la citazione diretta, il giudice per le indagini preliminari non debba far altro<br />
che invitare il pubblico ministero a formulare l’imputazione con la conseguente<br />
emissione del decreto di citazione a giudizio»( 31 ). Inoltre, anche<br />
nella situazione in esame la qualità di imputato viene ora assunta ex art.<br />
3 d. lgs n. 274 del 2000 con la formulazione dell’imputazione inserita nella<br />
citazione a giudizio, in perfetta sintonia con il disposto degli art. 60 e 405<br />
c.p.p.<br />
3. Formulazione dell’imputazione da parte del pubblico ministero ex art.<br />
25 comma 2 d. lgs. n. 274 del 2000. – La terza modalità di esercizio dell’azione<br />
penale si innesca in un iter procedimentale che, limitatamente ai reati<br />
procedibili a querela di parte, postula l’iniziativa della persona offesa, la<br />
quale può citare a giudizio il soggetto al quale il reato è attribuito, presentando<br />
un ricorso nella cancelleria del giudice entro tre mesi dalla notizia di<br />
reato (dopo averlo comunicato al pubblico ministero mediante deposito di<br />
copia presso la sua segreteria). Entro il termine ordinatorio( 32 ) di dieci<br />
giorni dalla comunicazione di tale ricorso, il pubblico ministero, ai sensi<br />
dell’art. 25 comma 2 d. lgs. n. 274 del 2000, se non esprime parere contrario<br />
alla citazione, formula l’imputazione confermando o modificando<br />
l’addebito contenuto nel ricorso.<br />
Quanto a tale modalità d’esercizio dell’azione penale e alla consequenziale<br />
assunzione della veste di imputato, è opportuno distinguere l’ipotesi<br />
in cui il pubblico ministero intervenga formulando l’imputazione da quella<br />
(alternativa) – esaminata infra, § 4 – nella quale esprima parere contrario<br />
alla citazione o rimanga addirittura inerte.<br />
Qualora l’organo dell’accusa, presa visione del ricorso presentato dalla<br />
persona offesa, formuli l’imputazione( 33 ), può recepire l’addebito contenuto<br />
nel ricorso oppure modificarlo.<br />
( 31 ) C. cost., ord. 27 marzo 2003 n. 77, in Giur. cost., 2003, p. 650; nello stesso senso,<br />
nella giurisprudenza di legittimità, cfr. Cass., sez. VI, 12 aprile 2002, Florestani, in Arch. n.<br />
proc. pen., 2002, p. 540-541; Cass., sez. VI, 21 marzo 2002, Costa, in Cass. pen., 2003, p.<br />
2247.<br />
( 32 ) Relazione al d. lgs. 28 agosto 2000 n. 274, cit., p. 52.<br />
( 33 ) ... «pur mancando una previsione analoga all’art. 15, che ricolleghi expressis verbis<br />
anche nel caso in esame l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero alla<br />
formulazione dell’imputazione, non vi è alcun profilo di disciplina di questo modulo introduttivo<br />
del giudizio dal quale possa discendere l’inapplicabilità della soluzione codicistica sui<br />
rapporti tra esercizio dell’azione penale e formulazione dell’imputazione» (così E. Marzaduri,<br />
sub art. 3,inCommento al d.lgs. 28/8/2004 (giudice di pace),inLeg. pen., 2001, p. 59).
416<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
In casi del genere, per un verso, non si può dubitare dell’esclusiva titolarità<br />
dell’azione penale in capo all’organo dell’accusa( 34 ), tant’è vero che<br />
lo stesso, nel formulare l’imputazione, può anche modificare l’addebito<br />
della persona offesa, ma non a tal punto, sottolinea la relazione al d.<br />
lgs.( 35 ) in esame, da «snaturare il thema decidendi circoscritto dall’originario<br />
addebito di derivazione privata, integrandolo magari con contestazioni<br />
che pur descritte nella narrativa del ricorso, non abbiano formato oggetto<br />
dell’addebito in ordine al quale avviene la citazione». Pertanto, ad<br />
esempio, pare corretto ritenere che «non possono ascriversi all’imputato<br />
delitti procedibili a querela, pure riportati nel ricorso, in ordine ai quali<br />
il privato non abbia esplicitato un’intenzione chiara e inequivoca di punizione,<br />
mentre sarà ammessa la diversa qualificazione del fatto»( 36 ) o la contestazione<br />
di una circostanza aggravante (che non renda il reato procedibile<br />
d’ufficio)( 37 ), in attuazione peraltro del principio indicato dall’art. 17<br />
( 34 ) Secondo G. Varraso, sub art. 25 D. Lgs. n. 28 agosto 2000, n. 274, cit., p. 2764,<br />
«[l]a regola chiarisce, in modo definitivo, come il ricorso immediato della persona offesa rappresenti<br />
un semplice atto propulsivo. Se è vero che, in questo modo, si sottrae al pubblico<br />
ministero la prerogativa esclusiva della richiesta di giudizio, è altrettanto vero che, riservandogli<br />
la formulazione dell’addebito, si preserva in capo a quest’ultimo, la titolarità esclusiva<br />
dell’azione penale».<br />
( 35 ) Relazione al d. lgs. 28 agosto 2000 n. 274, cit, p. 52.<br />
( 36 ) Cfr. F. Nuzzo, La vocatio in ius davanti al giudice di pace, inArch. n. proc. pen.,<br />
2001, p. 19, il quale prosegue ritenendo che qualora «reati ad azione officiosa emergano dalla<br />
citazione di parte, sarebbe assurdo lasciare impunite condotte lesive di interessi generali,<br />
ma il pubblico ministero dovrà agire a parte, determinandosi secondo la natura degli illeciti:<br />
se rientrano nella competenza del giudice di pace, trasmetterà lanotitia criminis alla polizia<br />
giudiziaria, affinché proceda ai sensi dell’art. 11 D. L.vo, e impartirà le direttive necessarie;<br />
ove si tratti di fattispecie diverse, dovrà essere seguito il modello ordinario, attraverso le attività<br />
e i tempi stabiliti dal codice di procedura penale». Per D. Negri, sub art. 21, inCommento<br />
al d.lgs. 28/8/2004 (giudice di pace),inLeg. pen., 2001, p. 147, il «divieto di accrescere<br />
l’accusa, attraverso la contestazione di un reato concorrente o di un fatto nuovo, deriva invece<br />
dalla equiparazione normativa del ricorso alla querela (art. 21 co. 5): il che significa inserire<br />
ex lege, tra i contenuti tipici dell’atto, la manifestazione di volontà dell’offeso, diretta a<br />
conseguire una certa condotta criminosa».<br />
( 37 ) B. Lavarini, La tutela della vittima del reato nel procedimento di fronte al giudice<br />
di pace, inGiust. pen., 2001, III, c. 614, per la quale il pubblico ministero in tale evenienza<br />
dovrà esprimere parere contrario alla citazione; così anche nel caso in cui emerga una circostanza<br />
aggravante che renderebbe il reato di competenza di un giudice diverso dal giudice di<br />
pace (ibidem, nota 31); C. Pansini, Contributo dell’offeso e snodi procedimentali, <strong>Cedam</strong>,<br />
Padova, 2004, p. 160-161. Nello stesso senso, sembra anche G. Fidelbo, Ricorso immediato<br />
al giudice, inIl giudice di pace nella giurisdizione penale, cit., p. 250.<br />
Di parere contrario, E. Marzaduri, Le disposizioni sulla competenza penale del giudice<br />
di pace, cit., p. 1055, secondo cui le modifiche consentite sono «solo quelle che non determinano<br />
una diversità del fatto rilevante ex art. 516 c.p.p. Così pure, il pubblico ministero<br />
non potrà contestare circostanze aggravanti o fatti di reato non menzionati dalla persona offesa<br />
nell’addebito anche se ricavabili dalla narrativa del ricorso». La tesi pare poco persuasiva<br />
perché rientra tra i requisiti essenziali dell’imputazione, la cui formulazione è riservata in
STUDI E RASSEGNE<br />
417<br />
comma 1 lett. e l. 468 del 1999 sulla previsione di «strumenti idonei a una<br />
puntuale formulazione della imputazione».<br />
Quanto, per altro verso, all’assunzione della veste di imputato, anche<br />
nella forma di esercizio dell’azione penale in esame emergerebbe una sfasatura<br />
analoga a quella esaminata nel paragrafo precedente anteriormente<br />
alla modifica operata dal d.l. 27 luglio 2005 n. 144 conv. in l. 31 luglio 2005<br />
n. 155, unita però a una complicazione, consistente nel rilievo che, a differenza<br />
del caso sopra esaminato, dal momento della presentazione del ricorso<br />
alla decisione del giudice sullo stesso non varrebbe la regola dell’art.<br />
61 c.p.p., perché non sarebbe in senso stretto persona sottoposta alle indagini<br />
colui nei cui confronti è diretto il ricorso della persona offesa( 38 ). Tale<br />
ostacolo, tuttavia, sarebbe comunque superabile applicando l’art. 61 c.p.p.<br />
in via analogica alla persona citata in giudizio a seguito di ricorso della persona<br />
offesa( 39 ).<br />
Altrimenti, in una prospettiva diversa (ma non persuasiva) volta a<br />
coordinare il principio dell’art. 60 e 405 c.p.p. con quello dell’art. 3 d.<br />
lgs. n. 274 del 2000, bisognerebbe ritenere che, inserendosi l’esercizio dell’azione<br />
penale in una fattispecie complessa e «a formazione progressiva, in<br />
cui sono coinvolti anche pubblico ministero e giudice»( 40 ), la stessa deve<br />
considerarsi (compiutamente) esercitata solo con l’emissione da parte del<br />
giudice di pace del decreto di convocazione delle parti, in cui viene trascritta<br />
l’imputazione formulata dal pubblico ministero( 41 ): si neutralizzerebbe<br />
così la sfasatura in questione.<br />
via esclusiva al pubblico ministero, l’indicazione delle «circostanze aggravanti e di quelle che<br />
possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza».<br />
( 38 ) ... «non è soggetto processuale e non ha titolo per intervenire nel procedimento<br />
che lo riguarda, anche se vi avesse interesse»: così R. Orlandi, I soggetti, inIl giudice di<br />
pace nella giurisdizione penale, cit., p. 90, sottolineando come il soggetto potrebbe comunque<br />
«essere interessato a intervenire nella discussione sulla competenza, prima che il giudice<br />
adotti i provvedimenti previsti dall’art. 26 commi 3 e 4» (ibidem, nota 46). Ecco perché si<br />
ritiene che dalla sfasatura in esame derivi una compressione del diritto di difesa del soggetto<br />
al quale il fatto di reato è addebitato nel ricorso (E. Aghina – P. Picciali, Il Giudice di pace<br />
penale, cit., p. 146).<br />
( 39 ) In tal senso, E. Marzaduri, sub art. 3, cit., p. 60, nota 9.<br />
( 40 ) A. Scalfati, I moduli introduttivi del giudizio,inLa competenza penale del giudice<br />
di pace, cit., p. 107; nella medesima direzione v. G. Fidelbo, Ricorso immediato al giudice,in<br />
Il giudice di pace nella giurisdizione penale, cit., p. 255.<br />
( 41 ) In proposito, deve essere rilevato come all’esercizio dell’azione penale da parte del<br />
pubblico ministero consegua necessariamente la convocazione delle parti in udienza da parte<br />
del giudice. In tal senso, v. F. Caprioli, Esercizio dell’azione penale: soggetti, morfologia,<br />
controlli, inIl giudice di pace. Un nuovo modello di giustizia penale, cit., p. 175-176, e G.<br />
Lozzi, Lezioni di procedura penale, Giappichelli, Torino, 2004, p. 602, per il quale il giudice<br />
non sarebbe legittimato «a restituire gli atti all’organo dell’accusa a norma dell’art. 26 comma<br />
2 neppure laddove ritenga inammissibile o manifestamente infondato il ricorso: essendo
418<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
4. Segue: parere contrario od omesso intervento dell’organo pubblico ex<br />
art. 25 d. lgs. n. 274 del 2000. – Risulta maggiormente problematica, invece,<br />
l’ipotesi in cui il pubblico ministero, a seguito del ricorso presentato<br />
dalla persona offesa, anziché formulare l’imputazione, esprima parere contrario<br />
alla citazione oppure rimanga inerte( 42 ).<br />
Per tale eventualità invero le norme in esame tacciono e in dottrina la<br />
lacuna è stata colmata con opzioni interpretative diverse, anche in considerazione<br />
del fatto che, mentre nel testo approvato dal Consiglio dei ministri<br />
e diffuso prima della pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale si stabiliva che il<br />
decreto dovesse contenere «la trascrizione dell’imputazione formulata dal<br />
pubblico ministero», in sede di pubblicazione del d. lgs. n. 274 del<br />
2000, l’art. 27 comma 3 lett. d del medesimo d. lgs. fa riferimento semplicemente<br />
alla «trascrizione dell’imputazione».<br />
Facendo leva su tale circostanza, una parte della dottrina ha ritenuto,<br />
pertanto, che l’imputazione non «deve essere per forza di cose quella ‘formulata<br />
dal pubblico ministero’ ... se quest’ultimo non si pronuncia, l’addebito<br />
enunciato dalla persona offesa, una volta che il giudice non ha ritenuto<br />
il ricorso inammissibile o manifestamente infondato, diventa imputazione»(<br />
43 ). In altri termini, al giudice sarebbe consentito «surrogarsi al<br />
pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale allorché la parte pubblica<br />
ometta di presentare tempestivamente le proprie richieste, non foss’altro<br />
perché quest’ultima potrebbe, tacendo, determinare un’irrimediabile<br />
situazione di stallo processuale, e sottrarsi a qualunque sindacato sulla<br />
legittimità della propria scelta abdicativa»( 44 ).<br />
stata ormai esercitata l’azione penale, una soluzione diversa dalla convocazione in giudizio<br />
dell’imputato contrasterebbe infatti con il principio di non regressione».<br />
Di parere contrario G. Fidelbo, Ricorso immediato al giudice,inIl giudice di pace nella<br />
giurisdizione penale, cit., p. 255; C. Quaglierini, Le parti private diverse dall’imputato e<br />
l’offeso dal reato, inTrattato di procedura penale, VIII, diretto da G. Ubertis e G.P. Voena,<br />
Giuffrè, Milano, 2004, p. 191; G. Varraso, sub art. 26 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, cit., p.<br />
2765 e 2769, secondo i quali le richieste avanzate dal pubblico ministero non sarebbero vincolanti<br />
per il giudice. Tale assunto, tuttavia, non pare condivisibile perché contrasta con il<br />
principio di irretrattabilità dell’azione penale.<br />
( 42 ) ... possibilità non remota in considerazione dei sovraccarichi di lavoro di molte<br />
procure.<br />
( 43 ) E. Marzaduri, Le disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, cit., p.<br />
1057.<br />
( 44 ) F. Caprioli, Esercizio dell’azione penale: soggetti, morfologia, controlli, inIl giudice<br />
di pace. Un nuovo modello di giustizia penale, cit., p. 179. Nello stesso senso, F. Cordero,<br />
Procedura penale, Giuffrè, Milano, 2003, p. 1318, secondo il quale «ritroviamo il processo<br />
instaurato ex officio, come in pretura temporibus illis, prima che vi nascesse un apparato<br />
requirente: il g.d.p. provvede su ricorso», e E. Squarcia, Giudice di pace e ricorso<br />
immediato dell’offeso: un’eccezione al principio ne procedat iudex ex officio, in Riv. it. dir.<br />
proc. pen., 2002, p. 631.<br />
Secondo altra parte della dottrina la situazione di stallo, provocata dall’inerzia del pub-
STUDI E RASSEGNE<br />
419<br />
Aderendo a tale impostazione, per cui il giudice sarebbe legittimato a<br />
sostituirsi al pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale, conseguirebbe,<br />
da una parte, che si avrà contemporaneità tra il momento dell’elevazione<br />
dell’imputazione e l’assunzione della qualità di imputato – che avviene,<br />
a norma dell’art. 3 d. lgs. n. 274 del 2000, con l’emissione del decreto<br />
convocativo da parte del giudice –, dall’altra, che il ricorso non<br />
potrà essere qualificato come azione penale privata( 45 ).<br />
Tale soluzione interpretativa, per quanto coerente al disposto del citato<br />
art. 3 d. lgs. n. 274 del 2000 e, soprattutto, funzionale all’economia<br />
di forme e alla celerità che dovrebbero caratterizzare il microsistema penale<br />
in esame, risulta tuttavia contrastare con l’ineludibile principio del ne procedat<br />
iudex ex officio, cumulando in capo allo stesso giudice le funzioni di<br />
attore e di arbitro, con conseguente (ed evidente) pregiudizio per l’imparzialità<br />
e la terzietà dello stesso – di recente ribadite a livello costituzionale<br />
dall’art. 111 comma 2 Cost.( 46 ) – ed emersione «di situazioni di potenziale<br />
incompatibilità»( 47 ), che de iure condendo andrebbero eliminate.<br />
Ecco perché pare preferibile, in proposito, condividere la tesi, ora<br />
avallata anche dalla Corte costituzionale( 48 ), di chi reputa che, qualora il<br />
blico ministero, potrebbe essere superata intendendo la condotta omissiva della pubblica accusa<br />
come silenzio-assenso volto a recepire l’addebito contenuto nel ricorso quale imputazione;<br />
ma, in ogni caso, tale teoria, oltre a richiamare istituti giuridici propri di altri rami dell’ordinamento<br />
(che non paiono compatibili con quello penale), non è sostenibile quando il<br />
pubblico ministero, intervenendo, esprima parere contrario alla citazione (v. E. Aghina – P.<br />
Picciali, Il Giudice di pace penale, cit., p. 152-153; F. Nuzzo, La vocatio in ius davanti al<br />
giudice di pace, cit., p. 20; A. Scalfati, I moduli introduttivi del giudizio, inLa competenza<br />
penale del giudice di pace, cit., p. 121; G. Tranchina, I procedimenti per i reati di cognizione<br />
del tribunale monocratico e del giudice di pace, inD. Siracusano-A. Galati-G. Tranchina-E.<br />
Zappalà, Diritto processuale penale, II, cit., p. 429).<br />
( 45 ) G. Diotallevi, Soggetti, giurisdizione e competenza, inDir. pen. proc., 2001, p.<br />
27; E. Marzaduri, Le disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, cit., p.<br />
1057. Per F. Cordero, Procedura penale, cit., p. 1319, «l’offeso ... sarebbe attore se alla<br />
domanda seguisse invariabilmente il processo, e abbiamo visto come non sia così».<br />
Su tale questione v. anche infra, § 5 e nota 63.<br />
( 46 ) Sottolinea tale profilo F. Cerqua, Protagonista e comprimari nell’esercizio dell’azione<br />
penale davanti al giudice di pace, inIl Giudice di pace, 2003, p. 8.<br />
( 47 ) Cfr. F. Caprioli, Esercizio dell’azione penale: soggetti, morfologia, controlli, inIl<br />
giudice di pace. Un nuovo modello di giustizia penale, cit., p. 179-180; E. Marzaduri, Le<br />
disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, cit., p. 1057; anche A. Scalfati,<br />
La fisionomia mutevole della persona offesa nel procedimento penale di pace,inDir. pen. proc.,<br />
2002, p. 1190, ritiene che «il rimedio più spedito e, al contempo, più funzionale all’economia<br />
delle forme sottesa all’intero sistema ‘minore’, consiste nell’imputazione elevata direttamente<br />
dal giudice di pace che decide sul ricorso, ferma restando l’assoluta necessità di eliminare il<br />
pericolo che quello stesso magistrato celebri il giudizio».<br />
( 48 ) C. cost., ord. 7 ottobre 2005 n. 381, in G.U., 1ª serie speciale, 2005, n. 41, p. 103-<br />
104 (v. altresì, anche se in termini meno espliciti, C. cost., ord. 4 ottobre 2005 n. 361, ivi, n.<br />
41, p. 25).
420<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
pubblico ministero rimanga inerte o addirittura esprima parere contrario<br />
alla citazione, il giudice possa soltanto rimettere gli atti alla pubblica accusa(<br />
49 ), perché proceda nelle forme ordinarie, chiedendo l’archiviazione<br />
o esercitando l’azione penale, secondo le modalità illustrate nel paragrafo<br />
precedente( 50 ). Solo a seguito di tale trasmissione, qualora il giudice ritenga<br />
di non condividere un’eventuale richiesta di archiviazione formulata<br />
dal pubblico ministero, secondo quanto indicato dalla Consulta( 51 ), potrebbe<br />
trovare applicazione, ex art. 17 comma 4 d.lgs. n. 274 del 2000,<br />
la disciplina della formulazione coatta dell’imputazione.<br />
Del resto, il tenore letterale del combinato disposto degli art. 26 e 27<br />
d. lgs. n. 274 del 2000, in base al quale solo i provvedimenti negativi previsti<br />
dall’art. 26 d. lgs. n. 274 del 2000 (a differenza di quello alternativo<br />
contenuto nell’art. 27 del medesimo d. lgs.) sono adottabili dal giudice<br />
«anche se il pubblico ministero non ha presentato richieste», induce a ri-<br />
( 49 ) E. Aprile, sub art. 25, inCommento al d.lgs. 28/8/2004 (giudice di pace), inLeg.<br />
pen., 2001, p. 163, il quale sottolinea che «così si consentirà, al contrario, un – eventuale –<br />
promovimento dell’azione penale nelle forme previste dall’art. 20, cioè mediante citazione a<br />
giudizio disposta dalla polizia giudiziaria»; F. Cerqua, Protagonista e comprimari nell’esercizio<br />
dell’azione penale davanti al giudice di pace, cit., p. 8; B. Lavarini, La tutela della vittima<br />
del reato nel procedimento di fronte al giudice di pace, cit., c. 613, precisando che la restituzione<br />
avviene «‘come se’ [l’accusa] avesse espresso parere contrario alla citazione»; A.<br />
Scalfati, I moduli introduttivi del giudizio, inLa competenza penale del giudice di pace,<br />
cit., p. 121; G. Varraso, sub art. 26 D.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, cit., p. 2769.<br />
In senso conforme, in giurisprudenza, v. Cass., sez. IV, 27 maggio 2004, Gatto, in Riv.<br />
pen., 2005, p. 897.<br />
Contra, E. Squarcia, Giudice di pace e ricorso immediato dell’offeso: un’eccezione al principio<br />
ne procedat iudex ex officio, cit., p. 622-623, secondo il quale la tesi accolta nel testo cozzerebbe<br />
«con la rubrica dell’art. 21 dello stesso decreto, che si intitola ‘ricorso immediato al giudice’,<br />
così suggerendo una sorta di ricorso omisso medio, ossia omesso il passaggio per il pubblico<br />
ministero, a meno che esso, una volta notiziato dell’iniziativa presa dalla persona offesa dal<br />
reato, non eserciti le sue prerogative». L’assunto non può essere condiviso, in quanto si deve<br />
ritenere che il ricorso sia denominato immediato perché, saltando le indagini preliminari, l’offeso<br />
può rivolgersi direttamente al giudice (in tal senso, C. Pansini, Contributo dell’offeso e snodi<br />
procedimentali, cit., p. 142, e L. Tricomi, La parte offesa ‘‘conquista’’ il potere di citazione, cit.,<br />
p. 106).<br />
( 50 ) Né, comunque, in tal caso sarebbe prospettabile un’imputazione coatta su ordine<br />
del giudice analoga a quella disciplinata dagli art. 409 comma 5 c.p.p. e 17 comma 4 d. lgs. n.<br />
274 del 2000, perché così si determinerebbe «una variante della procedura che è incompatibile<br />
con la necessità di rispettare, in ogni caso, le forme speciali del ricorso immediato rispetto<br />
a quelle ordinarie (art. 22 d.lg. n. 274 del 2000)» (in tal senso, v. Cass., sez. IV, 27<br />
maggio 2004, Gatto, cit., p. 897).<br />
Nella medesima direzione, in dottrina, v. anche C. Pansini, Contributo dell’offeso e<br />
snodi procedimentali, cit., p. 164; A. Scalfati, I moduli introduttivi del giudizio, inLa competenza<br />
penale del giudice di pace, cit., p. 121, nota 48; G. Varraso, sub art. 25 D.lgs. 28<br />
agosto 2000, n. 274, cit., p. 2769.<br />
( 51 ) C. cost., ord. 4 ottobre 2005 n. 361, cit., p. 25; analogamente, v. C. cost., ord. 7<br />
ottobre 2005 n. 381, cit., p. 103-104.
STUDI E RASSEGNE<br />
421<br />
tenere che il giudice non possa emettere (in mancanza di una formale imputazione<br />
elevata dal pubblico ministero) il provvedimento di convocazione<br />
delle parti in udienza ex art. 27 d. lgs. n. 274 del 2000.<br />
L’art. 27 comma 2 d. lgs. in esame, inoltre, testualmente prevede che il<br />
giudice trascriva (e non formuli) l’imputazione: l’inciso, interpretato ad litteram,<br />
porta a «sostenere che i contenuti della traslatio preesistano in un<br />
testo e siano riprodotti in un altro e che, trattandosi dell’imputazione, l’atto<br />
originario lo abbia formulato l’unico soggetto al quale la legge ne attribuisce<br />
il potere»( 52 ), ossia al pubblico ministero, in conformità, del resto, a quanto<br />
sostenuto nella relazione al d. lgs. n. 274 del 2000, che ribadisce «l’esclusiva<br />
prerogativa dell’organo pubblico sul tema dell’imputazione»( 53 ).<br />
Pertanto, il giudice di pace dovrà recepire, nel proprio decreto, l’imputazione<br />
così come formulata dal pubblico ministero, in mancanza della<br />
quale non sarà consentito allo stesso emettere il decreto di convocazione<br />
per l’udienza.<br />
In quest’ottica, quindi, l’intervento della pubblica accusa, previsto dall’art.<br />
25 d. lgs. n. 274 del 2000, può essere considerato facoltativo( 54 ) unicamente<br />
in relazione alle decisioni reiettive che il giudice di pace può adottare<br />
ai sensi dell’art. 26 d. lgs. n. 274 del 2000, mentre si configura come<br />
obbligatorio nell’ipotesi in cui il giudice di pace ritenga di dover emettere il<br />
decreto convocativo delle parti in udienza, che ha come requisito indefettibile<br />
– la cui assenza è sanzionata, peraltro, a pena di nullità ex art. 27<br />
comma 5 d. lgs. n. 274 del 2000 – la trascrizione dell’imputazione. E tale,<br />
in ogni caso, non può essere considerata l’ipotesi accusatoria formulata<br />
dalla persona offesa nel proprio ricorso: infatti, non solo l’uso del termine<br />
«descrizione» al posto di «enunciazione» pare riflettere «la natura provvisoria<br />
dell’addebito e il suo provenire da un soggetto privato, anziché dall’autorità<br />
giudiziaria»( 55 ), ma anche l’omessa menzione «delle circostanze<br />
aggravanti e di quelle che possono comportare l’applicazione delle misure<br />
di sicurezza» induce a ritenere che tale addebito non costituisca propriamente<br />
un’imputazione( 56 ) ma, come conferma pure la relazione al d. lgs.<br />
( 52 ) A. Scalfati, I moduli introduttivi del giudizio,inLa competenza penale del giudice<br />
di pace, cit., p. 121.<br />
( 53 ) Relazione al d. lgs. 28 agosto 2000 n. 274, cit., p. 51-52.<br />
( 54 ) Cfr. C. Quaglierini, Le parti private diverse dall’imputato e l’offeso dal reato, cit.,<br />
p. 191.<br />
( 55 ) D. Negri, sub art. 21, cit., p. 145.<br />
( 56 ) Secondo S. Ruggeri, Esercizio dell’azione penale, pubblico ministero e persona offesa<br />
nella prospettiva del procedimento davanti al giudice di pace, inGiur. it., 2001, c. 655, «la<br />
‘descrizione’ non costituisce un’imputazione nel senso stretto del termine, in quanto le manca<br />
il crisma della forma che solo un organo pubblico può conferirle. Non essendo in grado di<br />
farcela con le proprie forze, l’offeso chiede così collaborazione al pubblico ministero per elevare<br />
a giudizio la propria ipotesi di reato».
422<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
n. 274 del 2000( 57 ), una «mera descrizione fattuale della condotta»( 58 ), in<br />
linea con il carattere «meramente propositivo e non dispositivo della contestazione<br />
privata rispetto all’intervento del pubblico ministero di cui all’art.<br />
25 contenuto»( 59 ).<br />
Né, in effetti, all’opzione esegetica accolta, implicante la restituzione<br />
degli atti al pubblico ministero, può conseguire «alcun concreto sacrificio<br />
... alla persona offesa stante l’equiparazione del ricorso immediato alla querela<br />
... ed essendo previsto per il ricorso immediato ... lo stesso termine di<br />
tre mesi ... stabilito per la proponibilità della querela»( 60 ).<br />
Inoltre, tale soluzione, forse «non immediata alla luce di un dettato<br />
normativo piuttosto farraginoso, è quella più conforme ai criteri seguiti nell’attuazione<br />
della delega»( 61 ) e sembra confermare altresì che il ricorso dell’offeso<br />
non rappresenta un’azione penale privata, rimanendo riservata l’iniziativa<br />
in materia, secondo la lettura più rigorosa dell’art. 112 Cost., in<br />
capo all’organo pubblico.<br />
5. Conclusioni. – L’analisi effettuata nei paragrafi precedenti sulle<br />
forme di esercizio dell’azione penale e sull’acquisizione della qualità di imputato<br />
nel microsistema processuale di pace impone alcune riflessioni conclusive.<br />
Anzitutto, pare che il legislatore abbia preservato in capo al pubblico<br />
ministero la titolarità esclusiva dell’azione penale sia nel caso di citazione a<br />
giudizio sia nel caso di ricorso dell’offeso. Con specifico riferimento al ricorso,<br />
lo stesso, pur rappresentando «una delle innovazioni più significative<br />
... introdotte dalla delega, in quanto il privato viene autorizzato, pur<br />
con alcuni temperamenti relativi all’informazione del pubblico ministero finalizzata<br />
ad un suo eventuale intervento, a promuovere direttamente il giudizio<br />
in materia penale»( 62 ), si limita a evocare ma non, come s’è visto, a<br />
costituire un’azione penale privata( 63 ), che peraltro – è bene ribadire –<br />
( 57 ) Relazione al d. lgs. 28 agosto 2000 n. 274, cit., p. 50.<br />
( 58 ) C. Pansini, Contributo dell’offeso e snodi procedimentali, cit., p. 146.<br />
( 59 ) Relazione al d. lgs. 28 agosto 2000 n. 274, cit., p. 50.<br />
( 60 ) Cass., sez. IV, 27 maggio 2004, Gatto, cit., p. 897.<br />
( 61 ) G. Varraso, sub art. 26 D. Lgs. n. 28 agosto 2000, n. 274, cit., p. 2769.<br />
( 62 ) Relazione al d. lgs. 28 agosto 2000 n. 274, cit., p. 48.<br />
( 63 ) A. Giarda, Il giudice di pace, una sperimentazione per il momento in funzione ancillare,<br />
inLa competenza penale del giudice di pace, cit., p. 3; G. Lozzi, Lezioni di procedura<br />
penale, cit., p. 600; D. Negri, sub art. 21, cit., p. 139; R. Normando, L’esercizio dell’azione<br />
e la richiesta di giudizio nel processo penale, cit., p. 114; A. Presutti, Le modalità introduttive<br />
del giudizio nel procedimento penale davanti al giudice di pace, inSt. iuris, 2001, p. 653;<br />
G. Varraso, sub art. 21 D.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, cit., p. 2748. Per M. Caianiello,<br />
Poteri dei privati nell’esercizio dell’azione penale, cit., p. 186, «è la verifica sulla manifesta infondatezza,<br />
in grado di sfociare, a seguito di una valutazione discrezionale, in una pronuncia<br />
di inammissibilità del ricorso – vale a dire in una decisione con la quale si stabilisce soltanto
STUDI E RASSEGNE<br />
423<br />
non sarebbe incompatibile, nei limiti delineati nel primo paragrafo, con<br />
l’art. 112 Cost.<br />
L’argomentazione è confortata dalla stessa relazione al d. lgs. n. 274<br />
del 2000 che chiarisce come la soluzione verso l’istituto dell’azione penale<br />
privata sia stata scartata per abbracciare «una impostazione meno radicale<br />
e assolutista, oltre che più coerente col sistema processuale italiano», per<br />
«contemperare i benefici di speditezza per l’interessato e di deflazione<br />
del carico di lavoro dell’organo pubblico ... con insopprimibili esigenze<br />
di controllo preventivo del pubblico ministero»( 64 ).<br />
Invero, non può negarsi che «un sistema improntato a modelli di<br />
azione penale ‘complementare’ (a cura del privato) deve essere esplicitato<br />
con una chiarezza sufficiente ad esprimere precise scelte in tale direzione,<br />
aspetto che non può di certo rinvenirsi nel tessuto positivo in esame»( 65 ).<br />
Di qui, in sostanza, il corretto inquadramento dogmatico del ricorso<br />
quale mero «atto propositivo, non idoneo, di per sé solo, ad approdare<br />
al giudizio»( 66 ) (perché sottoposto al controllo del pubblico ministero e<br />
del giudice), ma atto unicamente a incardinare, solo quando il pubblico ministero<br />
formuli l’imputazione (diversamente, gli atti verrebbero restituiti<br />
allo stesso), un iter procedimentale più spedito di quello ordinario conseguente<br />
alla presentazione della querela.<br />
Inoltre, assume decisiva importanza il rilievo secondo il quale è pro-<br />
che la domanda non è idonea ad instaurare un giudizio – [a] impedi[re] di attribuire all’istituto<br />
esaminato la natura di vera e propria azione».<br />
Contra, G. Fidelbo, Ricorso immediato al giudice, inIl giudice di pace nella giurisdizione<br />
penale, cit., p. 267-268; A. Nappi, Guida al Codice di Procura Penale, cit., p. 667; T. Padovani,<br />
Premesse introduttive alla giurisdizione penale di pace, inIl giudice di pace nella giurisdizione<br />
penale, cit., p. XV. In particolare, C. Pansini, Contributo dell’offeso e snodi procedimentali,<br />
cit., p. 167; C. Quaglierini, Le parti private diverse dall’imputato e l’offeso dal<br />
reato, cit., p. 196; P. Tonini, Manuale di procedura penale, Giuffrè, Milano, 2005, p. 697,<br />
parlano, in proposito, di azione penale privata sussidiaria, in quanto dipendente dall’inazione<br />
del pubblico ministero; mentre M. Chiavario, Diritto processuale penale. Profilo istituzionale,<br />
Utet, Torino, 2005, p. 397, si riferisce a un’«azione meramente concorrente con quella,<br />
appunto, del pubblico ministero».<br />
( 64 ) Cfr. Relazione al d. lgs. 28 agosto 2000 n. 274, cit., p. 48-49.<br />
( 65 ) A. Scalfati, I moduli introduttivi del giudizio,inLa competenza penale del giudice<br />
di pace, cit., p. 122; nello stesso senso, cfr. F. Cerqua, Protagonista e comprimari nell’esercizio<br />
dell’azione penale davanti al giudice di pace, cit., p. 8; A. Pagliano, La citazione diretta<br />
dell’imputato dinanzi al giudice di pace, inGiust. pen., 2003, III, c. 636; A. Presutti, Le modalità<br />
introduttive del giudizio nel procedimento penale davanti al giudice di pace, cit., p. 655.<br />
( 66 ) A. Scalfati, I moduli introduttivi del giudizio,inLa competenza penale del giudice<br />
di pace, cit., p. 107; v. anche A. Presutti, Le modalità introduttive del giudizio nel procedimento<br />
penale davanti al giudice di pace, cit., p. 654. Cfr. pure C. Quaglierini, Le parti private<br />
diverse dall’imputato e l’offeso dal reato, cit., p. 191, che parla in proposito di «atto propositivo<br />
e non dispositivo, in quanto non idoneo ad attivare un contatto diretto con la persona<br />
accusata».
424<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
prio il meccanismo di controllo in questione che impedisce di parlare di<br />
azione penale esercitata con il ricorso. Diversamente, nel caso di inerzia ovvero<br />
di parere contrario alla citazione formulato dal pubblico ministero ex<br />
art. 25 d. lgs. n. 274 del 2000, si potrebbe verificare la situazione per cui,<br />
all’azione (esercitata dall’offeso) conseguirebbe un’archiviazione disposta<br />
dal giudice su richiesta del medesimo accusatore pubblico (al quale il giudice<br />
stesso abbia restituito gli atti ex art. 26 comma 2 d. lgs. n. 274 del<br />
2000). E ciò in aperta antitesi con il condivisibile assunto secondo il quale<br />
ogni atto di imputazione, «irretrattabile, instaura un processo e ogni processo<br />
implica una sentenza»( 67 ).<br />
La tesi trova, altresì, conferma sia nella terminologia utilizzata dal legislatore<br />
che qualifica l’atto ‘‘ricorso’’ («ispirandosi per certi versi al ricorso<br />
nel processo del lavoro, per la sua tempistica, e alla costituzione di parte<br />
civile nel processo penale»( 68 )) e non – sulla falsariga, ad esempio, dell’art.<br />
550 c.p.p., ‘‘citazione diretta a giudizio’’ –, sia nella considerazione che la<br />
persona offesa chiede al giudice di pace nel ricorso, ai sensi dell’art. 21<br />
comma 2 lett. i, «la fissazione dell’udienza per procedere nei confronti<br />
delle persone citate in giudizio».<br />
Per quanto concerne, poi, l’acquisizione della veste di imputato, a seguito<br />
dell’emanazione del d. l. 27 luglio 2005 n. 144 conv. in l. 31 luglio<br />
2005 n. 155, è opportuno distinguere due ipotesi (sebbene l’art. 3 d. lgs.<br />
( 67 ) Cfr. F. Cordero, Procedura penale, cit., p. 1316.<br />
Né la situazione in esame potrebbe essere assimilata al caso in cui il giudice restituisca<br />
gli atti al pubblico ministero «perché non reputa applicabile la pena richiesta ... o mancano i<br />
requisiti del modus procedendi scelto dal pubblico ministero (giudizio direttissimo o immediato<br />
ovvero decreto penale ...)»: in tale eventualità, infatti, «[n]iente di abnorme: non è una<br />
azione ritrattata; quel procedimento risultava male instaurato ... restituendo le carte all’attore,<br />
il giudice restaura l’alternativa ...; ri-agisca, nelle forme adatte, o (re melius perpensa, specie<br />
se sopravvenisse materiale nuovo) chieda l’archiviazione» (per la presente e l’immediatamente<br />
precedente citazione cfr. F. Cordero, Procedura penale, cit., p. 407).<br />
Sul punto, v., invece, le osservazioni di E. Marzaduri, Imputato e imputazione, inD.<br />
disc. pen., VI, Utet, Torino, 1992, p. 285, il quale, pur restando nella prospettiva che non si<br />
tratterebbe di azione ritrattata, afferma che «il giudice, nel restituire gli atti al pubblico ministero,<br />
si limit[a] a censurare l’opzione che quest’ultimo ha operato a favore di un determinato<br />
modo di esercitare l’azione penale, per cui l’ipotizzata declaratoria di inammissibilità<br />
dovrà esprimere i propri effetti solo con riferimento a questo specifico aspetto dell’iniziativa<br />
dell’accusa, mentre non potrà far venir meno la rilevanza processuale della scelta di fondo,<br />
che è costituita dalla decisione di iniziare l’azione; scelta di fondo che, quale che siano le forme<br />
e i modi di esercizio dell’azione, presuppone comunque l’individuazione di elementi tali<br />
da escludere la richiesta di un provvedimento di archiviazione. Ne discende che la restituzione<br />
degli atti al pubblico ministero è semplicemente volta a consentirgli di modificare la<br />
scelta del rito, senza che si riapra una fase investigativa e, quindi, anche l’alternativa di<br />
cui all’art. 405, 1º co., c.p.p. 1998».<br />
( 68 ) Cfr. Relazione al d. lgs. 28 agosto 2000 n. 274, cit., p. 49.
STUDI E RASSEGNE<br />
425<br />
in argomento, come già osservato, non sia stato modificato dal citato provvedimento).<br />
Qualora l’azione penale venga esercitata con l’elevazione dell’imputazione<br />
innestata nella citazione (ex art. 12, 15 comma 1 e 17 comma 4 d. lgs<br />
n. 274 del 2000), è in tale momento che si assume lo status di imputato, in<br />
perfetta sintonia pertanto con l’art. 60 c.p.p., mentre nell’ipotesi di esercizio<br />
dell’azione penale a seguito di intervento del pubblico ministero ex<br />
art. 25 d. lgs. n. 274 del 2000 – cioè successivamente alla presentazione<br />
del ricorso immediato della persona offesa –, la medesima qualifica postula,<br />
a differenza dell’art. 60 c.p.p., la vocatio in iudicium disposta dal giudice di<br />
pace, esigendo, quindi, un «atto che non è riconducibile, per lo meno in<br />
toto, al pubblico ministero»( 69 ).<br />
In tale ultima circostanza, è evidente che il legislatore si sia discostato<br />
dalla soluzione codicistica: infatti, nel codice di rito, anche quando l’assunzione<br />
dello status di imputato viene collegata alla vocatio in iudicium, la<br />
stessa costituisce – come adesso per la citazione dell’imputato davanti al<br />
giudice di pace (art. 20 d. lgs. n. 274 del 2000) o la citazione diretta a giudizio<br />
nel procedimento davanti al tribunale monocratico (art. 550 c.p.p.) –<br />
un atto di esercizio dell’azione penale da parte dell’organo dell’accusa( 70 ).<br />
Al contrario, nel caso del subprocedimento avviato col ricorso ex art.<br />
21 d.lgs. n. 274 del 2000, sembra prevalere non il momento dell’esercizio<br />
dell’azione penale con la contestuale formulazione dell’imputazione (da<br />
parte del pubblico ministero) ma il momento in cui tale atto, assunta<br />
una veste formale, venga portato a conoscenza della persona alla quale il<br />
reato è attribuito( 71 ), quindi il «primo atto giudiziario che riproduce l’imputazione»(<br />
72 ).<br />
Peraltro, va rilevato come l’intenzione del legislatore in tal senso trovi<br />
conforto anche nella relazione al d. lgs. n. 274 del 2000 dove, con riguardo<br />
all’art. 3 del medesimo d. lgs. e al ricorso immediato della persona offesa, si<br />
evidenzia che «la convocazione delle parti dinanzi al giudice rappresenta il<br />
primo momento in cui la persona interessata prende conoscenza del fatto<br />
che contro di lei è stata esercitata l’azione penale»( 73 ).<br />
( 69 ) E. Marzaduri, sub art. 3, cit., p. 58. In proposito, A. Confalonieri, La citazione<br />
a giudizio disposta dalla polizia giudiziaria, inIl giudice di pace. Un nuovo modello di<br />
giustizia penale, cit., 219, sottolinea che «nel conferire la possibilità di provvedere alla citazione<br />
a giudizio il legislatore ha attribuito alla polizia giudiziaria un compito sinora riservato<br />
al giudice (art. 429) o, eccezionalmente, al pubblico ministero (art. 552)».<br />
( 70 ) E. Marzaduri, sub art. 3, cit., p. 59.<br />
( 71 ) A. Ciavola, Chiusura delle indagini ed esercizio dell’azione penale, inIl giudice di<br />
pace nella giurisdizione penale, cit., p. 201.<br />
( 72 ) R. Orlandi, I soggetti, inIl giudice di pace nella giurisdizione penale, cit., p. 90.<br />
( 73 ) ... «e ciò in un sistema che ha respinto l’opzione a favore di una vera e propria<br />
azione penale privata, ed in luogo ha recepito una soluzione di ‘compromesso’, che non ri-
426<br />
STUDI E RASSEGNE<br />
Tuttavia, la ragione di tale opzione non pare comunque risiedere nel<br />
rilievo che «‘‘imputare’’ implic[hi] un atto recettizio»( 74 ), perché la formulazione<br />
dell’imputazione (negli atti tipici di esercizio dell’azione penale) assume<br />
rilevanza, anche ai fini dell’assunzione della qualifica di imputato, indipendentemente<br />
dalla conoscenza che ne abbia il soggetto interessato( 75 ).<br />
La scelta in questione compiuta dal legislatore, pertanto, risulta sia<br />
poco coerente sotto il profilo sistematico sia, come sottolineato, foriera<br />
(anche se ora solo in relazione al subprocedimento attivato con ricorso immediato)<br />
di una sfasatura tra esercizio dell’azione penale e status di imputato,<br />
che, pur non implicando seri inconvenienti pratici, non pare giustificabile(<br />
76 ) neppure nell’ottica di evitare che l’offeso con il ricorso ex art. 20<br />
d. lgs. n. 274 del 2000 «po[ssa] ‘disporre’ di un simile potere ‘definitorio’<br />
... costitutivo di status processuale nei confronti dell’asserito offensore»(<br />
77 ). Infatti, lo status in questione si sarebbe dovuto comunque ricollegare<br />
al momento dell’elevazione dell’imputazione formulata dal pubblico<br />
ministero ai sensi dell’art. 25 comma 2 d. lgs. in esame.<br />
Andrea Paolo Casati<br />
nuncia al controllo sulla notitia da parte dell’organo pubblico d’accusa» (Relazione al d. lgs.<br />
28 agosto 2000 n. 274, cit., p. 49).<br />
( 74 ) P. Bronzo, sub art. 3 d.lgs. n. 28 agosto 2000, n. 274, inCodice di procedura penale<br />
commentato, a cura di A. Giarda-G. Spangher, II, cit., p. 2686.<br />
( 75 ) E. Marzaduri, Azione: IV) diritto processuale penale, cit., p. 2, e G. Ubertis,<br />
Azione: II) Azione penale, cit., p. 2. In giurisprudenza, cfr. Cass., sez. VI, 19 ottobre<br />
1990, Sica, in Foro it., 1991, II, c. 516 ss., secondo la quale l’esercizio dell’azione matura<br />
con la formazione dell’atto relativo e non con il suo deposito o con la notificazione.<br />
( 76 ) Secondo E. Marzaduri, sub art. 3, cit., p. 61, quanto al contrasto col principio<br />
espresso negli art. 60 e 405 c.p.p., «l’indicazione della citazione a giudizio e del decreto di<br />
convocazione delle parti come provvedimenti costitutivi dello status di imputato si giustifica<br />
nella misura in cui la scelta recepita nel codice forniva una soluzione non sempre utilizzabile<br />
nel procedimento de quo o perché l’imputazione del pubblico ministero può assumere una<br />
rilevanza esterna in un atto della polizia giudiziaria o perché l’imputazione può essere formulata<br />
dal giudice». Tale soluzione interpretativa, laddove si riferisce alla possibilità di utilizzare<br />
la regola codicistica ‘‘ordinaria’’ per individuare il momento di assunzione della qualità di<br />
imputato, a seconda della rilevanza meramente interna o esterna (ossia, in un atto della polizia<br />
giudiziaria) dell’imputazione formulata dal pubblico ministero, pare possa ritenersi oramai<br />
superata dal recente provvedimento legislativo esaminato, che ha eliminato la citazione<br />
della polizia giudiziaria; in relazione, invece, al subprocedimento attivato col ricorso, la tesi<br />
stessa non pare convincente perché ritiene che la regola di cui all’art. 60 e 405 c.p.p. varrebbe,<br />
se non si intende male, nei casi in cui sia il pubblico ministero e non il giudice a esercitare<br />
l’azione penale: in realtà, come si è argomentato nel testo, l’esercizio dell’azione penale, anche<br />
nel rito penale di pace, è riservata in via esclusiva all’attore pubblico.<br />
( 77 ) R. Orlandi, I soggetti, inIl giudice di pace nella giurisdizione penale, cit., p. 90;<br />
nello stesso senso E. Aghina – P. Picciali, Il Giudice di pace penale, cit., p. 39.
GIURISPRUDENZA COMMENTATA<br />
427<br />
Giurisprudenza: note, commenti, rassegne<br />
Corte europea dei diritti dell’uomo, sez. III, sent. 13 ottobre 2005<br />
Pres. Zupancic – Bracci c. Italia<br />
Ai sensi dell’art. 6 commi 1 e 3 lett. d Conv. eur. dir. uomo, all’accusato<br />
va concessa un’occasione adeguata e sufficiente di contestare una testimonianza<br />
a carico e di interrogarne l’autore, al momento della deposizione o successivamente.<br />
Il diritto di difesa è ristretto in modo incompatibile con le garanzie<br />
assicurate da tale norma, allorché una condanna si fondi, esclusivamente<br />
o in misura determinante, sulle dichiarazioni rese da una persona<br />
che l’accusato non ha potuto interrogare o far interrogare nel corso delle indagini<br />
preliminari o durante il dibattimento. (Nella specie, i giudici nazionali<br />
avevano condannato l’imputato per due episodi distinti di violenza sessuale,<br />
sulla base della lettura ex art. 512 c.p.p. delle sommarie informazioni rilasciate<br />
alla polizia giudiziaria dalle vittime, due donne straniere divenute irreperibili<br />
al momento del giudizio. In un caso, la Corte europea ha escluso la<br />
violazione dell’art. 6 commi 1 e 3 lett. d Conv. eur. dir. uomo, perché le dichiarazioni<br />
lette nel dibattimento non erano risultate determinanti ai fini<br />
della condanna. Nell’altro, viceversa, ha concluso per la violazione del dettato<br />
convenzionale, dato che la sentenza di condanna si era fondata esclusivamente<br />
sulle dichiarazioni assunte senza contraddittorio durante le indagini<br />
preliminari) (1).<br />
(1) Lettura di atti assunti senza contraddittorio e giusto processo.<br />
Sommario: 1. Considerazioni preliminari. – 2. Ancora ‘‘falle’’ nel sistema delle letture.<br />
– 3. Caso Bracci e art. 6 commi 1 e 3 lett. d Conv.eur.dir.uomo.–4.Carenze<br />
strutturali: l’art. 111 comma 5 Cost. – 5. Segue: gli art. 512 e 526 comma 1-bis<br />
c.p.p.–6.Esigenzediriforma.–7.Illegittimitàcostituzionale (non solo) dell’art.<br />
512 c.p.p.<br />
1. Considerazioni preliminari. – Letture e contestazioni costituiscono, da sempre,<br />
la cartina di tornasole per cogliere gli equilibri tra le diverse fasi procedimentali: lo<br />
erano nel passato, dove mancavano rigorose regole di esclusione probatoria, tanto<br />
che l’intero processo poteva essere rappresentato come una linea continua che dall’in-
428<br />
GIURISPRUDENZA COMMENTATA<br />
chiesta preliminare andava al dibattimento( 1 ), «vuoto, coreografico e inutile rituale»( 2 );<br />
lo sono anche nel codice del 1988, come dimostra la svolta in senso inquisitorio realizzata<br />
da quelle riforme che, in nome del cosiddetto ‘‘principio’’ di non dispersione probatoria(<br />
3 ), avevano consentito l’impiego dibattimentale di gran parte delle informazioni<br />
raccolte dagli organi inquirenti nel corso delle indagini preliminari( 4 ); lo sono, a maggior<br />
ragione, attualmente, alla luce della modifica dell’art. 111 Cost. in tema di giusto<br />
processo, e degli art. 6 commi 1 e 3 lett. d Conv. eur. dir. uomo e 14 commi 1 e 3 lett. e<br />
Patto intern. dir. civ. pol.<br />
Riecheggiando tali norme( 5 ), l’art. 111 Cost. dispone che l’accusato ha il diritto<br />
d’«interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico»<br />
(comma 3); si aggiunge, quindi, che «il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio<br />
nella formazione della prova» e che, comunque, non è possibile provare la<br />
colpevolezza dell’imputato «sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è<br />
sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio» da parte della difesa (comma 4);<br />
chiudono il cerchio le fattispecie del contraddittorio «implicito», «impossibile» e «inquinato»<br />
(comma 5)( 6 ).<br />
Dal canto loro, i precetti sovranazionali già rappresentavano il parametro a cui il<br />
( 1 ) Cfr. F. Carnelutti, Verso la riforma del processo penale, Napoli, Morano, 1963, p.<br />
18; F. Cordero, Scrittura e oralità, inId., Tre studi sulle prove penali, Milano, Giuffrè,<br />
1963, p. 203; G. Foschini, Il «dar per letto» (ficta lectio) (1968), in Id., Tornare alla giurisdizione.<br />
Saggi critici, Milano, Giuffrè, 1971, p. 384.<br />
( 2 ) G. Foschini, La giustizia sotto l’albero e i diritti dell’uomo (1963), in Id., Tornare<br />
alla giurisdizione. Saggi critici, cit., p. 46.<br />
( 3 ) Elaborato dal giudice delle leggi (cfr. C. cost., sent. 3 giugno n. 255, in Giur. cost.,<br />
1992, spec. p. 1967-1968; C. cost., sent. 3 giugno n. 254, ivi, 1992, spec. p. 1941; C. cost., 31<br />
gennaio 1992 n. 24, ivi, 1992, spec. p. 1249-1250), ma poi dallo stesso abbandonato (cfr., ad<br />
esempio, C. cost., ord. 26 febbraio 2002 n. 36, ivi, 2002, p. 320 ss., con note di G. Spangher,<br />
I precedenti investigativi discordanti al primo vaglio del «giusto processo», ediS. Buzzelli,<br />
Contraddittorio e contestazioni nell’esame testimoniale: una sbrigativa ordinanza della<br />
Corte costituzionale; C. cost., sent. 25 ottobre 2000 n. 440, ivi, 2000, spec. p. 3307).<br />
( 4 ) Per un’analisi della giurisprudenza costituzionale, nonché delle interpolazioni del<br />
codice che hanno profondamente inciso sui rapporti tra indagini preliminari e dibattimento,<br />
cfr. O. Dominioni, Oralità, contraddittorio e principio di non dispersione della prova, inIl<br />
giusto processo, Milano, Giuffrè, 1998, p. 79 ss.; P. Ferrua, Declino del contraddittorio e garantismo<br />
reattivo: la difficile ricerca di nuovi equilibri processuali (1995), in Id., Studi sul processo<br />
penale, III, Declino del contraddittorio e garantismo reattivo, Torino, Giappichelli, 1997,<br />
p. 39 ss.; G.P. Voena, Investigazioni ed indagini preliminari, inDig. disc. pen., VII, Torino,<br />
Utet, 1993, p. 267 ss.<br />
( 5 ) Mediante una sorta di «costituzionalizzazione delle garanzie processuali» così come<br />
contemplate dagli Atti internazionali sui diritti umani (al riguardo, cfr. M. Cecchetti, Giusto<br />
processo a) Diritto costituzionale, inEnc. dir., Agg., V, Milano, Giuffrè, 2002, p. 601; M.<br />
Chiavario, Il diritto al contraddittorio nell’art. 111 Cost. e nell’attuazione legislativa, inIl<br />
contraddittorio tra Costituzione e legge ordinaria, Milano, Giuffrè, 2002, p. 28; E. Marzaduri,<br />
La riforma dell’art. 111 Cost., tra spinte contingenti e ricerca di un modello costituzionale<br />
del processo penale, inLeg. pen., 2000, p. 759).<br />
( 6 ) Le espressioni sono impiegate da G. Ubertis, Sistema di procedura penale, I,Principi<br />
generali, Torino, Utet, 2004, p. 153 ss., per descrivere rispettivamente le deroghe al contraddittorio<br />
nella formazione della prova per «consenso dell’imputato ... per accertata im-
GIURISPRUDENZA COMMENTATA<br />
429<br />
legislatore del 1988 si sarebbe dovuto adeguare nell’elaborazione del codice di rito, ai<br />
sensi dell’art. 2 comma 1 legge-delega c.p.p.( 7 ); oggi, inoltre, il loro rispetto andrebbe<br />
garantito anche in forza dell’art. 117 Cost.( 8 ). Né si può omettere di rammentare i numerosi<br />
altri impegni assunti a livello europeo dal nostro Stato con riferimento alle regole<br />
del giusto processo. Basti pensare alla parte finale del Preambolo della Carta di<br />
Nizza( 9 ) che chiede l’osservanza dei diritti fondamentali della Convenzione europea<br />
dei diritti dell’uomo, come riconosciuti dalla giurisprudenza dei giudici di Strasburgo;<br />
oppure alle risoluzioni del Consiglio dell’Unione europea dirette ad apprestare «sistemi<br />
protettivi per l’audizione di testimoni e collaboratori in linea, non con un generico criterio<br />
del contraddittorio, ma con il ‘principio ... quale interpretato dalla giurisprudenza’<br />
della Corte europea dei diritti dell’uomo»( 10 ).<br />
possibilità di natura oggettiva ... per effetto di provata condotta illecita» di cui al comma 5<br />
dell’art. 111 Cost.<br />
Secondo S. Buzzelli, Giusto processo, inDig. disc. pen., Agg., II, Torino, Utet, 2004,<br />
p. 355, «il costituente italiano, integrando l’art. 111 Cost., si è spinto oltre la difettosa replica<br />
della norma pattizia; ha così allestito per il settore probatorio, un impianto disordinato ... di<br />
certo prolisso: purtroppo, l’esuberanza dei giochi linguistici, quando non è ben controllata,<br />
si rivela controproducente. Regna lo scarso coordinamento, anche se all’apparenza la struttura<br />
formale è abbastanza consueta e vicina allo schema del compromesso: a grandi linee,<br />
una volta enunciato il principio, seguono le evenienze in cui al medesimo principio l’ordinamento<br />
concede di deviare».<br />
( 7 ) Al riguardo, cfr., per tutti, M. Chiavario, La riforma del processo penale. Appunti<br />
sul nuovo codice, II ed. ampl. e agg., Torino, Utet, 1990, p. 24-26.<br />
( 8 ) Sul vivace dibattito suscitato dalla modifica dell’art. 117 Cost. (a opera della l. cost.<br />
18 ottobre 2001 n. 3) che, ora, sottopone la potestà legislativa statale non solo al rispetto<br />
della Costituzione, ma anche ai «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi<br />
internazionali», cfr. R. Bin, Le potestà legislative regionali, dalla Bassanini ad oggi, in<br />
Reg., 2001, p. 620-621; G.F. Ferrari, Il primo comma dell’art. 117 della Costituzione e la<br />
tutela internazionale dei diritti, inDir. pubbl. com. eur., 2002, p. 1849 ss.; M.A. Sandulli,<br />
Due aspetti della recente riforma del titolo V della Costituzione, inRass. parl., 2001, spec. p.<br />
950.<br />
Per il richiamo all’art. 117 Cost. proprio con riguardo agli Atti internazionali sui diritti<br />
dell’uomo, cfr. G. Ubertis, Sistema di procedura penale, I,Principi generali, cit., p. 31-32.<br />
( 9 ) Come ricorda M.G. Coppetta, Verso un processo penale europeo?, inProfili del<br />
processo penale nella Costituzione europea, a cura di M.G. Coppetta, Torino, Giappichelli,<br />
2005, p. 18, «la Carta ha carattere ricognitivo, è lo strumento di codificazione dei principi<br />
generali appartenenti all’acquis comunitario».<br />
( 10 ) S. Buzzelli, Il mandato d’arresto europeo e le garanzie costituzionali sul piano processuale,<br />
inIl mandato d’arresto europeo, a cura di M. Bargis – E. Selvaggi, Torino, Giappichelli,<br />
2005, p. 83, la quale richiama la Risoluzione del Consiglio dell’Unione europea del 23<br />
novembre 1995 attinente alla protezione dei testimoni nella lotta contro la criminalità internazionale<br />
e la Risoluzione del 20 dicembre 1996 relativa ai collaboratori di giustizia nella lotta<br />
contro la criminalità organizzata internazionale (consultabili in S. Buzzelli – O. Mazza,<br />
Codice di procedura penale europea, Milano, Cortina, 2005, p. 860-863).<br />
Cfr. altresì la Raccomandazione (97) 13 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa<br />
sull’intimidazione dei testimoni e i diritti della difesa, nonché la Raccomandazione<br />
(2005) 9 sulla protezione dei testimoni e dei collaboratori di giustizia (reperibili entrambe<br />
sempre in S. Buzzelli – O. Mazza, Codice di procedura penale europea, cit., p. 1084 e<br />
1093).
430<br />
GIURISPRUDENZA COMMENTATA<br />
In proposito, ancora di recente, i giudici europei hanno ribadito che, normalmente,<br />
va assicurato all’accusato il diritto di «confrontarsi con i testimoni alla presenza<br />
del giudice» investito della controversia: «siffatta regola è una garanzia poiché le osservazioni<br />
dell’organo giudicante, per ciò che concerne il comportamento e la credibilità<br />
d’un testimone, possono avere delle conseguenze per [lo stesso] imputato»( 11 ). Nondimeno,<br />
a determinate condizioni, è permesso il recupero nel dibattimento di quanto formato<br />
in una fase precedente, purché «la procedura, esaminata nel suo insieme, ivi compreso<br />
il modo di presentare [i] mezzi di prova, rivest[a comunque] un carattere<br />
equo»( 12 ).<br />
2. Ancora ‘‘falle’’ nel sistema delle letture. – Dopo la riforma dell’art. 111 Cost. e la<br />
conseguente modifica del codice di rito a opera della l. 1º marzo 2001 n. 63, è maturata<br />
l’idea che, in tema di contraddittorio, il nostro Stato non solo si sia adeguato, ma addirittura<br />
sia andato oltre gli standard minimi richiesti dagli Atti internazionali sui diritti<br />
dell’uomo e processo penale.<br />
Invitato dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa a comunicare i rimedi<br />
adottati dopo la condanna subita nel caso Craxi( 13 ), il Governo ha affermato che l’interpolato<br />
art. 111 Cost. e la successiva l. n. 63 del 2001 sono misure idonee a impedire<br />
ulteriori violazioni del contraddittorio da parte dell’Italia ( 14 ). La dottrina, a sua volta,<br />
ha scritto che il nostro Paese dispone ora d’«un regime ... più rigido di quello che si<br />
sarebbe potuto desumere da una semplice trasposizione dell’insieme di massime che<br />
la Corte europea dei diritti dell’uomo è giunta a elaborare sulla base del combinato disposto»<br />
dei commi 1 e 3 lett. d dell’art. 6 Conv. eur. dir. uomo( 15 ).<br />
( 11 ) Così, C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 10 maggio 2005, Graviano c. Italia, § 38<br />
(traduzione nostra), la quale sembra rimarcare che il metodo dialettico, oltre a essere una<br />
garanzia per la difesa, è funzionale all’esercizio della stessa giurisdizione (questa e le altre sentenze<br />
citate nel presente lavoro sono reperibili anche sul sito www.echr.coe.int).<br />
( 12 ) C. eur. dir. uomo, sent. 26 aprile 1991, Asch c. Austria, in Riv. inter. dir. uomo,<br />
1991, p. 803-804; v., inoltre, C. eur. dir. uomo, sent. 23 aprile 1997, Van Mechelen e altri<br />
c. Paesi Bassi, in Recueil des arrêts et decisions, 1997, p. 711; C. eur. dir. uomo, sent. 26 marzo<br />
1996, Doorson c. Paesi Bassi, ivi, 1996, p. 470.<br />
( 13 ) Cfr. C. eur. dir. uomo, sent. 5 dicembre 2002, Craxi c. Italia, in Riv. it. dir. proc.<br />
pen., 2003, spec. p. 1442-1444.<br />
( 14 ) Cfr. l’appendice alla Risoluzione ResDH (2005) 28, adottata il 5 marzo 2003 (e<br />
consultabile sul sito www.coe.int), nella quale il nostro Stato si è difeso di fronte al Comitato<br />
dei ministri, asserendo che «[a]s a result of these measures, it is no longer possible that a<br />
person is convicted exclusively on the basis of statements that he/she could non examine<br />
or have examined».<br />
( 15 ) M. Chiavario, Giusto processo II) processo penale, inEnc. giur. Treccani, XV,<br />
Agg., Roma, 2001, p. 18, il quale osserva che i giudici di Strasburgo «abitualmente» si accollano<br />
«il compito di verificare se e in qual misura la prova assunta senza contraddittorio» abbia<br />
«dispiegato un’influenza sulla decisione finale ... ‘principalmente o esclusivamente’» (cfr.<br />
altresì infra, § 3), mentre con «la riforma costituzionale del 1999 – e con la sua trasposizione<br />
nella normativa ordinaria – si è voluto andare più in là, in quanto alla sua stregua non sembra<br />
legittimarsi alcun bilanciamento di ‘peso’ della dichiarazione resa senza contraddittorio,<br />
escludendone tout court ogni possibile rilevanza tra i fondamenti di una condanna». V., inoltre,<br />
A. Tamietti, Il diritto dell’imputato ad esaminare o far esaminare i testimoni a carico tra<br />
Convenzione europea e diritto interno, inCass. pen., 2003, p. 1091, per il quale «a seguito
GIURISPRUDENZA COMMENTATA<br />
431<br />
Tali opinioni appaiono condivisibili se riferite alla rinnovata disciplina delle contestazioni(<br />
16 ), o a quelle situazioni in cui risulta interdetto il recupero dibattimentale<br />
delle dichiarazioni rese nelle indagini preliminari da chi abbia esercitato legittimamente<br />
il diritto d’astenersi dal deporre (impossibilità soggettiva)( 17 ). Sono, invece, meno persuasive<br />
allorché l’impossibilità d’ottenere l’escussione dibattimentale della fonte di<br />
prova dipenda da motivi esterni alla volontà del dichiarante (impossibilità oggettiva).<br />
In linea apparente( 18 ) con l’art. 111 comma 5 Cost., l’art. 512 c.p.p. continua a<br />
consentire la lettura delle dichiarazioni, formate dalle parti prima e al di fuori del dibattimento<br />
che, per eventi accidentali, non siano ripetibili( 19 ). Eppure, se si considerano le<br />
ragioni di fondo che hanno condotto alle modifiche legislative costituzionali e ordinarie,<br />
della modifica dell’art. 111 della Costituzione ... non potrebbe presumibilmente più verificarsi<br />
oggigiorno» una condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo<br />
per violazione del contraddittorio.<br />
( 16 ) Per C. eur. dir. uomo, sez. II, dec. 16 marzo 2000, Camilleri c. Malta (una cui parziale<br />
traduzione è leggibile in Cass. pen., 2000, p. 3168-3169), non viola l’art. 6 commi 1 e 3<br />
lett. d Conv. eur. dir. uomo la circostanza che l’autorità giudiziaria impieghi in sentenza una<br />
dichiarazione resa nella fase precedente al giudizio difforme da quella rilasciata nel dibattimento:<br />
a suo avviso, lo svolgimento del controesame dinanzi all’organo giudicante costituisce,<br />
di per sé, un’occasione adeguata affinché la difesa possa mettere in discussione la credibilità<br />
della fonte di prova. Più rigorosamente, la l. n. 63 del 2001 ha, invece, rinserrato<br />
le maglie d’esclusione probatoria di cui all’art. 500 c.p.p., con il risultato che, ora, le contestazioni<br />
non si traducono più in un «meccanismo di acquisizione illimitato e incondizionato»<br />
(C. cost., ord. 26 febbraio 2002 n. 36, cit., p. 325) di quanto formato senza contraddittorio,<br />
ma sono funzionali, in linea di principio, a vagliare la sola affidabilità della fonte e/o del mezzo<br />
di prova sottoposto all’attenzione del giudice (da ultimo, in argomento, cfr. P. Ferrua, Il<br />
‘giusto processo’, Bologna, Zanichelli, 2005, p. 106 ss.).<br />
( 17 ) Come si verifica per i prossimi congiunti o per gli imputati di reato connesso ex<br />
art. 210 c.p.p.<br />
Per i primi, facendo leva sull’impossibilità di natura oggettiva ex art. 111 comma 5<br />
Cost., C. cost., sent. 25 ottobre 2000 n. 440, cit., spec. p. 3307-3308, ha escluso la lettura<br />
delle loro dichiarazioni, qualora nel dibattimento si siano avvalsi della facoltà di non deporre:<br />
è stato così ribaltato quanto deciso precedentemente da C. cost., sent. 16 maggio 1994 n.<br />
179, in Giur. cost., 1994, p. 1593-1594 (nell’ottica della Convenzione europea, cfr., per tutte,<br />
C. eur. dir. uomo, sent. 24 novembre 1986, Unterpertinger c. Austria, § 30 ss.).<br />
In ordine ai secondi, la l. n. 63 del 2001 ha ritoccato l’art. 513 c.p.p. – in un contesto di<br />
complessiva rivisitazione della materia, realizzata con l’introduzione dell’inedita figura dell’imputato-testimone<br />
(cfr., al riguardo, G. Di Chiara, Dichiarazioni erga alios e letture acquisitive:<br />
i meccanismi di recupero del sapere preacquisito dall’imputato in procedimento connesso,<br />
inIl giusto processo tra contraddittorio e diritto al silenzio, a cura di R.E. Kostoris, Torino,<br />
Giappichelli, 2002, p. 25 ss.) –, rimediando, in parte (cfr. infra, § 6 e nota 54), alle<br />
violazioni del contraddittorio ravvisate da C. eur. dir. uomo, sent. 5 dicembre 2002, Craxi<br />
c. Italia, cit., p. 1444, quanto al mancato esame di correi che si erano avvalsi della facoltà<br />
di non rispondere nel corso del giudizio.<br />
( 18 ) Cfr., infatti, infra, §7.<br />
( 19 ) E lo stesso vale, da un lato, per le letture ex art. 512-bis e 513 comma 2 secondo<br />
periodo c.p.p.; dall’altro, per l’impiego dei verbali di prova formati aliunde, ai sensi dell’art.<br />
238 comma 3 c.p.p., risultando inutile richiamare in proposito l’art. 511-bis primo periodo<br />
c.p.p., considerata la superfluità di tale norma ai fini dell’utilizzabilità nel processo ad quem<br />
di atti raccolti in altra sede: l’art. 511-bis primo periodo c.p.p., infatti, disciplina la lettura di
432<br />
GIURISPRUDENZA COMMENTATA<br />
la mancata revisione del precetto in questione lascia francamente sorpresi( 20 ). Non solo<br />
la norma de qua, grazie a prassi devianti, assicura al processo di tutto, senza alcun distinguo,<br />
secondo schemi che dovrebbero ormai essere desueti( 21 ). V’è di più: finché<br />
sarà «la legge stessa» ad attribuire un’«efficacia giuridica alle pagine della scritta procedura,<br />
come ... nel caso di testimoni morti od irreperibili», il materiale formato in difetto<br />
di contraddittorio graverà sempre sul «definitivo giudizio» e l’indagine non sarà<br />
mai una «semplice informativa» ( 22 ). Maggiore, inoltre, sarà il rischio d’inottemperanza<br />
dello Stato agli obblighi provenienti dalle fonti internazionalistiche: i principi elaborati<br />
della Corte europea dei diritti dell’uomo sull’art. 6 commi 1 e 3 lett. d Conv. eur. dir.<br />
uomo e il caso Bracci in commento lo confermano.<br />
3. Caso Bracci e art. 6 commi 1 e 3 lett. d Conv. eur. dir. uomo. – Per ‘‘consolidata’’<br />
giurisprudenza, è risaputo che, ad avviso dei giudici europei, gli «elementi di prova devono<br />
normalmente essere prodotti davanti all’imputato» in un’«udienza pubblica» e in<br />
«contraddittorio» ( 23 ). La suddetta regola, però, non va esente da eccezioni( 24 ). La let-<br />
quanto già acquisito al giudizio come prova documentale (cfr., al riguardo, C. Squassoni,<br />
sub art. 238, inCommento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario,<br />
II, Torino, Utet, 1990, spec. p. 660, per la quale l’applicazione dell’art. 238 comma 3 c.p.p.<br />
«consente, senza meccanismi alternativi, l’utilizzo pleno iure nel processo ad quem» dell’atto<br />
formato in altro procedimento; va rilevato tuttavia che è emerso in dottrina l’orientamento<br />
secondo cui l’acquisizione dei verbali in questione sarebbe subordinata alla loro lettura ex<br />
art. 511-bis c.p.p., in quanto tali atti «pur costituendo materiale extra-costituito provengono<br />
da un contesto processuale»: così, N. Rombi, La circolazione delle prove penali, Padova, <strong>Cedam</strong>,<br />
2003, p. 107; v., inoltre, M. Bargis, Le dichiarazioni di persone imputate in un procedimento<br />
connesso. Ipotesi tipiche e modi di utilizzabilità, Milano, Giuffrè, 1994, p. 172; G.<br />
Illuminati, Ammissione e acquisizione della prova nell’istruzione dibattimentale,inLa prova<br />
nel dibattimento penale, Torino, Giappichelli, 1999, p. 113).<br />
( 20 ) Forse, una spiegazione può consistere nel fatto che, tradizionalmente, il tema del<br />
recupero dibattimentale dei risultati dell’indagine preliminare viene affrontato più nella prospettiva<br />
dell’oralità (cfr., ad esempio, M. Vogliotti, Al di là delle dicotomie: ibridismo e<br />
flessibilità del metodo di ricostruzione del fatto nella giustizia penale internazionale, inRiv.<br />
it. dir. proc. pen., 2003, p. 318 ss.) che alla luce di ciò che «favorisce in maggior misura la<br />
coesione del metodo dialettico: il contraddittorio» (S. Buzzelli, Le letture dibattimentali,<br />
in Trattato di procedura penale, diretto da G. Ubertis e G.P. Voena, XXXIII.2, Milano, Giuffrè,<br />
2000, p. 61).<br />
( 21 ) Sull’interpretazione elastica del concetto d’irripetibilità da parte della giurisprudenza,<br />
nonché in ordine alle novelle che hanno dilatato la classe degli atti leggibili a norma<br />
dell’art. 512 c.p.p., v., tra gli altri, S. Buzzelli, Le letture dibattimentali, cit., p. 89 ss.; C.<br />
Cesari, L’irripetibilità sopravvenuta degli atti di indagine, Milano, Giuffrè, 1999, p. 215 ss.<br />
( 22 ) Per questa e per le precedenti citazioni, cfr. F. Carrara, Il diritto penale e la procedura<br />
penale (1873-1874), in Opuscoli, V, Firenze, Casa editrice libraria ‘‘Fratelli Cammelli’’,<br />
1903, p. 40.<br />
( 23 ) C. eur. dir. uomo, sent. 26 aprile 1991, Asch c. Austria, cit., p. 804; v. anche, tra le<br />
altre, C. eur. dir. uomo, sent. 14 dicembre 1999, A.M. c. Italia, in Cass. pen., 2000, p. 2484;<br />
C. eur. dir. uomo, sent. 19 febbraio 1991, Isgrò c. Italia, in Riv. inter. dir. uomo, 1991, p.<br />
516.<br />
( 24 ) Per una rassegna delle ipotesi in cui la Corte europea ha bilanciato il principio del<br />
contraddittorio con altri valori potenzialmente in conflitto (quali, ad esempio, il diritto al silenzio,<br />
la tutela dei testimoni minorenni, ecc.), cfr. S. Buzzelli, Le letture dibattimentali,
GIURISPRUDENZA COMMENTATA<br />
433<br />
tura di deposizioni risalenti alle fasi preliminari del processo è compatibile con la Convenzione<br />
europea, qualora si riveli «impossibile» l’esame del teste «in aula e in pubblico»,<br />
purché nei limiti del rispetto del diritto di difesa( 25 ). Più specificamente, l’art.<br />
6 commi 1 e 3 lett. d Conv. eur. dir. uomo impone un nucleo intangibile di garanzie<br />
difensive, che, nel linguaggio della Corte, si traduce nella concessione all’accusato d’una<br />
«occasione adeguata e sufficiente [per] contestare una testimonianza a carico e [per]<br />
interrogarne l’autore, al momento della deposizione o successivamente» ( 26 ). Ne segue<br />
che il diritto di difesa sarebbe violato se una condanna si fondasse, unicamente o in misura<br />
determinante, su dichiarazioni rese da soggetti che l’imputato non ha potuto interrogare<br />
o far interrogare durante le indagini preliminari o nel dibattimento( 27 ).<br />
Nella vicenda Bracci, il ricorrente era stato condannato dal Tribunale di Roma per<br />
due episodi distinti di violenza sessuale, commessi nei confronti di due prostitute straniere,<br />
X e Y, che la difesa non aveva mai esaminato, perché irreperibili, e le cui dichiarazioni<br />
erano state lette, a norma dell’art. 512 c.p.p. In un caso, la sentenza del giudice<br />
nazionale si basava, oltre che sulle sommarie informazioni rese da X, anche su altre<br />
prove, quali la corrispondenza fra l’automobile condotta dall’aggressore e quella descritta<br />
dalla vittima, la testimonianza d’un poliziotto che aveva soccorso la donna,<br />
nonché il sequestro d’un coltello all’interno della vettura. Di qui, non risultando determinante<br />
la deposizione di X, la Corte europea ha escluso che la violazione del contraddittorio<br />
da parte del Tribunale di Roma comportasse una lesione del dettato convenzionale.<br />
In merito al secondo episodio, viceversa, il giudice europeo ha reputato violato<br />
l’art. 6 commi 1 e 3 lett. d Conv. eur. dir. uomo: dato che la condanna si fondava esclusivamente<br />
sulle dichiarazioni rilasciate da Y prima del processo, il ricorrente non aveva<br />
beneficiato d’un momento adeguato per ribattere alle affermazioni a carico.<br />
Anche nella presente occasione, dunque, i giudici di Strasburgo hanno ribadito<br />
che, affinché un processo nel suo complesso possa avere carattere equo, è indispensabile<br />
assicurare al prevenuto che, prima d’essere giudicato, «possa guardare negli occhi»<br />
chi rende dichiarazioni a suo carico poi impiegate in modo determinante per decidere, e<br />
possa contestargli le affermazioni rilasciate prima del processo. La Corte europea «non<br />
arriva a pretendere che dal contraddittorio emerga l’elemento di prova impiegato dal<br />
giudice nel suo provvedimento, ma esige come requisito minimo che la fonte di prova<br />
determinante utilizzata in sentenza sia comunque inserita nel circuito del contraddittorio:<br />
esige, cioè, un contraddittorio almeno differito sulla fonte di prova»( 28 ).<br />
cit., p. 99 ss.; C. Cesari, Prova irripetibile e contraddittorio nella Convenzione europea dei<br />
diritti dell’uomo, inRiv. it. dir. proc. pen., 2003, p. 1448 ss.; G. Ubertis, Principi di procedura<br />
penale europea. Le regole del giusto processo, Milano, Cortina, 2000, p. 57 ss.<br />
( 25 ) C. eur. dir. uomo, sent. 26 aprile 1991, Asch c. Austria, cit., p. 804.<br />
( 26 ) C. eur. dir. uomo, sent. 20 novembre 1989, Kostovski c. Paesi Bassi, in Riv. inter.<br />
dir. uomo, 1990, p. 112; v., ancora, C. eur. dir. uomo, sez. IV, dec. 18 ottobre 2001, N.F.B. c.<br />
Germania, in Recueil des arrêts et decisions, 2001, p. 315; C. eur. dir. uomo, sent. 6 dicembre<br />
1988, Barberá, Messegué e Jabardo c. Spagna, in Riv. inter. dir. uomo, 1989, p. 120.<br />
( 27 ) Cfr., fra le molte, C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 27 febbraio 2001, Lucà c. Italia, in<br />
Recueil des arrêts et decisions, 2001, p. 156-157; C. eur. dir. uomo, sent. 7 agosto 1996, Ferrantelli<br />
e Santangelo c. Italia, ivi, 1996, p. 950-951; C. eur. dir. uomo, sent. 28 agosto 1992,<br />
Artner c. Austria, in Riv. inter. dir. uomo, 1992, p. 1047-1048.<br />
( 28 ) Per questa e la precedente citazione, cfr. G. Ubertis, Principi di procedura penale<br />
europea. Le regole del giusto processo, cit., p. 59.
434<br />
GIURISPRUDENZA COMMENTATA<br />
4. Carenze strutturali: l’art. 111 comma 5 Cost. – A questo punto, occorre chiedersi<br />
se l’ennesima condanna subita dall’Italia costituisca un episodio isolato, dovuto<br />
al modo in cui si è sviluppata la vicenda in concreto ( 29 ), oppure se sia la conseguenza<br />
d’un assetto normativo che, nonostante le riforme in materia di contraddittorio, sia al<br />
di sotto dei requisiti minimi richiesti dall’art. 6 commi 1 e 3 lett. d Conv. eur. dir.<br />
uomo ( 30 ).<br />
In proposito, va osservato che l’«accertata impossibilità» di derogare al contraddittorio<br />
per la prova di cui all’art. 111 comma 5 Cost., almeno a prima vista( 31 ), pare<br />
confermare la seconda impressione. Come è avvenuto per i procedimenti speciali e per<br />
il contraddittorio implicito( 32 ), anche in tale situazione il precetto costituzionale sembra<br />
aver fotografato la disciplina codicistica esistente in tema letture. Anzi, diversamente<br />
dall’art. 512 c.p.p., il comma 5 dell’art. 111 Cost. neppure menziona il requisito dell’imprevedibilità(<br />
33 ), limitandosi a offrire una copertura costituzionale ai casi in cui «risulti<br />
in concreto impossibile realizzare» forme di contraddittorio forte «per cause indipendenti<br />
dalla volontà delle parti ... o dei soggetti fonti di prova (si pensi alle classiche ipotesi<br />
della morte, della infermità o della irreperibilità degli stessi)»( 34 ).<br />
Così, il legislatore costituzionale pare aver scelto il «male minore», per «ragionevoli<br />
esigenze di stretta necessità»( 35 ), perché un «processo fondato sul contraddittorio<br />
può ammettere che, quando divenga impossibile assumere la testimonianza nel giu-<br />
( 29 ) Come rammenta M. Chiavario, Giusto processo II) processo penale, cit., p. 4, nelle<br />
«fonti internazionali si configura» a favore dell’accusato «il diritto a ‘un’ ... processo caratterizzato<br />
in modo da risultare ‘giusto’ ... dove specialmente la versione inglese del testo<br />
... lascia chiaramente intendere che non si ha affatto in mente una restrizione di portata della<br />
norma ... ma piuttosto ci si apre a una possibile varietà di schemi e di modelli processuali,<br />
tutti da valutare comunque, sempre, nella loro realizzazione concreta in rapporto alla singola<br />
vicenda processuale».<br />
( 30 ) Per M. Vogliotti, La logica floue della Corte europea dei diritti dell’uomo tra tutela<br />
del testimone e salvaguardia del contraddittorio: il caso delle «testimonianze anonime», in<br />
Giur. it., 1998, c. 859, dalla giurisprudenza della Corte europea emerge «un filo rosso che<br />
lega ... tutte [le] decisioni» su un certo principio, così che i criteri da essa enucleati, «oltre<br />
a rappresentare l’impalcatura logico-argomentativa dei casi già decisi, offrono una base su<br />
cui costruire le future sentenze».<br />
( 31 ) Cfr. infra, §7.<br />
( 32 ) Cfr., per tutti, E. Marzaduri, La riforma dell’art. 111 Cost., tra spinte contingenti<br />
e ricerca di un modello costituzionale del processo penale, cit., p. 799.<br />
( 33 ) Cfr., tra gli altri, C. Cesari, ‘‘Giusto processo’’, contraddittorio ed irripetibilità degli<br />
atti di indagine, inRiv. it. dir. proc. pen., 2001, p. 62 ss.; G. Giostra, Contraddittorio<br />
(principio del) II) diritto processuale penale, inEnc. giur. Treccani, VIII, Agg., Roma, 2001,<br />
p. 8; D. Siracusano, Prova III) nel nuovo codice di procedura penale, ivi, XXV, Agg., Roma,<br />
2003, p. 8.<br />
( 34 ) Nei presenti termini, V. Grevi, Dichiarazioni dell’imputato sul fatto altrui, diritto<br />
al silenzio e garanzia del contraddittorio (1999), in Id., Alla ricerca di un processo penale «giusto».<br />
Itinerari e prospettive, Milano, Giuffrè, 2000, p. 272.<br />
( 35 ) P. Ferrua, Il ‘giusto processo’, cit., p. 149, per il quale non c’è alcun «dubbio che<br />
si tratti di una scelta ‘sofferta’, non priva di rischi, perché il fatto in sé della sopravvenuta<br />
irripetibilità rappresenta un evento accidentale, epistemologicamente neutro e, quindi, del<br />
tutto inidoneo a convalidare retrospettivamente l’atto formato fuori del contraddittorio;<br />
ma proprio di questo dovrà tenere conto il giudice nella sua prudente valutazione».
GIURISPRUDENZA COMMENTATA<br />
435<br />
dizio, si utilizzino le dichiarazioni rilasciate in precedenza» ( 36 ). In tal modo, però, la<br />
Costituzione va ampiamente al di sotto della soglia di garanzie tracciata dalla giurisprudenza<br />
della Corte europea dei diritti dell’uomo con riguardo all’art. 6 commi 1<br />
e3lett.d Conv. eur. dir. uomo ( 37 ): di fronte all’impossibilità materiale di rinnovare<br />
l’atto compiuto nelle indagini preliminari, il comma 5 dell’art. 111 Cost. si accontenta,<br />
infatti, solo d’un contraddittorio sull’elemento di prova. Riaffiora qui la difficoltà della<br />
nostra cultura giuridica ad affrancarsi da concezioni del passato( 38 ), secondo cui indipendentemente<br />
dalla «premessa di politica legislativa» in forza della quale si regolano i<br />
rapporti tra procedimento preliminare e dibattimento, le «deposizioni raccolte nel<br />
primo, allorché non poss[ano] essere riassunte nel secondo, rappresentano pur<br />
sempre un segno del reato ... ignorarle ... significherebbe impoverire il processo di<br />
una risultanza probatoria, con intuibili conseguenze rispetto al rischio d’una sentenza<br />
ingiusta» ( 39 ).<br />
5. Segue: gli art. 512 e 526 comma 1-bis c.p.p. – Similmente, risulta insufficiente la<br />
disciplina dell’art. 512 c.p.p.( 40 ). Dal punto di vista strutturale, questa norma è stata<br />
costruita sull’imprevedibilità dell’evento che ha reso impossibile la ripetizione dell’atto<br />
d’indagine, con l’obiettivo d’evitare che le parti s’astenessero «deliberatamente dal proporre<br />
incidente probatorio, sapendo di potere poi utilizzare come prova ... l’atto unilateralmente<br />
formato»( 41 ). Mediante l’art. 512 c.p.p., invero, il legislatore ha voluto sollecitare<br />
le parti a tenere una condotta diligente, spingendole a chiedere il contraddittorio<br />
anticipato, nelle ipotesi d’un pericolo prevedibile di dispersione della prova, e<br />
sanzionandole con l’inutilizzabilità in caso contrario( 42 ).<br />
( 36 ) P. Ferrua, Il ‘giusto processo’, cit., p. 8. Cfr. altresì S. Beltrami, Irreperibilità del<br />
teste incompatibile con il diritto al contraddittorio?, inDir. Giust., 2005, n. 47, p. IV, per il<br />
quale, con l’art. 111 comma 5 Cost., «si è logicamente dovuto prendere atto che in date situazioni,<br />
per accertata impossibilità di natura oggettiva, l’assunzione delle prove dichiarative<br />
in contraddittorio non può aver luogo: ad impossibilia nemo tenetur».<br />
( 37 ) Cfr. supra, §3.<br />
( 38 ) Sia sufficiente rammentare C. cost., sent. 21 novembre 1973 n. 154, in Giur. cost.,<br />
1973, p. 1723-1725, per la quale non ledeva l’art. 24 comma 2 Cost. la circostanza che, a<br />
causa di «ostacoli obiettivi ed eccezionali postumi», l’art. 462 n. 3 c.p.p. 1930 permettesse<br />
la lettura, nel dibattimento, delle dichiarazioni pregresse rese dal teste deceduto, assente<br />
dal territorio dello Stato, irreperibile o inabile a deporre, a prescindere dal consenso delle<br />
parti. A parere della Consulta, in particolare, era «dovere del giudice dibattimentale che,<br />
in genere, le risultanze processuali, acquisite regolarmente agli atti, non res[tassero] celate<br />
e sottratte al pubblico esame per una complessiva valutazione di tutte le emergenze di<br />
causa».<br />
( 39 ) F. Cordero, Scrittura e oralità, cit., p. 215.<br />
( 40 ) Così come degli art. 238 comma 3, 512-bis (cfr., al riguardo, S. Buzzelli, Le letture<br />
dibattimentali, cit., p. 105 ss.) e 513 comma 2 secondo periodo c.p.p.<br />
( 41 ) P. Ferrua, La formazione delle prove nel nuovo dibattimento: limiti all’oralità eal<br />
contraddittorio, inId., Studi sul processo penale, Torino, Giappichelli, 1990, p. 95.<br />
( 42 ) Sul punto, cfr. S. Buzzelli, Le letture dibattimentali, cit., p. 84 ss.; C. Cesari,<br />
‘‘Giusto processo’’, contraddittorio ed irripetibilità degli atti di indagine, cit., p. 63-64; G.<br />
Ichino, Gli atti irripetibili e la loro utilizzabilità dibattimentale, inLa conoscenza del fatto<br />
nel processo penale, a cura di G. Ubertis, Milano, Giuffrè, 1992, p. 156 ss.
436<br />
GIURISPRUDENZA COMMENTATA<br />
La logica sottesa a tale scelta è comunque ben «distante da quella che ispira il bilanciamento<br />
di valori elaborato in sede europea»( 43 ).<br />
La Corte europea tollera la lettura alla condizione che l’imputato abbia goduto<br />
d’un momento adeguato di confronto con il teste a carico, sia o meno responsabile dell’irripetibilità<br />
dell’atto l’autorità che ha proceduto alla raccolta delle dichiarazioni nelle<br />
fasi precedenti al giudizio( 44 ). L’acquisizione di quanto divenuto irripetibile ex art. 512<br />
c.p.p., al contrario, implica che le parti, «incolpevoli, poss[ano] far leggere l’atto che<br />
circostanze ‘fatali’ abbiano compromesso», mancando i presupposti per «accedere all’occasione<br />
di confronto diretto che l’ordinamento ha predisposto» a norma dell’art.<br />
392 c.p.p.( 45 ).<br />
Piuttosto, nel futuro, potrebbe contribuire a evitare ulteriori violazioni dell’art. 6<br />
commi 1 e 3 lett. d Conv. eur. dir. uomo l’art. 526 comma 1-bis c.p.p., traduzione codicistica<br />
dell’art. 111 comma 4 secondo periodo Cost. ( 46 ). Al di là della sua controversa<br />
natura di regola di valutazione o d’esclusione probatoria( 47 ), è indubbio che il comma<br />
1-bis dell’art. 526 c.p.p. sia norma di chiusura del sistema( 48 ), finalizzata a impedire che<br />
una condanna possa essere motivata sulla base di dichiarazioni rese da chi si sia sottratto<br />
volontariamente al contraddittorio( 49 ). Da qui, ad esempio, si è arguito che, se<br />
l’impossibilità di ripetere l’atto nel giudizio dipende da morte, irreperibilità o inabilità<br />
a deporre provocate dal dichiarante, la prova ‘‘preliminare’’ potrebbe essere letta ex art.<br />
512 c.p.p., ma non sarebbe comunque idonea a provare la colpevolezza dell’accusato(<br />
50 ).<br />
Va notato, tuttavia, che le corti nazionali si sono orientate prevalentemente in<br />
senso opposto, asserendo che l’art. 512 c.p.p. è applicabile anche «in caso di morte<br />
del dichiarante dovuta a suicidio»( 51 ) o «in caso di irreperibilità del dichiarante, con-<br />
( 43 ) C. Cesari, Prova irripetibile e contraddittorio nella Convenzione europea dei diritti<br />
dell’uomo, cit., p. 1456.<br />
( 44 ) Cfr. C. eur. dir. uomo, sent. 28 agosto 1992, Artner c. Austria, cit., p. 1048, la quale<br />
osserva che, nel caso di specie, «le autorità» austriache non avevano dimostrato «alcuna<br />
negligenza nella ricerca degli interessati. Non potendo ottenere la presenza della signorina<br />
L. in aula, il tribunale era, quindi, padronissimo, sotto riserva dei diritti della difesa, di tenere<br />
in considerazione le deposizioni raccolte dalla polizia e dal giudice istruttore» (corsivo nostro);<br />
v., inoltre, C. eur. dir. uomo, sent. 19 febbraio 1991, Isgrò c. Italia, cit., p. 515; C.<br />
eur. dir. uomo, sent. 6 dicembre 1988, Barberá, Messegué e Jabardo c. Spagna, cit., p. 122.<br />
( 45 ) Cfr. C. Cesari, Prova irripetibile e contraddittorio nella Convenzione europea dei<br />
diritti dell’uomo, cit., p. 1456-1457.<br />
( 46 ) Sulla correlazione tra le due norme, cfr., per tutti, P.P. Paulesu, Volontaria sottrazione<br />
al contraddittorio e inutilizzabilità della prova per la colpevolezza, inIl giusto processo<br />
tra contraddittorio e diritto al silenzio, cit., p. 117.<br />
( 47 ) V., con diverse sfumature, P. Ferrua, Il ‘giusto processo’, cit., p. 154-155; D. Negri,<br />
sub art. 19 l. 1º marzo 2001 n. 63 (attuazione dell’art. 111 Cost.), inLeg. pen., 2002, p.<br />
319; M. Panzavolta, Le letture di atti irripetibili al bivio tra «impossibilità oggettiva» e «libera<br />
scelta», inCass. pen., 2003, p. 3985 ss.<br />
( 48 ) Cfr. C. Valentini, Impossibilità dell’esame dibattimentale del teste: divieto di acquisizione<br />
o semplice divieto di valutazione contra reum delle precedenti dichiarazioni?,inDir.<br />
pen. proc., 2002, p. 1127-1128.<br />
( 49 ) Cfr., altresì, F. Cordero, Procedura penale, Milano, Giuffrè, 2003, p. 745.<br />
( 50 ) V., per tutti, P. Ferrua, Il ‘giusto processo’, cit., p. 155 e 165 ss.<br />
( 51 ) Cass., sez. I, 22 novembre 2002, Chivasso, in Cass. pen., 2004, p. 1665.
GIURISPRUDENZA COMMENTATA<br />
437<br />
siderato che tal[i] situazion[i] ... configura[no] ... ipotesi di oggettiva impossibilità di<br />
formazione della prova in contraddittorio e non p[ossono] essere equiparat[e] alla volontaria<br />
scelta di sottrarsi all’esame di cui all’art. 526 comma 1-bis c.p.p.»( 52 ).<br />
Né va dimenticato che, nell’ottica della Convenzione europea, è indifferente che la<br />
mancata escussione dibattimentale del teste dipenda da una sua volontaria sottrazione<br />
al controesame. I giudici di Strasburgo valutano la vicenda sottoposta al loro scrutinio a<br />
«partire dall’idea che non [sia] possibile ottenere la presenza»( 53 ) della fonte di prova,<br />
a prescindere da un’indagine sulle cause che l’hanno determinata. Il loro sindacato, in<br />
sostanza, si estende fino a considerare vicende in cui l’impossibilità di sentire il dichiarante<br />
sia originata da fattori meramente accidentali, comunque non coperti dall’art. 526<br />
comma 1-bis c.p.p. Dinnanzi a un teste deceduto( 54 ) o irreperibile( 55 ), alla Corte importa<br />
che all’accusato sia stata concessa un’occasione adeguata di confronto con l’accusatore,<br />
senza che assumano rilievo eventuali comportamenti elusivi del contraddittorio<br />
imputabili alla volontà del dichiarante.<br />
6. Esigenze di riforma. – Ai sensi degli art. 512 e 526 comma 1-bis c.p.p., dunque,<br />
sono pienamente utilizzabili ai fini della decisione elementi di prova divenuti irripetibili<br />
a causa di «ostacoli obiettivi ed eccezionali»( 56 ), non riconducibili a una volontaria sottrazione<br />
della fonte di prova al contraddittorio. A tali condizioni, però, l’interesse statuale<br />
al recupero dei ‘‘segni’’ del reato prevale su ogni altra esigenza difensiva dell’accusato<br />
e, nella prospettiva europea, è iniquo che il rischio della mancata rinnovazione<br />
coram partibus della prova ‘‘preliminare’’ gravi in toto sull’imputato( 57 ). Ne deriva uno<br />
sfasamento – è un paradosso, se si considera il clima in cui è maturata la riforma dell’art.<br />
111 Cost. – tra il nostro sistema processuale e i principi elaborati dalla giurisprudenza<br />
europea che impone, al più presto, un intervento correttivo sulla disciplina in discussione.<br />
In proposito, il legislatore avrebbe a disposizione una serie di soluzioni che vanno<br />
( 52 ) Cass., sez. un., 28 maggio 2003, Torcasio, in Cass. pen., 2004, p. 33; v., inoltre,<br />
Cass., sez. III, 18 giugno 2003, Nasolini, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, p. 642-643, con motivazione<br />
e con nota di F. Varone, Lettura di atti dichiarativi irripetibili e libera scelta del<br />
dichiarante di sottrarsi all’esame: un tentativo di «restaurazione» da parte della Suprema Corte?;<br />
Cass., sez. I, 9 ottobre 2002, Nuredini Bujar, in Cass. pen., 2004, p. 1666. In senso parzialmente<br />
difforme, v. Cass., sez. VI, 8 gennaio 2003, Pantini, ivi, 2003, p. 3865, con motivazione<br />
e con nota di M. Panzavolta, Il testimone irreperibile alla luce dei principi costituzionali.<br />
Contra, nella giurisprudenza di merito, Ass. Torino, ord. 10 maggio 2002, Dragos<br />
Dan Liviu, ivi, 2003, spec. p. 3972-3973; Ass. Genova, ord. 17 gennaio 2002, Mango, in<br />
Dir. pen. proc., 2002, spec. p. 1123 (con riguardo alla lettura ex art. 512-bis c.p.p. di dichiarazioni<br />
rese da un testimone residente all’estero sottrattosi al contraddittorio).<br />
( 53 ) C. eur. dir. uomo, 19 febbraio 1991, Isgrò c. Italia, cit., p. 515.<br />
( 54 ) C. eur. dir. uomo, sent. 5 dicembre 2002, Craxi c. Italia, cit., p. 1443-1444; C. eur.<br />
dir. uomo, sent. 7 agosto 1996, Ferrantelli e Santangelo c. Italia, cit., p. 950-951.<br />
( 55 ) C. eur. dir. uomo, sent. 6 dicembre 1988, Barberá, Messegué, Jalabardo c. Spagna,<br />
cit., p. 122.<br />
( 56 ) Mutuando l’espressione da C. cost., sent. 21 novembre 1973 n. 154, cit., p. 1723.<br />
( 57 ) La suddetta situazione, ovviamente, non si verifica allorché la lettura riguardi atti<br />
formati dal giudice dell’udienza preliminare alla presenza del difensore dell’imputato (cfr. G.<br />
Ichino, Gli atti irripetibili e la loro utilizzabilità dibattimentale, cit., p. 160).
438<br />
GIURISPRUDENZA COMMENTATA<br />
dall’impiego dell’atto irripetibile quale elemento «di conferma o di falsificazione della<br />
prova in senso proprio»( 58 ) all’esclusione di qualunque forma d’uso della prova unilateralmente<br />
formata( 59 ).<br />
Qualora si condivida la premessa secondo cui il «contraddittorio nella formazione<br />
delle prove è una misura utile tecnicamente e moralmente necessaria»( 60 ), il miglior<br />
strumento pensato «dagli uomini per stabilire la verità di enunciati fattuali»( 61 ), a nostro<br />
avviso una scelta equilibrata potrebbe consistere nel divieto d’impiegare direttamente<br />
in sentenza ex art. 512 c.p.p.( 62 ) le informazioni acquisite in carenza di dialetticità(<br />
63 ), salvo il consenso di chi non ha assistito all’attività di reperimento del dato conoscitivo(<br />
64 ). In mancanza di tale consenso, poi, l’atto d’indagine potrebbe servire,<br />
( 58 ) G. Giostra, Contraddittorio (principio del) II) diritto processuale penale, cit., p.<br />
12, a cui parere, a ogni modo, la dichiarazione acquisita in difetto di contraddittorio «non<br />
potrebbe mai fondare – comunque riscontrata – alcuna decisione, ma potrebbe, corroborando<br />
o screditando prove, orientare il convincimento giudiziale».<br />
( 59 ) In tal senso, sarebbe opportuno ampliare i presupposti e snellire le procedure<br />
d’instaurazione dell’incidente probatorio, come segnalato recentemente da C. Cesari, Prova<br />
irripetibile e contraddittorio nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cit., p. 1457 (alla<br />
quale si rinvia anche per la bibliografia in argomento). Va inoltre rilevato che la lettura nel<br />
dibattimento di atti formati nell’incidente probatorio dal giudice per le indagini preliminari<br />
non porrebbe problemi in una prospettiva europea: benché con riguardo a un caso di mancata<br />
rinnovazione dell’escussione di testimoni le cui dichiarazioni erano state lette dal giudice<br />
sostituto (ai sensi degli art. 511 e 525 comma 2 c.p.p.), C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 10<br />
maggio 2005, Graviano c. Italia, § 39, ha asserito che, nella specie, «le changement de l’un<br />
des huit juges composant la chambre de la cour d’assises n’a pas privé le requérant de son<br />
droit d’interroger les témoins en question, ceux-ci ayant été entendus lors des débats publics<br />
en présence du requérant et de son avocat, qui ont eu l’occasion de leur poser les questions<br />
qu’ils estimaient utiles pour la défense». Di qui, infatti, si potrebbe desumere che non implica<br />
violazioni dell’art. 6 commi 1 e 3 lett. d Conv. eur dir. uomo la lettura in dibattimento<br />
dei verbali degli atti acquisiti nell’incidente probatorio.<br />
( 60 ) F. Cordero, Diatribe sul processo accusatorio, inId., Ideologie del processo penale,<br />
Milano, Giuffrè, 1966, p. 221.<br />
( 61 ) G. Ubertis, Ricostruzione del sistema, giusto processo, elementi di prova (1992) in<br />
Id., Sisifo e Penelope. Il nuovo codice di procedura penale dal progetto preliminare alla ricostruzione<br />
del sistema, Torino, 1993, p. 268; v., inoltre, G. Giostra, Valori ideali e prospettive<br />
metodologiche del contraddittorio in sede penale, inPol. dir., 1986, p. 17 ss.; R.E. Kostoris,<br />
Giudizio (dir. proc. pen.), inEnc. giur. Treccani, XV, Agg., Roma, 1997, p. 4; B. Pastore,<br />
Giudizio, prova, ragion pratica. Un approccio ermeneutico, Milano, Giuffrè, 1996, p. 226 ss.<br />
( 62 ) E le stesse considerazioni valgono per l’acquisizione dei verbali di altro procedimento<br />
a norma dell’art. 238 comma 3 c.p.p. e per le ipotesi di lettura ex art. 512-bis e<br />
513 comma 2 secondo periodo c.p.p.<br />
( 63 ) Per una modifica, invece, dell’art. 526 comma 1-bis c.p.p., cfr. C. Cesari, Prova<br />
irripetibile e contraddittorio nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cit., p. 1466.<br />
( 64 ) In tale maniera, come si ricava anche dall’art. 111 comma 5 Cost., l’interessato è<br />
posto nelle condizioni di riconoscere che «l’esito di un esperimento gnoseologico eventualmente<br />
condotto unicamente dalla controparte corrisponde a ciò che sarebbe ottenibile con la<br />
propria partecipazione all’attività» di formazione dell’elemento di prova (G. Ubertis, Sistema<br />
di procedura penale, I,Principi generali, cit., p. 154). E ciò non contrasterebbe nemmeno<br />
con la giurisprudenza della Corte europea, a cui avviso «né la lettera né laratio» dell’art. 6<br />
commi 1 e 3 lett. d Conv. eur. dir. uomo «impediscono ad una persona di rinunciare di pro-
GIURISPRUDENZA COMMENTATA<br />
439<br />
quale supporto del contraddittorio ( 65 ), a vagliare «l’attendibilità di elementi, fonti e/o<br />
mezzi di prova concernenti altri esperimenti probatori»( 66 ). Un siffatto assetto, del<br />
resto, sarebbe coerente con le opzioni di politica legislativa sottese alla l. n. 63 del<br />
2001: se il giudice normalmente non può impiegare in sentenza le dichiarazioni pregresse<br />
contestate al testimone, perché inaffidabili( 67 ), lo stesso dovrebbe valere a maggior<br />
ragione, quando la difesa o l’accusa, oltre a non aver partecipato alla formazione<br />
dell’atto, non hanno neppure avuto modo di ‘‘vedere negli occhi’’ il dichiarante a carico<br />
o a discarico( 68 ).<br />
7. Illegittimità costituzionale (non solo) dell’art. 512 c.p.p. – Il caso Sejdovich, tuttavia,<br />
insegna che non bisogna farsi troppe illusioni circa un repentino intervento del<br />
legislatore( 69 ).<br />
Una soluzione volta a ricalibrare i rapporti tra indagini e dibattimento, allora, potrebbe<br />
essere fondata su un riferimento (diretto o indiretto) alla stessa Carta costituzionale,<br />
così da consentire un intervento del giudice delle leggi.<br />
Nell’ipotesi in cui s’intendesse la locuzione «accertata impossibilità di natura oggettiva»<br />
ex art. 111 comma 5 Cost. come riferita «alla natura ‘dell’oggetto’» e, quindi,<br />
«legittimante una disciplina che consentisse l’impiego processuale di strumenti gnoseologici<br />
dei quali fosse ‘accertata’ ... l’inconciliabilità con il contraddittorio perché intrinsecamente<br />
incompatibili con quest’ultimo ... oppure perché recanti elementi di prova<br />
contenutisticamente o strutturalmente diversi da quelli che sarebbero generabili da<br />
esso», ne seguirebbe l’«illegittimità costituzionale» dell’art. 512 c.p.p., «almeno in<br />
quanto attinente all’uso decisorio contra reum di elementi di prova dichiarativi precedentemente<br />
acquisiti» in assenza della controparte( 70 ).<br />
pria spontanea volontà, in modo espresso o tacito, alle garanzie che vi sono consacrate», purché<br />
«tale rinuncia [sia] inequivoca e non ... urt[i] ... alcun interesse significativo» (C. eur. dir.<br />
uomo, sent. 5 dicembre 2002, Craxi c. Italia, cit., p. 1444).<br />
( 65 ) Sebbene con specifico riguardo alle contestazioni, mette in evidenza l’importanza<br />
dell’«uso indiretto dell’elemento di prova» formato unilateralmente per la sopravvivenza del<br />
metodo dialettico S. Buzzelli, Contraddittorio e contestazioni nell’esame testimoniale: una<br />
sbrigativa ordinanza della Corte costituzionale, inGiur. cost., 2002, p. 334-335.<br />
( 66 ) G. Ubertis, Prova e contraddittorio (2001), in Id., Argomenti di procedura penale,<br />
Milano, 2002, p. 194.<br />
( 67 ) Riprendendo F. Cordero, Procedura penale, cit., p. 701, «[s]uperfluo spiegare<br />
perché ... La testimonianza è un prodotto verbale delicato: v’influisce l’ambiente; sono tanti<br />
i modi d’estrarla, inclusi suggestione e forcipe».<br />
( 68 ) Osserva G. Giostra, Contraddittorio (principio del) II) diritto processuale penale,<br />
cit., p. 11, che «[c]onferire al contraddittorio effettiva centralità nel processo penale non significa<br />
soltanto farne un rigoroso strumento di ‘dialisi probatoria’ per separare cognizioni di<br />
provenienza spuria dai risultati di prova, ma anche restituire al sistema linearità e coerenza,<br />
talvolta semplificandolo».<br />
( 69 ) V. la sentenza ‘‘monito’’ di C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 10 novembre 2004, Sejdovic<br />
c. Italia, in Cass. pen., 2005, spec. p. 987, con la quale – a seguito dell’ennesima condanna<br />
per violazione dell’art. 6 comma 1 Conv. eur. dir. uomo – i giudici di Strasburgo hanno<br />
invitato expressis verbis il nostro Paese ad adottare delle «misure di carattere generale»<br />
volte a rimuovere i difetti «di carattere strutturale» in materia di contumacia.<br />
( 70 ) Per questa e le citazioni precedenti, cfr. G. Ubertis, Sistema di procedura penale,
440<br />
GIURISPRUDENZA COMMENTATA<br />
Qualora, viceversa, si volesse insistere nel ritenere (in analogia con l’impostazione<br />
codicistica) che il precetto de quo riguardi anche un’impossibilità per «‘causa oggettiva’<br />
esterna all’esperimento conoscitivo»( 71 ), il medesimo risultato potrebbe essere assicurato<br />
dal doveroso rispetto dell’art. 76 Cost. Come anticipato( 72 ), già il preambolo dell’art.<br />
2 legge-delega c.p.p. avrebbe imposto, e tuttora impone, d’adattare la normativa<br />
delle letture a forme di contraddittorio almeno differito sulla fonte di prova, in linea<br />
con la giurisprudenza della Corte europea sull’art. 6 Conv. eur. dir. uomo( 73 ). E ciò<br />
dovrebbe valere anche per «quanto emanato al di fuori del meccanismo della delega<br />
o successivamente all’esaurirsi del relativo potere conferito al Governo»( 74 ), ossia per<br />
quanto riguarda l’estensione dell’area degli atti leggibili a quelli formati dalla polizia<br />
giudiziaria e dalla difesa, ai sensi dell’art. 8 comma 2 d.l. 8 giugno 1992 n. 306 conv.<br />
in l. 7 agosto 1992 n. 356 e dell’art. 18 l. 7 dicembre 2000 n. 397( 75 ). D’altronde, va<br />
ribadito che, oggi, pure l’art. 117 comma 1 Cost. potrebbe essere usato quale criterio(<br />
76 ) per vagliare la conformità della disciplina processuale predisposta dal legislatore<br />
alle garanzie provenienti dalle Carte internazionali vincolanti per il nostro Stato.<br />
Francesco Zacchè<br />
I, Principi generali, cit., p. 155-156, a cui parere, così, risulterebbero costituzionalmente eccepibili<br />
pure gli art. 238 comma 3, 512-bis e 513 comma 2 secondo periodo c.p.p.<br />
( 71 ) G. Ubertis, Sistema di procedura penale, I,Principi generali, cit., 156.<br />
( 72 ) Cfr. supra, §1.<br />
( 73 ) Peraltro, sulle incertezze della Corte costituzionale a impiegare la Convenzione europea<br />
dei diritti dell’uomo «come parametro nel controllo delle leggi», cfr., da ultimo, V.<br />
Monetti, Il cortocircuito fra Corti costituzionali, i diritti della persona, il processo penale,<br />
in Quest. giust., 2005, p. 1314.<br />
( 74 ) G. Ubertis, Sistema di procedura penale, I,Principi generali, cit., p. 32.<br />
( 75 ) E analoghi rilievi d’illegittimità costituzionale sarebbero relativi agli art. 238 comma<br />
3, 512-bis e 513 comma 2 secondo periodo c.p.p.<br />
( 76 ) Cfr. supra, § 1, nota 8.
Tribunale di Urbino, 23 settembre 2003, n. 328<br />
Giudice Spaziani – M.G.P. e M.D.<br />
441<br />
Non è imperito, imprudente, negligente, il medico che omette di richiedere<br />
in un caso di politraumatizzato della strada l’ecografia addominale, sebbene<br />
tale esame fosse prescritto nel protocollo di emergenza in casi del genere,<br />
qualora, alla luce delle condizioni oggetive in cui versava, all’epoca, la struttura<br />
sanitaria, l’esame medesimo non poteva essere effettuato (1).<br />
(1) Protocolli, linee guida e colpa specifica.<br />
Sommario: 1. Premessa. – 2. Natura giuridica. – 3. Applicazione in diritto societario, in<br />
materia di sicurezza nei luoghi di lavoro, in diritto sportivo... – 4. e in medicina.<br />
1. Premessa.<br />
GIURISPRUDENZA COMMENTATA<br />
Sempre più di frequente, nel contesto della moderna società del rischio( 1 ), si as-<br />
( 1 ) F. Stella, Giustizia e modernità, Milano, 2003; La costruzione giuridica della scienza:<br />
sicurezza e salute negli ambienti di lavoro, R.I.D.P.P. 2003, pp. 55 ss.: ‘‘la sicurezza e la<br />
salute negli ambienti di lavoro costituiscono due dei grandi temi con i quali deve misurarsi<br />
la nuova razionalità richiesta dall’avvento della moderna società del rischio. L’impetuoso sviluppo<br />
delle tecnologie ... ha determinato dei cambiamenti nel sistema produttivo che hanno<br />
subito accelerazioni... che hanno costituito la sorgente di nuovi pericoli, legati all’attività lavorativa,<br />
che impongono un ripensamento degli schemi tradizionali di sicurezza... pietra agolare<br />
di questo ripensamento è una politica della sicurezza e della salute capace di fronteggiare<br />
i nuovi pericoli; e lo strumento che rende possibili i nuovi programmi di sicurezza e protezione<br />
(della salute) è la valutazione del rischio... Chi deve provvedere alla valutazione del rischio?<br />
Gli studiosi non hanno dubbi di sorta: la valutazione sul livello di esposizione al rischio<br />
accettabile, una valutazione carica di valori, spetta ai responsabili delle decisioni politiche,<br />
il processo di gestione del rischio spetta a chi è preposto a stabilire norme e leggi’’;<br />
Scienza e norma nella pratica dell’igiene industriale, D.P.P., 1999, pp. 383: ‘‘sono note le controversie<br />
sulla razionalità della scienza... che si riflettono inevitabilmente nella controversia<br />
sulla valutazione e sul controllo del rischio.... il quesito cruciale è se esistano delle norme metodologiche<br />
che garantiscono la razionalità della valutazione. Una valutazione veramente ra-
442<br />
siste ad un processo di produzione normativa particolare: nei più svariati settori della<br />
vita di relazione si stanno sviluppando fonti normative destinate a guidare il comportamento<br />
umano al fine di tenerlo indenne da eventuali conseguenze giuridiche. Ci si riferisce<br />
ai protocolli di comportamento, ai codici di comportamento, alle linee guida elaborate<br />
per i sindaci delle società, per gli amministratori, per i medici e il personale sanitario<br />
in generale( 2 ).<br />
2. Natura giuridica.<br />
GIURISPRUDENZA COMMENTATA<br />
Dal punto di vista sistematico, il ricorso a tali strumenti si colloca nel contesto di<br />
una più ampia tendenza alla ‘‘ formalizzazione’’ ed alla ‘‘procedimentalizzazione‘‘ delle<br />
regole cautelari: la condotta osservante, nei vari settori di attività, è sempre più spesso<br />
quella che si traduce nella realizzazione di un complesso procedimento, le cui regole,<br />
zionale dovrebbe tener conto dei valori etici e della percezione sociale del rischio... gli operatori<br />
dei settori in cui si esplicano attività pericolose, debbono impegnarsi in un costante e<br />
completo aggiornamento scientifico e debbono essere pronti a mutare opinione sui criteri di<br />
valutazione e di controllo del rischio, in coerenza con i risultati della ricerca scientifica che<br />
dimostrino la falsità di una ipotesi prima accettata o la conferma di una prima respinta... in<br />
conclusione, qualunque esercente un’attività che implichi dei rischi per gli utenti deve considerarsi<br />
un tecnico-scienziato sempre al corrente dell’evoluzione della ricerca’’. In questa situazione<br />
diventa di capitale importanza capire se il giudice abbia a disposizione dei criteri di<br />
accettata credibilità delle ipotesi scientifiche che vengono prospettate nel processo. Un valido<br />
aiuto può venire dal Diritto delle prove che autonomamente definisce, in funzione degli<br />
scopi del processo, i criteri di affidabilità degli enunciati scientifici. Al riguardo si veda F.<br />
Stella: Verità, scienza e giustizia: le frequenze medio-basse nella successione degli eventi,<br />
in Riv. It. Dir. Pen. Proc. 2002, pp. 1225 ss.: ‘‘il giudice deve giudicare affidabili solo le prove<br />
scientifiche che, oltre a godere di un alto grado di conferma, siano state sottoposte ed abbiano<br />
superato test di falsificazione ed, in più, abbiano ricevuto il consenso della comunità<br />
scientifica’’.<br />
( 2 ) C. Piergallini, Attività produttive e imputazione per colpa: prove tecniche di diritto<br />
penale del rischio, R.I.D.P.P. 1997, pp. 1473 ss.: ‘‘mentre la colpa generica si fonda sul<br />
ricorso a norme esperenziali alle quali è sottesa una dimensione sociologica, e che tendono<br />
ad orientare il comportamento secondo criteri di normalità, le norme scritte puntano, viceversa,<br />
a selezionare classi di rischi, a fornire cioè una più puntuale descrizione del rischio insitoin<br />
una data situazione di fatto. Ci si affida, perciò, alle regole positive per disciplinare aree<br />
di rischio sostanzialmente omogeneo, in cui la ripetitività dei comportamenti, la rilevanza dei<br />
beni in gioco e l’affinarsi delle conoscenze consentono una miglioreselezione dei rischi da prevenire<br />
e contenere’’. Beck, La società del rischio, Roma, 2000: ‘‘Sta emergendo una nuova<br />
forma ascrittività del rischi, di fronte a cui i margini di decisione individuale non esistono<br />
qausi più... l’esperienza di questa esposizione al rischio, senza spazi di decisione, rende comprensibile<br />
gran parte dello shock, della rabbia impotente e del senso di perdita di un orizzonte<br />
futuro’’; Jonas, Il principio di responsabilità, Torino, 1990: ‘‘nessuno può più essere<br />
reso responsabile individualmente... la situazione reale è peggiorata... chi non è minacciato<br />
personalmente non si sforza di fare una revisione del èrorpio modo di vivere’’; Douglas,<br />
Risk acceptability eaccording ti the social sciences, Berkeley, 1985, trad. It. Come percepiamo<br />
il pericolo, Milano, 1991: ‘‘Quanto ai rischi ci si appella alla fiducia nella scienza, la cui razionalità<br />
finora ha trovato soluzioni per tutti i problemi, mentre i timori per il futuro vengono<br />
stigmatizzati come forme di irrazionalism, vera causa di tutti i mali’’.
GIURISPRUDENZA COMMENTATA<br />
443<br />
assai dettagliate, mirano all’individuazione del rischio, in funzione dell’adozione delle<br />
misure necessarie a fronteggiarlo efficacemente( 3 ).<br />
Queste linee guida altro non sono che regole cautelari prodotte seguendo il principio<br />
dell’evidenza scientifica, per cui una cosa, un prodotto, un’attività sono pericolose<br />
solo quando la scienza più accreditata lo afferma( 4 ).<br />
3. Applicazione in campo medico, in diritto societario, in materia di sicurezza nei luoghi di<br />
lavoro, in diritto sportivo...<br />
La medicina, in particolar modo e più di ogni altro settore , non è la scienza dell’esatto,<br />
ma del possibile: questo spiega perché negli ultimi anni il campo medico abbia<br />
prodotto una grande quantità di strumenti di informazione e di aiuto alla pratica clinica<br />
come le linee guida, l’utilizzo delle quali costituisce garanzia di osservanza di buona pratica<br />
clinica ed è considerata sinonimo di osservanza delle ‘‘regole dell’arte’’, con l’obiettivo<br />
di ‘‘guidare’’ il medico nello svolgimento del suo lavoro( 5 ).<br />
( 3 ) F. Stella, La costruzione giuridica della scienza, R.I.D.P.P. 2003, pp. 55 ss.: ‘‘La<br />
valutazione del rischio costituisce una procedura nella quale sono distinguibili tre fasi, la fase<br />
dell’identificazionedel rischio, la fase della sua stima e la fase delle decisioni: al primo stadio<br />
viene identificatauna minaccia..., al secondo, scienziati stimano il rischio collegato a determinati<br />
livelli di esposizione a quel pericolo, al terzo stadio, scienziati, economisti, medici, sociologi<br />
e responsabili di decisioni politiche valutano quale livello di esposizione al rischio, se ne<br />
esiste uno, è accettabile per la società. Quando questa analisi è conclusa, chi è preposto a<br />
stabilre norme e leggi dà il via al processo di gestione del rischio, assicurandosi che la reale<br />
esposizione al rischio sia conforme ai livelli di accettabilità giaà fissati dagli esperti’’; P. Veneziani,<br />
I delitti contro la vita e l’incolumità individuale, inTrattato di diritto penale, PtS, a<br />
cura di Marinucci-Dolcini, Padova 2003, pp. 183 ss.: ‘‘la crescente popolarità delle linee-guida<br />
in campo medico sta gradatamente evidenziando il desiderio di regolamentare i comportamenti<br />
professionali allo scopo di ridurre i rischi derivanti dall’adozione di procedure di<br />
non comprovata efficacia’’.<br />
( 4 ) P. Veneziani, op. ult. cit. ‘‘Ecco allora spiegato come i vari settori in cui si esplica<br />
l’attività umana siano presidiati da regole cautelari... caratterizzate da un diverso grado di<br />
efficacia. In particolare, si riscontrano ipotesi in cui la salvaguardia di interessi fondamentali,<br />
su tutti la vita umana, è affidata a regole cautelati, la cui osservanza non assicura un ‘‘azzeramento’’<br />
del rischio, ma soltanto un suo contenimento. Vedi anche F. Sgubbi, Il diritto penale<br />
incerto ed inefficace, inRiv. It. Dir. Proc. Pen., 2001, pp. 1193 ss.: ‘‘Oggi, nel contesto<br />
della società del rischio, muta la prospettiva di valutazione della condotta umana penalmente<br />
rilevante... oggi rilevano i rischi anche non conosciuti o non identificati con sicurezza scientifica’’;<br />
F. Stella, Giustizia e modernità, pp. 4: ‘‘La sfida di fronte alla quale vieni a trovarsi<br />
la scienza giuridica non è di poco conto, giacché essa non può sottrarsi alla domanda se e in<br />
quale modo possa contribuire alla soluzione di quei problemi, affrontando, con gli strumenti<br />
suoi propri, i grandi rischi che minacciano l’umanità. È una sfida che tocca anche il diritto<br />
penale... se si debba restare ancorati al modello di diritto penale classico, imperniato sul danno,<br />
o se non si debba invece dar vita ad un nuovo modello, il modello del diritto penale del<br />
pericolo per il futuro, cioè del diritto penale del comportamento... puramente funzionalistico,<br />
orientato all’obiettivo di una difesa, il più efficace possibile, contro i rischi che minacciano il<br />
futuro’’.<br />
( 5 ) A. Fiori, Medicina legale della responsabilità medica, Giuffrè Ed., Milano, 1999:
444<br />
GIURISPRUDENZA COMMENTATA<br />
Anche in campo societario sono state elaborate linee guida, in modo particolare<br />
per la costruzione dei modelli di organizzazione gestione e controllo ex art. 6 d.lgs.<br />
231/01( 6 ).<br />
Si tratti di documenti variamente denominate, elaborati dalle associazioni di categoria,<br />
che essendo stati adeguatamente pubblicizzati, costituiscono importanti punti di<br />
riferimento per le imprese, specie per quelle di piccole dimensioni. Vengono a delinearsi<br />
in tal modo tutti i possibili contenuti precettivi, quanto meno le procedure fondamentali<br />
di formazione del modello, sì da poter giungere a un solido schema operativo<br />
che solo la prassi potrà progressivamente definire e convalidare.<br />
In questa prospettiva vengono a collocarsi gli importanti documenti di Confindustria(<br />
7 ) e dell’Associazione Nazionale Bancaria, che convergono sugli anzidetti profili<br />
metodologici, consentendo di affermare che, almeno sotto questo profilo, l’ente può<br />
vantare un significativo e oggettivo margine di esenzione da responsabilità, nella misura<br />
in cui non gli si potrà addebitare l’adozione di un modus procedendi diverso da quello<br />
suggerito.<br />
Le linee guida approvate da Confindustria contengono una serie di indicazioni e<br />
misure, essenzialmente tratte dalla pratica aziendale, ritenute in astratto idonee a rispondere<br />
alle esigenze delineate dal d.lgs. 231/2001.<br />
Sotto il profilo del contenuto, il modello organizzativo costituisce un vero e proprio<br />
codice di comportamento cui gli appartenenti all’ente dovranno uniformare il proprio<br />
comportamento e che codifica una serie di regole cautelari la cui violazione si tradurrà<br />
in colpa specifica dell’ente.<br />
La previsione di modelli di tal fatta, di larga applicazione nell’esperienza giuridica<br />
americana, non è una novità assoluta nel il nostro ordinamento giuridico, essendo possibile<br />
rinvenire un precedente in tal senso, nel d.lgs. 626/94, in materia di sicurezza nei<br />
luoghi di lavoro( 8 ).<br />
Al datore di lavoro è ex lege imposto l’obbligo di adottare tutte quelle cautele indicate<br />
dal legislatore e da questi, a monte, destinate a specifici fini di tutela. La violazione<br />
di queste regole di condotta codificate si traduce in imputazione per colpa specifica:<br />
precipuo elemento della colpa specifica è l’‘‘inosservanza di leggi, regolamenti,<br />
ordini o discipline’’, occorre cioè la violazione di una disposizione scritta che positivizza<br />
regole di condotta prudenziali aventi la loro matrice in criteri di prudenza e di avvedutezza,<br />
la cui idoneità preventiva a prevenire il rischio è già stata vagliata dal legislatore.<br />
‘‘esse costituiscono un ulteriore aiuto, una guida appunto, per il medico nello svolgimento<br />
del suo lavoro di assistenza, ma al tempo stesso possono essere utilizzate quale strumento<br />
di giudizio nelle mani di coloro che sono chiamati a giudicarne la condotta’’.<br />
( 6 ) Si tratta anche in questo caso di modelli di prevenzione del rischio rappresentato<br />
dalla commissione dei reati, strutturati sulla falsa riga dei Compliance Programms anglosassoni,<br />
di cui il nostro legislatore ha onerato gli enti, nell’introdurre la responsabilità cc.dd.<br />
amministrativa da reato con il d.lgs. 231/2001. anhe questo settore, invero, si presta all applicazione<br />
degli schemi logici fondati sul binomio ‘‘risk management’’ e ‘‘risk assessment’’ che<br />
è alla base della emersione e della ‘‘messa per iscritto’’ delle regole cautelari non più attraverso<br />
fonti di produzione nazionale, ma ad opera degli stessi ‘‘protagonisti’’ dell’attività pericolosa.<br />
( 7 ) Le linee guida di Confindustria sono reperibili sul sito www.confindustria.it.<br />
( 8 ) F. Stella, Il decreto legislative 626 e la Costituzione, Milano, 2000.
445<br />
Ogni qualvolta l’esercizio di una determinata attività èdisciplinato da regole cautelari<br />
modali scritte , siano esse di contenuto rigido o flessibile, la prevenzione del rischio<br />
è legata alla loro osservanza.<br />
Identica finalità cautelare è riscontrabile nelle Linee Guida previste all’allegato 1<br />
del D.P.C.M. 31 Marzo 1989 (oggi d.lgs. 334/99), in materia di sicurezza negli stabilimenti<br />
a rischio di incidente rilevante: l’inosservanza delle prescrizioni in esse contenute<br />
ben potrebbe costituire un addebito per colpa specifica( 9 ).<br />
Proprio in materia di sicurezza nei posti di lavoro, anche la giurisprudenza, oramai<br />
consolidata, riconosce un ruolo centrale all’osservanza delle indicazioni provenienti<br />
dalle Linee-Guida, quali sintesi ragionata delle informazioni scientifiche.<br />
A tali principi è improntato il procedimento penale pendente a carico del Petrolchimico<br />
di Marghera in persona dei responsabili dei controlli per la sicurezza nei luoghi<br />
di lavoro: costante è il riferimento ai risultati della ricerca scientifica sulle potenzialità<br />
altamente nocive del CVM-PVC e sui suoi effetti cancerogeni. Non si trattava di<br />
‘‘vox clamans in deserto’’, ma di una certezza della comunità scientifica supportata da<br />
studi compiuti non solo nel nostro paese ma anche nel resto del mondo, specie negli<br />
Stati Uniti d’America: un patrimonio solido che si era tradotto in innumerevoli documenti<br />
scientifici contenenti regole precauzionali modali scritte atte ad evitare determinate<br />
conseguenze nefaste.<br />
4. ...in particolare, in medicina.<br />
GIURISPRUDENZA COMMENTATA<br />
Ma è soprattutto in campo medico, come rilevato all’inizio, che il fenomeno linee<br />
guida si avverte maggiormente.<br />
Esse possono essere intese come supporto alle decisioni cliniche, come si ricava<br />
dalla definizione data dall’Insitute of Medicine, secondo la quale esse sono da intendersi<br />
‘‘sistematically developed statements to assist the practioner and patient decisions<br />
about appropriate health care for specific clinical circumstances’’( 10 ), il cui corrispettivo<br />
italiano è ‘‘raccomandazioni di comportamento clinico prodotte attraverso un processo<br />
sistematico allo scopo di assistere medico e paziente nel decidere quali siano le<br />
modalità di assistenza più appropriate in specifiche circostanze cliniche’’.<br />
Le linee guida nascono per rispondere ad un obiettivo fondamentale:assicurare il<br />
massimo grado di appropriatezza degli interventi, riducendo al minimo quella parte di<br />
variabilità nelle scelte cliniche legata alla carenza di conoscenze e alla soggettività dei<br />
criteri di scelta delle strategie assistenziali( 11 ).<br />
Loro scopo principale sarebbe, dunque, quello di indirizzare i comportamenti dei<br />
( 9 ) A ben vedere, l’integrazione della fattispecie colposa, in queste ipotesi, non dipenderà<br />
direttamente dagli ordini o dalle discipline, ma dalla fonte di produzione della regola<br />
cautelare, che il soggetto competente ad emanare l’ordine o la disciplina ha trasmesso, per<br />
loro tramite, ai suoi sottoposti.<br />
( 10 ) M.J. Field, K.N. Lohr; eds.: Guidelines for Clinical Practice: from development<br />
to use, Washington D. C., Institute of Medicine, National Academy Press, 1992.<br />
( 11 ) Gruppo di studio Fondazione Smith Kline, Manuale per la redazione, valutazione<br />
ed implementazione delle linee guida in medicina, Tendenze Nuove, 2001.
446<br />
GIURISPRUDENZA COMMENTATA<br />
singoli operatori in modo appropriato e razionale, offrendo una sintesi ragionata di<br />
tutte le informazioni scientifiche disponibili.<br />
Questo risulta evidente dalla presentazione delle Linee Guida SIMTI per l’applicazione<br />
dei Decreti Ministeriali 25 e 26 gennaio 2001 sulla donazione di sangue, venuti<br />
alla luce a più di dieci anni di distanza dai Decreti che precedentemente regolavano la<br />
materia. Dieci anni che hanno visto una forte integrazione con la normativa europea,<br />
ma che soprattutto hanno visto sviluppi tumultuosi sia nel campo della raccolta – lavorazione<br />
– qualificazione biologica del sangue, sia nel campo della terapia trasfusionale;<br />
inevitabile dunque, che in questo contesto e per questi motivi, i decreti siano diventati<br />
molto articolati, difficili da interpretare, per alcuni aspetti addirittura ostici. Ecco allora<br />
la necessità di dare un riferimento autorevole, un’interpretazione scientificamente corretta,<br />
eticamente ineccepibile, solida da un punto di vista medico legale. La SIMTI si è<br />
fatta carico di questo compito: il Collegio Medico-Legale, assieme al Consiglio Direttivo,<br />
ha preparato una bozza di documento, che ha doverosamente posto all’attenzione<br />
delle Associazioni di Volontariato del Sangue, che con i loro Comitati Scientifici del<br />
Sangue, hanno valutato, studiato, fatto proposte.<br />
Il testo definitivo, lavoro intelligente, tenace e condiviso da tutto il Sistema Trasfusionale<br />
Italiano, è un testo agile, che non vuole risolvere tutti i problemi, ma che<br />
si pone come obiettivo proprio quello di essere un punto di riferimento autorevole<br />
ed uniforme per tutto il territorio nazionale e per tutti i medici, che devono e dovranno<br />
operare scelte in ambito trasfusionale; e assicura, valendosi di tutte le possibilità che il<br />
progresso scientifico e la tecnologia forniscono, dei livelli più sicuri e uniformi di emoterapia.<br />
È opportuno sottolineare che le Linee Guida non costituiscono proposte di modifica<br />
dei decreti, ma semplicemente indicazioni per una loro corretta interpretazione e<br />
applicazione( 12 ). Analogamente, si legge nella presentazione delle ‘‘Linee Guida per la<br />
selezione del donatore di sangue e di emocomponenti( 13 )’’ che esse non vogliono essere<br />
un’altra e diversa ‘‘normativa’’, ma vogliono presentarsi come comune criterio di interpretazione<br />
e applicazione, il più possibile univoca, delle diverse Leggi, Raccomandazioni,<br />
Criteri di Buona Pratica Clinica e Buona Pratica di Lavorazione, e con l’obiettivo<br />
si semplificare, dove possibile, gli indirizzi operativi.( 14 )<br />
Dal punto di vista medico-legale bisogna sottolineare che già sotto la vigenza della<br />
precedente disciplina normativa in materia, l’orientamento giurisprudenziale( 15 ) preva-<br />
( 12 ) ‘‘Linee Guida SIMTI per l’applicazione dei Decreti Ministreriali 25 e 26 gennaio<br />
2001’’ Milano: Edizioni SIMTI, 2000. Per il testo integrale delle Linee Guida Si può anche<br />
consultare il sito www. SIMTI.it; i Decreti Ministeriali sono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale<br />
n. 78 del 3 aprile 2001.<br />
( 13 ) ‘‘Linee guida per la selezione del donatore di sangue ed emocomponenti’’. Milano:<br />
Edizioni SIMTI, 2000 oppure sul sito www.Simti.it.<br />
( 14 ) F. Stella, La costruzione giuridica della scienza, op. cit.: ‘‘le regole tecniche non<br />
costituiscono di per sé precetti giuridici. Lo diventano, a patto che siano richiamate da<br />
una fonte del diritto: una legge o un regolamento dello stato individua le regole tecniche,<br />
ne dà una valutazione nell’interesse della collettività e le indica come punti di riferimenti cogenti<br />
per il privato.<br />
( 15 ) E. Marinelli, S. Zaami, A. Premate, ‘‘Problemi medico-legali dell’attività trasfusionale<br />
alla luce della recente legislazione, Zacchia, 65: 31-56, 1992; U. Rossi, ‘‘Responsa-
GIURISPRUDENZA COMMENTATA<br />
447<br />
lente riteneva che la colpa del medico nella terapia emotrasfusionale potesse essere di<br />
tipo generico, cioè dovuta a negligenza, imprudenza, imperizia, sebbene con l’introduzione<br />
di linee codificate di condotta si sia andata modificando la metodologia di approccio<br />
ai problemi della responsabilità professionale in questo campo, oppure che si<br />
potesse parlare di colpa specifica per inosservanza di quelle leggi e regolamenti che prevedono<br />
e richiedono sistemi di monitoraggio, metodi di conservazione, protocolli ufficiali<br />
e linee guida cui il medico deve attenersi.<br />
Si parla, pertanto, di una colpa prevalentemente specifica del medico trasfusionista,<br />
legata cioè alla inosservanza delle norme, mentre il medico trasfusore sarebbe<br />
per lo più responsabile del controllo delle indicazioni alla trasfusione, l’acquisizione<br />
del consenso del ricevente, l’esecuzione corretta della trasfusione e l’intervento immediato<br />
per combattere l’incidente trasfusionale( 16 ).<br />
Imperativo per il medico, che presta la propria opera in una struttura trasfusionale<br />
è l’osservanza delle norme che regolano in maniera tassativa le prestazioni di medicina<br />
trasfusionale.<br />
Inoltre, in questo settore esiste e opera un organismo che non è presente in altre<br />
branche della medicina e cioè il Comitato trasfusionale, che è una struttura vincolante<br />
ed obbligatoria per un ente ospedaliero e che, tra i diversi compiti, ha anche quello di<br />
verificare l’audit medico, per cui se il Comitato adotta o definisce linee guida, anche se si<br />
tratta di raccomandazioni prescrittive, il medico che opera in quella struttura non può<br />
eluderle, se non con delle valide motivazioni e in casi eccezionali( 17 ).<br />
Anche l’attività medico-sportiva è assoggettata al rispetto di numerose procedure<br />
in materia di accertamento dell’idoneità alla pratica dello sport, procedure che possiedono<br />
valore tassativo e la cui violazione costituisce colpa specifica. Un complesso di<br />
Leggi e Decreti di attuazione, completato da numerose leggi regionali, regolamenti delle<br />
Federazioni sportive, protocolli, linee guida, regolamenti, infatti, la tutela sanitaria della<br />
pratica sportiva nel nostro Paese ed il cui rispetto ha carattere vincolante.<br />
Ancora, nell’ambito dell’attività infermieristica è previsto l’uso di strumenti operativi,<br />
quali linee guida, protocolli e raccomandazioni, con lo scopo di uniformare i<br />
comportamenti e standardizzare le procedure allo scopo di ridurre la discrezionalità<br />
degli operatori in situazioni complesse e ad elevato grado di criticità.<br />
La legge 42/99 sottolinea l’importanza di individuare i processi e definire i profili<br />
di cura in base a linee guida predefinite, cioè di raccomandazioni fondate sull’evidenza<br />
scientifica, che formano la base per prendere decisioni nel lavoro quotidiano, in grado<br />
di rendere quanto più corretti, appropriati e sicuri gli interventi di assistenza sanitaria<br />
complesse e ad elevato grado di criticità.<br />
Ex art. 2 di tale legge, infatti, il campo di attività e di intervento degli ‘‘operatori<br />
socio-sanitari’’ è determinato dai contenuti dei Decreti Ministeriali, dagli Ordinamenti<br />
Didattici o dalle altre Codificazioni professionali condivise ed accettate dalla profes-<br />
bilità medico-legali nella programmazione e gestione dell’attività trasfusionale (Considerazioni<br />
sulla Legge 4 maggio 1990, n. 107)’’, Jura Medica 1990, 1/3: 55-68.<br />
( 16 ) E. Venturini, G. Boccardelli, ‘‘Riflessioni medico-legali in tema di epatite post<br />
trasfusionale’’ sul sito www.Eurom.it.<br />
( 17 ) Istituto Superiore di Sanità: Convegno Nazionale ‘‘Buon uso del sangue’’, Roma<br />
25-26 febbraio 2003, Rapporto ISTISAN 04/10, Atti a cura di A. Gianpaolo, A. Barca, L.<br />
Catalano, H. J. Hassan.
448<br />
GIURISPRUDENZA COMMENTATA<br />
sione infermieristica, come linee guida, raccomandazioni, protocolli, ect. L’inosservanza<br />
di una norma di comportamento professionale prefissata dalle fonti suesposte è sufficiente<br />
a documentare la cc.dd. colpa specifica ex art. 43, comma 3, c.p.( 18 ).<br />
Sempre presente in sede di accertamento medico-legale della sussistenza della responsabilità<br />
del medico è il riferimento alle indicazioni contenute nelle Linee-Guida:<br />
spetta al consulente medico-legale l’arduo compito di interpretare il dato scientifico alla<br />
luce di tali indicazioni, così fornendo al giudice un valido supporto per la sua decisione(<br />
19 ).<br />
In conclusione, la tendenza odierna alla procedimentalizzazione e formalizzazione<br />
delle linee guida potrebbe comportare lo spostamento progressivo del baricentro della<br />
responsabilità del professionista e dei suoi ausiliari dal campo della colpa generica a<br />
quello della colpa specifica.<br />
Ma occorre una precisazione: solo in situazioni particolari, solo quelle in cui è<br />
stato provato che le linee guida in questione fossero veramente indispensabili e non<br />
fosse possibile operare altre scelte, ed inoltre avessero raggiunto un valore consolidato<br />
nel tempo dalla loro immutabilità e salvo che il progresso scientifico e tecnologico, nel<br />
periodo successivo alla loro emanazione non le avesse rese palesemente inadeguate, un<br />
simile discorso di imputazione per colpa specifica per il professionista che non le ha<br />
osservate potrebbe sussistere.<br />
Angela Maria Bonanno<br />
( 18 ) Salcuni, Aporie e contraddizioni in tema di colpa professionale. Nota alla sentenza<br />
10 maggio 2000, n. 837, Tr. Foggia, inRiv. It. Dir. Proc. Pen.: ‘‘...non comporterebbero l’esclusione<br />
della colpa generica, la quale manterrebbe il compito di integratrice della diligenza<br />
nei casi in cui non sia possibile racchiudere tutto il suo contenuto nella norma scritta. Una<br />
serie di norme scritte, (colpa specifica), può consentire un grado di certezza maggiore e di<br />
controllo, mai di ingerenza, sull’operato dei medici, portando ad un innalzamento della diligenza<br />
e della preparazione dei sanitari. L’enucleazione di regole obiettive di condotte non<br />
può far altro che spingere i destinatari ad uniformarsi a queste ultime, le quali saranno la<br />
risultante dell’incontro tra regole del corpo sociale di apparetenenza e tecniche, accorgimenti<br />
ed esperienze dei migliori esperimenti della medicina’’ contra C. Piergallini, Attività produttive<br />
e imputazione per colpa, op. cit.: ‘‘se si concorda sul fatto che le norme cautelari scritte<br />
disciplinano una determinata classe di rischi, pare davvero difficile, e tutto sommato contraddittorio,<br />
sostenere che una volta esclusa la trasgressione della regola possa residuare<br />
uno spazio di operatività della colpa generica. In realtà, l’asserita convergenza della colpa<br />
generica sembra tradurre l’esigenza di rendere più ampia la sfera della responsabilità colposa<br />
per taluni soggetti qualificati, in funzione di una capillare e accentuata tutela del bene giuridico<br />
coinvolto’’.<br />
( 19 ) Ex multis, sentenza Corte d’Assise Milano, 6 giugno 2003: ‘‘la consulenza medicolegale<br />
richiesta dall’accusa ha evidenziato un difetto di somministrazione della terapia a base di<br />
eparina, segnalando, in particolare, che le attuali Linee-Guida della Società Italiana... indicano...’’.
GIURISPRUDENZA COMMENTATA<br />
Tribunale di Bergamo, 16 novembre 2004<br />
Giud. Gerosa – Percassi<br />
449<br />
Nel caso di delitto comune commesso dal cittadino all’estero in danno di<br />
uno straniero, la richiesta ministeriale costituisce, in ogni caso, una necessaria<br />
condizione di procedibilità (1).<br />
(1) Alcune riflessioni in materia di punibilità per il delitto comune commesso dal cittadino<br />
all’estero.<br />
1. L’annotata decisione fornisce significativi parametri interpretativi da applicarsi<br />
in sede di esegesi del testo normativo dell’art. 9, ergo in tema di delitto comune commesso<br />
dal cittadino all’estero.<br />
Il Tribunale di Bergamo ha infatti ribadito l’assoluta necessarietà della richiesta<br />
del Ministro della Giustizia ai fini della valida instaurazione di un procedimento penale,<br />
nel caso di delitto commesso da un cittadino italiano all’estero in danno di uno straniero.<br />
Viene così ulteriormente confermato e specificato un precedente ed analogo<br />
orientamento( 1 ) secondo il quale, per la perseguibilità del delitto comune commesso<br />
dal cittadino all’estero in danno di uno straniero, procedibile d’ufficio o a querela di<br />
parte, occorre sempre la richiesta ministeriale. Nel caso di specie, la querela presentata<br />
non è stata considerata sufficiente quale condizione di procedibilità ai fini dell’instaurazione<br />
del relativo procedimento penale, atteso l’accertato difetto della richiesta ministeriale,<br />
necessaria in quanto il reato ipotizzato era stato commesso in territorio estero<br />
da un cittadino italiano in danno di una cittadina straniera. Tanto più, come ha sottolineato<br />
il Tribunale, che il reato descritto nel decreto di citazione a giudizio risultava<br />
perseguibile d’ufficio in ragione delle circostanze aggravanti contestate, cosa che ha impedito,<br />
a maggior ragione, di ritenere la querela proposta sostitutiva rispetto alla richiesta<br />
ministeriale mancante. Di conseguenza, il Tribunale ha correttamente prosciolto<br />
l’imputato per difetto di una necessaria condizione di procedibilità.<br />
2. Un primo profilo di riflessione sul dato normativo di riferimento (art. 9 c.p.) viene<br />
offerto dall’analisi dell’inciso di chiusura del primo comma della norma medesima.<br />
In dottrina e giurisprudenza si è infatti a lungo dibattuto se, per la procedibilità<br />
( 1 ) Cfr., ex plurimis, Corte d’Appello di Trento, 28 novembre 1980, Tauber, in Giur.<br />
mer., 1982, p. 963, con ampia nota di Cerqua.
450<br />
GIURISPRUDENZA COMMENTATA<br />
nei confronti del cittadino che ha commesso un delitto comune all’estero nei confronti<br />
di uno straniero, sia necessario che questi sia venuto a trovarsi nel territorio dello<br />
Stato( 2 ): ciò potrebbe affermarsi sulla base di un’interpretazione logica e sistematica<br />
delle varie proposizioni nelle quali si articola la norma, che andrebbe, pertanto, considerata<br />
unitariamente, come un complesso di disposizioni integrantesi fra loro. Bisognerebbe<br />
quindi considerare che la presenza del reo nel territorio dello Stato, nonostante<br />
ne sia fatta menzione solo nel comma 1, sia necessaria in tutte le ipotesi formulate nei<br />
tre commi dell’art. 9 c.p. Se tale condizione, infatti, è prevista dal primo comma dell’art.<br />
9 per i reati più gravi, a maggior ragione dovrebbe ritenersi necessaria per i casi meno<br />
gravi previsti dai capoversi della norma stessa, che non sono in contrasto con la prima<br />
parte, né risultano in se stessi completi e autonomi, ma dipendono, come necessaria<br />
conseguenza, dalle premesse poste nel comma 1. Un ulteriore sostegno di tale interpretazione<br />
parrebbe essere offerto dal comma 3 del medesimo articolo: si può infatti parlare<br />
di ‘‘estradizione’’ o di ‘‘mancata estradizione’’, solamente in quanto si abbia la disponibilità<br />
del reo o del presunto reo.<br />
Si ritiene inoltre che, per il verificarsi della condizione richiesta, sia sufficiente la<br />
materiale presenza del soggetto per almeno un giorno, qualunque ne sia stata la causa;<br />
non ha rilievo dunque, né il motivo della presenza del soggetto nel territorio, né la durata<br />
della presenza stessa.<br />
Il verificarsi della presenza del reo, infatti, è da riferirsi al momento di esercizio<br />
dell’azione penale, non rilevando che la stessa sia poi venuta meno( 3 ).<br />
Ritiene lo scrivente che la presenza del reo debba in ogni caso considerarsi una<br />
condizione di procedibilità, nonostante non sia uniforme il pensiero sulla sua qualificazione<br />
giuridica, se debba essere considerata cioè una condizione di procedibilità odi<br />
punibilità( 4 ). Per la prima tesi propendono parte della giurisprudenza di legittimità ( 5 )<br />
e della dottrina( 6 ) secondo cui, analogamente alla richiesta, all’istanza e alla querela,<br />
anche la presenza del reo nel territorio dello Stato è condizione che non attiene alla<br />
struttura del fatto-reato o alla sua punibilità, bensì alla procedibilità dell’azione penale,<br />
soggiacendo quindi alle regole proprie delle condizioni di procedibilità, con la conseguenza<br />
che l’inizio di tale presenza costituisce il dies a quo di decorrenza del termine<br />
per l’esercizio dell’azione penale ( 7 ).<br />
A sostegno della natura processuale della presenza del reo nel territorio dello<br />
Stato, è stata osservata l’irragionevole conseguenza derivante dall’applicazione, al c.d.<br />
( 2 ) Tale interpretazione trova riscontro anche nella relazione ministeriale al progetto<br />
del codice penale. Per ulteriori approfondimenti, cfr. Lavori prep., vol. V, t. 1, p. 42: ‘‘Così<br />
nell’una ipotesi come nell’altra si richiede che il colpevole si trovi nel territorio dello Stato’’.<br />
( 3 ) Così Cass. pen., 19 aprile 1971, in Giust. pen., 1972, III, 19, 24; secondo un altro<br />
orientamento (Cass. pen., 13 giugno 1991, n. 188032), è necessario, invece, che la presenza<br />
vi sia alla definizione del giudizio di merito.<br />
( 4 ) Bricola, Punibilità (condizioni obiettive di), inNsD, XIV, 1967, p. 601; Antolisei,<br />
Diritto penale. Parte generale, Milano, 1989, p. 754.<br />
( 5 ) Cass. pen., 10 maggio 1991, in Cass. pen., 1992, p. 3041.<br />
( 6 ) Cfr. Mantovani, Diritto penale, Padova, 1992, p. 816; in senso conforme, Manzini,<br />
Trattato di diritto penale italiano, Torino, 1986, I, p. 474; Pannain, Manuale di diritto<br />
penale, Torino, 1967, p. 188; Antolisei, Manuale di diritto penale, cit., p. 661; Fiandaca-<br />
Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2001, p. 752.<br />
( 7 ) Cass. pen., 29 gennaio 1993, Shoukry Tarek, in Mass. Uff., n. 193321.
GIURISPRUDENZA COMMENTATA<br />
451<br />
‘‘reato esterno’’, del disposto dell’art. 158 in tema di prescrizione del reato: opinando<br />
nel senso della natura sostanziale della condizione, la prescrizione del delitto commesso<br />
all’estero sarebbe incomparabilmente più lunga (e forse anche irrangiungibile nel caso<br />
in cui il reo non rientri mai in Italia) rispetto a quella del delitto interno, con evidenti<br />
disparità di trattamento riguardo al cittadino che commette lo stesso delitto in Italia( 8 ).<br />
Ulteriore spunto di riflessione è quello relativo ai termini per la richiesta ministeriale<br />
e il suo successivo ottenimento.<br />
In tal senso, l’intero art. 128 c.p. fa riferimento a due differenti termini. In base al<br />
primo comma, il termine è di tre mesi dal giorno in cui l’Autorità ha avuto notizia del<br />
fatto che costituisce reato, mentre in base al secondo comma il termine è di tre anni dal<br />
giorno in cui il reo si trova nel territorio dello Stato.<br />
L’interpretazione di tale articolo risulta controversa: la giurisprudenza prevalente<br />
e parte della dottrina ritengono che i due termini abbiano campi d’applicazione distinti:<br />
in tal senso, il primo – di tre mesi dalla conoscenza del fatto-reato – andrebbe riferito ai<br />
reati commessi nel nostro territorio, mentre il secondo – tre anni dalla presenza del colpevole<br />
nel territorio dello Stato – si riferirebbe ai reati commessi all’estero per i quali la<br />
procedibilità sia subordinata alla presenza dell’autore nel territorio italiano.<br />
I due termini appena indicati non si sovrapporrebbero, neppure parzialmente, riferendosi<br />
a due diverse categorie di reati( 9 ).<br />
Secondo autorevole dottrina, peraltro, tale interpretazione non sarebbe da condividere:<br />
in tal senso si prospetta una diversa soluzione secondo la quale l’art. 128 comma<br />
1, si riferirebbe ai reati per il cui perseguimento sia necessaria la richiesta, mentre per<br />
tutti gli altri casi in cui sia prevista l’ulteriore condizione di procedibilità della presenza<br />
dell’autore nel territorio dello Stato, la richiesta dovrà comunque aversi al più tardi<br />
entro tre anni dal momento in cui è integrata tale condizione( 10 ); tale tesi non ha tuttavia<br />
avuto oggi alcun riscontro giurisprudenziale.<br />
In ogni caso, il più breve termine di tre mesi si ritiene debba iniziare a decorrere<br />
dal giorno in cui l’Autorità (in tal caso il Ministro di Giustizia) ha avuto notizia del<br />
fatto-reato.<br />
3. Se il delitto comune commesso dal cittadino italiano all’estero è punibile, a<br />
norma della legge italiana, con l’ergastolo o con la reclusione non inferiore nel minimo<br />
a tre anni, si procede in Italia senza che occorra la presenza di altre condizioni, al di<br />
fuori della presenza del reo, salvo che non si tratti di delitto punibile a querela della<br />
persona offesa. In tal caso, oltre alla presenza del cittadino nel territorio dello Stato,<br />
è necessaria, infatti, anche la querela. Con tale previsione, si intende evitare, quindi,<br />
la prassi elusiva di rendere procedibile d’ufficio, in quanto commesso all’estero, un<br />
reato che, se commesso in Italia, sarebbe perseguibile a querela della persona offesa.<br />
Nel caso in cui, invece, si tratti di delitto punibile con una pena restrittiva della<br />
libertà personale inferiore a quella prevista nel primo comma, è necessario, ai fini della<br />
procedibilità, che, oltre alla presenza del cittadino nello Stato, vi siano alternativamente<br />
( 8 ) Aprile, sub art. 9, in Codice penale commentato, a cura di Marinucci-Dolcini,<br />
1999, pp. 130 ss., cit., p. 131 e, per ulteriori approfondimenti, cfr. Dean, Norme penali e<br />
territorio, cit., p. 332. Norme penali e territorio, Milano, 1963, p. 332.<br />
( 9 ) Cfr. Cass. pen., 19 ottobre 1992, Tarek, in Foro it., 1993, I, p. 280.<br />
( 10 ) Per tutti, cfr. Romano, Commentario sistematico al codice penale, vol. I, Milano,<br />
1995, p. 128.
452<br />
GIURISPRUDENZA COMMENTATA<br />
la richiesta del Ministro di grazia e giustizia o l’istanza della persona offesa o la querela,<br />
se si tratta di delitto perseguibile a querela.<br />
Il dato normativo di cui all’art. 9 comma 2 c.p. non pare lasciare spazio a diverse<br />
interpretazioni.<br />
È evidente, infatti, che se il legislatore avesse voluto anche nell’art. 9 affiancare alla<br />
richiesta, ritenuta necessaria, l’istanza o la querela, a seconda dei casi, lo avrebbe dichiarato<br />
espressamente.<br />
Si può quindi concludere sostenendo che, nel caso in cui il reato offenda un interesse<br />
dello Stato, inteso come una persona giuridica che esplica, come tale, al pari di<br />
ogni altro soggetto, attività determinate, quali quelle inerenti alla pubblica amministrazione,<br />
all’amministrazione della giustizia e così via( 11 ), condizione di procedibilità sarà<br />
la richiesta del Ministro della Giustizia che, quale organo pubblico, sarà il più idoneo a<br />
valutare l’opportunità di procedere. Se il reato offende, invece, un interesse del quale è<br />
portatore un singolo, condizione di procedibilità sarà quella che tiene conto della rilevanza<br />
che l’ordinamento attribuisce al potere di disposizione del privato, e cioè, a seconda<br />
dei casi, la querela o l’istanza.<br />
4. Abbiamo già sottolineato come l’art. 9 vada interpretato in senso unitario;<br />
anche l’ultima parte di esso che riporta l’espressione ‘‘nei casi previsti dalle disposizioni<br />
precedenti’’, lascia intendere che la fattispecie in essa prevista è contenuta nell’ambito<br />
di quelle contemplate dai commi precedenti e che queste, quindi, si trovano rispetto<br />
all’ultima in un rapporto di genere a specie( 12 ). Di conseguenza, i commi 1 e 2 dell’art.<br />
9 hanno per oggetto tutti i delitti, ad eccezione di quelli tra essi che abbiano come soggetto<br />
passivo specifico un cittadino straniero o uno Stato estero, come richiesto, invece,<br />
esplicitamente dal comma 3.<br />
Tale disposizione mutua, infatti, dalle precedenti i suoi caratteri essenziali sia per<br />
quanto riguarda il requisito della presenza dell’autore nel territorio italiano, sia per<br />
quanto riguarda le restanti condizioni di procedibilità. In tal caso, però, la richiesta ministeriale<br />
assume il carattere di assoluta necessarietà, considerata l’opportunità politica<br />
sottesa alla punizione di un delitto commesso all’estero da un cittadino italiano ai danni<br />
di uno Stato estero o di uno straniero.<br />
Il Tribunale di Bergamo ha giustamente statuito in conformità all’orientamento<br />
unanimemente accolto sia in dottrina che in giurisprudenza, secondo il quale, l’inciso<br />
normativo in questione va interpretato nel senso che oltre alla querela sia necessaria<br />
la richiesta di procedimento del Ministro della Giustizia ritualmente presentata al<br />
P.M. ex art. 342 c.p.p.; sarebbe vano e palesemente contrario alla ratio legis, infatti, sostenere<br />
che ‘‘in virtù del richiamo effettuato dal terzo comma dell’art. 9 c.p. alle disposizioni<br />
di cui ai commi 1 e 2 dello stesso articolo, ove si tratti di delitto perseguibile a<br />
querela la sussistenza di tale condizione di procedibilità sarebbe sufficiente pur in assenza<br />
della richiesta del Ministro della Giustizia’’( 13 ).<br />
Nella sentenza in commento, era stata presentata dalla parte lesa, straniera, solamente<br />
la querela, senza che fosse presente la richiesta ministeriale che il Giudice ha correttamente<br />
ritenuto propedeutica alla procedibilità dell’azione penale.<br />
( 11 ) Così, testualmente, Cass. pen., 19 febbraio 1979, Buscetta, in Foro it., 1980, II, p. 68.<br />
( 12 ) Ibidem.<br />
( 13 ) Sono le parole usate dal Tribunale di Bergamo nella sentenza in commento.
GIURISPRUDENZA COMMENTATA<br />
453<br />
Ad avviso dello scrivente, non si può che condividere pienamente la decisione del<br />
Giudice di Bergamo, in quanto non si potrebbe permettere che il delitto comune non<br />
perseguibile d’ufficio( 14 ), commesso all’estero a danno di uno Stato estero o di uno<br />
straniero, da cittadino italiano, sia punibile a seguito della sola presentazione della querela,<br />
senza alcuna richiesta ministeriale, posto che quest’ultima assume carattere di assoluta<br />
necessarietà, in considerazione dell’opportunità politica sottesa alla punizione del<br />
colpevole di un delitto commesso ai danni di Stato estero o di straniero( 15 ).<br />
La corretta interpretazione del giudice di Bergamo, trova conferma anche nel raffronto<br />
dell’art. 9 comma 3 con l’art. 8, il quale, come specificato prima, dispone che,<br />
per poter procedere nei confronti di un cittadino o di uno straniero che abbia commesso<br />
all’estero un delitto politico non compreso tra quelli indicati nel n. 1 dell’art.<br />
7, è necessaria la richiesta del Ministro di Grazia e Giustizia. Nel caso in cui si tratti<br />
di delitto procedibile a querela della persona offesa, quest’ultima dovrà sempre essere<br />
accompagnata dalla relativa richiesta.<br />
Gli artt. 8 e 9 comma 3 devono essere necessariamente collegati tra loro, per la<br />
stretta correlazione che esiste tra le varie disposizioni che li compongono, e il criterio<br />
guida fornito all’interprete per cogliere il vero significato e le esatte statuizioni delle<br />
norme deve fondarsi sulla uguale intensità dell’interesse dello Stato nel perseguire i responsabili<br />
dei delitti da tali norme previsti. Alla luce di tali considerazioni, un’interpretazione<br />
fondata su tale criterio porta ad escludere categoricamente che la procedibilità<br />
in Italia per un delitto comune commesso all’estero in danno di uno straniero, procedibile<br />
a querela della persona offesa secondo la legge italiana, incontri minori limitazioni<br />
rispetto alla procedibilità per un delitto politico commesso all’estero e punibile<br />
ugualmente a querela. Non si potrebbe sostenere, infatti, che per procedere in Italia<br />
nei confronti dell’autore di un delitto comune perseguibile a querela, commesso in<br />
danno di uno straniero, sarebbe sufficiente la sola querela, mentre per procedere nei<br />
confronti dell’autore di un delitto politico perseguibile a querela, sia necessaria anche<br />
la richiesta ministeriale, in quanto in entrambe è evidente la rilevanza dell’interesse<br />
dello Stato a perseguire il colpevole. La ratio sottesa agli artt. 8 e 9 comma 3, è simile.<br />
Il primo disciplina, infatti, il caso di offesa ad ‘‘un interesse politico dello Stato’’, ovvero<br />
ad ‘‘un diritto politico del cittadino’’, il secondo, invece, ha un’accezione più ampia, riferendosi<br />
al ‘‘delitto comune commesso a danno di uno Stato estero o di uno straniero’’,<br />
senza alcun riferimento esplicito alla natura dell’interesse leso, ma, in entrambi i casi, si<br />
tratta di illeciti che offendono interessi o diritti stranieri.<br />
Il legislatore, pertanto, ben consapevole dell’identica ratio di tali norme, ha ritenuto,<br />
quindi, di disciplinarle nello stesso modo, ritenendo necessaria la richiesta ministeriale<br />
in entrambe.<br />
A contrario, se si ritenesse sufficiente la sola richiesta ministeriale, senza la querela, si<br />
creerebbero prassi elusive dei principi dell’ordinamento penale; a tale proposito è d’uopo<br />
fare alcune considerazioni. È facile osservare, infatti, che talune conseguenze di un tale<br />
orientamento sarebbero fortemente inopportune (per es. i delitti contro la libertà sessuale<br />
potrebbero essere tutti perseguiti nonostante la contraria volontà della parte lesa).<br />
( 14 ) Nella sentenza in commento, tra l’altro, in virtù delle circostanze aggravanti contestate,<br />
il reato sarebbe stato comunque procedibile d’ufficio.<br />
( 15 ) Così, cfr. Cass. pen., 19 febbraio 1979, Buscetta, cit.
454<br />
GIURISPRUDENZA COMMENTATA<br />
L’ultimo comma del citato art. 9 c.p. si limita, infatti, a stabilire che nel caso di<br />
delitto commesso in territorio estero, in danno di uno Stato estero o di uno straniero,<br />
il colpevole, qualora sussistano le condizioni di procedibilità riguardanti la presenza nel<br />
territorio dello Stato e l’estradizione, è punito a richiesta del Ministro della Giustizia.<br />
Tale atto amministrativo, come prima specificato, dovrà essere sempre accompagnato<br />
dalla querela della persona offesa, quando è prevista per la procedibilità di determinati<br />
reati. In caso contrario ci si porrebbe in evidente antitesi con i principi generali del nostro<br />
diritto penale che non prevedono la procedibilità per determinati reati se non in<br />
seguito alla manifestazione di volontà in tal senso della parte offesa. Non potrebbe, pertanto,<br />
ammettersi una deroga a tale principio senza un’espressa disposizione del legislatore<br />
e, come si è visto, l’art. 9 non prevede alcuna eccezione al riguardo. L’art. 120 c.p.,<br />
d’altra parte, statuendo che ‘‘ogni persona offesa da un reato per cui non debba procedersi<br />
d’ufficio o dietro richiesta o istanza ha diritto di querela’’, introduce il principio<br />
della facoltatività di tale atto, rimesso quindi a una mera valutazione personalistica della<br />
persona offesa.<br />
Inoltre, tale interpretazione trova conferma nel coordinamento delle norme dell’articolo<br />
citato con quelle del precedente art. 8 c.p.<br />
A una prima lettura, si potrebbe concludere nel senso che le differenti dizioni dei<br />
due articoli indichino una diversa volontà del legislatore, che ‘‘ubi voluti, dixit, ubi noluit,<br />
tacuit’’.<br />
Ma ben si comprende l’infondatezza di tale orientamento, se si analizzano i due<br />
articoli in coordinamento tra di loro e se si tiene conto del vario grado di interesse dello<br />
Stato a perseguire i colpevoli dei delitti ivi previsti. Se dunque per i reati politici perseguibili<br />
a querela, non è sufficiente la mera richiesta ministeriale, a maggior ragione<br />
sarà indispensabile la volontà della persona offesa nel caso di reati comuni.<br />
5. Dalla lettera dell’art. 9 ultimo comma, risultano formulati in modo espresso due<br />
requisiti di procedibilità: una condizione positiva (richiesta ministeriale), come dettagliatamente<br />
analizzato sopra, e la mancata concessione dell’estradizione (nella terminologia<br />
del codice: ‘‘mancata concessione dell’estradizione’’ o ‘‘offerta dell’estradizione<br />
non accettata’’ dallo Stato estero interessato), intesa come condizione di procedibilità,<br />
negativamente costruita.<br />
Nel codice di rito attuale, unica ipotesi di estradizione passiva formulata dal legislatore<br />
è ormai quella della ‘‘estradizione su richiesta’’ dello Stato estero. Secondo la<br />
dottrina più attendibile, si ha ‘‘mancata concessione’’ dell’estradizione non solo nei casi<br />
in cui questa è stata rifiutata, ma anche quando, più semplicemente, essa non sia stata<br />
concessa, qualunque sia la ragione: rifiuto, atteggiamento di non interesse da parte dello<br />
Stato estero, mancata attivazione del procedimento di estradizione.<br />
Si può dunque affermare, con riferimento all’art. 9 comma 3 c.p., che, ai fini della<br />
procedibilità, non occorre che prima della richiesta ministeriale sia stata esperita con<br />
esito negativo la procedura di estradizione, essendo sufficiente che a quest’ultima<br />
non si sia fatto luogo( 16 ). Ciò non implica pertanto la necessità di una previa domanda;<br />
significa soltanto che quando vi sia stata la concessione non è consentito procedere. Insomma:<br />
il rifiuto della concessione (e quindi la previa domanda dello Stato estero) non<br />
( 16 ) Ex plurimis, cfr. Cass. pen., 12 giugno 1987, Ceravolo, in Cass. pen., 1989, p. 1471.
GIURISPRUDENZA COMMENTATA<br />
455<br />
è condizione della procedibilità, mentre è esatto affermare che l’avvenuta concessione<br />
impedisce la procedibilità stessa.<br />
Peraltro, il richiamo alle norme in tema di estradizione per la procedibilità del<br />
delitto commesso dal cittadino all’estero ai danni di Stato estero o di straniero, induce<br />
ad una riflessione finale: è necessaria la c.d. doppia incriminazione del fatto secondo<br />
le leggi dello Stato estero e dell’Italia? Questo è un principio cardine delle<br />
regole estradizionali, il mancato rispetto del quale rende assolutamente improponibile<br />
la domanda di estradizione e determina serie conseguenze in tema di punibilità<br />
in concreto.<br />
Il legislatore, riguardo ai casi di reato comune di cui all’art. 9 c.p. comma 3, non si<br />
è espresso in alcun modo, ma la dottrina penalistica è generalmente incline a ritenere<br />
che la doppia incriminazione sia clausola implicita in queste disposizioni( 17 ).<br />
A sostegno di tale tesi, si può fare riferimento all’art. 13 c.p. che disciplina l’istituto<br />
dell’estradizione e, al secondo comma, statuisce espressamente che se il fatto che<br />
forma oggetto della domanda di estradizione, non è preveduto come reato dalla legge<br />
italiana e dalla legge straniera, l’estradizione non è ammessa. Partendo da questa disposizione,<br />
si è dedotto che se il legislatore ha richiesto la clausola della doppia incriminazione,<br />
in una norma cardine del diritto penale internazionale, tale clausola deve essere<br />
ritenuta implicita nella disciplina di tutti i reati commessi all’estero. Tale ragionamento<br />
spiegherebbe agevolmente la necessità della doppia incriminazione anche per la fattispecie<br />
di cui al comma 3 dell’art. 9 c.p., in quanto il testuale richiamo all’estradizione<br />
concessa ne impone il rispetto, ma più difficilmente per le altre ipotesi previste in tale<br />
articolo in cui non si rinviene alcun riferimento specifico all’estradizione. La condizione<br />
della mancata estradizione si esige, infatti, solo nel caso di delitto commesso a danno di<br />
uno Stato estero o di uno straniero.<br />
Nella Relazione Ministeriale sul progetto definitivo del codice penale, pur senza<br />
che si dia all’affermazione adeguata motivazione così statuiva: ‘‘occorre che il fatto costituisca<br />
reato anche secondo la legge del luogo in cui fu commesso’’( 18 ).<br />
La circostanza che il requisito della doppia incriminazione sia espressamente contenuto<br />
nelle conclusioni del ministro relatore, e la sua mancata menzione, invece, nell’art.<br />
9, sarebbe dunque prospettabile come elemento a favore della soluzione negativa.<br />
Tale argomento letterale, alquanto risalente nel passato, non può essere di per sé del<br />
tutto probante, potendo, infatti, la volontà normativa risultare dal coordinamento delle<br />
norme in questione con le altre, oppure dall’efficacia dei principi generali, come analizzeremo<br />
meglio di seguito.<br />
L’art. 9, disciplinando in via generica il caso di delitto del cittadino commesso all’estero,<br />
ci induce a dedurre che il principio di stretta legalità, cui è informato il nostro<br />
diritto penale, sia rispettato sia formalmente che sostanzialmente, purché il fatto sia previsto<br />
come reato dall’ordinamento giuridico italiano. La conseguenza principale di tale<br />
principio è costituita dalla richiesta di accessibilità, quanto meno formale ed astrattamente<br />
accertabile, del destinatario dell’obbligo penalmente sanzionato alla fonte da<br />
( 17 ) Levi, Diritto penale internazionale, Milano, 1949, pp. 146 ss., e del Caraccioli,<br />
L’incriminazione da parte dello straniero dei delitti commessi all’estero e il principio di stretta<br />
legalità, inRiv. it. dir. proc. pen., 1962, pp. 1006.<br />
( 18 ) InLavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, vol. V, parte<br />
I, 1929, p. 36.
456<br />
GIURISPRUDENZA COMMENTATA<br />
cui esso deriva( 19 ). Il profilo caratteristico e rilevante ai nostri fini di tale principio, previsto<br />
dall’art. 1 c.p. e ribadito dall’art. 25 Cost., ad avviso della opinione dottrinale in<br />
esame, è quello garantistico. In tal caso si deve, quindi, introdurre la clausola della<br />
doppia incriminazione per tutte le ipotesi dell’art. 9 c.p. per rispettare la ratio del principio<br />
di legalità, che è quella di fornire una regola di comportamento ( 20 ). L’estensione<br />
della doppia incriminazione anche all’art. 9 impedisce una sostanziale sperequazione<br />
proprio ai danni del cittadino ( 21 ).<br />
Si deve aggiungere che, perché la clausola sia rispettata, è sufficiente che il fatto sia<br />
previsto genericamente come reato; non si esige, cioè, né identità di titolo giuridico, né<br />
identità di conseguenze penali. Sarebbe infatti difficilmente concepibile, stante le diversità<br />
non solo terminologiche, ma anche di tecnica legislativa tra i vari ordinamenti penali,<br />
la previsione di pene identiche sia per qualità che per quantità. Inoltre, il raffronto<br />
tra le norme incriminatici italiana e straniera non va fatto in astratto, bensì in concreto,<br />
per vedere se il fatto concreto ricada nelle previsioni normative di ambedue, anche se le<br />
fattispecie astrattamente previste dai due legislatori contengono qualche elemento non<br />
coincidente.<br />
Da ciò si deduce anche l’impossibilità di poter perseguire in Italia un reato per il<br />
quale non sia rispettato il principio di doppia incriminazione di cui sopra.<br />
Guido Camera<br />
( 19 ) Caraccioli, L’incriminazione, cit., p. 1029; Gallo, La legge penale, Torino,<br />
1999, p. 90.<br />
( 20 ) Altri autori hanno ritenuto di individuare, nella interpretazione costituzionalmente<br />
orientata dell’art. 5, operata dalla Corte Costituzionale con sentenza 364/1988, un ulteriore<br />
elemento a favore dell’applicazione del principio di doppia incriminazione per il fatto commesso<br />
dallo straniero all’estero; secondo tale impostazione sarebbe contraddittorio ammettere<br />
che lo straniero che commette il fatto all’estero possa beneficiare dell’incolpevole conoscenza<br />
del diritto penale italiano, a differenza del cittadino che, commettendo il fatto all’estero,<br />
non potrebbe giovarsi di tale ignoranza derivante dalla incolpevole conoscenza del<br />
diritto penale italiano (sul punto, cfr. Picotti, Giur. sist., I, p. 194).<br />
( 21 ) Così Cass. pen., 24 gennaio 1940, in Giur. it., 1941; II, p. 65.
DIRITTO <strong>PENALE</strong> STRANIERO, COMPARATO, COMUNITARIO<br />
457<br />
Diritto penale straniero, comparato, comunitario<br />
ZBORNIK PRAVNOG FAKULTETA SVEUČILIS ˇ TA U RIJECI<br />
Rijeka, 2005, v. 26, br. 2, str. XII+627-1126<br />
Nel presente numero si segnalano numerosi articoli di interesse penalistico.<br />
Il primo è un lavoro di indagine empirica in sociologia penale (Velinka<br />
Grozdanić, Karlavaris Bremer, Incarcerazione per le tossicodipendenti<br />
– Repressione e/o prevenzione?), nel quale le Autrici dichiarano<br />
che la consapevolezza della significativa presenza delle droghe nella vita<br />
delle donne in generale, e in particolare nelle carceri per donne, ha operato<br />
come incentivo per questa ricerca diretta a rispondere alla questione se l’incarcerazione<br />
di tossicodipendenti rappresenta repressione, prevenzione o<br />
entrambe. La ricerca ha riguardato un totale di 44 donne condannate alla<br />
pena della carcerazione, 9 delle quali collocate nell’Istituto penale di Pozˇega<br />
(Croazia), e 35 nell’Istituto penale di Schwäbisch Gmünd (Germania).<br />
I questionari sono stati riempiti nei centri penali, la partecipazione è stata<br />
volontaria e anonima. I dati raccolti sono stati analizzati secondo le procedure<br />
statistiche fondamentali, mentre i risultati sono stati presentati graficamente<br />
e analizzati descrittivamente. I risultati di questa ricerca corrispondono<br />
in grande misura alle altre ricerche relative alle donne incarcerate,<br />
ma anche suggeriscono alcune conclusioni inaspettate.<br />
Il secondo è un altro contributo di ricerca empirica di sociologia criminale<br />
(Ljiljana Miksˇaj Todorović, Ksenija Butorac, Ricerca delle<br />
differenze nella struttura della famiglia di minori delinquenti nella Repubblica<br />
di Croazia prima e dopo la guerra), con il quale le Autrici si propongono<br />
di individuare le possibili differenze nelle caratteristiche della struttura<br />
familiare di minori delinquenti prima e dopo la guerra. La ricerca è<br />
stata condotta su due gruppi di soggetti – minori delinquenti che sono stati<br />
condannati da tribunali per i minori della Repubblica di Croazia per differenti<br />
fatti penali: il primo campione consiste di 4056 minori condannati nel<br />
periodo tra il 1987 e il 1991, descritto come periodo pre-bellico, mentre il<br />
secondo consiste di 2870 minori condannati tra il 1995 e il 2001, cioè nel<br />
periodo descritto come post-bellico. Le differenze sono state stabilite sulla<br />
base del testo x-quadrato e i risultati dimostrano differenze statistiche significative<br />
tra i due gruppi in nove delle dieci variabili monitorate della
458<br />
DIRITTO <strong>PENALE</strong> STRANIERO, COMPARATO, COMUNITARIO<br />
struttura familiare, evidenziando che la generazione post-bellica di minori<br />
delinquenti raramente viveva con entrambi i genitori, mentre solo nell’età<br />
più precoce nella casa familiare. Questo gruppo aveva raramente entrambi<br />
i genitori vivi, i padri essendo deceduti relativamente più spesso che le<br />
madri. Inoltre in questa generazione i genitori raramente vivevano insieme,<br />
spesso erano divorziati e i soggetti erano più spesso figli extra-coniugali che<br />
quelli del primo gruppo. I cambiamenti distruttivi nella struttura familiare<br />
sono intervenuti generalmente nella popolazione croata durante la guerra,<br />
quindi appaiono logicamente pure nelle famiglie di minori delinquenti condannati<br />
dopo la guerra. In alcuni casi la guerra ha causato direttamente la<br />
rottura della struttura familiare, in altri ha avuto un effetto catalizzatore su<br />
processi che erano già in corso nelle famiglie prima che la guerra fosse cominciata.<br />
Lo sviluppo di programmi di prevenzione della criminalità di<br />
bambini e giovani, che necessariamente include risorse umane e finanziarie<br />
per il trattamento delle famiglie, affronta grandi sfide. Ci sono già numerosi<br />
programmi di intervento e trattamento a livello individuale e familiare, così<br />
come a livello di comunità e società, i cui principali promotori sono organizzazioni<br />
non-governative. A parte questi programmi predisposti per l’insieme<br />
della popolazione, c’è ancora un compito non adempiuto di rimediare<br />
ai traumi sofferti in molti modi dai bambini, come la perdita o la sparizione<br />
fisica di un membro della famiglia, l’aver assistito alla violenza, i<br />
danni alla casa o la continuazione della vita con una persona sofferente<br />
di sindrome da stress post-traumatico.<br />
Il terzo è una nota di analisi giurisprudenziale sul diritto umanitario<br />
internazionale (Douwe Korff, Caso ‘‘Gibilterra’’. Un’analisi della sentenza<br />
della Corte europea dei diritti umani nel caso McCann e altri contro<br />
Regno Unito), con il quale l’Autore commenta il fatto accaduto in Gibilterra<br />
il 6 marzo 1988, dove soldati del Reggimento britannico ‘‘Servizi<br />
Aerei Speciali’’ colpirono a morte tre sospetti terroristi dell’IRA, Daniel<br />
McCann, Sean Savage e Mairead Farrell. La commissione di indagine dichiarò<br />
verdetti di ‘‘uccisione legittima’’ e i soldati non furono perseguiti.<br />
I procedimenti civili, presentati in Irlanda del Nord dai parenti dei deceduti,<br />
furono efficacemente bloccati dal Governo, attraverso l’uso di un documento<br />
che impediva alla Corte di accertare la responsabilità del Governo<br />
per le uccisioni. Il 27 settembre 1995 la Corte europea dei diritti umani in<br />
Strasburgo emise sentenza nel caso McCann e altri contro Regno Unito,<br />
giudicando con uno stretto margine di 10 a 9 che l’Art. 2 era stato violato.<br />
Fu la prima volta che qualunque Governo europeo veniva trovato colpevole<br />
dalla Corte dell’uso illegittimo di forza letale da parte di funzionari<br />
di polizia. Il caso ‘‘Gibilterra’’, mentre è debole in alcuni aspetti, sottolinea<br />
che i governi democratici non sono liberi di affrontare la violenza politica e<br />
il terrorismo con la stessa indifferenza per la vita umana che è mostrata dai<br />
gruppi armati che si oppongono allo stato. È lo scopo di questo articolo<br />
analizzare (criticamente) la sentenza, e in particolare identificare le que-
DIRITTO <strong>PENALE</strong> STRANIERO, COMPARATO, COMUNITARIO<br />
459<br />
stioni di maggiore implicazione per tutti gli Stati membri del Consiglio di<br />
Europa.<br />
Il quarto è un elaborato su sistema e pratica di diritto penale internazionale<br />
(Marissabell Skorić, Tribunali penali internazionali misti), nel quale<br />
l’Autrice discute le caratteristiche basilari dei tribunali penali internazionali<br />
misti insediati in Timor Est, Kosovo, Sierra Leone, Cambogia e Bosnia ed Erzegovina,<br />
illustrando i loro vantaggi e svantaggi. La combinazione dei migliori<br />
elementi del sisterna giudiziario sia domestico che internazionale è stato<br />
uno degli obiettivi essenziali dei tribunali penali internazionali misti. Tuttavia<br />
i tribunali penali internazionali misti affrontano le stesse difficoltà che abbisognano<br />
di essere risolte negli altri per consentire un efficiente perseguimento<br />
dei crimini di guerra. Queste difficoltà riguardano primariamente la<br />
questione dell’applicazione retroattiva delle leggi, l’insufficiente esperienza<br />
nel processare crimini di guerra, dei giudici tanto nazionali quanto internazionali,<br />
i problemi connessi ai mezzi finanziari, e altre questioni discusse<br />
nel lavoro. Per sfruttare appieno i loro potenziali, i tribunali penali internazionali<br />
ibridi esistenti dovrebbero fare maggiore utilizzo degli esperti giuridici<br />
domestici, essere maggiormente legati alla popolazione locale e aiutare<br />
la costruzione dei sistemi legali dei paesi in cui operano. Se i tribunali penali<br />
internazionali misti dovevano divenire una parte dei sistemi legali domestici e<br />
dovevano dirigere una parte del loro potenziale verso la riforma dei sistemi<br />
legali nazionali, essi potrebbero in futuro avere un ruolo significativo nella<br />
realizzazione della giustizia e porre fine alla cultura dell’impunità ancora dominante<br />
nei paesi dove sono stati commessi i crimini più orribili.<br />
Il quinto è un saggio complesso di teoria e prassi di diritto penale<br />
croato, comparato e internazionale (Dalida Rittossa, Dispute sul diritto<br />
di aborto nella Repubblica di Croazia), per il quale non esiste comune intesa<br />
sull’accettazione del diritto di aborto, le basi legali, i confini della tutela e<br />
l’onere di questo diritto nella letteratura accademica e nell’opinione pubblica.<br />
Perciò il diritto di aborto è presentato in questo articolo come una<br />
questione giuridica costituzionale e penale. È analizzata la Legge sulle misure<br />
sanitarie per l’esercizio del diritto alla libera decisione sulla generazione<br />
di figli, così come le soluzioni proposte dai Progetti sull’aborto del<br />
1995 e 1996. Secondo le disposizioni della Convenzione CEDAW e le disposizioni<br />
sui diritti umani fondamentali della Costituzione della Repubblica<br />
di Croazia, il diritto all’aborto costituisce uno dei diritti umani fondamentali,<br />
cosiddetti diritti di procreazione, originati dal diritto alla riservatezza,<br />
dal diritto all’autodeterminazione e dalla libertà di coscienza e di<br />
credo religioso. Comparando le prassi dei maggiori organi giudiziali nella<br />
Repubblica Federale di Germania e negli Stati Uniti d’America, sono definiti<br />
i confini di questo diritto umano fondamentale. In questo articolo sono<br />
presentati altresì i dati statistici sull’interruzione di gravidanza nella Repubblica<br />
di Croazia e i risultati di indagini sugli atteggiamenti del pubblico nei<br />
confronti dell’aborto.
460<br />
DIRITTO <strong>PENALE</strong> STRANIERO, COMPARATO, COMUNITARIO<br />
Il sesto è uno scritto descrittivo-valutativo di normative e prassi umanitarie<br />
e penali internazionali (Ivana Radačić, Posizione delle donne e<br />
trattamento della violenza di genere nel diritto umanitario internazionale e<br />
penale internazionale), con il quale l’Autrice analizza la posizione delle<br />
donne e la regolazione della violenza bellica di genere, in particolare la violenza<br />
sessuale come la più frequente manifestazione di violenza di genere,<br />
attraverso la storia nel diritto penale e umanitario internazionale. L’articolo<br />
inizia con la breve descrizione del diritto regolativo della violenza sessuale<br />
bellica prima della costituzione dei due tribunali ad hoc – il Tribunale penale<br />
internazionale per la ex Jugoslavia e il Tribunale penale internazionale<br />
per il Rwanda. Dopo ciò l’articolo analizza le norme e la giurisprudenza<br />
sensibile al genere dei due tribunali ad hoc per i contributi al miglioramento<br />
del trattamento delle donne nel diritto penale internazionale. L’articolo<br />
analizza infine i nuovi lineamenti della Corte penale internazionale<br />
permanente nella prospettiva di genere, valutando in che misura le sue<br />
norme rappresentano la riconcettualizzazione dei confini del diritto penale<br />
internazionale. L’articolo chiude con la valutazione della posizione delle<br />
donne all’interno dei confini attuali del diritto penale internazionale.<br />
Davide Bertaccini
INVIATO SPECIALE<br />
PER UNA GIUSTIZIA <strong>PENALE</strong> PIÙ SOLLECITA:<br />
OSTACOLI E RIMEDI RAGIONEVOLI.<br />
IL PROBLEMA NELLE FASI DI GRAVAME<br />
(Lecce, 14-15 ottobre 2005)<br />
461<br />
Inviato speciale<br />
1. Presso il Palazzo di Giustizia di Lecce il 14 e 15 ottobre 2005, si è<br />
tenuta la sessione finale del XXIV Convegno di studio Enrico de Nicola sul<br />
tema ‘‘Per una giustizia penale più sollecita: ostacoli e rimedi ragionevoli. Il<br />
problema nelle fasi di gravame’’.<br />
Organizzato dal Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale, in<br />
collaborazione con il Centro Studi Giuridici ‘‘Michele De Pietro’’, l’incontro<br />
di studio è stato dedicato al ricordo di Girolamo Minervini e Girolamo<br />
Tartaglione.<br />
La prima delle due sessioni si era svolta a Milano, il 18 marzo 2005, in<br />
collaborazione con il Dipartimento dei Sistemi Giuridici ed Economici dell’Università<br />
degli Studi di Milano-Bicocca, e, dedicata al rimpianto Maestro<br />
prof. Gian Domenico Pisapia a dieci anni dalla scomparsa, ha trattato<br />
le premesse generali e le tematiche dell’abuso del processo e della prescrizione,<br />
con particolare riguardo al procedimento di primo grado.<br />
Entrambe le sessioni di studio hanno posto in discussione un tema di<br />
pregnante attualità: l’esigenza, oramai avvertita da tutti – addetti ai lavori e<br />
opinione pubblica –, di una giustizia più celere ed effettiva. Si ha, infatti,<br />
oggi l’impressione che la risposta dello Stato alla domanda di giustizia,<br />
che è in costante crescita, sia sempre più tardiva e lenta, pregiudicando<br />
la posizione non solo dell’imputato ma anche della persona offesa dal reato.<br />
In proposito, non vanno trascurati i moniti provenienti dalla Corte di Strasburgo<br />
e dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa verso il nostro<br />
Stato, affinché venga rispettato il principio della durata ragionevole del<br />
processo, requisito indispensabile perché lo stesso possa definirsi equo.<br />
La seconda sessione del XXIV Convegno de Nicola ha offerto l’occasione<br />
per proporre un meditato contributo al difficile ma irrinunciabile<br />
sforzo d’assicurare una giustizia certa ed effettiva in tempi ragionevoli,<br />
con particolare attenzione al problema nelle fasi di gravame.<br />
I relatori, sotto la presidenza, nella prima fase dei lavori, del prof. Giovanni<br />
Conso e, nella seconda, dell’avv. Vittorio Aymone, presidente del
462<br />
INVIATO SPECIALE<br />
Centro Studi Giuridici ‘‘Michele de Pietro’’, hanno assunto il compito di<br />
analizzare le cause che dilatano la durata dei giudizi di impugnazione, al<br />
fine di individuare i rimedi che, de iure condendo, potrebbero essere adottati<br />
per rendere tale durata ragionevole, senza omettere l’esame (a volte<br />
anche critico), dei progetti di riforma attualmente pendenti in Parlamento.<br />
Il prof. Delfino Siracusano, nella relazione introduttiva, ha evidenziato<br />
l’importanza della sessione finale del XXIV Convegno in quanto finalizzata<br />
a completare le iniziali indicazioni circa la durata del procedimento di<br />
primo grado e, in particolare, delle indagini preliminari, con le notazioni<br />
circa i tempi delle impugnazioni, nelle differenti prospettive dell’impugnazione<br />
intesa come garanzia soggettiva e dell’impugnazione intesa come carattere<br />
della giurisdizione: prospettive che, seppur apparentemente distanti,<br />
dovrebbero interagire fra loro.<br />
Peraltro l’esigenza di una sinergia e di un coordinamento tra garanzie<br />
soggettive e oggettive è avvertita come improrogabile non solo dalla dottrina<br />
ma anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.<br />
In effetti, secondo il relatore, si assiste oggi, da una parte, a spinte riformistiche<br />
volte a circoscrivere i tempi delle impugnazioni, al fine di rendere<br />
ragionevole la durata del processo, attraverso anche la semplificazione<br />
delle forme, dall’altra a spinte – emergenti soprattutto dalla prassi – orientate<br />
in senso contrario, cioè volte a introdurre nuove e ulteriori garanzie,<br />
nell’ottica di rafforzare anziché comprimere i giudizi di appello e di cassazione.<br />
Ecco perché in questo scenario, quando si esaminano i problemi della<br />
ragionevole durata del processo, si è sottolineato che non vanno trascurate<br />
le due diverse dimensioni prospettate, vale a dire l’aspirazione teorica, propensa<br />
a circoscrivere i tempi dell’impugnazione, e l’esigenza della pratica,<br />
tendente invece alla conservazione (e alla dilatazione) dei giudizi di impugnazione.<br />
Con specifico riferimento all’appello, l’esigenza di semplificazione e di<br />
riduzione dei tempi diventa una esigenza non solo vagliata sul piano normativo<br />
ma anche confortata dall’atteggiamento pratico: emergono, infatti,<br />
situazioni in cui sembrano convergere l’esigenza di semplificazione e l’esigenza<br />
di rispetto per le garanzie soggettive.<br />
Ad esempio, l’ipotesi dell’impugnazione congiunta dell’ordinanza con<br />
la sentenza: in tal caso, si raggiunge l’effetto di circoscrivere i tempi dell’esercizio<br />
della giurisdizione ma nel pieno rispetto del contraddittorio,<br />
perché residua la possibilità di una valutazione critica sulla base della sentenza<br />
che avallerà o disapproverà le decisioni adottate durante la pendenza<br />
del processo in ordine a situazioni da risolvere in modo interlocutorio.<br />
Altra ipotesi in cui convergono le due prospettive è costituita dal giudizio<br />
in camera di consiglio conseguente al cosiddetto concordato sui motivi<br />
di appello.<br />
Infine, la medesima convergenza può essere riscontrata nell’ultima in-
INVIATO SPECIALE<br />
463<br />
novazione intervenuta in relazione alla redazione parcellizzata della sentenza<br />
per reati plurisoggettivi.<br />
Quanto al ricorso per cassazione (e, a tal proposito, non va dimenticato<br />
che in origine il giudizio di cassazione era ancorato prevalentemente<br />
alla difesa dello ius constitutionis che poteva anche prevalere sullo ius litigatoris)<br />
sièassistito a una lenta trasformazione dello stesso da strumento<br />
eccezionale a rimedio normale: ciò èavvenuto per effetto della progressiva<br />
dilatazione delle categorie dei legittimati a impugnare, dei provvedimenti<br />
impugnabili e dei motivi di ricorso deducibili.<br />
Da ultimo, il relatore ha sottolineato che la giurisdizione deve essere<br />
affermata come valore: a tal proposito, non va dimenticato che le norme<br />
sull’obbligatorietà dell’azione penale, sul contraddittorio per la prova e<br />
sul ricorso per cassazione sono inserite (nella Costituzione) tra le norme<br />
sulla giurisdizione: ciò significa che nella giurisdizione confluiscono ius constitutionis<br />
e ius litigatoris che rappresentano, pertanto, non due diverse<br />
realtà ma la medesima.<br />
2. Riguardo all’appellabilità, secondo quanto sostenuto dal prof. Mario<br />
Pisani, non è risultato dall’analisi delle norme costituzionali – in linea del resto<br />
con le indicazioni della Consulta – che lo stesso sia un tema costituzionalmente<br />
vincolato. Esso non sembrerebbe, inoltre, neppure condizionato dalle fonti<br />
sovranazionali (ad esempio, l’art. 14, § 5 del Patto sui diritti civili e politici dell’ONU<br />
e l’art. 2 del Protocollo n. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo),<br />
rimanendo pertanto solo una scelta affidata al legislatore ordinario.<br />
Alla luce di tale considerazione, il contributo del relatore, volto a rivisitare la<br />
materia in esame alla luce del canone della ‘‘durata ragionevole del processo’’,<br />
si è sviluppato attraverso la prospettazione di un triplice ordine di profili.<br />
Quanto ai profili di carattere oggettivo, il relatore ha ritenuto opportuno,<br />
per ragioni di natura sistematica, mantenere il giudizio d’appello, con<br />
riferimento anche ai giudizi in assise, alle sentenze dei giudici monocratici e<br />
alle sentenze emesse in contumacia. È stata, inoltre, ribadita l’importanza<br />
di mantenere anche l’impugnazione della sentenza di non luogo a procedere.<br />
Si è esclusa, peraltro, l’opportunità che il legislatore delinei un catalogo<br />
tassativo di motivi formalmente predeterminati. Sempre in tema di<br />
motivi, e di spazi di appellabilità, si è auspicato un intervento legislativo<br />
possibilmente chiarificatore sul tema dei motivi nuovi di impugnazione<br />
previsti nell’art. 585 comma 4 c.p.p.<br />
Riguardo ai profili di carattere soggettivo dell’appellabilità, sono stati<br />
esaminati due problemi. Il primo concernente il tema, di spiccata attualità,<br />
relativo all’appello del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento:<br />
tale argomento è stato affrontato sia sotto il profilo dell’inadeguatezza<br />
delle argomentazioni dottrinali orientate alla sua abolizione sia sotto<br />
quello dei riflessi sistematici e ordinamentali che siffatta proposta di abrogazione<br />
comporterebbe.
464<br />
INVIATO SPECIALE<br />
Il secondo attinente alla disciplina – meritevole di abrogazione – contenuta<br />
nell’art. 577 c.p.p. che consente l’impugnazione anche a fini penali<br />
avverso decisioni concernenti i reati di ingiuria e diffamazione.<br />
Infine, e in prospettiva dinamica, si è sottolineata la necessità di porre<br />
dei freni all’utilizzo abusivo da parte dell’imputato dell’istituto dell’appello.<br />
In tale ottica, si è auspicato il ritorno al sistema previgente delineato negli<br />
art. 207 e 209 c.p.p. 1930 quanto all’opportunità di affidare anche al giudice<br />
di primo grado il controllo sull’ammissibilità formale dell’appello e,<br />
inoltre, l’istituzione di appositi ‘‘uffici spoglio’’ presso il giudice di secondo<br />
grado. Nella prospettiva poi volta al contenimento degli abusi degli appelli,<br />
non poteva certamente essere trascurata né la tematica (e l’opzione) della<br />
riformabilità in peius né quella di una nuova disciplina della prescrizione,<br />
in relazione alla quale tempi meno brevi di prescrizione, interpolati da una<br />
loro sospensione in pendenza dell’appello proposto dall’imputato, rappresenterebbero<br />
un concreto e efficace disincentivo di appelli pretestuosi.<br />
Per quanto attiene più specificamente al procedimento in appello, il<br />
dott. Luigi Lanza, presidente della II corte d’assise d’appello di Venezia,<br />
sulla base dei dati giudiziari disponibili, ha elaborato una serie di dati di<br />
sintesi tali da consentire una valutazione circa la capacità o incapacità globale<br />
del sistema penale italiano a far fronte, in tempi ragionevoli, alla domanda<br />
di giustizia in sede di appello.<br />
In tale quadro sono stati evidenziati sostanzialmente quattro elementi:<br />
a) negli ultimi dodici anni, il 54% degli imputati di delitto è stato prosciolto;<br />
b) nello stesso periodo solo il 4,57% dei condannati a pena detentiva<br />
per delitto ha subito una sanzione superiore ai tre anni di reclusione; c)<br />
il beneficio della sospensione condizionale della pena è risultato in continua<br />
crescita; d) le pronunce di estinzione di reati per intervenuta prescrizione<br />
sono progrediti con ritmo crescente: a ogni 100 pronunce di prescrizione<br />
nel 2001 hanno corrisposto ben 170 alla fine del 2004.<br />
Da siffatto scenario è emerso, inoltre, che la durata media per la celebrazione-definizione<br />
di un procedimento penale davanti alle corti di appello<br />
è risultato di un anno, otto mesi, otto giorni, che è diventato di sei<br />
mesi e ventitré giorni davanti alle corti di assise di appello, mentre la durata<br />
media dell’intervallo di tempo tra la data del commesso delitto e la sentenza<br />
in grado di appello è risultato di cinque anni e quattro mesi.<br />
Al riguardo, per focalizzare le cause ricorrenti della mancata definizione<br />
del processo nella prima udienza di appello, è stata illustrata la ricerca-campione<br />
su tutti i processi (vale a dire 860) portati in udienza in<br />
corte di appello a Venezia nei mesi di febbraio-marzo-aprile del 2005.<br />
Gli esiti dell’indagine effettuata sono stati così sintetizzati: a) il 18,5%<br />
dei processi chiamati all’udienza non si sono definiti in quello stesso<br />
giorno; b) nell’ambito dei processi rinviati, il 54% ha avuto come giustificazione<br />
una causa interna al processo; c) i difetti e le invalidità della notifica<br />
hanno rappresentato il 14,4% dei casi; d) la rinnovazione dell’istruttoria di-
INVIATO SPECIALE<br />
465<br />
battimentale o altre ragioni d’ufficio hanno raggiunto il 39,6% del campione;<br />
e) i rinvii per dedotto e comprovato impedimento dell’imputato o<br />
del suo difensore insieme hanno totalizzato il restante 46% delle evenienze<br />
di rinvio (33,5% l’impedimento dell’imputato appellante; 12,5% l’impedimento<br />
del suo difensore).<br />
Escluso un aumento dell’organico dei consiglieri in appello (valutata<br />
anche la correttezza dei criteri seguiti nella determinazione delle piante organiche),<br />
si è proposto – al fine di rendere giustizia in tempi ragionevoli –<br />
la riduzione del collegio decisorio a due soli componenti (un relatore e un<br />
Presidente oppure un relatore-presidente e un consigliere a latere) per tutte<br />
le condanne a pene inferiori ai tre anni (o che comunque – se confermate –<br />
rientrino in favorevoli regimi di trattamento penitenziario) e appellate dal<br />
solo imputato o dal suo difensore, in assenza di gravame del pubblico ministero<br />
o del Procuratore Generale.<br />
Il tendenziale recupero di un magistrato ogni tre potrebbe rappresentare,<br />
infatti, una prima e seria praticabile risposta al quadro di non-giustizia,<br />
sotto il profilo della durata ragionevole del processo in appello, offerta<br />
oggi dal nostro sistema.<br />
3. In relazione al tema della ricorribilità in cassazione, il prof. Gilberto<br />
Lozzi ha puntualizzato che, al fine di realizzare una durata ragionevole del<br />
processo, non è proprio vero che il codice di rito vigente non abbia fatto<br />
nulla: in verità, non ha fatto nulla sotto il profilo dell’appellabilità delle sentenze<br />
(anzi, il numero delle sentenze suscettibili di appello è aumentato),<br />
mentre, proprio al fine di evitare la trasformazione della Corte di cassazione<br />
in un giudice di merito e, soprattutto, al fine di ridurre il numero<br />
dei ricorsi per cassazione, il codice vigente ha contemplato un apposito<br />
motivo di ricorso per vizio di motivazione, proponibile solo nelle ipotesi<br />
in cui il vizio medesimo risulti dal testo del provvedimento impugnato.<br />
Al contrario, il codice abrogato non prevedeva nell’art. 524 c.p.p. un<br />
apposito motivo di ricorso per vizio di motivazione. Infatti, la possibilità di<br />
ricorso per cassazione nel caso di carenza o contraddittorietà della motivazione<br />
discendeva dal combinato disposto dell’art. 524 n. 2 c.p.p. 1930 (che<br />
prevedeva il ricorso per cassazione per inosservanza delle norme processuali<br />
penali stabilite a pena di nullità) e dell’art. 475 n. 4 c.p.p. 1930<br />
(che prevedeva la nullità della sentenza per carenza o contraddittorietà<br />
della motivazione): la possibilità di ravvisare una nullità della motivazione<br />
e, quindi, di ricorrere per cassazione era ampia.<br />
Sulla base del vigente codice di rito, invece, la possibilità di ricorrere<br />
per cassazione per vizio di motivazione risulta subire forti limitazioni, ritenute<br />
peraltro irragionevoli.<br />
In particolare, con riferimento a una motivazione di una sentenza di<br />
condanna sintonica col dispositivo ma smentita dagli atti processuali, si<br />
sono prospettate tre ipotesi: nel caso di una condanna conseguente a
466<br />
INVIATO SPECIALE<br />
una prova non risultante dagli atti del processo, si potrebbe esperire il ricorso<br />
per violazione di una norma processuale stabilita a pena di inutilizzabilità,<br />
ai sensi del combinato disposto degli art. 191 c.p.p. e 526<br />
c.p.p.; nel caso, invece, di una condanna conseguente a un travisamento<br />
della prova oppure a una mancata valutazione di una prova a favore dell’imputato,<br />
sembrerebbe preclusa la possibilità di ricorrere per cassazione.<br />
Ciò comporta sicuramente dubbi di legittimità costituzionale sotto il<br />
profilo del diritto di difesa garantito dall’art. 24 Cost. (in rapporto anche<br />
al principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost.), del diritto alla prova<br />
garantito dall’art. 111 comma 3 Cost. e dell’obbligo di motivazione dei<br />
provvedimenti giurisdizionali sancito dall’art. 111 comma 6 Cost., tanto<br />
più se si considera che numerose altre norme processuali – come l’art.<br />
129 c.p.p., l’art. 619 comma 3 c.p.p., l’art. 620 lett. a e l c.p.p., lo stesso<br />
art. 606 lett. c e d c.p.p.– richiedono alla Corte di cassazione, per essere<br />
applicate, una cognitio facti ex actis, ossia una cognizione del fatto basata<br />
sull’esame degli atti processuali.<br />
Il vizio di legittimità costituzionale prospettato appare ancor più grave<br />
allorché concerna una sentenza inappellabile o una sentenza di condanna<br />
emanata per la prima volta in appello su impugnazione del pubblico ministero<br />
contro sentenza di assoluzione oppure allorché la prova a difesa, la<br />
cui valutazione risulti omessa, sia stata assunta nel giudizio di appello a seguito<br />
di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale. In queste ipotesi, mancando<br />
sia un riesame nel merito sulle ragioni della condanna sia la sindacabilità<br />
da parte della Corte di cassazione dell’omessa valutazione della prova<br />
a difesa o il travisamento della stessa, non risultante dal testo del provvedimento<br />
impugnato, non verrebbe consentita alcuna doglianza per violazione<br />
del diritto alla prova.<br />
Inoltre, tale vizio appare ancor più evidente se si confronta l’art. 606<br />
lett. e c.p.p. con l’art. 606 lett. d c.p.p., secondo cui il ricorso per cassazione<br />
è proponibile nel caso di mancata assunzione di una prova decisiva,<br />
quando la parte ne ha fatto richiesta a norma dell’art. 495 comma 2 c.p.p.:<br />
sembra, infatti, illogico ammettere il ricorso per cassazione quando la controprova<br />
non è stata assunta e non ammetterlo quando la prova è stata assunta<br />
ma poi non è stata minimamente considerata dal giudice.<br />
Dalle precedenti considerazioni si è dedotto che l’intenzione del legislatore<br />
di ridurre la ricorribilità per cassazione delle sentenze è parsa senza<br />
dubbio apprezzabile; ma la via seguita dallo stesso di rendere insindacabili<br />
gravi violazioni del diritto alla prova e, conseguentemente, di sacrificare il<br />
diritto di difesa, parebbe censurabile.<br />
Pertanto, per cercare di ridurre il numero di ricorsi in cassazione,<br />
senza eliminare il caso di ricorso concernente il vizio di motivazione, sarebbe<br />
necessario modificare l’art. 111 Cost., riducendo il numero delle sentenze<br />
ricorribili in cassazione. Inoltre, si è sottolineata pure l’opportunità<br />
che i collegi giudicanti siano costituiti da tre magistrati anziché cinque, così
INVIATO SPECIALE<br />
467<br />
da recuperare altre quattro sezioni. Dubbi sono stati avanzati inoltre sull’utilità<br />
della presenza (e della discussione) in udienza degli avvocati dal momento<br />
che gli stessi si limiterebbero a parafrasare i motivi già depositati e<br />
che i giudici, considerato che solamente il giudice-relatore conosce la causa<br />
trattata, simulerebbero nei loro confronti una cortese attenzione.<br />
In definitiva, il relatore ha ribadito che la soluzione volta a ridurre i<br />
casi di ricorso in cassazione, al fine di contribuire a realizzare la durata ragionevole<br />
del processo, risiede nella modifica dell’art. 111 Cost., prevedendo<br />
che non tutti i provvedimenti giurisdizionali siano suscettibili di ricorso.<br />
Con riferimento, invece, al procedimento in cassazione, il dott. Giorgio<br />
Lattanzi, consigliere della Corte di cassazione, ha sottolineato che la durata<br />
media di tale giudizio non sarebbe da considerarsi eccessiva: si calcola, infatti,<br />
in tre mesi per la declaratoria d’inammissibilità e in dieci mesi per gli<br />
altri giudizi.<br />
Piuttosto, è stato rilevato che il procedimento stesso non può essere<br />
valutato solamente in termini di durata ma soprattutto in termini di qualità<br />
del prodotto della Corte (sotto il profilo del rapporto tra scopo del ricorso<br />
in cassazione e risultato del medesimo).<br />
In tale prospettiva, pertanto, sarebbe necessario raggiungere un compromesso<br />
tra l’esigenza posta dall’art. 111 Cost. e l’esigenza, egualmente<br />
avvertita, indicata dall’art. 65 ord. giud. (anch’essa di rango costituzionale<br />
perché si ricollega all’art. 3 Cost.), secondo cui la Corte di cassazione, quale<br />
organo supremo di giustizia, deve assicurare «l’esatta osservanza e l’uniforme<br />
interpretazione della legge», ossia assolvere alla funzione di nomofilachia.<br />
Siffatto compromesso potrebbe essere ottenuto cercando di distinguere<br />
le sentenze che devono svolgere la funzione di ‘‘precedente’’ da<br />
quelle che hanno essenzialmente la funzione di decidere il terzo grado di<br />
giudizio nel caso concreto: si dovrebbe, dunque, chiarire meglio quando<br />
la Cassazione intende avvalorare un’affermazione di principio che deve<br />
rappresentare un ‘‘precedente’’ dagli altri casi (che rappresentano la maggioranza)<br />
in cui il compito della Corte consiste nel decidere, in terza<br />
istanza, la singola fattispecie. Nell’ottica poi volta ad assicurare che la Cassazione<br />
assolva alla funzione nomofilattica assegnatale dall’ordinamento<br />
giudiziario, bisognerebbe cercare di ridurre i gravi e frequenti contrasti<br />
tra le singole sezioni della Cassazione.<br />
Dopo aver ribadito, pertanto, che la crisi della Cassazione, a differenza<br />
di quella della giustizia penale in generale, non è di tempi o di durata ma di<br />
ruolo o di cultura, si è puntualizzato che la Cassazione non è in grado di<br />
svolgere le proprie funzioni, il proprio ruolo e, ovviamente, una delle ragioni<br />
di tale crisi è l’elevato numero di ricorsi che pervengono alla Corte.<br />
Solo nell’anno 2004 sarebbero giunti, infatti, in cassazione 47.867 ricorsi,<br />
di cui solo il 15% è stato accolto, mentre tutti gli altri sono stati dichiarati
468<br />
INVIATO SPECIALE<br />
inammissibili o rigettati, con la conseguenza che, nei casi in cui il ricorso è<br />
stato dichiarato inammissibile, non si è assistito tanto all’esercizio di un diritto<br />
ex art. 111 Cost. quanto al suo abuso, perché il ricorso è stato presentato<br />
al solo fine di ‘‘perdere tempo’’.<br />
Sulla base delle indicazioni contenute nel primo disegno di legge (cosiddetto<br />
Pecorella) di riforma delle impugnazioni, e nella prospettiva di ridurre<br />
il numero dei ricorsi (nonché, nel contempo, di attribuire maggior<br />
dignità agli stessi), è stato ritenuto opportuno, de iure condendo, eliminare<br />
la previsione contemplante la possibilità per la parte di proporre ricorso<br />
personalmente. Infatti, la circostanza che la redazione del ricorso richieda<br />
per sua natura una indubbia dose di tecnicismo giustificherebbe la regola<br />
che alla stessa debba provvedere un avvocato, considerato inoltre che la<br />
maggior parte dei ricorsi presentati personalmente dalla parte – che ammontano<br />
al 19% circa – è stata dichiarata inammissibile.<br />
Nella medesima direzione è volta pure l’ulteriore (e condivisa) indicazione<br />
di prevedere un meccanismo di inammissibilità de plano per una serie<br />
determinata di ipotesi (ad esempio, nel caso di ricorso proposto fuori termine,<br />
o da chi non abbia diritto all’impugnazione, o quando il provvedimento<br />
non è impugnabile): forse si potrebbe addirittura tornare a una regola<br />
come quella contenuta nel codice del 1930, per cui l’inammissibilità<br />
era dichiarata dal giudice a quo, corretta da un meccanismo di eventuale<br />
dichiarazione de plano in cassazione nel caso di impugnazione avverso<br />
detta inammissibilità.<br />
4. Con specifico riferimento poi alle altre legislazioni, sono stati presentati<br />
tre interventi. La prof.ssa Novella Galantini ha rilevato che il principio<br />
della durata ragionevole del processo è stato recepito nell’ordinamento<br />
francese, nell’article preliminaire del code de procédure pénale dove<br />
espressamente si stabilisce che la pronuncia definitiva sull’imputazione<br />
deve essere emessa ‘‘dans un délai raisonnable’’.<br />
Per l’attuazione di tale principio il legislatore francese ha operato su<br />
piani diversi: sul piano ordinamentale, con l’istituzione del juge de proximité<br />
e con l’ampliamento della competenza del juge inique; sul piano processuale<br />
favorendo riti alternativi all’azione penale quali la mediazione e la<br />
composizione penale, riconducibili alla cosiddetta troisième voie: istituti<br />
che evitano al pubblico ministero di esercitare l’azione penale e che lo portano<br />
a emettere un provvedimento di archiviazione condizionato all’adempimento<br />
da parte del soggetto che si sottopone alla mediazione o alla composizione<br />
penale di obblighi risarcitori e/o riparatori.<br />
Recentemente, con la legge Perben II del 9 marzo 2004, è stato inserito<br />
nel sistema francese il rito del plaider coupable che comporta una<br />
sorta di patteggiamento sulla base del riconoscimento di responsabilità.<br />
Lo stesso, a differenza della mediazione e della composizione penale,<br />
comporta l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero
INVIATO SPECIALE<br />
469<br />
ed è volto funzionalmente alla deflazione del carico giudiziario dei tribunali.<br />
La riduzione dei tempi processuali non sembrerebbe perseguita sul<br />
piano dei mezzi di impugnazione che, anziché essere ridotti, vengono potenziati.<br />
Tale ampliamento è giustificato dal fatto che il sistema francese<br />
non teme le impugnazioni dilatorie perché ha un meccanismo di cause interruttive<br />
della prescrizione particolare. Infatti i termini di prescrizione<br />
dell’azione penale pubblica sono relativamente brevi e possono essere interrotti<br />
con qualsiasi possibile strumento: in merito vi sono previsioni legislative,<br />
ma soprattutto vi è una tendenza netta della giurisprudenza ad<br />
ampliare il novero delle cause interruttive. Tra queste ultime è inserita<br />
pure la presentazione di un appello, che pertanto scoraggia sicuramente<br />
le impugnazioni dilatorie dell’imputato. Per questo motivo il legislatore<br />
francese amplia invece di ridurre i mezzi di impugnazione: in tempi recenti,<br />
infatti, ha introdotto un istituto nuovo, l’appello delle sentenze<br />
emesse dalla corte di assise, tradizionalmente escluse da tale mezzo impugnativo.<br />
Sempre nell’ottica di ampliamento dei mezzi di impugnazione, è stato<br />
introdotto, nel sistema francese, il riesame di una decisione penale a seguito<br />
di una sentenza resa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo: si tratta di<br />
una impugnazione di sentenze irrevocabili di condanna emesse dal giudice<br />
francese in violazione delle disposizioni della Convenzione o dei suoi protocolli<br />
addizionali, quando si sia verificato un pregiudizio a carico del condannato<br />
che non sia rimediabile attraverso l’equo indennizzo previsto dalla<br />
stessa Convenzione.<br />
Non nuovo ma inserito tradizionalmente nel sistema impugnativo<br />
francese è pure lo strumento dell’opposizione, mezzo d’impugnazione<br />
contro le sentenze rese in assenza incolpevole dell’imputato. Dall’esame<br />
complessivo dei mezzi impugnativi del sistema francesi si è potuto desumere<br />
una tendenza generale a garantire i diritti dell’imputato o del condannato;<br />
parallelamente, si è notato un potenziamento dell’efficacia della risposta<br />
penale, ricercata anche attraverso l’introduzione di nuovi mezzi di<br />
impugnazione.<br />
Le indicazioni che provengono dall’analisi della legislazione francese si<br />
fondano, in sostanza, sulla ragionevolezza della durata del procedimento e<br />
sull’equilibrio nella predisposizione dei mezzi impugnativi.<br />
La prof.ssa Francesca Ruggieri, successivamente, ha tracciato una panoramica<br />
dell’ordinamento tedesco, esaminato nell’ottica del principio<br />
della durata ragionevole del processo. In tale contesto, ha sinteticamente<br />
delineato i caratteri procedimentali e ordinamentali del sistema, con peculiare<br />
attenzione all’iter del processo misto e all’organizzazione delle corti<br />
nel rispetto dello ‘‘scabinato’’ e della specializzazione degli organi giudicanti.<br />
In particolare, ha analizzato la struttura delle impugnazioni, la cui riforma,<br />
da tempo discussa in dottrina, non è mai stata attuata secondo un
470<br />
INVIATO SPECIALE<br />
disegno organico complessivo: la ragione parrebbe risiedere nella soddisfazione<br />
dei tedeschi per il loro attuale sistema delle impugnazioni.<br />
Peraltro, il fondamentale principio della durata ragionevole del processo<br />
è utilizzato nel sistema tedesco per mitigare la pena: in questa prospettiva,<br />
infatti, il giudice sarebbe autorizzato a infliggere una pena minore<br />
o a disporre addirittura il proscioglimento se la durata del processo, considerato<br />
il reato per cui si procede, è parsa eccessiva. Ulteriore peculiarità<br />
del sistema in esame è che l’appello – peraltro poco utilizzato – è consentito<br />
unicamente per i reati meno gravi (vale a dire quelli di competenza del giudice<br />
monocratico), in considerazione del fatto che in tali casi il processo di<br />
primo grado è sommario e, pertanto, meno garantito. Questa spiegazione,<br />
quindi, giustificherebbe l’omessa previsione dell’appello per i processi inerenti<br />
ai reati più gravi. Tali processi, infatti, essendo assistiti da maggiori<br />
garanzie, non necessitano di un secondo giudizio di merito pieno (come<br />
l’appello): per gli stessi, pertanto, sarebbe sufficiente la previsione di un<br />
controllo di legittimità.<br />
Anche con riferimento al processo inglese, infine, il prof. Luca Marafioti<br />
ha sottolineato la ridotta dimensione quantitativa che assume in concreto<br />
la fenomenologia delle impugnazioni, se comparata con il nostro sistema.<br />
Essa è conseguenza di fattori normativi e di costume, nel cui ambito<br />
il ruolo della giuria e i limiti frapposti alla proponibilità delle impugnazioni<br />
operano come decisivi fattori frenanti. Da un lato, infatti, la corte d’appello<br />
può autorizzare un appello solo se ritiene la condanna unsafe, requisito<br />
assai elastico. Dall’altro, è stato segnalato il rilievo che assume, nella dinamica<br />
dei mezzi d’impugnazione, l’istituto del leave, che funge da ‘‘tappo’’<br />
procedimentale, operando come lasciapassare di ogni controllo in materia<br />
ed escludendo dal gioco dei controlli un largo numero di potenziali appellanti.<br />
In questo scenario, è apparso difficile ricavare utili indicazioni operative<br />
circa gli scenari prefigurabili in prospettiva nell’esperienza italiana, attesa<br />
la peculiarità degli snodi del diritto all’impugnazione nel sistema inglese.<br />
Tuttavia, anche in tale sistema si è aperta la strada al dibattito in prospettiva<br />
di riforma, traducendosi in proposte rivolte a realizzare una<br />
maggiore flessibilità del sistema delle impugnazioni anche sulla spinta della<br />
recezione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo attraverso<br />
l’Human Rights Act 1998, nell’ottica di assicurare tutela a un vero e proprio<br />
diritto all’impugnazione. Nella medesima prospettiva di riforma, è stata<br />
considerata pure la creazione, mediante il Constitutional Reform Act<br />
2005, della Corte Suprema per il Regno Unito, destinata a soppiantare<br />
nel 2008 la House of Lord in materia penale.<br />
Insomma, la tipologia processuale inglese costituirebbe un sistema a sé<br />
stante rispetto alla nostra impostazione culturale: la componente consuetudinaria<br />
e discrezionale insita nell’attività giurisdizionale assume una valenza<br />
decisiva. I delicati equilibri in materia sarebbero garantiti dal tradizionale
INVIATO SPECIALE<br />
471<br />
culto del precedente e dal ruolo in concreto assunto dagli organi giurisdizionali.<br />
5. La Tavola Rotonda del Convegno, sotto la presidenza del prof.<br />
Giorgio Marinucci, infine, ha toccato, anche criticamente, i passaggi e le<br />
argomentazione più significative dei lavori congressuali.<br />
Anzitutto, il prof. Ennio Amodio ha sostenuto che nella politica delle<br />
riforme emergono almeno tre visuali distorte, che ha denominato fallacie.<br />
Per evitare la prima, ossia la fallacia della segmentazione, occorre non<br />
esaminare isolatamente i problemi dell’appello o della cassazione, ma tenere<br />
presente l’intero procedimento penale; bisogna, in sostanza, considerare<br />
il necessario rapporto di complementarietà tra appello e cassazione: se<br />
si restringe, ad esempio, l’ambito dell’appello (in termini soggettivi od oggettivi)<br />
necessariamente si va ad aggravare il successivo grado rappresentato<br />
dalla cassazione.<br />
La seconda fallacia, quella delle garanzie ubiquitarie, può essere aggirata<br />
riconoscendo che le garanzie e le tecniche di accertamento che connotano<br />
il primo grado di giudizio non debbono necessariamente riproporsi<br />
nei successivi gradi di impugnazione.<br />
Il terzo vizio logico concerne, infine, le prospettive di riforma dell’appello,<br />
vale a dire l’ipotesi di trasformazione del giudice di appello in una<br />
forma di mini-cassazione. Più precisamente, sulla base del presupposto<br />
che, siccome nel nuovo processo il principio del contraddittorio che caratterizza<br />
il primo grado di giudizio non potrà mai attuarsi nel secondo grado,<br />
allora al giudice d’appello si vorrebbe attribuire il compito ‘‘rescindente’’,<br />
cioè il compito di annullare e rinviare in primo grado il processo per acquisire<br />
le prove: è parso ovvio, tuttavia, che questa prospettiva di riforma rischierebbe<br />
di produrre tempi irragionevoli dal punto di vista della durata<br />
dei processi.<br />
Il prof. Mario Chiavario ha ribadito, inoltre, che l’impugnazione, in<br />
linea con l’insegnamento della Corte europea dei diritti dell’uomo, deve essere<br />
considerata una garanzia finalizzata esclusivamente a cercare di ottenere<br />
ragione quando si è avuto torto e non deve costituire uno strumento<br />
volto a cercare di lucrare dei benefici o dei vantaggi che non si sarebbero<br />
ottenuti ‘‘accettando’’ la sentenza emessa in primo grado.<br />
Al riguardo, ha precisato che le cause di estinzione del reato o dell’azione<br />
possono sì costituire oggetto di diritto ma non possono essere considerate<br />
comunque alla stessa stregua dei diritti fondamentali e, quindi, possono<br />
subire una disciplina diversa, ossia una disciplina finalizzata a disincentivare<br />
comportamenti che mirino a lucrare benefici a scapito di altri<br />
diritti o valori ritenuti fondamentali.<br />
Con specifico riferimento al problema della prescrizione, un sostegno<br />
alla soluzione dello stesso sembra offerto dall’atteggiamento ormai cristallizzato<br />
nella giurisprudenza delle sezioni unite della cassazione a proposito
472<br />
INVIATO SPECIALE<br />
del rapporto tra declaratoria di inammissibilità anche per manifesta infondatezza<br />
del ricorso e declaratoria di prescrizione: pur trattandosi purtroppo<br />
soltanto di un orientamento giurisprudenziale (anche se ormai consolidato),<br />
il medesimo meriterebbe di essere incoraggiato e cristallizzato<br />
normativamente. Inoltre, è apparso opportuno rimeditare i meccanismi<br />
che incidono sui termini di sospensione e/o interruzione della prescrizione.<br />
Sempre sul tema, il prof. Renzo Orlandi ha quindi affermato che va<br />
sdrammatizzato l’asserito uso pretestuoso (in funzione dilatoria) delle impugnazioni<br />
per guadagnare la prescrizione: infatti, dall’esame delle statistiche<br />
fornite dal ministero dal 1996 al 2004 non vi è dubbio che si assista<br />
ad una crescita spaventosa delle prescrizioni (nel 1996 erano 66.500 circa;<br />
nel 2004 erano quasi 222.000). Tuttavia, analizzando in quali fasi del procedimento<br />
penale vengono dichiarate le prescrizioni, è singolare notare<br />
come, nel 1996, il 70% avveniva nella fase preliminare, il 22% nel giudizio<br />
di primo grado, l’8% nel secondo grado (la Corte di cassazione non viene<br />
presa in considerazione perché, in sostanza, la relativa percentuale è inferiore<br />
all’1%); nel 2000, si nota, invece, un picco elevato delle dichiarazioni<br />
di prescrizione in appello; nel 2004, infine, si assiste ad una tendenza al ribasso:<br />
infatti, l’85% viene dichiarata nella fase preliminare (indagini preliminari<br />
e udienza preliminare), l’11% nel primo grado di giudizio e solo il<br />
4% in appello.<br />
Si è sottolineato, altresì, che l’appello non è solo una scelta d’opportunità<br />
politica ma anche una scelta imposta dalle convenzioni internazionali:<br />
ecco perché bisognerebbe riflettere su eventuali proposte di eliminazione<br />
dell’appello. Peraltro, al fine di risolvere il vero punto problematico del<br />
giudizio in appello, che consiste nel dare attuazione pure in tale fase al<br />
‘‘giusto processo’’, la soluzione preferibile, se il problema è quello di risolvere<br />
la questione del pericolo di una condanna emanata per la prima volta<br />
in secondo grado, consiste nel riformare l’art. 603 c.p.p. ampliando l’istruttoria<br />
dibattimentale in appello, magari consentendo all’imputato di impugnare<br />
con l’appello incidentale pure le sentenze che sarebbero inappellabili,<br />
superando così quell’orientamento della cassazione che non riconosce<br />
a chi non è appellante in via principale la possibilità di appellare incidentalmente.<br />
Il prof. Alfonso Stile ha poi rilevato che il problema della ragionevolezza<br />
della durata dei processi è di carattere relativo e non assoluto: infatti<br />
può dipendere, ad esempio, dalla struttura del nostro processo (ovvero la<br />
ragionevole durata è diversa se parliamo di giudizio ordinario o di rito abbreviato)<br />
o dalla natura della fattispecie concreta (i casi più complessi richiedono<br />
– di norma – un accertamento più lungo).<br />
È risultato altresì ovvio che sulla durata ragionevole del processo potesse<br />
incidere il problema del doppio grado di merito, tuttavia la necessità<br />
dell’appello è stata dimostrata dai suoi risultati: infatti, dall’analisi di statistiche<br />
sufficientemente precise emergerebbe che, in grado di appello, nel
INVIATO SPECIALE<br />
473<br />
10% dei casi si è assistito a una riforma dell’affermazione di colpevolezza<br />
mentre in oltre il 30% a una modifica della sanzione.<br />
Piuttosto, per rendere ragionevole la durata dell’appello (estremamente<br />
variabile nei vari distretti), bisognerebbe eliminare i tempi morti, determinati<br />
da diversi fattori, quali il ritardo nella trasmissioni degli atti al<br />
giudice ad quem, i tempi di fissazione del Presidente o della Corte o della<br />
sezione o delle sezioni penali, a seconda dello organizzazione; i criteri di<br />
fissazione delle udienze e, infine, i rinvii per difetti di notifica. A questo riguardo,<br />
potrebbe essere presa a modello la cassazione, la cui organizzazione,<br />
pur considerando l’elevato numero di ricorsi che alla stessa pervengono,<br />
è parsa efficiente anche sotto il profilo dell’utilizzazione dei tempi.<br />
Il prof. Enzo Zappalà ha messo in luce, infine, che le prospettive di<br />
riforma devono necessariamente combinare due criteri fondamentali: la<br />
presunzione di non colpevolezza e la durata ragionevole del processo, intesa<br />
non solo come connotato della giurisdizione ma anche come diritto<br />
dell’imputato a una durata ragionevole, senza trascurare la considerazione<br />
che l’inosservanza della ragionevole durata del processo giova al colpevole<br />
ma nuoce moltissimo all’innocente.<br />
Pertanto, una riforma delle impugnazioni dovrebbe, anzitutto, disconoscere<br />
i diritti contro il processo, vale a dire l’uso strumentale di atti processuali<br />
per effetti che non sono tipici dell’atto stesso.<br />
Quanto al problema della prescrizione, si è ribadito la sussistenza del<br />
diritto alla prescrizione del reato già realizzata (ossia se il reato è prescritto,<br />
la persona ha diritto di non essere punita per quel reato appunto perché<br />
estinto per prescrizione). Diversa da quella appena esaminata è, invece, risultata<br />
l’ipotesi in cui si è assistito a un uso strumentale delle impugnazioni<br />
per tendere alla prescrizione del reato (non ancora realizzata). Invero, per<br />
risolvere questo problema, sarebbe sufficiente cambiare i connotati della<br />
prescrizione, qualificandola non come causa estintiva del reato ma dell’azione.<br />
Andrea Paolo Casati
RECENSIONI E SCHEDE<br />
475<br />
Recensioni e schede<br />
Gabriele Fornasari-Antonia Menghini, Percorsi europei di diritto<br />
penale, Padova 2005, pp. 223.<br />
Mossi dall’esigenza di fornire agli studenti un supporto per il corso di<br />
diritto penale comparato, Fornasari e Menghini realizzano uno studio comparatistico<br />
dei fondamenti di diritto penale: senza alcuna pretesa di esaustività,<br />
gli autori svolgono una comparazione degli elementi costitutivi<br />
del reato e dei sistemi sanzionatori.<br />
Lo studio ha come principali ordinamenti di raffronto la Francia, la<br />
Spagna, la Germania, l’Inghilterra e il Portogallo; spazia, a seconda degli<br />
istituti che vengono trattati, dal diritto penale turco, croato, sloveno, russo,<br />
polacco, austriaco, svizzero a quello danese, belga, olandese, norvegese,<br />
svedese, irlandese, scozzese, con uno sguardo per quanto concerne la responsabilità<br />
delle persone giuridiche al sistema statunitense che rappresenta<br />
indubbiamente il modello in questo settore.<br />
Il metodo espositivo consiste in una presentazione essenziale dell’istituto,<br />
così come disciplinato dall’ordinamento italiano, evidenziandone le<br />
problematicità rilevate dalla nostra dottrina e giurisprudenza. Questa introduzione<br />
fornisce di regola i criteri di analisi alla luce dei quali viene condotta<br />
la comparazione. La scelta degli ordinamenti di comparazione è funzionale<br />
a mettere in risalto le peculiarità di ciascun istituto. L’ordinamento<br />
straniero viene considerato solo sotto la precisa angolazione strumentale al<br />
confronto; viene omessa qualsiasi introduzione di carattere storico-giuridico<br />
che esorbita le finalità della comparazione ed appesantirebbe lo<br />
studio.<br />
Il libro si apre con la trattazione, a cura del prof. Fornasari, del principio<br />
di legalità, quale principio fondante comune ai sistemi penali europei.<br />
Esso viene considerato nelle sue articolazioni di riserva di legge, di tassatività<br />
e divieto di analogia, di irretroattività della legge penale (pag. 2).<br />
Dalla comparazione emerge che il diritto penale spagnolo vanta la formulazione<br />
più severa del principio di riserva di legge: esso esclude infatti le<br />
fonti secondarie da qualsiasi competenza normativa, riservando invece alla<br />
‘‘legge organica’’, per la quale è richiesta una maggioranza rafforzata, il<br />
compito di prevedere sanzioni detentive.<br />
Minor rigore trova l’applicazione del principio nell’ordinamento fran-
476<br />
RECENSIONI E SCHEDE<br />
cese, dove è prevista dal codice penale un’espressa competenza dei regolamenti<br />
nell’ambito delle contravvenzioni.<br />
L’ordinamento tedesco invece offre un esempio di sistema federale in<br />
cui è riconosciuta una certa autonomia normativa in materia penale ai<br />
Länder. Tuttavia tale potestà non deve essere sopravvalutata, mette in<br />
guardia l’autore, perché comporta effetti pratici limitati ed è comunque<br />
subalterna alla competenza federale, costituendo un potere concorrente<br />
(pag. 8).<br />
L’analisi del principio di legalità consente di delineare in modo chiaro<br />
non solo le differenze tra ordinamenti di civil law, ma anche i punti di maggior<br />
distacco tra sistemi di common law e civil law.<br />
Proprio sul terreno della riserva di legge, l’autore rileva nei sistemi di<br />
common law la centralità del ‘‘precedente giurisprudenziale’’, l’importanza<br />
della stabilità degli orientamenti giurisprudenziali e il ruolo secondario<br />
svolto dagli statutes.<br />
Le differenze si accentuano laddove viene considerato il divieto di analogia.<br />
Se da un lato si osserva come i sistemi di common law ricorrano all’analogia<br />
quale fonte normativa per i casi non ancora sottoposti al giudice,<br />
dall’altro occorre prendere atto della difficoltà degli ordinamenti continentali<br />
a rispettare tale divieto.<br />
Un caso emblematico è offerto dal diritto penale tedesco che, prevedendo<br />
‘‘esempi di regola’’ – Regelbeispiele – ai quali ispirarsi nelle ipotesi<br />
di reato circostanziato, crea premesse inevitabili per la violazione del divieto<br />
(pag. 18).<br />
Infine la comparazione del principio di legalità tra gli Stati europei induce<br />
a considerare il ruolo dell’interprete nella formazione del diritto penale.<br />
Di particolare interesse risultano, allora, il codice polacco, sloveno e<br />
croato, che codificano il principio d’offensività, nella duplice dimensione<br />
di soglia del penalmente rilevante, quale elemento costitutivo del reato, e<br />
di ciò che è punibile, quale causa di esclusione della pena. È chiaro che<br />
la codificazione di tale principio assegna all’interprete un ruolo decisivo<br />
nel tracciare i confini della competenza del diritto penale.<br />
Anche nel disciplinare la legge penale nel tempo, la differenza tra i sistemi<br />
di civil law e common law emerge in modo piuttosto evidente. Il sistema<br />
inglese infatti consente l’overruling, ossia l’inversione dell’orientamento<br />
giurisprudenziale, anche in malam partem con effetti direttamente<br />
applicabili al caso di specie da cui scaturisce. Ciò in virtù del principio fondante<br />
della common law, secondo cui il giudice con la propria pronuncia<br />
dà voce ad un valore condiviso e sedimentato nel sentire sociale, pertanto<br />
egli non introduce alcuna novità normativa. Esso rappresenta tuttavia un<br />
esempio unico anche nella common law: non si ravvisa infatti la stessa regola<br />
negli Stati Uniti (pag. 21).
RECENSIONI E SCHEDE<br />
477<br />
Prima di passare all’analisi di singoli istituti, vengono illustrati i principi<br />
regolatori dell’applicazione della legge penale nello spazio. È tendenzialmente<br />
condivisa dagli ordinamenti europei la regola del locus commissi<br />
delicti. Slovenia, Germania e Francia prevedono inoltre alcune utili precisazioni<br />
in ordine al criterio dell’ubiquità, nel definire quando un fatto<br />
possa considerarsi avvenuto nel territorio di uno Stato. Tale regola viene<br />
integrata dai principi della personalità passiva, particolarmente sentito da<br />
quegli Stati dove è presente la Corona, e della personalità attiva. Degna di<br />
nota è la previsione in numerosi ordinamenti del principio di giustizia universale,<br />
alla stregua del quale punire secondo la legge interna, reati, anche<br />
se commessi all’estero, contro l’umanità, come genocidio, terrorismo, pirateria<br />
aerea, traffico illecito di esseri umani e sostanze stupefacenti (pag.<br />
36).<br />
Maggiore spazio nella trattazione viene dato alla disciplina francese,<br />
dove una regolamentazione alquanto dettagliata dei principi di personalità<br />
attiva e passiva induce l’autore a ‘‘dubitare che la regola generale resti<br />
quella della territorialità’’ (pag. 37).<br />
La prima parte prosegue quindi con la comparazione degli istituti di<br />
teoria generale, scelti in base agli spunti che il raffronto può offrire per<br />
la soluzione dei loro aspetti più problematici nell’ordinamento italiano.<br />
L’autore prende le mosse da una constatazione oggettiva: l’Italia è il<br />
paese europeo che dedica alla disciplina generale del reato il numero<br />
maggiore di disposizioni nel codice penale. Questo dato rivela l’attitudine<br />
del legislatore italiano a definire gli aspetti più importanti del diritto<br />
penale, diversamente da quanto accade negli altri ordinamenti, dove<br />
il numero di disposizioni è piùesiguo. In generale, i paesi stranieri preferiscono<br />
lasciare alla dottrina e alla giurisprudenza il compito di elaborare<br />
i concetti sottesi alle fattispecie criminali; talvolta invece il silenzio<br />
del legislatore straniero è frutto di una scelta ponderata di politica criminale.<br />
Così accade, ad esempio, in Francia, Belgio ed Inghilterra per il<br />
reato omissivo improprio, dove non è prevista alcuna disciplina positiva<br />
dello stesso. L’ordinamento francese e quello belga basano la loro scelta<br />
sull’esigenza di salvaguardare la tassatività delle fattispecie criminali, che<br />
verrebbe minata dalla previsione di una clausola di equivalenza analoga<br />
a quella contenuta nel nostro codice all’art. 40 co. 2 c.p., nel codice<br />
spagnolo, tedesco e portoghese. Con la precisazione che in questi due<br />
ultimi sistemi, il reato omissivo improprio comporta, a differenza di<br />
quanto avviene nel sistema italiano, un’attenuazione facoltativa della<br />
pena. L’ordinamento inglese, invece, è tradizionalmente contrario alla<br />
configurazioni di obblighi di agire sanzionati penalmente, pertanto richiede<br />
che per i casi più gravi la relativa fattispecie sia contenuta in<br />
uno statute (pag. 48).<br />
Per quanto concerne le cause di giustificazione, la comparazione non
478<br />
RECENSIONI E SCHEDE<br />
solo conforta le critiche relative alla natura ibrida dello stato di necessità<br />
previsto dall’art. 54 c.p. italiano, ma offre altresì utili spunti de iure condendo.<br />
Il modello al riguardo è dato dall’ordinamento tedesco, che prevede<br />
uno stato di necessità scriminante – rechfertigender Notstand – e uno scusante<br />
– entschuldigender Notstand –. La disciplina tedesca contempla il bilanciamento<br />
tra il bene sacrificato ed il bene salvato, consentendo l’applicazione<br />
della scriminante a qualsiasi bene giuridico, e prevede il soccorso<br />
di necessità scriminante a favore di un terzo. Al contrario seleziona soltanto<br />
i beni strettamente personali per i quali opera lo stato di necessità come<br />
scusante e ammette il soccorso di necessità scusante solo a favore dei congiunti<br />
o persone vicine. Alla luce dell’esempio tedesco, i limiti della norma<br />
italiana risultano ancora più evidenti: ‘‘solo per citare un aspetto, che senso<br />
ha, una volta che si chiede il rispetto del criterio di proporzione, selezionare<br />
come beni difendibili solo quelli personali?’’ (pag. 59).<br />
Di particolare interesse è la previsione portoghese del ‘‘consenso dell’avente<br />
diritto’’: oltre a disciplinarne l’oggetto ed i limiti, definisce il consenso<br />
presunto e regola il caso del trattamento medico – chirurgico, affermando<br />
che, se l’intervento è avvenuto conformemente alle leges artis, non è<br />
integrato alcun reato e il fatto deve ritenersi perciò stesso lecito. In ordine<br />
alla presente causa di giustificazione, l’autore rileva l’assenza nella maggior<br />
parte degli ordinamenti di una previsione generale, potendosi desumere da<br />
singole fattispecie criminali ed estendere in via analogica, trattandosi di<br />
norma non penale. La stessa osservazione è svolta per la scriminante dell’‘‘esercizio<br />
di un diritto’’, mentre l’assenza in tutti gli ordinamenti consultati<br />
della causa di giustificazione dell’‘‘uso legittimo delle armi’’ conferma<br />
l’idea che essa rappresenti un retaggio di una concezione autoritaria dei<br />
rapporti cittadino-autorità. Viene posta in risalto ancora una volta la disciplina<br />
portoghese relativa all’‘‘adempimento di un dovere’’, in quanto riconosce<br />
efficacia scusante all’esecuzione di un ordine illegittimo, ma vincolante.<br />
La legittima difesa rappresenta invece la causa di giustificazione ‘‘universalmente<br />
riconosciuta’’. Rimane un caso isolato la disciplina italiana dell’imputazione<br />
delle cause di giustificazione: negli altri ordinamenti si tende<br />
infatti a richiedere anche per queste i medesimi presupposti psicologici<br />
previsti per il reato, senza riconoscere ipotesi di imputazione oggettiva o<br />
putativa (pag. 61).<br />
Gli spunti più innovativi sembrano scaturire dalla comparazione relativa<br />
all’elemento soggettivo. Viene considerata l’imputabilità, istituto collocato<br />
da alcuni ordinamenti stranieri nelle forme di manifestazione del reato<br />
e non già nella parte relativa al reo, come avviene in Italia.<br />
L’autore rileva come negli ordinamenti irlandese e scozzese la soglia di<br />
presunzione della capacità di intendere e volere sia eccezionalmente bassa:<br />
rispettivamente sette e otto anni. Trattasi in realtà di una presunzione relativa<br />
fino ai quattordici anni per l’Irlanda e sedici anni per la Scozia.
RECENSIONI E SCHEDE<br />
479<br />
Mentre un trattamento di favore è previsto dal codice svedese per i<br />
c.d. giovani adulti, di età compresa tra i diciotto ed i ventuno anni<br />
(pag. 64).<br />
Tra le cause idonee ad escludere l’imputabilità si registra da parte<br />
degli ordinamenti di common law e di Stati come Germania, Austria, Svizzera,<br />
Croazia, Polonia e Russia un’apertura verso anomalie psichiche e disturbi<br />
della personalità che non devono necessariamente assurgere a malattie<br />
clinicamente accertabili. Si tratta di un’indicazione comparatistica<br />
che non può lasciare indifferente il giurista italiano alla luce della recente<br />
posizione assunta dalla Corte di Cassazione (Cass. SS.UU. 25 gennaio<br />
2005, n. 9163, imp. Raso).<br />
Infine si rileva la mancanza in alcuni ordinamenti di una disciplina ad<br />
hoc per le ipotesi di ubriachezza e tossicodipendenza, in quanto si ritiene<br />
che essa possa essere desunta dalla regola generale sulla colpevolezza. Altri<br />
ordinamenti, come Russia e Turchia, adottano discipline assai severe escludendo<br />
che possa essere esentato da pena chi abbia commesso un reato<br />
sotto l’effetto di sostanze alcoliche o stupefacenti (pag. 71).<br />
Per quanto riguarda le forme di imputazione psicologica del fatto di<br />
reato all’agente, manca nella maggior parte degli ordinamenti una definizione<br />
unitaria del dolo, della colpa e della preterintenzione: il dolo è perlopiù<br />
enunciato nelle diverse manifestazioni di dolo intenzionale, diretto,<br />
eventuale; così la colpa nelle sue articolazioni di colpa incosciente e cosciente.<br />
Estremamente interessanti si rivelano le esperienze inglese e francese,<br />
in quanto contemplano una forma d’imputazione psicologica intermedia<br />
tra il dolo eventuale e la colpa cosciente. La recklessness per l’ordinamento<br />
inglese e la mise en danger per l’ordinamento francese: questi<br />
modelli suggeriscono al legislatore italiano la necessità di una categoria intermedia<br />
tra dolo e colpa, che, sulla scorta degli esempi citati, costituirebbe<br />
una ‘‘responsabilità da (assunzione consapevole di) rischio illecito’’. Questa<br />
rappresenterebbe una soluzione per quelle ipotesi in cui la scelta per una<br />
responsabilità dolosa o colposa si gioca su elementi difficilmente indagabili,<br />
come l’animo umano, eppure comporta un trattamento sanzionatorio nettamente<br />
differenziato.<br />
Un’espressa disciplina del tentativo è presente in tutti gli Stati. Le<br />
scelte normative rivelano l’inclinazione ‘‘oggettivistica’’ o ‘‘soggettivistica’’<br />
di ciascun paese, a seconda che esse considerino il responsabile di un reato<br />
tentato con minor severità, posto che la sua condotta non ha effettivamente<br />
perfezionato il reato voluto, oppure con la stessa severità dell’autore del<br />
reato consumato, dal momento che il mancato perfezionamento dell’illecito<br />
è dipeso da cause esterne alla condotta del reo.<br />
Esse possono divedersi tra ordinamenti che richiedono l’idoneità degli<br />
atti (Italia e Turchia), quelli che fanno leva sull’inizio dell’esecuzione dell’azione<br />
tipica o che esigono un rapporto di immediatezza tra condotta e
480<br />
RECENSIONI E SCHEDE<br />
realizzazione della fattispecie (Germania, Austria, Svizzera, Spagna Inghilterra<br />
e Francia).<br />
Solo il codice turco esclude espressamente il tentativo inidoneo,<br />
mentre il codice portoghese distingue tra tentativo relativamente e assolutamente<br />
inidoneo.<br />
Per quanto concerne invece il trattamento sanzionatorio, si individuano<br />
tre orientamenti. Alcuni paesi prevedono una diminuzione di pena<br />
(Italia, Portogallo, Spagna, Belgio e Turchia); altri applicano la stessa pena<br />
prevista per il reato consumato (Austria, Francia ed Inghilterra); altri, infine,<br />
distinguono il tentativo idoneo da quello inidoneo e prevedono per<br />
il primo a seconda dei casi la medesima sanzione del reato consumato,<br />
una sua riduzione o l’esenzione dalla stessa (pag. 93).<br />
L’ultimo istituto considerato è il concorso di persone. Nel contesto europeo<br />
si rilevano sostanzialmente due modelli di disciplina: quello unitario,<br />
presente in Italia ed Austria, e quello differenziato, adottato nella maggior<br />
parte degli Stati europei. Quest’ultimo ha il pregio di consentire teoricamente<br />
una tipizzazione delle condotte; di fatto ciò non è sempre vero. Si<br />
registrano infatti definizioni dai contorni incerti delle figure dei concorrenti;<br />
la disciplina belga configura addirittura un’ipotesi di complicità<br />
che da noi integra il reato di favoreggiamento. Degno di nota è il diritto<br />
russo che prevede espressamente la figura dell’organizzatore, superando<br />
le difficoltà di inquadramento della condotta di colui che non esegue materialmente<br />
il reato, ma ricopre comunque un ruolo fondamentale in<br />
quanto rappresenta la ‘‘mente’’ del fatto (pag. 103). Difficoltà che in alcuni<br />
ordinamenti portano a delle forzature interpretative od a diminuzioni di<br />
pena ingiustificate. La scelta del modello differenziato comporta la previsione<br />
di pene modulate sulle varie figure di autore, coautore, istigatore e<br />
complice.<br />
L’assenza, poi, negli ordinamenti stranieri di una disciplina analoga all’art.<br />
116 c.p. italiano, per le ipotesi di concorso atipico, rafforza le perplessità<br />
della dottrina secondo la quale la disposizione prevede un’ipotesi di responsabilità<br />
oggettiva. Infine viene indicata la rilevanza in Germania e in<br />
Polonia dell’istigazione e della complicità meramente tentate mentre da<br />
noi è irrilevante il semplice accordo criminoso, al quale non sia dato esecuzione,<br />
salvo la possibilità di irrogare misure di sicurezza (pag. 108). Viene<br />
da ultimo affrontata la questione della desistenza del concorrente: molti codici<br />
prendono posizione sul punto, taluni richiedendo che il concorrente<br />
abbia volontariamente impedito la commissione del reato, altri si appagano<br />
della serietà e volontarietà del suo comportamento volto a neutralizzare,<br />
pur senza riuscirci, la realizzazione della fattispecie criminale.<br />
La seconda parte del libro, a cura della dott.ssa Menghini, è dedicata<br />
alla comparazione dei sistemi sanzionatori. Il tema viene introdotto da un<br />
excursus storico-filosofico che prende le mosse dal pensiero di Cesare Beccaria,<br />
che concepisce la pena come ‘‘essenzialmente pubblica, pronta, ne-
RECENSIONI E SCHEDE<br />
481<br />
cessaria, proporzionata ai delitti e dettata dalle leggi’’, al quale è seguito l’illuminismo<br />
che ha elaborato le teorie che rappresentano tutt’oggi il punto<br />
di riferimento nella disciplina della pena e che sono state alternativamente<br />
valorizzate dalla scuola classica e positiva, la teoria retributiva, general-preventiva<br />
e special-preventiva. La panoramica si conclude con uno sguardo<br />
alla nostra Costituzione, che, anche se non espressamente, prevede una gerarchia<br />
tra le finalità tradizionalmente assegnate al sistema punitivo: prediligendo<br />
la rieducazione del reo, orienta il legislatore verso una funzione<br />
special-preventiva della pena (pag. 115).<br />
L’analisi si articola quindi nel raffronto tra le discipline degli Stati europei<br />
in ordine alle pene principali, accessorie, sostitutive, alternative alla<br />
detenzione, ai criteri di commisurazione della pena, alla disciplina del concorso<br />
di reati e alle cause estintive della pena. In chiusura viene tracciato un<br />
quadro comparatistico della disciplina relativa alla responsabilità delle persone<br />
giuridiche. La scelta di trattare questa materia nell’ambito della pena è<br />
indice della controversa natura di tale disciplina: a cavallo tra il diritto penale<br />
ed amministrativo, essa prevede una gamma composita di sanzioni che<br />
concorrono a delineare il sistema punitivo dello Stato.<br />
Le pene principali comuni a tutti gli Stati europei sono la pena detentiva<br />
e quella pecuniaria. La pena di morte risulta oramai abolita in tutti i<br />
sistemi: il codice penale toscano aveva provveduto a cancellarla già nel<br />
1786, da ultimo, l’Inghilterra ne ha formalizzato l’abrogazione nel 1998.<br />
La pena detentiva risulta la ‘‘pena regina’’ in ogni ordinamento, tuttavia<br />
dall’analisi comparatistica emerge una forte tendenza a ridimensionarne<br />
le ipotesi applicative (pag. 120).<br />
È questa la chiave di lettura della seconda parte del libro: l’analisi<br />
della pena in tutte le sue manifestazioni viene condotta alla luce dell’esigenza,<br />
comune a tutti gli ordinamenti europei, di evitare il carcere nel<br />
caso di condanne a pene detentive di breve durata. Ciò in ragione dei<br />
comprovati effetti desocializzanti dell’esperienza carceraria. Non solo.<br />
La comparazione consente altresì di registrare le diverse soluzioni adottate<br />
dagli Stati europei nell’ottica di congegnare una sanzione alternativa<br />
al carcere che contribuisca in modo concreto alla rieducazione del reo<br />
verso i valori della convivenza civile, cercando di neutralizzare la sua propensione<br />
a delinquere.<br />
Perciò si traggono spunti in tal senso sia dalla disciplina russa che prevede<br />
un minimo edittale di sei mesi per la comminazione di pene detentive,<br />
sia dalla disciplina francese che omette l’individuazione di un minimo edittale,<br />
dando spazio alle ‘‘sanzioni complementari’’ e ‘‘rimodulate’’ che possono<br />
essere irrogate, entro certi limiti, anche a titolo di pena principale in<br />
materia di delitti e contravvenzioni.<br />
L’esperienza francese e quella spagnola costituiscono un modello per<br />
la varietà di sanzioni che contempla. Si tratta di pene interdittive o inabilitative,<br />
sospensive, nonché di pene eseguite attraverso lavori di pubblica
482<br />
RECENSIONI E SCHEDE<br />
utilità. Esse ricalcano, parzialmente, in ordine ai contenuti, la categoria italiana<br />
delle pene accessorie, ma il loro carattere innovativo sta proprio in<br />
questo: nella possibilità di essere comminate a titolo di pena principale.<br />
Il giudice di cognizione deve decidere se la sanzione diversa dalla pena detentiva<br />
sia sufficiente a coprire il disvalore del fatto e quindi se possa essere<br />
inflitta in via esclusiva. Con ciò gli ordinamenti francese e spagnolo assegnano<br />
al giudice un ampia discrezionalità, – a fronte della ‘‘tendenziale<br />
automaticità’’ con cui le pene accessorie seguono quelle principali in Italia<br />
–, ma vincolano tale potere alla verifica di presupposti determinati: la gravità<br />
del fatto di reato e il collegamento tra la sanzione ed il fatto. Se, cioè,<br />
l’illecito è stato commesso con abuso della potestà genitoriale o dei poteri<br />
inerenti un incarico o durante la guida di un automezzo, allora la pena sarà<br />
mirata a neutralizzare la condotta del responsabile ed a svolgere nei suoi<br />
confronti un ruolo rieducativo, evitando che egli si ponga nuovamente<br />
nelle condizioni in cui aveva commesso il reato. Così il reo verrà rispettivamente<br />
sospeso dalla potestà genitoriale, dall’esercizio dei poteri inerenti<br />
l’incarico, dal cui abuso è scaturito il reato, dall’uso della patente (pag.<br />
133).<br />
In Inghilterra, invece, la discrezionalità riconosciuta al giudice nella<br />
scelta del tipo e del quantum di pena è massima: la detenzione è obbligatoria<br />
solo per l’omicidio doloso e, solo in quest’ipotesi, è prevista in misura<br />
fissa (life imprisonment), altrimenti il Powers of Criminal Court Sentencing<br />
Act del 2000 ne riconosce un ruolo residuale. Va tuttavia rilevato che qualora<br />
il giudice decida di irrogare una sanzione detentiva, egli deve tenere<br />
conto delle ragioni di deterrence, oltre che della gravità del reato, manifestando<br />
in tal modo una tendenza a pronunce esemplari (exemplary sentence).<br />
L’Inghilterra prevede altresì una serie di sanzioni accessorie, alcune<br />
delle quali possono essere comminate a titolo di sanzione principale. Tra<br />
queste, l’autrice dà particolare rilievo al community punishment, lavoro a<br />
beneficio della comunità, in quanto esso ha rappresentato il modello per<br />
il sistema spagnolo. Tale sanzione ha finalità prettamente rieducative e<br />
non può mai essere cumulata con la sanzione detentiva, ragion per cui essa<br />
viene inquadrata tra le pena alternative al carcere di breve durata (pag.<br />
128).<br />
Per quanto concerne la pena pecuniaria, di particolare interesse risulta<br />
la disciplina tedesca dei tassi giornalieri – Tagessatzsystem –, la quale consente<br />
di adeguare l’ammontare della multa al duplice parametro della gravità<br />
del fatto e della capacità economica del reo, rappresentando in tal<br />
modo una vera e propria sanzione anche per coloro che godano di ingenti<br />
possibilità patrimoniali.<br />
Spagna, Francia, Slovenia, Croazia, Portogallo e Polonia hanno adottato<br />
sistemi sulla falsariga di quello tedesco. In Italia la sanzione pecuniaria
RECENSIONI E SCHEDE<br />
483<br />
prevista per la responsabilità delle persone giuridiche è strutturata secondo<br />
il sistema dei tassi giornalieri.<br />
L’autrice rileva altresì come la sanzione pecuniaria sia contemplata dal<br />
legislatore tedesco tendenzialmente in via esclusiva e solo raramente accompagna<br />
la pena detentiva. Essa deve in ogni caso essere preferita alla privazione<br />
della libertà personale, che va inflitta solo se indispensabile per gli<br />
effetti sull’autore e per la difesa della collettività. È inoltre interessante il<br />
rimedio previsto in Germania per il caso d’inadempimento al pagamento<br />
della multa. A fronte della previsione in via astratta della conversione della<br />
pena pecuniaria in detentiva, viene per lo più praticata l’alternativa concessa<br />
a ciascun Länder di sostituire la detenzione con un lavoro svolto in<br />
libertà e non retribuito (pag. 126).<br />
La comparazione fornisce informazioni utili anche a sostegno di proposte<br />
avanzate dalla dottrina per eliminare le incongruenze relative alla disciplina<br />
italiana delle sanzioni alternative alla detenzione. Le proposte, peraltro<br />
già fatte proprie dal progetto Grosso di riforma del codice penale,<br />
riguardano la competenza ad irrogare tali sanzioni. La possibilità, riconosciuta<br />
dagli ultimi interventi legislativi, di concedere direttamente l’affidamento<br />
in prova, senza che il condannato abbia almeno dato inizio all’esecuzione<br />
della pena, svuota di senso l’attribuzione della competenza ad irrogare<br />
tale sanzione ad un giudice diverso da quello di cognizione, quale<br />
appunto il Tribunale di sorveglianza (pag. 150).<br />
Al riguardo, l’ordinamento francese costituisce un vero e proprio modello,<br />
prevedendo che sia il giudice di cognizione deputato ad irrogare tale<br />
sanzione, che viene perciò concepita come pena autonoma e non già quale<br />
modalità di esecuzione come nel nostro ordinamento.<br />
In modo analogo opera in Inghilterra il community rehabilitation<br />
order, che consiste in un periodo di prova sotto il controllo di un pubblico<br />
funzionario. Il sistema inglese prevede un ulteriore istituto, con finalità del<br />
tutto analoghe – Curfew order – ossia l’ordine di stare in un determinato<br />
luogo sotto la sorveglianza di persona a ciò deputata.<br />
In questo capitolo, l’autrice ricorda gli esempi spagnolo e francese, già<br />
illustrati all’inizio della seconda parte dell’opera, che contemplano una<br />
gamma notevole di sanzioni diverse e alternative alla pena detentiva, come<br />
limitazioni all’elettorato passivo e attivo, al porto d’armi, all’uso della patente<br />
di guida; nonché sanzioni interdittive o inabilitative di funzioni e incarichi<br />
pubblici, relative alla potestà genitoriale, alla possibilità di frequentare<br />
determinati luoghi o persone, e infine l’esecuzione di lavori a vantaggio<br />
della comunità sulla scorta del modello inglese. Viene segnalata la disciplina<br />
polacca che prevede, oltre all’obbligo risarcitorio, quello di presentare<br />
le proprie scuse alla parte offesa (pag. 154).<br />
Nel paragrafo dedicato ai criteri di commisurazione della pena l’autrice<br />
sottolinea ancora una volta l’estrema discrezionalità riconosciuta al<br />
giudice inglese seppur sotto una diversa visuale. L’ordinamento inglese,
484<br />
RECENSIONI E SCHEDE<br />
in linea di massima, non prevede limiti edittali alle pene pecuniarie; questi<br />
sono indicati invece per le pene detentive e possono essere superati solo<br />
nell’ipotesi di extenced sentence. È questo un istituto pensato per chi si<br />
sia reso responsabile di reati sessuali e di violenza e comporta un’‘‘estensione’’<br />
della pena, individuata espressamente nel quantum dalla legge in<br />
modo che il giudice non pervenga mai all’ergastolo, e persegue il precipuo<br />
scopo di prevenire la recidiva in soggetti che abbiano dimostrato una elevata<br />
pericolosità sociale. In determinati casi di recidiva di reati più gravi,<br />
l’‘‘extenced sentence’’ è obbligatoria e comporta ex lege la sanzione detentiva<br />
a vita (pag. 166).<br />
Germania e Portogallo, invece, contemplano disposizioni analoghe a<br />
quella italiana dell’art. 133 c.p..<br />
Si segnala in particolare la presenza nell’ordinamento tedesco, come in<br />
quello italiano, del principio, di matrice giurisprudenziale, del ne bis in<br />
idem sostanziale, in base al quale la medesima circostanza non può essere<br />
considerata due volte nella commisurazione della pena; viceversa manca<br />
una disciplina analoga a quella italiana delle circostanze di reato, ma rientrano<br />
nel processo di individuazione della pena istituti che nella topografia<br />
del codice penale italiano sono collocati perlopiù tra le forme di manifestazione<br />
del reato o di valutazione dell’elemento soggettivo. Questi sono il<br />
tentativo, il reato omissivo improprio, la partecipazione piuttosto che l’autoria,<br />
l’errore evitabile sul fatto e sul divieto, nonché il tentativo inidoneo.<br />
Per ciascuno di essi il legislatore tedesco indica la facoltatività o meno della<br />
diminuzione e la misura. Altre circostanze entrano nella valutazione del<br />
giudice se suscettibili di essere ricondotte agli ‘‘esempi di regola’’, nei casi<br />
di particolare gravità o tenuità (Regelbeispiele; besonders schwere Fälle e<br />
minder schwere Fälle).<br />
Difficilmente potrà superare i limiti edittali il giudice spagnolo in<br />
quanto la presenza di circostanze attenuanti o aggravanti determina soltanto<br />
uno spostamento rispettivamente verso il basso o verso l’alto nello<br />
spazio discrezionale tracciato dal quadro edittale. Solo ipotesi previste dalla<br />
legge permettono il superamento di tali limiti.<br />
L’autrice rileva la mancanza in Francia e in Russia di un obbligo generale<br />
di motivazione della decisione in relazione alla commisurazione della<br />
pena, fanno eccezioni per la Francia le condanne a pene detentive per minori<br />
e le ipotesi in cui viene negata la sospensione condizionale della pena<br />
(pag. 159).<br />
Viene affrontato infine il tema del concorso di reati quale istituto in<br />
grado di influire in modo rilevante sulla quantificazione della pena. La disciplina<br />
approntata dai paesi europei è varia: è regolato in ciascun ordinamento<br />
il concorso formale e materiale, pure nella forma di reato continuato.<br />
Anche se non coincidono perfettamente i termini della questione,<br />
– Spagna e Croazia ad esempio definiscono il reato continuato con sfumature<br />
differenti –, le relative discipline convergono nella previsione del cu-
RECENSIONI E SCHEDE<br />
485<br />
mulo giuridico e materiale, individuando limiti massimi lievemente differenti<br />
da Stato a Stato. In particolare per quanto concerne la disciplina<br />
del cumulo giuridico, nel caso concorrano pene di specie diversa, taluni<br />
paesi adottano il principio della combinazione tra pene, altri quello dell’assorbimento<br />
o dell’assimilazione nella pena più grave. Da segnalare la disciplina<br />
francese che lega le sorti del concorso di reati alla vicenda processuale<br />
che ne consegue: se le contestazioni sono plurime nel medesimo processo si<br />
avrà tendenzialmente un’unica pena.<br />
Non si riscontrano, invece, in Inghilterra istituti analoghi: se sono contestati<br />
più reati la giurisprudenza è solita ricorrere ad una single transaction,<br />
che sfocerà nella condanna ad un’unica pena (concurrent sentence). L’alternativa,<br />
rappresentata da più condanne ad una serie di pene ridotte, viene<br />
praticata solo se ragioni di politica criminale lo consigliano (consecutive sentence)<br />
(pag. 176).<br />
Dopo aver trattato delle varie tipologie di pene e delle loro modalità d’esecuzione,<br />
vengono in rilievo le cause di estinzione della pena. Viene dato<br />
speciale rilievo all’istituto della sospensione condizionale della pena, che ricopre<br />
senz’altro un ruolo di primo piano in diversi ordinamenti europei in<br />
quanto influisce sull’effettività e sulla certezza della pena. L’autrice concentra<br />
immediatamente l’attenzione sul punto dolente dell’istituto: concepito<br />
in origine per favorire il reinserimento dei soggetti più allo sbando, esso<br />
è divenuto un meccanismo di automatica applicazione a prevalente beneficio<br />
dei c.d. colletti bianchi. In generale, si deve rilevare come, per questo tipo di<br />
causa estintiva della pena, assumano importanza le prescrizioni che l’accompagnano<br />
e la cui inosservanza può determinare la revoca del beneficio. Tale<br />
importanza è senz’altro giustificata dalla loro particolare idoneità ad assolvere<br />
alla funzione risocializzante e rieducativi del condannato.<br />
Il panorama europeo mostra un’ampia gamma di cause estintive della<br />
pena: anche queste vanno lette nell’ottica di soluzioni alternative al carcere<br />
di breve durata. Così troviamo l’‘‘ammonimento’’ in Germania, Croazia e<br />
Slovenia, che consiste in un accertamento della colpevolezza al quale non<br />
viene fatta seguire l’esecuzione della pena, perché ritenuta inopportuna.<br />
In Portogallo, Inghilterra e Francia ‘‘la dispensa da pena’’ o discharge, ai<br />
quali corrisponde l’istituto tedesco della ‘‘rinuncia alla pena’’. Altrimenti,<br />
se è necessario un periodo di osservazione o di tempo per consentire il risarcimento<br />
del danno, è previsto da Francia e Portogallo ‘‘il differimento o<br />
dilazione della pronuncia di condanna’’, proprio nell’ottica di non giungere<br />
a tale pronuncia. Infine viene posto l’accento sul release o rilascio, causa<br />
estintiva del diritto inglese caratterizzata da una marcata discrezionalità<br />
dell’Home Secretary per le ipotesi relativamente gravi (pag. 192).<br />
Il lavoro si chiude con l’esposizione della disciplina della responsabilità<br />
delle persone giuridiche. L’approccio comparatistico all’argomento risulta<br />
alquanto illuminante, trattandosi di una materia che ha ricevuto una<br />
regolamentazione solo negli ultimi anni, proprio dietro le spinte dell’evolu-
486<br />
RECENSIONI E SCHEDE<br />
zione del contesto giuridico europeo verso un mercato unico. L’aspetto più<br />
problematico del tema è rappresentato dal superamento del principio della<br />
personalità della responsabilità penale, che consacrava l’intangibilità del<br />
dogma societas delinquere non potest (pag. 200).<br />
Il panorama europeo delle soluzioni adottate rispecchia i modelli possibili:<br />
il modello italiano di una responsabilità autonoma e diretta dell’ente,<br />
il modello francese, secondo l’interpretazione giurisprudenziale, di una responsabilità<br />
indiretta e dipendente dall’individuazione di una persona fisica<br />
autrice dell’illecito; il modello tedesco di una responsabilità amministrativa.<br />
La comparazione viene estesa all’ordinamento statunitense, che<br />
rappresenta l’archetipo per la disciplina italiana, soprattutto per la soluzione<br />
offerta ai problemi d’imputazione del fatto all’ente.<br />
Il D.lgs. 231/2001 s’ispira al sistema delle compliance governaments<br />
che rappresentano modelli organizzativi e di controllo atti a prevenire la<br />
commissione di reati per mezzo dell’ente: laddove questo ne risulti carente,<br />
ed il reato è commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente, l’illecito sarà<br />
perciò ad esso imputabile (pag. 214).<br />
L’altro aspetto di rilevante interesse della disciplina è la varietà delle sanzioni<br />
che risultano applicabili all’ente: oltre alla previsione di sanzioni pecuniarie<br />
da irrogare secondo il sistema delle quote di matrice tedesca, sono contemplate<br />
diverse sanzioni interdittive, che ricalcano nei contenuti le pene accessorie,<br />
ma appartengono in questo settore alla gamma delle sanzioni<br />
principali. L’autrice non manca di evidenziare le incongruenze della disciplina<br />
italiana, che ha escluso i reati societari dalle ipotesi sanzionabili mediante<br />
pene interdittive e ne ha altresì limitato l’ambito applicativo ai reati<br />
meno importanti: sono rimasti lettera morta nella legge delega i reati ambientali<br />
e relativi alle violazioni della normativa sugli infortuni sul lavoro.<br />
Maddalena Grassi<br />
Enrico Mario Ambrosetti, Abolitio criminis e modifica della fattispecie,<br />
Padova 2004, pp. X-265.<br />
Il complesso e dibattuto tema della successione della legge penale nel<br />
tempo (art. 2 c.p., soprattutto nei commi 2 e 3), di recente – in particolare<br />
a seguito di rilevanti modifiche di parte speciale – è stato oggetto di una<br />
grande attenzione da parte della dottrina, che si è tradotta in una copiosa<br />
produzione scientifica, con differenti impostazioni e conclusioni. Profondi<br />
contrasti interpretativi non mancano tuttavia anche in giurisprudenza,<br />
tant’è che le stesse Sezioni Unite di Cassazione, chiamate a pronunciarsi
RECENSIONI E SCHEDE<br />
487<br />
su questioni diverse, hanno seguito di volta in volta, e anche in un lasso di<br />
tempo relativamente breve indirizzi diversi.<br />
Senza dubbio il carattere peculiare della letteratura in materia consiste<br />
nella definizione dei criteri utili per risolvere i delicati e molteplici problemi<br />
di diritto intertemporale, con tentativi di elaborare formule universalmente<br />
valide. Si può infatti assumere che, in linea di massima, la dottrina appare<br />
divisa tra chi segue il metodo del ‘‘giudizio in concreto’’ e chi il diverso metodo<br />
del ‘‘giudizio in astratto’’, a seconda che muovano dalla sussunzione<br />
del fatto concreto sotto le fattispecie astratte ‘‘in successione’’ ovvero dal<br />
confronto ‘‘in astratto’’, in sé e per sé preso, di queste ultime, senza la mediazione<br />
del fatto concreto. La giurisprudenza invece, almeno apparentemente,<br />
mostra di propendere per il metodo del giudizio in astratto.<br />
La generale distinzione tra i metodi considerati tuttavia non sempre<br />
costituisce un riferimento esaustivo nel chiarire l’effettivo significato dei<br />
singoli e numerosi contributi rinvenibili in dottrina. Sentita è l’esigenza<br />
di approcci sistematici che consentano una completa e approfondita ricognizione<br />
della materia. Non poche volte il lettore rischia di smarrirsi in un<br />
vero e proprio dedalo di criteri, sottocriteri e relative definizioni, con difficoltà<br />
di orientarsi adeguatamente e di rinvenire una univoca e convincente<br />
soluzione dei casi pratici.<br />
Alla monografia di Ambrosetti va riconosciuto il grande merito di esaminare<br />
compiutamente lo spinoso tema, con una linearità di sviluppo che si<br />
accompagna ad una rigorosa e chiara sequenza logico-ricostruttiva. Il lavoro<br />
prende le mosse da una analisi sistematica e consapevole del panorama dottrinario,<br />
giacché, come precisa lo stesso Autore, la comprensione delle numerose<br />
tesi elaborate dalla dottrina in materia è essenziale per verificare la concreta<br />
attuazione che la giurisprudenza ha fatto delle tesi medesime e quindi<br />
anche la loro validità pratica. Il lavoro non manca altresì di una attenta ed<br />
approfondita analisi della letteratura tedesca, anche la più recente. Dapprima<br />
l’Autore esamina il metodo del ‘‘giudizio in concreto’’, seguito da<br />
autorevole dottrina, e pur tuttavia oggetto di critiche vivaci da parte di molti<br />
autori che preferiscono il diverso metodo del giudizio in astratto e che, come<br />
Ambrosetti, ritengono che il ‘‘giudizio in concreto’’ finirebbe con il violare il<br />
principio di irretroattività della norma incriminatrice. L’Autore approfondisce<br />
poi il significato del ‘‘giudizio in astratto’’, sempre con attenzione alla<br />
dottrina tedesca; metodo che, ancorché largamente seguito da dottrina e giurisprudenza,<br />
ha comunque dato luogo a infiniti contrasti interpretativi tra gli<br />
stessi suoi sostenitori. Il denominatore del ‘‘giudizio in astratto’’ è stato infatti<br />
diversamente concepito a seconda che il confronto tra le norme sia stato inteso<br />
in una prospettiva meramente sostanzialistica (teoria della ‘‘continuità<br />
del tipo d’illecito’’) ovvero in una prospettiva formalistica (teoria della piena<br />
continenza e teoria del confronto strutturale), o infine in una prospettiva<br />
volta ad integrare i detti criteri. In particolare la teoria della ‘‘continuità<br />
del tipo d’illecito’’, di provenienza tedesca, ravvisa un rapporto di continuità
488<br />
RECENSIONI E SCHEDE<br />
tra le norme qualora mantengano una identità di bene giuridico, e, secondo<br />
alcuni autori tedeschi, anche di modalità di aggressione. L’impostazione, diversamente<br />
che in Germania, ove può considerarsi prevalente perlomeno in<br />
ambito dottrinario, non ha avuto largo seguito tra gli esponenti della dottrina<br />
italiana, e ciò soprattutto in ragione della incertezza applicativa che deriverebbe<br />
dalla sua adozione. La teoria della ‘‘piena continenza’’ supera le obiezioni<br />
mosse al criterio della continuità del tipo d’illecito basando il confronto<br />
tra le norme sul piano strutturale e in particolare ravvisando una ‘‘continuità<br />
normativa’’ tra le medesime nell’ipotesi in cui la nuova norma risulti pienamente<br />
contenuta nella precedente. Ambrosetti esamina le critiche mosse<br />
dalla dottrina a quest’ultima impostazione, in particolare richiamandosi a Padovani,<br />
il quale ha criticato il metodo della ‘‘piena continenza’’ per il suo carattere<br />
riduttivo, giacché anche l’ipotesi inversa, in cui la successiva norma<br />
sia generale rispetto alla precedente, sarebbe comunque sussumibile sotto<br />
il comma 3 dell’art. 2 c.p. In linea di principio dunque là dove risulti un rapporto<br />
di specialità tra le norme in successione dovrà ravvisarsi una ‘‘continuità’’<br />
normativa tra le medesime, che consente di applicare il comma 3 dell’art.<br />
2 c.p. Da ultimo la giurisprudenza si è orientata nel senso di un confronto<br />
strutturale tra le norme di carattere prettamente formale, anche se<br />
non mancano voci sia in dottrina che in giurisprudenza che assumono il confronto<br />
tra norme nella duplice prospettiva formale e sostanziale.<br />
I contrasti interpretativi sorti tra i fautori del ‘‘giudizio in astratto’’ si<br />
ripetono in giurisprudenza, con le relative e notevoli incertezze applicative.<br />
Ambrosetti, nell’analizzare le più importanti pronunce giurisprudenziali,<br />
mira appunto a raggiungere l’obiettivo propostosi di verificare la validità<br />
concreta dei metodi elaborati, nonché l’uso specifico che di essi viene fatto.<br />
Perciò l’Autore dedica una particolare attenzione alle fondamentali sentenze<br />
delle Sezioni Unite del 1990, sull’interesse privato in atti d’ufficio,<br />
del 2000, in materia tributaria, del 2003, relativa alle questioni sollevate<br />
dal d.lgs. 61/2002 (false comunicazioni sociali e bancarotta impropria),<br />
le quali rappresenterebbero le ‘‘pietre miliari’’ di un percorso interpretativo<br />
che ha come esito la valorizzazione della prospettiva del confronto strutturale<br />
tra norme. Secondo l’Autore, la pronuncia del 1990 solo parzialmente<br />
accoglierebbe il criterio della c.d. ‘‘continuità del tipo d’illecito’’, facendo<br />
appunto riferimento all’identità di bene giuridico e delle modalità dell’offesa.<br />
La pronuncia relativa ai reati tributari seguirebbe, almeno in via programmatica,<br />
il criterio del confronto strutturale delle norme sia di carattere<br />
sia formale, che sostanziale. Diversamente la sentenza del 2003 relativa alle<br />
false comunicazioni sociali concepirebbe il confronto strutturale in una accezione<br />
c.d. ‘‘pura’’, di carattere esclusivamente formale, senza alcun riferimento<br />
ai contenuti valutativi delle norme. Da ultimo l’Autore si sofferma<br />
sulla vicenda successoria relativa alla fattispecie di oltraggio, diversa dalle<br />
precedenti in quanto riguarderebbe – per utilizzare la terminologia dell’Autore<br />
medesimo – una ipotesi di c.d. ‘‘abrogazione secca’’, fenomeno
RECENSIONI E SCHEDE<br />
489<br />
successorio che almeno formalmente divergerebbe da quello della mera<br />
‘‘sostituzione’’ di una fattispecie ad altra precedente.<br />
Nel suo attento vaglio critico l’Autore riconosce come spesso la Suprema<br />
Corte, pur proclamandosi fautrice del metodo del ‘‘giudizio in<br />
astratto’’, in definitiva finisca con l’adottare l’avverso metodo del ‘‘giudizio<br />
in concreto’’.<br />
Dopo l’analisi giurisprudenziale l’Autore si preoccupa di ricostruire i<br />
termini del problema in particolare tracciando i confini, differenti a seconda<br />
dei canoni interpretativi forniti dalle diverse teorie esaminate, tra i fenomeni<br />
successori inquadrabili nella c.d. abolitio criminis e quelli riconducili invece<br />
ad una abrogazione parziale. Ambrosetti si sofferma in particolare sul metodo<br />
– preferito – del ‘‘giudizio in astratto’’ inteso quale confronto strutturale<br />
‘‘puro’’ tra le norme, anche in adesione all’approccio seguito dalla sentenza<br />
delle Sezioni Unite del 2003, sulle false comunicazioni sociali. L’Autore fa la<br />
sua scelta dopo aver escluso non solo il giudizio in concreto, ma anche, nell’ambito<br />
dello stesso giudizio in astratto, il criterio basato sulla c.d. ‘‘continuità<br />
del tipo d’illecito’’, e quello c.d. ‘‘misto’’ del confronto strutturale e valutativo<br />
delle norme in successione, in ragione della incertezza applicativa<br />
che deriverebbe dalla adozione di tali metodi. L’indagine di Ambrosetti in<br />
merito all’inadeguatezza del metodo della ‘‘continuità del tipo d’illecito’’<br />
tiene altresì conto dell’esperienza giurisprudenziale tedesca. Infine l’Autore<br />
approda al criterio della sentenza delle Sezione Unite del 2003 del confronto<br />
strutturale ‘‘puro’’ tra le norme, in cui il mutamento dell’oggettivà giuridica,<br />
sempre secondo la Suprema Corte, assume rilievo solo in quanto indice univoco<br />
di una volontà legislativa totalmente abolitrice. Secondo Ambrosetti<br />
l’alternativa tra confronto strutturale e ‘‘giudizi di valore’’ sarebbe solo apparente,<br />
in quanto ‘‘il mutamento dell’oggettività giuridica si trasfonde inevitabilmente<br />
negli elementi strutturali connotanti la nuova figura criminis’’; di<br />
conseguenza l’interprete che abbia compiuto il confronto strutturale tra le<br />
fattispecie non dovrà procedere ad altri controlli di carattere valutativo,<br />
dal momento che questi non possono ‘‘portare a risultati ermeneutici diversi<br />
da quelli già raggiunti’’. Secondo l’Autore il metodo del confronto strutturale<br />
‘‘puro’’ sarebbe dunque l’unico che consente di difendere le istanze di oggettività<br />
e legalità connaturate alla materia in questione.<br />
Al di là della prospettiva assunta e del metodo che si voglia seguire nell’applicazione<br />
dell’art. 2 co. 2 e 3 c.p. [una mia personale indagine (La fattispecie<br />
‘in divenire’ nella disciplina della legge penale nel tempo) giunge<br />
appunto a conclusioni differenti] emerge in piena luce che la monografia<br />
di Ambrosetti costituisce l’esito di una approfondita e pregevole analisi<br />
del problema, che non manca di fornire molteplici e importanti ragioni<br />
di riflessione e sviluppo verso un compiuto avanzamento dello studio della<br />
complessa materia.<br />
Silvia Massi
490<br />
RECENSIONI E SCHEDE<br />
Vittorio Manes, Il principio di offensività nel diritto penale. Canone di<br />
politica criminale, criterio ermeneutico, parametro di ragionevolezza, Torino,<br />
Giappichelli Editore, 2005, pp. XVI-329.<br />
Il volume si inserisce nella collana ‘‘Itinerari di Diritto Penale’’ diretta<br />
da Giovanni Fiandaca, Enzo Musco, Tullio Padovani e Francesco Palazzo.<br />
L’Autore, con tale lavoro, offre un’approfondita analisi del ruolo<br />
svolto dal cosiddetto ‘‘principio di offensività’’ nel nostro sistema giuridico.<br />
Per fare ciò, nei primi due capitoli, viene presentato al lettore un attento<br />
studio della genesi del principio stesso, con puntuale riferimento alle<br />
teorie che hanno nel tempo modellato il concetto di bene giuridico –<br />
nonché alle relative critiche – ed, in particolare, alla ‘‘teoria costituzionalmente<br />
orientata del bene giuridico’’ di Franco Bricola.<br />
L’esito di tale analisi è la constatazione di un evidente indebolimento<br />
nel tempo, ed in particolare in relazione a recenti vicende della politica criminale,<br />
del principio di offensività.<br />
Il terzo capitolo presenta quindi un’accurata analisi della crisi che ha<br />
progressivamente investito il principio in esame, per tornare ad evidenziare<br />
la necessità di un ancoraggio costituzionale dei beni giuridici, sulla scorta di<br />
una Costituzione aperta, che accolga la necessaria ‘‘contestualizzazione del<br />
bene giuridico nella coscienza collettiva’’, con la conseguente concretizzazione<br />
ed attualizzazione del medesimo testo costituzionale.<br />
Nella seconda parte del volume, nel primo capitolo, viene analizzata la<br />
posizione della Corte Costituzionale in relazione alla suddetta teoria costituzionalmente<br />
orientata del bene giuridico ed, in generale, al principio di<br />
offensività, e viene sottolineato come, in realtà, tale principio non sia mai<br />
stato usato dalla Consulta come parametro diretto ed autonomo per dichiarare<br />
l’illegittimità di una fattispecie incriminatrice, ed abbia ceduto sovente<br />
il passo ad un canone di ragionevolezza, divenuto principale paradigma di<br />
giudizio della Corte Costituzionale.<br />
Contestualmente, però, viene anche segnalata una recente e importante<br />
tendenza della Corte stessa verso nuove aperture nei confronti di<br />
un ‘‘controllo di costituzionalità orientato ad una revisione aggiornata degli<br />
oggetti di tutela’’.<br />
Gli ultimi due capitoli offrono quindi un’ulteriore analisi del principio<br />
in esame, in un’interessante ottica di valorizzazione dell’offensività come<br />
principio interpretativo e come parametro di valutazione della ragionevolezza.<br />
L. B.
VECCHIE PAGINE<br />
491<br />
Vecchie pagine<br />
REALTÀ MATERIALE E REALTÀ GIURIDICA NEL PROCESSO<br />
SECONDO IL PENSIERO DI FRANCESCO CARRARA<br />
Francesco Carrara (1805-1888), allievo di Francesco Carmignani (iuris<br />
criminalis elementa, Teoria delle leggi della sicurezza sociale), fu – alla metà<br />
del XIX secolo – il fondatore della cosiddetta ‘‘Scuola classica’’ del diritto<br />
penale.<br />
Il lucchese, con la Sua monumentale opera (Programma di diritto criminale),<br />
contribuì, come è noto, all’affermarsi di una visione etico-retributiva<br />
della pena.<br />
Egli appartiene ai padri fondatori del diritto penale moderno in Italia,<br />
unitamente a Gaetano Filangieri (Scienza della legislazione), a Mario Pagano<br />
(Sul processo criminale), a Pellegrino Rossi (traité du droit. criminel)<br />
ed a Giandomenico Romagnosi (Genesi del diritto penale) il quale ultimo,<br />
con il Principe di Satriano, probabilmente tutti li sorpassa per profondità<br />
di pensiero e per spessore dogmatico.<br />
Pur se a quei tempi l’insegnamento del diritto penale era unitario, nel<br />
senso che non esisteva la separazione, anche a livello di cattedre, fra diritto<br />
sostanziale e diritto processuale, l’attenzione al profilo processuale era intensa.<br />
Ciò può essere intuitivamente compreso, considerato che il processo,<br />
come d’altronde qualsiasi atto contenzioso, tende in definitiva a ripristinare<br />
il diritto, attraverso l’accertamento della verità. È questo un passaggio necessario,<br />
salvo, forse, il solo caso del procedimento penale contro un reo<br />
confesso; anche se pure in questo caso è necessario, quantomeno, verificare<br />
che la confessione risponda a verità.<br />
La verità rimane il punto di arrivo, e, nello stesso tempo la necessaria<br />
piattaforma di partenza di qualsiasi pronunzia giudiziale.<br />
Ma sia l’esperienza empirica, sia il dettato dei filosofi ci hanno, ormai,<br />
convinto che la verità non è (sempre) un quid assoluto, cartesiano e monolitico.<br />
Gli psicologi hanno dimostrato che la realtà stessa si deforma nella memoria<br />
e diviene la ‘‘realtà del soggetto’’ e, che, col trascorrere del tempo, si<br />
allontana sempre più da quella oggettiva.<br />
Non solo i tecnici del diritto, ma, anche, i letterati e gli scrittori ci
492<br />
VECCHIE PAGINE<br />
hanno messo in guardia dal riporre una fiducia cieca non solo nelle risultanze<br />
processuali, ma, perfino, nei mezzi canonici usati per acquisire le<br />
prove ed in definitiva, quindi, nelle prove stesse.<br />
Francesco Carrara – uno dei padri del moderno diritto penale italiano<br />
– nutriva evidentemente qualche riserva sul grado di assimilazione che i<br />
giudici e i giurati presentano di fronte alle testimonianza rese in dibattimento.<br />
Infatti, durante una lezione, affermò che i magistrati devono prestare<br />
la massima attenzione a quanto dicono i testimoni e pesare attentamente<br />
le loro parole. A convalida della sua tesi portò questo esempio:<br />
‘‘Sulla riva di uno stagno vi sono tre rane. Ad un certo punto una di queste<br />
decide di buttarsi in acqua. Quante ne restano sulla sponda?’’ ‘‘Due’’, rispose<br />
l’uditorio. ‘‘È perché? Io ho detto che decide di buttarsi in acqua,<br />
non che ci si è buttata effettivamente’’.<br />
Il criminologo francese Edmond Locard ha scritto ‘‘se in assoluto non<br />
esistono falsi testimoni, non esistono, nemmeno, testimoni assolutamente<br />
sinceri’’. A ciò, lo scrittore francese, Jean Bruce aggiunge: ‘‘Tre quarti della<br />
gente non sa vedere, non sa dire. Interpreta male per effetto di uno stimolo<br />
emotivo, per turbe della memoria; l’immaginazione fa il resto’’.<br />
Altrove Locard ha affermato dell’indizio che ‘‘se non dice tutta la verità,<br />
dice soltanto la verità’’.<br />
È stato anche detto che un alibi è inoppugnabile in tribunale, ma, giudicando<br />
con senso pratico, è la difesa meno degna di fede di tutte, poiché<br />
bastano due soli bugiardi a convalidarla.<br />
Edgar Allan Poe scrive: ‘‘Moltissimo di ciò che è stato respinto come<br />
prova da un tribunale è la prova migliore per l’intelletto. Le Corti di giustizia,<br />
infatti, lasciandosi guidare dai principi generali della prova, principi<br />
riconosciuti e sanciti nei libri, sono aliene dal deviare di fronte a casi particolari.<br />
E questa fedele aderenza al principio, accompagnata dal più rigoroso<br />
disprezzo per l’eccezione ribelle, è un mezzo sicuro per raggiungere il<br />
maximum di verità raggiungibile in ogni lunga successione di tempo. La<br />
prassi, in massima, è pertanto filosofica ma non è, per questo, meno certo<br />
che essa non sia causa di grandi errori in casi speciali’’.<br />
Ed a ciò fa riscontro quanto affermato da Walter Savage Landor (citato<br />
dal medesimo E. A. Poe): ‘‘Una teoria che si basi sulla qualità diun<br />
oggetto impedirà che essa sia spiegata secondo gli oggetti ai quali si addica;<br />
e colui che classifica dei fatti in riferimento alle loro cause cesserà di valutarli<br />
secondo il loro significato. Così la giurisprudenza (n.d.r. sta evidentemente<br />
per ‘‘legislazione’’) di ogni nazione dimostra che quando il diritto<br />
diviene scienza e sistema esso cessa di identificarsi con la giustizia. Gli errori<br />
in cui un attaccamento cieco ai principi di classificazione ha fatto incorrere<br />
il diritto comune, si osserveranno notando come spesso la legislatura<br />
(n.d.r. intende ‘‘il legislatore’’) è stata costretta ad intervenire onde rimettere<br />
in onore l’equità che i suoi architettamenti avevano calpestata’’.<br />
Tutti questi avvisi e moniti hanno messo in evidenza il dato che la spe-
VECCHIE PAGINE<br />
493<br />
ranza di ottenere da un procedimento penale la verità assoluta e quindi – in<br />
definitiva – l’affermazione della giustizia non sempre si può avverare. Ed è<br />
proprio per l’inconoscibilità oggettiva della verità che il diritto non può<br />
coincidere (necessariamente) con la giustizia.<br />
Questo aspetto della questione lo si coglie molto bene con un<br />
esempio paradigmatico. Tempo fa si celebrò avanti una Corte d’assise il<br />
processo per omicidio volontario contro due coniugi, accusati di aver ucciso<br />
un uomo. L’accusa riuscì a provare che uno dei due era il reo, ma<br />
non quale dei due lo fosse effettivamente. La sentenza fu, ovviamente, liberatoria<br />
per tutti e due. È chiaro che, assolvendo entrambi, giustizia non<br />
è stata fatta. Ma se i giurati avessero tirato a testa o croce, i casi sarebbero<br />
stati due. O avrebbero condannato un innocente – e giustizia non sarebbe<br />
stata fatta – oppure, cogliendo la verità, avrebbero condannato l’effettivo<br />
colpevole; ma in questo caso la giustizia avrebbe trionfato a scapito del<br />
diritto.<br />
È, quindi, necessario rassegnarsi: non potendo avere sempre la giustizia,<br />
è pur meglio salvaguardare costantemente il diritto, perché questo<br />
non esclude quella, mentre l’insistenza nella ricerca della prima distrugge<br />
inevitabilmente il secondo.<br />
E quanto di meglio si può fare in tal senso è di attenersi rigidamente,<br />
sostenendola, alla validità del principio della cosa giudicata.<br />
Nessuno, infatti, può in realtà sapere con certezza se un giudicato corrisponda<br />
alla verità oggettiva o meno. E allora è necessario sostituire la verità<br />
legale all’inconoscibile realtà materiale, cosicché la prima assorbe (tenendo<br />
luogo della) la seconda.<br />
E questa antinomia fra diritto e giustizia è risolubile in un solo modo:<br />
attraverso la certezza del diritto. Poiché, infatti, la verità materiale – che<br />
corrisponderebbe alla giustizia – alle volte non è conoscibile, è necessario<br />
sostituirla con la verità giuridica. L’unica soluzione rimane, dunque, la<br />
completa adesione al principio della res iudicata. ‘‘Certezza’’ deriva infatti<br />
da ‘‘certamen’’, come ci rammenta l’Addamiano. La contesa giudiziaria<br />
sfocia necessariamente in una certezza: il giudicato. Questo è il supporto<br />
tecnico-logico del principio della res iudicata. Edèproprio perché la realtà<br />
giuridica si può dissociare dalla realtà materiale che il giudicato assume carattere<br />
di assolutezza e di intangibilità, tenendo luogo della verità effettiva.<br />
La genesi stessa del principio della cosa giudicata ci chiarisce la sua funzione.<br />
Il concetto trae, infatti, giustificazione dalla necessità – sentita già<br />
in epoca romana – di non dovere continuamente giudicare de eadem re,<br />
ossia su una stessa vicenda (divieto di rem acta agere; res acta est; actum<br />
est; bis de eadem re ne sit actio; exceptio rei iudicatae), e, ciò per il duplice<br />
motivo del discredito che l’infinita ripetizione dei giudizi sulla medesima<br />
materia avrebbe portato all’amministrazione della giustizia, e, quindi, in definitiva<br />
allo Stato (interest rei pubblicae ut sit finis litium), e per le ragioni<br />
pratiche che stanno a fondamento della certezza del diritto, la cui messa in
494<br />
VECCHIE PAGINE<br />
crisi si risolverebbe in definitiva in un endemico malessere sociale, come<br />
osserva Cordero.<br />
Ovviamente i giuristi si posero il problema del ‘‘ giudicato ingiusto’’,<br />
ma anch’esso venne risolto nel senso che il giudicato prevale sulla verità.<br />
Rufino affermò che ‘‘res iudicata praejudicat veritati’’ e per i glossatori<br />
(quaestiones de iuris subtilitatibus) il giudicato non era equiparato a una<br />
prova, ma era ritenuto qualcosa che rendeva superflua la prova o la impediva.<br />
Che, peraltro, il concetto di giudicato, espresso nel ditterio ‘‘res iudicata<br />
pro veritate habetur oppure accipitur’’, sia una fictio è evidente, e lo si<br />
desume, oltrettutto, dall’affermazione della dottrina ‘‘In ambiguitatibus,<br />
quae ex lege proficiscuntur rerum judicatarum auctoritas vim legis obtinet’’.<br />
Il risultato di un processo è un’astrazione, se proprio non vogliamo definirlo<br />
una finzione. Ciò, peraltro, trae giustificazione da varie cause. Innanzitutto,<br />
come già osservato, dalla necessità (per scopi pratici e ‘‘politici’’)<br />
di non dovere giudicare all’infinito (Maupoil rileva che si giudica<br />
per non dover più giudicare); ed inoltre dall’esigenza della certezza del diritto.<br />
È qui, appunto, che si salda il contrasto fra l’aspirazione ad assicurare<br />
(il più possibile o comunque per quanto umanamente possibile) la conformità<br />
delle sentenze a giustizia e l’esigenza della certezza del diritto. Ciò è<br />
espresso, in maniera assai chiara, dal Carnelutti quando afferma che la certezza<br />
del diritto deve avere il sopravvento anche sulla sostanziale conformità<br />
al vero di una decisione e aggiunge:‘‘Vi sono liti le quali tollerano<br />
meglio la soluzione ingiusta, perché esigono più intensamente la soluzione<br />
rapida e viceversa... normalmente il problema si risolve mediante l’ammissione<br />
di una possibilità di rimedi limitata’’.<br />
Ma vi è un altro motivo a sostegno. Ed è che, poiché scopo istituzionale<br />
del giudice è la ricerca della verità, non sarebbe concettualmente ammissibile<br />
che la sua definitiva pronunzia non fosse la verità; essa non può<br />
essere altro che la verità, altrimenti cadrebbe la credibilità nella funzione<br />
giudiziaria e, con essa, il concetto stesso di diritto.<br />
D’altronde l’attributo di ‘‘fictio veritatis’’ non è peculiare alla (sola)<br />
cosa giudicata, essendo connesso anche con la figura delle presunzioni legali<br />
assolute (iuris et de iure). Esse, infatti, non ammettendo ex lege la prova<br />
contraria, fanno si che un determinato fatto sia considerato come vero agli<br />
effetti della realtà giuridica, prescindendo dalla sua concreta rispondenza<br />
alla verità effettiva.<br />
Il giudicato viene, quindi, considerato come un punto fermo, assume il<br />
significato di colonna portante nel sistema processuale, e ciò è logico ed<br />
evidente. Già il giurista romano Ulpiano, d’altronde, ammoniva che bisogna<br />
attenersi ai giudicati: ‘‘Rebus enim iudicatis standum est’’. L’ossequio,<br />
quindi, ed il rispetto per il valore del giudicato deve essere assoluto perché<br />
ogni dubbio in proposito significherebbe un cedimento nell’intero sistema<br />
giustpositivo. E non è questo un punto tanto dogmatico quanto pragmatico.<br />
Il diritto è uno strumento, l’intera costruzione giuridica un artefatto:
VECCHIE PAGINE<br />
495<br />
si può, quindi, se lo si decide o se lo si ritiene, farne a meno. Ma se lo si usa<br />
bisogna dargli credibilità e concedergli affidamento: il contrario sarebbe illogico,<br />
come sarebbe assurdo manomettere l’auto della quale ci si è, comunque,<br />
decisi di servirsi.<br />
Qualsiasi critica, quindi, alla costruzione giuridica o a suoi settori è<br />
controproducente anche se fattibile, peraltro con la limitazione puntualizzata<br />
dal Kelsen, secondo la quale il giurista che si pone in posizione critica<br />
nei confronti di una norma giuridica cessa di essere tale, trasformandosi in<br />
politico. (D’altronde, già Beccaria aveva asserito che al giudice spetta applicare<br />
la legge e non tentare di modificarla secondo il proprio criterio). Ciò<br />
vale, evidentemente e, diremmo, in modo particolarmente intenso, per<br />
l’autorità del giudicato e si riverbera di conseguenza su tutta la sequenza<br />
di atti, fatti, strumenti e mezzi che lo hanno prodotto. Così, ad esempio,<br />
si insiste spesso sull’espressione ‘‘una fra le possibili interpretazioni’’. Ma<br />
perché ‘‘una fra le possibili’’? Poiché dall’interpretazione utilizzata per decidere<br />
una particolare controversia è scaturita una sentenza, passata che sia<br />
questa in giudicato, la qualifica di verità che caratterizza la sentenza, si<br />
estenderà all’interpretazione, rendendola non ‘‘una delle’’ ma la sola possibile<br />
nel caso di specie. E la ragione dell’importanza annessa all’autorità<br />
della cosa giudicata sta nel fatto che essa è l’unico ponte di collegamento<br />
fra esigenza di giustizia e necessità della certezza del diritto.<br />
In particolare, in ambito penale, va anche rilevato che, in ragione della<br />
caratteristica intrinseca di questa branca del diritto (l’esplicazione dello ius<br />
puniendi) l’ossequio alla autorità del giudicato deve essere tanto più forte in<br />
quanto più profondi sono i suoi effetti sul piano umano, e, soprattutto, per<br />
il fatto che esso non conosce (né lo potrebbe) vie mediane: o assolve o condanna.<br />
Da questo punto di vista è evidente la differenza col diritto civile, il<br />
cui scopo ultimo, in definitiva, non è tanto il raggiungimento della verità<br />
quanto il ripristino dei diritti lesi.<br />
Naturalmente qualunque prodotto ha significato in funzione del valore<br />
degli elementi da cui deriva. Se quindi si deve (e si è visto che non si può<br />
fare altrimenti) annettere rispetto al giudicato, è ovvio che esso deve ripetere<br />
la sua credibilità dalla serietà del procedimento che lo ha generato. Dal<br />
che discende quanto auspicato in altra sede, e, cioè che il processo sia strutturato<br />
in termini di rigore giuridico, così da garantire il valore della sentenza<br />
che lo compendia.<br />
Federico Bellini
IN LIBRERIA<br />
NOTIZIARIO<br />
497<br />
Notiziario<br />
J. Sallantin, J.-J. Szczeciniarz (a cura di), Il concetto di prova alla luce<br />
dell’intelligenza artificiale, Giuffré, Milano, 2005, XXVI-416.<br />
M. Papa (a cura di), La riforma della parte speciale del diritto penale. Verso<br />
la costruzione di modelli comuni a livello europeo, Giappichelli, Torino,<br />
2005, VIII-238.<br />
M.A. Pasculli, La responsabilità da reato degli enti collettivi nell’ordinamento<br />
italiano, Cacucci, Bari, 2005, 385.<br />
T. Padovani, L. Stortoni, Diritto penale e fattispecie criminose – Introduzione<br />
alla parte speciale del diritto penale, Il Mulino, Bologna, 2006,<br />
132.<br />
P. Pisa, Giurisprudenza commentata di diritto penale, Vol. I, Delitti contro<br />
la persona e contro il patrimonio, IV Ed., <strong>Cedam</strong>, Padova, 2006, 1225.<br />
CONVEGNI, SEMINARI, INCONTRI<br />
Pisa, Incontro sul Corso di diritto penale, parte generale, ‘‘L’insegnamento<br />
del Diritto Penale, Aula Magna Storica del Palazzo della Sapienza, 17<br />
marzo 2006, h. 16.30.<br />
Trento, Convegno: ‘‘Delitto politico e diritto penale del nemico’’, in memoria<br />
di Mario Sbriccoli, Centro Congressi Panorama Sardagna, 10-<br />
11 marzo 2006.<br />
Milano, Presentazione del volume: ‘‘Viva Vox Constitutionis’’, Sala Crociera,<br />
Via Festa del Perdono 7, 24 marzo 2006.<br />
Verona, Incontro di Studi: ‘‘Lo stato attuale dei rapporti fra diritto penale e<br />
diritto comunitario nella prospettiva del trattato che istituisce una Costituzione<br />
per l’Europa’’, Aula Bartolomeo Cipolla, Facoltà di Giurisprudenza,<br />
24-25 marzo 2006.<br />
Urbino, Convegno: ‘‘Terrorismo internazionale e tutela dei diritti individuali,<br />
Aula Magna Facoltà di Giurisprudenza, 5-6 maggio 2006.<br />
Parma, Convegno: ‘‘Il Progetto sostituito’’ di G. D. Romagnosi (1806), Facoltà<br />
di Giurisprudenza, Aula dei Filosofi, 20 maggio 2006.<br />
Milano, ‘‘Le nuove impugnazioni penali tra Costituzione e diritto vivente’’,<br />
Palazzo Greppi, Sala Napoleonica, 22 maggio 2006.
498<br />
NOTIZIARIO<br />
Hanno collaborato nelle rubriche di questo fascicolo:<br />
Luigi Stortoni, Professore ordinario di diritto penale nell’Università di<br />
Bologna<br />
Davide Tassinari, Dottore di ricerca in diritto e processo penale – Università<br />
di Bologna<br />
Andrea Mereu, Cultore di diritto penale nell’Università di Cagliari<br />
Loredana Garlati, Professore associato di storia del diritto medievale e<br />
moderno nell’Università di Milano Bicocca<br />
Federica Resta, Dottorando di ricerca in diritto penale – Università di<br />
Foggia<br />
Francesco Callari, Cultore di diritto processuale penale nell’Università<br />
di Palermo<br />
Marco Mantovani, Professore associato di diritto penale nell’Università<br />
di Macerata<br />
Francesco Cingari, Assegnista di ricerca in diritto penale nell’Università<br />
di Firenze<br />
Alessandro Giuseppe Cannevale, Sostituto Procuratore della Repubblica<br />
presso il Tribunale di Perugia<br />
Chiara Lazzari, Dottorando di ricerca in diritto pennale dell’economia e<br />
dell’ambiente - Università di Teramo<br />
Francesco Bochicchio, Avvocato in Milano<br />
Giovanna Fanelli, Dottore di ricerca in diritto penale – Università di<br />
Parma<br />
Andrea Paolo Casati, Assegnista di ricerca in procedura penale nell’Università<br />
di Milano Bicocca<br />
Francesco Zacchè, Ricercatore di procedura penale nell’Università di<br />
Milano Bicocca<br />
Angela Maria Bonanno, Cultore di diritto penale nell’Università di<br />
Bologna<br />
Guido Camera, Avvocato in Bologna<br />
Davide Bertaccini, Dottore di ricerca in criminologia – Università di<br />
Trento<br />
Maddalena Grassi, Dottorando di ricerca in diritto penale – Università<br />
di Parma<br />
Silvia Massi, Cultore di diritto penale nell’Università di Padova<br />
Federico Bellini, Commercialista in Milano