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Città &Storia 

LA CITTÀ ALLO SPECCHIO 

a cura di C. Conforti, L. Nuti, C.M. Travaglini 

02 

06

Redazione 

DONATELLA CALABI, IUAV 

CLAUDIA CONFORTI, Università di Roma «Tor Vergata» 

ALBERTO GROHMANN, Università di Perugia 

DEREK KEENE, University of London 

PAOLA LANARO, Università di Venezia 

BRIGITTE MARIN, École française de Rome 

LUCA MOCARELLI, Università di Milano «Bicocca» 

ROBERTA MORELLI, Università di Roma «Tor Vergata» 

LUCIA NUTI, Università di Pisa 

CARLOS SAMBRICIO, Universidad Politécnica, Madrid 

ROSA TAMBORRINO, Politecnico di Torino 

CARLO M. TRAVAGLINI, Università «Roma Tre» 

GUIDO ZUCCONI, IUAV 

Direttore 

CARLO M. TRAVAGLINI, Università «Roma Tre» 

Segreteria di redazione 

ANNA ROSA ANGIÒ-SABINA MITTIGA-CHIARA TRAVAGLINI 

Città & Storia 

Corrispondenti Scientifici 

MAURICE AYMARD, EHESS, Paris 

JEAN FRANÇOIS CHAUVARD, Université de Strasbourg 

MATTHEW DAVIES, Centre for Metropolitan History, London 

DIRK DE MEYER, Ghent University 

JOSEF EHMER, Universität Wien 

DAVID H. FRIEDMAN, MIT, Cambridge (Ma) 

BERNARD GAUTHIEZ, Université Lyon-III «Jean Moulin» 

ENRICO IACHELLO, Università di Catania 

HIDENOBU JINNAI, Hosei University, Tokyo 

MIGUEL ANGEL LADERO QUESADA, Univ. Complutense, Madrid 

DANIELE MANACORDA, Università «Roma Tre» 

ANGELA MARINO, Università de L’Aquila 

PAOLA PAVAN, Archivio Storico Capitolino, Roma 

WALTER ROSSA FERREIRA DA SILVA, Universidade de Coimbra 

ALISON SMITH, Wagner College, New York 

EUGENIO SONNINO, Università di Roma «La Sapienza» 

PETER STABEL, University of Antwerp 

ROSEMARY SWEET, Centre for Urban History, Leicester 

PAUL ZANKER, Scuola Normale Superiore, Pisa 

Sede Redazione: Laboratorio di Analisi Regionale, Dipartimento di Economia, Università «Roma Tre», 

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Progetto grafico e impaginazione Emiliano Martina 

© 2007 Università Roma Tre-CROMA 

I diritti di traduzione, riproduzione e adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono 

riservati per tutti i Paesi 

Autorizzazione del Tribunale di Roma n.503/06 dell’1/8/06 

Il fascicolo è stato chiuso in tipografia il 14/05/2007. Stampa presso Grafica Romana, via F. Bartolozzi, 13 - 00133 - Roma

Città & Storia 

Anno I, n.2 

luglio-dicembre 2006 

S O M M A R I O 

La città allo specchio 

a cura di Claudia Conforti, Lucia Nuti e Carlo M. Travaglini 

C. CONFORTI - C.M. TRAVAGLINI, Introduzione......................................................... pag. 313 

M.B. BETTAZZI, Affreschi di città: ricerche per un catalogo ragionato........................... » 317 

M. NAKAHASHI, L’iconografia urbana in Giappone nei Rakuchu-rakugaizu del 

primo XVI secolo.................................................................................................. 

L. NUTI, Le città di Palazzo Vecchio a Firenze ........................................................... 

B. GAUTHIEZ, Histoire de la cartographie des villes aux XVIe-XVIIIe siècles. Apparition et 

évolution des modes de représentation......................................................................... 

H. JINNAI, I catasti nella storia urbana del Giappone ................................................. 

P. MILTENOV, L’immagine di San Pietroburgo nella cartografia della Biblioteca 

Nazionale Russa (1714-1839) .................................................................................. 

C. CAMARERO BULLÓN, El catastro de Ensenada, fuente para el estudio de las ciudades 

de la Corona de Castilla a mediados del siglo XVIII ................................................... 

K. LELO-C.M. TRAVAGLINI, Dalla «Nuova Pianta» del Nolli al Catasto Pio-Gregoriano: 

l’immagine di Roma all’epoca del Grand Tour............................................................ 

A. COGNÉ, Le cadastre de Lombardie (1758): une source pour l’histoire urbaine. La 

réalisation d’un système d’information géographique pour la ville de Milan.................. 

D. ULIVIERI, Iconografia dei centri della Versilia storica negli stradari leopoldini........... 

A. BUCCARO, Il sistema catastale negli Stati italiani e la vicenda del Mezzogiorno dai Borbone 

all’Unità ............................................................................................................................ 

M. IULIANO, Mappe catastali della provincia di Napoli nel XIX secolo ........................ 

M.C. MIGLIACCIO, Brani di città medievale nella inedita cartografia catastale di 

Aversa del 1876 ....................................................................................................... 

P. PINON, Les anciens plans cadastraux d’Istanbul ...................................................... 

» 325 

» 345 

» 359 

» 377 

» 395 

» 411 

» 431 

» 457 

» 479 

» 493 

» 507 

» 521 

» 537

Saggi 

M. FRATI, La definizione e la tutela dell’ambiente urbano nella costruzione delle città 

medievali, fra bene comune e proprietà privata ......................................................... 

B. MARIN, Gli usi e la gestione degli spazi collettivi a Napoli nel XVIII secolo ............. 

S. PALLECCHI, Il palinsesto di una città medievale. Metodi e problemi dell’archeologia 

urbana a Siena ....................................................................................................... 

Note e discussioni 

R. TAMBORRINO, Vera Comoli: la città come storia urbana ....................................... 

L. NUTI, Ricordo di Lucio Gambi ........................................................................... 

D. MANACORDA, A proposito di Roma e della nuda pietra ........................................ 

C.M. TRAVAGLINI, Archeologia industriale e paesaggi urbani ..................................... 

Convegni, seminari, mostre 

D. CALABI, Le città storiche nel XXI secolo: per un nuovo approccio alle questioni della 

conservazione urbana .............................................................................................. 

M. IULIANO, Il IV convegno internazionale sull’iconografia delle città......................... 

E. SVALDUZ, Città, architettura e società: riflessioni su una mostra.............................. 

Informazioni 

Schede 

a cura di: F. BARTOLINI, A. CARACAUSI, L. DI MAURO, G. GUIDARELLI, R. NICOLÒ, T. SERENA, 

E. SVALDUZ, G. VERTECCHI, M. VISONE 

si parla di: M.F. BOEMI-C.M. TRAVAGLINI (a cura di), Roma dall’alto; D. CALABI (a cura 

di), Venezia in fumo. I grandi incendi della città-fenice; C. DE SETA-A. BUCCARO (a cura di), 

Iconografia delle città in Campania. Napoli e i centri della provincia; S. FICACCI, Tor Pignattara. 

Fascismo e Resistenza di un quartiere romano; P. LANARO (ed.), At the Centre of the Old World: 

Trade and Manufacturing in Venice and the Venetian Mainland (1400-1800); F. LUCARELLI-M. 

IULIANO - A. MIGNOZZI (a cura di), Culture et architecture in Italie dans les années Trente. La 

Triennale, l’E42 et la Modern Heritage List; G. MAZZI-G. ZUCCONI (a cura di), Daniele Donghi. 

I molti aspetti di un ingegnere totale; R. RODGER-D. MENJOT (eds.), Teaching Urban History in 

Europe. L’enseignement de l’histoire urbaine en Europe; M. SINATRA, La Garbatella a Roma 1920- 

1940; M. VISIOLI, Le piazze maggiori di Cremona in età sforzesca: Platea Maior e Platea Domini 

Capitanei; F. VISTOLI (a cura di), Emergenze storico-archeologiche di un settore del suburbio di 

Roma: la Tenuta dell’Acqua Traversa 

Abstracts 

Pubblicazioni ricevute 

pag. 553 

» 567 

» 583 

» 595 

» 605 

» 607 

» 614 

» 620 

» 623 

» 626 

a cura di: M. SAVORRA, K. LELO 

si parla di: Le città e i militari in età contemporanea; Descriptio urbis: measuring and 

representing the modern and contemporary city; Il IX congresso internazionale di storia urba- » 629 

» 635

«Città e Storia», I, 2006, 2, pp. 313-315 ©2007 Università Roma Tre-CROMA 

INTRODUZIONE 

La città allo specchio 

a cura di C. Conforti, L. Nuti, C.M. Travaglini 

«...con della farina tracciarono il perimetro della città di Alessandria, e da ogni parte si levarono 

uccelli a beccarne. Angosciato Alessandro fece chiamare gli interpreti di prodigi ed espose loro 

l’accaduto. Ma quelli risposero: “questa città che viene fondata darà nutrimento al mondo intero; 

gli uomini che vi nasceranno andranno in ogni parte del mondo”. Infatti gli uccelli si sono dispersi 

per tutta la terra». 

L’apologo di fondazione della capitale eponima del grande condottiero, tramandato 

nella Vita di Alessandro Magno dello Pseudo Kallistene, attesta, con folgorante 

immediatezza, il sodalizio indissolubile tra città e figurazione. 

Se un tracciato geometrico, solo apparentemente labile ed effimero, presiede alla 

fondazione della mitica capitale ellenistica, anticipandone profeticamente il destino 

civilizzatore, saranno le raffigurazioni prospettiche, le piante e le vedute planari, dipinte 

su tavole, istoriate sulle pareti dei palazzi e delle chiese, stampate su carta in 

centinaia di esemplari, ad attestare e a diffondere la potenza commerciale, militare e 

religiosa che illumina l’inarrestabile egemonia delle città all’alba dell’evo moderno. 

Pertanto la rappresentazione della città, sia sotto forma di veduta urbana che 

di sistema di tracciati planimetrici, affianca indissolubilmente e fin dalle origini lo 

sviluppo del fenomeno urbano, ma solo a partire dal Cinquecento essa assume una 

diffusione capitale e irresistibile. 

Rifigurata dalle geometrie prospettiche e assonometriche e dai nuovi sistemi di misurazione, 

moltiplicata dalle tecniche di incisione (xilografia, bulino, acquatinta etc.) e 

di stampa, l’immagine della città attinge sempre di più a significati metaforici e si carica 

di squillanti messaggi propagandistici. Attraverso rappresentazioni graficamente mirate, 

le cui tecniche figurative si perfezionano nel tempo e con l’ausilio di diverse discipline, 

queste immagini pervengono ad esaltare il buon governo, la devozione religiosa, la 

vivacità produttiva, il fecondo esercizio della mercatura, la poliorcetica più aggiornata 

e intimidatoria. Le stesse immagini o immagini simili possono anche orientare topograficamente 

il viaggiatore – pellegrino, letterato, artista, prete o mercante – nella città 

sconosciuta, segnalandone chiese, palazzi, ospizi, conventi, piazze e fontane.

314 CLAUDIA CONFORTI - CARLO M. TRAVAGLINI 

A partire dalla pionieristica e spettacolare veduta planare di Venezia di Jacopo de’ 

Barbari del 1500, un profluvio di figurazioni urbane, conformate a principi di reale 

misurabilità, si dissemina lungo i tragitti dei monaci, degli ambasciatori, dei capitani 

di ventura e dei mercanti, fin nelle più lontane regioni, veicolando potenziali modelli 

di forma e di magnificentia urbis, che influiranno profondamente sull’idea corrente di 

città, mettendone sostanzialmente in crisi l’idealizzazione geometrica e l’astratta simbolizzazione 

dominanti nell’immaginario urbano ancora e fino al XV secolo. 

Se si paragona l’idea complessiva di città sottesa a questa torrenziale produzione 

figurativa, che, sui più svariati supporti, si perpetuerà con inarrestabile impeto fino 

al XX secolo, con quella delle celebri tavole quattrocentesche di Urbino, di Berlino 

e di Baltimora, non si può fare a meno di notare la siderale distanza concettuale, 

prima che figurativa, che le separa. A un’immagine rarefatta e topologica, incentrata 

sulla preminenza astratta di singoli monumenti, spiccati da un contesto che rimane 

indefinito, delle tavole quattrocentesche, si sostituisce un tumultuante intreccio di 

sistemi figurativi – architettonici, spaziali, infrastrutturali –, la cui rappresentatività, 

trascendente l’eminenza del monumento, è potenziata da sintetiche legende, che alternano 

sagacemente esplicazione e autocelebrazione. 

Roma, Siviglia, Anversa, Parigi e molte altre città, capitali e non, non solo europee, 

diventano oggetto privilegiato di una moltiplicazione iconografica che ne registra, 

sotto specie figurativa, ampliamenti e sviluppi e che, in fogli sciolti o in raccolte 

rilegate, alimenta un collezionismo capillarmente diffuso, come attestano invariabilmente 

gli inventari post-mortem. 

Tra le innumerevoli raccolte rilegate si segnala, nella seconda metà del ’500, quella 

antesignana del senese Matteo Florimi, la cui esemplarità è ribadita dalle innumerevoli 

riedizioni: da L’Italia Grande in soli sei fogli, alla diffusissima Descrittione Historica dell’Italia, 

fino alla Italia di Giovan Antonio Magini, stampata a Bologna, dopo la morte 

dell’autore, nel 1620. Diffusione internazionale e successo commerciale conseguono 

anche altre raccolte di vedute e di piante di città, come quella di Georg Braun, stampata 

in sei volumi a Colonia (1572-1617) da Franz Hohenberg intitolata Civitates Orbis 

Terrarum, e destinata a un’inespugnabile fortuna editoriale non dissimile da quella che 

tocca alla raccolta di Abraham Ortelius, Theatro del Mondo (Theatrum Orbis Terrarum), 

stampata ad Anversa nel 1608 a cura di Filippo Pigafetta. 

Alle vedute planari, alle piante e alle prospettive di città si affianca invariabilmente 

un’ulteriore rappresentazione, sempre governata dalla misurazione geometrica che, 

priva di implicazioni ideologiche e di seduzioni formali, risponde invece a stringenti 

esigenze fiscali e patrimoniali. Si allude evidentemente ai catasti grafici, che descrivono 

e attestano le suddivisioni fondiarie e immobiliari delle città (e del territorio) e la 

cui pratica si ritrova, con trascurabili varianti, in Europa come nel vicino e nell’estremo 

Oriente. A tale tipologia topografica si affianca quella analoga, seppure meno 

consueta, degli stradari, anch’essa condivisa dalle città e dal contado.

INTRODUZIONE 315 

Questa raccolta di studi, significativamente intitolata La città allo specchio, indaga 

le molteplici raffigurazioni che, a partire dall’età moderna, hanno declinato l’immagine 

della città non solo nell’Europa continentale e nel Mediterraneo, ma fino 

alle lontane isole del Giappone che, pur nell’assoluta originalità, mostrano singolari 

analogie con la tradizione occidentale. 

I quattordici saggi, articolati sui diversi tipi iconografici che tra XVI e XIX secolo 

hanno declinato l’immagine della città, spaziano in una dimensione geografica che 

apre feconde comparazioni tra la Castiglia e Pietroburgo, tra Edo (l’antica Tokio) e 

Firenze, tra Napoli e Bologna e Istanbul e Roma. Va infine segnalato che mentre alcuni 

di essi sono stati appositamente predisposti per la parte monografica del presente 

fascicolo, altri costituiscono un’ampia rielaborazione critica di temi di riflessione 

discussi nel corso del II Congresso dell’Associazione italiana di storia urbana (AISU) 1 

e del VII Congresso dell’European Association of Urban Historians 2 . 

Claudia Conforti - Carlo M. Travaglini 

1 Patrimoni e trasformazioni urbane, Roma, 24-26 giugno 2004, con particolare riferimento alle 

sessioni Catasti e rappresentazioni (coordinatori Cesare De Seta e Lucia Nuti) e La rappresentazione del 

patrimonio urbano (coordinatrice Claudia Conforti). 

2 European City in Comparative Perspective, Athens-Piraeus, 27-30 ottobre 2004, sessione Cadastres 

and representations of cities, XVIII-XIX centuries (coordinatori Carlo M. Travaglini e Brigitte Marin).

«ROMA MODERNA E CONTEMPORANEA« 

anno XIII, 2005, 2.3 

COLLEZIONISMO, MERCATO, TUTELA. 

LA PROMOZIONE DELLE ARTI PRIMA 

DELL’UNITÀ 

a cura di Liliana Barroero 

contributi di 

L. BARROERO, C. PAZZINI, A. PERLA, G. PARIS, 

N. GOZZANO, G. LA MASTRA, P. COEN, 

L. D’AVENIA, A. ARCONTI, M.C. MAIOCCHI 

SAGGI 


S. BUTTARELLI, C. ROSSETTI, O. VERDI 

NOTE E DISCUSSIONI 


C.M. TRAVAGLINI 

Direttore responsabile: Carlo M. TRAVAGLINI 

Redazione: Stefano ANDRETTA, Liliana BARROERO, 

Catherine BRICE, Marina CAFFIERO, Carlo Felice 

CASULA, Paolo D’ACHILLE, Irene FOSI, Luigi 

GOGLIA, Sergio GUARINO, Luigi LONDEI, Antonio 

MARTINI, Giuseppe MONSAGRATI, Roberta MORELLI, 

Giacomina NENCI, Maria Luisa NERI, Maria Iolanda 

PALAZZOLO, Maria Grazia PASTURA, Paola PAVAN, 

Alberto RACHELI, Domenico ROCCIOLO, Antonella 

ROMANO, Eugenio SONNINO, Bruno TOBIA, Bruno 

TOSCANO, Carlo M. TRAVAGLINI, Paolo VENEZIANI, 

Orietta VERDI, Maria Antonietta VISCEGLIA 

Segreteria di Redazione: SABINA MITTIGA, CHIARA 

TRAVAGLINI, Elena VALERI 

Corrispondenti scientifici: Angela BOCCI GIRELLI, 

MARTINE BOITEUX, Olivier BONFAIT, Philippe 

BOUTRY, FRANCESCA CANTÙ, Rita D’ERRICO, Saverio 

FRANCHI, Elisabeth KIEVEN, Lutz KLINKHAMMER, 

Alexander KOLLER, Ciro MANCA, Mario MANIERI 

ELIA, Paolo MARCONI, Giovanna MEROLA, Stefania 

NANNI, Laurie NUSSDOFER, Sergio PAGANO, Guido 

PESCOSOLIDO, Lidia PICCIONI, Fausto PIOLA CASELLI, 

Andrea RICCARDI, Mario ROSA, Ingrid ROWLAND, 

Mario SERIO, Giuseppe TALAMO 

Manoscritti, libri, proposte di contributi e recensioni 

vanno inviati al prof. Carlo M. Travaglini, redazione 

di «Roma moderna e contemporanea» presso: 

Centro per lo studio di Roma CROMA - Università 

degli studi Roma Tre, Via Ostiense, 139 - 00154 

Roma - Tel. 06.57374016 - Fax 06.57374030 - Email: 

travagli@uniroma3.it 

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degli studi Roma Tre, Via Ostiense, 139 - 00154 

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Abbonamento annuo 2007: Italia euro 41,00; Estero 

euro 55,00 - Sostenitore: euro 100,00

«Città e Storia», I, 2006, 2, pp. 317-324. ©2007 Università Roma Tre-CROMA 

AFFRESCHI DI CITTÀ: RICERCHE PER 

UN CATALOGO RAGIONATO 

Oggetto di questo scritto è la delineazione di un percorso di ricerca volto all’individuazione 

e allo studio di cicli pittorici (per lo più affreschi, ma anche dipinti su tavola 

o tela) che abbiano lo spazio urbano come protagonista 1 . Questi sono assai spesso collocati 

all’interno di sedi di amministrazione di un potere religioso, politico o familiare. 

Il peso e la progressiva complessità raggiunti dalle istituzioni politiche cittadine 

nel corso del medioevo, uniti alla consapevolezza identitaria della comunità raccolta 

fra le mura urbane, insieme all’interesse sempre più marcato per il dominio dell’uomo 

sulla realtà che lo circonda, contribuiscono ad una svolta epistemologica e 

tecnica − la prospettiva geometrica dei primi del Quattrocento − che trova nella città 

il punto di applicazione ideale, crocevia di civiltà e entità complessa dalle infinite 

sfaccettature. La città, vera protagonista, è allora raffigurata nella sua interezza 2 e 

viene di norma ritratta secondo quattro possibili configurazioni: due basate su punti 

di vista reali − profilo e prospettiva − e due, invece, frutto di astrazione geometrica − 

pianta e veduta a volo d’uccello o, meglio, pianta prospettica 3 . 

In realtà le caratteristiche che abbiamo elencato riconducono ad una casistica 

abbondante di rappresentazioni spaziali, fra cui catasti, «Atlanti» di città o trattati di 

architettura militare, solo per fare qualche esempio. Si è selezionato, invece, il caso di 

rappresentazioni su supporto stabile e di grande impianto 4 , poiché la volontà in chi 

produce il fenomeno di fermare una volta per tutte l’immagine di un luogo pregnante 

e significativo sembra arricchire la riflessione di spunti chiarificatori del rapporto 

fra l’uomo e il concetto di spazio in un dato momento storico. Infatti, uno degli 

obiettivi di questa ricerca, oltre naturalmente alla capillare mappatura del fenomeno 

“affreschi di città”, è l’approfondimento dell’aspetto «antropologico» del problema. 

Riprodurre graficamente − e su supporto durevole − uno spazio percepito come significativo 

è gesto pregnante di per sé; è altresì possibile evincere dalle modalità in 

cui questo gesto viene compiuto la mentalità e, potremmo dire, il “sentimento” nei 

riguardi dello spazio in quel momento storico, cuore reale del discorso 5 . Per arrivare 

a tutto questo, molteplici sono gli aspetti di cui tenere conto. Ad esempio la costruzione 

delle immagini − raffigurazioni pittoriche ma con forte apporto scientifico − è

318 MARIA BEATRICE BETTAZZI 

operazione complessa di mediazione fra professionalità che vanno individuandosi e 

diversificandosi man mano che si abbandona il Cinquecento. Non va sottovalutato il 

ruolo del committente che non esercita mai passivamente un’opzione, ma partecipa 

alla redazione di uno strumento che è essenziale veicolo di affermazione di un dominio, 

oltre che specchio di buone pratiche di governo. Anche il luogo in cui queste 

immagini sono collocate, all’interno dell’edificio, riveste significato nella strategia di 

comunicazione del messaggio: momento autoreferenziale e costitutivo di una privata 

percezione del sé oppure, in verità più spesso, vetrina per un pubblico scelto che può 

così concretamente misurare e soppesare ciò su cui si fonda il potere dell’autorità 6 . 

E, ancora, il rapporto con il reale si gioca o su una ricostruzione virtuale per collage 

(Galleria delle Carte Geografiche, ad esempio) oppure, in alcuni casi, su un singolare 

dualismo fra interno ed esterno, fra l’immagine dipinta sulle pareti e il suo doppio 

visibile fuori dalle finestre. 

In anticipo sul limite cronologico prefissato, ma significativo per le implicazioni e 

i presupposti culturali che lo pervadono, è il caso degli affreschi nel Palazzo Pubblico 

a Siena: 

Mentre celebrava, nella Maestà, la Vergine come sua sola sovrana, [...] la città documentava l’accrescimento 

di quella “terra” con le immagini dei castelli; quindi, nella Sala dei Nove [con gli affreschi 

del Buono e Cattivo Governo, fine anni trenta del XIV secolo] mostrava che la prosperità della terra 

- ora descritta, in una panoramica vertiginosa, dal centro cittadino fino alla costa - era frutto d’un 

governo teso alla giustizia e al bene di tutti; e al tempo stesso, declinava le forme del suo dominio 

secondo un modello imperiale (con Guidoriccio da Fogliano del 1330) [...] 7 . 

Ad una adesione al dato reale programmatica e perseguita qui in modo nuovo 

rispetto al passato, anche se ancora non efficacemente e compiutamente realizzata, si 

aggiunge la forte pregnanza politica che fa di questa opera un manifesto esemplare: 

da ora in avanti la città rappresentata diventa di per sé modello di buon governo 8 . 

L’avvio della pratica della prospettiva geometrica nei primi anni del XV secolo, 

unito alla sempre maggiore tensione verso la riproduzione mimetica del reale, insieme 

alla messa a punto di strumentazioni tecniche per il rilievo, in grado di agevolare 

il lavoro di raccolta dei dati, non si ripercossero immediatamente sull’iconografia urbana. 

Le prime attestazioni di una veduta immediatamente riconducibile ad una città 

reale (e non, come avveniva prima, attraverso l’evocazione di qualche monumento 

identificativo), risalgono ormai tutte alla seconda metà del Quattrocento. Fra le altre, 

la Firenze detta della Catena (1472 circa), incisa da Ludovico degli Uberti, da cui fu 

tratta una tavola dipinta attribuita a Francesco Rosselli (1489-1495), la tavola Strozzi 

(1472-1473) che raffigura Napoli vista dal golfo, attribuita al medesimo Rosselli da 

Cesare de Seta, la veduta di Venezia di Jacopo de’ Barbari datata 1500, prima vera e 

propria pianta prospettica con punto di vista alto nel cielo, la pianta zenitale di Imola 

disegnata da Leonardo (1502, forse su dati precedenti di Danesio Maineri), solo per 

citare alcuni celebri esempi.

AFFRESCHI DI CITTÀ 319 

Il nostro discorso, come abbiamo già precisato, verte sui cicli pittorici ad affresco 

o comunque su immagini di grande impegno e dimensione, che, per questo 

motivo, di norma troviamo in edifici sedi di amministrazione di un governo. 

Per ora, il primo e unico contributo critico interamente dedicato al tema 9 è il 

saggio di Juergen Schulz Mappe come metafore: cicli murali cartografici nell’Italia 

del Rinascimento 10 , in cui egli sistematizza una casistica di immagini forse troppo 

ampia. La trattazione culmina con la Galleria delle Carte Geografiche in Vaticano 

(1579-1581) che rivela l’Italia e le sue città come teatro di «pie gesta», una «geografia 

moralizzata» 11 , come è stata definita. Risalendo a ritroso in cerca degli esordi, 

Schulz individua i primi esempi di città ad affresco negli anni Ottanta del 

Quattrocento e in due sedi diverse: Gonzaga e Roma. Nella cittadina del mantovano, 

ove il marchese Francesco II aveva una villa, purtroppo non resta più nulla. Gli 

otto riquadri, ospitati in quella che era definita «camera delle città», raffiguravano 

quattro centri di mare e quattro di terra. Lo stato di avanzamento dei lavori di 

affresco venne comunicato al marchese in una lettera del 23 novembre 1493 da 

Teofilo Colenucci, forse autore del programma illustrativo: la scelta era caduta su 

Costantinopoli, Roma, Napoli, Firenze, Venezia, Il Cairo, Genova, ma mancava 

ancora un’ultima città di terra e il Gonzaga optò per Parigi. 

Più macroscopico e noto è il caso della loggia della villa del Belvedere in Vaticano. 

Qui il papa Innocenzo VIII fra il 1484-1487 commissionò a Pinturicchio un ciclo di 

vedute di cui oggi rimane assai poco, ma Vasari ci informa che esso era il primo del 

suo genere e rappresentava Roma, Milano, Genova, Firenze, Venezia e Napoli 12 . Il 

significato dell’opera è stato ravvisato nella rinnovata fiducia accordata dal papato a 

queste città dopo anni di ostilità e di guerre. 

Il fenomeno si spinge fino al Cinquecento inoltrato, ad esempio, con le imprese 

figurative del palazzo Orsini di Anguillara Sabazia 13 (seconda metà degli anni 

Trenta del XVI secolo) e del palazzo delle Logge di Bagnaia, sede estiva del cardinal 

Gambara, vescovo di Viterbo (seconda metà XVI secolo), entrambe ancora visibili, 

anche se non in perfette condizioni. 

È intorno alla metà del Cinquecento che si profila un diverso orientamento nella 

scelta del soggetto da rappresentare. Se, infatti, nella prima serie di affreschi era 

prevalsa una volontà onnicomprensiva di riassumere in poche immagini significative 

la complessità della dimensione urbana esaltando i rapporti di buon vicinato e gli 

scambi commerciali o culturali, reali o auspicati, con un intento che potremmo definire 

«enciclopedico-relazionale», dopo la metà del Cinquecento l’obiettivo sembra 

essere autoreferenziale e la propria identità si ricerca non con il confronto e la relazione 

con l’altro da sé, ma incentrandosi nello studio e nella definizione del proprio. Ciò 

appare evidente in quello che forse è il primo esempio di questa tendenza: la Galeria 

Nova di Ercole II nel castello Estense, risalente agli anni 1554-1559, oggi scomparsa. 

Qui, come attesta Marco Folin, «erano raffigurati i principali possessi dinastici della


casata (Ferrara, Modena, Reggio e Brescello) a dichiarare le aspirazioni monarchiche 

dei duchi, ormai emancipati dalla vecchia condizione di signori cittadini» 14 . 

Un altro importante esempio, modello di futuri sviluppi, è la sala d’Ercole in palazzo 

Farnese a Caprarola. Di certo deve aver influito il clima culturale delle contigue 

corti vescovili e cardinalizie (si veda, ad esempio, il citato caso di Bagnaia), caratterizzate 

da una civiltà figurativa comune, garantita da vere e proprie équipes di artisti che 

si spostano da una villa all’altra dividendosi fra più cantieri. Nell’esempio farnesiano, 

però, rispetto agli altri casi del viterbese, ciò che interessa è effigiare le memorie dei possessi 

territoriali di casa Farnese. Certo, nella sala del Mappamondo, Giovanni Antonio 

Vanosino da Varese dipinge «sette grandi carte geografiche che rappresentano il mondo 

nella sua interezza, i quattro continenti noti, l’Italia e la Palestina (oltre ai) ritratti di 

cinque esploratori, da Marco Polo a Magellano» 15 . Ma ci sembra assai più significativa 

la decorazione della sala d’Ercole: vi si trovano, infatti, vedute di Ronciglione, Fabrica, 

Caprarola, Isola, Parma, Capodimonte, Castro, Piacenza, Marta e Canino 16 . La Sala, 

dipinta fra il 1566 e il 1569 da Federico Zuccari e aiuti 17 ma in alcuni riquadri perfezionata 

fino ai primi anni Settanta, fu vista certamente, assieme alla sala del Mappamondo, 

dal papa bolognese Gregorio XIII nel 1578, un anno prima che si cominciasse a parlare 

della Galleria vaticana. Importa però riannodare anche un altro filo che lega Gabriele 

Paleotti, cardinale di Bologna dal 1566, alla dimora farnesiana, da lui visitata agli inizi 

delle imprese decorative zuccariane, e ancora alla città felsinea 18 , teatro, a nostro avviso, 

di un ulteriore scatto in avanti del fenomeno delle città dipinte 19 . 

Il bandolo che vede Bologna assurgere a ruolo di primo piano è proprio nella 

elaborazione degli archetipi, e come tali andati perduti, delle prime importanti raffigurazioni 

della città e del contado, opera (in tutto o in parte) di frate Cherubino 

Ghirardacci da Bologna, compiuti per volontà del cardinale Paleotti, esposti presso la 

sede episcopale. In particolare, in relazione alla veduta della città, come sottolineava 

già Giovanni Ricci, «nella nascita del vedutismo urbano con valore documentario» 20 

Bologna conquistò un posto di prim’ordine con la redazione di una pianta che quasi 

certamente dovette essere prospettica, data la molto probabile dipendenza da essa 

di esempi successivi che rientrano in tale tipologia. Inoltre, la medesima veduta, 

aggiornata, fece da base per l’affresco che, nel 1575, Gregorio XIII volle dipinto in 

Vaticano e che con tutta probabilità, insieme alle suggestioni farnesiane di Caprarola, 

lo avrebbero portato all’impresa di Ignazio Danti della Galleria. Quest’ultima, poi, in 

tutta la sua polisemia interpretativa e nella varietà dimensionale con cui è rappresentato 

lo spazio geografico (l’Italia intera, ampie regioni, città e fortezze), si configura 

come momento di sintesi estrema ad un livello qualitativamente mai più raggiunto e 

con un’esemplare centralità dell’apporto scientifico, ostentato come privilegio e quasi 

prerogativa della cultura papale. Da qui in avanti l’uso di esporre città dipinte, spesso 

in logge o in gallerie 21 , ma anche la tipologia di immagine o il significato antropologico 

del controllo, del dominio e dell’autocompiacimento, troveranno un antece-


dente conosciuto in tutto l’orbe terracqueo, e l’impresa vaticana rimarrà il modello 

geoiconografico per antonomasia a cui fare costante riferimento. 

Di certo quanto è rimasto a testimoniare il lavoro dell’agostiniano Ghirardacci, 

parliamo della pianta della sala Bologna nei Palazzi Vaticani, certifica la presenza, all’ombra 

delle due torri, di un livello di perizia topografica piuttosto elevato 22 . Questo 

aspetto unito alla tipologia grafica, la pianta prospettica, riteniamo carichi l’episodio 

di una valenza esemplare e significativa per la storia del ritratto urbano, sempre più 

legato, come già abbiamo detto, alle implicazioni antropologiche di un rapporto con 

lo spazio reale, governato. 

In questo senso, la mappa mundi, data l’estensione del territorio che definisce, 

istituisce un rapporto del genere solo in casi molto rari (può funzionare a quel tempo 

solo per i papi). Nel caso della scala urbana, invece, se la veduta prospettica o il profilo 

presentano soltanto una sineddoche del luogo, non potendolo mostrare per intero, 

la pianta prospettica consente una visione olografica, onnicomprensiva, accattivante 

per l’occhio che ritrova gli alzati architettonici, dove invece la pianta zenitale diverrà, 

nella sua laconicità, dominio degli specialisti. 

Pertanto, se il citato saggio di Schulz ha il merito di avere per primo evidenziato 

l’oggetto di studio «cicli murali cartografici» in modo sistematico, lascia però in 

ombra l’analisi della scelta tipologica della rappresentazione, che ha fruitori diversi a 

seconda dei modi diversi di rappresentare lo spazio. Infatti le motivazioni che muovono 

il committente a orientarsi verso un particolare taglio dimensionale dell’immagine, 

raffigurata con una certa angolazione e affrescata in un determinato ambiente 

dell’edificio possono mutare totalmente da caso a caso. 

La presenza di queste immagini urbane diverrà una costante nei palazzi ove si 

amministra un potere, ed in particolare va rilevata una certa persistenza nei vescovadi, 

laddove l’inerzia dei dettami del Concilio tridentino è più forte e si perpetua 

più a lungo nel tempo. Va ricordato, a questo proposito, che a seguito proprio 

di quel Concilio il vescovo è tenuto a risiedere nella diocesi che gli viene affidata. 

Conseguenza di questo sarà, evidentemente, il potenziamento delle strutture di governo 

locale, ma anche la cura esteriore della sede stessa. Esempio ormai al limite 

cronologico che ci siamo prefissati è Ivrea. Nella sala delle Udienze del palazzo vescovile, 

sotto pesanti ridipinture ottocentesche, è comparso, qualche anno fa, un ciclo 

di affreschi che occupa buona parte delle quattro pareti dell’ambiente 23 . È raffigurata 

la diocesi di Ivrea nella sua estensione totale e, ad una scala maggiore, la cittadina 

eporediese rinserrata fra le sue mura sotto lo sguardo benefico della Vergine. Anche 

qui, lo spazio dominato dipinto e il suo modello reale, poco distante, istituiscono un 

binomio la cui pregnanza cruciale merita ulteriori futuri approfondimenti 24 . 

Come si accennava all’inizio, la ricerca è in corso. E può valere la pena qui accennare 

ad alcune questioni aperte. Ad esempio, se per l’Italia centro settentrionale il 

panorama è ricco di ricorrenze, l’Italia meridionale, fatta eccezione per pochi episodi


tra cui, non a caso, l’Episcopio di Matera, sembra non essere interessata dal fenomeno. 

Tanto al nord come al sud ci si scontra, comunque, con l’inevitabile problema del 

frequente cambio di destinazione d’uso dei locali e la conseguente cancellazione delle 

testimonianze; ma anche, nel caso di edifici oggi privati, con l’impossibilità, spesso, 

di venire a conoscenza dell’esistenza di esempi interessanti 25 . 

Questo per quanto concerne il mero computo delle ricorrenze dei casi di studio; 

ma se si va ad approfondire il fenomeno nelle sue innumerevoli e complesse implicazioni, 

la materia sfugge di mano e il discorso necessita di una puntualizzazione 

di carattere disciplinare. Infatti la storia dell’immagine della città (ancora più della 

storia della cartografia, che comunque ha avuto da tempo un suo riconoscimento 26 ) 

è il crocevia di una serie copiosissima di interessi afferenti a più discipline tradizionalmente 

intese. Lungi dal divenire un semplice serbatoio di conoscenze multiformi, 

questa particolare declinazione della storia urbana sembra porsi invece come nodo 

cruciale che porta a verifica ed esalta i saperi sulla città. Lo studio dell’immagine, della 

sua costruzione, delle strategie di osservazione e di raccolta dei dati, della recezione 

del suo messaggio, del suo utilizzo a fini propagandistici, tutto questo, e altro ancora, 

mette lo studioso in una posizione privilegiata di estrema centralità rispetto ad un 

ampio terreno multidisciplinare. L’obiettivo è di arrivare ad una conoscenza sempre 

più profonda ed esaustiva, perlomeno per il segmento cronologico che ci siamo prefissi, 

l’ancien régime, così della città fisica come anche, e soprattutto, della cultura che 

la fonda e della mentalità degli uomini che, nel tempo, l’hanno costruita e vissuta. 

Maria Beatrice Bettazzi 

1 Con gli opportuni distinguo sono state e saranno prese in esame anche corografie (raffigurazioni 

a scala territoriale) in quanto spesso rispondenti ai medesimi presupposti concettuali, legati cioè alla 

raffigurazione di uno spazio governabile e/o governato. Diverso mi pare il discorso riguardante i mappamondi 

murali che richiamano motivazioni di altra natura. 

2 Il criterio di accogliere solo vedute di intere città assolve ad una duplice funzione, teorica e di 

opportunità. Nel primo caso si ritiene che la completezza dell’immagine urbana si accompagni, nei protagonisti 

della raffigurazione - committente e autori -, ad un intento celebrativo e consapevole del valore 

e della fisionomia della comunità urbana rappresentata attraverso l’apparenza fisica e sensibile della città 

costruita. Inoltre nella ricerca sono accluse le immagini in cui la città riveste il ruolo di protagonista: 

solo di rado essa è stata considerata se posta sullo sfondo, ad esempio, di battaglie o di lavori agricoli. Gli 

«interni urbani», oltre a prestarsi molto di più come semplice fondale per azioni che monopolizzano la 

scena, sono raffigurati in quantità tali da rendere impossibile, oltre che inutile, una loro enumerazione, 

il che conferma l’opportunità di riferirsi alla città presa nella sua interezza. 

3 Accolgo la classificazione tipologica elaborata da Cesare de Seta nel saggio L’iconografia urbana in 

Europa dal XV al XVIII secolo, in Città d’Europa. Iconografia e vedutismo dal XV al XIX secolo, a cura di C. 

de Seta, Napoli, Electa, 1996, p. 17, ripresa da D. STROFFOLINO, I tipi dell’iconografia urbana, in L’immagine 

delle città italiane dal XV al XIX secolo, catalogo della mostra, a cura di C. de Seta, Roma, De Luca, 

1998, pp. 101-118. La precisazione in merito all’opportunità di avvalersi della dizione «pianta prospet-


tica» si deve a Lucia Nuti che la esplicita in L. NUTI, L’immagine della città europea nel Rinascimento, in 

A volo d’uccello, Jacopo de’ Barbari e le rappresentazioni di città nell’Europa del Rinascimento, catalogo della 

mostra, a cura di G. Romanelli, S. Biadene, C. Tonini, Venezia, Arsenale editrice, 1999, pp. 21-27. 

4 Il censimento delle immagini e lo studio del fenomeno è ora oggetto del dottorato che chi scrive sta 

compiendo presso la facoltà di Architettura dell’Università di Napoli Federico II, tutor Cesare de Seta. 

5 Mi sembra che manchino studi con questo taglio, cioè fondati su un’antropologia dello spazio in 

prospettiva storica con al centro i temi legati alla rappresentazione e per un lasso cronologico tra il XV 

e il XIX secolo. La scuola francese ha fornito molti stimoli, ma non ha mai sviscerato il collegamento, 

appunto, fra spazio significativo (perchè posseduto, governato) e la sua rappresentazione. Forse una 

strada la indicano gli studi di Zumthor sul concetto di spazio nel medioevo (La misura del mondo. La 

rappresentazione dello spazio nel medioevo, Bologna, Il Mulino, 1995), come anche il volume a cura di E. 

Castelnuovo e G. Sergi (Arte e storia nel medioevo. Volume Primo, Tempi spazi istituzioni, Torino, Einaudi, 

2002, in particolare i contributi di L. NUTI e C. MARITANO) anch’esso però pertinente il medesimo 

periodo storico. 

6 Al momento è in fase di studio l’applicazione a questo tema degli interessantissimi spunti che mi 

vengono dagli approfondimenti di Giorgio Mangani relativamente ai temi di «un sentimento morale 

dello spazio geografico[...]l’idea di una geografia intesa come teatro della storia» cfr. Il «mondo» di 

Abramo Ortelio. Misticismo, geografia e collezionismo nel Rinascimento dei Paesi Bassi, Modena, Franco 

Cosimo Panini, 1998, p. 64 e il più recente Da icone a emblemi. Cartografia morale delle città (secoli 

XIV-XVI), in Tra oriente e occidente. Città e iconografia dal XV al XIX secolo, a cura di C. de Seta, Napoli, 

Electa, 2004, pp. 10-21. 

7 M.M. DONATO, Il congedo di Ambrogio: dalla terra di Siena all’orbe terraqueo, in Pietro e Ambrogio 

Lorenzetti, a cura di C. Frugoni, Firenze, Le Lettere, 2002, p. 254. 

8 Vale la pena di citare anche l’esempio della città di Padova effigiata nella cappella Belludi in 

Sant’Antonio a Padova (terzo quarto del XIV secolo): frammenti riconoscibili di una città ritratta dal 

vero vengono composti in un insieme ricondotto ad una forma circolare ancora debitrice dei modelli 

moralizzati medievali; cfr. L. NUTI, La città «in una vista», in L’Europa moderna. Cartografia urbana e 

vedutismo, a cura di C. de Seta e D. Stroffolino, Napoli, Electa, 2001, pp. 68 sgg. 

9 Recentemente si è occupata del tema Francesca Fiorani in The Marvel of Maps. Art, Cartography 

and Politics in Renaissance Italy, New Haven and London, Yale University Press, 2005. 

10 Ora stampato nella raccolta La cartografia tra scienza e arte. Carte e cartografi nel Rinascimento 

italiano, Modena, F.C. Panini, 1990, pp. 97-113. 

11 Ibidem. 

12 «E non molto tempo dopo, cioè l’anno 1484, Innocenzo VIII genovese gli fece dipingere alcune 

sale e logge nel palazzo di Belvedere, dove fra l’altre cose, siccome volle esso papa, dipinse una 

loggia tutta di paesi, e vi ritrasse Roma, Milano, Genova, Fiorenza, Vinezia, e Napoli alla maniera de’ 

Fiamminghi, che come cosa insino allora non più usata, piacquero assai» da G. VASARI, Le Vite dei più 

eccellenti pittori scultori e architetti, a cura di J. Recupero, Roma, Editrice Italiana di Cultura, 1963, p. 

429, il brano citato è tratto dalla vita di Bernardino Pinturicchio. 

13 M. IULIANO, Napoli a volo d’uccello. Un affresco per lo studio della topografia aragonese, «Mélanges 

de l’Ecole Française de Rome», CXIII, 2001, pp. 287-311. 

14 M. FOLIN, Il Castello come emblema di potere: architettura e politica alla Corte degli Estensi, in Il Castello 

per la Città, catalogo della mostra, a cura di M. Borella, Milano, Silvana Editoriale, 2004, pp. 65 

sgg. Ringrazio Francesco Ceccarelli per la segnalazione e Marco Folin per la disponibilità e il proficuo 

scambio di idee. I suoi studi sulla corte estense mi hanno permesso di correggere alcune affermazioni 

già espresse in merito all’assenza a Ferrara di una cultura delle immagini come supporto all’ideologia del 

potere che si sarebbe esternato, invece, preferibilmente attraverso canali letterari. 

15 J. SCHULZ, Mappe come metafore, cit., p. 99. È sintomatico come l’illustre studioso citi, però, solo 

questa sala di palazzo Farnese, piuttosto che la più significativa sala d’Ercole. 

16 A quelle più sopra riportate di ambito laziale vanno aggiunti gli apparati, parte effimeri, quindi 

perduti, parte ancora in essere nel cortile di palazzo Vecchio a Firenze, realizzati per le nozze di Francesco 

I Medici con Giovanna d’Austria nel 1564. In questo caso l’attribuzione al tipo «relazionale» o a


quello «autoreferenziale» non è automatica: la logica dei fiorentini è quella di stabilire una relazione con 

l’Austria e le sue terre, ma quei territori sono, al contempo, domini della famiglia di Giovanna che, a 

seguito delle nozze, diventa una Medici. Su questo tema si veda J. SCHULZ, Mappe come metafore, cit., p. 

108. L. NUTI ha presentato una relazione dal titolo Le città di Palazzo Vecchio a Firenze al ciclo di incontri 

Villes et Réprésentations organizzato da École française de Rome e CROMA nei primi di dicembre del 

2003, si veda in proposito il contributo di Lucia Nuti pubblicato in questo stesso volume. 

17 Cfr. L.W. PARTRIDGE, The Sala d’Ercole in the Villa Farnese a Caprarola (Part I), «The Art Bullettin», 

LIII, 1971, pp. 467-486 e ID., The Sala d’Ercole in the Villa Farnese a Caprarola (Part II), Ivi, LIV, 

1972, pp. 50 e sgg. 

18 Di Bologna si è occupato in maniera approfondita e acuta Giovanni Ricci, si vedano: Bologna storia 

di un’immagine, Bologna, Edizioni Alfa, 1976; Città murata e illusione olografica. Bologna e altri luoghi (secoli 

XVI-XVIII), in La città e le mura, a cura di C. De Seta e J. Le Goff, Roma-Bari, Laterza, 1989; fino al 

più recente “Verare la città” (La città e il suo doppio), in L’immagine delle città italiane, cit., pp. 67-71. Sono 

ritornata su molti dei concetti da lui espressi, cercando di approfondirne alcuni aspetti. 

19 Questa vicenda in dettaglio è stata già pubblicata da chi scrive nel contributo dal titolo Imago Bononiae: 

ricerche e deduzioni intorno ad un archetipo perduto, in Tra oriente e occidente. Città e iconografia 

dal XV al XIX secolo, a cura di C. de Seta, Napoli, Electa, 2004, pp. 188-196; nel medesimo volume cfr. 

anche F. FIORANI, La Sala Bologna nell’appartamento di Gregorio XIII, pp. 179-187. 

20 Cfr. G. RICCI, Città murata, cit., pp. 266-290. 

21 Ma anche in sale da pranzo ufficiali o refettori come nel caso del refettorio di San Michele in 

Bosco a Bologna ove compaiono ovali raffiguranti le altre sedi dell’ordine religioso. 

22 I recenti studi di Manuela Ghizzoni dell’Università di Bologna mostrano la compresenza nella 

rappresentazione di almeno cinque scale dimensionali diverse, con cinque punti di vista diversi, per 

adattare la forma urbis all’impianto rettangolare della parete per rendere visibili parti di costruito che 

altrimenti sarebbero state occultate da altre, il tutto concentrato in modo particolare nel quadrante sudovest 

della città, cfr. M. GHIZZONI, L’immagine di Bologna nella veduta vaticana del 1575, in Imago urbis. 

L’immagine della città nella storia d’Italia, Atti del Convegno, a cura di F. Bocchi e R. Smurra, Roma, 

Libreria Editrice Viella, 2003, pp. 139-174. 

23 Attribuito a Luca Rossetti D’Orta (1708-1770), secondo gli studiosi ricalca però un precedente 

modello della fine del XVII secolo, cfr. Il salone degli affreschi nel Palazzo Vescovile d’Ivrea, a cura di P.G. 

Debernardi, Ivrea, Ferrero editore, 1997. 

24 Intanto resta fondamentale il contributo di Giovanni Ricci, in particolare il saggio “Verare la 

città” (La città e il suo doppio), cit. 

25 Ciò porta a non tralasciare nessuna occasione né a sottovalutare alcun tipo di fonte. Devo infatti 

ad un convegno su Leandro Alberti, tenutosi nel 2004 (Università di Bologna, Dipartimento di Discipline 

Storiche, L’Italia dell’Inquisitore. Storia e geografia dell’Italia del ‘500 nella Descrittione di Leandro 

Alberti, Bologna, 27-29 maggio 2004), se sono venuta a conoscenza di un ciclo, forse minore ma non 

per questo meno interessante, ospitato all’interno di palazzo Ferrero della Marmora di Biella. Raffigura 

i feudi della famiglia e risale al 1626 circa, cfr P. BIANCHI, “Descrizioni”, “corone”, “teatri” degli stati 

sabaudi. La rappresentazione del territorio ad usum regni (secoli XVI-XVII), relazione tenuta al convegno 

di cui sopra. 

26 Si vedano in questo senso i capitoli introduttivi del primo volume della History of Cartography 

ed in specifico il paragrafo di J.B. HARLEY, The growth of a Scholarly Identity, in History of Cartography, 

Volume I, Cartography in Prehistoric, Ancient, and Medieval Europe and the Mediterranean, a cura di J.B. 

Harley e D. Woodward, Chicago-London, The University of Chicago Press, 1987, pp. 23-39.


L’ICONOGRAFIA URBANA IN GIAPPONE 

NEI RAKUCHU-RAKUGAIZU DEL PRIMO XVI SECOLO* 

Introduzione 

La rappresentazione della città in Giappone si è venuta sviluppando secondo due 

modalità: una, la veduta urbana, rappresenta in maniera figurativa la vita del popolo 

cittadino; l’altra, la cosiddetta “mappa catastale”, contiene invece dettagliate informazioni 

sul territorio. Ma, se osserviamo queste due tipologie tenendo in mente 

la definizione europea di rappresentazione della città, allora la veduta urbana giapponese 

risulta un semplice dipinto di usi e costumi, mentre la cosiddetta “mappa 

catastale” 1 , che riporta anche dati sulle infrastrutture e sulla comunità degli abitanti, 

viene più propriamente a corrispondere alla mappa topografica. Questo saggio tratterà 

l’argomento della veduta urbana. 

Nella veduta urbana giapponese, non ci si interessava di rappresentare la struttura 

della città nel suo complesso, ma piuttosto si dipingeva mettendo massimo impegno 

nella composizione pittorica. Per raggiungere l’ideale della bellezza nella pittura tradizionale 

giapponese, era normale deformare sia la configurazione che le direzioni 

del punto della bussola. Inoltre, diversamente dalle vedute occidentali, l’enfasi sugli 

edifici di valore politico, ossia su ciò che potremmo chiamare il paesaggio urbano 

politico, non aveva molta importanza. Ben più di questo, nella raffigurazione iconografica 

della città giapponese, gli elementi essenziali da mostrare erano la vivacità 

cittadina, gli scenari di eventi religiosi pubblici, che generavano nell’osservatore la 

percezione della stagione dell’anno nonché il godimento della bellezza della natura 

in quella stagione, la concezione buddista e scintoista dello spazio. Considerando il 

differente carattere dell’iconografia urbana giapponese rispetto a quella europea, in 

questo saggio chiameremo la prima «dipinto urbano», anziché «veduta urbana». 

Il primi dipinti urbani giapponesi sono i rakuchu-rakugaizu, e raffigurano la città 

di Kyoto dal XVI al XVIII secolo. La loro origine risale alla moda di decorare 

paraventi e ventagli con dipinti illustrativi dello stato di benessere economico della 

popolazione. La tecnica della rappresentazione urbana stabilita con i rakuchu-rakugaizu 

è stata ereditata poi, in epoca Edo (1602-1867), da generi come l’ukiyoe 2 e il 

meishozue 3 . Successivamente, con la caduta del governo shogunale dei Tokugawa alla

326 MEGUMI NAKAHASHI 

metà del XIX secolo e con l’avvento della modernizzazione 4 , quello che fino ad allora 

era stato il modo consueto di rappresentazione urbana scomparirà, scalzato dall’entusiasmo 

di molti pittori nei confronti della prospettiva da un unico punto di vista, 

a volo d’uccello. 

L’obiettivo del presente saggio consiste nell’analizzare la struttura dell’iconografia 

urbana giapponese precedente alla fase di modernizzazione. In altri termini, si cercherà 

di identificare quali fossero gli elementi importanti nell’esecuzione di un dipinto urbano 

e di chiarire perché proprio quegli elementi siano diventati tali. Così facendo, verrà 

approfondita la riflessione sulla rappresentazione dello spazio urbano in Giappone. 

Nel primo paragrafo saranno presentati in maniera sintetica i caratteri generali 

dei dipinti rakuchu-rakugaizu, e verrà esaminata la posizione dell’iconografia urbana 

giapponese nella storia, attraverso la comparazione con quella europea. Nel secondo 

paragrafo si descriverà il background, le condizioni precedenti nelle quali è maturata 

la nascita del genere rakuchu-rakugaizu, nell’ambito della più ampia storia della pittura 

giapponese. Nel terzo analizzeremo la composizione pittorica di due rakuchurakugaizu 

(rispettivamente del XV e del XVI secolo), scelti come esempi di questo 

genere che ha fissato i canoni dell’iconografia urbana in Giappone. Nel quarto, infine, 

presenteremo le conclusioni. 

1. Rakuchu-Rakugaizu 

La nascita dell’iconografia urbana in Giappone coincide con la comparsa dei primi 

dipinti rakuchu-rakugaizu nella prima metà del XVI secolo 5 . Questi sono dipinti 

realizzati su paraventi che raffigurano la città di Kyoto con la prospettiva detta a 

volo d’uccello, ovvero dall’alto. Nel complesso esistono circa 110 di questi paraventi 

decorati, opere di svariati artisti. La formazione del loro stile risale alla fine del 

Quattrocento, e la loro produzione è continuata all’incirca per i successivi due secoli, 

sempre incentrata sulla capitale imperiale. Esistono poi anche due dipinti su paravento 

che raffigurano la città di Edo (l’attuale Tokyo), dopo che questa, nel 1603, era 

diventata la sede del governo shogunale. 

Dimensioni 

Il rakuchu-rakugaizu è una raffigurazione pittorica della città di Kyoto distribuita 

su una coppia di paraventi separati. Dal X alla prima metà del XIV secolo, in 

Giappone, la pittura su paravento ha sviluppato uno stile che incorporava scene di 

paesaggio, con cui venivano decorate anche le porte scorrevoli di carta o di legno in 

uso nelle case tradizionali. 

Le dimensioni dei paraventi si accordavano alla planimetria e alle dimensioni 

dell’edificio, in quanto sia i paraventi che le porte scorrevoli e le pareti decorate, 

shoueiga, erano oggetti d’arredamento oltre che elementi architettonici. Ecco perché 

le composizioni paesaggistiche e di vedute urbane occupano spazi rettangolari corri-

L’ICONOGRAFIA URBANA IN GIAPPONE 327 

spondenti grosso modo alla parete di una stanza. Un paravento è costituito in genere 

da una serie di pannelli in numero pari (di solito sei) legati l’uno all’altro, e misura 

circa 150 cm in altezza e 350 cm in larghezza (fig. 1). Il rapporto tra le dimensioni 

del paravento e le proporzioni degli edifici giapponesi ha esercitato un’importante 

influenza sulla rappresentazione urbana della città di Kyoto nel rakuchu-rakugaizu. 

Fig. 1 - Stanza con le porte scorrevoli di carta, manshuin, Kyoto. 

Metodo di rappresentazione 

Nella rappresentazione della capitale Kyoto in un rakuchu-rakugaizu, la città veniva 

divisa da una linea ideale in due parti, ciascuna delle quali da dipingere su uno 

dei due paraventi; tale linea si è spostata nel corso dei quasi due secoli in cui questa 

arte decorativa è stata praticata. 

Il centro politico-amministrativo, che corrispondeva alla zona nord della capitale, 

veniva rappresentato su un paravento, mentre la zona meridionale, centro della vita 

popolare e dei commerci, veniva dipinta sull’altro. Inoltre, se consideriamo il nome 

stesso rakuchu-rakugaizu, la prima parte (rakuchu) sta ad indicare il centro cittadino 

in senso stretto, il nucleo urbano, contrapposto all’area esterna, periferica, a cui si 

riferisce la seconda parte del nome (rakugaizu). Ebbene, di queste due aree, la prima 

veniva rappresentata nella parte inferiore del paravento, così da apparire, in prospettiva, 

più vicina all’osservatore; la seconda, invece, su quella superiore, come scenario,


come se fosse, appunto, più distante rispetto allo spettatore. 

Caratteristica peculiare della città di Kyoto, così come appare raffigurata sulla 

coppia di paraventi, oltre ad elementi naturali (montagne, alberi) e agli edifici, è il 

numero enorme di persone che vi compaiono. Ad esempio, i personaggi ritratti sui 

due paraventi noti come rekihakukohon, considerati il più antico esempio di rakuchurakugaizu 

esistente, ammontano a ben 1.359 individui, mentre, nel caso della coppia 

detta uesugibon, si raggiunge addirittura il numero di 2.485 persone raffigurate (fig. 

2). Quest’ultimo dipinto rappresenta una scena di estrema densità, in cui persone di 

ogni estrazione sociale, coinvolte nelle più svariate attività, si affollano vivacemente 

all’interno dello scenario cittadino. 

Un’altra caratteristica notevole dei rakuchu-rakugaizu è la grande quantità di nuvole 

dipinte 6 (fig. 2). In genere, nuvole e strade sono dipinte in oro e, a seconda del 

pannello, ne accrescono ulteriormente lo splendore. Naturalmente le nuvole sono 

immaginarie, e si pensa che, con la loro opportuna disposizione, si puntasse ad enfatizzare 

alcune parti della scena rispetto ad altre. Forse, però, l’intenzione ultima era 

quella di nascondere eventuali imprecisioni geografiche nella rappresentazione della 

città. Di questo problema si parlerà più approfonditamente nel terzo capitolo. 

Individuazione del punto di vista 

Nei rakuchu-rakugaizu il punto di vista di osservazione è posto al confine settentrionale 

della città, e da lì lo sguardo dello spettatore si rivolge verso sud. La veduta 

che appare ad ovest è detta «paravento destro», e, analogamente, quella che si apre ad 

est si chiama «paravento sinistro». Dal momento che, almeno all’inizio, questi paraventi 

erano esposti solo nelle stanze del palazzo imperiale, che coincideva proprio col 

punto di osservazione a nord della capitale, l’osservazione del dipinto si accordava 

esattamente, anche nella disposizione, al panorama che si scorgeva dalla sede imperiale. 

La tecnica di esecuzione del dipinto consisteva nello spostare parallelamente 

il punto di vista posto nel vuoto e, attraverso una proiezione isometrica, ottenere la 

rappresentazione del paesaggio sul pannello rettangolare. 

Le raffigurazioni dello scenario urbano nell’Italia rinascimentale già si basavano 

sulla tecnica della prospettiva a volo d’uccello da un unico punto di vista, mentre in 

Giappone tale tecnica non è comparsa che alla fine del XIX secolo. Ciò è sicuramente 

da mettere in relazione con la strategia isolazionistica dello shogunato Tokugawa, 

che, in pratica, proibì quasi ogni forma di scambio culturale e commerciale del paese 

con l’estero tra i secoli XVII-XIX. Inoltre, nonostante vedute urbane europee e 

opere di cartografia del mondo venissero duplicate da pittori giapponesi sulla base 

A destra 

Fig. 2 - Una parte del paravento destro di Mannohon 

(rakuchu-rakugaizu), inizio del XVII secolo, Museo Manno.

L’ICONOGRAFIA URBANA IN GIAPPONE 329


di originali importati dai gesuiti, quel genere di rappresentazioni europee non ebbe 

grande diffusione 7 . 

Si potrebbe dire che l’uso della prospettiva monofocale non fosse un criterio 

inevitabile nella rappresentazione in toto di una città, e non solo per motivi 

strettamente tecnici. Dipingendo solo le parti importanti della città, e ponendole 

su uno sfondo costituito dalla natura, da montagne e da templi suburbani, si 

rappresentava il rapporto di convivenza della città con la campagna. Ciò, evidentemente, 

riflette la visione della città da parte di un popolo, quello giapponese, 

di origini agricole. 

2. Origini dello stile rakucyurakugaizu 

Per la formazione dello stile espressivo della scuola pittorica nota come rakuchurakugaizu 

sono da considerarsi fondamentali lo stile detto yamato-e, a pieno titolo 

nel solco della tradizione giapponese, e la rappresentazione degli usi e costumi degli 

emakimono, produzione similare alle descrizioni usate dai cantastorie. Intendo 

aggiungere a questi anche i mandarazu, in particolare i più tardi che si evolsero nei 

Sankeimandarazu, in quanto genere che ha esercitato un’influenza sulle rappresentazioni 

spaziali della rakuchu-rakugaizu. Passo quindi a considerare uno per uno 

questi diversi stili pittorici. 

Yamato-e 

Con il nome di yamato-e si definisce uno stile di dipinti che descrive le «cose» del 

Giappone; lo si intuisce dal nome stesso in quanto yamato è, come noto, il nome del 

Giappone nell’antichità. Tale corrente viene a distinguersi dalla cinese karae che invece 

descrive le «cose» della Cina dei T’ang (618-907), scuola da cui trae di certo ispirazione, 

conosciuta nell’arcipelago nel periodo heian (794-1192). Lo stile yamato-e viene a 

definirsi quale stile pittorico dai forti accenti popolari, ricco di un sentire tipico giapponese, 

trasformando in modo radicale lo stile cinese. Nel medio periodo heian si usava 

dipingere su paraventi le immagini racchiuse nei componimenti poetici (waka) e nella 

stessa epoca si usava comporre poesie ispirate dalle immagini dei paraventi. Quindi la 

yamato-e va a svilupparsi su una forma che lega la letteratura con la pittura, basata cioè 

sulla loro interazione. Temi elettivi di questa scuola erano motivi quali il sole, la luna, le 

montagne, i fiumi, così come altri elementi della natura, la flora delle quattro stagioni, 

gli uccelli e persino gli insetti (fig. 3). Dal XVI secolo viene dipinta su superfici più ampie 

e nasce in quest’epoca lo stile caratterizzato dalla forma di paraventi contrapposti. 

Se si prende in considerazione la produzione yamato-e divengono chiari alcuni dubbi 

sulla paesaggistica urbana della rakuchu-rakugaizu. Infatti nella yamato-e come dipinta 

dal periodo heian, sullo sfondo si susseguono montagne, dallo sfondo stesso si protendono 

verso l’osservatore nuvole, alberi, fiumi, il tutto a formare scene indipendenti, ed 

è questa una forma di composizione ereditata anche dal genere rakuchu-rakugaizu. Qui


Fig. 3 - La scena ugiri, genjimonogatari emaki, XII secolo, Tokyo, Goto Museum. 

vorrei porre l’attenzione sulle nuvole d’oro. Infatti le troviamo anche nella yamato-e ma 

nel genere in esame crescono in proporzione e finiscono con il ricoprire anche grandi 

parti del quadro. È chiaro che il Giappone non è un paese cosi nebbioso o nuvoloso 

come riportato in questi dipinti. Il perché la rakuchu-rakugaizu abbia la necessità di 

nascondere le città utilizzando così tante nuvole sarà argomento del terzo capitolo. 

Emaki 

Un’altra corrente di pittura che ha avuto notevoli effetti sulla formazione della 

rakuchu-rakugaizu è, come accennato, l’emaki. Si definisce con il nome di emaki un 

genere che usa per il dipinto, in luogo della classica tela piana, rotoli che svolgendosi 

permettono di visionare più «schermi» in successione. Questo genere in origine ricevette 

impulso da un analogo stile cinese, che portò fra il X ed il XII secolo alla nascita 

in Giappone dell’arte dei rotoli dotata di una sua caratteristica capacità compositiva. 

Le opere più note e rappresentative di questo genere sono l’ippenhijirie 8 ed il genjimonogatari 

9 (figg. 4 e 5). La gran parte dei racconti narrati da questa pittura su rotoli è 

relativa alla vita di corte, complotti politici e guerre, vite di personaggi dediti alle pratiche 

ascetiche ed all’austerità religiosa ed altri similari. Qui ogni scena è accompagnata 

da una ricca ed abbondante natura e caratterizzata dal passare delle stagioni. Ogni 

scena vi è descritta in modo straordinariamente dettagliato ed anche i personaggi che 

vi appaiono possiedono la caratteristica di esser “vivi”, al punto che sembrano quasi


Fig. 4 - La parte sinistra di Shikikabokuzu byobu (paravento con le quattro stagioni, fiori e 

alberi), XV-XVI secolo, Tokyo, Museo Idemitsu. 

poter iniziare a muoversi come fossero personaggi di un “manga” moderno. Elementi 

questi che costituiscono una tradizione che sia la rakuchu-rakugaizu che le successive 

scuole, paesaggistiche e non solo, continueranno. I personaggi e i luoghi descritti su 

questi rotoli divengono senza alcun dubbio elemento centrale dei paesaggi urbani e 

delle usanze descritte, ma il punto cui bisogna prestare maggior attenzione è il fatto che 

questi dipinti descrivono nella forma di rappresentazione pittorica quelli che oggi chiameremmo 

racconti di fiction. Infatti se osserviamo con attenzione i personaggi che vi 

compaiono, più che semplici passanti che si trovano in uno spazio urbano, ci sembrano 

appartenenti ad un dramma, come nelle scene dei film.


Sankeimandarazu 

Il termine mandarazu, da un punto di vista linguistico, proviene dall’antica lingua 

indiana, il sanscrito, e significa alla lettera: «spazio sacro». L’arte dei mandarazu 

come diffusasi in Giappone dal VI secolo, dopo aver attraversato Tibet e Cina 

partendo dall’India, da semplici immagini del Budda in breve si arricchisce fino a 

comprendere descrizioni eseguite con la tecnica della prospettiva a volo d’uccello dei 

luoghi in cui si considerano localizzate le divinità nei templi scintoisti (è bene ricordare 

che lo scintoismo può considerare manifestazioni divine elementi della natura 

quali una cascata, un albero o persino un semplice masso di forma particolare) e bud-


disti. Questo genere di descrizione a volo d’uccello di complessi religiosi è chiamato 

sankeimandarazu (mandarazu per pellegrini), e conosce una grande diffusione dal 

periodo Muromachi (1392-1573) fino al periodo Edo (1603-1868) (fig. 6). 

La diffusione dei sankeimandarazu, a partire dal momento in cui in aggiunta 

all’aspetto religioso del pellegrinaggio si affianca un significato ricreativo, procede 

in parallelo con la secolarizzazione del buddismo. In effetti, a dispetto di quanto 

ci si potrebbe aspettare da un genere con tale nome, esso trascura la raffigurazione 

del budda e delle altre divinità per descrivere i luoghi sacri dei templi affollati 

di pellegrini. Ma si distingue da una semplice rappresentazione dei templi o dello 

spazio esterno che li circonda, né tantomeno descrive le sale che lo compongono, 

concentrandosi fortemente su quei luoghi che considera da visitare se ci si reca in 

pellegrinaggio presso un dato tempio dello shinto o del buddismo, riconosciuti in ge- 

Fig. 5 - Houganeni, 

Ippenhijirie, XIII secolo, 

Museo nazionale di Tokyo. 

A destra 

Fig. 6 - Genshin, Fuji sankeimandarazu, XVI 

secolo, Shizuoka, Tempio Fujisan Honmiya 

Asamataisha.

L’ICONOGRAFIA URBANA IN GIAPPONE 335


nere come oggetto di culto. È per questo che spesso troviamo differenze notevoli fra 

quanto dipinto e la veduta originale 10 . In altre parole il mandarazu non vuole essere 

rappresentazione realistica del paesaggio. Ancora, il mandarazu non è un quadro da 

apprezzare individualmente all’interno di una stanza, ma in molti casi lo si utilizzava 

per spiegazioni religiose ad uomini e donne pie che anelavano al pellegrinaggio, e 

perciò lo stile era prettamente popolare e finiva con l’occupare la gran parte di tele 

di notevoli dimensioni che superavano tanto in altezza quanto in larghezza il metro e 

mezzo. Infine, per il fatto che lo sfondo veniva interamente ricoperto di colore, tutti 

i personaggi si trovavano ad esser spinti verso l’esterno, ma essendo comunque limitato 

il senso della profondità spaziale, gli autori tentavano di integrarla descrivendo 

con linee zigzaganti elementi quali nuvole, nebbia, la strada d’accesso al tempio, 

fiumi ed in particolar modo ponti e scale. 

Dal villaggio rurale alla città 

Si può affermare che la scuola rakuchu-rakugaizu mentre ereditava da vari stili le 

tecniche di rappresentazione della natura, di fiction e di scene religiose, costituisce 

anche un tentativo nuovo di rappresentazione grafica della vita e dell’ambiente urbano 

quotidiano e dell’edilizia commerciale. Tuttavia si può dire che descrive in modo 

allegorico ed alquanto ideale l’immagine e le beltà urbane del Giappone 11 . I paesaggi 

urbani dell’Europa coeva ponevano l’accento sul mostrare com’erano costruite le 

città traendo vantaggio dalla conformazione del terreno e dalla natura, preservando 

l’ambiente naturale. Rispetto a questo modello si può affermare che nella rakuchurakugaizu 

del primo periodo gli edifici urbani costituiscono un elemento affatto secondario. 

Gli abitanti della Kyoto descritta da questa scuola appaiono pari ai protagonisti 

degli emaki. Contemporaneamente al delinearsi della relazione fra periferie 

(rakugai) e città, i monti sacri, per tutti valga il monte Hiei, sono posti sullo sfondo 

e legati saldamente al centro della città di Kyoto (rakuchu) con nuvole e fiumi. Viene 

da pensare che il «motivo» che ha fatto inserire in questo schema gli spazi urbani sia 

stato l’aspettativa dello svilupparsi in vere e proprie città dei piccoli centri rurali. 

3. Rappresentazione della morfologia urbana 

Tenendo in considerazione la composizione della pittura tradizionale giapponese, 

discussa nel capitolo precedente, passiamo ad analizzare concretamente il rapporto 

tra gli elementi urbani rappresentati e la loro posizione nella mappa reale. Nella 

rappresentazione dello spazio urbano fino a che punto i criteri della composizione 

pittorica tradizionale erano tenuti in considerazione? Perché diventava necessario deformare 

l’aspetto della città? Per affrontare tali questioni, partiamo da un confronto 

di due dei primi rakuchu-rakugaizu che fissarono i canoni di questa categoria di 

dipinti: il rekihakukohon e il uesughihon.


No. Nome usuale Periodo rappresentato Numero di persone raffigurate 

1 Rekihakukohon 1469~1487 1359 

2 Uesugihon 1532~1555 2485 

Rekihakukohon 

Il rekihakukohon è storicamente il più antico dei rakuchu-rakugaizu ancora esistenti 

(fig. 7). 

Ho eseguito il mapping degli edifici e dei luoghi dipinti su ciascuno dei due paraventi 

costituiti da sei pannelli legati fra loro e ne sono emersi alcuni punti di interesse. 

Caratteristica del paravento destro è che, partendo da un punto, raffigura 

la veduta nord-ovest della capitale in forma radiale. Invece, il paravento sinistro, è 

incentrato sulla zona meridionale della città, e, avvicinando parallelamente il punto 

di vista dal sud verso la zona centrale, allarga la veduta ad oriente. Tale spostamento 

del punto di vista, che equivale ad una proiezione isometrica, è senz’altro un’eredità 

della tradizione pittorica dello yamato-e e degli emaki. H. Ishida 12 ha già indicato 

Fig. 7 - Due paraventi di rekihakukohon (rakuchu-rakugaizu), 

Osaka, National Museum of Ethnology.


questa differenza nella tecnica compositiva tra il paravento sinistro e quello destro: 

egli pensa che il paravento sinistro sia stato dipinto dalla cima di una pagoda a sette 

piani presso il tempio Shokoku-ji. Il paravento sinistro raffigura la zona popolare sud 

di Kyoto, include fiumi e fossati in abbondanza, e ritrae un numero di personaggi 

molto più elevato rispetto al paravento destro. 

Un’altra peculiarità del rekihakukohon è costituita dalle etichette a strisce che recano 

scritti i nomi dei luoghi della nobiltà (residenze nobiliari, templi, palestre, bagni 

pubblici ed altro). Tra i rakuchu-rakugaizu a tutt’oggi esistenti, queste didascalie si 

trovano soltanto su due dipinti del primo periodo. 

Come si vede nella fig. 8, le parti della veduta rappresentate su ciascuno dei sei 

pannelli di ogni paravento, corrispondono ad aree della città delimitate da linee piuttosto 

zigzaganti. Molto probabilmente, ciascun luogo è stato dipinto in posizione un 

po’ spostata rispetto a quella reale, così da ottenere delle proporzioni rispettose della 

tradizione pittorica. La soluzione delle etichette che indicano i nomi dei posti è stata 

adottata per evitare la possibile confusione di edifici derivante dalla deformazione 

geografica di cui abbiamo parlato. 

Ancora, le nuvole sono collocate soprattutto in alto, a fare da sfondo alle montagne, 

piuttosto che nella parte inferiore, occupata dall’area cittadina. Anche questo 

Fig. 8 - Mapping 

rekihakukohon sulla 

pianta di Kyoto. 

Rekihakukohon (1469~1487)


elemento si può pensare che sia un’eredità della tecnica dello yamato-e, ma, più di 

ogni altra cosa, possiamo dire che, piazzando le nuvole nella maniera opportuna, si 

potevano dipingere solo i luoghi cui si voleva dare rilievo, e nascondere gli altri sotto 

una coltre di nubi. 

Uesughihon 

La linea che divide le vedute dei due paraventi va da nord-est a sud-ovest, e viene 

quasi a coincidere con la corrispondente linea del rekihakukohon (fig. 9). Entrambi 

i paraventi dello uesugihon includono un’area maggiore dei dintorni di Kyoto (rakugai), 

in modo da ritrarre la superficie della capitale in maniera esaustiva. 

Rispetto al rekihakukohon, il uesugihon è stato dipinto circa 65 anni più tardi. Durante 

il periodo in questione, che va dalla fine del XV alla prima metà del XVI secolo, 

la città di Kyoto, che aveva ereditato la struttura regolare «a blocchi» dal precedente 

periodo medievale, visse una fase di ulteriore sviluppo economico ed urbanistico. In 

particolare, la zona periferica (rakugai) dei templi di Higashiyama, a sud-est della città, 

divenne un celebre luogo di visita per molta parte della popolazione, non solo per 

motivi religiosi, ma anche per semplice svago (fig. 10). Con l’aumento dell’interesse 

per queste zone decentrate, anche l’area dei paraventi dedicata alla loro raffigurazione 

Fig. 9 - Mapping 

uesughihon sulla pianta di 

Kyoto. 

Uesughihon (1532~1555)

340 

Fig. 10 - Eitoku Karino, 

la veduta di uesghihon 

(rakuchu-rakugaizu), XVI 

secolo, Yamagata, Comune di 

Yonezawa.


aumentava proporzionalmente. L’emergere di luoghi di visita celebri come quello e, 

in generale, l’accrescersi della vitalità della popolazione sono testimoniati proprio 

dalla presenza, nel dipinto, di ben 2.485 singoli personaggi. 

La tecnica di rappresentazione è la stessa impiegata in altri rakuchu-rakugaizu, e 

consiste nello spostamento del punto di vista da nord-ovest a sud-est attraverso una 

proiezione isometrica. Caratteristica dello uesugihon è il fatto che, al fi ne di coprire la 

città in quasi tutta la sua estensione, il primo e l’ultimo pannello di entrambi i paraventi 

sono stati riempiti con vaste aree periferiche notevolmente rimpicciolite rispetto 

all’ampiezza che avrebbero dovuto occupare. Per quanto riguarda l’impiego delle 

nuvole, rispetto alla dislocazione alquanto casuale che si riscontra nel rekihakukohon, 

e che risale allo yamato-e, qui notiamo una distribuzione ben più equilibrata lungo 

tutto il paravento. 

4. Conclusione 

Dal momento che le prime rappresentazioni dell’iconografi a urbana giapponese 

hanno caratteri assolutamente distanti dalle vedute urbane europee, ho iniziato 

questo lavoro focalizzando l’attenzione sulla natura di tale diversità. Sebbene i 

committenti dei rakuchu-rakugaizu, i primi dipinti urbani giapponesi, fossero gli 

shogun o le famiglie aristocratiche, queste vedute non mostravano alcuna istanza di 

natura politica. Ciò che veniva apprezzato ed ammirato in un rakuchu-rakugaizu era 

soprattutto la vivacità della vita urbana, insieme alla capacità di esprimere la visione 

religiosa e della natura propria del popolo giapponese (fi g. 11). Non solo elementi 

positivi, come i prodotti provenienti dai dintorni, i negozi, e il movimento di persone 

che vi si accompagnava, ma anche quegli aspetti generati dall’urbanizzazione che 

normalmente andrebbero visti come conseguenze negative, come l’accattonaggio o 

Fig. 11 - Storia 

dell’iconografi a urbana 

in Giappone.


le case di piacere, tutto ciò, in quanto prodotto dello sviluppo della città, veniva 

ritratto maestosamente. 

Anche nelle vedute urbane europee l’aspetto della vivacità urbana non mancava, 

ma veniva dato rilievo maggiore alla struttura morfologica della città. Le costruzioni 

e gli edifici realizzati con progetti che seguivano criteri di coerenza urbanistica venivano 

enfatizzati in quanto motivo di orgoglio per la popolazione. 

Kyoto è stata fondata prendendo a modello l’antica capitale cinese di Ch’ang An, 

e perciò ne riproduce la struttura regolare in cui le strade si intersecano a 90 gradi. 

Kyoto, però, nonostante sia stata ideata e realizzata con un progetto di città unitario, 

nei dipinti urbani veniva raffigurata divisa in due. La linea che divide la città 

nei due paraventi, passa per il punto dove si trovava l’edificio sede dello Shogun. Il 

motivo per cui la linea risulta ruotata di 45 gradi rispetto all’asse sud-nord, più che 

nella volontà di raffigurare le parti orientale ed occidentale della città nella direzione 

corretta, guardando dalla sede dello Shogun, sta nella devozione e nel rispetto riposti 

nella tradizione compositiva dello yamato-e e degli emaki. Tale caratteristica, come si 

è gia osservato nel terzo capitolo, si può riconoscere anche nelle discrepanze geografiche 

tra i luoghi e gli spazi nei dipinti e le loro posizioni reali. Queste incongruenze 

topografico-geografiche erano risolte mediante la scelta opportuna di quantità e disposizione 

delle nuvole. Nel dipingere rakuchu (il nucleo urbano) e rakugai (le aree 

periferiche) sui paraventi, ci si concentrava sulla stretta correlazione tra il centro 

cittadino e i grandi complessi religiosi immersi nella natura. Nella storia della città 

giapponese, il processo di crescita da villaggio rurale a metropoli vera e propria ha 

continuato ad avanzare senza mai interrompere il rapporto di continuità tra natura 

e insediamento umano. 

Possiamo quindi concludere che tanto i modi espressivi quanto la composizione 

paesaggistica dei dipinti rakuchu-rakugaizu stanno a simboleggiare proprio la modalità 

di sviluppo della città giapponese. Modalità, del resto, propriamente sintetizzata 

dal nome stesso di questo genere pittorico: centro (rakuchu) e dintorni (rakugai). 

Megumi Nakahashi 

* Traduzione a cura di Osvaldo Mercuri e Mario Vuotto. 

1 Esistono almeno 1.200 tipi di piante topografiche durante il periodo di Edo. Soprattutto dopo il 

XVII sec. Edo ha iniziato a produrre una grande quantità di piante. È stato ipotizzato che questa produzione 

servisse soprattutto a ordinare il rapporto tra politica e territorio, per l’esigenza di rappresentare 

lo spazio con dei codici. Si veda M.E. BERRY, History of Cartography and Ezu, Tokyo, Tokyo University 

Publishing, 2001, pp. 148-151. 

2 Un grandioso fenomeno artistico e culturale si era formato dalla compressione politico-sociale a 

cui le nuove fasce della società erano state costrette con tale anomala convivenza. Nuove passioni, represse 

per secoli, prorompevano travolgendo gli antichi valori e realizzando una nuova visione estetica,


quella dell’ukiyo, G.C. CALZA, Visione del mondo fluttuante, in Catalogo UKIYOE-il mondo fluttuante, 

Milano, Electa, 2004, p. 22. 

3 Shuza (sede principale) era il nord di Kyoto, dove attualmente c’è un tempio che si chiama Shokoku-ji. 

4 In modo particolare per il caso del Giappone, storici e sociologi hanno voluto ricercare le premesse 

della vertiginosa metamorfosi del paese nel periodo anteriore alla sua apertura al mondo occidentale che 

caratterizzò l’epoca delle grandi riforme iniziatasi con la restaurazione dell’imperatore Meiji nel 1867. 

G.C. CALZA, Vedute celebri di Tokyo. Estetica e società moderne nel Giappone del ‘700, Milano, Editore 

all’insegna del pesce d’oro, 1977, p. 11. 

5 Il rakuchu-rakugaizu è un genere pittorico in cui veniva raffigurata una veduta di Kyoto, così come 

appariva durante i secoli XVI-XVII. Esistono circa 80 rakuchu-rakugaizu dipinti da diversi pittori, raffiguranti 

Kyoto su due paraventi. Il prototipo di rakuchu-rakugaizu è un dipinto sugli usi e i costumi. 

6 Secondo Midori Sano, a partire dal XVI secolo, parallelamente all’ampliarsi della superficie degli 

yamato-e, anche le decorazioni in lamine d’oro sono aumentate. Queste lamine dorate erano impiegate 

per la raffigurazione delle nuvole: MIDORI SANO, Chusei Yamatoebyobu no kinginkashoku wo megutte 

(decorazione d’oro per paraventi medievali yamato-e), in Sesshu to yamatoebyobu, Tokyo, Kodansha, 

1993, pp. 180-188. 

7 Opere rappresentative sono i Shitozu-Sekaizu Byobu (XVI sec., Museo civico di Kobe). Si tratta 

di paraventi dipinti che raffigurano le quattro città di Costantinopoli, Roma, Siviglia, Lisbona, e il 

planisfero. 

8 Ippen entra in Kyoto nel 1284. Il disegno racconta la storia della vita e del peregrinaggio di Ippen 

insieme con il paesaggio urbano di Kyoto. L’opera è classificata tra i tesori d’arte nazionali. Museo 

nazionale di Tokyo. 

9 Primo grande romanzo giapponese, scritto attorno all’anno 1000 dalla dama di corte Murasaki 

Shikibu e considerato il massimo capolavoro della letteratura giapponese. Racconta la vita e gli amori 

del «Principe Splendente» Genji (della famiglia Minamoto), offrendo nel contempo una viva descrizione 

della vita nella corte imperiale della Heian dell’epoca. 

10 

YORITOMI MOTOHIRO, Mandara no kanshochishiki (Guida per l’apprezzamento dei mandala), Tokyo, 

Shibundo, 1991, pp. 228-229. 

11 Rakuchu-rakugaizu e Edozu byobu sono due raffigurazioni pittoriche, che esprimono le minime 

condizioni necessarie (immagine mentale della città per un certo scopo) per rappresentare un paesaggio. 

Sono vedute composte e di Kyoto e Edo, fantasiose, di scene di vita, nello stile dell’epoca, in J. HATANO, 

Studi per la ricostruzione dello spazio urbano in “Edozu byobu” no. 1, in catalogo «Annuario di Housing 

research foundation», 22, Tokyo, Housing Research Foundation, 1995. 

12. H. ISHIDA, Rakuchurakugaizu no haigo ni arumono (Il segreto di rakuchu-rakugaizu), vol. 208, 

Tokyo, Gekkanhyakka, 1980.

Il volume analizza i caratteri tecnici e organizzativi del cantiere romano tra XVI e XVIII secolo, desunti dalla composizione 

di un quadro ideale che prende forma dala collazione di informazioni tratte da fabbriche diversificate per 

caratteristiche e tipologia. Lo studio, nel ripercorrere il graduale perfezionamento dell’organizzazione del lavoro, 

autentico motore del cantiere barocco, traccia le linee evolutive delle tecniche e della tecnologia edilizia, mettendo in 

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LE CITTÀ DI PALAZZO VECCHIO A FIRENZE 

I grandi lavori di adeguamento del palazzo di Piazza a reggia iniziarono nel gennaio 

1555, non appena Cosimo I de Medici ebbe concluso felicemente la guerra di 

Siena 1 . Nel maggio dello stesso anno, alla morte di Battista del Tasso, il cantiere fu 

affidato interamente a Giorgio Vasari, che lo condusse sia lavorandovi personalmente, 

sia attraverso la direzione di un’equipe non fissa di collaboratori. 

Dopo gli interventi architettonici, necessari per accomodare alle nuove esigenze 

«quelle stanzacce torte di sotto e di sopra che ci erano» 2 , fu compito della pittura continuare 

l’opera di trasformazione del vecchio palazzo repubblicano in un prestigioso 

involucro per la celebrazione di Cosimo e la legittimazione della dinastia 3 . 

Per questo scopo Cosimo affiancò a Vasari eruditi come Cosimo Bartoli 4 o 

Vincenzo Borghini 5 , capaci di individuare le basi dottrinali di quest’operazione e di 

produrre sofisticate invenzioni. Al «prudentissimo e sapientissimo giudizio» del duca 

spettava naturalmente «ed aggiungere e levare ovvero mutare» tutto quello che non 

corrispondeva al suo gusto 6 . 

Il primo disegno per il soffitto della Sala grande (salone dei Cinquecento) ad 

esempio non piacque a Cosimo. L’invenzione iniziale era imperniata sulla celebrazione 

della gloria di Firenze, ed in essa si dava molto spazio alle istituzioni repubblicane, 

con la rappresentazione di arti e quartieri con i loro gonfaloni culminanti nella glorificazione 

della città nel tondo centrale. Forse Vasari aveva in mente il trecentesco 

cielo politico di Firenze affrescato nel palazzo dell’arte dei Giudici, dove i simboli dei 

diversi protagonisti, arti, santi patroni, quartieri, comune, parte guelfa e popolo, si 

coordinavano armonicamente in cerchi concentrici 7 . Cosimo chiedeva invece che «si 

vedesse tutti li Stati Nostri insieme, a denotare l’ampliatione e l’acquisto» 8 , e quindi 

invitava l’artista a puntare sull’immagine geografica della conquista, le battaglie nei 

luoghi dove si erano svolte. Dopo una lunga rielaborazione dello schema complessivo, 

«Fiorenza in gloria», ridotta a figura allegorica che offriva la corona al sovrano, 

cedette il posto nel tondo centrale a Cosimo trionfante, unico elemento unificatore 

delle vecchie istituzioni e dello stato nuovo 9 .

346 LUCIA NUTI 

Le città degli appartamenti ducali e della Sala grande 

Nella visualizzazione delle imprese della dinastia medicea e della costruzione del 

dominio, conquista dopo conquista, le città hanno una parte importantissima. 

La Toscana è per definizione una terra di città e gli affreschi ne sono costellati, con 

la massima concentrazione nel salone dei Cinquecento, nella sala di Clemente VII, 

ma soprattutto nella sala di Cosimo I. Qui il duca appare in alcuni episodi salienti 

della sua vita ed è attorniato dalle personificazioni delle sue virtù, dai suoi familiari, 

dalle sue città e dalle sue fortezze, secondo una concezione che vede nello Stato un 

patrimonio personale, quasi una famiglia allargata del duca. 

All’interno dei riquadri le città possono apparire sia come soggetto secondario che 

principale. Nel primo caso l’immagine urbana, anche se spesso delineata in grandi 

dimensioni e con ricchezza di particolari, non è autonoma, ma subordinata al racconto 

di una storia di fondazione, di battaglia, di trionfo. Due tipi di composizioni 

molto diverse, allegorie e ritratti puri, la vedono invece come soggetto principale. 

Otto allegorie furono dipinte negli ottangoli della sala di Cosimo, mentre una 

sola era stata prevista nel programma iniziale di Cosimo Bartoli, e forse proprio il 

loro successo fece sì che il tema fosse riproposto nel soffitto della Sala grande. Dodici 

riquadri per quindici città, di cui tre, Arezzo, Volterra e Prato, ritornano dal primo 

ciclo 10 . La soluzione compositiva è leggermente diversa, ma gli elementi della composizione 

sono gli stessi: il nome, lo stemma, il ritratto e la figura allegorica, la cui 

invenzione è aderente al programma celebrativo globale. 

Le allegorie sono un vero e proprio luogo mnemonico, un deposito di informazioni 

incrociate, destinate ad essere continuamente rimesse in circolazione negli 

apparati effimeri, nelle sfilate dei cortei, e nelle singole città, dove spesso si concretizzano 

in episodi di decorazione e di arredo urbano. Pisa ad esempio è così descritta 

da Vasari: 

quella femmina ginocchioni […] di fattezze belle, ed in capo ha un elmo all’antica, ed in cima vi 

è una volpe, ed a basso ha lo scudo dentrovi la croce bianca in campo rosso, che è insegna pisana, 

ed in mano ha un corno di dovizia, che Sua Eccellenza gne ne fiorisce, per aver acconcio e secco 

le paludi di quella città, le quali cagionavano un’aria pestifera, ed insiememente piglia le leggi dal 

duca, e con l’altra mano abbraccia un vecchio con l’ale in capo, finto per lo Studio di quella città, ed 

ha lo zodiaco attraverso al torso, tiene libri in mano, e dreto vi è un tritone, che suona una cemba 

marina, finto per le cose del mare, e così mostra gratitudine a Sua Eccellenza 11 . 

Il prosciugamento dei paduli e la ritrovata prosperità dopo un secolo di completa 

prostrazione divennero punti di forza nell’agiografia di Cosimo in Pisa e assunsero 

forme femminili in una statua, personificazione della Dovizia. Scolpita da Pierino da 

Vinci, verso il 1550 la statua fu posta alla sommità della colonna a marcare il centro 

della piazza de’ Cavoli, uno spazio di mercato adiacente alla sponda del fiume, regolarizzato 

per volere del sovrano in forma di un vano quadrangolare, con portici su un 

lato e botteghe intorno 12 .

LE CITTÀ DI PALAZZO VECCHIO A FIRENZE 347 

Soggetto autonomo la città lo è anche nei medaglioni ovali nella sala di Cosimo. 

Sono otto in tutto, gli «otto luoghi più principali fortificati» 13 , i gioielli del principe: 

Empoli, Lucignano, Montecarlo, Scarperia, Firenze, Siena, Piombino e Livorno. 

Per capire il risalto dato alle fortezze bisogna pensare all’importanza che l’architettura 

militare aveva assunto nel corso del Cinquecento, alimentata dal continuo 

fermento di azioni belliche. In questo clima si era innescato un processo di identificazione 

tra potenza del principe e qualità delle difese, in virtù del quale la fortezza, «la 

più nobil gioia del Principe» secondo Cesare Ripa 14 , sarebbe diventata un attributo 

qualificante nei ritratti di sovrani. In particolare in casa Medici si stabilisce una tradizione 

iconografica, continuata nel corso del Seicento, basata su un’associazione più 

sofisticata: non la fortezza, ma la sua forma disegnata. Giancarlo, figlio di Cosimo 

II, raffigurato da Justus Sustermann nel 1622 all’età di dieci anni, condivide la scena 

con il libro più aggiornato in materia, Le fortificazioni di Buonaiuto Lorini, anch’esso 

ritratto in modo da essere ben riconoscibile sul tavolo, aperto alla pagina che mostra 

la pianta di una fortezza 15 . 

Le città affrescate nelle stanze del Palazzo, eccetto pochi casi (Milano, Ravenna, 

San Leo, Roma, e un’anonima città dell’Ungheria), sono satelliti di un unico universo 

politico che trova i suoi confini nel Granducato e ruota attorno alla figura di Cosimo. 

Centri medi e piccoli nella maggior parte dei casi apparivano sulla scena per la prima 

volta e i loro ritratti non potevano quindi essere trasferiti negli affreschi da modelli 

esistenti, ma dovevano essere disegnati ex novo. E difatti così fu, come documentano 

precise note di pagamento che registrano giornate, nomi, anche mezzi di trasporto. 

Michele Tosini di Ridolfo del Ghirlandaio viene pagato il 21 agosto del 1557 «per essere 

ito fuori d’ordine di Giorgio a fare disegni di vari siti e luoghi». Gli viene rimborsato 

il trasporto e le spese sostenute per essere stato fuori «a levar piante di Montecarlo, 

Pistoia e altri luoghi» 16 . Alessandro di Vincenzo [Fei detto del Barbiere], pittore, viene 

saldato in due volte, il 24 e il 29 febbraio del 1564, per complessive ventitré giornate 

«per andare a ritrarre Cortona, S. Giovanni, Figline, el Borgo, Anghiari, S. Gimignano, 

Certaldo e Colle per servirsene Giorgio Vasari per l’opera della Sala Grande» e «per 

andare a navicello e cavallo addisegnare Livorno, Pisa, Cascina, Vichopisano, Santo 

Miniato al Todescho per servirsene nelle storie del palcho» 17 . Battista Naldini è inviato 

a disegnare la zona di Stampace a Pisa, Livorno, e la torre di San Vincenzo a Campiglia 

con esperti dei luoghi che gli fanno da guida 18 . 

Gli schizzi o disegni dal vero arrivavano al cantiere di Palazzo vecchio, dove altri 

artisti li traducevano in affreschi, come sembra dal fatto che negli studi preparatori 

rimasti non c’è traccia di un’elaborazione intermedia. Alcuni disegni furono riutilizzati 

anche più di una volta, come quelli di Volterra, Arezzo e Prato, restituiti con 

leggere variazioni nella resa di alcuni elementi, campanili, torri e tratti di mura 19 . 

Per altre città, come Pisa o Livorno, accadde il contrario: per esigenze particolari del 

racconto furono ritratte più volte da disegnatori diversi, e da diversi punti di vista 20 .


Se l’osservazione diretta è stata il punto di partenza per realizzare tutte le immagini, 

varie sono le tipologie di rappresentazione scelte. 

Un chiaro riscontro viene proprio dalle parole dello stesso Vasari, che nei 

Ragionamenti utilizza diverse espressioni per descrivere le città affrescate. Il termine 

cui fa più di frequente riferimento con varie modulazioni, ma con una costante valenza 

positiva, è «naturale». Lo applica, oltre che a luoghi e città, anche ai volti degli 

uomini, artisti o personaggi di corte, conosciuti e ben riconoscibili dai contemporanei: 

«ritratto al naturale», «di naturale», «per via di veduta naturale». Per Firenze, 

più volte raffigurata, l’espressione può anche essere completata con l’indicazione del 

punto di vista: «dalla banda dei monti», «per la veduta di Monte Oliveto», «dalla 

veduta di S. Piero Gattolini». 

Se si confronta la definizione con le immagini delle corrispondenti città affrescate, 

appare evidente che Vasari si riferisce a ritratti disegnati «a occhiate», da un punto di 

vista molto distante, e inseriti in quadri di ampia apertura spaziale, con larghi squarci 

di paesaggio, descritto minuziosamente nei particolari: in breve una «maniera» che 

veniva indicata come «fiamminga». Fu scelta meditata o opportunità del momento? 

Non è infatti irrilevante la presenza al cantiere del palazzo di un artista fiammingo. 

Giovanni Stradano 21 , che già lavorava nell’arazzeria medicea dal 1557 ed aveva assunto 

da allora un sempre maggiore rilievo, fino a formare con Battista Naldini e 

Iacopo Zucchi una terna di collaboratori indispensabili. Così Vasari si esprime nei 

loro confronti: «i quali sono giovani nella professione molto intendenti, e mi hanno 

aiutato a dipignere ed a condurre quest’opera a perfezione, che senza l’aiuto loro non 

l’avrei condotta in una età» 22 . 

I tre si alternarono nella realizzazione dei soggetti ed a volte anche all’interno dello 

stesso soggetto. Non sempre si può contare su riscontri oggettivi per l’attribuzione dei 

singoli pezzi, sia affreschi che disegni, ed allora la questione rimane materia di contesa tra 

gli storici dell’arte, che indagano il segno e la mano. Considerata nel suo risultato complessivo 

tuttavia, la pittura dei luoghi rivela un’indubbia continuità di impostazione. 

La maniera fiamminga ha modellato le città toscane, e l’edificato non si impone 

per spazi e volumi, ma si caratterizza per una skyline movimentata dalle emergenze 

verticali, torri e campanili. Un modo di vedere e di descrivere che appare ancor più 

evidente quando la pittura dipende da un disegno che non è frutto di «veduta naturale», 

come nel caso di Empoli nella sala di Clemente VII. Il punto di vista aereo 

consente di penetrare all’interno della cerchia di mura, eppure il pittore non pone 

l’accento sulla trama viaria. Nemmeno la pieve possiede un proprio corpo ed è riconoscibile 

solo grazie all’enfasi del campanile, che s’innesta su un tessuto edilizio 

indifferenziato 23 . 

La veduta al naturale permette la riconoscibilità di profili esilissimi, come Pisa, 

lontana sull’orizzonte del quadro della presa di Cascina, ma un cambio di registro 

è necessario quando si opera a distanza più ravvicinata per mettere a fuoco alcuni


specifici punti all’interno della città. Allora anche un osservatorio privilegiato come il 

balcone delle colline intorno a Firenze può diventare insufficiente. È appunto quello 

che spiega Vasari quando il principe è di fronte alla famosa veduta dell’assedio di 

Firenze nella sala di Clemente VII. Molto chiaramente scrive che «si poteva fare male 

agevolmente per via di veduta naturale [...] e nel modo che si sogliono ordinariamente 

disegnare le città e i paesi che si ritraggono a occhiate del naturale», se si voleva 

veder tutto, e pur avendo iniziato in questo modo «dalla banda dei monti al naturale» 

ha dovuto poi «aiutare con l’arte (l’artificio) dove ancora [...] mancava la natura, con 

l’uso della bussola e levando la pianta, misurata in modo che poco divaria dal vero», 

e «accompagnandola con la veduta» 24 . 

Un procedimento simile è quello che Vasari prospetta a Battista Naldini, quando 

nel 1567 lo invia a disegnare tutta la costa di Stampacie di Pisa. E gli ordini sono molto 

precisi: «che lievi di fuori il sito di Stampacie dalla porta a san Marcho fino alla porta 

della cittadella vecchia»; che «pigli un’altra vista sopra il Torione di Stampacie et ritragga 

di drento tutta Pisa quella parte che si vede, et questo è quanto per questa parte bisogna 

fare intorno a questo primo disegno [...] et finalmente nella pianta si segni come 

stava il campo de Fiorentini dalla banda di fuori con sue sentinelle, artiglierie, guardie 

et puntualmente con diligentia ogni mjnutia» 25 . 

Dunque le «viste» prese da punti reali vengono poi aggiustate sulla pianta. Afferma 

il principe: «Questo è certo buono modo perché è sicuro e si scuopre ogni cosa» 26 , ed il 

«buono modo» è verosimilmente lo stesso seguito dall’anonimo disegnatore che aveva 

lavorato alla creazione del primo moderno ritratto di città, la Veduta della Catena 27 . 

Vasari sembra aver assorbito profondamente i principi della ricerca che nel 

Quattrocento aveva permeato la cultura fiorentina portandola ad approdare a quel 

risultato. Ed infatti il prototipo nel corso dei due secoli successivi rimase a Firenze 

sempre così presente, o forse ingombrante, da produrre una straordinaria, endemica 

resistenza ad accettare un’altra via, un’altra forma di ritratto, la pianta prospettica, la 

cui fortuna stava dilagando in tutta Europa 28 . 

Non a tutte le immagini di città Vasari associa però l’espressione «al naturale». Le 

fortezze degli ovali per esempio sono indicate semplicemente come «ritratti». Ed infatti 

i «ritratti» non sono composti per via di veduta naturale, ma proprio con il metodo della 

pianta prospettica, cioè partendo dalla pianta e costruendovi sopra l’alzato come da un 

immaginario punto di vista aereo. Puntuale è il riscontro del documento: Montecarlo 

è infatti uno dei centri di cui il disegnatore è andato a «levare la pianta». E per Pistoia, 

altra città di cui è stata rilevata la pianta, Vasari non parla di «naturale». 

La scelta di una tipologia diversa è giustificata dalla qualità della fortezza che, in 

quanto frutto di progetto, è geneticamente associata al codice del disegno architettonico. 

L’astratta rappresentazione in pianta, che è alla base di quel codice, costituisce 

un’ulteriore, sofisticata tipologia con cui la città appare negli affreschi, anche se sempre 

accompagnata dal suo referente visuale, il ritratto. Segno distintivo di un nuovo


modo di fare architettura 29 , la pianta divenne un punto di forza nell’iconografia del 

potere alla corte dei Medici, che amavano essere considerati come una dinastia di 

principi educati alla scienza architettonica e pronti a nuovi grandi progetti. Studiare i 

piani di una battaglia, fondare città o ampliarle: tutte queste imprese potevano essere 

efficacemente figurate attraverso l’atto del guardare e discutere la pianta. 

Ed infatti in un quadro del soffitto del salone, la preparazione della guerra di 

Siena è raccontata mostrando «il signor Duca solo in una camera di palazzo, il quale 

ha dinanzi a sé sopra un tavolino il modello della città di Siena, e con le seste va misurando 

e scompartendo per trovare il modo di pigliare i forti di quella città». Sullo 

sfondo è il ritratto della città 30 . 

Di fronte al tondo della sala di Cosimo I relativo alla fondazione di Portoferraio, 

dove l’Elba sullo sfondo è ritratta «al naturale», Vasari spiega: «Portoferraio, e le fortezze 

della Stella e del Falcone [...] l’ho ritratte là nel lontano con tutte quelle strade 

e mura che per l’appunto vi sono». In primo piano il duca guarda infatti «la pianta di 

tutta quella muraglia e fortezza, mostratagli da maestro Giovanni Camerini architetto 

di quel luogo» 31 . Infine, anche il trecentesco ampliamento di Firenze viene riletto 

in questi termini: gli uomini della Signoria sono di fronte a «Arnolfo architettore che 

mostra loro la pianta del circuito» 32 . 

Ad eccezione di Firenze, apparsa per prima sulla scena della moderna iconografia, 

le immagini dei centri toscani medi e piccoli sono molto precoci nel panorama 

italiano ed appartengono ad un periodo di trasformazioni intense conseguenti alla 

costituzione del Granducato. Proprio la zona adiacente a Palazzo vecchio, ben delineata 

nell’affresco dell’assedio nella sala di Clemente VII, sarebbe stata ridisegnata da 

Vasari stesso con la costruzione degli Uffizi e del corridoio, a partire dal 1565, appena 

quattro anni dopo il completamento della sala. 

A Livorno Cosimo aveva fatto murare un recinto difensivo quadrilatero con tre 

grossi bastioni saldato alla sangallesca fortezza vecchia. Il ritratto nell’ovale ha fissato 

l’insediamento in questa fase, prima della rifondazione avvenuta nel 1575 su progetto 

di Bernardo Buontalenti, ma ha anche stabilito un punto di vista e una soluzione 

compositiva che avrebbe continuato ad essere adottata nei secoli successivi, con una 

città profondamente trasformata 33 . 

Disegnate o rilevate sul campo da disegnatori giunti dalla vicina capitale, le città 

di Palazzo vecchio sembrano dunque promettere informazioni preziose su città 

in evoluzione ed insieme offrire ottime garanzie di attendibilità dal punto di vista 

della verità topografica. Lo scrupolo filologico con cui Vasari si documentava per 

ricostruire le scene delle battaglie, anche leggendo gli storici, rafforza ulteriormente 

questa presunzione. Eppure la verifica compiuta su Pisa, una città non di secondo 

piano, che Vasari conosceva bene per avervi operato e soggiornato a lungo, dà risultati 

sconcertanti. 

Nel quadro della battaglia di Pisa al Canto del Barbagianni avvenuta nel giugno


1500 34 , che Vasari dice di aver ritratto «dalle proprie mura naturali», c’è un errore 

macroscopico. Pisa resta molto sullo sfondo e la sua rappresentazione è affidata essenzialmente 

al complesso monumentale religioso: duomo, battistero e torre pendente. 

La cupola del duomo, monumento ben noto a Vasari, è fedelmente ritratta fino al 

tamburo ottagonale con archi, e poi completata da un coronamento di fantasia e da 

una calotta a costoloni, talmente ingigantita rispetto alla mole del battistero da assomigliare 

più alla cupola del duomo di Firenze che non all’originale. 

Nell’altro episodio dell’assalto alla città nell’agosto 1499 si poneva il problema di 

rappresentare la torre di Stampace distrutta nella battaglia 35 . Come restituire quello 

che non c’era più? Vasari consiglia a Naldini, inviato a Pisa, di vedere 

et che da Batista del Cervelliera o da altri vechi segli mostri le rotture che furon fatte dalla 

artiglieria del campo de Fiorentini, et si segnino così il fosso et bastione di drento fatto per 

difesa da e Pisani, così se si ricordino come erano fuori le trincee e le fosse per difesa da 

e Pisani, che cia battuto, dalla Torre di san Marcho et da quella della cittadella vecchia et 

dalla Torre di Stampacie, la quale, essendo disfatta oggi, s’ella fussi ritratta costi in qualche 

picttura vechia, si ritragga, senon per chi sene ricorda si facci dire come stava 36 . 

Dunque la torre affrescata altro non è che una trasposizione figurativa di parole 

ascoltate. Ed anche questa preoccupazione filologica vien meno se ci si allontana 

dalla torre, dal momento che nell’arco del Lungarno di Tramontana si incontra la 

statua della Dovizia, simbolo del risanamento di Cosimo, che non esisteva affatto 

nel paesaggio urbano del 1499. Il concetto di verità della rappresentazione appare 

dunque ancora una volta ancorato a valutazioni soggettive. 

Le città del primo cortile 

Le città del primo cortile, o cortile di Michelozzo, formano un ciclo a sé stante 

che trova la sua genesi nello specifico programma di festeggiamenti per le nozze di 

Francesco I con Giovanna d’Austria. 

I lavori per l’apparato furono ordinati da Cosimo il 20 gennaio del 1565, come 

documentano i ricordi di Vasari 37 , cui fu affiancato ancora una volta Vincenzo 

Borghini per stabilire le invenzioni. 

Il cortile era il luogo d’ingresso del corteo nuziale nella residenza ufficiale dei 

Medici, e dunque lo snodo tra la parte privata della festa e quella pubblica che aveva 

interessato la città. Bisognoso, secondo Borghini, «d’essere un poco aiutato» 38 per 

svolgere questo ruolo, il cortile fu ridisegnato sovrapponendo alla sua architettura 

originaria una decorazione di duplice natura, temporanea e permanente. Trascorsa 

la festa e smontati gli addobbi temporanei, il cortile si presentò come l’occasione 

effimera l’aveva modificato. 

Molte informazioni sul suo aspetto a lavori ultimati ci derivano dalle fonti contemporanee 

39 , dato che il suo stato attuale è molto compromesso dall’azione del 

tempo e da successivi interventi di restauro 40 .


Le colonne furono arricchite da stucchi dorati, le logge decorate con grottesche e trofei 

e suddivise da finti pilastri, le lunette affrescate con ovali o rovesci di medaglie coniate per 

celebrare le opere di Cosimo, come la fondazione di Portoferraio, la creazione dell’ordine 

di Santo Stefano, il disseccamento dei paduli di Pisa, la costruzione di Palazzo Pitti 41 . 

Sotto le lunette, furono affrescate molte delle principali città d’Austria, di Boemia, 

d’Ungheria, del Tirolo, e degli altri Stati dell’Impero asburgico. La fusione tra le due 

case regnanti si realizzava così visivamente, con il piacere della sposa, accolta dalle immagini 

familiari delle sue città, e con la «soddisfazione poi de’ forestieri, e de’ molti 

signori alamanni massimamente, che in grandissimo numero per onore di sua Altezza 

e con l’eccellentissimo duca di Baviera il giovane, suo nipote, venuti vi erano» 42 . 

La soluzione compositiva è in questo caso molto semplice e diretta. Non allegorie, 

ma semplici ritratti in ampi riquadri, incorniciati da un fregio, con sopra il nome 

della città in tedesco e sotto quello in latino, accompagnato da alcuni epiteti quali 

«Civitas Bohemiae» o «Caput Stiriae». 

Per tre delle città affrescate esistevano già immagini a stampa che avrebbero potuto 

servire come modelli: Passau e Costanza, inserite nel Liber cronicarum di Hartmann 

Schedel 43 , e Friburgo nella Cosmographia universalis di Sebastian Münster 44 . Ma 

l’ambizione fu evidentemente quella di dipingere immagini create per l’occasione, 

così come era stato per le città del Granducato, ed infatti questo compito fu commissionato 

a due intermediari. Il 17 marzo 1564 venne inviata all’ambasciatore ducale a 

Vienna, Ricasoli, una «Nota delle città, et luoghi del Imp. re da fare in prospettiva» 

(Vienna, Wiener-Neustatt, Eberstorf, Closternoburg, Stein, Krems, Lintz, Bratislava, 

Praga, Znaym, Olmütz, Breslavia, Gratz, Clagenfurt) 45 . Contestualmente fu inviata 

ai Graffer, agenti ducali in Germania, una nota corrispondente per altre sette città 

(Passau, Innsbruck, Sterzin [Vipiteno], Costanza, Friburgo, Brisach, Hall) 46 . 

Il tempo a disposizione evidentemente era poco e per questo si raccomandava che 

«si faccino schizzare in carte, senza depigner per più presteza». 

La risposta arrivò da Antonio Graffer l’8 agosto 1565 con una dettagliata nota 

spese: oltre al prezzo dei singoli disegni, Graffer addebitava le spese per aver «mandato 

uno dipintore da Linz a Passau per ritrarre la terra di Passau» e un altro «a 

Gostanza Friburg et Prisgau qual ha speso in viaggio che è stato fuori 26 giorni», e 

per il trasporto a Venezia delle sette carte commissionate 47 . Restava da percorrere il 

tragitto da Venezia a Firenze. 

Dei disegni commissionati a Ricasoli non abbiamo notizie, ma tra i sedici soggetti 

effettivamente affrescati (Vienna, Wiener-Neustatt, Eberstorf, Closternoburg, 

Stein, Lintz, Bratislava, Praga, Gratz, Passau, Innsbruck, Sterzin, Costanza, Friburgo, 

Brisach, Hall) ne mancano alcuni che figuravano invece nella richiesta 48 . 

In meno di quattro mesi dunque l’opera fu portata a termine insieme alle altre 

decorazioni del cortile, dato che il 16 dicembre 1565 la sposa fece il suo ingresso 

solenne in città e nel palazzo 49 .


Tra i risultati e le richieste contenute nelle note partite da Firenze non c’è una piena 

rispondenza: una parte di esse sembrano più finalizzate a ottenere un complemento 

d’informazione che a essere tradotte nella figurazione; ad esempio, la richiesta, espressa 

sia ai Graffer che a Ricasoli, dei «i nomi de fiumi che vi passano et de monti vicini» 50 . 

Inoltre le note elencavano per ognuna delle città principali una serie di luoghi 

chiave da rappresentare. Per Vienna ad esempio: 

Il duomo con il campanile et la piazza et le case attorno [...] Il palazzo del Imp. re con la piazza et 

tutto quello che si vede [...] Il Trivio da S. Michele [...] La piazza della carne, con le case attorno [...] 

La piaza dal pesce con la colonna li arbori et le case attorno [...] Il Trivio dal Duomo [...] La casa 

della lepre [...] Il Trivio dal Agnolo d’oro 51 . 

Per «Posonia città dove si fece la coronazione, posta sul Danubio», si chiedeva «in 

prospettiva la terra con il castello rilevato, [...] con il disegno del sito, et come stavano 

alloggiati in campagna le genti, alla detta coronatione» 52 . 

Anche se lo stato attuale di deperimento degli affreschi in alcuni casi compromette 

fortemente la leggibilità, questi particolari non sono sicuramente inclusi nelle vedute. 

In realtà i punti di vista proposti erano più di uno, a volte addirittura opposti, 

e quindi impossibili a riunirsi insieme in un’unica veduta. Per Praga si indicava: «Il 

ponte di Pietra con li duo portoni su La Molda lungo br. 745 riguardando verso il castello 

del Imp. re», ma anche «Per l’opposito ponendo l’occhio dal castello dell’Imp. 

et risguardando Praga vecchia, mettendo in prospettiva tutto quello che si vede con la 

Molda, l’isola et il luogo delli Re antichi» 53 . È probabile quindi che quelle indicazioni 

fossero intese come suggerimenti al disegnatore, che doveva poi scegliere, secondo 

un’espressione ricorrente, «recandosi alla miglior vista per farlo in prospettiva» 54 . 

In alcuni casi le richieste erano talmente precise ed esigenti, da sembrar dettate da 

una diretta conoscenza dei luoghi. Per Passau ad esempio si scriveva: «Avertendo che 

si faccia in prospettiva stando l’occhio nell’acqua di sotto, dove li fiumi son mescolati 

riguardando verso La terra» 55 . 

Nelle note si parlava costantemente di città da fare «in prospettiva». I cronisti 

ufficiali della festa le descrivono associandole al termine «naturale». Secondo Cini 

furono «con bellissimo spartimento ritratte, che naturali parevano» 56 ; anche Mellini 

parla di ritratto «di naturale et con diligenza» 57 . Nelle loro parole però il termine «naturale» 

non ha la precisione vasariana e si limita ad indicare quell’effetto «vero» tanto 

ricercato dalla pittura contemporanea. Diversi tipi di rappresentazione sono accomunati 

in quest’indicazione: ci sono profili (Vienna, Stein), vedute più articolate e miste 

(Passau e Praga, Innsbruck, Costanza), piante prospettiche (Graz). 

Da chi erano state formulate le note fiorentine? Forse da Borghini, o da Vasari 

stesso? Certo non sembra una coincidenza che per le immagini di città, settore largamente 

affidato negli appartamenti ducali a Giovanni Stradano, la richiesta relativa 

agli esecutori sia quasi tassativa: «Che mandino da Augusta un pittor fiammingo,


et faccia paesi di Fiandra, et non vi sendo alcuno in proposito mandino in Anversa, 

facendone venire uno quanto prima». Ed in Italia l’esecuzione degli affreschi fu affidata 

ad artisti poco noti che provenivano tutti dal Nord: Sebastiano Vini Veronese 58 , 

Giovanni Lombardi Viniziano (maestro di vetro), Cesare Baglioni Bolognese 59 , 

Turino di Piemonte. 

Come non vi furono modelli per le città del cortile, così esse non divennero modelli, 

nonostante l’abbondante iconografia prodotta in seguito per gli stessi soggetti. 

Dipinte circa dieci anni prima che iniziasse con la pubblicazione delle Civitates la 

diffusione su larga scala del ritratto di città, le città asburgiche non furono utilizzate 

neppure nella fase di preparazione della raccolta, dove Vienna, Innsbruck, Praga e 

Costanza sono presenti, ma con immagini totalmente indipendenti dagli affreschi 60 . 

È solo a metà del Seicento che si verifica l’unica eccezione, quando con il Theatrum 

di Jan Jansson compare sulla scena internazionale il ritratto «fiorentino» di Graz 61 . 

Questo ritratto costituisce in realtà un’eccezione anche all’interno dello stesso ciclo di 

affreschi. Rispetto agli altri, disegnati dal vero ma anche con una certa fretta, quello 

di Graz si distingue proprio per la grande accuratezza dell’insieme e dei dettagli, e 

per il fatto che non è una veduta naturale, ma una pianta prospettica, costruita con 

grande abilità 62 . 

Uno scarto di qualità e tipologia tale da suscitare perplessità: innanzitutto, se è 

opera dello stesso gruppo di disegnatori cui Ricasoli affidò le altre, perché questa 

diversità? Ma vi è anche la questione del tempo: sarebbe stato possibile compiere un 

rilievo così preciso in un tempo così ristretto? Ed allora appare ragionevole l’ipotesi 

della dipendenza da un prototipo esistente in loco 63 , che potrebbe anche spiegare la 

facilità con cui i collaboratori di Jan Jansson, in cerca di nuovi soggetti da aggiungere 

alle vecchie lastre, poterono acquisire l’immagine, senza ricorrere all’autorizzazione 

di Cosimo II. Ma il silenzio delle fonti non consente oggi nessuna certezza. 

L’immagine a stampa contenuta nel Theatrum deve a Wenceslaus Hollar 64 la raffinatezza 

dell’esecuzione. Essa è perfettamente aderente a quella di Palazzo vecchio 

pur senza mostrare i tratti cadenti e approssimativi di una copia, ed anzi sviluppa 

in lunghezza, in piena autonomia, il quadro paesaggistico. Nella sua nuova veste 

l’immagine di Graz, nascosta da un secolo nel palazzo fiorentino, iniziò a circolare e 

venne condivisa dalla cultura europea. 

Lucia Nuti 

1 Per la storia della costruzione e le vicende del cantiere di Palazzo Vecchio nel Cinquecento vedi 

l’accuratissima opera E. ALLEGRI-A. CECCHI, Palazzo Vecchio e i Medici: guida storica, Firenze, Spes, 

1980, con un ricco apparato di fonti d’archivio relative. Un’ampia documentazione figurativa del palazzo 

si trova anche in: U. MUCCINI, Il salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio, Firenze, Le lettere,


1990; U. MUCCINI-A. CECCHI, Le stanze del Principe in Palazzo Vecchio, Firenze, Le lettere, 1991; U. 

MUCCINI, Pittura, scultura e architettura nel Palazzo Vecchio di Firenze, Firenze, Le lettere, 1997. Per una 

valutazione complessiva dell’opera architettonica di Vasari vedi C. CONFORTI, Vasari architetto, Milano, 

Electa, 1993. 

2 G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori, in Le Opere, con nuove annotazioni 

e commenti di G. MILANESI, Firenze, Sansoni, 1906, vol. VIII, p. 11. 

3 Vasari stesso dà un esaustivo resoconto delle pitture fatte in Palazzo Vecchio, delle invenzioni 

e del significato delle figure nei Ragionamenti, pubblicati nell’ottavo volume de Le opere, cit. Altre 

annotazioni si trovano in G. VASARI, Il libro delle Ricordanze, a cura di A. Del Vita, Roma, R. Istituto 

d’Archeologia e Storia dell’Arte, 1938, e in G. VASARI, Lo Zibaldone, a cura di A. Del Vita, Roma, R. 

Istituto d’Archeologia e Storia dell’Arte, 1938. 

4 Per le invenzioni di Cosimo Bartoli prodotte tra il 1555 e il 1556 per le stanze del principe vedi 

G. VASARI, Der Literarische Nachlass, a cura di K. Frey-H.W. Frey, 3 voll., Hildesheim/New York, Georg 

Olms, 1982, vol. I, n. CCXX (pp. 410-413); n. CCXXI (pp. 413-415); n. CXXXIII (pp. 438-439); n. 

CCXXXIV (pp. 439-442); n. CCXXXVI (pp. 447-451). 

5 Per le invenzioni relative al Salone dei Cinquecento, vedi E. ALLEGRI-A. CECCHI, Palazzo Vecchio, 

cit., pp. 236-237. Vincenzo Borghini fu ritratto nel trionfo della guerra di Siena, Salone dei Cinquecento. 

(G. VASARI, Le vite, cit., vol. VIII, p. 219). 

6 G. BOTTARI-S. TICOZZI, Raccolta di Lettere sulla pittura, scultura ed architettura scritte da’ più celebri 

personaggi dei secoli XV, XVI e XVII, Milano, Silvestri, 1822-25, vol. I, p. 125. 

7 La rappresentazione di Firenze è analizzata nel contesto dell’urbanistica fiorentina da G. FANELLI, 

Firenze, Roma-Bari, Laterza, 1980, p. 54 e da D. FRIEDMAN, Terre nuove, Torino, Einaudi, 1996, p. 247. 

8 G. VASARI, Der Literarische, cit., I, n. CDI, p. 735. 

9 Il programma definitivo verrà citato quasi letteralmente, con le città del vecchio dominio dipendenti 

dai quartieri, negli affreschi commissionati dal cardinale Ferdinando per la Villa Medici a Roma. 

Vedi l’analisi di P. MOREL, Le Parnasse astrologique. Le décors peints pour le cardinal Ferdinand de Médicis. 

Etude iconologique, in La Villa Médicis, a cura di A. Chastel, 3 voll., Roma, Académie de France à Rome/ 

École française de Rome, 1991, vol. III. 

10 Le tre immagini relative a Volterra sono analizzate in L. CAPITANI, Volterra vista da Firenze, in Il 

segno delle balze. Artisti e viaggiatori a Volterra tra XIV e XIX secolo, a cura di A. Tosi, Pisa, Pacini, 1997, 

pp. 89-106. 

11 G. VASARI, Le vite, cit., vol. VIII, pp. 192-193. 

12 Vedi L. NUTI, Piazza de’ Cavoli e i mercati di Pisa, «Bollettino storico pisano», LX, 1991, pp. 231- 

241. Per il significato del tema, in rapporto alla sistemazione della piazza vedi R. CIARDI, Il Cinquecento, 

in Scultura a Pisa tra Quattro e Seicento, a cura di R. Ciardi-C. Casini-L. Tongiorgi Tomasi, Pisa, Pacini, 

1987, pp. 112-115. 

13 G. VASARI, Le vite, cit., vol. VIII, p. 195. 

14 C. RIPA, Della novissima iconologia...ancora arrichita... dal sig. Gio. Zaratino Castellini, Padova, 

Pietro Paolo Tozzi, 1625, voce «Architettura militare». 

15 K. LANGEDIJK, The Portraits of the Medici 15th-18th Centuries, 3 voll., Firenze, Spes, 1981-1987, 

vol. II, pp. 169-171, 951 e vol. I, l’intero capitolo IV, The Medici as Architects. Il libro di Bonaiuto 

Lorini appare identificabile nella seconda edizione, pubblicata a Venezia nel 1609. Vedi anche I volti del 

potere. Ritrattistica di corte nella Firenze granducale, a cura di C. Caneva, Firenze, Giunti, 2002. 

16 ARCHIVIO DI STATO DI FIRENZE (d’ora in poi ASF), Fabbriche Medicee, fasc. 7, c. 28r. 

17 ASF, Fabbriche Medicee, fasc. 10, cc. 47v, 51v. 

18 G. VASARI, Der Literarische, cit., vol. III, n. LXVIII, pp. 139-142, n. LXIX, pp. 142-145. 

19 Negli affreschi di anonimo della Villa Medici a Roma sono riutilizzate, pressoché invariate, le 

vedute di San Giovanni Valdarno e Volterra. Vedi P. MOREL, Le Parnasse, cit. 

20 Pisa è ritratta quattro volte in modi diversi: si trova come soggetto principale nell’allegoria della 

sala di Cosimo I (è significativo che in questo caso si utilizza ancora il punto di vista dal mare 

che sarà successivamente abbandonato); come sfondo della presa di Cascina nel soffitto del salone dei 

Cinquecento; sulle pareti dello stesso, nel quadro della battaglia del Barbagianni e in quello dell’assedio


del 1499. Livorno compare in un ovale nella sala di Cosimo I; nell’arrivo di Eugenio nel soffitto del 

salone, e sulla parete dello stesso, nel quadro dell’assedio del 1496. 

21 A. BARONI VANNUCCI, Jan van der Straet detto Giovanni Stradano flandrus pictor et inventor, 

Milano, Yandi Sapi, 1997. Il rapporto Vasari/Stradano è stato commentato da P. BAROCCHI, Vasari 

pittore, Milano, Edizioni per il Club del libro, 1964, p. 59 e, della stessa, Complementi al Vasari pittore, 

Firenze, Olschki,1964. pp. 279-284. 


23 Anche questa è definita «al naturale». G. VASARI, Le vite, cit., vol. VIII, p. 176. Per un commento 

in relazione all’iconografia urbana vedi W. SIEMONI, L’immagine della città, in Empoli: città e territorio. 

Vedute e mappe dal ‘500 al ‘900, a cura di P. Benigni, Empoli, 1988, pp. 117-119. 

24 G. VASARI, Le vite, cit., vol. VIII, pp. 174-175. Uno schizzo delle mura con la localizzazione dei 

punti chiave, probabilmente utilizzato per la preparazione dell’intero quadro, si trova in G. VASARI, Lo 

Zibaldone, cit., pp. 198-199. 

25 Lettera a Giovanni Caccini del 28 aprile 1567, in G. VASARI, Der Literarische, cit., vol. III, n. 

LXVIII, p. 139. 


27 Per un’approfondita analisi della veduta in rapporto alla topografia di Firenze vedi G. FANELLI, 

Firenze, cit., pp. 77-82. 

28 Firenze conosce un unico prodotto di questo tipo e relativamente tardi: la pianta prospettica di 

Stefano Bonsignori nel 1584. Vedi L. NUTI, Scheda n. 20, in Firenze e la sua immagine. Cinque secoli di 

vedutismo, a cura di M. Chiarini-A. Marabottini, Venezia, Marsilio 1994, pp. 80-83. 

29 Sul tema della pianta come elemento chiave nell’iconografia dell’architetto vedi L. NUTI, Il mondo 

della rappresentazione, in Storia dell’Architettura italiana. Il Seicento, a cura di A. Scotti, Milano, Electa, 

2003, pp. 18-33. 




33 L. NUTI, Il Molo Mediceo e la nuova immagine di Livorno, in Il molo mediceo e il suo forte. Immagini 

e storie del Porto di Livorno, Livorno, Debatte, 2002, pp. 47-61. 

34 Per inviduare gli elementi salienti della battaglia Vasari segue alla lettera le indicazioni di F. 

GUICCIARDINI, La Historia di Italia, Firenze, Lorenzo Torrentino, 1561, V, I, p. 449. 

35 F. GUICCIARDINI, La Historia, cit., IV, X, pp. 408-414. 

36 Vedi G. VASARI, Der Literarische, cit., n. LXVIII, p. 139. Lo stesso consiglio vale anche per per il 

ritratto della Torre di San Vincenzo. Ivi, p. 140. 

37 Vasari annota anche: «Et si fecie tutto il cortile del palazzo, lavorate le colonne di fogliami et 

figure di stuchi, et atorno tutte le ter(r)e di Germania et dello Imperio con tutte le imprese del Duca 

Cosimo». G. VASARI, Der Literarische, cit., vol. II, p. 878, n. 302. 

38 G. BOTTARI-S. TICOZZI, Raccolta di Lettere, cit., vol. I, p. 185. 

39 Per l’intero programma degli apparati numerose sono le fonti contemporanee: D. MELLINI, 

Descrizione dell’Entrata della Serenissima Reina Giovanna d’Austria et dell’apparato fatto in Firenze..., 

Firenze, Giunti, 1566; G.B. CINI, Descrizione dell’apparato fatto in Firenze per l’illustrissimo ed eccellentissimo 

Don Francesco de’ Medici principe di Firenze e Siena e della serenissima regina Giovanna d’Austria, 

descrizione riportata in G. VASARI, Le vite, cit., vol. VIII, pp. 517-617; la relazione di Vincenzo Borghini 

a Cosimo del 5 aprile 1565, pubblicata in G. BOTTARI-S. TICOZZI, Raccolta di Lettere, cit., vol. I, n. LVI, 

pp. 125-204. Nello studio per la decorazione del loggiato (dal taccuino del Fondo Magliabechiano II, 

X, 100 della Biblioteca Nazionale di Firenze, c. 80r) è accennata una delle vedute, probabilmente quella 

di Vienna. Tale studio è pubblicato in P. GINORI CONTI, L’apparato per le nozze di Francesco de’ Medici e 

di Giovanna d’Austria..., Firenze, Olschki, 1936, p. 59; E. PILLSBURY, An unknown project for the Palazzo 

Vecchio courtyard, «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florence», giugno 1969, pp. 57-66, 

dove sono aggiunte alcune note delle successive pagine del taccuino riguardanti il numero delle vedute. 

Per un’analisi dell’apparato dell’ingresso vedi A.M. TESTAVERDE, La visita, le nozze e il trionfo, in La città 

effimera e l’universo artificiale del giardino. La Firenze dei Medici e l’Italia del ‘500, a cura di M. Fagiolo,


Roma, Officina, 1980, pp. 81-85; R. STARN-L. PARTRIGE, Arts of Power. Three Halls of State in Italy, 

1300-1600, Berkeley/Los Angeles/ Oxford, University of California Press, 1992, pp. 151-229. 

40 Notizie relative al restauro del 1812, promosso dal sindaco Emilio Pucci, sono in G. DEL ROSSO, 

Ragguaglio di alcune particolarità ritrovate nella costruzione dell’antico Palazzo della Signoria di Firenze, 

detto oggi Palazzo Vecchio e delle innovazioni che hanno avuto luogo in quella fabbrica in occasione degli 

ultimi risarcimenti..., Siena, Onorato Porri, 1815. Del Rosso riferisce che le «decorazioni erano quasi 

affatto sparite, e che a riserva di alcuni pezzi d’ornato delle volte, quasi niente si riconosceva delle pareti. 

Il bel fregio esteriore sopra gli archi era anch’esso eclissato e caduto in gran parte; l’intonaco non esisteva 

che a pezzi» (p. 16). 

41 D. MELLINI, Descrizione, cit., p. 119. 

42 Ibidem. 

43 H. SCHEDEL, Liber cronicarum, Nürnberg, Anton Koberger, 1493. Si possono trovare Passau, pp. 

199-200, e Costanza, pp. 240-241. 

44 S. MÜNSTER, Cosmographia universalis, Basilea, Henricus Petrus, 1559. L’immagine di Friburgo 

è a pp. 548-549. 

45 ASF, Miscellanea Medicea, fasc. 16, ins. 8, cc. 6-9: « Nota delle città e luoghi del Imp. re da far in 

prospettiva mandata al Vienna. Ambasciatore Ricasoli all 17 di marzo». 

46 ASF, Miscellanea Medicea, fasc. 16, ins. 8, cc. 8-9r, «Copia della Nota delle città terre et luoghi di 

Germania da far in prospettiva data al Graffer adi 17 marzo 1564». 

47 ASF, Miscellanea Medicea, fasc. 16, ins. 8, c. 2r: «Conto del Graffer delli dan spesi in VII carte di 

ritratti di terre di Germania, per ordine del Principe». 

48 In ASF, Miscellanea Medicea, fasc. 16, ins. 8, è contenuta a c. 4r una «Nota delle terre di Germania 

ritratte nel cortile di Palazzo», con il doppio nome ed un analogo epiteto: «Vienna sedes Austriae; Praga, 

Regia civitas Bohemiae; Posonium, Hungariae civitas, in quas Max. coronatus fuit; Oenipons, caput 

Tyrolen comitatus; Linzium, caput Austriae superioris; Grazium, caput Ducatus Styriae; Friburgum, caput 

Brisgoia; Constantia civitas; Nieustadium, Austriae civitas; Hala comit. Tyrolen oppidum; Patavia 

episcopalis civitas imperatoris; Stanium Austriae oppidum; Closternnoburgum Austriae oppidum; 

Eberstorphium villa Imperatoris; Sterzingum, comi. Tyrolen oppidum». Stranamente nella lista delle 

città del cortile riportata da D. MELLINI, Descrizione, cit., p. 110, figura anche Trieste, Tergestum, che 

non compare in nessuna delle note e nemmeno negli affreschi. 

49 Da una lettera di Vasari a Borghini del 21 settembre sembra addirittura che il cortile sia pressoché 

finito a quella data: «il cortile è in fine, et ci è da far 4 dì apunto». Vedi VASARI,iDer Literarische, cit., 

vol. II, n. DXIV, p. 209. 

50 Infatti si richiedono anche liste «Delle cose degne delli 8 Imp. ri della casa d’Austria» e dei «Fatti 

più notabili delli 8 Imp. ri della Casa d’Austria». 

51 ASF, Miscellanea Medicea, fasc. 16, ins. 8, c. 6r. 

52 ASF, Miscellanea Medicea, fasc. 16, ins. 8, c. 6v. 



55 ASF, Miscellanea Medicea, fasc. 16, ins. 8, c. 7v. 

56 Cini, riportato in G. VASARI, Le vite, cit., vol. VIII, p. 571. 

57 D. MELLINI, Descrizione, cit., p. 109. 

58 Sebastiano Vini (o del Vino), detto Bastiano o Sebastiano Veronese (Verona 1528c.-Pistoia 1602). 

Vedi un breve profilo biografico in Dizionario enciclopedico dei pittori ed incisori italiani dal XI al XX 

secolo, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1983, sub voce. 

59 Cesare Baglione (Cremona 1550-Parma 1615). Vedi un breve profilo biografico in Dizionario 

biografico degli italiani, vol. V, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1963, (S. ZAMBONI, sub voce). 

60 G. BRAUN-F. HOGENBERG, Civitates Orbis Terrarum, Colonia, Godfried Kempen, 1572-1617. Si trovano 

immagini di Vienna: I, 41 e VI, 21; Innsbruck II, 42; Costanza II, 41; Linz V, 52; Praga I, 29 e V, 49. 

61 J. JANSSON, Urbium Totius Germaniae Superioris Illustriorum Clariorumque Tabulae Antiquae & 

Novae accuratissime elaboratae [seu] Theatrum Exhibens Illustriores Principesque Germaniae Superioris 

Civitates, Amsterdam [1657]. Nel primo volume si trovano Costanza: I, 54 e Graz: I, 55.


62 Per un’analisi dell’iconografia di Graz vedi Stadtbildausstellung Alt-und Neu-Graz, Graz, s.i.t., 

1928; W. STEINBÖCK, Grazer Stadtansichten des 16. Jahrhunderts, in Jahrbuch des Kunsthistorischen 

Institutes der Universität Graz, XI, 1975, pp. 105-118, tavv. LXIV-LXIX; Graz. Bilder einer Stadt, Graz, 

Sammler, 1991; F. PROBST, Die Grazer Stadtvedute. Die formale Entwicklung der Gesamtansichten vom 

Mittelalter bis zum Ende des 19 Jahrhunderts Diplomarbeit, Graz, 1994 (Tesi di diploma). 

63 Anche per Pisa, che non compare nelle Civitates ma nel Theatrum di Jansson, si ipotizza il ricorso 

ad un prototipo assai più vecchio oggi scomparso. Vedi M. BERNARDINI, Schede iconografiche, in Pisa. 

Iconografia a stampa dal XV al XVIII secolo, Pisa, ETS, 1991, pp. 92-94. 

64 Vedi la descrizione in R. PENNINGTON, A descriptive catalogue of the etched work of Wenceslaus 

Hollar, 1607-1677, Cambridge/New York, Cambridge University Press, 1982.


HISTOIRE DE LA CARTOGRAPHIE DES VILLES 

AUX XVI e -XVIII e SIÈCLES 

APPARITION ET ÉVOLUTION DES MODES DE REPRÉSENTATION 

L’examen des plans de ville produits entre 1500 et 1750, en ne retenant que 

les plans réellement nouveaux et non dérivés de prototypes, montre une grande 

variété de modes techniques et de choix graphiques. Cette relecture de la documentation 

cartographique sur les villes d’Europe a été menée à travers la bibliographie 

et en utilisant d’un certain nombre de documents d’archive non publiés, 

en ayant soin de considérer à chaque fois ce qui est représenté et avec quel soin 

technique. 

On a pu choisir de représenter la ville et ses masses bâties en géométral, ce qui est 

probablement le plus naturel pour un observateur du début du XXI e siècle, représenter 

le bâti en perspective (vues à vol d’oiseau ou vues cavalières) ou en axonométrie, 

ou bien encore faire le choix de représenter l’espace des rues en géométral et les 

seuls édifices importants en axonométrie. On voit apparaître aussi des plans coupés, 

montrant les structures architecturales des bâtiments, parfois des seuls bâtiments 

religieux. Enfin, le parcellaire est parfois présent 1 . 

L’objectif du présent essai est de donner un état de l’apparition et de l’évolution 

de ces modes de représentation pour la période qui précède la codification adoptée 

dans la deuxième moitié du XVIII e siècle et au début du XIX e . Ce bilan est limité 

par le fait que les documents présents dans les fonds d’archives ont peu fait l’objet 

de publication ou ont été publiés de façon hétérogène et éparpillée, souvent dans un 

format qui en rend l’étude difficile 2 . L’histoire des méthodes de relevé est traitée dans 

divers ouvrages avec une grande attention. Il n’en sera donc pas fait état ici, ni de 

celle des documents relatifs aux projets d’urbanisme. 

Le foisonnement des modes de représentation est une difficulté qui s’impose 

d’emblée. Il est cependant possible d’approcher leur histoire en pistant au travers de 

plans particuliers leur parcours selon tel ou tel parti iconographique et technique : 

tissu urbain, perspective, axonométrie, géométral en projection verticale, structures 

architecturales coupées, parcellaire.

360 BERNARD GAUTHIEZ 

La représentation du tissu urbain 

Les représentations de villes au XV e siècle procèdent par la mise en place d’un 

cadre, généralement l’enceinte de la ville, à l’intérieur duquel les édifices principaux 

sont représentés approximativement en perspective ou en axonométrie. 

Deux documents, l’un très connu, le plan d’Imola par Léonard de Vinci, l’autre 

très peu, le relevé des fontaines de Rouen par Jacques Lelieur, témoignent bien de 

l’état de la question au tournant du XVI e siècle, à un moment où de nouvelles pratiquent 

se développent. 

Le premier est de nature scientifique. Nourri des considérations d’Alberti dans sa 

Descriptio Urbis Romae vers 1450 3 , il s’agit du relevé d’Imola par Léonard de Vinci, 

peut-être effectué sur la base des travaux d’un ingénieur militaire, Danesio Maineri. 

Le plan représente les masses bâties, esquisse les limites parcellaires et le territoire 

environnant la ville, exprime nettement en masse les édifices religieux et publics. 

Sa correction géométrique est assez bonne, selon une échelle commune à tout le 

plan. Ce plan très connu, servi par un magnifique dessin, est généralement considéré 

comme le premier de ce type 4 . 

Le second a pour objectif la gestion du cours des fontaines de la ville de Rouen et 

la mise en valeur des édifices majeurs de la ville, pour nombre d’entre eux récemment 

reconstruits ou transformés. La qualité du relevé, qui porte sur environ la moitié du 

centre de la ville, est assez bonne le long des canalisations, où le chaînage était aisé, mais 

vite très mauvaise lorsqu’on s’en écarte. Les élévations et les volumes des bâtiments au 

long des rues sont dessinés d’une façon approximative. L’information ainsi livrée est cependant 

très précieuse, en particulier pour les églises et les édifices publics. Pour éviter 

de ne pas cacher les rues, les façades sont orientées vers l’intérieur des îlots, selon un 

procédé attesté déjà dans un plan de Rome médiéval 5 et un plan de Rodez en 1495 6 . 

Deux échelles sont utilisées selon les parties de la ville, parfois en prolongement dans 

un même relevé. Ce plan, par certains aspects archaïsant, moderne par d’autres, est 

l’un des premiers à tenter la représentation en élévation de toutes les architectures d’un 

espace urbain donné, y compris le continuum des simples maisons 7 . 

A partir de ce moment, ces deux façons bien différentes de représenter la ville, 

l’une fondée sur l’abstraction pure et l’autre sur l’analogie avec la vision sur le terrain, 

vont cohabiter, avec des fortunes diverses. 

Distinguer les vues horizontales ou à vol d’oiseau, et isométriques 

Dans des modalités techniques d’abord très inégales, hésitant entre perspective et 

isométrie, utilisant parfois dans les premières tentatives plusieurs points de vue pour 

décrire une ville entière, ce mode de représentation vise à montrer les architectures en 

même temps que l’organisation de l’espace urbain. La vue cavalière ou à vol d’oiseau 

aura un immense succès jusqu’au XVIII e siècle. Ses rapports avec une pratique en 

développement à la fin du XV e siècle, celle de la vue de ville réaliste prise du sol, il-

HISTOIRE DE LA CARTOGRAPHIE DES VILLES AUX XVI e -XVIII e SIÈCLES 361 

lustrée par les vues de Naples en 1472-1473 (la Tavola Strozzi) et de Gênes en 1481 

par Cristoforo de’ Grassi 8 , ne sont pas simples et restent à démêler clairement. Cette 

tradition aura une grande influence sur de nombreux dessins de villes postérieurs, 

qualifiés souvent de «portraits de villes» 9 . La représentation de Venise en 1500 par 

Jacopo de Barbari, qu’il est abusif de qualifier de plan, le «plan» de Tempesta à Rome 

en 1593, lui aussi en fait une vue cavalière ou à vol d’oiseau, en sont de très bons 

exemples. Dans ces cas, la perspective, souvent multiple, domine la représentation, 

dont la tradition prend aussi la forme des longues vues de villes, comme celle de 

Hollar à Londres ou celles qui accompagnent souvent les plans des villes hollandaises 

au XVII e siècle. Dans ce cas, elles se rapprochent de la silhouette et sont d’ailleurs 

souvent qualifiées de «profils». L’apogée du dessin en perspective, du point de vue de 

la prouesse technique, est peut-être la vue de Strasbourg à 360° dessinée à partir de la 

tour de la cathédrale par Conrad Morant en 1548, une vue similaire aux photographies 

actuelles en «fish-eye» 10 . Ce n’est pas là, cependant, mon sujet. 

Il ne faut pas confondre ces documents de nature souvent hybride, et dont l’analyse 

doit reposer sur une connaissance précise de la topographie contemporaine 11 , 

avec les plans isométriques et surtout axonométriques qui apparaissent très tôt 12 . 

Le «portrait de ville», ou «vue à vol d’oiseau», est concurrencé, à partir des années 

1520-1530, par des documents d’une nature différente, conservant la représentation 

en perspective ou en isométrie des bâtiments, mais en les plaçant sur un plan 

levé et dessiné en géométral et non plus sur une trame géométrique de l’ordre de la 

perspective 13 . Parfois, le plan de la ville est dessiné de façon géométrale mais complété 

par un arrière plan du paysage environnant dessiné selon une perspective vue 

du sol. Le relevé du plan est encore d’une qualité médiocre à Paris vers 1535 14 . Le 

sommet technique de telles représentations, en matière de fidélité topographique, est 

cependant atteint très tôt, vers 1540 pour un plan de Gravelines 15 et surtout en 1544 

pour Amsterdam, dans le plan isométrique de Cornelis Anthoniszoon 16 . Les plans 

de Deventer, qui portent sur 320 villes entre 1558 et 1572 et réalisés de la sorte, 

sont souvent d’une très bonne qualité 17 . Ces plans, comme un peu plus tard ceux 

de Florence par Bonsignori en 1583 ou de Rome par Blaeu en 1663, ont nécessité 

un levé très précis en géométral, dont la qualité nous est en quelque sorte cachée du 

fait que les bâtiments, pour être représentés en axonométrie, ont nécessité d’élargir le 

dessin des rues de telle façon que la projection des édifices riverains placés au devant 

n’empêche pas de voir ceux de l’autre rive. La qualité technique est générale au milieu 

du XVII e siècle, notamment avec les représentations successives d’Amsterdam (vers 

1625, vers 1658, 1662, vers 1680) 18 , et celles de Londres par Wenceslaus Hollar en 

1658, puis en 1667 par Hollar et John Leake 19 . Le plan de Paris par Bretez, dit «de 

Turgot», publié en 1739, participe de ce mode de représentation, mais le plan est ici 

dessiné en isométrie et non en géométral 20 . La succession parfois rapide des plans, 

mis à jour à partir d’un prototype, permet de suivre pas à pas la transformation de cer-


taines villes, comme à Amsterdam après le grand projet d’urbanisme de 1596 mis en 

œuvre dans le courant du XVII e siècle, ou à Bristol, au travers des révisions du plan de 

Millerd, modifié en 1673, puis à nouveau en 1684, 1696, vers 1710 et vers 1730 21 . 

La représentation axonométrique est une vue en trois dimensions, mais réalisée 

selon un point de vue unique projeté à l’infini. On voit apparaître simultanément, 

même si la technique ne se diffuse réellement que dans la seconde moitié du 

XVII e siècle, des représentations en relief. L’une de ces représentations, remarquable 

dans ses modalités techniques, est le plan de Charleville réalisé en 1724 par Nicolas 

Dodet. Les façades des bâtiments y sont dessinées sur des rabats pouvant être relevés 

et donner le volume des espaces publics ainsi bordés. Le plan des bâtiments est 

aussi esquissé 22 . Les maquettes de villes, ou plans-reliefs, apparaissent avec le modèle 

de la ville de Rhodes effectué en 1521, suivi de peu par celui de Florence en 1529. 

Plusieurs villes bavaroises sont ainsi cartographiées vers 1580. C’est en France, sous 

Louis XIV, que cette technique de représentation aura le plus de succès, notamment 

à la demande du ministre Louvois, à partir de 1668 23 . Ces plans ont nécessité un 

relevé détaillé à la fois de la planimétrie et des élévations, très comparable en investissement 

et par ses techniques à celui des plans axonométriques, il faut le souligner. 

La représentation plane géométrale 

Le plan d’Imola n’est pas resté sans suite ni sans équivalents. Les techniques développées 

par Alberti ont été reprises par les ingénieurs militaires du fait de leur intérêt 

évident pour la cartographie des places fortes. Contrairement à ce qui a parfois été 

dit 24 , ce type de représentation a connu une diffusion importante dès le XVI e siècle. 

Il est ensuite entré en concurrence avec les plans de type axonométrique au XVII e 

siècle. La cartographie militaire est à cette époque de nature presqu’uniquement géométrale. 

Souvent limitée au contour des remparts, elle concerne aussi parfois le détail 

de la ville, ainsi dans le cas du plan de Legnano en 1530 25 , de celui de Grenoble 

réalisé en 1536 par Lefèbvre, qui indique les masses bâties et les limites parcellaires 26 , 

du plan de Vienne par Wohlmuet en 1547 conservé au Musée Historique de la ville, 

qui représente les masses bâties à l’intérieur de l’enceinte 27 , ou encore de celui de 

Portsmouth en 1545 28 . 

Ces plans sont précis car leur objectif est avant tout pratique. La production de 

plans de villes par les militaires est donc immense dès le milieu du XVI e siècle. Elle 

porte aussi sur des grandes villes comme Milan en 1603, par F. Richini 29 . 

La technique de représentation du bâti en masse présente, par rapport à l’axonométrie, 

l’avantage de ne pas avoir à déformer les rues dans la mise au net et de 

simplifier le travail de relevé d’ensemble des villes. On a donc souvent adopté dans le 

courant du XVII e siècle un parti hybride de cartographie urbaine à usage civil, associant 

relevé précis de la planimétrie et représentation en axonométrie des seuls édifices 

religieux, publics et parfois militaires, à l’occasion aussi des hôtels particuliers. Les


plans de Paris en 1652 30 , Rouen en 1655 et d’autres villes par Gomboust, ingénieur 

militaire, illustrent cette technique. Le plan de Bruxelles vers 1700, par Laboureur 

et Van der Baren, et celui de Florence en 1731 par Seutter sont dans la même tradition 

31 . Dans certains cas, l’idée de représenter le parcellaire, sans visée cadastrale, 

reste présente, comme dans le plan de Berne vers 1716 par Riedinger 32 . 

A partir de la fin du XVII e siècle se fait sentir un besoin croissant de représentations 

précises de l’espace urbain, civiles, qui ne fassent plus du tout intervenir la 

vue perspective ou axonométrique des bâtiments. Les techniques simples mises au 

point par les militaires vont alors trouver leur pleine expression auprès d’un public 

élargi, ainsi dans les plan de Paris par Jouvin de Rochefort en 1672-1674 33 , Florence 

en 1690 34 , Vienne en Autriche par Marinoni et Anguissola en 1706 35 , Venise par 

Ughi en 1729 36 . Le plan de Séraucourt pour Lyon en 1735 37 est aussi ainsi établi, 

tout comme le plan de Londres par Rocque en 1746 38 . Ce type de carte sera généralisé 

dans le courant du XVIII e siècle, en France sous l’égide du service des Ponts et 

Chaussées, et en Europe. 

Une première nouveauté : l’introduction de structures architecturales coupées 

On voit apparaître dans certains des plans le détail en coupe des édifices principaux, 

des églises, le plus souvent. Cette pratique apparaît déjà dans le courant du 

XVI e siècle, avec le plan de Rome par Leonardo Bufalini, en 1551, qui représente en 

coupe les édifices antiques et les édifices publics et religieux 39 . Une grande précision est 

atteinte avec le relevé de Parme par Smeraldo Smeraldi, ingénieur militaire, entre 1589 

et 1592. Le projet ici est certainement de relever aussi le parcellaire urbain, ce qui fut 

fait en petite partie, mais seuls les édifices publics et religieux, ce qui représente tout de 

même un travail considérable, sont représentés avec leurs détails architecturaux 40 . 

Dans ce cas, on assiste à une extension à l’échelle de la ville du souci de connaissance 

précise des structures architecturales qui préside alors aux relevés d’architectures 

antiques ou à des besoins de nature militaire. On trouve ce souci dans le plan de 

Francesco Maria Richini pour Milan en 1603 déjà évoqué 41 et dans celui de Gênes, 

d’une grande précision, établi en 1656 à la demande de la Commune 42 . C’est ensuite 

le cas du plan de Ogilby et Morgan établi pour Londres en 1676, dix ans après le 

grand incendie 43 , et pour un plan du centre de Rouen vers 1700, dont l’objet principal 

est pourtant le cours des fontaines 44 . Pour le plan de Londres, l’état des reconstructions 

a très probablement inspiré le dessinateur. En effet, la reconstruction de la 

cathédrale St-Paul en était à ce moment aux fondations. La comparaison avec le plan 

de l’édifice effectivement réalisé montre que le plan de Ogilvy et Morgan repose sur 

un relevé des fondations et un état de projet en partie modifié par la suite. Ceux de 

Robelin pour Rennes vers 1725 45 , Delagrive pour Paris en 1728 46 et de Séraucourt 

pour Lyon en 1735 ne présentent coupés de même que les édifices accessibles au 

public. Les premiers relevés du cadastre de Milan (voir infra) donnent lieu à la pro-


duction d’un plan synthétique de la ville en 1734 par Riccardi, plan qui comporte 

coupés les principaux édifices et fut préparé pour une édition commerciale la même 

année par Dal Re. Ce plan est considéré comme le prototype technique du plan de 

Nolli à Rome, en 1748 47 . Il ne faut cependant probablement pas écarter la possibilité 

que le plan de Delagrive pour Paris, dont les méthodes ont été reprises pour de 

nombreuses villes en France dans les décennies qui suivirent, ait pu contribuer à cette 

paternité, par des canaux qui resteraient à éclaircir. 

Le document le plus remarquable du point de vue du détail architectural est probablement 

le plan élaboré par Billon pour la ville de Genève en 1726 à l’instigation 

de Micheli du Crest 48 . Il comporte le relevé détaillé des immeubles de la ville intramuros, 

du moins de ceux qui ont pu être visités par l’architecte et son équipe, en fait 

la plupart d’entre eux. 

En parallèle, dans le courant du XVII e siècle, des relevés architecturaux de plus en 

plus étendus, traitant parfois d’un quartier entier avec grande précision, montrent la 

maîtrise de l’emploi de techniques appropriées dans des contextes parfois très complexes, 

ainsi les relevés des propriétés de la Clothworkers’s Company et de Christ’s 

Hospital à Londres par Treswell en 1611-1612 49 , le plan général de la basilique St- 

Pierre au Vatican publié par Ferrabosco en 1624 50 , le relevé des îlots à détruire pour 

l’extension du palais du Louvre par Le Vau en 1662-1664 51 ou le relevé de l’abbaye 

St-Denis près de Paris par Hardouin-Mansart et De Cotte vers 1700 52 . 

Une deuxième nouveauté : le relevé du parcellaire à visée cadastrale 

Les premiers levés topographiques de propriétés dans l’espace rural apparaissent 

aussi au XVI e siècle, par exemple dans la carte des environs d’Alkmaar en 1529- 

1531 53 , celle des propriétés de lord Cheney à Toddington par Agas en 1581 54 , ou 

encore une carte des paroisses St-Giles et St-Martin près de Londres, de 1585 55 . On 

trouve aussi par exemple des plans de polders en Hollande au XVII e siècle, comme 

la carte des environs de Beemster en 1640 56 , et le plan général de seigneuries, ainsi 

celle de Stains, près de Paris, en 1689 57 , qui représente avec précision le parcellaire 

et le bâti et indique le nom des propriétaires, y compris pour les secteurs urbanisés. 

Notons cependant que dans ces représentations, la nouveauté ne réside, par rapport à 

un plan comme celui d’une partie de la commune de Fleury-sur-Orne en Normandie 

en 1477 réalisé pour l’abbaye St-Etienne de Caen, que dans l’application de méthodes 

rigoureuses de relevé topographique 58 . Le cadastre rural, en tant que forme de 

représentation géographique, existe en effet à cette époque. 

En milieu urbain, la cartographie du parcellaire à visée cadastrale, c’est-à-dire 

associant au polygone d’une parcelle une information sur son propriétaire, et donc 

à ne pas confondre avec les représentations simplement parcellaires du type du plan 

d’Imola, est semble-t-il un peu plus tardive, probablement du fait de la difficulté 

technique. Il existe une tradition de cartographie des seigneuries du sol en milieu


urbain qui suit jusqu’au XVII e siècle des méthodes diverses, ainsi pour la censive 

de St-Merri à Paris, dessinée avant 1572 selon la méthode employée pour le plan 

de Lelieur à Rouen quelques décennies auparavant 59 . A Lyon se développe dans le 

courant du XVII e siècle l’habitude, pour les grands seigneurs fonciers, de constituer 

des plans dits «terristes», d’une faible qualité topographique, indiquant pour chaque 

parcelle le propriétaire et parfois la succession des propriétaires 60 , pratique comparable 

au premier cadastre de Genève, le plan Deharsu, de 1696 61 . 

Certaines magistratures urbaines, probablement peu nombreuses en France, plus 

en Italie, produisent assez tôt une abondante cartographie couvrant des quartiers ou 

des îlots, ainsi Naples 62 . Ces pratiques aboutissent à l’établissement dans le courant 

du XVIII e siècle de cartes et de plans parcellaires précis, parfois sous la forme d’atlas 

étendus au domaine concerné, et portant des numéros renvoyant à une entrée dans 

un registre. Les plans représentent en général les bâtiments en plus des parcelles 63 . Le 

plan parcellaire général de Toulouse et ses environs, établi en 1680 et d’une bonne 

qualité géométrique, est certainement l’un des plus anciens plans cadastraux subsistants 

pour une grande ville 64 . On peut aussi citer le plan de la ville de Linköping en 

Suède en 1696 65 , de la seigneurie de La Chapelle près de Paris, établi en 1704 par 

Jean Berthier 66 ou celui de Pest en 1710, en Hongrie, qui ne comporte que les limites 

parcellaires 67 . Plusieurs atlas de censives sont ensuite élaborés à Lyon à partir de la 

documentation notariale accumulée, de levés anciens et nouveaux. Ces documents, 

dont on trouve de nombreux exemples comparables dans les villes françaises à la même 

époque, sont maintenant qualifiés de pré-cadastraux. Ces relevés des propriétés foncières 

d’un établissement religieux ou d’une seigneurie peuvent aller jusqu’au détail 

des structures architecturales et des façades, ainsi pour la Commenda di S. Jacopo in 

Campo Corbolino, en 1729 à Florence 68 , et, de façon plus générale, dans les «Libri 

delle case» de nombreuses institutions religieuses et hospitalières italiennes. 

Le premier Etat important à entreprendre la réalisation d’un plan cadastral sur 

l’ensemble de son territoire, selon les techniques ainsi développées à l’échelle de seigneuries 

religieuses ou laïques, est le royaume de Piémont-Sardaigne de 1728 à 1737 

(cette cartographie est connue sous le nom de «Mappe sarde») 69 . Cette entreprise succède 

à l’établissement d’un cadastre du territoire genevois, de bonne qualité topographique, 

dans les années 1710 70 , commencé avant le relevé établi par Micheli du Crest 

en 1717, suivi par le levé de Genève par Billon en 1726, avec un niveau de détail 

inégalé jusque là pour une ville. Le plan Billon, en effet, est assorti d’une matrice renseignant 

sur les propriétaires, c’est donc aussi un plan cadastral, qui servira comme 

tel jusqu’à l’établissement d’un cadastre nouveau en 1808. L’entreprise genevoise a 

eu une influence décisive sur le relevé piémontais, de même que sur l’établissement 

du cadastre milanais 71 . L’expérience piémontaise est probablement aussi nourrie du 

cadastre Milanais, dont le relevé parcellaire est élaboré par Filippini entre 1720 et 

1722 72 . Le plan cadastral proprement dit de Milan n’est achevé qu’en 1751.


Les cadastres genevois puis piémontais sont contemporain de la cartographie de 

même objectif mise en oeuvre par le canton suisse de Fribourg, pour le principal, 

semble-t-il, vers 1741-1745, avec des relevés plus anciens comme celui de la petite 

ville de Bulle en 1722 par Chollet ou celui de Corbières en 1735 73 . Le fait que sur le 

plan de Berne en 1716 soient aussi portées les limites parcellaires provient peut-être 

de l’utilisation de documents de nature cadastrale, dans un contexte proche de celui 

des cantons voisins de Fribourg et Genève 74 . Ces documents antérieurs à la Mappe 

sarde montrent que la compréhension de l’élaboration des premiers cadastres étendus 

à l’ensemble d’un territoire doit prendre en compte non seulement le royaume 

de Piémont-Sardaigne, dont le rôle a certes été important, mais aussi les états de 

Milan et surtout les cantons suisses de Genève, Fribourg, Berne, dont le rôle apparaît 

manifeste, voire initiateur du mouvement, mais reste à préciser. 

Un cas tout à fait particulier, dans la représentation du parcellaire, est celui du 

plan de Londres par Ogilby et Morgan en 1676, déjà évoqué. Il figure en effet les 

bâtiments et les limites parcellaires. Aucune matrice n’y est cependant attachée, il n’a 

donc pas de vocation cadastrale ou fiscale. On peut probablement expliquer la nature 

de ce plan par les circonstances de son élaboration. Hollar avait commencé un plan 

axonométrique très précis de Londres, dont une partie est publiée en 1658. Il publie 

en 1667 un plan général de la ville où, selon les levés de John Leake, la partie détruite 

par le grand incendie de 1666 est représentée en parfait géométral et la partie non 

détruite en axonométrie. Un intense travail de levé des structures architecturales fut 

probablement effectué après le dégagement des ruines, de façon à ce que chaque propriétaire 

ne soit pas lésé, et pour déterminer l’alignement des façades à reconstruire 

le long des rues, réglementé dans le cadre de la reconstruction pour une centaine de 

rues. Ogilby pourrait avoir tiré profit de ce travail et, le doute n’est ici pas permis, de 

l’état de dégagement de la ville 75 . On ne peut exclure que son projet était de dessiner 

un plan en axonométrie, mais l’importance du travail l’en aura dissuadé. Le parcellaire 

du plan publié serait ainsi le fruit d’un levé préparatoire pour un plan en axonométrie, 

un travail qui n’était pas destiné à être montré, et qui serait ainsi apparu faute 

de moyens pour aller plus avant dans la représentation. Cet état d’incomplétude 

expliquerait le fait que le plan figure le parcellaire, mais qu’il n’ait eu aucune suite de 

ce point de vue. Il s’agirait en fait du support technique pour un plan de nature traditionnelle, 

figurant la troisième dimension, semble-t-il prévue dans la commande 76 . 

Il faut ajouter que nombre d’édifices majeurs de la ville n’avaient au moment de 

l’établissement du plan pas encore été reconstruits, réduisant de ce fait fortement 

l’intérêt d’une représentation axonométrique. Le plan tel que réalisé laisse à penser, à 

sa lecture immédiate, que la reconstruction de Londres était plus avancée, du moins 

pour les édifices publics et religieux, que ce n’était réellement le cas en 1676. 

Le plan de Delagrive pour différents quartiers de Paris, comme l’île de la Cité, publié 

en 1754, est un géométral qui représente les édifices majeurs coupés ou en masses,


mais aussi le bâti et le parcellaire, sans que ce dernier ait une vocation cadastrale 77 . Ce 

plan et celui de St-Pétersbourg par Truskott en 1753 sont vraisemblablement inspirés 

du plan d’Ogilby et Morgan pour Londres. En effet, Delagrive était membre de la 

Royal Society de Londres, et Truskott d’une évidente origine anglaise 78 . 

Un cas particulier, les plans d’alignement 

A vrai dire, l’examen des plans d’alignement, dont la fonction est de déterminer 

l’emplacement des façades des immeubles à construire ou reconstruire, ne devrait 

pas figurer dans cette étude, puisqu’il s’agit en fait de plans relatifs à des projets. 

Cependant, leur histoire nous donne l’une des clés de compréhension du phénomène 

bien connu de l’absence de plans civils uniquement géométraux de bonne qualité, 

pour la plupart des villes avant le XVIII e siècle. 

S’il est impossible en l’état de la documentation publiée et du fait de l’éparpillement 

des plans dans les fonds d’archives, souvent municipaux, de faire un état 

général de la question de l’emploi et de l’élaboration de plans destinés à fixer les alignements 

dans les villes, nous disposons de quelques indices. Plutôt que d’aborder ce 

domaine sous l’angle d’alignements de détail, dont on a des traces administratives dès 

le XIII e siècle et cartographiques dès le XVI e siècle, et qui deviennent très courants, 

sous la forme de plans concernant une rue précise, au XVIII e siècle, c’est sous l’aspect 

des plans généraux d’alignement que la question doit être examinée. Leur apparition 

implique en effet une vision d’ensemble et cartographiée de comment régulariser le 

réseau des rues d’une ville. 

Le plus ancien document dont j’ai connaissance, portant disposition d’ensemble et 

de détail des largeurs à donner aux rues d’une ville est l’«Allignement général de la ville 

de Lyon», approuvé le 31 décembre 1680 79 . Ce document précise avec un grand détail, 

au pouce près (2,5 cm), notamment pour les angles des rues, les alignements à donner 

et les places et rues nouvelles à créer. Il s’agit donc d’un document d’une nature tout à 

fait topographique, pourtant, il n’est pas assorti d’un plan, ni même ne fait référence 

à un plan. Il est cependant possible d’en faire une cartographie avec précision, en se 

servant des édifices et des plans anciens de la ville. Les immeubles postérieurs à 1680 

montrent qu’il a été appliqué pendant plusieurs décennies avec une grande rigueur. 

Près d’un demi siècle plus tard, Micheli du Crest prévoyait que le levé de Genève par 

Billon devait figurer les alignements à respecter pour les constructions nouvelles dans 

la ville, mais l’administration genevoise ne retint pas son projet 80 . De même, il semble 

que le plan d’Ogilby et Morgan pour Londres ait aussi été envisagé pour fixer les alignements, 

mais qu’il n’ait pas en fait été utilisé dans ce but 81 . 

On est ainsi face à un paradoxe: à Lyon, on applique avec beaucoup de précocité 

un plan d’alignement qui n’a jamais été dessiné, et à Londres et Genève, on dispose 

tôt d’un document d’une grande qualité topographique, couvrant toute la ville, sans 

s’en servir pour décider des alignements. Ce paradoxe, en fait, n’est qu’apparent, si


l’on prend en compte la pratique des alignements telle qu’elle se présente généralement 

à la même époque. En effet, l’alignement est de façon générale déterminé et 

donné sur le terrain. Les techniciens et administrateurs de la voirie jugent in situ de 

l’éventuel recul (plus rarement de l’avancée) à donner à la façade pour des raisons 

d’esthétique, de fonctionnalité ou de respect du domaine public. Nul besoin d’un 

plan de référence pour ce faire, donc, jusque dans la première moitié du XVIII e siècle. 

Ce type de document, y compris à Lyon, apparaît vers le milieu du XVIII e siècle, 

pour d’abord à chaque fois une rue, puis de plus en plus souvent pour une ville 

entière, comme en Bretagne, où le plan Touros fait en 1743 le récolement des plans 

par rue établis en 1741-1742 pour Nantes 82 , ou à Limoges en 1768 83 . Le relevé de 

Strasbourg par Blondel en 1766 est l’un des premiers plans généraux d’alignement 

pour une ville. Il figure le parcellaire, le bâti et les alignements à respecter pour toute 

construction nouvelle ou reconstruction de façade. Il est accompagné d’une matrice 

des propriétaires 84 . Mais il ne fut pratiquement pas mis en application. Le plan d’alignement 

sera rendu obligatoire pour les villes en France par une loi en 1806. 

Dans l’alignement général de Lyon, on indique aussi des rues nouvelles à percer. 

Il est probable que, si elles avaient été réalisées, des plans de détails auraient été 

produits. Le document nous montre toutefois qu’on pouvait à cette époque parfaitement 

concevoir un aménagement urbain d’une certaine importance sans document 

graphique, dans la même perception de l’espace de la ville et de sa mise au point que 

pour les autorisations de construire. 

Un autre aspect particulier : les restitutions historiques 

Les restitutions historiques des états passés des villes constituent un autre domaine 

dans lequel la documentation des XVI e -XVIII e siècle n’est pas absente. Mais, 

là encore, il n’a pas fait l’objet d’une recherche systématique et semble ne pas apparaître, 

en tant que tel, dans la bibliographie. Je ne tenterai donc pas ici de faire une 

synthèse, mais simplement de faire état de quelques documents. 

Le souci de restituer l’espace disparu des villes a laissé déjà au XVI e siècle des 

traces. Le plan de Strasbourg à l’époque romaine, établi par Specklin en 1576, en 

est un témoignage 85 . Les restitutions portant sur Amsterdam forment un ensemble 

exceptionnel pour le XVII e siècle : plan de la ville en 1220 par Van Hartogvelt établi 

en 1613, plan en 1342 par De Ram (qui contredit le précédent) dans le courant du 

siècle, plan en 1482 publié en 1663 86 . 

La documentation semble ensuite être plus importante et participer d’un mouvement 

généralisé de cartographie historique fondée sur l’établissement selon un même 

choix graphique et une même géométrie de plans correspondant à des états passés. 

De La Mare publie en 1705 une série de huit plans présentant des états de Paris 

généralement choisis en fonction de la date de réalisation des anciennes enceintes 87 . 

Nolli, outre son célèbre plan de Rome, a redessiné selon les mêmes codes graphiques


le plan de Bufalini de 1551. Il n’en a cependant pas corrigé la géométrie, ce qui 

ne permet pas de le superposer au relevé de 1748 88 . Striedbeck, vers 1761, publie 

en marge d’une grande vue de Strasbourg cinq restitutions d’états passés, dénommés 

incrementa urbis 89 . Un tel document, probablement dans la tradition érudite de 

Specklin, témoigne d’une importante recherche dans les archives et la bibliographie, 

et de constatations de terrain. Les travaux de Moithey sur Paris, Orléans, Reims, 

Angers et Lyon, entre 1774 et 1786 90 , puis ceux de Rondeaux de Sétry sur Rouen, 

vers 1790, sont d’une même nature 91 . 

Pour conclure 

Les éléments ici réunis conduisent à remettre en question la vision répandue 

selon laquelle les plans de ville dans l’Europe moderne sont d’une piètre qualité topographique, 

car visant principalement à donner une représentation visuelle, avant 

le XVIII e siècle, quand les plans purement géométraux se généralisent (à l’exception 

de quelques documents remarquables comme le plan d’Imola par Léonard de Vinci, 

commenté à l’occasion comme «précurseur sans suite»). 

L’examen de la documentation disponible montre à l’évidence que cette vision 

un peu romantique, encore attachée à une conception de la Renaissance comme 

moment unique et inégalable, est fausse. La diffusion du relevé géométral rigoureux 

a été rapide, d’abord dans les milieux militaires, puis, peut-être en même temps, dans 

l’élaboration de représentations axonométriques répondant au goût du public et des 

commanditaires, en particulier pour les plans publiés. La représentation axonométrique, 

dont l’apogée est à situer dans la seconde moitié du XVII e siècle (mais bien 

plus tôt dans les Pays-Bas), exige un travail de relevé considérable, comparable à celui 

des plans-reliefs qui prennent leur essor – ce n’est pas un hasard, les techniques des 

uns étant directement transposables aux seconds – dans cette même seconde moitié 

du XVII e siècle. Le levé géométral est aussi dès le XVI e siècle utilisé pour des espaces 

ruraux, conduisant petit à petit à des plans cadastraux portant sur les villes et l’ensemble 

d’un territoire. De même, le relevé géométral rigoureux se manifeste dans le 

relevé d’architecture déjà à la fin du XV e siècle en Italie, sans discontinuité ensuite. 

On est donc en présence de trois contextes d’utilisation de la cartographie, partageant 

les techniques mais aux finalités, donc aux contextes sociaux, très différents: 

usage militaire du géométral et du plan relief dès l’invention de la triangulation; 

usage civil de représentation requérant un niveau de détail très fin d’où la présence de 

dessins en axonométrie du bâti puis de plans d’édifices, apparu au plus tard quelques 

décennies après l’invention de la triangulation; émergence de l’utilité administrative 

et fiscale dans les cadastres puis les documents pour l’urbanisme surtout à partir du 

début du XVIII e siècle. 

La façon de penser l’aménagement de l’espace urbain est fondée jusque dans le 

courant du XVIII e siècle principalement sur une appréhension directe de la réalité


concrète, sans la médiation d’un document graphique. Ce dernier n’est utile avant le 

XVIII e siècle qu’à la mise au point technique de la réalisation, sauf dans les cas d’extensions 

importantes ou de villes nouvelles, pour lesquels la cartographie des projets, 

comme pour les réalisations militaires, s’avère dès le XVI e siècle nécessaire. C’est dans 

ce rapport à l’espace que réside le succès, à nos yeux surprenant du fait de nos actuelles 

habitudes mentales, des représentations urbaines en perspective et en axonométrie 

jusqu’au début du XVIII e siècle, sur lesquelles dans un second temps seuls les édifices 

importants sont représentés, avec le paradoxe que cette cartographie nécessite, dans 

ses réalisations les plus achevées, un relevé topographique extrêmement précis, et que 

ce relevé n’est pas directement lisible sur les plans. 

Ce paradoxe explique certainement que certains historiens des plans de villes 

n’ont pas reconnu derrière les plans axonométriques l’immense travail planimétrique 

réalisé, ne retenant que l’apparence non géométrale des documents, et ont été de ce 

fait conduits à parler des plans géométraux du XVIII e siècle comme des premiers qui 

aient été corrects géométriquement. 

Cette évolution de la représentation des villes ne s’est pas faite sans hésitations. 

Ainsi, la représentation en perspective ou en axonométrie, portant sur l’ensemble des 

édifices, n’oblige pas en général à représenter les plus importants d’entre eux d’une 

façon particulière. Les premiers purement plans géométraux destinés au public, par 

exemple ceux de Gomboust en France, conservent donc pour cette raison la représentation 

axonométrique pour les principaux édifices. Dans un troisième temps, on 

remplace ce mode de représentation par le plan coupé qui conserve à ces édifices 

publics et religieux une dignité supérieure à la construction commune. Ce passage 

au plan coupé, comme souvent à celui d’une simple représentation selon une trame 

plus foncée, s’accompagne en général de la mise en place de dessins détaillés des 

principaux édifices autour des plans, sous la forme de vignettes 92 . 

Une autre hésitation est perceptible dans le niveau de détail retenu pour les représentations. 

Les plans de Parme en 1589-1592 et de Gênes en 1656 montrent 

une tendance à représenter la ville dans tout son détail planimétrique, tendance qui 

trouve son expression la plus poussée dans le plan Billon à Genève en 1726. En parallèle, 

le détail et la qualité des plans axonométriques sont de plus en plus précis. Dans 

les deux cas, le travail exigé des techniciens est aussi de plus en plus considérable, sans 

que son utilité technique soit plus grande. Dans le cas de Londres, Hollar n’a pu venir 

à bout de son entreprise lancée peu avant l’incendie de 1666. L’adoption du plan 

géométral en masses pour les îlots et le bâti, et un peu plus tard aussi pour les édifices 

majeurs, est l’expression directe de l’adoption d’un principe simplificateur sans lequel 

la cartographie urbaine ne pouvait concerner, au plus haut niveau qualitatif, que 

les villes les plus grandes et les plus riches, dans lesquelles un marché pouvait exister 

pour ce type de produit éditorial. On sait cependant que même dans de telles villes, 

les entreprises de cartographie privées étaient souvent menacées d’échec économique


(Ogilby et Morgan à Londres en 1676, Séraucourt à Lyon en 1735, Nolli à Rome 

en 1748, etc.). 

Cet essai n’a pas pu envisager la question des lieux de formation et de diffusion 

des techniques et des cartographes urbains. Là encore, quelques lignes de force apparaissent 

ou sont bien connues, qu’il peut être utile de rappeler ou de souligner. Le 

relevé triangulé naît en Italie dans la deuxième moitié du XV e siècle et s’y développe 

fortement dans le monde militaire au siècle suivant. C’est cependant dans le nord 

de l’Europe, et principalement dans les Pays-Bas, que la technique est portée à sa 

perfection, en y ajoutant la vue en axonométrie des édifices. On a évoqué les magnifiques 

plans d’Amsterdam au XVI-XVII e siècles, élaborés selon une technique qu’on 

retrouve à Londres et dans le plan de Madrid par Teixeira 1656. Elle est déjà bien 

présente dans celui de Florence de 1584, plan dont Hollar produit une copie à la fin 

du XVII e siècle, avec une mise en page typique des Pays-Bas. Cette mise en page, avec 

une bande comportant le titre parcourant le haut du plan et des bandes latérales destinées 

aux didascalies ou à des vignettes sur les autres côtés, se retrouve dans les plans 

de Lyon par Maupin en 1659 93 , de Madrid de 1761 et 1769, de même que dans 

celui de Ughi pour Venise en 1729. Elle est le témoignage de la forte influence de la 

cartographie urbaine pratiquée aux Pays-Bas. Les développements de la cartographie 

géométrale du XVIII e siècle, et surtout sa diffusion au monde civil, ont une autre origine, 

à chercher dans le milieu des ingénieurs militaires, principalement français, au 

service de Louis XIV, dont les techniques sont reprises à Genève et ailleurs en Suisse, 

développées en Italie du nord à l’occasion des premiers cadastres, puis généralisées 

par les ingénieurs des Ponts et Chaussées en France dans la seconde moitié du XVIII e 

siècle. Une belle illustration de ces milieux de formation est le plan de St-Petersbourg 

publié en 1753 par l’Académie Impériale des Sciences. Il est parfaitement géométral 

et comporte l’indication du parcellaire sans être cadastral puisqu’il ne comporte pas 

d’indices 94 . Il est le fruit de la formation donnée à l’académie par Joseph Nicolas 

Delisle, français appelé par Pierre 1 er pour diriger le département de géographie, et 

du travail d’Ivan Fomich Truskott, d’ascendance anglaise. 

L’histoire de tous ces modes de relevé ne s’est pas terminée au milieu du XVIII e 

siècle. Si le plan géométral a dominé ensuite complètement les domaines techniques 

de la gestion des villes, de l’urbanisme, des impôts, des réseaux, il n’en a pas été de 

même pour les plans touristiques. Ces derniers, selon les villes, et parfois pour une 

même ville, adoptent au XX e et XXI e siècles toutes les solutions précédemment décrites, 

du plan géométral le plus parfait à la représentation en axonométrie, en passant 

par la seule axonométrie des édifices publics et religieux. Seule la représentation complète 

en plan coupé est de nos jours absente de ce domaine. 

L’histoire de l’art et la recherche des origines des modes actuels de représentation 

des villes ne peuvent suffire à comprendre la cartographie urbaine de l’époque moderne, 

dont le sommet est constitué par ces plans axonométriques, fruits d’un travail


considérable, travail uniquement «artistique» aux yeux du XXI e siècle et pourtant 

indispensable pour un esprit de cet époque, tendant à représenter la réalité le mieux 

possible, en même temps de façon mathématique, totale, tout en restituant la vision 

naturelle. Aux yeux d’un «moderne» flamand, nul doute que le simple géométral 

n’était qu’un expédient peu coûteux, utile à divers usages techniques, mais indigne 

de l’exigence de représentation de l’espace urbain. 

Bernard Gauthiez 

1 Voir notamment les ouvrages généraux: L. NUTI, Ritratti di città, visione e memoria tra Medioevo e 

Settecento, Venezia, Marsilio, 1996; M. DOCCI-D. MAESTRI, Storia del rilevamento architettonico e urbano, 

Roma-Bari, Laterza, 1993; J. ELLIOT, The city in Maps. Urban mapping to 1900, Londres, The British 

Library, 1987; Cartes et figures de la terre, ouvrage collectif, Paris, Centre Georges Pompidou, 1980. 

2 La remarque de Harvey sur le fait que nous ne connaissons qu’une partie des cartes existantes dans les 

archives pour le Moyen Âge peut sans hésitation être étendue au XVI e siècle. La production pour les XVII e 

et XVIII e siècles est probablement mieux connue, du moins pour les plans publiés, P.D.A. HARVEY, The history 

of topographical maps, symbols, pictures and surveys, Londres, Thames and Hudson, 1980, pp. 84-85. 

3 L. VAGNETTI, La ‘descriptio urbis romae’ di L.B. Alberti, «Quaderno dell’Istituto di Elementi di Architettura 

e Rilievo dei Monumenti dell’Università di Genova», I, ottobre 1968; Leonis Baptistae Alberti 

Description Urbis Romae, éd. J.-Y. Boriaud-F. Furlan, Firenze, Leo S. Olschki, 2005; B. QUEYSANNE, Alberti 

et Raphaël, Descriptio urbis Romae ou comment faire le portrait de Rome, Paris, Editions de la Villette, 

2002, p. 33. Le « plan » d’Alberti, connu uniquement par les coordonnées de faits topographiques, est 

en fait uniquement constitué de la détermination de la géométrie dans l’espace d’un ensemble de points 

remarquables. La détermination de ces points procède encore de la vision de la ville au XV e siècle, à 

savoir des édifices dans un continuum sans existence réelle, tout en introduisant la grande nouveauté 

que constitue la triangulation. Notons, dans les tentatives de restitution graphique du travail d’Alberti 

présentes chez certains des auteurs cités ci-dessus, une erreur de quelques degrés dans la superposition 

au plan actuel de la ville, due à la confusion entre nord magnétique et nord géographique? 

4 M. DOCCI-D. MAESTRI, Storia del rilevamento, cit., pp. 104-107; L. VAGNETTI, Mieux vaut voir 

que courir, in Cartes et figures de la terre, cit., p. 247; F. MANCINI, Urbanistica rinascimentale a Imola da 

Girolamo Riario a Leonardo da Vinci (1474-1502), 2 voll., Imola, Grafiche Galeati, 1979. Voir aussi J. 

BOUTIER, L’affirmation de la cartographie urbaine à grande échelle dans l’Europe de la Renaissance, in Per 

un atlante storico del Mezzogiorno e della Sicilia in età moderna. Omaggio a Bernard Lepetit, a cura di E. 

Iachello-B. Salvemini, Napoli, Liguori, 1997, p. 112. 

5 P.D.A. HARVEY, The history of topographical maps, cit., p. 73. 

6 J. BOUTIER, L’affirmation de la cartographie urbaine, cit., p. 123. 

7 BIBLIOTHÈQUE MUNICIPALE DE ROUEN (BMR). Son étude détaillée n’a à ce jour pas été faite. Facsimilés: 

V. SAMSON, Le livre des fontaines de Rouen, Rouen, 1911; Le livre des fontaines, ou livre enchaîné, 

Bonsecours, Editions Point de vues, 2005. 

8 C. DE SETA, Napoli fra Rinascimento e Illuminismo, Napoli, Electa, 1997, pp. 20-21; E. POLEGGI-P. 

CEVINI, Genova, Roma-Bari, Laterza, 1981, p. 77. 

9 J. SCHULTZ, Jacopo de Barbari’s view of Venice: map making, city views and moralized geography before 

the year 1500, «Art Bulletin», LX, 1978, pp. 425-474; G. BELLAVITIS, in G. BELLAVITIS-G. ROMANELLI, 

Venezia, Roma-Bari, Laterza, 1985, p. 72. 

10 Original au Musée de Nuremberg, voir J.-P. KINTZ, De l’humanisme à la Réforme, in Atlas historique 

des villes de France, Strasbourg, dir. J.-L. Pinol, Paris, CCCB/Hachette, 1996, p. 127. Ce type de vue 

devrait faire l’objet d’un recensement systématique. On peut mentionner la vue de Rottweil par Rölin en


1564, aux Archives de la ville, ou la vue de Dresde du haut de la Frauenkirsche, en 1824 par Richter, SÄCH- 

SISCHE LANDES UND UNIVERSITÄTS-BIBLIOTHEK, Dresde. Un exemple précoce et imparfait techniquement 

est le plan de la ville de Mexico dans H. CORTÈS, Segunda carta de relacion, Nuremberg, 1524. 

11 C. DE SETA Introduzione, in L’Europa moderna. Cartografia urbana e vedutismo, a cura di C. De 

Seta e D. Stroffolino, Napoli, Electa, 2001, p. 24. 

12 La confusion semble cependant être assez fréquente, voir par exemple J. BOUTIER, La cartographie 

urbaine à l’époque des Lumières, in De l’esprit des villes, Nancy et l’Europe urbaine au siècle des Lumières 

1720-1770, dir. A. Gady et J.-M. Pérouse de Montclos, Versailles, Artlys, 2005, p. 131. 

13 P.D.A. HARVEY, Maps in Tudor England, Londres, The public record office and the British Library, 

1993, p. 16, en parle en ces mots à propos du plan de Cambridge en 1574: «at first sight a bird’s eye 

view, but in fact a conventional map, to consistent scale, with pictures superimposed on it». 

14 A. PICON-J.P. ROBERT, Le dessus des cartes, un atlas parisien, Paris, Picard/Editions du pavillon de 

l’arsenal, p. 29. 

15 D. FOUSSARD, Trois interventions des ingénieurs militaires italiens au service de l’Espagne dans les 

anciens Pays-Bas méridionaux: Cambrai, Gravelines, Anvers, «De Franse Nederlanden-Les Pays-Bas Français», 

16, 1991, pp. 169-171. 

16 J. ELLIOT, The city in maps, urban mapping to 1900, cit., p. 18. 

17 e C. RUELENS, Atlas des villes de Belgique au XVI siècle. Cent plans du géographe Jacques de Deventer exécutés 

sur les ordres de Charles Quint et de Philippe II, Bruxelles, Institut national de géographie, 1884-1924. 

18 C. VAN DER HOEVEN-J. LOUWE, Amsterdam als stedelijk bouwerk, een morfologische analyse, Amsterdam, 

SUN, 1985, pp. 27-32. 

19 F. BARKER-P. JACKSON, The history of London in maps, Londres, Barrie and Jenkins, 1990, pp. 30 et 

34-35. Hollar a aussi gravé un plan de Florence, M. DOCCI-D. MAESTRI, Storia del rilevamento, cit., p. 

176. Ce plan, daté de vers 1700, est très certainement plus ancien du fait de l’âge de son auteur. 

20 A. PICON-J. P. ROBERT, Le dessus des cartes, cit., pp. 68-71. 

21 J. ELLIOT, The city in maps, cit., p. 47. 

22 

MUSÉE DES ARCHIVES NATIONALES, Paris, A. SARTELET, Charleville au temps des Gonzague, portrait 

d’une cité ducale 1606-1708, Charleville-Mézières, Editions des musées de la ville, 1997, pp. 28-29. Ce 

plan a de grandes similitudes avec un document en deux dimensions, le plan de Richelieu en cours de 

construction par Jean Barbet en 1634, H. W. KRUFT, Städte in Utopia, die Idealstadt vom 15. bis zum 18 

Jahrhundert, Münich, C.H. Beck, 1989, fig. 84. 

23 N. FAUCHERRE, La construction de la frontière, dans Les plans en relief des places du roy, dir. A. De Roux- 

N. Faucherre-G. Monsaingeon, Paris, Adam Biro, 1989, pp. 18, 22 ss. Voir aussi dans le même ouvrage la 

«Note relative à l’exécution des plans en reliefs» rédigée par Guislin-Joseph Gengembre en 1809, p. 152. 

24 M. DOCCI-D. MAESTRI, Storia del rilevamento, cit., p. 107; J. BOUTIER, L’affirmation de la cartographie 

urbaine, cit., p. 112. 

25 E. GUIDONI-A. MARINO, Storia dell’urbanistica, il Cinquecento, Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 267. 

26 

BIBLIOTHÈQUE MUNICIPALE DE GRENOBLE, Cd 751. Ce plan indique de plus les édifices religieux 

en blanc, comme les voies. 

27 E. GUIDONI-A. MARINO, Storia dell’urbanistica, il Cinquecento, cit., p. 449. 

28 P.D.A. HARVEY, Maps in Tudor England, cit., p. 72. 

29 M. DOCCI-D. MAESTRI, Storia del rilevamento, cit., p. 154. 

30 A. PICON-J.P. ROBERT, Le dessus des cartes, cit., p. 61. 

31 M. CULOT-E. HENNAUT-M. DEMANET-C. MIEROP, Le bombardement de Bruxelles par Louis XIV 

et la reconstruction qui s’en suivit 1695-1700, Bruxelles, AAM, 1992, p. 86; G. FANELLI, Firenze, Roma- 

Bari, Laterza, 1980, p. 147. Sur les plans hollandais où les édifices majeurs sont conservés en axonométrie, 

les navires présents dans les ports sont représentés de la même manière. 

32 F. LIMBACH, Die Schöne Stadt Bern, Berne, Benteli, 1988 (1ère éd.1978), p. 35. Ce plan indique 

aussi avec détail le cours des fontaines dans la ville. Les fontaines sont parfois l’unique objet de représentation 

sur un plan, ainsi à Freiburg-im-Breisgau en 1732, H. HAUMANN-H. SCHADEK, Geschichte der 

Stadt Freiburg im Breisgau, Band 1, von dem Anfängen bis zum ‘Neuen Stadtrecht’ von 1520, Stuttgart, 

Theiss, 1996, pp. 490-491.


33 P. PINON-B. LE BOUDEC, Les plans de Paris, histoire d’une capitale, Paris, Atelier parisien d’urbanisme/Bibliothèque 

nationale de France/Le Passage/Paris Bibliothèques, 2004, pp. 48-49. Son examen 

détaillé montre que ce plan n’est pas dessiné selon la même topographie que celui de Gomboust, contrairement 

à ce qu’écrivent les auteurs. 

34 G. FANELLI, Firenze, cit., p. 138. 


36 Il est difficile de partager le jugement de M. DOCCI et D. MAESTRI, Storia del rilevamento, cit., p. 

185, lorsqu’ils écrivent que le plan de Ughi «est une des premières cartes zénithales urbaines». L’ample 

production militaire précédente atteste du contraire. 

37 Forma urbis, cit., planche 9.1. 

38 F. BARKER-P. JACKSON, The history of London in maps, cit., pp. 54-65. Rocque a d’ailleurs édité en 

Angleterre le plan de Lyon par Séraucourt (Forma Urbis, cit., pl. 9.2.), Il s’en est visiblement inspiré 

pour son propre plan de Londres, cependant plus détaillé. 

39 I. INSOLERA, Roma, Roma-Bari, Laterza, 1980, pp. 112-124. 

40 F. MIANI ULUHOGIAN, Le immagini di una città: Parma (secoli XV-XIX), Parma, Casanova, 1984, 

pp. 29-31, plan n° 18. 

41 L. GAMBI-M.C. GOZZOLI, Milano, Roma-Bari, Laterza, 1982, pp. 80-85. 

42 Par G.B. Garrè, Stefano Scaniglia, Pietro Antonio Corradi, Gio. Battista Bianco, Antonio Torriglia, 

Gio. Battista Ghiso, Gio. Battista Storasio et Gio. Battista Torriglia. Il fut redessiné en 1786 par Brusco, 

mais sans retenir le plan coupé des principaux édifices, E. POLEGGI-P. CEVINI, Genova, cit., figs. 75 et 78. 

43 F. BARKER-P. JACKSON, The history of London in maps, cit., pp. 38-41. Ogilby et Morgan se placent 

dans une tradition de relevé architectural dont témoignent les relevés de Treswell évoqués supra et celui 

de la cathédrale St-Paul par Hollar en 1657, J. SCHOFIELD, The building of London from the Conquest to 

the Great Fire, Londres, British Museum/Museum of London, 1993 (1ère éd. 1984), p. 42. 

44 Plan anonyme, ARCHIVES DÉPARTEMENTALES DE LA SEINE-MARITIME (ADSM), Cartes et Plans n° 34. 

45 Publié dans P. PINON, Alignements, percées et lotissements en France au XVIII e siècle, in De l’esprit 

des villes, cit., p. 163. 

46 A. PICON-J.P. ROBERT, Le dessus des cartes, cit., pp. 88-89. 

47 M. BEVILACQUA, Città italiane del Settecento: percorsi cartografici, «Mélanges de l’École Française 

de Rome, Italie et Méditerranée», 116, 2004, pp. 349-388. 

48 B. LESCAZE et al., Plan Billon 1726, 2 voll., Genève, Société auxiliaire des Archives d’Etat de 

Genève, 1987. Bien qu’ayant été produit en version réduite, ce plan n’a pas été publié. Le plan par îlots 

établi par Vasserot pour Paris près d’un siècle plus tard, en 1810-1836, est d’une même nature, sans 

donc être un unicum, P. PINON-B. LE BOUDEC, Les plans de Paris, cit., pp. 88-89. D’autres documents 

voisins dans leur objectif existent certainement, à l’exemple du plan des maisons du marquisat d’Oaxaca 

dans la ville de Mexico au début du XIX e siècle, G. TOVAR DE TERESA, La ciudad de los palacios, cronica 

de un patrimonio perdido, Mexico, Vuelta, 1992, p. 73. 

49 J. SCHOFIELD, Medieval and Tudor domestic buildings in the City of London, in Medieval art, architecture 

and archaeology in London, éd. L. Grant, Londres, The British Archaeological Association, 1990, 

p. 16, pl. II. 


51 ARCHIVES NATIONALES (AN), Paris. 

52 BIBLIOTHÈQUE NATIONALE DE FRANCE (BNF), Cabinet des Estampes, Va 438: n° 66. 

53 K. ZANDVLIET, Les livres et les murs, in Cartes et figures de la terre, cit., p. 437. 

54 P.D.A. HARVEY, Maps in Tudor England, cit., p. 88. 

55 M. SWIFT, Historical maps of Europe, Londres, PRC Publishing, 2000, p. 26. 

56 J. HEELING-H. MEYER-J. WESTRIK, Het ontwerp van de stadsplattegrond, Amsterdam, SUN, 

2002, p. 123. 

57 AN, N II Seine 217. 

58 Th. JARRY, Autour d’un plan médiéval, le plan parcellaire d’Allemagne (Fleury-sur-Orne) de 1477, 

«Histoire et sociétés rurales», 23, 1er sem. 2005, pp. 169-204. 

59 AN, N III Seine 11. Ce mode de représentation est encore attesté à Turin en 1640 pour un plan


de la paroisse S. Agostino, V. COMOLI MANDRACCI, Torino, Roma-Bari, Laterza, 1983, p. 7, et même à 

Boston, selon un dessin d’une qualité médiocre, en 1722, Mapping Boston, éd. A. Krieger-D. Cobb-A. 

Turner, Boston, The Muriel G. and Norman B. Leventhal Family Foundation, 1999, p. 175. 

60 Par exemple, aux ARCHIVES DÉPARTEMENTALES DU RHÔNE (ADR), dans les séries G et H, le prieuré 

de la Platière, l’abbaye St-Pierre, l’abbaye d’Ainay, etc. 

61 

ARCHIVES DE L’ETAT DE GENÈVE, AEG, Cadastre A 1. 

62 T. COLLETTA, Napoli. La cartografia pre-catastale, «Storia della Città», 34-35, 1985, pp. 5-178. 

63 Censives de la collégiale Ste-Irénée, de la collégiale St-Paul, de l’abbaye St-Pierre, etc., ADR 12G 

527, 13G 372, 27H 155. 

64 

ARCHIVES MUNICIPALES DE TOULOUSE. 

65 Publié par G. TAGESSON, Church and urban space, in Urban diversity, archaeology in the swedish 

province of Östergötland, éd. R. Hedvall, Stockholm, Riksantikvarieämbetets förlag, 2002, p. 97. 

66 e M. WYSS, dir., Atlas historique de Saint-Denis, des origines au XVIII siècle, Paris, Editions de la 

Maison des Sciences de l’Homme, 1996, p. 386. 

67 S.A. HOLLO, Budapest, régi térképeken, 1686-1896, Budapest, Officina Nova, 1994, pp. 12-13. 

68 G. FANELLI, Firenze, cit., pp. 166-167. 

69 Le cadastre sarde en Savoie, ouvrage collectif, Annecy, Musée savoisien, 1981. 

70 La liste des plans cadastraux établis entre 1710 et 1729 est donnée dans Y. BISHOFBERGER-A. FREI, 

Guide des chemins historiques du canton de Genève, Genève, Slatkine, 1998, p. 343. 

71 A. CORBOZ, Micheli du Crest, Polybe et Salomon: examen du projet d’extension de Genève en 1730, 

«Genava», XXVIII, Nouvelle série, 1980, pp. 163-64. La planchette de relevé, perfectionnée par Micheli, 

l’a ensuite été à nouveau par Marinoni, mathématicien de la cour, au profit du relevé cadastral 

milanais. Ivi, p. 164, n. 72. L’objection de Barbara Roth-Lochner, selon laquelle le cadastre piémontais 

ne peut avoir été influencé par les travaux genevois, ne tient pas à l’examen des plans cadastraux des 

années 1710 conservés aux ARCHIVES DE L’ETAT DE GENÈVE, cités plus haut, B. ROTH-LOCHNER, Origine 

et originalité du plan Billon, in B. LESCAZE et al., Plan Billon 1726, p. 21. Mais les influences techniques 

sont probablement croisées, en effet, le levé détaillé des structures architecturales de la citadelle et du 

château de Nice, par Baldoino vers 1660, comporte aussi des renvois aux propriétaires, Ph. GRAFF, L’exception 

urbaine: Nice de la Renaissance au Consiglio d’Ornato, Marseille, Editions Parenthèses, 2000, pp. 

38-39. Le plan Billon a pu ainsi bénéficier de pratiques en place dans le royaume piémontais. 

72 M. BEVILACQUA, Città italiane del Settecento: percorsi cartografici, cit. 

73 Il s’agit de cartographier les fiefs qui dépendent du canton pour des raisons fiscales, R. FLÜCKIGER- 

SEILER, ‘Fecit fieri muros de Boullo’. Die Stadtmauer in den Kleinstädten der Basse-Gruyère, in Stadt und 

Landmauern, Band 1, Beitrage zum Stand der Forschung, ouvrage collectif, Zurich, ETH, 1996, pp. 90, 

91, figs. 12, 14, 18. 

74 On a pu à Berne utiliser des documents relatifs à la dîme (Zehnt), R. GMÜR, Der Zehnt im alten 

Bern, Berne, Abhandlungen zum schweizerischen Recht NF 310, 1954. 

75 Après vérification, la géométrie de ce plan est beaucoup plus précise et juste que celle de celui de 

Hollar publié en 1667. Il est donc difficile de suivre complètement Joseph Konvitz lorsqu’il écrit que «la 

reconstruction de Londres se fit sans ces précieuses cartes que le gouvernement avait jugées essentielles». 

Dans le cas de l’incendie de Rennes en 1720, un plan précis des propriétés, de nature cadastrale, fut 

dressé dans le but de les remembrer pour mettre en place un plan de reconstruction régulier, ce qui ne 

put être fait à Londres, J.W. KONVITZ, Remplir la carte, in Cartes et figures de la terre, cit., pp. 305-307. 

76 Les plans axonométriques cités plus haut sont d’une qualité d’ensemble et de détail telle qu’un 

levé préparatoire rigoureux a évidemment été réalisé pour chacun d’eux. Sur la commande du plan à 

Ogilby et Morgan, voir J. ELLIOT, The city in maps, cit., p. 47. 

77 J. BOUTIER, La cartographie urbaine à l’époque des Lumières, in De l’esprit des ville, cit., p. 136. 

78 P. PINON-B. LE BOUDEC, Les plans de Paris, cit., p. 58; D. CHADYCH-D. LEBORGNE, Atlas de Paris, évolution 

d’un espace urbain, Paris, Editions Parigramme, 1999, p. 156; J. ELLIOT, The city in maps, cit., p. 55. 

79 

ARCHIVES MUNICIPALES DE LYON, AML, Registre DD 56. 

80 A. CORBOZ, Micheli du Crest, cit., p. 168; B. ROTH-LOCHNER, Origine et originalité du plan Billon, 

cit., p. 22.


81 J. ELLIOT, The city in maps, cit., p. 47. 

82 ARCHIVES MUNICIPALES DE NANTES, information Gilles Bienvenu, École Nationale Supérieure 

d’Architecture de Nantes. 

83 J.-L. HAROUEL, L’embellissement des villes. L’urbanisme français au XVIII e siècle, Paris, Picard, 1993, 

pp. 56-57 et 238-241. 

84 M.-N. HATT-DIENER, Vivre à Strasbourg à la fin de l’Ancien Régime, in Atlas historique des villes de 

France, cit., pp. 128-129. 

85 ARCHIVES MUNICIPALES DE STRASBOURG, publié dans Atlas historique des villes de France, cit., p. 125. 

86 C. VAN DER HOEVEN-J. LOUWE, Amsterdam als stedelijk bouwerk, cit., pp. 23-25. 

87 N. DE LA MARE, Traité de la police, Paris, Cot, 1705, vol. 1., plans en partie reproduits dans P. 

PINON-B. LE BOUDEC, Les plans de Paris, cit., p. 25. 

88 I. INSOLERA, Roma, cit., p. 305. 

89 J.D. SCHOEPFLIN, Alsatia illustrata, celtica, romana, francica, Colmar, Ex Typographia regia, 

1751-1761, vol. II, p. 288. 

90 J. BOUTIER-J.-Y. SARRAZIN-M. SIBILLE, Les plans de Paris, des origines (1493) à la fin du XVIII e siècle, 

carto-bibliographie et catalogue collectif, Paris, Bibliothèque Nationale de France, 2002, pp. 324-325. 

Voir aussi la riche introduction de J. Boutier. 

91 BNF, Va 76H151939. 

92 Les plans de Madrid donnent une bonne illustration de cette évolution, avec cependant un 

décalage chronologique: plan axonométrique de grande qualité en 1656 par Teixeira, plan géométral 

avec édifices majeurs en axonométrie par Chalmandrier en 1761, plan géométral avec édifices majeurs 

coupés en 1769 par Espinosa de los Monteros. En parallèle, un relevé cadastral de la ville est établi en 

1750-51, F.J. MARIN PERELLON, Madrid, in Atlas historico de ciudades europeas, Peninsula Iberica, dir. 

M. Guardia- F.J. Monclus- J.L.Oyon, Barcelone, Salvat/CCCB, 1994, pp. 36, 40 et 38; C. CAMARERO 

BULLÓN, La planimetria de Madrid y el catastro de la Villa y Corte (1749-1759), «Città e Storia», nuova 

serie, I, 2004, n. 0, pp. 39-49. La mise au net de ces plans ne fut achevée qu’en 1764. 

Certains plans isométriques et axonométriques comportent toutefois de nombreuses vignettes présentant 

de façon agrandie les édifices majeurs de la ville, comme dans les plans de Bristol évoqués plus 

haut ou dans celui de Bath en 1694 par Gilmore, Ch. WOODWARD, The building of Bath, Bath, Building 

of Bath Museum, s.d., p. 3. Il se peut donc que le constat de rareté des vignettes accompagnant les plans 

isométriques soit en partie dû à une documentation insuffisante et peut-être à une publication des plans 

ayant par commodité supprimé les bandes illustrées qui les bordaient. 

93 Forma Urbis, cit., pl. 6. 

94 On ne peut exclure cependant qu’il soit l’exploitation politique et commerciale d’un document 

plus détaillé de nature fiscale.

«Città e Storia», I, 2006, 2, pp. 377-394 ©2007 Università Roma Tre 

I CATASTI NELLA STORIA URBANA DEL GIAPPONE 

I primi catasti nel Medioevo 

La rappresentazione grafica della struttura spaziale del territorio era abbastanza 

comune già nell’epoca Kamakura (1192-1333), il Medioevo del Giappone. Fra le 

mappe realizzate in quell’epoca ne esistono alcune che potrebbero essere assimilate a 

un catasto, perché descrivono il sistema di divisione fondiaria. 

Nel periodo feudale, tra le epoche Heian (794-1192), Kamakura e Muromachi 

(1336-1573), i nobili e le autorità religiose costituivano la grande proprietà terriera, 

chiamata shoen che, per dominare e gestire le proprie vaste tenute, fece realizzare un 

tipo di mappa detta shoen-ezu 1 . Essa serviva a precisare i confini territoriali, che causavano 

spesso conflitti, e serviva anche ad indicare la distribuzione topografica delle 

terre coltivate e i possessori di ogni singolo lotto. 

Nell’epoca Muromachi comparvero numerose mappe dove sono riportati impianti 

di irrigazione e terreni agricoli. Alcune di esse, realizzate con l’effetto prospettico 

della veduta a volo d’uccello, rappresentano elementi naturali come monti, fiumi, 

foreste ed elementi architettonici, come i templi. Gli edifici sono disegnati spesso in 

modo semplificato e simbolico. 

Un buon numero di queste mappe possiede le qualità dei primi catasti: ne è un 

tipico esempio quella del Tomita-sho nell’Owari-no-Kuni (fig. 1). In un territorio 

attraversato da alcuni corsi d’acqua si può notare una struttura spaziale basata sul 

jorisei, l’antico sistema giapponese di divisione terriera a scacchiera. Questo sistema, 

simile alla centuriazione dell’antica Roma, fu utilizzato in Giappone in epoca antica 

per dividere in modo regolare i terreni coltivati, e orientò il successivo sviluppo nel 

Medioevo. Anche se all’interno di ogni quadrato si estendevano risaie, non c’è nessun 

segno che indichi la fisionomia del paesaggio, mentre i templi sono enfatizzati 

in quanto luoghi sacri. I boschetti lungo il fiume, dove potrebbe passare la linea di 

confine, sono rappresentati dettagliatamente. Si notano anche molti edifici, fra cui 

una residenza signorile, un tempio scintoista, il padiglione principale di quello buddista 

e abitazioni di contadini, tutti rappresentati in modi diversi in relazione alla 

loro importanza 2 .

378 HIDENOBU JINNAI 

Fig. 1 - Tomita-sho ezu (Mappa di 

Tomitasho), Owari-no-Kuni, 1350 ca., 

Tempio di Enkaku. 

La mappa di Suisui-sho nel Settsu-no-Kuni (fig. 2) invece è un vero e proprio 

catasto, in quanto fu realizzata per mostrare più chiaramente la delimitazione dei 

terreni. I tratti della divisione terriera secondo il sistema jorisei costituiscono chiare 

linee di riferimento, e ciascun lotto porta una numerazione. La mappa rappresenta 

anche un fiume, alberi enormi, un tempio scintoista e uno buddista.

Fig. 2 - Suisui-sho sashizu 

(Mappa di Suisuisho), 

Sogoshiryokan (Archivio) 

della Provincia di Kyoto. 

I CATASTI NELLA STORIA URBANA DEL GIAPPONE 379 

I catasti dell’area rurale nell’epoca Edo 

Una delle svolte più rilevanti della storia giapponese si riscontra tra la fine del 

XVI e l’inizio del XVII secolo. Toyotomi Hideyoshi portò a termine l’unificazione 

del paese, concludendo un’epoca turbolenta. Successivamente Tokugawa Ieyasu, riportata 

la vittoria nella battaglia di Sekigahara, assunse il potere e stabilì il bakufu, o 

shogunato, a Edo (l’antico nome di Tokyo), dando così inizio all’epoca Edo (1603- 

1867), in cui il paese godette della stabilità politica ed economica. 

Nel periodo compreso fra l’epoca Azuchi-Momoyama (1573-1603) e l’epoca Edo 

fu eseguita l’operazione di misura e perizia dei terreni in tutto il paese, finalizzata 

all’imposizione di tasse, da corrispondere principalmente in natura con il riso. 

Quest’operazione fu avviata dal regime di Toyotomi Hideyoshi partendo dalla zona 

Kinki (regione che comprende Kyoto, Osaka e dintorni) e fu poi proseguita dal regime 

Tokugawa. 

La fase più importante per lo sviluppo delle mappe giapponesi si verifica nell’epoca 

Edo. Lo shogunato Pax Tokugawa durò più di duecentosessanta anni, durante i


quali si formò in modo determinante l’identità culturale del Giappone. Nonostante 

la politica d’isolamento, nell’era Kyoho (1716-1736) tramite gli olandesi furono introdotte 

le scienze e tecnologie europee, fra cui la tecnica dell’agrimensura, che si 

diffuse nel paese sostituendosi a quella cinese, ed esercitò una notevole influenza sulla 

realizzazione di mappe 3 . 

Il centralismo del governo Tokugawa fece penetrare efficacemente le sue politiche 

all’interno di tutto il paese, il cui stato pacifico e stabile dovette molto agli han (clan 

feudali) collocati in diverse regioni. Ogni daimyo (signore feudale, capo di un han) 

governò il proprio territorio, consistente in una città con castello e dintorni di vasta 

estensione, e s’impegnò nel suo sviluppo economico-sociale. Per i daimyo la realizzazione 

di mappe che rappresentano i dettagli di terreni e di altri immobili aveva un 

ruolo decisamente importante nel dominio e nella gestione del territorio. 

Durante l’epoca Edo mappe o piante di vario tipo furono realizzate per diverse 

esigenze amministrative degli han. Nonostante in questo periodo un’espansione urbana 

si riscontrasse in diverse parti del paese, il dominio e la gestione delle aree rurali 

avevano comunque maggior importanza, in quanto l’economia nazionale si basava 

sull’attività agricola. Consideriamo prima la situazione delle aree rurali. 

Per il dominio locale del han, l’unità di base di circoscrizione si chiamava mura. 

I capi e gli ufficiali di ogni mura facevano rapporto al signore del han sulla situazione 

del mura, sottoponendogli registri e mappe del villaggio dette mura-ezu 

(mura=villaggio). I mura-ezu, documenti di base per il dominio locale, venivano 

archiviati nell’ufficio del han e utilizzati periodicamente per scopi pratici di politica, 

economia e assistenza sociale. Fra le mappe di questo genere ci sono i dempata-ezu 

(dempata=terreno agricolo), equivalenti a mappe catastali, che furono realizzate dalle 

autorità interessate a possedere i dati più importanti delle terre coltivate: la tipologia, 

la superficie e la produttività. 

Durante l’epoca Edo il bakufu e i singoli han eseguirono diverse volte la misurazione 

e la perizia dei terreni e redassero registri relativi alle terre coltivate. In particolare, 

nella seconda metà dell’epoca, oltre ai registri furono realizzati anche dempataezu 

molto dettagliati, i quali, con un metodo sistematico, mostrano la forma di ogni 

lotto di terre coltivate, le aree edificabili, e inoltre le strade, gli argini e altri elementi 

che riguardano i terreni. Nel realizzare i dempata-ezu si suddivise ogni mura in diverse 

sezioni più piccole e si preparò una mappa relativa a ciascuna sezione. Così venne 

realizzato un vero e proprio catasto dell’epoca Edo. 

Vediamo la mappa catastale di Sebata-mura nel Hagi-han (odierna prefettura di 

Yamaguchi) (fig. 3). A proposito di questo han, nonostante l’operazione di misura e 

di perizia dei terreni fosse stata eseguita tre volte dall’inizio del XVII secolo, la mappa 

fu realizzata soltanto alla metà del XVIII secolo. In questa mappa strade, fiumi, 

stagni, fossati, canali e terre incolte sono colorati, e i lotti sono numerati. Di ogni 

lotto furono verificati l’uso specifico, la superficie, la produttività e il possessore. Da

Fig. 3 - Dempata-ezu Sebata-mura 

Kojima-gun, 1762, Archivio del 

Comune (Municipio) di Hagi. 


questi dati vennero ricavate la superficie totale delle terre coltivate e la produttività 

totale relative al mura, in quanto la riscossione delle tasse era effettuata collettivamente 

da ogni mura. È da notare che le risaie sono specificate con l’indicazione di 

uno oppure due raccolti annui. Come si vede, era ritenuto importante soprattutto 

possedere informazioni riguardanti la produzione agricola dei terreni e perciò non si 

trova nessuna descrizione degli edifici. 

Nell’epoca Edo, per tanti altri obiettivi oltre a quello sopra citato, ogni han realizzò 

vari tipi di mappe delle aree rurali. Fra queste, lo shinden-ezu (shinden=nuovi 

campi di riso) è una categoria tipica di mappa catastale. Siccome l’economia dell’epoca 

si basava sulla coltivazione del riso, le autorità si impegnarono nello sviluppo 

di nuove risaie, ottenute soprattutto dalla bonifica e dalla trasformazione di zone di 

terra scoperte durante la bassa marea. Fu quindi realizzato lo shinden-ezu, che riporta 

la divisione dei nuovi terreni coltivati, il loro uso specifico e le residenze dei coloni. 

Tali mappe mostrano sempre una forma dei terreni ben ordinata, perchè i nuovi 

campi vennero divisi in modo regolare. Un esempio tipico di tali mappe è il catasto


delle nuove risaie di Tonomi-mura nel Hagi-han realizzato nel 1826 (fig. 4). Nella 

metà settentrionale si estendono risaie, mentre in quella meridionale sul mare sono 

localizzate saline, intorno a cui sono raffigurati edifici e impianti per l’estrazione del 

sale. Su ogni lotto delle risaie sono riportati la dimensione, in lunghezza e larghezza, 

e il nome del coltivatore. Le aree edificabili e i campi, tranne le risaie, sono indicati 

con lo stesso colore. 

Fig. 4 - Tonomi-mura Yatsuzaki kaisakuzu (Mappa di Tonomi-mura Yatsuzaki), 1826, Archivio della 

prefettura di Yamaguci. 

Le rappresentazioni della città di Edo 

Resta ora da esaminare la situazione della città di Edo, che divenne una megalopoli 

del Giappone. Consideriamo innanzitutto la sua struttura urbana complessiva. 

Al centro della città, sulla estremità orientale dell’altopiano di Musashi, si trova il castello. 

Nella parte piana a est si formò la città bassa, caratterizzata da numerosi fiumi


e canali, ed in essa si svilupparono le attività commerciali e produttive. Nella parte 

elevata e collinare a ovest invece si formò la città alta, di migliore qualità residenziale, 

immersa nel verde. 

Nell’epoca Edo fu istituita la gerarchia sociale dei quattro ceti: vassalli guerrieri, 

contadini, artigiani e commercianti. La città era divisa in zone differenziate per ceti e 

la competenza amministrativa era divisa per ogni ceto. Il 70% della superficie urbana 

fu destinato alla zona dei vassalli guerrieri, il 15% alla zona dei cittadini (artigiani 

e commercianti) e il 15% alla zona dei templi buddisti o scintoisti. Ad ogni zona 

fu data una collocazione appropriata, tenendo conto della varietà e ricchezza degli 

aspetti naturali e topografici. 

Nell’epoca Edo, allorché economia e società si fondavano sull’agricoltura, la maggior 

parte dei terreni del paese erano terreni agricoli, la compravendita dei quali era 

assolutamente proibita. Bisognava mantenere questo ordine, in quanto le tasse ricavate 

dai terreni agricoli erano le principali risorse finanziarie degli han e del bakufu. 

All’epoca, il diritto di proprietà privata nel senso moderno non era stato ancora stabilito 

come principio ed esisteva una concezione comune che vedeva il terreno come 

parte dei beni pubblici. 

Per quanto riguarda la città, la compravendita di terreno era proibita nelle zone dei 

vassalli guerrieri e dei templi (tranne che in alcune parti), mentre nella zona dei cittadini 

si poteva effettuare la compravendita abbastanza liberamente, come nella società 

moderna, dal momento che nell’area urbana non si aveva la consuetudine di pagare in 

natura con il riso le tasse, che erano invece imposte ai contadini nell’area rurale. 

Per la rappresentazione della città nell’epoca Edo si verifica la redazione di numerose 

mappe. Fino alla metà del XVII secolo furono realizzate alcune vedute globali 

di città in forma di paravento (dei paraventi dipinti che rappresentano Kyoto ce ne 

sono molti, ma al momento se ne conoscono solo due relativi a Edo). Più tardi esse 

scomparvero, e furono invece realizzate piante topografiche. Questo spiega quanto 

fosse importante dominare e gestire i terreni e i rispettivi abitanti. In Italia, per esempio, 

si affermarono prima le piante prospettiche che esibiscono la bellezza e la magnificenza 

della veduta urbana e successivamente le piante che mostrano chiaramente 

la situazione planimetrica. A Edo le vedute a volo d’uccello comparvero soltanto agli 

inizi del XIX secolo. 

La prima pianta attendibile è la Nuova grande pianta di Edo, realizzata nel 1670, 

dopo l’immane incendio di Meireki (1653). Successivamente ne furono realizzate 

molte altre dello stesso genere. 

La Gofunaienkakuzusho, redatta agli inizi del XIX secolo (1804-1818) da un ufficio 

del bakufu, che corrisponde all’odierna sezione urbanistica, con lo scopo di 

conoscere la situazione dei terreni per controllarli, è composta di una parte scritta 

e di mappe e può essere considerata come una mappa dettagliata equiparabile a un 

catasto. Si tratta della documentazione delle vicende degli usi dei terreni riguardanti


l’area urbana e i dintorni di Edo. Vi furono registrati i mutamenti delle strade, della 

divisione dei quartieri e dei lotti. I primi dati risalgono all’era Enpo (1673-1681) e 

gli ultimi sono della fine del governo shogunale. Le mappe, pur trattando le situazioni 

in diversi periodi, furono realizzate sempre nella stessa scala, in modo che i 

cambiamenti sono chiaramente visibili. Oltre a strade, canali e terreni pubblici, fu 

focalizzata soprattutto la zona dei vassalli guerrieri. Essa è rappresentata in modo 

molto particolareggiato con la descrizione dei lotti e dei nominativi dei rispettivi 

abitanti, informazioni tipiche del catasto (fig. 5). Al contrario, la zona dei cittadini 

è indicata semplicemente con una superficie grigia. Di questa zona si possono conoscere 

la dimensione, la distribuzione e i relativi mutamenti, ma non si trova nessuna 

indicazione che riguardi la lottizzazione. 

Fig. 5 - Gofunai-enkakuzusho, Quartiere di Hacchobori, pianta originale: 1697, pubblicato 

dal governo dello Shogunato, a Edo (Tokyo). La mappa qui riprodotta è stata ripubblicata dal 

Comune di Tokyo nel 1943.


Il Koken-ezu, catasto contenente informazioni dettagliate 

Nella città di Edo a partire dal XVIII secolo fu realizzato un catasto molto efficace 

nella registrazione dell’assetto interno della zona dei cittadini. In questa zona, come 

detto prima, la compravendita di terreno era relativamente libera. L’unità fondiaria 

di compravendita era costituita da un lotto detto machiyashiki. La realizzazione del 

catasto relativo alla zona dei cittadini è quindi strettamente legata a questo elemento. 

Edo era una grande città sviluppatasi intorno a un castello, sia sulla base della 

morfologia naturale, sia attraverso un progetto. La zona dei cittadini, che si estende 

sulla terra bassa a est del castello, fu disegnata secondo un piano a scacchiera. Ogni 

appezzamento quadrato di 60 ken x 60 ken di dimensione (1 ken = circa 2 m.) venne 

tripartito, sia in larghezza che in lunghezza. Inizialmente la parte centrale dell’appezzamento 

era uno spazio libero, detto kaishochi, destinato all’uso comune degli abitanti, 

per esempio come deposito di immondizia. Successivamente lo sviluppo della 

città richiese uno sfruttamento intensivo del terreno, e perciò anche tale spazio libero 

venne suddiviso e riempito di edifici. Ciascun pezzo di terreno così ottenuto, a forma 

di striscia con una profondità di 20 ken, venne spartito in 7-8 ken di lunghezza. In 

tal modo venne definita una porzione di lotto di larghezza frontale di 7-8 ken e di 

profondità di 20 ken. Questo lotto era appunto il machiyashiki, ed era considerato 

come l’unità di base della proprietà e quindi l'unità di compravendita. 

Nella prima metà del XVIII secolo, e in particolare tra gli anni Dieci e Quaranta, il 

bakufu ordinò la realizzazione di mappe dette koken-ezu al fine di gestire e tenere sotto 

controllo la zona dei cittadini 4 . Ad ogni quartiere della zona detto cho è dedicato un 

foglio, della cui redazione venne incaricato il capo del quartiere. È una mappa molto 

originale come mappa catastale, in quanto vi sono indicate tutte le informazioni che 

normalmente potrebbero essere inserite in un registro (fig. 6). In effetti, si possono 

osservare i numeri e le lettere molto fini, scritti su ogni machiyashiki o unità fondiaria. 

Un’altra caratteristica è il suo pregio estetico: è infatti realizzata su carta giapponese e 

con vari colori, come giallo (strada), azzurro (canale), ecc. L’atto d’acquisto del machiyashiki 

si chiamava koken e chi lo deteneva possedeva il diritto sul terreno in questione. 

Il prezzo di vendita del machiyashiki si chiamava appunto prezzo del koken. 

Furono realizzati i koken-ezu, importantissimi documenti ufficiali riguardanti la 

zona dei cittadini, che, in quanto indispensabili per le varie pratiche amministrative 

urbane, erano utilizzati quotidianamente. L’originale del koken-ezu veniva consegnato 

dal capo di ogni quartiere all’ufficio del magistrato. La sua copia invece era tenuta 

dal corpo di guardia del quartiere oppure nella residenza del capo del quartiere per 

essere disponibile all’uso 5 . 

pagina seguente 

Fig. 6 - Kanpo koken-ezu, Quartiere di Odenma-cho, 1744, Kyobashi Toshokan (Biblioteca di 

Kyobashi).

386 HIDENOBU JINNAI


Osservando i koken-ezu, si nota che i machiyashiki sono allineati su ambedue i 

lati della strada ed all’interno dei limiti di ognuno sono scritti larghezza, profondità, 

superficie, e inoltre il prezzo di vendita e la comadaka (prezzo per 1 ken di larghezza 

frontale; indice del prezzo della terra). Sono indicati anche il nominativo e l’indirizzo 

del proprietario e il nominativo dello yamori del machiyashiki in questione; sono 

inoltre apposti i timbri delle due parti. Per di più, ognuna di queste mappe rappresenta 

l’infrastruttura pubblica del quartiere in questione: strade, fossati, fognatura 

e acquedotto, ponti, porte 6 , ecc., dato che il quartiere assumeva la responsabilità di 

manutenzione e gestione dell’infrastruttura. La città di Edo, pur essendo sotto il dominio 

feudale del bakufu, mostrava la natura di una società urbana dove si rispettava 

l’autonomia del quartiere. 

Fra i commercianti e gli artigiani che abitavano nella zona dei cittadini a Edo, solo 

i proprietari fondiari erano borghesi che godevano dei diritti di cittadinanza. I proprietari 

pagavano un contributo in denaro per la costruzione di ponti, per la manutenzione 

della fognatura, dell’acquedotto e per altre spese necessarie per la vita urbana. La somma 

dovuta da ciascun proprietario venne calcolata in relazione alla larghezza frontale 

della sua proprietà. Tuttavia il versamento del tributo all’autorità veniva effettuato non 

sotto i nomi dei singoli proprietari, ma sotto il nome del quartiere. Anche il koken-ezu 

era custodito e gestito sotto la responsabilità collettiva del quartiere. 

A proposito della vita degli abitanti condotta su ogni machiyashiki, chi deteneva il 

potere era uno yamori, ovvero amministratore assunto dal proprietario. Lo yamori era 

incaricato dal proprietario di eseguire compiti pubblici e gestiva tutto come funzionario 

pubblico del cho. Il koken-ezu che conteneva tali informazioni era praticamente una lista 

di proprietari borghesi e amministratori ossia yamori, e allo stesso tempo era un documento 

che indicava i contribuenti alle spese di manutenzione del quartiere. 

Nel koken-ezu si trovano ogni tanto altre informazioni interessanti che mostrano 

qualche caratteristica dello spazio urbano di Edo. A Edo era molto sviluppato l’acquedotto, 

che era in grado di distribuire l’acqua in ogni parte dell’area urbana. Il koken-ezu 

di Teppo-cho mostra dettagliatamente la conduttura dell’acqua (fig. 7). Interessante è 

l’indicazione della lunghezza dei tubi condotti ai singoli lotti dal tubo principale che corre 

lungo la strada pubblica, sulla quale sono indicati i pozzi per attingere l’acqua. 

Nelle mappe relative ai quartieri importanti situati sulle strade principali, fra i 

lotti e le strade si possono notare strisce dove sono scritti gli hisashi o tettoie, sotto 

cui, come sotto i portici, si poteva camminare al riparo dalla pioggia. Gli hisashi sono 

circondati da fogne, che servivano non solo a drenare l’acqua di scolo, ma anche a 

raccogliere la pioggia. L’indicazione di misura dimostra che la profondità dell’hisashi 

è 1 ken. Del terreno sotto l’hisashi la metà esterna è pubblica, mentre quella interna 

è privata, situazione che è ben spiegata dal koken-ezu di Odenma-cho. 

Il koken-ezu, documentazione ufficiale dell’epoca, conteneva dunque informazioni 

molto dettagliate sia sulle comunità locali (proprietà, amministrazioni, prezzi dei

388 HIDENOBU JINNAI

pagina precedente 

Fig. 7 - Kanpo koken-ezu, 

Quartiere di Teppo-cho, 

1744, (riedizione del 

1937), Kyobashi Toshokan 

(Biblioteca di Kyobashi). 

Fig. 8 - Edo Kakaeyashiki-ezu, 

Owari-cho 2 chome, 1807, 

Mitsui-bunko (Archivio di 

Mitsui). 

I CATASTI NELLA STORIA URBANA DEL GIAPPONE 389


terreni, ecc.) sia sull’infrastruttura pubblica (tettoie, fogne, acquedotto, vie, canali, 

ecc.). Rispetto ai catasti delle città italiane redatti principalmente a fini fiscali, il 

koken-ezu contiene molte più informazioni. Ciò dimostra che nella città si gestiva 

accuratamente il proprio quartiere, grazie a una certa autonomia concessa dal regime 

feudale. Questo catasto di Edo era uno strumento davvero indispensabile per ogni 

fase della vita sociale e dell'amministrazione urbana. 

Tuttavia, per quanto riguarda i machiyashiki stessi, ne sono indicate soltanto le delimitazioni. 

Non c’è nessuna indicazione degli edifici che vi sono costruiti. Questo 

procedimento è una particolare caratteristica dei catasti del Giappone, dove tradizionalmente 

si dava una maggior importanza ai terreni. Da questo punto di vista anche le 

mappe topografiche del Giappone avevano quasi sempre la stessa caratteristica: strade, 

canali, isolati e lotti venivano ben descritti; i templi con un disegno simbolico, mentre 

l’edilizia ordinaria non veniva indicata. Una ragione fondamentale è probabilmente 

da ricercarsi nel fatto che la maggior pare degli edifici erano costruzioni di legno, con 

un rischio potenziale di essere distrutte dal fuoco, e quindi effimere. Così si determinò 

l’idea che il terreno ha un valore fondiario, ma non gli edifici. 

Inoltre, nelle città giapponesi c’era uno stretto legame fra terreno e casa. Fino al 

1910 non esisteva la tipologia del palazzo condominiale, dove più famiglie si sistemano 

in appartamenti sovrapposti; più di un proprietario non era possibile su un 

medesimo edificio. Perciò non era necessario rappresentare case su una mappa catastale, 

bastava solo indicare i lotti. Il contenuto del catasto era assai differente secondo 

la situazione e la cultura dei paesi. 

Per conoscere la collocazione delle case in un singolo machiyashiki, si devono consultare 

le piante del machiyashiki realizzate privatamente dai proprietari per ricavare l’affitto 

dal terreno. Per fortuna ne sono rimaste alcune che riguardano Edo (fig. 8). Il sistema e la 

gerarchia sociale dell’epoca si riflettono molto sulla struttura interna di un machiyashiki. 

Innanzitutto si deve ricordare che fra i quattro ceti (vassalli guerrieri, contadini, artigiani 

e commercianti), gli abitanti nella zona dei cittadini erano soltanto gli ultimi due. 

Prima di tutto, sulla strada furono costruite due o tre case di esponenti della classe 

mercantile, chiamate machiya. La parte posta sulla strada era destinata a negozio e la parte 

posteriore all’uso di abitazione. La combinazione di bottega e abitazione in un unico 

edificio è una particolare caratteristica della casa dei commercianti. Nei primi tempi i 

proprietari del machiyashiki abitavano nelle machiya costruite sulle loro proprietà e si 

occupavano della propria attività commerciale. Col passare del tempo la maggior parte 

dei proprietari divennero non residenti e cominciarono ad affittare la loro proprietà ad 

altri commercianti non proprietari. Questi, a loro volta, costruivano lì una casa, ossia una 

machiya, per se stessi e lì svolgevano anche la propria attività commerciale. 

Inoltre, per quanto riguarda la parte interna di un singolo machiyashiki, c’era un 

vicolo collegato con la strada, sul quale furono costruite numerose abitazioni popolari 

molto semplici, dette nagaya. Si tratta di un tipo di casa a schiera, composta di tante


unità abitative affiancate. I proprietari del terreno, oppure gli affittuari, costruivano 

una nagaya e riscuotevano gli affitti dagli inquilini. Questi ultimi erano appartenenti 

alla classe popolare e lavoravano come carpentieri, muratori o ambulanti. 

Sul vicolo venivano sistemati un pozzo comune oppure un acquedotto, gabinetti 

e un deposito di immondizie. Si effettuava la raccolta di spurghi e rifiuti in modo 

sistematico per mantenere condizioni igieniche accettabili. In fondo al vicolo c’era 

un tempietto scintoista che creava un legame di carattere morale tra gli abitanti delle 

nagaya e quindi una comunità popolare. Gli abitanti e lo yamori erano uniti da un 

rapporto di fiducia. Era proprio in questa parte all’interno della grande città di Edo 

che esisteva lo spazio per una piccola e vitale comunità. 

Verso i catasti moderni 

Fino a qui gli antichi catasti storici. La realizzazione di un catasto nel senso moderno 

in Giappone, invece, si verifica nella prima metà dell’era Meiji. 

Nel 1867 cadde il bakufu di Edo e nell’anno successivo si istituì il governo Meiji, 

con cui il paese entrò nell’epoca moderna. Nell’era Meiji (1867-1912) fu abolita 

la gerarchia dei quattro ceti stabilita nell’epoca Edo, e di conseguenza fu annullata 

anche la distinzione delle zone per vassalli guerrieri, templi e cittadini. Fu introdotto 

un nuovo sistema di divisione amministrativa, secondo cui, come accade oggi, gli 

abitanti di una stessa circoscrizione ricevono uguale trattamento. 

Nel primo anno dell’era Meiji (1868) il governo autorizzò il diritto di proprietà 

terriera. Nel quinto anno della medesima era (1872), l’abrogazione della legge che 

proibiva la compravendita di terreno permise in tutto il paese questa operazione. 

Tra il 1872 e il 1888 (il quinto e il ventunesimo anno) fu realizzato un nuovo catasto 

in diversi tempi su scala nazionale 7 . Questa operazione si collegava con la grande 

evoluzione politica del paese che si trovava all’alba dell’epoca moderna. Tuttavia, 

in questa fase la mappa catastale fu realizzata ancora con la tecnica e il modo dei 

mura-ezu e koken-ezu sviluppatisi durante l’epoca di Edo. 

Nel sesto anno dell’era Meiji (1873) il governo operò una grande riforma dell’imposta 

fondiaria, mirata alla modernizzazione. Le vecchie tasse dell’epoca Edo 

pagate in natura con il riso vennero trasformate in tasse da pagarsi in denaro sulla 

base dei prezzi del terreno. Nello stesso tempo il governo decise il rilascio di un atto 

di proprietà terriera detto chiken valido per tutto il territorio, sia nell’area rurale sia 

in quella urbana. Per quanto riguarda il versamento delle tasse, era previsto quello 

individuale da parte di singoli proprietari anziché quello collettivo dell’unità mura. 

Per mettere in pratica questo nuovo sistema, il governo ebbe necessità di rilevare e 

possedere tutte le informazioni precise su ogni singola particella terriera: il nominativo 

e l’indirizzo del proprietario, l’uso, la superficie e il prezzo. Così fu redatto il 

registro che raccoglie tutte queste informazioni. 

Insieme al registro, fu realizzata la mappa catastale detta jibiki-ezu. Questa map-


pa, pur essendo un nuovo prodotto dell’epoca moderna, segue ancora la tecnica e il 

linguaggio dei mura-ezu dell’epoca Edo, come dimostra la sua denominazione ezu. 

La mappa, in effetti, è dipinta a colori con effetti pittorici (fig. 9). Anche il metodo 

di misurazione fu quasi uguale a quello dell’epoca precedente. 

Per quanto riguarda Tokyo, già nel quinto anno dell’era Meiji (1872) l’autorità rilasciò 

gli atti chiken per tutte le proprietà private ai fini dell’imposizione fondiaria. Di 

conseguenza invalidò il precedente koken-ezu di ogni quartiere e al suo posto realizzò 

una koken-mappa che riguardava la nuova divisione amministrativa moderna di un vasto 

territorio (fig. 10) e funzionava come un registro ufficiale dell’imposizione fondiaria. 

Successivamente altri catasti furono realizzati in diversi tempi. Tuttavia, dopo che 

fu eliminata la sezione Catasto dell’Ufficio Geografia presso il Ministero dell’Interno 

nel 1890, per lungo tempo vennero utilizzati i catasti redatti nella prima metà 

dell’era Meiji. Essi si sono limitati a modificare e a migliorare i modelli precedenti 

dell’epoca Edo, continuando la tradizione di questi ultimi, e non sono uniformi a 

causa dei diversi metodi regionali. La matrice della mappa catastale dei giorni nostri 

fu realizzata ai sensi della legge del 1951 su scala nazionale in modo standardizzato e 

acquisì un’alta precisione grazie ad un’esatta misurazione. 

Hidenobu Jinnai 

Fig. 9 - Jinshinciken jibiki-ezu, Usui-gun Sakamoto-juku (Ueno-no-kuni), 1872 ca., Archivio della 

Provincia di Gunma.


1 Nel realizzare le mappe tradizionali i giapponesi utilizzarono la carta giapponese e presero in considerazione 

l’effetto estetico e pittorico impiegando i colori. Un’opera di questo genere si chiama ezu, 

che significa «una mappa come pittura». Lo shoen è uno dei temi più importanti degli studi storici del 

Giappone e a partire dal 1970 fioriscono le ricerche sullo shoen-ezu. 

2 Vedi T. YOSHIDA, Chusei-ezu kaidoku no shikaku (Metodo per la lettura degli ezu medievali), in Ezu 

ni miru shoen no sekai (Il mondo dello shoen visto nell’ezu), a cura di Y. Koyama-K. Sato, Tokyo, 1987. 

3 H. KAWAMURA, Kinsei-ezu to sokuryojutsu (Ezu del periodo Edo e agrimensura), Tokyo, 1992, in 

cui si tratta il rapporto fra la tecnica dell’agrimensura e le mappe. 

4 T. Tamai è la prima persona che ha utilizzato il koken-ezu per eseguire l’analisi del machiyashiki e 

gli studi di comunità urbane di Edo: T. TAMAI, Edo-Ushinawareta toshikukan wo yomu (Edo - lettura 

dello spazio perduto), Tokyo, 1986. 

5 Vedi Biblioteca di Kyobashi, Chuo-ku enkakuzusho (Documentazione della storia della circoscrizione 

di Chuo), Tokyo, 1994-1995. Si tratta di una pubblicazione che riporta sistematicamente i koken-ezu 

tramandati a Chuo-ku di Tokyo, nella quale M. Suzuki commenta i contenuti e i significati 

di queste mappe storiche. Si tratta di sedici mappe dell’epoca Edo, ritrovate nel 1915, che erano state 

archiviate come documenti amministrativi nel comune di Nihonbashi. Le loro dimensioni sono varie, 

da 76.0 x 93.5 cm a 134.4 x 229.6 cm. Ognuna era piegata e custodita fra due cartelle di 33.8 x 25.8 

Fig. 10 - Koken-cizu, 1 daiku 15 shoku (Quartiere di Hacchobori), 1873, Archivio del Comune 

di Tokyo (Tokyo Kobunshokan). Per quanto riguarda la tecnica, di regola si disegnava su carta 

tradizionale con inchiostro giapponese.


cm. Questa è una caratteristica delle mappe giapponesi: si ottiene una carta di grande dimensione mettendo 

insieme e incollando numerosi fogli standard (ca. 33.8 x 25.8 cm) e la si custodisce piegandola 

in una piccola dimensione. 

6 Ai confini dei quartieri furono poste le porte di legno che di notte venivano chiuse per sicurezza e 

ordine pubblico. Accanto alla porta fu collocato il corpo di guardia organizzato autonomamente dal cho. 

7 J. SATO, Meijiki sakusei no cisekizu (Catasti del periodo di Meiji), Tokyo, 1986, in cui si trattano 

in modo dettagliato i catasti di questo periodo.

«Città e Storia», I, 2006, 2, pp. 395-409 ©2007 Università Roma Tre 

L’IMMAGINE DI SAN PIETROBURGO NELLA CARTOGRAFIA 

DELLA BIBLIOTECA NAZIONALE RUSSA (1714-1839) 

Gli studi condotti negli ultimi anni a San Pietroburgo hanno reso possibile la 

consultazione di pubblicazioni in lingua russa, finora sconosciute in Italia, e il reperimento 

di un ampio repertorio cartografico che chiarisce lo sviluppo della città in 

rapporto al succedersi degli zar sul trono russo. 

Le rappresentazioni cartografiche costituiscono una guida indispensabile per l’individuazione 

del rapido processo di evoluzione della città di San Pietroburgo. Presso 

la Biblioteca Nazionale Russa di San Pietroburgo sono custoditi interessanti grafici 

che risultano estremamente utili per i contenuti di tipo storico-iconografico, attraverso 

i quali è stato possibile fornire un nuovo contributo sull’ampio repertorio cartografico 

offerto da diverse generazioni di artisti europei, nonché un utile supporto 

per la comprensione dell’eccezionalità di San Pietroburgo e dei singoli edifici presi 

in considerazione 1 . 

Analizzare l’immagine della «Grande Capitale del Nord» risulta fondamentale 

per la formulazione di un quadro esaustivo delle trasformazioni urbane e rappresenta 

un’occasione di confronto sull’interpretazione di culture differenti in campo iconografico 

e cartografico. 

San Pietroburgo, città fantastica e tragica, profondamente pervasa dalle “atmosfere 

acquee” che, nell’ambito del vedutismo, diventano l’aspetto più suggestivo da 

esaltare nella rappresentazione. Nel mito di San Pietroburgo è insito dunque l’eterno 

scontro fra gli elementi naturali e la cultura, che si basa sull’idea di una città dannata 

per la colpa originaria del suo fondatore che volle razionalizzare anche il modo in 

cui il territorio si era concretizzato, piegando lo stesso linguaggio architettonico alle 

esigenze di un piano razionale in grado di “ritoccare” anche la fisicità dell’ambiente 

naturale. In tal senso l’incontro-scontro tra l’ordine inumano della città costruita e 

l’impetuosa forza del sito si manifesta nel mito dell’antitesi fra acqua e pietra 2 . 

La storia e il mito della città sono dunque dominati da due principi contrapposti: 

il principio creatore e quello distruttore. Del mito positivo o negativo di questa 

città sono inevitabilmente entrati a far parte i suoi creatori, sia autori di opere di 

architettura, pittura, letteratura e musica, che alla città sono ispirate e dedicate, sia

396 

PETRANA MILTENOV 

personaggi storici e politici. Ben presto la città ha dovuto rendersi conto di avere 

un’anima doppia, tanto da poter essere considerata indifferentemente come una parte 

di Europa in Russia. 

Analizzando le varie piante di San Pietroburgo, redatte dai primi decenni della 

fondazione fino al volgere del Settecento, si notano effettivi mutamenti d’indirizzo 

che contraddicono le ipotesi urbanistiche iniziali auspicate dal suo fondatore: 

da un piano “funzionalista” alla maniera olandese del Cinquecento, come quello di 

Domenico Trezzini si passa all’ipotesi barocca di Jean Baptiste Alexandre Leblond, 

poi alla città tardobarocca di Francesco Bartolomeo Rastrelli ed infine a quella neoclassica 

di Caterina II 3 . 

Nella prima metà del XIX secolo a San Pietroburgo furono condotti numerosi 

studi sullo sviluppo della città fin dai primi decenni della sua fondazione. Dal ’33 

al ’38 fu avviata una ricerca storica e furono realizzate numerose iconografie e cartografie 

della città sotto la supervisione di A.A. Meyer: il lavoro fu raccolto in sette 

atlanti manoscritti corrispondenti alle diverse fasi di sviluppo della città. Ogni atlante 

presentava una pianta generale di San Pietroburgo con l’indicazione del volume 

costruito. Diversamente dagli atlanti manoscritti che non furono mai pubblicati, nel 

’39 le sette piante generali furono stampate in un album con indice 4 . 

Alla luce di un’analisi dettagliata di queste sette litografie, custodite a San 

Pietroburgo, siamo giunti a delineare un quadro generale dello sviluppo urbano della 

città aulica del potere assolutista tra Sette e Ottocento. 

I grafici in esame, litografie acquerellate di 45x57 centimetri realizzate da I. 

Agafonov e stampate dal Dipartimento dei Distretti militari di San Pietroburgo nel 

1843, raffigurano la città in alcuni momenti determinanti dello sviluppo urbano, 

ovvero durante il regno dello zar Pietro il Grande e durante quelli di Anna Ivanovna, 

Caterina II, Alessandro I e Nicola I. 

Le piante registrano come lo sviluppo di San Pietroburgo era avvenuto attraverso 

una vera e propria crescita per “parti aggiunte”, legate assieme da significativi poli 

urbani che i grandi architetti europei al servizio degli zar avevano edificato a partire 

dai primi anni di fondazione. 

Tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo la città risultava ancora costituita 

da alcuni nuclei abitativi attorno ai quali si erano stabilite le popolazioni nomadi: 

si trattava principalmente di insediamenti spontanei sorti come base d’appoggio dei 

flussi carovanieri e dei trasporti fluviali 5 . In generale il territorio appariva ancora 

del tutto libero e, salvo qualche rarissimo insediamento originario della Carelia, 

queste isole, a fior d’acqua e frequentemente esposte a terribili inondazioni, rimanevano 

disabitate e coperte di foreste. 

Sulla nascita di San Pietroburgo e sulle leggende ad essa legate segnaliamo un’interessante 

carta geografica del golfo di Finlandia incisa dagli olandesi Peter Pickart e 

Adrian Schonebeck, stampata a Mosca nel 1703 e custodita nella sezione cartografia

L’IMMAGINE URBANA TRA IL 1714 E IL 1839 397 

della Biblioteca Nazionale di San Pietroburgo. Si tratta di un’incisione su rame che 

per la prima volta in Russia mostra la futura San Pietroburgo all’interno del golfo 

finlandese e nella quale sono riportate, sotto la guida dello stesso zar Pietro il Grande, 

indicazioni militari utili durante la «Guerra del Nord». 

Per comprendere lo sviluppo della città nel primo ventennio del XVIII secolo 

risulta estremamente utile l’analisi della prima litografia del suindicato album, ovvero 

la Pianta della città di San Pietroburgo durante il regno dell’Imperatore Pietro il Grande 

dal 1714 al 1725 («Plan’ Goroda St. Peterburga b Carstovanie Gosudarja Imperatora 

Petra Velikavo okolo 1714 i do 1725 goda»). Come si evince dalla legenda posta nella 

parte destra dell’immagine, l’opera fu realizzata con l’ausilio di fonti documentarie 

ed iconografiche. La suddivisione della città in cinque parti principali corrisponde 

a quella stabilita dal decreto firmato dallo zar Pietro il Grande il 25 maggio 1718: 

la prima parte riguarda l’isola Peterburgskij e le isole limitrofe, la seconda l’isola 

Vasil’evskij, la terza l’isola dell’Ammiragliato, la quarta quella Moskovskaja e la quinta 

quella Vyborgskaja e Ochta. In ciascuna delle parti sono distinte le costruzioni di 

pietra da quelle di legno e per le aree non ancora edificate sono indicate le varie specie 

di boschi (larici, pini, abeti e misti), gli orti e i terreni paludosi; tali indicazioni saranno 

sempre presenti in ciascuna pianta dell’album esaminata successivamente. Dal 

grafico in esame si evince che sono stati canalizzati i bracci del fiume Neva e realizzate 

le principali emergenze architettoniche necessarie per lo sviluppo della futura trama 

urbana: chiudono la foce della Neva la fortezza dei Santi Pietro e Paolo collocata sulla 

riva destra e l’Ammiragliato su quella sinistra. Sull’isola Vasil’evskij, oltre il palazzo 

Menšikov e quello della Kunstcamera, si elevano imponenti edifici nobiliari; sulla riva 

sinistra della Grande Neva, oltre all’Ammiragliato, si trova la residenza estiva di Pietro, 

posta accanto ai giardini d’Estate; infine verso l’entroterra, lungo il tracciato suddetto, 

emerge il monastero Aleksandr Nevskij e la sua «prospettiva» è già tracciata. 

Dalla pianta è quindi evidente che durante il regno di Pietro I non fu mai realizzato 

un organico piano di sviluppo urbano 6 : il settore meridionale della città rimaneva 

separato dal centro ideale concepito dai primi pianificatori e la maggior parte 

della popolazione si stanziò nel quartiere dell’Ammiragliato, con l’annesso cantiere 

navale, destinato a divenire il polo intorno al quale si sarebbe articolata la futura 

espansione urbana. La città, ancora indefinita nella struttura, trovò in questo periodo 

la sua naturale espansione lungo l’antico tracciato denominato Bol’šaja Perspektivnaja 

Doroga. Inoltre in pianta si scorge anche il tratto iniziale della strada che durante il 

regno della zarina Anna sarà denominata Voznesenskij Prospekt e inserita nel tridente 

convergente verso l’Ammiragliato. 

La seconda litografia raffigura la Pianta della città di San Pietroburgo nel 1738 

(«Plan’ Goroda St. Peterburga 1738 goda»). Dalla legenda si desume che l’opera fu 

realizzata con l’ausilio di un rilievo eseguito in base a un decreto imperiale del 9 luglio 

1737. La suddivisione della città in cinque parti principali corrisponde a quella

398 


approvata il 27 ottobre dello stesso anno. 

Rispetto alla pianta precedente, il criterio della suddivisione è più particolareggiato: 

la prima parte riguarda l’isola dell’Ammiragliato, la seconda l’isola Vasil’evskij, la 

terza quella Peterburgskaja (comprendente l’isola Peterburgskoj e l’area Vyborgskaja), 

la quarta quella Litejnaja (comprendente il tratto dal fiume Neva al Nevskij Prospekt 

e il villaggio di Ochta) e la quinta quella Moskovskaja. La pianta risale al periodo del 

regno della zarina Anna, succeduta a Pietro II. Durante il suo regno cominciò a lavorare 

il giovane Rastrelli, al quale la sovrana commissionò il rifacimento del Palazzo 

d’Inverno, facilmente individuabile nella pianta. 

Dal punto di vista della sistemazione urbana, la pianta registra con molta precisione 

i tracciati delle tre arterie (Nevskij Prospekt, Admiralteiskaja Ulica e Voznesenskij 

Prospekt) che saranno inserite nel tridente confluente nella guglia dell’Ammiragliato. 

Le tracce di due assi del tridente, almeno per il tratto iniziale, già esistevano alla fine 

del regno di Pietro il Grande come indicato nella pianta precedente. Ciò ci induce a 

pensare che probabilmente, già durante l’epoca di Pietro, si prevedeva una strutturazione 

del settore sud della città secondo assi prospettici, ma con motivazioni del tutto 

differenti da quelle adottate durante il regno di Anna: alla fine dell’età di Pietro tale 

sistema sarebbe stato rivolto esclusivamente alla riqualificazione dell’ingresso in città 

dalla terraferma e non all’incremento dello sviluppo urbano in tale direzione. 

La pianta in esame deve necessariamente essere confrontata con quella del 1737 

− Plan der Kayserl Residentz Stadt St. Petersburg wie solcher a. 1737 aufgenommen 

worden −, custodita in copia presso la raccolta palatina della Biblioteca Nazionale 

di Napoli 7 , che costituisce la prima pianta stampata basata su indagini topografiche 

realizzate dall’Accademia delle Scienze di San Pietroburgo a partire dal 1729. Oltre a 

registrare lo sviluppo di San Pietroburgo nel primo trentennio del XVIII secolo, tale 

pianta costituisce un utile supporto per la comprensione della futura espansione della 

città poiché in essa sono indicate le nuove intenzioni progettuali. 

Il grafico, inciso da G.I. Unvertzagt e stampato a San Pietroburgo nel 1741 dall’Accademia 

delle Scienze 8 , testimonia come già ai tempi di Carlo di Borbone si 

dovette guardare con interesse alle opere in atto a San Pietroburgo e, in particolare, 

al nuovo sistema viario mutuato da Versailles, non a caso riproposto a Caserta una 

quindicina d’anni più tardi. 

La pianta, di 39x61 centimetri, reca in testa a sinistra un bel cartiglio con le 

insegne della città e i monogrammi di Pietro I e Anna Ivanovna. Nella legenda, collocata 

al di fuori del riquadro dell’immagine, sono segnate in lingua russa e tedesca le 

cinque aree amministrative della città indicate dalla Commissione per la costruzione 

regolare di San Pietroburgo: con il numero I è indicata l’isola Peterburgskij, con il II 

l’area dell’Ammiragliato, con il III l’area Moskovskaja, con il IV l’area Vyborgskaja e 

con il V l’isola Vasil’evskij 9 . 

Per quanto riguarda lo sviluppo della città durante il regno della zarina Elisabetta,


ci sembra doveroso analizzare la crescita della città attraverso la pianta pubblicata dall’Accademia 

delle Scienze nel 1753, in occasione del cinquantesimo anniversario della 

città, in un album dal titolo Pianta della capitale San Pietroburgo con le immagini delle 

sue celeberrime prospettive, oggi conservato all’Ermitage e contenente dodici interessanti 

vedute che si aggiungono a quelle, più note e pressoché coeve, del pittore svedese 

Benjamin Paterssen 10 . Nel frontespizio dell’album sono indicati il disegnatore Ivan 

Fëdorovič Truskot, incaricato del dipartimento di Geografia, l’incisore supervisore Ivan 

Aleksevič Sokolov e l’artista Michail Ivanovič Machaev. Al Sokolov e ai suoi collaboratori 

si deve anche l’incisione della mappa tra 1748 e il 1752: è l’epoca, per intenderci, 

della pianta di Roma levata da Giovan Battista Nolli e di quella di Napoli intrapresa da 

Giovanni Carafa duca di Noja. A sinistra della pianta compare un cartiglio con la statua 

dell’imperatrice Elisabetta Petrovna su un alto piedistallo incoronata dalla dea della 

Gloria con una corona di alloro, sul basamento è scolpita l’iscrizione «San Pietroburgo 

città capitale. Elisabetta I». Dietro la scena si individua l’edificio dei Dodici Collegi e 

il progetto per il monumento a Pietro il Grande; in testa a destra, invece, si scorge lo 

stemma della città. La pianta fu stampata in cento copie e distribuita nelle maggiori 

capitali europee. 

Anche questa planimetria, come quella del ’37, contiene sia il rilievo dell’esistente 

che le previsioni di piano sostanzialmente tratte dalle proposte dell’architetto Pëtr 

Eropkin. Gli obiettivi progettuali dell’architetto sono, a distanza di quasi vent’anni, 

ancora chiaramente riconoscibili, come si evince dall’indicazione di nuovi quartieri 

abitativi − che verranno in buona parte realizzati entro i primi decenni del XIX secolo 

− nell’isola Petrogradskij e nell’ampia fascia libera a meridione e ad oriente del 

canale Fontanka. Al di là, comunque, di quanto era ancora da realizzare, nella pianta 

si nota che la città aveva già raggiunto una certa espansione, essendo già coinvolte 

zone dove, sia pure con grandi trasformazioni, si svilupperanno gli insediamenti ottocenteschi 

11 . In più, il rilievo evidenzia la prevista sostituzione di terreni da sempre 

paludosi con parchi e giardini, notandosi pure l’introduzione di edifici non ancora 

completati: valga per tutti la fabbrica del Gostinyj Dvor, il cui ordine di costruzione 

fu emanato nel ’52 e il relativo progetto di Rastrelli approvato solo nel ’57. In pianta 

è anche evidente il completamento del corso Nevskij ben oltre il canale Fontanka e 

la sistemazione del Palazzo d’Estate, progettato dallo stesso Rastrelli nel ’41 durante 

il regno di Anna. 

Le vedute realizzate in questi anni da vari incisori − Jakov Vasil’evič Vasil’ev, Efim 

Grigorevič Vinogradov, Grigorij Anikevič Kačalov, Ekim Terentevič Vnukov, Ivan 

Petrovič Eljakov − su disegni di M.I. Machaev del 1749 12 , sono di particolare bellezza 

e ricchezza cromatica e mettono in risalto le fabbriche già sorte o in corso di esecuzione 

sotto la zarina Elisabetta 13 . 

Nella seconda metà del XVIII secolo San Pietroburgo divenne il maggiore centro 

culturale e scientifico della Russia: tra gli eventi che contribuirono a caratterizzarne il

400 


volto, vanno senz’altro segnalate l’inaugurazione dell’Accademia di Belle Arti, quella 

del teatro Grande e la fondazione dell’Ermitage. Inoltre le nuove teorie del neoclassicismo 

diffuse grazie a Caterina II, sovrana illuminata, ispireranno la pratica di 

governo e le maggiori realizzazioni urbanistiche: la pianificazione stabilita in questi 

anni costituirà il riferimento primario dell’espansione ottocentesca. 

Un’interessante testimonianza della struttura urbana nel momento in cui salì al 

trono Caterina II ci è offerta dalla terza litografia, ovvero dalla Pianta della città di 

San Pietroburgo nel 1762 («Plan’ Goroda St. Peterburga okolo 1762 goda»). Come 

si evince dalla legenda posta nella parte destra dell’immagine, l’opera fu eseguita 

con l’ausilio di piante realizzate dall’Accademia Imperiale delle Scienze nel 1753 e 

dalla Commissione per la costruzione di San Pietroburgo dal ’62 al ’65. Rispetto 

alla pianta precedente il criterio della suddivisione è sempre più particolareggiato: la 

prima parte riguarda l’isola dell’Ammiragliato (comprendente tre settori tra Neva e 

Fontanka), la seconda l’isola Vasil’evskij, la terza l’area Peterburgskaja (comprendente 

l’isola Peterburgskij e l’area Vyborgskaja), la quarta quella Litejnaja (comprendente 

il tratto dal fiume Neva al Nevskij Prospekt e il villaggio di Ochta) e la quinta quella 

Moskovskaja. La pianta riporta anche i nuovi quartieri abitativi dell’isola Petrogradskij 

e dell’ampia fascia libera a meridione e ad oriente del canale Fontanka. 

Nella quarta litografia facente parte dello stesso album è raffigurata la Pianta 

della città di San Pietroburgo nel 1777 («Plan’ Goroda St. Peterburga 1777 goda») 

nella quale sono già evidenti i numerosi poli architettonici fatti erigere da Caterina 

la Grande. La suddivisione della città in nove parti principali corrisponde a quella 

approvata dal decreto imperiale del 15 maggio 1766. Rispetto alle piante precedenti 

le parti della città sono aumentate: la prima, la seconda e la terza parte riguardano 

l’area dell’Ammiragliato, la quarta l’area Vasil’evskaja con i suoi sobborghi, la quinta 

quella Peterburgskaja (comprendente l’isola Peterburgskij con i suoi sobborghi, il 

quartiere di Vyborg e quello di Ochta), la sesta quella Litejnaja, la settima il sobborgo 

Aleksandr Nevskij, l’ottava quello Moskovskoe e la nona quello Lifljanskoe. 

Le costruzioni in pietra risultano concentrate essenzialmente nel primo settore 

del quartiere dell’Ammiragliato, all’interno del quale va segnalato il lungofiume di 

Palazzo, che si estende dal palazzo d’Inverno al giardino d’Estate, la cui sistemazione 

rientrò nell’ambito dei lavori realizzati negli anni Sessanta-Settanta del XVIII secolo, 

periodo di maggiore operosità per la definizione del cosiddetto “Insieme Centrale” 

che costituirà la base di partenza per le trasformazioni urbanistiche ottocentesche. 

Lo sviluppo della città alla fine del regno di Caterina la Grande si evince dalla 

quinta litografia della raccolta, ovvero dalla Pianta della città di San Pietroburgo nel 

1796 («Plan’ Goroda St. Peterburga 1796 goda»). La città viene suddivisa in undici 

parti principali: la prima, la seconda, la terza e la quarta riguardano l’area dell’Ammiragliato, 

la quinta quella Litejnaja, la sesta quella Rožestvenskaja, la settima quella 

Moskovskaja, l’ottava quella Karetnaja, la nona quella Vasil’evskaja, la decima quella


Peterburgskaja, l’undicesima quella Vyborgskaja. 

La pianta mette in luce come alla fine del regno di Caterina II soltanto il tratto di 

strada delimitato nella sua parte meridionale dal canale Fontanka risultasse “urbanizzato”: 

lungo il tratto successivo, segnato dal detto canale e dall’attuale piazza Vosstanja, 

si trovavano soprattutto edifici di legno, mentre nell’ultimo tratto, tra l’attuale corso 

Ligovskij e il monastero Aleksandr Nevskij, si estendeva un terreno acquitrinoso. 

Soltanto nell’ultimo decennio del XVIII secolo, dopo la sistemazione da parte della 

Commissione per le opere in muratura dei principali fiumi e canali, in quest’area furono 

innalzati i primi edifici di pietra. Fino ai primi decenni del XIX secolo la città avrebbe 

quindi confermato le linee di sviluppo già impostate negli anni Sessanta-Novanta e 

destinate a costituire le basi dell’attività edilizia sotto Alessandro I e Nicola I 14 . 

Una conferma della pianificazione stabilita in questi anni ci è offerta dall’incisione 

su rame acquerellata relativa alla Nuova pianta della città capitale e della fortezza 

di San Pietroburgo («Novyj Plan’ Stoličnogo goroda i kreposti Sankt Peterburga»), 

di 44,5x52 centimetri, disegnata dalla Commissione per le opere in muratura, incisa 

da Ch.M. Rot e stampata a San Pietroburgo nel 1776, attualmente custodita nella 

sezione cartografia della Biblioteca Nazionale di San Pietroburgo. Nel cartiglio, 

decorato con l’emblema della città ed il monogramma di Caterina II, è indicato il 

titolo dell’opera in russo e francese, mentre la legenda, soltanto in lingua francese, 

è collocata ai margini esterni dell’immagine. Il progetto di piano, ordinato ed 

omogeneo, prevedeva di creare sull’isola delle Betulle un nuovo tridente di strade 

speculare a quello già esistente. Le altre aree interessate dal progetto erano rivolte alla 

riqualificazione della Srel’ka dell’isola Vasil’evskij e del quartiere dell’Ammiragliato. 

In pianta sono indicate quattro aree amministrative e cinque suburbane. Il progetto 

non venne mai realizzato integralmente, ma divenne un riferimento per la maggior 

parte dei piani stampati nell’ultimo quarto del XVIII secolo. Per la prima volta in 

pianta è indicato il canale Ekaterininskij (Griboedov dal 1923 ad oggi) realizzato tra 

il 1765 e il 1773. 

Il progetto di piano della Commissione per le opere in muratura del 1776 viene 

riportato anche nella pianta del 1792 («Plan’ Stoličnogo goroda Sankt Peterburga 

sočinën 1792 goda»), un’incisione su rame acquerellata di 61x99 centimetri, disegnata 

da P. Grigoriev e stampata a San Pietroburgo nel 1792, anch’essa custodita nella 

stessa biblioteca russa. La pianta riporta le dieci aree amministrative della città nel 

1782. Nella legenda, esclusivamente in lingua russa, sono segnalate le principali aree 

amministrative, all’interno delle quali sono contraddistinti i maggiori edifici pubblici 

e le strade della città; nel cartiglio, in testa a sinistra, si trova il titolo dell’opera e 

un’aquila bicipite con il monogramma di Caterina II. 

In generale dallo studio delle principali piante realizzate alla fine del XVIII secolo 

si evince che, negli anni immediatamente successivi al regno di Caterina la Grande, 

l’ambizione illuministica di controllare la qualità architettonica andò via via sceman-

402 


do. In quegli anni le piante appaiono come una testimonianza più realistica dello 

sviluppo urbano e non un piano utopico difficilmente realizzabile. Nella pianta del 

1799 15 il disegno non è più rigorosamente regolare, ma lascia intravedere anche gli 

sviluppi urbani più spontanei. 

Passando ora ad analizzare l’immagine della città nel secolo XIX notiamo che 

l’Ottocento portò mutazioni profonde nel processo di edificazione della città di 

San Pietroburgo: l’architettura seguì una pianificazione urbanistica e una strategia 

politica, inoltre alla concezione tardobarocca che prediligeva l’intervento su alcuni 

“elementi specifici”, ripensati con intenti scenografici e inseriti nel contesto urbano, 

fece seguito l’ideale neoclassico di una città intesa come organismo, la cui bellezza 

rimaneva strettamente legata al funzionamento e al decoro delle sue parti. 

In generale i nuovi interventi, rivolti verso un vero e proprio controllo dell’edilizia 

minore, si inserirono nella maglia settecentesca con la funzione specifica di una 

riorganizzazione dello spazio urbano tra i grandi complessi architettonici. In proposito 

richiamiamo l’attenzione sulla sesta litografia della stessa raccolta pietroburghese, 

la Pianta della città di San Pietroburgo nel 1806 («Plan’ Goroda St. Peterburga 1806 

goda») che, raffigurando la città nei primi anni del regno di Alessandro I, costituisce 

la base di partenza per l’analisi della pianificazione urbanistica ottocentesca. 

La città viene divisa in undici parti principali: la prima, la seconda, la terza e la 

quarta riguardano l’area dell’Ammiragliato, la quinta quella Litejnaja, la sesta quella 

Rožestvenskaja, la settima quella Moskovskaja, l’ottava quella Karetnaja, la nona quella 

Vasil’evskaja, la decima quella Peterburgskaja, l’undicesima quella Vyborgskaja e di 

Ochta. In pianta sono già evidenti i tre edifici di grandi dimensioni, ovvero la Borsa, la 

cattedrale di Kazan’ e il nuovo Ammiragliato, volti rispettivamente alla riqualificazione 

della Strel’ka dell’isola Vasil’evskij, del Nevskij Prospekt e dell’area dell’Ammiragliato. 

Come è noto, in questi anni le trasformazioni della città furono immortalate 

in numerose vedute e panorami: tele a olio, acquerelli, incisioni e litografie. Tra le 

cartografie custodite nella Biblioteca Nazionale Russa segnaliamo una miniatura, 

stampata nel 1809, che raffigura la pianta di San Pietroburgo nel 1790. Il grafico, del 

diametro di 8 centimetri, fu inciso su porcellana da Pierre François Tardieu a Parigi 

e racchiuso in una cornice di mogano. Sullo sviluppo della città nel primo ventennio 

del XIX secolo richiamiamo l’attenzione su due piante: la prima incisa su rame da 

Aleksandr Dimitrevič Savinkov e stampata a San Pietroburgo nel 1810 16 , la seconda, 

incisione su rame acquerellata, disegnata da I. Fitctum e stampata a San Pietroburgo 

nel 1821 dal dipartimento militare topografico 17 . 

Le prime raffigurazioni della città neoclassica furono realizzate da A. Martynov: 

nelle sue opere l’immagine della città acquista una straordinaria carica artistica, 

come si nota nel Panorama della Neva seguendo la corrente realizzato negli anni 1809- 

1810 18 . Nel corso del secolo numerosi altri artisti vanno segnalati quali autori di un 

vasto repertorio iconografico, in particolare di vedute, disegnate o dipinte: lavoraro-


no in tal senso l’inglese John August Atkinson, gli italiani Angelo Toselli e Giuseppe 

Bernardazzi, i russi Vasilij Semenovič Sadovnikov e Grigorij Grigorevič Černecov e 

l’architetto Iosef Iosefovič Charlemagne. 

Un’interessante testimonianza per lo studio della principale arteria della città, ovvero 

il corso Nevskij, ci è fornita anche dalla pianta ad una scala di dettaglio realizzata 

da F.F. Schubert e stampata a San Pietroburgo nel 1828 dal dipartimento militare 

topografico. Si tratta di un’incisione su rame basata su indagini topografiche iniziate 

nel 1820 sotto la direzione dell’autore della pianta. L’opera può essere considerata 

uno dei più significativi grafici a grande scala realizzati fino a quel momento. Lungo 

il corso Nevskij, oltre ai numerosi palazzi ed edifici pubblici, si individuano le chiese 

di Kazan’, la chiesa cattolica di Santa Caterina e quella Armena, il Gostinyj Dvor, la 

Biblioteca e l’area del teatro Nuovo. 

Significativi al riguardo sono anche altri due grafici: l’uno relativo alla carta bilingue 

russo-francese raffigurante la Pianta della città capitale San Pietroburgo («Plan’ 

Stoličnogo goroda Sankt Peterburga»), incisione acquerellata di 65x115 centimetri 

stampata nel 1835 da A. Savinkov, che presenta una legenda molto dettagliata con 

l’indicazione dei nuovi edifici pubblici (ospedali, strutture economiche ed amministrative), 

l’altro la Carta di viaggio («Putevaja Karta»), ovvero una pianta della città 

con l’indicazione delle linee del trasporto pubblico, carta bilingue russo-francese di 

31x47 centimetri, incisa da A. Johantzen e stampata a San Pietroburgo nel 1850. 

Inoltre, per avere una visione complessiva della città nella prima metà del XIX secolo, 

menzioniamo la settima ed ultima litografia della raccolta, ovvero la Pianta della città 

di San Pietroburgo nel 1839 («Plan’ Goroda St. Peterburga 1839 goda»). 

L’opera fu composta sulla base di un piano particolareggiato del 1828, integrato 

con l’aggiunta delle principali costruzioni realizzate tra il ’26 e il ’39. Nella legenda, 

infatti, sono segnalate in nero le costruzioni realizzate fino al ’26 e in rosso quelle 

innalzate tra il ’26 e il ’39. La suddivisione della città è in tredici parti principali: le 

prime quattro riguardano l’area dell’Ammiragliato, la quinta la Narvskaja, la sesta la 

Moskovskaja, la settima la Karetnaja, l’ottava la Rožestvenskaja, la nona la Litejnja, la 

decima la Vasil’evskaja, l’undicesima la Peterburgskaja, la dodicesima la Vyborgskaja 

e la tredicesima la Ochtenskaja. 

Dall’analisi della pianta è evidente che la pianificazione urbana ottocentesca impose, 

tra gli altri obiettivi primari, la realizzazione di spazi per le parate militari e 

complessi edilizi destinati ad ospitare varie istituzioni pubbliche. La finalità di queste 

opere non fu soltanto simbolica poiché in questi spazi si svolsero anche una serie di 

funzioni complementari a quelle delle parate. La pianta registra tutti i grandi interventi 

a scala urbana realizzati nei primi quarant’anni del XIX secolo: i grandi complessi 

del teatro, della nuova biblioteca e del palazzo Michajlovskij collocati lungo 

il corso Nevskij, la sistemazione della piazza Vosstanja e di quella di Palazzo, la costruzione 

del teatro Aleksandrinskij e l’attuale piazza dei Decabristi in cui, oltre alla

404 


cattedrale di Sant’Isacco e all’edificio del Maneggio, insiste il complesso del Senato 

e del Sinodo. Pertanto, rispetto alle altre capitali d’Europa nelle quali molto spesso i 

propositi enunciati non saranno portati a compimento, a San Pietroburgo le opportunità 

offerte dalla committenza resero possibile la realizzazione dei progetti previsti 

che, pur non avendo la pretesa di una pianificazione urbanistica a grande scala, puntarono 

all’inserimento e alla qualificazione del singolo episodio attraverso un diretto 

rapporto con le preesistenze. 

Petrana Miltenov 

1 Al riguardo riteniamo utile segnalare che anche a Napoli, presso la raccolta palatina della Biblioteca 

Nazionale, e a Venezia, presso la sezione manoscritti della Biblioteca Marciana, abbiamo individuato 

alcuni grafici di particolare interesse che rappresentano la morfologia del sito della città, il suo tessuto, 

le sue architetture. Sull’argomento cfr. P. MILTENOV, Le rappresentazioni di San Pietroburgo da Caterina 

II ad Alessandro I (1762-1825) nelle iconografie della Biblioteca Nazionale di Napoli, in Tra Oriente 

e Occidente. Città e iconografia dal XV al XIX secolo, a cura di C. de Seta, Napoli, Electa, 2004, pp. 

104-105; Plan de Kroonstad et la passe pour allar a Petrsburg (tav. 28) e Plan de la ville et port de Saint 

Petersbourg (tav. 28), in BELLIN, Le petit Atlas Marittime, tomo IV. Contenant l’Europe et les divers etats 

qu’ele renferme excepte la France, 1764 (Biblioteca Marciana, sez. man. 87 d. 14). 

2 Per un approfondimento bibliografico si vedano le seguenti pubblicazioni: G.K. LUKOMSKIJ, La 

Vecchia Pietroburgo, Pietrogrado, Svobodnoe Iskusstvo, 1917; E. LO GATTO, L’opera del genio italiano 

all’estero. Gli artisti italiani in Russia. Gli architetti italiani del secolo XVIII a Pietroburgo e nelle tenute 

imperiali, 2 voll., Roma, 1935 (1 a ed.), Milano, Scheiwiller, 1993 (ried. a cura di A. Lo Gatto); ID., 

L’opera del genio italiano all’estero. Gli artisti italiani in Russia. Gli architetti italiani del secolo XIX a 

Pietroburgo e nelle tenute imperiali, 3 voll., Roma, 1943 (1 a ed.), Milano, Scheiwiller, 1994 (ried. a 

cura di A. Lo Gatto); G.N. KOMELOVA, Vedute di Pietroburgo, Leningrado, Izdatel’stvo Gosudarstennoe 

Ermitaž, 1961; O.N. ZACHAROV, I panorami architettonici sulle rive della Neva, Leningrado, Strojizdat 

Leningradskoje Otdelenie, 1984; San Pietroburgo. 1703-1825. Arte di Corte dal Museo dell’Ermitage, a 

cura di S. Pettenati, catalogo della mostra (Stupinigi, 4 maggio-8 settembre 1991), Milano, Berenice, 

1991; A.M. GORDIN-M.P. ALEKSEEV, La Pietroburgo di Puškin, San Pietroburgo, Chudožnik RSFSR, 

1991; The National Library of Russia. 1795-1995, a cura di Y. Barkhatova, Saint-Petersburg, Liki Rossii, 

1995; Pietroburgo e le altre nuove città russe dall’inizio del XVIII alla prima metà del XIX secolo, a cura di 

N.F. Guljanickij, Mosca, Rossijskaya Akademija, 1995; Gli architetti italiani a San Pietroburgo, a cura di 

G. Cuppini, catalogo della mostra, Bologna, Grafis, 1996; La splendida Pietroburgo, a cura di F.M. Lur’e, 

San Pietroburgo, Avrora, 2002; Passeggiate per San Pietroburgo. Acquarelli Incisioni litografie, a cura di O. 

Khromov, Mosca, Interbuk-bisnes, 2002; A. BUCCARO-G. KJUČARIANC-P. MILTENOV, Antonio Rinaldi. 

Architetto vanvitelliano a San Pietroburgo, Milano, Electa, 2003; Dal mito al progetto. La cultura architettonica 

dei Maestri italiani e ticinesi nella Russia neoclassica, a cura di N. Navone-L. Tedeschi, catalogo 

della mostra (Lugano, 5 ottobre 2003-11 gennaio 2004; San Pietroburgo, 18 febbraio-18 aprile 2004), 

2 voll., Mendrisio, Accademia di architettura, 2003-2004; P. MILTENOV, Echi vanvitelliani nel territorio 

di San Pietroburgo: l’opera di Antonio Rinaldi per Caterina II ad Oranienbaum, in Luigi Vanvitelli 1700- 

2000, a cura di A. Gambardella, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Caserta, 14-16 dicembre 

2000), Caserta, Saccone, 2005, pp. 243-253; La cultura architettonica italiana in Russia da Caterina II 

ad Alessandro I, a cura di P. Angelini-N. Navone-L. Tedeschi, Atti del Convegno Internazionale di Studi 

(Venezia, 20-21 aprile 2001), Mendrisio, in via di pubblicazione; P. MILTENOV, Permanenza e sviluppo 

della cultura vanvitelliana a San Pietroburgo: l’opera di Carlo Ivanovič Rossi durante il regno di Alessandro 

I, in Francesco Collecini e la diffusione della cultura vanvitelliana, Atti del Convegno Internazionale di


Studi (Belvedere di San Leucio, 10 dicembre 2004), in via di pubblicazione. 

3 In proposito si veda A. BUCCARO, Nascita e rappresentazione di una capitale: i primi cinquant’anni 

di San Pietroburgo (1703-1753), in Tra Oriente e Occidente, cit., pp. 93-103. 

4 Tali piante sono raccolte nell’opera: Piante storiche della metropoli di San Pietroburgo tra il 1714 e il 

1839, San Pietroburgo, 1843 (Biblioteca Nazionale Russa di San Pietroburgo, K 2-Pb 8/89). 

5 Tra le piante custodite nella Biblioteca Nazionale Russa di San Pietroburgo che raffigurano il 

territorio del golfo di Finlandia in questi anni, segnaliamo la Pianta del territorio attualmente occupato 

da San Pietroburgo, realizzata nel 1698 prima della vittoria di Pietro il Grande, comprendente anche la 

contemporanea fortificazione svedese («Plan mestnosti, zanimaemoj nyne Sankt-Peterburgom, snjatyj v 

1698 godu») di 22x27 centimetri. Il grafico risale al 1698 quando il comandante della fortezza svedese 

elaborò una pianta raffigurante il territorio del delta del fiume Neva, ove giaceva la detta fortezza, precisamente 

sulla riva sinistra del fiume Ochta in prossimità del punto in cui esso sfocia nel fiume Neva. 

Nel 1737 il grafico fu revisionato; successivamente l’architetto R.E. Schawartz, proveniente dall’Accademia 

delle Scienze di San Pietroburgo, elaborò una versione russa di detta pianta che fu stampata nel 

1872. Tale grafico registra che alla fine del XVII secolo, lungo il delta del fiume Neva, non vi era alcun 

insediamento e il territorio risultava ancora costituito da esigui nuclei abitativi. Lungo la foce del fiume 

Ochta si trovava la fortezza svedese Nienšanc dotata di un’area mercantile collocata lungo la riva destra 

del fiume. L’assedio della fortezza svedese durante la “Guerra del Nord” (1700-1721), ovvero il conflitto 

tra lo zar Pietro il Grande e Carlo XII di Svezia che si risolse in favore della Russia che riacquistò 

l’accesso al Mar Baltico, rappresentò per la Russia il punto di partenza per la costruzione della nuova 

capitale. Per un’ulteriore approfondimento si vedano anche la litografia di 21x28 centimetri relativa 

all’Assedio della Nienšanc 24 aprile-1 maggio («Osada Nienšanca 24 aprelja-1 maja 1703 goda») stampata 

a San Pietroburgo nel 1858 e quella raffigurante la città prima della fondazione di San Pietroburgo, 

ovvero la Pianta del territorio di San Pietroburgo nel 1700, («Plan mestnosti Sankt-Peterburga v 1700 

godu»), stampata a San Pietroburgo nel 1853. Quest’ultima è raccolta, insieme a quelle degli anni ’5, 

’25, ’38, ’56, ’77, ’99, 1840 e 1845, nel seguente volume custodito presso la Biblioteca Nazionale Russa 

di San Pietroburgo: N.I. CYLOV, Piante di San Pietroburgo nel 1700, 1705, 1725, 1738, 1756, 1777, 

1799, 1840 e 1849 con l’integrazione dei 13 quartieri metropolitani («Plany Sankt-Petersburga b 1700, 

1705, 1725, 1738, 1756, 1777, 1799, 1840 i 1849 godach, s priloženiem 13 častej stolicy goda»), San 

Pietroburgo, 1853. 

6 Una traccia di chiaro stampo europeo è evidente nel linguaggio architettonico di Trezzini al quale 

fu affidata l’elaborazione di un piano urbanistico secondo il modello adottato dai Függer ad Amsterdam 

nel Cinquecento, finalizzato al massimo sfruttamento fondiario dei suoli, con canali paralleli tra loro e 

viali alberati, in cui si sarebbe assegnata all’isola Vasil’evskij la funzione di nucleo centrale ed elemento 

ordinatore della città. Tale piano è riportato anche nella pianta Grundriss der Festung Statt und Situation 

St. Petersburg, custodita nella Biblioteca Nazionale Russa di San Pietroburgo, incisa dal tedesco G.P. 

Busch e stampata negli anni 1717-1721. In generale, tale litografia acquerellata riporta sia il rilievo 

dell’esistente che le nuove intenzioni progettuali per l’isola Vasil’evskij, l’isola di Peterburg e il lato 

di Moscov. Anche se il piano non fu realizzato, il sistema di canali indicato da Trezzini per l’isola 

Vasil’evskij divenne una base per i futuri allineamenti stradali. Non meno utili, al riguardo, risultano 

altri due grafici custoditi nella stessa biblioteca: l’incisione su rame relativa alla Descrizione Topografica 

della Nuova Capitale della Russia («Topografičeskoe izobraženie Novoj russkoj stolicy») stampata da J.B. 

Homman a Norinberga negli anni 1726-1727 e la Nuova e rettificata pianta di San Pietroburgo e del 

fiume Neva durante il regno dell’Imperatore russo Pëtr Alekseevič («Nova ac verissima urbis S. Petersburg 

ab Imperatore russico Petro Alekii»), stampata ad Amsterdam negli anni 1725-1729 da R. Ottens. 

Entrambi i grafici uniscono il rilievo dei quartieri della fortezza e dell’Ammiragliato con il progetto di 

Trezzini per l’isola Vasil’evskij. Il grafico stampato ad Amsterdam, litografia acquerellata di 50x57 centimetri, 

reca nella fascia superiore anche una pianta generale che registra i nuovi insediamenti. 

7 BIBLIOTECA NAZIONALE DI NAPOLI, Palat. Banc. 15/6. Si veda pure Pietroburgo, cit., p. 98; A. 

BUCCARO-G. KJUČARIANC-P. MILTENOV, Antonio Rinaldi, cit., p. 21. 

8 La pianta fu pubblicata nel 1741 nell’album Case, Biblioteche e curiosi alloggiamenti dell’Accademia 

Imperiale delle Scienze in Pietroburgo.

406 


9 Per un approfondimento riportiamo qui di seguito le fabbriche e le principali infrastrutture relative 

a ciascuna area amministrativa: I. L’isola Peterburgskij (1. fortezza di San Pietroburgo, 2. coronamento 

della fortezza, 3. area del vecchio mercato, 4. esattoria, 5. locanda, 6. mercato alimentare, 7. 

chiesa dei Santi Pietro e Paolo, 8. antica cattedrale della Santa Trinità, 9. chiesa dell’Assunzione della 

Madre di Dio, 10. chiesa dell’apostolo Matteo, 11. tempio della Santa Madre di Dio, 12. chiesa della 

Trasfigurazione del Signore, 13. chiesa della Trasfigurazione del Signore nella casa dell’arcivescovo di 

Novgorod, 14. giardino della farmacia, 15. isola della Croce, 16. isola di Pietra, 17. isola di Pietro). 

II. L’area dell’Ammiragliato (18. residenza estiva dell’imperatore, 19. vecchio palazzo d’Inverno, 20. 

palazzo d’Inverno, 21. Ammiragliato 22. cortile delle Scuderie, 23. maneggio, 24. mezzanino per la 

servitù, 25. fabbrica per la filatura, 26. depositi di legname per la costruzione di navi, 27. cantiere navale 

per le galere, 28. depositi di viveri per i servitori di marina, 29. cortile per gli animali e cani da caccia, 

30. serra di Palazzo, 31. cortile per gli elefanti, 32. grande prospettiva della Neva, 33. edificio Gostinyj 

Dvor, 34. mercato sul mare, 35. area distrutta dall’incendio ove attualmente si trovano le case di pietra, 

36. case di campagna, 37. prospettiva Media, 38. prospettiva dell’Ascensione, 39. area per le case dei 

servitori di marina, 40. edificio di avvistamento, 41. fabbrica della pergamena, 42. isola Rotonda, 43. 

chiesa di San Isacco di Dalmata, 44. chiesa della nascita della Madre di Dio, 45. chiesa dell’Ascensione 

del Signore, 46. grande chiesa luterana dell’apostolo Pietro, 47. chiesa svedese, 48. chiesa protestante, 

49. via Gostinnaja sul lungofiume, 50. grande via tedesca, 51. posta imperiale, 52. farmacia imperiale, 

53 via Bol’šaja Lugovaja). III. L’area Moskovskaja (54. cantiere navale privato, 55. osteria, 56. chiesa 

del santo martire Panteleimon, 57. chiesa di Simeone e Anna, 58. cortile per il pollame, 59. giardino 

italiano, 60. fonderia, 61. via Litejnaja, 62 via Puškarskaja, 63. laboratorio per i fuochi d’artificio, 64. 

scuderie per le guardie a cavallo, 65. caserme delle guardie a cavallo, 66. convento di Aleksandr, 67. stazione 

della posta per Mosca 68. metalli per le fontane del giardino d’Estate). IV. L’area Vyborgskaja (69. 

cortile grande per i cani da caccia, 70. chiesa della Santa Trinità, 71. parte finale della città, 72. cortile 

piccolo per i cani da caccia, 73. giardino delle querce, 74. borgo dei cosacchi, 75. cortile per la filatura, 

76. fabbriche di birra olandese, 77. case di campagna, 78 . ospedale, 79. fabbriche di zucchero, 80. 

cimitero tedesco, 81. cimitero e chiesa di San Samson, 82. battaglione Sinjavinov). V. L’isola Vasil’evskij 

(83. ponte di attraversamento del fiume Neva verso l’isola Vasil’evskij, 84. collegi, 85. Accademia delle 

Scienze con la biblioteca e il museo della Kunstcamera, 86. teatro dei fuochi d’artificio, 87. mercato 

Gostinyj Dvor e la Borsa, 88. dogana portuale, 89. imbarcadero vicino al mercato stabile, 90. depositi 

della canapa (Pen’kovy), 91. palazzo della scuola militare per nobili, 92. prospettiva grande verso il porto 

delle galere, 93. prospettiva piccola, 94. linee delle strade dell’isola, 95. porto delle galere, 96. chiesa 

del santo apostolo Andrea, 97. golfo della Kronštadt, 98. Accademia navale). 

10 G.N. KOMELOVA, Vedute di Pietroburgo, cit., passim; San Pietroburgo 1703-1825. Arte di corte dal 

Museo dell’Ermitage, Milano, Berenice, 1991 (catalogo della mostra tenutasi a Torino, 4 maggio-8 settembre 

1991), scheda di G. MIROLJUBOVA alle pp. 103-105; A. BUCCARO-G. KJUČARIANC-P. MILTENOV, 

Antonio Rinaldi, cit., p. 21. 

11 F. GEORGEL, Voyage a Saint Petersbourg en 1799-1800, Paris, Eymery, 1818; G.N. KOMELOVA, 

Vedute di Pietroburgo, cit., passim. 

12 La tecnica usata è quella dell’incisione a bulino acquerellata. Per una lettura più dettagliata di 

alcune di queste vedute, si vedano le schede di G.N. KOMELOVA in San Pietroburgo, cit., pp. 106-113. 

13 Alla fine degli anni Quaranta - ossia alla stessa epoca in cui furono preparate le incisioni descritte - va 

pure datata una veduta di autore ignoto di particolare interesse rinvenuta presso la Società napoletana di 

storia patria. In proposito si veda A. BUCCARO, Nascita e rappresentazione di una capitale, cit., pp. 93-103. 

14 Sull’argomento cfr. A. BUCCARO-G. KJUČARIANC-P. MILTENOV, Antonio Rinaldi, cit., passim. 

15 N.I. CYLOV, Piante di San Pietroburgo, cit., passim. 

16 Carta bilingue russo-francese di 61x93 centimetri. Nel cartiglio, in testa a destra, il titolo dell’opera 

e gli emblemi della Russia e di San Pietroburgo. 

17 Carta bilingue russo e francese, di 45x60 centimetri, preparata dal generale maggiore I. Fitctum 

sulla base di triangolazioni realizzate sotto la direzione del tenente generale F. Meder nel 1808 e con 

l’ausilio di rilievi topografici della provincia di San Pietroburgo iniziati nel 1820 sotto la direzione del 

tenente generale F.F. Schubert. 

18 L’acquarello è custodito a San Pietroburgo presso il museo di stato dell’Ermitage, inv. 5551.

L’IMMAGINE URBANA TRA IL 1714 E IL 1839 407

408 

PETRANA MILTENOV


a pagina 407 

Fig. 1 - I. Agafonov, Pianta della città di San Pietroburgo 

durante il regno dell’Imperatore Pietro il Grande 

dal 1714 al 1725, 1843, San Pietroburgo (Biblioteca 

Nazionale Russa, K2-Pb 8/89). 


nel 1796, 1847, San Pietroburgo (Biblioteca 

Nazionale Russa, K2-Pb 8/89). 

a fianco 


durante il regno di zar Nicola I - 1839, 1843, 

San Pietroburgo (Biblioteca Nazionale Russa, K2-Pb 

8/89).

Città &Storia 

La cifra della città 

Architetture 

e trasformazioni urbane 

0106 

«Città e Storia» 

anno I, 2006, 1 

La cifra della città 

Architetture e trasformazioni urbane 

a cura di Roberta Morelli e Maria Luisa Neri 

R. MORELLI – M.L. NERI, Introduzione 

S. DIONISI, Confraternite e rendita urbana: il San Salvatore e il 

Gonfalone di Roma tra XV e primo XVI secolo 

I. PUGLIA, Per la storia dei fedecommessi: il «Palazzo di Siena» 

dei Piccolomini (1450-1582) 

M. VAQUERO PIÑEIRO, Renta y transformación de las viviendas 

en Roma durante el siglo XVI 

A. ROCA DE AMICIS, L’area di Santa Maria Maggiore all’epoca 

di Paolo V Borghese: canonici, privati e strategie di riqualificazione 

urbana 

S. SCOGNAMIGLIO, Patrimoni e corporazioni a Napoli tra XVI 

e XVIII secolo. Proprietà, poteri e profitti nell’economia urbana 

europea di ancien régime 

C. ALTAVISTA, La proprietà immobiliare a Genova in antico 

regime: un fenomeno urbano dall’osservatorio dell’Albergo dei 

poveri (1656-1798) 

S. CIRANNA, Della «principalissima industria della città di 

Roma». Case, botteghe, laboratori e studi degli artieri della 

pietra 

D. FELISINI, Forme e tendenze dell’investimento immobiliare nella 

Roma dell’Ottocento 

R. CATINI, La nuova forma della Capitale: l’apertura del tunnel 

del Quirinale e il Palazzo del Drago 

A. CIUFFETTI, I Patrimoni immobiliari delle grandi industrie e lo 

sviluppo urbano. I casi di Piombino e Terni tra Otto e Novecento 

M. SAVORRA La «città delle Generali»: investimenti, strategie e 

architetture 

A. DAMERI-S. GRON, La committenza della famiglia Borsalino: 

gli interventi in Alessandria 

M.S. POLETTO, Gli investimenti della società Reale Mutua a 

Torino. L’ intervento per la Torre Littoria 


E. SORI, La città del tardo Rinascimento 

C.M. TRAVAGLINI, A proposito dell’ Ara Pacis 

G. ZUCCONI, I recenti progressi della local history italiana 

Schede 

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EL CATASTRO DE ENSENADA 

FUENTE PARA EL ESTUDIO DE LAS CIUDADES DE LA CORONA 

DE CASTILLA A MEDIADOS DEL SIGLO XVIII 

El Diccionario de la lengua castellana conocido como Diccionario de Autoridades, 

publicado entre 1726 y 1739, ofrece dos acepciones del vocablo «ciudad». La primera 

es «Población de gentes congregadas a vivir en un lugar, sujetas a unas leyes y 

a un gobierno, gozando de ciertos privilegios y exenciones que los señores Reyes se 

han servido concederlas según sus servicios». Esta acepción sería equivalente a lo que 

en Roma se llamaba civitas. La segunda acepción define la ciudad como «los muros, 

torres y demás edificios de que se compone» o, lo que es lo mismo, el recinto material 

donde se aloja y vive la población, la urbs latina. Ciudades castellanas en estos sentidos 

eran Toledo, León, Sevilla o Burgos, que ejercían además de “cabezas” o capitales 

de reinos. Así, Burgos se autotitulaba caput Castellæ, cabeza de Castilla. También eran 

ciudades relevantes Salamanca, Valladolid, Granada, Cuenca o Murcia. Madrid, sin 

embargo, aunque sede de la Corte y capital de la Corona castellana, no tenía el rango 

de ciudad sino otro inferior, el de «villa». Originariamente, «villa» era término que, a 

la usanza de Roma, se aplicaba a «quintas» o «casas de campo» desde las que se dirigía 

la explotación de un espacio agrario, pero con el tiempo se aplicó a poblaciones a 

las que, sin el rango de ciudad, se les concedió por los reyes «jurisdicción propia». 

Madrid es, pues, Villa de Madrid, denominación que pasará a ser la de «Villa y Corte» 

desde que en el siglo XVI el monarca Felipe II (1556-1598) estableciera en ella su 

residencia de manera estable, habiendo sido hasta entonces la Corte itinerante. 

A mediados del siglo XVIII, los territorios de la Corona de Castilla tenían 6,5 

millones de habitantes, agrupados en 1,7 millones de hogares (antiguamente «fuegos») 

bajo la dependencia de otros tantos «cabezas de casa» o de familia, lo que 

representa una media de 3,8 habitantes/hogar 1 . La población castellana de entonces 

vivía agrupada en 73.304 entidades de población de muy distinto rango (ciudades, 

villas, lugares, aldeas, cotos redondos, granjas, despoblados, casas de campo, cortijos…), 

lo que representa un valor medio de 89,9 habitantes por núcleo habitado 2 . 

El grado de dispersión era elevado y solamente 20 poblaciones rebasaban los 15.000 

habitantes. En esta escala, Madrid ocupaba el primer lugar con 125.000 habitantes, 

siguiéndole Sevilla, Murcia, Granada, Málaga, Córdoba, Cádiz, Écija, Jerez, Lorca,

412 CONCEPCIÓN CAMARERO BULLÓN 

Cartagena, Antequera, Jaén, Valladolid, Santiago, Toledo, Puerto de Santa María, 

Lucena, Badajoz y Osuna, ciudad ésta que cerraba el grupo con 15.200 habitantes. 

Obsérvese que 12 de esas ciudades eran andaluzas y que únicamente dos, Valladolid y 

Santiago, se ubicaban en la mitad norte de la península. Con población inferior había 

ciudades históricamente tan importantes como Salamanca, Segovia, Burgos, Cáceres, 

Zamora, Toro, Mérida, Alcalá de Henares o Medina del Campo, cuyas poblaciones 

se escalaban de mayor a menor entre los 14.500 de la primera, sede de la universidad 

castellana más prestigiosa, y los 4.000 de Medina del Campo, la que antaño fuera 

centro comercial de primer rango en el contexto europeo con su mítica feria de lanas. 

Obsérvese que la dispersión de la población es importante en todo el norte, basado 

en pequeñísimos lugares y aldeas, de apenas un puñado de familias, mientras que en 

las provincias andaluzas, Extremadura, Toledo y Murcia, el poblamiento se organiza 

a partir de núcleos de grandes dimensiones con un muy importante poblamiento 

disperso intercalar en casas de campo, alquerías y cortijos ( Cuadro 1). 

Cuadro 1 - Tipo de núcleos de población y poblamiento en las 22 provincias de la Corona de Castilla 

Provincia 

Ávila 

Ciudades 

1 

Villas 

90 

Lugares 

207 

Ventas 

6 

Términos 

redondos 

12 

Despoblados 

128 

Casas 

de 

campo 

18 

Burgos* 6 588 1.191 13 53 - - - - 

Córdoba 4 55 0 22 0 35 3.185 

Cuenca 2 232 186 5 2 52 775 

Extremadura 7 230 133 3 - - 14 2.993 

Galicia 7 81 3.202 - - 667 - - 67 

Granada 17 182 172 38 24 3 13.279 

Guadalajara 2 187 110 7 9 18 28 

Jaén 5 58 11 19 0 3 3.940 

León 3 290 4.757 - - 62 91 42 

Madrid - - 73 17 6 4 6 79 

Mancha 2 93 93 20 4 4 3.543 

Murcia 5 60 1 24 - - 1 22.588 

Palencia 1 120 187 2 29 21 8 

Salamanca 2 134 702 0 57 173 5 

Segovia 1 100 302 14 22 143 0 

Sevilla 15 160 26 51 479 33 2.505 

Toledo 2 229 100 33 25 123 1.680 

Toro 1 83 229 9 24 35 23 

Valladolid 1 171 354 1 24 67 210 

Zamora 1 59 186 - - 68 25 6 

Total 85 3.275 12.166 273 1.556 975 54.974 

Nota: En el caso de la provincia de Burgos, los epígrafes «términos redondos» y «granjas» aparecen 

unidos al igual que despoblados y ventas. 

Fuente: Elaboración propia a partir de los datos del Censo de Ensenada, 1756. AGS, DGR, leg. 1989 y 

Archivo Histórico Nacional, Fondos contemporáneos del Ministerio de Hacienda, libro 7501.

EL CATASTRO DE ENSENADA 413 

En 1749, en el reinado del Borbón Fernando VI (1746-1759), se puso en marcha, 

mediante decreto de 10 de octubre 3 , la realización de una magna averiguación 

catastral de todos los territorios de la Corona de Castilla. Esta pesquisa es conocida 

como Catastro de Ensenada, por haber sido su organizador y principal impulsor 

el marqués de la Ensenada, don Zenón de Somodevilla (1702-1781), ministro de 

Hacienda (1743-1754). Pretendía dicho Catastro realizar una averiguación universal 

de personas y bienes, de la que nadie quedaría exento, para conocer «la consistencia 

de las tierras y haciendas comprehendidas en estos sus Reynos». El decreto puso el 

énfasis en el carácter «universal», sin excepciones, de la averiguación al señalar que 

«se han de examinar también todas las haciendas pertenecientes a eclesiásticos, tanto 

seculares como regulares, sin excepción de ninguna especie de frutos y rentas», pues 

hasta entonces las pertenencias de los privilegiados (nobleza y clero) habían quedado 

al margen de averiguaciones y cargas fiscales, por vía de derecho o de hecho, pero en 

todo caso en perjuicio de los pecheros del estado general. 

Las averiguaciones catastrales se desarrollaron desde marzo de 1750 hasta agosto 

de 1757, mes en el que se finalizaron las más complejas, las de la Villa de Madrid 4 . Para 

la dirección suprema se designó una comisión, la Real Junta de Única Contribución, 

constituida por ocho miembros del más alto rango administrativo. El nombre de 

«única contribución» se debía a que el objetivo declarado del Catastro era averiguar 

los bienes y rentas de cada vasallo para fijar después una «contribución única» anual 

sobre la riqueza de cada uno, suprimiendo desde su aplicación un conjunto ingente 

de gravámenes conocidos como «rentas provinciales» 5 . 

De la Real Junta dependerían los «Intendentes», título que se dio a las máximas 

autoridades de cada una de las 22 provincias en que se había organizado administrativamente 

el territorio castellano en 1725. Estos altos funcionarios, designados 

directamente por el monarca, procedían en su mayor parte de la nobleza media y 

del ejército, y demostrarían en general una muy notable capacidad de organización y 

gestión en los años en que debieron ocuparse prioritariamente de dirigir las averiguaciones 

catastrales en las provincias puestas a su cuidado. Según el número y tamaño 

de las poblaciones a su cargo, los Intendentes propusieron a la Real Junta la formación 

de cierto número de equipos catastrales, denominados «audiencias», al mando 

de los cuales habría un «juez-subdelegado», al que se uniría en todas sus actuaciones 

un «escribano real» (notario) para dar fe pública de la veracidad de todos los documentos 

y diligencias catastrales. El número de equipos superó el millar. Por ejemplo, 

la provincia de Burgos, con 1.849 poblaciones, constituyó 120 de esos equipos. En 

general, el Catastro de cada población fue dirigido por un solo equipo, pero en las 

ciudades más populosas actuaron varios, generalmente uno por cada parroquia. Por 

poner algún ejemplo, en Granada «para la mayor brevedad, facilidad y claridad de la 

operación», la averiguación se hace por parroquias, que eran 23 6 . De igual modo se 

procede en Salamanca, ciudad universitaria y eclesiástica donde las haya, en la que


a la organización por parroquias (en número de 28) se añaden encargos específicos 

a varios jueces-subdelegados para averiguar a determinados colectivos: los Colegios 

mayores de San Bartholomé, del arzobispo, de Cuenca y de Oviedo, Colegios menores, 

Colegios militares del Rey, Órdenes militares de Alcántara, Calatrava y San Juan, 

Señoras de Sanctispiritu, Colegio de la Vega, Casa real de San Antón, Capilla real 

de San Marcos, conventos de religiosas, casas de doncellas huérfanas, Hospitales de 

Ntra. Sra. del Amparo y Santa María la Blanca, Mesa capitular y fábrica de la Catedral 

y, finalmente, pertenencias y privilegios de la Ciudad 7 . En la Villa de Madrid se ocuparán 

de la catastración 22 equipos, a los que se añadirán 7 más que se ocuparán de 

visitar, medir y valorar todas las casas de Madrid y de levantar planos a escala de las 

557 manzanas y de los 7.553 edificios, que se levantaban sobre 11.450 sitios o solares, 

con una superficie total edificada en planta de 75 millones de pies cuadrados, algo 

más de 700 hectáreas. Para ello, los primeros se sirvieron también de la división en 

parroquias (Madrid sólo tenía 13, alguna tan grande como toda Salamanca), mientras 

que los segundos procedieron sistemáticamente manzana a manzana, tomando 

como base el excelente plano de la Villa levantado por Pedro Texeira en 1656 8 . Y es 

que en Madrid, Villa y Corte, se hicieron de forma casi simultánea dos catastros: el 

de Ensenada (1754-1757) y la Planimetría General de Madrid (1750-1752). El primero 

textual, el segundo planimétrico. El objetivo de este último era convertir una 

antigua carga de origen medieval, denominada «regalía de aposento», consistente en 

ceder una parte de la vivienda para aposentar a alguno de los servidores reales, en un 

impuesto sobre bienes inmuebles pagado en dinero. Para ello se visitaron todas las 

casas de la Villa y se cartografiaron, labor que realizaron cuatro arquitectos: Nicolás 

de Churriguera, Ventura Padierne, Fernando de Moradillo y José Arredondo 9 . 

Catastro y urbs 

El decreto de 1749 que ordenó hacer el Catastro estableció con precisión qué y 

cómo debía averiguarse. Y si antes se dijo que la catastración debía ser universal y sin 

excepción de persona alguna, otro tanto cabe decir del qué: había que averiguarlo todo. 

El insigne historiador Pierre Vilar, en la introducción a uno de nuestros trabajos, destacó 

sobre el espíritu y objetivos del Catastro su propósito de «averiguarlo todo de todos»: 

c’est un vieux rêve, de todo gobernante. «Qui n’a désiré ‘tout savoir’?», se preguntaba seguidamente 

10 . Todo, es decir, personas con su nombre, estado, edad, oficio, domicilio, 

...; bienes inmuebles rústicos, con su propietario, superficie, ubicación, forma, calidad, 

aprovechamiento, rotación de cultivos, lindes, ...; ganados, con su especie, utilidad, 

lugar de pastoreo, ...; hipotecas o censos activos y pasivos; privilegios de todo tipo, fuese 

cual fuese su antigüedad, pues muchos se remontaban a tiempos medievales, exigiendo 

a todos la entrega de copias legitimadas; descripción y valoración de las rentas derivadas 

del comercio al por menor y por mayor y de las actividades liberales o artesanales, 

salarios, y, obviamente, bienes inmuebles urbanos, tanto solares como edificios, que


debían ser identificados por barrios y calles por los subdelegados, anotando el nombre 

del propietario, el del arrendatario si era el caso, las medidas del inmueble (ancho, alto 

y fondo) en varas castellanas (1 vara = 83,3 cm) o pies (1 pie = 27,86 cm, un tercio de 

vara), las plantas o alturas, y las dependencias de la casa en cada planta, así como si tenía 

adosado corral, jardín o huerto; si disponía de bodega para el vino y si tenía cámaras 

para los granos o alimentos, caballerizas, etcétera. 

Una de las características del Catastro de Ensenada que lo dotan de gran fiabilidad 

es que la averiguación de todo lo dicho partía de las declaraciones escritas y firmadas 

bajo juramento por cada uno de los cabezas de casa o titulares de cualquier bien o 

renta; pero, y esto es lo fundamental, tales datos no se pasaban a los libros oficiales del 

Catastro sin antes ser sometidos uno a uno a verificación o, como ellos decían, «reconocimiento». 

La verificación de las tierras se hacía mediante «peritos» designados por 

los propios pueblos o ciudades, a los que se solían añadir los llamados “peritos del rey”, 

designados por el juez-subdelegado. Inicialmente, se había establecido que, además de 

tales peritos, interviniesen agrimensores profesionales, que debían levantar el plano de 

cada tierra. Pero pronto se constató que tales profesionales eran muy escasos, lo que 

hacía imposible medir y dibujar los más de 20 millones de tierras que se catastraron. 

Por otro lado, se evidenció el muchísimo tiempo necesario para tal labor - lo que podría 

llevar a un empantanamiento del catastro, como había ocurrido en la primera etapa de 

elaboración del catastro milanés- y el alto coste, lo que condujo al monarca a decretar 

que, si en la zona no había agrimensores fácilmente accesibles, se acudiese a éstos únicamente 

en casos de evidente falsedad o denuncia de parte. 

En cuanto a las casas, también se midieron y describieron, aunque no se levantaron 

planos de las mismas. La medición estuvo a cargo de los llamados “alarifes”, 

profesión que el citado Diccionario de Autoridades describe así: «El Maestro que públicamente 

está señalado y aprobado para reconocer, apreciar, u dirigir las obras que 

pertenecen a la Architectura; aunque ya generalmente se toma solo por el Maestro de 

Albañilería». Hace proceder el término del árabe al-Arif, «el reconocedor». Y si esto 

sucedía en los pueblos, en las ciudades la medición y reconocimiento de casas se encomendó 

también a arquitectos cuando los había disponibles. De todo el proceso de 

medición y reconocimiento de casas, familias, ganados y tierras se levantaban sendos 

autos que quedaban unidos a la documentación catastral de la localidad en cuestión. 

Así, en Illescas, el 12 de febrero de 1753 se fecha un auto en el que se recoge que 

peritos, capitulares y alarife manifiestan que 

en consecuencia de lo mandado […] han hecho el reconocimiento de casas y edificios 

de esa población, de los vecinos de ella y sus respectivas familias, oficios y ocupaciones 

de cada uno desde el día 7 del corriente hasta oy, teniendo presentes las relaciones dadas 

por ellos, que se han verificado y comprobado, anotando en cada una sus respectivas 

medidas y regulares cantidades que valen en arrendamiento dichas casas, reconociendo si 

correspondían las familias con las que expresan dichas relaciones y los oficios, ejercicios y 

ocupaciones de todos los vecinos 11 .


Illescas, sede de corregimiento, tenía 432 vecinos, unos 1.600 habitantes, y 260 

casas, lo que parece indicar un reciente y rápido crecimiento de esta localidad toledana, 

situada en el camino que unía Toledo con la Villa y Corte. 

Para facilitar la finalidad fiscal del Catastro, como se recoge en el auto ut supra, 

de cada casa era obligado fijar también su valor en renta, bien el real que pagaba el 

inquilino, bien el valor estimado cuando estaba ocupada por su propietario, o bien 

se hallaba desocupada. Véase como ejemplo cómo se describe una casa del pueblo 

de Griñón, próximo a Madrid, cuyo valor en renta es aproximadamente la mitad del 

salario anual de un agricultor: 

Una casa en la Plaza, con 18 varas de frente y 45 de fondo, su havitación consiste en sala, 

alcoba, dos quartos, dos cámaras, bodega, pajar, portal, cozina, quadra, cubas, corral y pozo. 

Linda con dicha Plaza y calle del Convento y en arrendamiento hará 180 reales de vellón 12 . 

Se trataba de una casa grande principal, de 682 m 2 de planta, de la que no se da 

la altura, pero que seguramente tenía una planta más otras dos, quizás de menor superficie, 

pues se dice tener cámaras (planta alta) y cubas en la bodega (sótano). Muy 

habitual será, no obstante, dar las tres dimensiones, como se constata, por ejemplo, 

hasta en el pequeño lugar burgalés de Cortiguera, pueblo hoy prácticamente abandonado, 

de cuyo vecino de entonces Andrés de Huydobro se dice que poseía 

Una casa en la Castellana, tiene de alto 8 varas, de ancho 6 y de fondo 10, confronta por 

un lado pieza de Santiago Varona y por el otro calle Real. Rinde 6 reales de vellón 13 . 

Nada escapa a la averiguación catastral, ni siquiera las paupérrimas viviendas troglodíticas, 

las «casas cueva», muy frecuentes en algunas localidades, tanto grandes 

como pequeñas, sobre todo en el sur y el levante españoles. Son buen ejemplo de localidades 

con importante presencia de este tipo de vivienda, Añover de Tajo (Toledo) 

o las localidades granadinas de Benalúa, Purullena, Guadix 14 , Orce o la propia ciudad 

de Granada. El más célebre barrio de esta ciudad, el Sacromonte, era entonces y es 

hoy un barrio de cuevas. Sirva de ejemplo de la descripción de este tipo de inmuebles, 

la incluida en el Libro de lo real de legos en la que vivía Joseph de Rivas, vecino de 

Añover de Tajo: 

Tiene una casa cueva, propia de su muger, la que es partición con Pedro de Mora, su padre; 

está al sitio de las Cuebas de San Bartolomé, linda por levante con cueva de Joseph 

Gabrelón, por sur con cueva de Julián Prieto, por norte con cueva de Alphonso el Sapo, por 

poniente con calle que vaxa a San Bartolomé”, se tasa en renta en 30 reales de vellón 15 . 

Como hemos avanzado, la pertenencia a una clase privilegiada del dueño de los 

inmuebles (noble o eclesiástico) no significó exención en la averiguación, y en el 

catastro quedaron registrados los palacios de los grandes de Castilla. En Guadalajara 

se encuentra el magnífico palacio gótico-renacentista de la duquesa del Infantado,


que, por su suntuosidad y encontrarse en la ruta de Madrid a Zaragoza y Barcelona, 

era utilizado, además de por sus dueños, por los miembros de la familia real en sus 

desplazamientos, y que hoy alberga el Archivo histórico provincial, donde se custodia 

el catastro de esta provincia. En la documentación catastral se describe el edificio, 

jardín y dependencias anexas con bastante detalle: 

Las principales [casas], que sirben de hospedería para los tránsitos de sus Majestades y 

Altezas, sitas en la plazuela de Santiago, de cuias habitaciones no se puede dar yndividual 

razón, pero se componen de cuartos principales, segundos, vajos, bodegas, cavallerizas 

y demás oficinas correspondientes; linda por serrano con la plazuela de la Fábrica, por 

ábrego, con la calle del Chorrillo, por solano con el hospital de San Juan de Dios y casa de 

don Vizente Beleña, vecino de esta Ciudad, y por zierzo, con casas de don Pedro Oñate y 

de los herederos de Doña María del Castillo y otras, y con la plazuela de Santiago; tiene de 

frente duzientos y quinze pies, de fondo hasta la pared que cuadra el jardín, veinte y siete, 

y el todo, cuarenta y tres mil setecientos setenta y tres pies cuadrados, por sus distintas 

medidas; y el jardín tiene de ancho duzientos y cuarenta y de largo trescientos y veinte 

y quatro, que hazen pies cuadrados setenta y siete mil setecientos y sesenta, cuia renta 

no está estimada por las razones dichas de tránsito y hospedería de sus Majestades; y el 

corralón contiguo y con los mismos linderos, en que están ynclusas tres casillas accesorias, 

estimada la renta de cada una en ocho ducados al año; y en dicho corralón está la cochera, 

cuadra y pajar, y todo tiene de frente ciento y sesenta y ocho pies, de fondo ciento y 

ochenta y quatro, que cuadrados componen treinta mil novezintos y doze; y el jardín se 

riega con agua de pie de sus fuentes 16 . 

Aunque el palacio descrito, en principio se declaró exento por servir ocasionalmente 

de hospedería real, de haber seguido adelante el Catastro, probablemente se 

hubiese gravado, pues el rey ordenaría más adelante que la exención se limitase a los 

principales sitios reales: el Palacio Real de Madrid, el de Aranjuez, el del Escorial y el 

de la Granja, así como al entonces naciente San Fernando de Henares. 

Tampoco escaparon al catastro los edificios de titularidad y uso públicos ni los 

solares urbanos. Estos últimos generalmente no se valoraron económicamente, pero 

quedaron debidamente registrados. El edificio del ayuntamiento de la ciudad de 

Guadalajara, en el que se encuentra también la cárcel de la ciudad, el pósito y un 

puesto de abasto y venta de carbón, quedó perfectamente descrito y calculado el valor 

de las partes de mismo, que se arrendaban y proporcionaban ingresos al consistorio: 

Las casas consistoriales están en la Plaza Mayor del Ayuntamiento y se componen de su 

sala capitular, oratorio, antesala, balcón y mirador a la plaza, la oficina de contaduría, su 

escalera principal y, en el gueco de ésta, un portal cuya puerta cae a la plaza; al piso de la 

entrada está la cárcel real, que tiene su sala de audiencia; en lo bajo, un patio con quatro 

calabozos; en lo principal, el oratorio, o capilla, tres quartos y cozina; en lo segundo, otra 

sala y otros tres cuartos, todo sirve de cárzel, cuyas llaves y viviendas están confiadas al alcaide, 

que no paga a esta ciudad cosa alguna. Ynmediato a dichas casas de ayuntamiento, 

está el granero del pósito, que son dos, alto y bajo y, debajo de éstos, un sótano y portal 

que sirbe para vender y tener carbón, que se bende en el puesto público. Y más abajo ai 

otra pieza que sirbe de granero donde se ponen las rentas de esta ciudad; todo junto forma


un quadro, que, mirando al norte, forma la mayor parte de la fachada principal a la Plaza 

Mayor, por poniente linda con casas y corral del marqués de el Balle y otro de el marqués 

de Tejada, y por sur, con corral, cozedero y cavalleriza de Manuel Pedroche, ausente, y por 

oriente linda con la calle que llaman de la cárzel; y tiene de frente cien pies, de fondo ciento 

y onze, pies quadrados, yncluso el corral, doze mil quinientos sesenta y quatro; estimó 

el alarife, del puesto del carbón, en diez ducados, y el soportal que cae debajo de la escalera 

principal en seis, los graneros del pósito en doze, y el de la ciudad en nueve […] 17 . 

Un solar de casa en la calle de las Siete Esquinas, linda a oriente, casa del combento de carmelitas 

calzados, a poniente, solar de Manuel García Jaras, al sur y norte casa de la tahona, 

tiene de frente treinta varas, fondo treinta y quatro, no se reguló producto alguno 18 . 

Pero es que, además de los edificios de vivienda, uso público o solares, el catastro 

recoge también las instalaciones comerciales, industriales y sanitarias situadas en o 

junto a las ciudades, como son tahonas, comercios, batanes, molinos de harina, de 

papel, de pólvora, pozos de nieve, pósitos, hospitales, etc., lo que permite, asimismo, 

reconstruir la trama comercial, industrial y de servicios. Dichos edificios aparecen 

recogidos, descritos uno a uno en los Memoriales y Libros de lo real y en éstos últimos, 

además, valorados. Sigamos con la ciudad de Guadalajara y veamos algunas descripciones 

significativas, un matadero, el peso de la harina, una pescadería, un pozo de 

nieve y un hospital, propiedad del Concejo, y un molino harinero, propiedad éste de 

la ya mencionada muy poderosa duquesa del Infantado. 

Matadero: Otra casa donde se matan las carnes para el abasto, que se compone de un portal 

y quarto a la entrada, un corral grande y otro cubierto, grande, que linda por solano, 

casa thenería de don Francisco López Coronel, por serrano, casa de Juan González, por 

cierzo, la calle, por ábrego, la Ronda; y, por el uso de él y la carnicería, paga el obligado de 

carnes en cada un año su renta y por lo que toca al dicho matadero la reguló el alarife en 

ochenta reales, y tiene de frente cuarenta pies, fondo con diferentes codillos, componen 

ocho mil seiscientos cuarenta y tres pies cuadrados. Importa 80 reales. 

Peso del arina: una casa en esta población que llaman el peso del arina, que está en la 

plazuela de la fábrica y se compone su vivienda alta y baja y corral, y linda por ábrego 

la calle Real, que sigue al puente y muro, por solano la dicha plazuela, por serrano con 

dicho muro, por cierzo, la ronda y corrales de la casa de don Juan Antonio Garay; y tiene 

de frente treinta y nueve pies, fondo veinte y siete, cuadrados, mil y cincuenta y tres; y el 

corral mil trescientos y doze pies, estimó el alarife su renta en 20 ducados (220 reales). 

Pescadería: Arrimado al hospital, ay un cuarto y un cubierto a el piso de la calle y en lo 

vajo, otra oficina donde están dos pilas, que cojen agua de pie para poner el pescado del 

abasto en remojo; linda por ábrego la calle, por cierzo con huerto de Bernardo Médel; a 

poniente, el hospital y por solano con dicho huerto, y tiene de frente quarenta y dos pies 

y de fondo quarenta y cinco; pies cuadrados, mil ochocientos y noventa; estimó el alarife 

la renta de esta casa en ciento y cuarenta y siete reales (147 reales). 

Pozo de nieve: en la puerta del mercado ay un pozo de nieve en el centro de la muralla, 

que linda por norte con la hondonada del Buen Vecino, por poniente la ronda, por sur la 

plazuela de Santo Domingo, por norte, el muro que le circunda; tiene un corral. Y tiene 

de diámetro el pozo veinte pies y medio, que sacada la vasa y multiplicándola por treinta 

y un pies de altura, componen cúbicos diez mil y seis, con que se pueden encerrar quinze


mil y nueve sin el colme, y el corral tiene de pies quadrados mil ciento y quatro; estimó 

su renta el alarife, si se arrendaran uno y otro, en ochocientos reales. 

Hospital: el hospital de pobres viandantes se halla construido en el hueco de la muralla 

que está arrimada al puente, que llaman del Alamín o puerta de postigo, en que ay varias 

piezas, y viene con el cargo de cuidarlos Lorenzo González; linda por serrano el puente, 

por cierzo el arroyo, por solano la pescadería y por ábrego la calle que ba desde la iglesia 

de Sta. María a dicho puente19 . 

Molino harinero: un molino arinero, ynmediato al puente de esta ciudad, que se compone 

de tres piedras con sus correspondientes peltrechos, para que no pare en su curso, es 

de rebozo; linda por zierzo con el caz y camino de Alcalá, por serrano con el camino, por 

ábrego con tierra del vínculo de don Francisco Enríquez, que posehe don Juan Clavero, 

vezino desta ciudad, y por solano con el soto e ysleta de dicho molino; tiene de frente 

setenta y dos pies, de fondo hasta la parez del socaz, veinte y quatro, que cuadrados hazen, 

zinco mil seiszientos setenta y ocho, en que se yncluie la mensura de su habitación, su 

soportal de la entrada se compone de duzientos ochenta y zinco, y su corral de tres mil 

treszientos setenta y zinco; produze en cada un año ochocientas fanegas según reconocimiento 

de ellas, corresponden al molinero la octava parte de dichas fanegas, que son de 

trigo. 12.600 reales20 . 

La riqueza de información contenida en las descripciones de instalaciones industriales 

de gran envergadura, como es el caso de las reales fábricas de paños, de lonas y 

jarcias, etc., es todavía más sugerente: 

Real fábrica de S.M.: el Rey Nuestro Señor, que Dios guarde, por su real orden ha hecho 

edificar en esta Villa [Brihuega] una fábrica para paños finos, que se administra por don 

Juan de Brihuega y Río, por quien, como tal, se ha presentado una relación con expresión 

de lo que al presente contiene dicha real fábrica, que es del thenor siguiente: 

Casa fábrica: una casa en el barrio de Santa Luzía, su figura circular, que tiene seiscientos y 

veinte y quatro pies de zircunferencia y doscientos de diámetro, con la puerta principal al 

norte, otra que sale a la rama y tendederos al mediodía, y la puerta de la Intendencia al poniente; 

no linda con casa alguna por estar dominando a todas y dentro el rezinto de las murallas; 

su vibienda se compone de un zaguán por la puerta principal, y en él, un quarto para 

el portero y otro para los soldados de guardia, un patio también zircular con una fuente, dos 

cruxías para sentar sesenta y seis thelares, el cuarto de la Intendencia con su recibimiento, 

sala, cozina y demás piezas correspondientes; en el cuerpo vajo, un zaguán en la puerta de 

la Intendencia con diferentes oficinas, como son contaduría, thesorería, quatro almahazenes 

para las lanas, utensilios, azeyte y paños acavados, una oficina de emborradores donde al 

presente ay veinte ofiziales con su despacho para el maestro, despacho de lanas y urdidor con 

lo demás correspondiente a él y un despacho para el maestro y ofizial de libros, otra oficina 

de tundidores, donde al presente ay tres mesas con seis oficiales y un despacho para el maestro, 

otra ofizina de perchadores, donde al presente ay dos mesas a la moda inglesa, con ocho 

oficiales y dos mozos para hazer y limpiar palmares, otra ofizina de despinzadoras de paños 

en limpio para quatro mesas con ocho ofiziales; en el cuerpo de desvanes ay una oficina para 

despinzadores de paños en jerga, para seis mesas con doze ofiziales, oficina de desmotadores, 

descadilladores y baqueteadores, con doze oficiales; tendederos de lanas y paños en el imbierno. 

Asimismo, tiene dicha real fábrica, a la parte del mediodía y contiguo a ella, la rama 

y tendederos de paños, con su zerca de mampostería, que ocupa tres fanegas de tierra. 

Batán y labadero: asimismo, tiene esta real fábrica sobre el río Tajuña, a distanzia de un


quarto de legua de esta población, una casa batán con dos pilas al presente y vivienda para 

el batanero y tendederos correspondientes, el que sirve para batanar los paños de dicha real 

fábrica y allí, inmediata, está casa que sirve para labaderos de lanas que ambas oficinas se 

administran por quenta de la Real Hacienda. 

Escuelas de illazas: tiene dicha real fábrica dentro de esta villa doze escuelas de ylazas, con 

ciento y ochenta tornos corrientes con otras diez escuelas de ziento y veinte tornos en los lugares 

circumbezinos con otros tantos muchachos y muchachas para las ylazas de las lanas. 

Thelares: tiene al presente esta real fábrica, treinta y tres telares corrientes en donde travajan 

cuarenta y cinco ofiziales y quinze aprendices y veinte muchachos para hazer canillas, y cada 

telar teje a el año nueve piezas de paño de a treinta baras cada una, cuio prezio, que está dado 

en los reales almacenes, es el de sesenta reales cada bara, deviéndose bajar el coste de prensa 

y tintes por no haberse construido en esta villa estas oficinas, por lo que los dichos paños se 

llevan a la real fábrica de Guadalajara para su perfección 21 . 

Del mismo tenor, sigue describiendo la tierra aledaña al batán destinada a la 

plantación de «gualda, pastel, rubia y otros ingredientes para los tintes de dicha real 

fábrica», los empleados y sus sueldos, etcétera. 

Si esta información se obtuvo de todos los edificios de todas las ciudades y pueblos 

de Castilla, desde los palacios hasta las más pequeñas y paupérrimas casas, desde 

las fábricas reales hasta el más modesto molino harinero o batán, se comprenderá su 

impagable valor como fuente documental, pues a todo lo dicho se añadía una panorámica 

cuantitativa y a veces gráfica del conjunto de la población. Tal panorámica se 

nos ofrece en un acto catastral que también se llevó a cabo en todas las poblaciones: 

un «Interrogatorio» de 40 preguntas, iguales para todos, al que contestaron todas las 

poblaciones, dando lugar a lo que se conoce como Respuestas generales del Catastro 

de Ensenada. Varias preguntas tienen a este respecto interés directo, aunque algunas 

otras también aportan datos de sumo interés para la historia urbana, como luego 

veremos. Las preguntas directas a las que nos referimos son las número 

17ª. Si hay algunas minas, salinas, molinos harineros, o de papel, batanes u otros artefactos 

en el término, distinguiendo de qué metales, y de qué uso, explicando sus dueños y lo 

que se regula produce cada uno de utilidad al año; 

21ª. De qué número de Vecinos se compone la Población, y quántos en las Casas de 

Campo, o Alquerías, 

22ª. Quántas Casas havrá en el Pueblo, qué número de inhabitables, quántas arruynadas: 

y si es de Señorío, explicar si tienen cada una alguna carga que pague al Dueño por el 

establecimiento del suelo, y quánto. 

29ª. Quántas tabernas, mesones, tiendas, panaderías, carnicerías, puentes, barcas sobre 

ríos, mercados, ferias, etc. hay en la población y término: a quién pertenecen y qué utilidad 

pueden dar cada uno al año. 

30ª. Si hay hospitales, de qué calidad, qué renta tienen y de qué se mantienen. 

Para mejor valorar el potencial de estas preguntas, véase cómo responde a dos de 

ellas la ciudad de Granada: 

A la 21ª dijeron que este Vecindario se compondrá de treze mil seiscientos y cinquen-


ta vecinos, poco más o menos, en que se comprehenden hasta unos trescientos que, 

a corta diferencia, habrá en las casas de campo, huertas, cármenes, cortijos, caseríos 

y alquería del Fargue. 

A la 22ª dijeron que en este Pueblo habrá como hasta 9.900 casas avitables, pocas más 

o menos, y en ellas la Real Fortaleza de la Alhambra, torres de su zerca y los castillos 

nombrados de Vivataubín el uno y de Torres Bermejas el otro, con sus avitaciones; 

300 cuevas más o menos; 20 casas ynhabitables, con la que en dicha Real Fortaleza 

de la Alhambra se halla nombrada la del Emperador; y 231 arruinadas y solares a 

mui corta diferencia. Sobre lo qual y muchas partes de ello pagan sus dueños algunos 

censos a la Real Hacienda de población, y otros perpetuos a diferentes particulares, 

sobre lo que no pueden decir con individualidad y certeza, y por esto se remiten a las 

relaciones de sus respectivos perceptores y administradores 22 . 

Esta riqueza de información por una y otra documentación hubiese alcanzado el 

summum si se hubiese confeccionado una planimetría de cada edificio de cada ciudad 

y pueblo, pero lamentablemente no se hizo, por las mismas razones que hemos apuntado. 

Y es que ya desde el mismo momento en que se está diseñando el modelo operativo 

del catastro se tiene la casi total certeza de que el levantamiento cartográfico de 

inmuebles urbanos y parcelas es objetivo imposible en esa primera fase si se quería ser 

fiscalmente eficaz. Para hacernos una idea de magnitudes, pensemos que en la provincia 

de Burgos se registraron 160.077 casas y 3.458 edificios de molinos, en la de 

Galicia, 343.884 casas, en la de Segovia, 44.314 edificios, incluidos molinos, en la de 

Soria 69.930, en Valladolid, 42.247 casas y 1.959 molinos y así hasta 22 provincias. 

Por ello, el planteamiento sería dejarlo para años siguientes, para una segunda etapa, 

una vez recogida y verificada toda la información y puestos en marcha y experimentados 

los sistemas operativo e impositivo. Con todo, en los primeros momentos de 

las averiguaciones hubo algunos equipos que procedieron a levantar planos técnicos 

de las localidades catastradas, como ocurriera con Fuenlabrada (Madrid) y Ajofrim 

(Toledo). Visto el tiempo empleado y la carestía de técnicos, la Junta se ratificó en 

sus planteamientos, ordenando a los responsables de ambas provincias dejar de hacer 

tales planos por el retraso que ocasionaría y lo costoso que resultaría 23 . Solo se pedía a 

los equipos dibujar a mano alzada en el margen o en una página de uno de los documentos, 

las «Respuestas Generales», una imagen del municipio o del pueblo «como 

se ve a la vista». Ello ha hecho que, cuando alguna de las audiencias contaba con un 

dibujante relativamente habilidoso, nos hayan legado algunos mapas y vistas, muy 

elementales, pero interesantes, pues constituyen un documento sin par para estudiar 

la percepción que de la ciudad y el territorio tenían las gentes del momento. Valgan 

como ejemplos los planos recogidos en este trabajo (figuras 1 a 5). 

No obstante, de aquellas poblaciones de las que se dispone de algún plano más 

o menos contemporáneo, e incluso anterior, las posibilidades de elaborar un nuevo 

plano a partir de la información catastral y con muchísimo más detalle que cualquier 

otro dibujo anterior, son inmensas, como de hecho se ha llevado a cabo por diversos 

investigadores, como es el caso de Amparo Ferrer, que lo hizo de Alhama (Granada),

422 CONCEPCIÓN CAMARERO BULLÓN


Fig. 1 - Mapa de la ciudad de Almería, incluido en sus Respuestas Generales. Está orientado 

al sur. La ciudad, hoy capital de la provincia que lleva su nombre, perteneciente en el siglo 

XVIII al Reino de Granada, se localiza en una llanura costera, junto a la desembocadura del 

río Andarax, cerrada hacia el interior por las sierras de Gádor, Alhamilla y Gata, representados 

por “borrones”, y abierta al mar. Esas características del emplazamiento quedan patentes 

con una rápida mirada al ingenuo dibujo realizado por un escribiente del Catastro. El autor 

representa el recinto, “reducto”, amurallado y el trazado de la muralla con sus cuatro puertas, 

que culmina en la alcazaba, sobre el puerto. Asimismo, recoge los arrabales extramuros con 

sus caseríos e iglesias, algunos de los aprovechamientos agrarios de la llanura costera (secanos 

y arbolado, posiblemente frutales), así como el tramo final del río. En 1752, Almería contaba 

con 2.192 vecinos, unos 8.700 habitantes (Archivo histórico provincial de Granada, Catastro 

de Ensenada, Almería). 

Fig. 2 - Vista de la villa de Caniles (636 vecinos, algo más de 2.500 habitantes), perteneciente 

al Reino de Granada. El autor dibuja una panorámica del núcleo y sus alrededores. La villa se 

encuentra emplazada en la Sierra de Baza, en un alto, sobre el que sitúa el castillo en ruinas 

(“Fuerte arruinado”), en el interfluvio de los ríos Budurria y Golopón, junto a los cuales se 

extienden las áreas de regadío (“guertas”). En las zonas más altas, los secanos y las eras para 

trillar. El núcleo urbano, situado al pie de la colina donde se encuentra el castillo, está estructurado 

en dos barrios, el alto y el bajo, cada uno con su parroquia, la de Sta. María (señalada 

con A en el dibujo) y la de San Pedro (P en el dibujo). El autor resalta también la puerta de la 

villa (B) y algunos lienzos sueltos de muralla, únicos restos que debían de quedar de la antigua 

muralla; extramuros, el convento de franciscanos recoletos, al que se accede por un camino 

que se bifurca hacia Baza, la capital del corregimiento del mismo nombre, al que pertenecía 

Caniles (Archivo histórico provincial de Granada, Catastro de Ensenada, Caniles). 

pagina seguente 

Fig. 3 - La ciudad de Guadix, situada en la hoya intramontana que lleva su nombre, a unos 

1.000 m de altura, entre los ríos Fardes y Guadix (Reino de Granada). Está rodeada por un 

cinturón de montañas: Sierra Nevada, Sierra de Baza, Mencal y Arana. En 1752 tenía 1.735 

vecinos legos y 65 eclesiásticos seculares, 7 conventos y un seminario. Era la sede del obispado 

de Guadix-Baza, y en ella residían el obispo y diferentes dignidades eclesiásticas. La presencia 

eclesiástica en la ciudad queda patente en el mapa realizado por el oficial del catastro, pues 

da la máxima importancia gráfica al palacio del obispo y a la catedral. El castillo, ni aparece, 

al igual que ocurre con el caserío urbano ni el troglodítico. Sin embargo, sí recoge la muralla 

y diversos cortijos, así como las sierras que rodean a la ciudad. Obsérvese que el dibujo está 

realizado en parte alta de la página de inicio de las Respuestas Generales (Archivo histórico 

provincial de Granada, Catastro de Ensenada, Guadix).

424 CONCEPCIÓN CAMARERO BULLÓN


Fig. 4 - Vista de la ciudad de Marbella, provincia de Málaga hoy y Reino de Granada en 1752. 

Tenía 1.144 vecinos, unos 4.500 habitantes. Está situada en una llanura costera, cerrada por 

el interior por la Sierra Blanca, entre dos ramblas. El dibujante dedica especial atención a la 

muralla de la ciudad y al baluarte, artillado de cañones, situado frente a la puerta de la ciudad 

que da al mar, y a los barcos que a ella llegaban. Parece como si presintiera que, con el tiempo, 

la ciudad tendría uno de los mejores puertos deportivos del Mediterráneo. Al oeste, junto al 

río, se situaba un trapiche (Archivo histórico provincial de Granada, Catastro de Ensenada, 

Marbella).


Fig. 5 - Vista de cinco ciudades gallegas: La Coruña (2.122 vecinos), Tuy (978), Betanzos 

(942), Lugo (705) y Mondoñedo (699). Excepcionalmente, fue realizada en la Contaduría 

de rentas por los oficiales que elaboraron los datos catastrales de nivel provincial del Reino de 

Galicia (Archivo General de Simancas, M.P. y D. XLVIII-2). 

Mª José Zaparín, de Belorado (Burgos) y José M. Corral, que lo ha hecho recientemente 

de Vinuesa (Soria), importante centro lanero y forestal en el siglo XVIII 24 . 

Catastro y civitas 

Como adelantamos, y a lo que aquí nos interesa, cada cabeza de familia tenía que 

presentar una declaración, o memorial, en la que debía incluir su estamento (pechero, 

noble, seglar o clérigo), sus datos y los de los miembros de su familia relativos a su 

actividad profesional y económica. Como además también se recoge la casa en la que 

reside, es perfectamente factible el estudio de la distribución espacial de la población 

según su estatus legal, económico y profesional, como, por ejemplo, el realizado por 

R. Herr para Santisteban del Puerto (Jaén) 25 . 

Una primera aproximación a la estructura de la población activa urbana, antes de


entrar en la minuciosidad de cada una de las declaraciones, es factible a partir algunas 

de las preguntas de la generales. En concreto las número 31 a 37: 

31ª Si hay algún cambista, mercader de por mayor quien beneficie su caudal por 

mano de corredor u otra persona, con lucro e interés, qué utilidad se le considera le 

pude resultar a cada uno de ellos al año. 

32 a Si en el pueblo hay algún tendero de paños, ropas de oro, plata y seda, lienzos, 

especería, u otras mercadurías, médicos, cirujanos, boticarios, escrivanos, arriero, etc. 

y qué ganancia se regula puede tener cada uno al año. 

33ª Qué ocupaciones de artes mecánicos hay en el pueblo, con distinción, como albañiles, 

canteros, albéytares, herreros, sogueros, zapateros, sastres, perayres, texedores. 

Sombrereros, manguiteros, y guanteros, etc., aplicando a cada oficio de los que huviere 

el número que haya de maestros, oficiales y aprendices; y qué utilidad le puede 

resultar, trabajando meramente en su oficio, al día a cada uno. 

34ª Si hay entre los artistas alguno, que teniendo caudal, haga prevención de materiales 

correspondientes a su propio oficio, o a otros, para vender a los demás, o hiciere 

algún otro comercio, o entrase en arrendamientos; explicar quiénes y al utilidad que 

consideren le puede quedar al año a cada uno de los que huviese. 

35ª Qué número de jornaleros havrá en el pueblo, y a cómo se paga el jornal diario 

a cada uno. 

36ª Quántos pobres de solemnidad havrá en la población. 

37ª Si hay algunos individuos que tengan embarcaciones que naveguen en la mar o 

río, su porte, o para pescar: quántas, a quien pertenecen y qué utilidad se considera 

da cada una a su dueño al año. 

Esa primera aproximación es también posible para determinar qué población es 

eclesiástica. Ello a partir de las preguntas 38 y 39 

38ª Quántos clérigos hay en el pueblo. 

39ª Si hay algunos conventos, de qué religiones, y sexo, y qué número de cada uno. 

Así, los capitulares y peritos de la ciudad de Toledo, sede de la catedral primada 

de las Españas, a la pregunta 

38ª Digeron que en esta Población ai cuatrocientos setenta y nueve Clérigos, de los quales 

los trescientos setenta y uno son Presbíteros, y los restantes de menores órdenes. 

A su vez, los de Guadalajara responden a la 39ª diciendo que 

en esta ciudad ai catorze conventos, los siete de religiosos y los siete de religiosas, en 

esta forma: uno de dominicos, que tiene diez y siete religiosos; otro de mercenarios (sic) 

calzados, que tiene veinte y dos religiosos; otro de franciscanos observantes, que tiene 

ochenta religiosos; otro de la misma orden de la reforma de San Pedro de Alcántara, que 

tiene veinte y cinco religiosos; otro de San Juan de Dios, que tiene siete religiosos; un colegio 

de la Compañía de Jesús, que tiene nuebe; otro colegio de carmelitas descalzos, que 

tiene sesenta religiosos; otro colegio de Ntra. Sra. de las Vírgenes, carmelitas descalzas, 

que tiene catorze; otro convento de carmelitas descalzas, advocación de San Joseph, que 

tiene veinte; otro de religiosas franciscas de Santa Clara, que tiene veinte y cuatro; otro de 

religiosas franciscas de la Piedad, que tiene veinte y tres; otro de la Concepción Francisca,


que tiene veinte y cinco; otro de Jerónimas, que tiene veinte y seis, y otro de religiosas 

bernardas, que tiene diez y siete. 

Documentación catastral básica para el conocimiento de la ciudad 

Cerramos este trabajo señalando que las averiguaciones catastrales de Ensenada 

quedaron registradas en varios tipos de documentos, a algunos de los cuales ya hemos 

hecho referencia. 

- En primer lugar, en las Respuestas generales de todas las poblaciones al 

Interrogatorio común a todas ellas de 40 preguntas. De éstas se hicieron un original 

y dos copias coetáneas. El original se custodia, con distinto grado de conservación 

según provincias, en los Archivos históricos provinciales, una copia, que es la que se 

envió a la Real Junta con sede Madrid, en el Archivo General de Simancas, y la otra, 

en los archivos municipales. Esta última es la serie más incompleta. Constituyen una 

auténtica foto fija de las 15.000 localidades que componían la Corona de Castilla. 

- En segundo lugar, en los llamados Memoriales o declaraciones de todos los cabezas 

de casa y titulares de bienes, rentas y cargas. Se trata de la fuente primaria. Su 

valor es extraordinario pues en ellos están los datos declarados por cada sujeto fiscal 

y las correcciones introducidas por los peritos. Su conservación es desigual. Están depositados 

generalmente en los Archivos históricos provinciales, salvo en la provincia 

de Burgos, que están en el Archivo de la Diputación provincial. 

- En tercer lugar, los Libros de lo real, que fueron elaborados por las autoridades 

catastrales. Contienen la información casa a casa, molino a molino, tierra a tierra, 

tienda a tienda […] de todos los vecinos del pueblo y forasteros con bienes en el término 

de la localidad. Es éste el documento fundamental para los estudios urbanos. 

- Y en cuarto lugar, los Libros de familias, en los que están todos los vecinos, tuviesen 

o no bienes inmuebles, semovientes o rentas. Es fundamental para los aspectos 

demográficos y económicos del análisis urbano. 

El Catastro de Ensenada dio lugar a varios tipos más de documentos, que quedaron 

recogidos en más de 80.000 volúmenes y legajos, en lo que no profundizamos 

por lógicas razones de espacio y que pueden verse en otros trabajos de la autora 26 . 

Concepción Camarero Bullón 

1 C. CAMARERO BULLÓN-J. CAMPOS DELGADO, El vecindario de Ensenada, 1759, Madrid, Centro de 

Gestión catastral y cooperación tributaria y Tabapress, 1991, pp. LIV-LV. 

2 Para el cálculo de habitantes por núcleo, no hemos considerado los 975 despoblados, lugares con 

jurisdicción propia, pero sin población. 

3 BIBLIOTECA NACIONAL, MADRID, Raros y manuscritos, mass. 1326. 

4 Sobre la compleja problemática de la catastración de la Villa y Corte y sus características, véase: C. 

CAMARERO, Madrid y su provincia en el catastro de Ensenada, Madrid, Ediciones del Umbral, 2001.


5 Sobre las rentas provinciales, véase, Mª C. ANGULO TEJA, La Hacienda española en el siglo XVIII. 

Las rentas provinciales, Madrid, Centro de Estudios políticos y constitucionales, 2002; C. CAMARERO 

BULLÓN, El debate de la única contribución. Catastrar las Castillas, Madrid, Centro de Gestión catastral y 

cooperación tributaria y Tabapress, 1993, pp. 12-24; C. CAMARERO BULLÓN, Vasallos y pueblos castellanos 

ante una averiguación más allá de lo fiscal: el Catastro de Ensenada, 1749-1756, en I. DURÁN BOO-C. 

CAMARERO BULLÓN (dir), El Catastro de Ensenada: Magna averiguación fiscal para alivio de los vasallos 

y mejor conocimiento de los Reinos, Madrid, Ministerio de Hacienda, 2002, pp. 121-134, y BIBLIOTECA 

NACIONAL, MADRID, mss. 10.695. 

6 Sobre Granada, véase: A. DOMÍNGUEZ ORTIZ (dir.), Granada en 1752, según las Respuestas 

Generales del Catastro de Ensenada, Madrid, Centro de Gestión catastral y cooperación tributaria 

y Tabapress, 1990. 

7 Significativo del carácter de la ciudad es la presencia en la misma de 2.127 eclesiásticos, de los 

que 1.540 son frailes, 341 monjas y 246 clérigos seculares. Los vecinos (familias) seculares ascendían 

3.548. C. CAMARERO BULLÓN, Noticias sobre las averiguaciones catastrales de Salamanca, en M. ARTOLA, 

Salamanca en 1753, según las Respuestas Generales del Catastro de Ensenada, Madrid, Centro de Gestión 

catastral y cooperación tributaria y Tabapress, 1991. 

8 Sobre la Planimetría general, véase: F.J. MARÍN PERELLÓN, Planimetría General de Madrid y Regalía 

de Aposento; A. LÓPEZ GÓMEZ, Madrid a mediados del siglo XVIII y C. CAMARERO BULLÓN, La Planimetría 

General de Madrid en el contexto de las políticas de conocimiento del espacio y reforma fiscal, todos ellos 

en C. CAMARERO BULLÓN (dir.), Planimetría General de Madrid, Madrid, Tabacalera, 2 vols., 1989; F.J. 

MARÍN PERELLÓN, Planimetría general de Madrid y visita general de casas, 1750-1752, en CT Catastro, 

39, 2000, pp. 87-114, y F. ARAGÓN AMUNÁRRIZ, La evolución del catastro de Madrid, en CT Catastro, 

44, 2002, pp. 7-34. 

9 C. CAMARERO BULLÓN, La Planimetría General de Madrid y el Catastro de la Villa y Corte (1749- 

1759), «Città e storia», nuova serie, 2004, nº 0, pp. 39-50. 

10 P. VILAR, Unas líneas de introducción al Catastro de Ensenada, en I. DURÁN BOO-C. CAMARERO 

BULLÓN (dir.), El Catastro, cit., p. 20. 

11 ARCHIVO HISTÓRICO PROVINCIAL DE TOLEDO, Hacienda, Catastro de Ensenada, libro 340. Otro 

auto idéntico, pero para tierras y ganados, aparece fechado el 12 de abril de 1753. 

12 ARCHIVO MUNICIPAL DEL GRIÑÓN, Catastro de Ensenada, Libro de lo real de legos. 

13 ARCHIVO DE LA DIPUTACIÓN DE BURGOS, Catastro de Ensenada, libro 594. 

14 La ciudad de Guadix tenía 1.800 vecinos (familias) que vivían en 880 casas y algo más de 600 

casas cuevas, localizadas extramuros (J. GÁMEZ NAVARRO, Guadix en 1752, según las Respuestas Generales 

del Catastro de Ensenada. Madrid, Centro de Gestión catastral y cooperación tributaria y Tabapress, 

1991, pp. 19-20). 

15 ARCHIVO HISTÓRICO PROVINCIAL DE TOLEDO, Catastro de Ensenada, libro 1752. La terminología 

local para los puntos cardinales varía de unas zonas a otras. Algunos de los términos incluidos en las 

descripciones en este trabajo son: norte (cierzo), sur (ábrego, mediodía), este (levante, solano, serrano), 

oeste (regañón, poniente). 

16 ARCHIVO HISTÓRICO PROVINCIAL DE GUADALAJARA, Catastro de Ensenada, libro 664. Un ducado 

equivale a 11 reales de vellón. 

17 ARCHIVO HISTÓRICO PROVINCIAL DE GUADALAJARA, Catastro de Ensenada, libro 663. 

18 El solar, situado en Alcalá de Henares, pertenecía al Colegio de frailes mercedarios de la ciudad. 

(ARCHIVO HISTÓRICO PROVINCIAL DE TOLEDO, Catastro de Ensenada, libro 18). 



21 ARCHIVO HISTÓRICO PROVINCIAL DE TOLEDO, Catastro de Ensenada, libro 104. 

22 ARCHIVO GENERAL DE SIMANCAS, Dirección general de rentas, 1ª remesa, libro 290, y A. DOMÍN- 

GUEZ ORTIZ (dir.), Granada, cit., pp. 69-70. 

23 C. CAMARERO BULLÓN, La cartografía en el Catastro de Ensenada, 1750-1756, en Estudios Geográficos, 

231, 1998, pp. 245-283. 

24 A. FERRER, Paisaje y propiedad en la Tierra de Alhama. Granada siglos XVIII-XX, Granada, Dipu-


tación provincial y Universidad de Granada, 1988. Mª J. ZAPARAÍN, Belorado, siglos XVII y XVIII. Su 

desarrollo urbanístico-arquitectónico, Burgos, Diputación de Burgos, 1993. J.M. Corral ha elaborado 

una maqueta tridimensional con la estructura urbana de Vinuesa, que fue presentada en la exposición: 

El Catastro de Ensenada, magna averiguación fiscal para alivio de los vasallos y mejor conocimiento de los 

reinos. (Madrid, noviembre-diciembre, 2002). 

25 R. HERR, La Hacienda real y los cambios rurales en la España de finales del Antiguo Régimen, Madrid, 

Instituto de estudios fiscales, 1991, p. 563. 

26 Una sistematización y caracterización de la variedad documental del catastro de Ensenada puede 

verse en C. CAMARERO BULLÓN, Averiguarlo todo de todos: el Catastro de Ensenada, en Estudios Geográficos, 

248/249, 2002, pp. 493-501. La autora agradece a doña Isabel Aguirre, jefa de sala del Archivo 

general de Simancas, a doña Cristina Usón, directora del Centro nacional de microfilmación, a doña 

Eva Martín y doña Rita García Lozano, directoras de los Archivos históricos provinciales de Granada 

y Toledo, a doña Mercedes García, directora del Archivo municipal de Griñón, a don Floriano Ballesteros, 

director del Archivo de la Diputación provincial de Burgos y a don Pedro Muñoz, técnico del 

Archivo histórico provincial de Guadalajara, las facilidades dadas para la consulta y reproducción de 

los documentos catastrales en ellos custodiados. A Jesús Campos, investigador y amigo, sus siempre 

inteligentes y acertados comentarios.


DALLA «NUOVA PIANTA» DEL NOLLI AL CATASTO URBANO 

PIO-GREGORIANO: L’IMMAGINE DI ROMA 

ALL’EPOCA DEL GRAND TOUR 

Intorno alla metà del Settecento, Roma aveva raggiunto un assetto urbanistico 

relativamente stabile. Salvo poche eccezioni, la forma della città non si sarebbe più 

modificata fino all’imponente sviluppo urbanistico conseguente al ruolo di capitale 

del Regno d’Italia. Gli interventi di grande scala – costruzione di nuove chiese, edifici 

pubblici, palazzi e ville – erano andati, infatti, progressivamente diminuendo nel 

corso del XVIII secolo, mentre il volto della città aveva continuato a rinnovarsi grazie 

ad un processo di riorganizzazione dell’edilizia residenziale esistente incentrato su 

operazioni di sopraelevazione, rifacimento delle facciate o sostituzione di interi isolati, 

in parte legato all’affermazione, già dalla prima metà del Settecento, del palazzo 

multipiano d’affitto come tipologia edilizia. 

Roma, storica capitale dell’accoglienza e delle arti, aveva esercitato in questo 

periodo uno straordinario richiamo sulle élite culturali europee. L’attrazione, 

che l’Urbe era in grado di sviluppare, in Inghilterra e nel Vecchio Continente, 

su artisti, letterati, collezionisti e viaggiatori, la rese una delle mete preferite del 

Grand Tour, accentuandone il tradizionale carattere cosmopolita. Non si poteva, 

infatti, rimanere indifferenti dinnanzi ad una città che si presentava agli occhi 

dei forestieri come un museo a cielo aperto, popolato da imponenti antichità, 

tessuti edilizi medioevali ben conservati, gioielli architettonici rinascimentali e 

barocchi, e in cui ricchezze, fastosità, decadenza, miseria ed arretratezza si mescolavano, 

in perenne contrasto, sotto l’ombra di un potere pontificio che, tolte 

le brevi parentesi del dominio francese e della seconda Repubblica romana, da 

secoli governava la vita civile. 

Crescente interesse e consapevolezza nei confronti dell’immenso patrimonio archeologico 

portarono al delinearsi di iniziative volte allo studio e alla conservazione 

delle antichità. Nel 1734 Clemente XII diede il via alla creazione del Museo Capitolino, 

il primo museo pubblico delle antichità, con l’obiettivo di preservare il 

patrimonio culturale della città dalla sistematica dispersione dei reperti archeologici. 

L’accrescimento del museo proseguì con Benedetto XIV, grazie a continui scavi e 

rinvenimenti. La nomina, nell’aprile 1763, a prefetto delle antichità di Roma di una

432 KETI LELO - CARLO M. TRAVAGLINI 

personalità della levatura di Johann Joachim Winckelmann riflette al meglio l’aspirazione 

illuministica allo studio scientifico del patrimonio archeologico. 

In questo clima, come si ricorderà più oltre, si colloca anche l’iniziativa per la 

redazione della prima rappresentazione cartografica della città basata su criteri scientifici, 

la Nuova Pianta di Roma di Giovanni Battista Nolli. 

La cartografia viveva nel Settecento una cruciale fase di sviluppo a livello internazionale. 

La necessità di rappresentare il territorio con esattezza geometrica era legata, 

oltre che agli sviluppi della cultura scientifica e delle tecniche di rilevazione cartografica, 

a nuove esigenze, tra cui la gestione degli equilibri geopolitici e delle campagne 

militari tra le monarchie assolute in Europa e nel Nuovo Mondo, nonché una più 

efficace ed equilibrata organizzazione del fisco. Nel corso del Settecento la rappresentazione 

icnografica, ovvero la proiezione al suolo della città, geometricamente corretta, 

avrebbe progressivamente sostituito la più scenografica veduta prospettica, grazie 

anche all’evoluzione dei metodi di rilevamento su base trigonometrica, che avrebbero 

raggiunto nel corso dell’Ottocento importanti traguardi scientifici 1 . 

Nel presente saggio si propone una lettura del territorio della città di Roma nei 

centocinquanta anni che precedono la breccia di Porta Pia utilizzando le due fonti 

cartografiche più rappresentative dell’epoca: la Nuova Pianta di Roma di G.B. Nolli, 

pubblicata nel 1748 2 , e il Catasto urbano Pio-Gregoriano, redatto tra il 1818 e il 

1824 a cura della Direzione generale dei catasti 3 . Si tratta di cartografie nate per scopi 

diversi: rappresentazione della città e censimento delle emergenze architettoniche 

– specie di quelle dell’antichità – la prima, rappresentazione completa della proprietà 

fondiaria urbana per rendere più efficace il sistema fiscale di imposizioni dirette 

la seconda 4 . Entrambe le cartografie sono, tuttavia, accomunate dalla necessità di 

esattezza metrica e legate da un filo diretto, dal momento che per redigere le mappe 

del catasto – alla scala di elevato dettaglio di 1:1000 – è stata utilizzata come base di 

riferimento proprio la pianta del Nolli, senza procedere ad una misurazione ex-novo 

dell’intera città. 

Le tecnologie informatiche, ed in particolare i sistemi informativi geografici 

(GIS) 5 , hanno compiuto grandi progressi negli ultimi decenni, consentendo progressivamente 

la gestione sempre più complessa di cartografie, banche dati, immagini, 

filmati. Su questo terreno si aprono quindi nuove e interessanti prospettive di 

ricerca per lo storico, legate alla possibilità di intrecciare e leggere congiuntamente 

fonti di diversa origine ed anche di diversa tipologia. Si tratta, tuttavia, di strumenti 

e metodi che necessitano di un utilizzo consapevole, e che, per certi versi, enfatizzano 

la necessità di un’attenta critica delle fonti, sollecitando l’enunciazione a priori delle 

problematiche su cui si deve riflettere. 

I risultati qui presentati sono parte integrante di un progetto promosso dal Centro 

di ateneo per lo studio di Roma (CROMA)-Università degli studi Roma Tre, tuttora 

in corso, per la redazione di un Atlante di Roma moderna e contemporanea 6 . Il

DALLA «NUOVA PIANTA» DEL NOLLI AL CATASTO URBANO PIO-GREGORIANO 433 

progetto integra ricerca storica e sistemi informativi geografici e ha come obiettivo 

la ricostruzione dell’evoluzione della città, tramite il confronto diacronico basato su 

diverse chiavi di lettura provenienti dall’informatizzazione di fonti storiche cartografiche 

e tematiche: una storia a tutto campo, saldamente ancorata ad una matrice 

territoriale. Le trasformazioni fisiche e la distribuzione spaziale dei fenomeni sul territorio 

di Roma in un contesto «tematico-territoriale» si possono studiare mettendo a 

punto un sistema GIS; è possibile applicare questa metodologia di indagine proprio a 

partire dalla metà del XVIII secolo, quando metodi e strumenti di rilevamento topografico 

raggiunsero una maturità sufficiente a permettere la produzione di cartografie 

icnografiche geometricamente corrette – rendendo così possibile il loro riferimento 

geografico rispetto a sistemi coordinativi contemporanei – e le fonti tematiche (fiscali, 

demografiche, ecc.) diventarono tanto omogenee da consentirne una raccolta 

sistematica e l’organizzazione in banche dati relazionali 7 . 

Lo splendore della città settecentesca nella pianta del Nolli 

Nel 1748 Giovanni Battista Nolli, professionista dalla consolidata esperienza, 

acquisita durante le operazioni di rilevamento catastale in Savoia e in Lombardia, 

pubblica a Roma un volume di 36 fogli contenente il risultato di dodici anni di 

lavoro, tempo che gli fu necessario per portare a termine – tra difficoltà economiche, 

discussioni, grandi aspettative e ed altrettanto grandi delusioni – il rilevamento 

e l’incisione su rame di un territorio che comprende la città entro le mura ed una 

cospicua porzione a nord di essa, nonché la catalogazione di tutti gli edifici «degni di 

nota» fra palazzi, chiese, luoghi pubblici, antichità, e l’indicizzazione di piazze e strade 

8 . Dell’opera complessiva, dodici fogli (di dimensione cm. 44x69,5 circa ciascuno) 

compongono la cosiddetta Grande Pianta di Roma, che, a nostro avviso, costituisce 

il più completo esempio di rappresentazione iconografica che la città di Roma abbia 

mai avuto. 

Questa opera rappresenta un vero e proprio spartiacque nella produzione cartografica 

su Roma. Nolli è il primo ad orientare la sua mappa con il nord verso l’alto, 

segnando un cambio di tendenza rispetto al comune orientamento a est, dettato dal 

punto di osservazione della città dal colle Gianicolo. In effetti Nolli, a differenza di 

quasi tutti i suoi predecessori, non osserva Roma da un punto fisso 9 : egli percorre 

ogni strada, vicolo e cortile, ogni vigna, giardino o prato, misurando con omogeneità 

angoli e distanze. Da vero professionista, egli riporta sul disegno tutto ciò che è misurabile: 

edifici, fontane, strade, ruderi, muretti, aiuole, gradini, ripe, scarpate, fino al 

minimo dettaglio. L’orientamento nord-sud della pianta fa riferimento alla cosiddetta 

«meridiana della Certosa», linea fatta tracciare nel 1702 sul pavimento della chiesa 

di S. Maria degli Angeli da Francesco Bianchini per determinare con precisione gli 

equinozi e, di conseguenza, la festività della Pasqua 10 . La rosa dei venti, posizionata 

nella pianta vicino alla basilica di S. Giovanni in Laterano, indica sia il nord magneti-


co sia il nord geografico. La tecnica di orientamento attraverso linee parallele a quella 

della meridiana tracciate in diversi settori del disegno preparatorio, unitamente alle 

accurate procedure di triangolazione eseguite su punti prominenti, quali obelischi, 

torri, cupole, e lungo l’asse di via del Corso, e all’utilizzo nel rilevamento della tavoletta 

pretoriana, che consentiva di disegnare con velocità e precisione linee e angoli, 

conferiscono al rilievo del Nolli l’accuratezza che lo rese famoso in tutta Europa. 

Come è noto, la Nuova Pianta di Roma sarebbe divenuta la base – diretta o indiretta 

– per tutte le successive rappresentazioni planimetriche della città, fino all’avvento di 

una tipologia di rilievo concettualmente differente quale quello aerofotogrammetrico. 

È proprio l’accuratezza geometrica che rende il rilievo del Nolli paragonabile alle 

cartografie attuali, come dimostrano i risultati delle sovrapposizioni da noi realizzate 

grazie ad una procedura di georeferenziazione messa a punto ed eseguita tramite un 

rilevamento con GPS (Global Positioning System) differenziale effettuato ad hoc 11 . 

La Nuova Pianta di Roma riproduce la realtà della capitale settecentesca con eccezionale 

esattezza ed espressività, rendendo comprensibile in un colpo d’occhio la 

sua struttura topografica e geo-spaziale. Spazi privati, pubblici e semipubblici sono 

rappresentati con caratteri distinti e messi in relazione con l’intero organismo urbano. 

Il linguaggio grafico è molto ricco e riserva alla campagna la stessa attenzione 

concessa al suolo edificato. I simboli utilizzati sono decifrabili in modo intuitivo: 

densa campitura con effetto grigio scuro per l’edificato moderno, tratto solido nero 

per le antichità (in alcuni casi completate nei tratti mancanti con linea tratteggiata), 

campitura degli spazi aperti con simboli differenti per i giardini e per i diversi tipi di 

colture. Le pendenze sono rese grazie a tratti paralleli che scendono lungo i pendii 

creando un effetto di ombreggiatura. Inoltre, una serie di simboli cartografici sono 

utilizzati per indicare passaggi chiusi nelle mura, cimiteri, cloache, fontane, postazioni 

di soldati, mentre simboli pittorici raffigurano i mulini sul Tevere, i traghetti che 

collegano le opposte sponde del fiume e le imbarcazioni nei porti di Ripetta e di Ripa 

Grande. Di fondamentale importanza conoscitiva è la rappresentazione, con appropriato 

simbolo cartografico, della suddivisione dei rioni, basata sulla Descrizione del 

nuovo ripartimento de’ Rioni di Roma di Bernardino Bernardini, lavoro portato a 

termine nel 1744, e per il quale la pianta del Nolli, ancora inedita, servì come base 

cartografica 12 . 

La definizione di criteri omogenei per l’interpretazione del linguaggio grafico di 

questa eccezionale fonte ci ha consentito di mettere a punto un elaborato cartografico 

vettoriale su base GIS rappresentante dieci classi di uso del suolo (cfr. fig. 1, qui 

in versione semplificata per la stampa in b/n a piccole dimensioni). L’utilità di questa 

nuova cartografia consiste, in primo luogo, nella possibilità che offre di affrontare 

l’analisi dell’intero territorio della città in modo omogeneo, elaborando statistiche 

ed eseguendo confronti diacronici grazie alla sovrapposizione con altre cartografie. 

Tuttavia, l’aspetto più importante dell’approccio GIS all’analisi della città storica è


Fug. 1 - Usi del suolo (in ettari) nel 1748: edificato 409; piazze strade e vicoli 183; ville 248; giardini 

134; vigne 356; orti 60; non coltivato 60. Fonte: G. B. Nolli, Nuova Pianta di Roma.


Grafico 1 - Distribuzione delle funzioni nel 1748. 

Fonte: G. B. Nolli, Nuova Pianta di Roma; B. Bernardini, Descrizione del nuovo Ripartimento de’ Rioni di Roma. 

costituito dalla opportunità di integrare nel sistema informazioni desunte da diverse 

fonti organizzate sotto forma di banche dati relazionali. Nel caso concreto, il collegamento 

spaziale tra gli elementi vettorializzati della carta del Nolli e l’informazione 

contenuta nell’indice che accompagna la Grande pianta, integrata anche con le più 

dettagliate notizie desunte dalla coeva Descrizione del Bernardini, ha permesso di 

affinare ulteriormente la classificazione, arricchendo l’informazione circa l’utilizzo 

dello spazio e la distribuzione delle funzioni (cfr. grafico 1). 

Come è noto, le intenzioni del Nolli e dei suoi eruditi committenti interessati allo 

studio delle antichità (ma anche della città medievale e moderna) erano inizialmente 

molto ambiziose: la mappa avrebbe dovuto essere accompagnata dal cosiddetto 

Libro – una sorta di enciclopedia contenente non solo la dettagliata descrizione degli 

edifici ma anche considerazioni desunte da un lavoro di approfondimento bibliografico 

e dall’analisi delle fonti cartografiche ed iconografiche precedenti – sostituito 

in extremis da un sintetico indice che coincide in buona parte con i contenuti della 

Descrizione del Bernardini 13 . Quest’ultimo, non essendo vincolato dal ridotto numero 

di parole utilizzabili per ciascuna didascalia ai fini dell’incisione sulle matrici 

insieme alla mappa, contiene informazioni più dettagliate riguardanti in genere la 

toponomastica, i titoli nobiliari dei proprietari (talvolta anche i nomi dei precedenti 

proprietari) e l’uso degli edifici pubblici più importanti. La chiave geografica delle


informazioni contenute nell’indice del Nolli, perfettamente integrabile con le informazioni 

complementari della guida del Bernardini, rende possibile l’analisi e la 

visualizzazione all’interno del sistema GIS delle funzioni e delle trasformazioni dello 

spazio urbano e della sua stratificazione fisica e sociale. La distribuzione delle grandi 

proprietà nobiliari, la dislocazione della macchina amministrativa o delle emergenze 

archeologiche, l’articolazione dell’estesa rete religiosa ed assistenziale, delle istituzioni 

culturali, degli spazi pubblici, delle aree verdi rappresentano esempi di letture tematiche 

che si possono sviluppare attraverso l’estrazione e l’elaborazione delle informazioni 

desunte dalle fonti storiche prese in considerazione. 

La metà del Settecento costituisce per Roma l’inizio di un lungo periodo di 

stasi, dopo il grande processo di crescita ed innovazione urbana che aveva plasmato 

il volto della città a partire dalla metà del quindicesimo secolo. L’immagine della 

città che la pianta del Nolli ci restituisce è quella di un’area densamente edificata 

concentrata sull’ansa del Tevere, circondata da una cintura di ville e di orti urbani che 

ne delimita l’espansione. Le Mura Aureliane inglobano un territorio di circa 1.450 

ettari, di cui – considerando anche le aree occupate da piazze e strade – solo circa il 

40% è urbanizzato (cfr. fig. 1). Trastevere è delimitato ad ovest da via di S. Francesco 

a Ripa che attraversa orti e vigne; via della Lungara, sulla quale si affacciano pochi 

edifici (tra cui il palazzo Corsini, la villa Chigi-Farnese e il palazzo Salviati), lo collega 

al rione Borgo. Dall’altra sponda del Tevere, il Tridente è del tutto saturo. Le propaggini 

urbane più spinte riguardano l’area tra Capo le Case e il Quirinale in direzione 

di piazza Grimana (ora Barberini), e il quartiere della Suburra, che occupa l’avvallamento 

tra i colli Quirinale e Oppio, mentre gli assi viari di Sisto V e di Paolo V sono 

fiancheggiati essenzialmente da aree verdi, che non verranno raggiunte dall’espansione 

dell’edificato se non dopo il 1870. Una crescita demografica relativamente vivace 

nella prima metà del Settecento e assai più rallentata nella seconda metà del secolo 

avrebbe portato la popolazione dai 134.500 abitanti del 1703 ai 166.400 abitanti 

del 1796. Nel 1749, anno successivo alla pubblicazione della Nuova pianta, Roma 

contava circa 152.900 abitanti che vivevano dunque concentrati in una superficie 

edificata di appena 409 ettari 14 . 

Nonostante la difficile situazione delle finanze pontificie, Roma fu interessata, 

durante la prima metà del XVIII secolo, da un’attività edilizia che portò alla realizzazione 

di importanti opere architettoniche, alla definizione di nuove geografie del 

potere e di capisaldi di specializzazione funzionale. Il nuovo volto della città settecentesca, 

che la pianta del Nolli riesce a cogliere nella sua completezza, ci suggerisce 

differenti letture; quelle presentate in questa sede, a titolo esplicativo e senza la pretesa 

di essere esaustive, possono offrire suggestioni da approfondire ulteriormente e, 

allo stesso tempo, sono utili ad illustrare le potenzialità dello strumento informatico 

messo a punto per il progetto dell’Atlante di Roma moderna e contemporanea. 

La rappresentazione cartografica dei luoghi in cui vengono svolte, nel 1748, le


funzioni pubbliche – politiche, amministrative, giudiziarie –, desunta dall’indice del 

Nolli integrato con le più dettagliate notizie del Bernardini, pone in tutta evidenza 

la nota questione, che segna l’età moderna, del protagonismo del potere dello 

Stato. Al potere municipale, confinato sul Campidoglio e rappresentato unicamente 

dai palazzi del Senatore, dei Conservatori e dal Palazzo Nuovo, sede del Museo 

Capitolino – all’epoca recentemente istituito –, si contrappongono i nuovi poli del 

potere statale, organizzati attorno al Quirinale (Palazzo Pontificio nel Quirinale, 

Dataria Apostolica, Palazzo della Consulta) e a Montecitorio (Palazzo della Curia 

Innocenziana, Palazzo dell’Ospizio Apostolico), insieme alle strutture localizzate, da 

più lunga tradizione, a Borgo (Palazzo Pontificio Vaticano, Palazzo di S. Offizio) e a 

Parione (Palazzo del Governo, Palazzo della Cancelleria Apostolica) (cfr. fig. 2). La 

stabilità alimentare, controllata dal governo pontificio attraverso le amministrazioni 

dell’Annona e della Grascia, che si occupavano della fornitura, rispettivamente, di 

farina e di carni ed olio alla popolazione, e l’imponente macchina assistenziale, che 

aveva impressionato anche i visitatori stranieri 15 , sembravano compensare l’insufficienza 

delle autonomie concesse alla vita civile. 

Delineati i principali poli politico-amministrativi della città nelle aree di 

Montecitorio e del Quirinale, il processo di rinnovamento degli spazi urbani e dei 

tessuti edilizi coinvolse le aree adiacenti per propagarsi poi dal cuore della città verso 

l’esterno, articolandosi in vari progetti di sistemazione di alcuni nodi urbani e di 

costruzione di nuove centralità di tipo commerciale, assistenziale e produttivo. La 

pianta del Nolli rappresenta la situazione della città sostanzialmente al compimento 

di un ampio ventaglio di innovazioni realizzate tra fine Seicento e la prima metà 

Settecento. Tale processo di riassetto urbano si può far partire dal completamento del 

palazzo Ludovisi, con il trasferimento nel nuovo edificio della Curia Innocenziana 

(1694-1696), e dalla sistemazione della Dogana di Terra in piazza di Pietra (1695). 

Negli anni successivi il processo di trasformazione dell’area centrale proseguì con la 

sistemazione della piazza di Montecitorio (portata a termine solo nel 1734, dopo il 

lungo periodo di abbandono iniziato con il fallimento del tentativo di collocarvi nel 

1705 la Colonna Antonina), e della sua antipiazza (1732-34), sulla quale sorse nel 

1743 la casa d’affitto di sette piani dei Del Cinque. Tra il 1727 e il 1732 venne invece 

strutturata la vicina piazza di S. Ignazio con la costruzione delle palazzine d’affitto 

realizzate da Filippo Raguzzini, armoniosamente inserite nel contesto urbano. Nel 

1735 venne infine sistemata piazza di Pietra 16 . Durante la prima metà del Settecento 

assunse il suo aspetto pressoché definitivo anche l’area del Quirinale. Tra il 1732 e il 

1748 Ferdinando Fuga completò la sistemazione della piazza di Monte Cavallo con 

la costruzione ex-novo del palazzo della Consulta. Tra il 1730 e il 1733, subentrando 

ad Alessandro Specchi dopo un decennio di interruzione dei lavori, lo stesso Fuga 

si era occupato del completamento delle Scuderie Papali e della Manica Lunga del 

palazzo del Quirinale 17 .


Fig. 2 - Distribuzione spaziale e funzionale 

dell’amministrazione pubblica a Roma nel 1748. 

Fonte: G. B. Nolli, Nuova Pianta di Roma; B. Bernardini, 

Descrizione del nuovo Ripartimento de’ Rioni di Roma.


AMMINISTRAZIONE DELLO STATO PONTIFICIO (con riferimento fig. 2) 

N. Descrizione (G.B. Nolli) Rione Funzioni (B. Bernardini) 

174 Palazzo della Consulta Monti Segreteria de’ Brevi Pontifici ove risiede il Signor 

Cardinal Segretario de’ Brevi 

Segreteria della Consulta ove risiede Monsignor 

Segretario della Consulta 

Quartiere della Guardia Reale de’ Cavallegieri 

Quartiere della Guardia Reale delle Corazze 

249 Dataria Apostolica e Residenza 

del Datario 

250 

254 

Palazzo Pontificio nel Quirinale 

Scuderia Pontificia 

311 Palazzo dell’Ospizio Apostolico 

Abitazione di Monsignor 

Vicegerente 

339 Palazzo dell’Ospizio Apostolico 

detto la Curia Innocenziana 

614 Palazzo della Compagnia di 

Sancta Sanctorum Residenza del 

Governatore di Roma 

Trevi Residenza di Monsignor Datario 

Tribunale di Monsignor Datario 

440 

Trevi Tribunale Supremo di N.S. Signore 

Tribunale degli Eminentissimi Cardinali 

Tribunale di Monsignor Magiordomo (or 

Eminentissimo Cardinale) 

Tribunale di Monsignor Uditore di N.S. Signore 

Tribunale de’ Monsignor Uditori della Sacra Romana 

Rota 

Tribunale de’ Monsignor Chierici della RCA 

Tribunale de’ Monsignor Votanti della Segantura di 

Giustizia 

Guardia Reale de’ Svizzeri nel Palazzo Pontificio 

Quirinale 

Colonna Tribunale di Monsignor Vicegerente del Signor 

Cardinal Vicario 

Archivio Urbano 

Uffici de’ Secretari della RCA 

Colonna Residenza di Monsignor Uditor Generale e di 

Monsignor Tesoriero Generale della RCA, e degli altri 

Prelati di dette Curie & Co 

Tribunale di Monsignor Uditore Generale della RCA, e 

suoi Luogotenenti Prelati 

Tribunale di Monsignor Tesoriero Generale della RCA 

Tribunale di Monsignor Uditore della Segnatura di 

Giustizia 

Tribunale della Grascia 

Tribunale dell’Annona 

Tribunale delle Strade 

Tribunale delle Ripe 

Tribunale delle Carceri 

Ufficio de’ Notari Civili del Monsignor Uditor 

Generale della RCA 

Ufficio del Notaro dell’Archivio della Curia 

Innocenziana 

Ufficio del Notaro Criminale della RCA 

Parione Ufficio de’ Notari Civili del Governo 

Ufficio del Notaro Comunale del Governo 

647 Cancelleria Apostolica Parione Palazzo della Cancelleria Apostolica 

Residenza del Signor Cardinal Vice Cancelliere 

1265 Palazzo e Carceri del S. Offizio Borgo Palazzo della Santa Universale Inquisizione 

Residenza del Monsignor Assessore e del Padre 

Inquisitore, con Carceri 

Tribunale della Santa Universale Inquisizione 

1287 Palazzo Pontificio Vaticano e 

Giardino 

Borgo Archivio de’ Notari 

Libreria Vaticana


AMMINISTRAZIONE MUNICIPALE (con riferimento fig. 2) 

N. Descrizione (G.B. Nolli) Rione Funzioni (B. Bernardini) 

918 Palazzo del Museo Capitolino Campitelli Campidoglio. In cui v’è il Museo di Statue antiche 

Iscrizioni & C. accresciuto con altre Statue, Bassirilievi 

& C. da N.S. Benedetto XIV. 

Nel Campidoglio hanno stanze definite per loro 

Adunanze i seguenti Collegi ed Università: 

Collegio degli Speziali; Collegio de’ Mercanti 

Fondacali già detti «di S. Michele»; 

Università de’ Mercanti Fondacali; Università 

de’ Sartori; Università de’ Fornari; Università de’ 

Macellari; Università degli Osti; Università degli 

Albergatori; Università de’ Falegnami; Università 

de’ Muratori; Università de’ Ferrari; Università de’ 

Calzolari 

919 Palazzo detto dei Conservatori Campitelli Palazzo de’ Signori Conservatori di Roma. Nel 

Campidoglio 

Tribunale de’ Signori Conservatori 

Tibunale de’ Gabbellier Maggiore 

Tribunale dell’Agricoltura 

Archivi: del Senato, del Tribunale delle Strade, de’ 

Notari Capitolini 

920 Residenza del Senatore con 

Torre e Carceri annesse 

Campitelli Palazzo del Signor Senatore di Roma con Carceri 

annesse. Nel Campidoglio 

Tribunale del Signor Senatore, e due Collaterali, e 

Giudice de’ Malefici 

Tribunale dell’Assettamento 

Tribulane del Capitano dell’Appellazione 

Il processo di ammodernamento urbano che caratterizzò il primo trentennio del 

Settecento non poteva non riguardare anche la relazione della città con il Tevere. Tra 

il 1703 e il 1704 Alessandro Specchi costruì il porto di Ripetta, punto di arrivo per 

le imbarcazioni che scendevano il fiume da nord. Tra il 1714 e il 1715 venne edificato 

ex-novo il complesso dell’Arsenale di Ripa Grande, appena fuori Porta Portese, 

dove, a partire dal 1694, era stato realizzato da Carlo Fontana l’edificio della Dogana 

Nuova. Di fronte al porto di Ripa Grande, punto di arrivo delle imbarcazioni che risalivano 

il fiume dal mare, dal 1701 era iniziato l’ampliamento dell’Ospizio Apostolico 

di San Michele. L’enorme complesso assistenziale, produttivo e commerciale voluto 

da Innocenzo XII venne sviluppato a più riprese. Vi lavorarono Carlo Fontana, che 

costruì la Casa di correzione per ragazzi (1701-1704), il Conservatorio dei vecchi 

(1708-1713), le chiese della Madonna del Buon viaggio e della Trasfigurazione del 

Nostro Signore Gesù Cristo (1710-1714), Nicola Michetti, che seguì i lavori di ampliamento 

laterale nel 1730, Ferdinando Fuga, che costruì il Carcere delle donne 

(1734-1735).


Oltre all’Ospizio Apostolico di San Michele, il sistema assistenziale di Roma si 

arricchì con l’Ospedale di San Gallicano a Trastevere, edificato ad opera di Filippo 

Raguzzini ed altri tra il 1724 ed il 1755, e con l’Ospedale dell’Arciconfraternita della 

Nazione Bergamasca, costruito tra il 1729 e il 1735 da Gabriele Valvassori, unitamente 

al Collegio Cerasoli. Ferdinando Fuga realizzò l’ampliamento dell’Ospedale 

di S. Giovanni della Pietà dei Fiorentini (1735-1736) e quello dell’Ospedale di S. 

Spirito in Sassia (1742-1748), mentre operazioni minori di restauro, completamento, 

riorganizzazione interna e consolidamento interessarono numerosi altri ospedali, 

ospizi e conservatori nell’arco dell’intero Settecento 18 . 

Tra le opere di riordino urbanistico sono le realizzazioni monumentali della scalinata 

di piazza di Spagna (Francesco De Sanctis, 1723-1726) e della fontana di Trevi (Nicola 

Salvi, 1732-1736) quelle che più di tutte riuscirono a catturare e a mantenere accesa 

l’attenzione dell’opinione pubblica dell’epoca. Si tratta di progetti architettonici di eccezionale 

valore scenografico, inseriti sapientemente nel tessuto urbano così da generare 

emergenze percepite da subito come luoghi di aggregazione e che rimangono al giorno 

d’oggi tra le maggiori attrattive turistiche di Roma. Essi costituiscono tuttavia l’aspetto di 

maggior rilievo di un processo di rinnovamento diffuso, appoggiato su un sistema di normative 

riguardanti il decoro urbano, la rettificazione e la manutenzione di piazze e strade 

che nel corso del Settecento contribuì a dare nuovo fulgore al volto della città moderna 19 . 

In questo ambito sono collocabili anche le operazioni volte a risolvere alcuni importanti 

nodi urbani, attraverso interventi di restauro di chiese e di basiliche con la sistemazione 

delle relative piazze antistanti per migliorarne l’inserimento nel contesto urbano. Gli 

esempi più rappresentativi riguardano il restauro della facciata di S. Maria in Cosmedin e 

la sistemazione della piazza della Bocca della Verità (Giuseppe Sardi, 1718), il rifacimento 

della facciata di S. Giovanni in Laterano (Alessandro Galilei, 1737), la sistemazione della 

facciata di S. Croce in Gerusalemme (Piero Passalacqua e Domenico Gregorini, 1740), il 

riassetto della piazza di S. Maria Maggiore e la nuova facciata della Basilica (Ferdinando 

Fuga, 1740), la realizzazione della strada alberata tra S. Giovanni in Laterano e S. Croce 

in Gerusalemme (1744) (cfr. fig. 3). 

Come si può evincere dalla datazione delle opere architettoniche sopra elencate, 

la Nuova Pianta di Giovanni Battista Nolli si può considerare un’esaustiva testimonianza 

delle trasformazioni di Roma nel corso del Settecento. La pubblicazione nel 

1748 del documento cartografico, tenuto scrupolosamente aggiornato a partire dal 

1736, data di inizio della redazione del disegno preparatorio, avvenne nel momento 

in cui si verificò la quasi totale interruzione del processo di realizzazione delle 

più significative innovazioni urbane. Tra i lavori effettuati nella seconda metà del 

Settecento, e quindi non leggibili nella pianta del Nolli, merita di essere menzionato 

il raggiungimento dell’assetto definitivo delle piazze del Quirinale, di Spagna e di 

Montecitorio con l’innalzamento, a cavallo tra il 1783 e il 1789, dei rispettivi obelischi 

ad opera dell’architetto Giovanni Antinori 20 .


1. Area di Montecitorio – piazza di Pietra 

– piazza S. Ignazio 

2. Area del Quirinale 

3. Porto di Ripetta 

4. Dogana di Ripa Grande – complesso del S. 

Michele – Arsenale (fuori dalle mura) 

5. Ospedale di S. Gallicano 

6. Ospedale di S. Giovanni della Pietà dei 

Fiorentini (ampliamento) 

7. Ospedale di S. Spirito in Sassia (nuova ala) 

8. Scalinata di piazza di Spagna 

9. Fontana di Trevi 

10. Piazza della Bocca della Verità e facciata di 

S. Maria in Cosmedin 

11. Facciata di S. Giovanni in Laterano – facciata 

di S. Croce in Gerusalemme – viale alberato 

12. Facciata e piazza di S. Maria Maggiore 

13. Foro Romano – Palatino – giardino pubblico 

sul Celio 

14. Piazza della Colonna Traiana 

15. Piazza del Pantheon 

16. Esedra orientale di piazza del Popolo 

– passeggiata e giardini pubblici del Pincio 

Fig. 3 - Principali trasformazioni urbane tra la metà del XVIII ed il primo ventennio del XIX sec.


La città Ottocentesca tra arretratezza e modernizzazione 

Il potere temporale della Chiesa subì, a cavallo tra la fine del Settecento e l’inizio 

dell’Ottocento, durissimi colpi. Una prima ferita fu inferta a seguito dell’ingresso 

nell’Urbe delle truppe francesi nel gennaio del 1798 e dalla proclamazione in 

Campidoglio, il mese successivo, della Repubblica Romana. Il potere venne restituito 

al neo-eletto Pio VII dalle truppe napoletane nel 1800, ma nel 1808 la città tornò 

di nuovo in mano ai francesi, che, nel maggio del 1809, decretarono l’annessione 

degli Stati Romani all’Impero napoleonico. 

La nuova Roma imperiale attuò un profondo rinnovamento degli apparati amministrativi 

e giudiziari, uniformandoli al modello francese, e tentò di avviare un 

processo di modernizzazione urbana. Venne messo a punto un vasto programma di 

abbellimento della città, che prevedeva, fra l’altro, scavi archeologici al Foro Romano, 

al Colosseo, alla Basilica Ulpia e al Foro Traiano, la risistemazione monumentale dell’area 

tra il Colosseo e il Campidoglio, di piazza del Popolo e del giardino del Pincio, 

la demolizione della Spina di Borgo, la costruzione dei lungotevere. Nonostante la 

carica innovativa di tanti provvedimenti e propositi, l’improvvisa rottura di antichi 

equilibri e consuetudini e, soprattutto, il crescente conflitto con l’autorità spirituale 

della Chiesa ebbero come risultato il deteriorarsi della situazione politica e sociale 

della città e l’inasprirsi delle relazioni con i francesi. 

La seconda Restaurazione pontificia trovò una Roma profondamente segnata sotto 

il profilo economico e demografico e portò con sé il ripristino dei vecchi ordinamenti 

e delle tradizionali strutture burocratiche. Pio VII si occupò personalmente di ricondurre 

l’immagine di Roma a quella di grande centro della cristianità. Nonostante il 

clima della Restaurazione diffondesse atteggiamenti refrattari nei confronti di ogni 

modernità e pensiero liberale, la città riprese a vivere con il ritorno degli stranieri e 

del grand tour, che continuò per tutto il corso dell’Ottocento a portare a Roma artisti, 

studiosi e scrittori stranieri. 

Dalla rappresentazione del Nolli a quelle degli inizi dell’Ottocento le modifiche 

nel tessuto urbano furono effettivamente poche. Le opere realizzate nel corso della 

breve stagione della dominazione napoleonica riguardarono soprattutto il riordino 

di alcune importanti aree archeologiche 21 , l’ampliamento di piazza della Colonna 

Traiana e parzialmente di quella del Pantheon, l’inizio della sistemazione di piazza 

del Popolo e della passeggiata del Pincio. I papi della Restaurazione si limitarono a 

completare le opere già avviate: vennero ripresi gli scavi iniziati dai francesi al Foro 

Romano e ad Ostia, Giuseppe Valadier seguì i lavori in piazza del Popolo – conclusi 

nel 1824 – e al Pincio, dove nel 1822 venne eretto l’obelisco romano rinvenuto nel 

1570 presso S. Croce in Gerusalemme (cfr. fig. 3). 

Nel 1816, a due anni dal ritorno del governo pontificio, Pio VII emanò il motu 

proprio sulla riforma dell’amministrazione pubblica contenente un dispositivo che 

dava avvio alla formazione del primo catasto geometrico-particellare rustico ed urba-


no, da eseguire secondo criteri uniformi in tutto il territorio dello Stato. Negli anni 

Venti e Trenta dell’Ottocento l’opposizione al catasto avrebbe trovato ancora dei sostenitori 

tra chi non si era rassegnato all’idea di un’imposta fondiaria applicata secondo 

criteri uniformi; tuttavia si era ormai diffusa, anche a livello periferico, l’esigenza 

di disporre di moderni strumenti per la ripartizione del carico fiscale 22 . Si trattò comunque 

di un percorso non lineare, irto di ostacoli. Come testimonia efficacemente 

il cardinale Consalvi, sottolineando la peculiarità politica della capitale pontificia, 

«se in ogni luogo è assai difficile il vincere le antiche abitudini e il far cambiamenti e 

introdurre novità, lo è sopra ogni altro luogo in Roma [...] Inoltre in Roma, più che 

altrove, si oppone ai cambiamenti la qualità di quelli, che, o nella giurisdizione o in 

altri vantaggi, perdono nei cambiamenti» 23 . 

Il coordinamento delle operazioni per l’attuazione del catasto fu affidato, nello 

stesso provvedimento pontificio del 1816, ad una speciale Congregazione dei catasti 

24 , composta da alcuni prelati della Camera Apostolica e presieduta da mons. 

Cesare Guerrieri Gonzaga, che all’epoca ricopriva anche l’incarico di tesoriere generale 

dello Stato pontificio. L’impianto delle strutture tecnico-amministrative e dei 

regolamenti attuativi per la realizzazione delle complesse operazioni di catastazione 

si ispirò largamente all’esperienza francese – sicuramente la più avanzata dell’epoca 

–, anche per non disperdere l’importante lavoro avviato nelle province già facenti 

parte dello Stato pontificio durante gli anni della loro inclusione nel Regno d’Italia 25 . 

Coerente con questa impostazione sarebbe stata la scelta di uniformarsi per tutte le 

unità di misura al sistema metrico decimale 26 . La struttura tecnico-amministrativa 

faceva capo ad una Direzione generale dei catasti, con sede presso la Presidenza 

del Censo, ente sotto la cui denominazione si intendeva inclusa in primis la stessa 

Congregazione dei catasti 27 . 

La catastazione dei fondi urbani e rustici relativi al territorio di Roma entro le 

mura venne affidata agli architetti romani Gaspare Salvi e Giacomo Palazzi, accademici 

di San Luca, con un contratto stipulato nel 1818 28 . La modesta dilazione 

nell’avvio concreto delle operazioni catastali per Roma è verosimilmente da attribuire 

sia all’esistenza di strumenti censuari relativamente affidabili, consolidatisi 

attraverso le varie imposizioni straordinarie e, da ultimo, con la riforma fiscale 

del 1801 e la numerazione di tutti gli affacci sulle strade del 1803-1804, sia ad 

una riflessione circa l’opportunità di eseguire ex-novo la misurazione del territorio 

oppure di avvalersi – per ragioni di economia di risorse – della pianta del Nolli. Il 

contratto recepì quest’ultima soluzione, imponendo tuttavia al Salvi e al Palazzi, 

affinché «niun’oggetto possa essere omesso» 29 , di riportare la pianta del Nolli alla 

scala di 1 a 1000, prevista per i centri urbani di maggiori dimensioni, di procedere 

a tutti i necessari aggiornamenti ed integrazioni, nonché di delineare e numerare 

progressivamente tutte le particelle catastali 30 . Gli architetti romani avrebbero poi 

dovuto uniformarsi a tutte le regole prescritte per la rappresentazione delle varie


destinazioni d’uso del suolo. Le operazioni catastali per Roma entro le mura si 

conclusero ben oltre i sei mesi previsti dal contratto. 

Nonostante i riscontri archivistici, le modalità con cui effettivamente procedettero 

Salvi e Palazzi nella redazione delle mappe catastali restano poco chiare, e andrebbero, 

a nostro avviso, indagate ulteriormente. Se il lavoro fosse iniziato, come 

appare nei documenti, con un ingrandimento in scala 1:1000 della pianta del Nolli 

per proseguire con le più lunghe e complesse operazioni sul terreno (in particolare, la 

suddivisione delle isole in particelle catastali e il rilievo dei cortili) 31 , la coerenza geometrica 

tra le due rappresentazioni in diverse parti della città sarebbe probabilmente 

stata maggiore. Le illustrazioni in fig. 4 presentano due casi di accentuata discordanza 

tra le fonti, mentre un ulteriore confronto con la situazione attuale mette in evidenza 

l’indiscutibile accuratezza del rilievo del Nolli rispetto al disegno catastale 32 . 

Complessivamente gli architetti romani elevarono 14 mappe della città, una per 

ogni rione, articolate a loro volta in più fogli (di circa cm. 64x89 ciascuno) in ragione 

dell’ampiezza del territorio da rappresentare 33 , disegnate con inchiostro di china ed 

acquerellate. Ogni mappa era poi corredata dal rispettivo brogliardo. 

L’innovazione più importante ed impegnativa rispetto alla pianta del Nolli, la 

quale giungeva a descrivere l’edificato – fatte salve le chiese e gli edifici pubblici 

– solo fino al livello delle isole, era proprio costituita dalla definizione su pianta delle 

particelle catastali e dalla loro corrispondente dettagliata descrizione ed eventuale articolazione 

in più fondi in un registro stampato a colonne chiamato brogliardo. Sono 

conservate due serie di brogliardi. La serie di primo impianto, redatta probabilmente 

per la maggior parte dei rioni tra il 1818 ed il 1820, contiene, per ogni particella rilevata 

nella mappa, l’ubicazione e il numero civico, la natura e la destinazione d’uso del 

fondo (o dei fondi), le generalità del possidente, la superficie, il numero dei piani del 

fabbricato. La seconda serie, completata entro il 1823, tiene conto di aggiornamenti 

e rettifiche ed è arricchita dalla indicazione della pigione «attuale» o «reperibile» e 

dei correlati valori d’estimo delle unità immobiliari. La stesura della seconda serie 

dei brogliardi fu preceduta dalla compilazione dei registri delle isole estimative 34 , nei 

quali i rilevatori riportarono tutte le informazioni necessarie alle operazioni di stima 

con un dettaglio nella descrizione delle unità immobiliari e della loro destinazione 

d’uso, talvolta articolata su più funzioni, generalmente assai superiore a quello dei 

brogliardi. Il Catasto venne approvato dalla Segreteria di Stato il 4 ottobre 1823 ed 

entrò in vigore a partire dal gennaio dell’anno successivo. 

Non vi è la possibilità di approfondire in questa sede le ulteriori serie documentali 

– catastini e trasporti – che vennero attivate dalla amministrazione catastale per consentire 

il progressivo aggiornamento della situazione; peraltro proprio l’esigenza di 

ricostituire un quadro pienamente attendibile del catasto urbano nella nuova situazione 

geo-politica dello Stato pontificio, sostanzialmente ristretto dagli anni Sessanta 

all’area laziale, avrebbe condotto l’amministrazione catastale ad avviare un processo


Fig. 4a - Confronti diacronici: G.B. Nolli, Nuova Pianta di Roma; Catasto urbano Pio-Gregoriano; 

situazione attuale. 

Andamento delle Mura Aureliane. In alto, il tratto del Nolli (scuro) corrisponde al tratto della cartografia 

attuale (chiaro). In basso, il tratto del catasto (scuro) ha un angolatura diversa rispetto al tratto della 

cartografia attuale (chiaro). Da notare il fatto che nel Nolli la larghezza complessiva delle mura è 

maggiore rispetto al vero. Questo è probabilmente conducibile a cause tecniche legate all’incisione delle 

matrici di rame.


Fig. 4b - Confronti diacronici: G.B. Nolli, Nuova Pianta di Roma; Catasto urbano Pio-Gregoriano; 

situazione attuale. 

Chiesa di S. Agostino. In alto, il confronto tra la pianta del Nolli (tratto scuro) e quella attuale (tratto 

chiaro) mostra un andamento del tutto simile dell’isolato in cui la chiesa è incorporata. In basso, il 

confronto tra la pianta del catasto (tratto scuro) e la situazione attuale (tratto chiaro) evidenzia una 

rotazione della chiesa, che sporge con la parte occidentale del transetto occupando la strada.


di rettifica ed aggiornamento dei catasti urbani con la redazione di una nuova serie 

di brogliardi denominati aggiornamenti e di nuove mappe. Tale processo non riuscì 

a concludersi prima dell’annessione di Roma al Regno d’Italia e, pertanto, venne 

ripreso e portato a termine dalla nuova amministrazione catastale italiana sulla base 

della legge del Regno sul catasto fabbricati dell’11 agosto 1870 e del successivo Regolamento 

del 5 giugno 1871, esteso a Roma con R.D. n. 260 del 16 giugno 1871 35 . 

Il Catasto urbano di Roma, attraverso le mappe, la seconda serie dei brogliardi e la 

nuova serie di aggiornamenti, messi a punto all’indomani dell’unificazione di Roma 

al Regno d’Italia, consente uno sviluppo straordinario a vari livelli delle ricerche sulla 

città e la sua popolazione per l’Ottocento pontificio. Esso costituisce al tempo stesso 

una base fondamentale di riferimento per confronti diacronici sia all’indietro, mediante 

una valorizzazione delle fonti settecentesche cui abbiamo in precedenza fatto 

riferimento, rispetto alle quali il catasto Pio-gregoriano può essere in molti casi prezioso 

anche per sciogliere dubbi interpretativi e carenze della stessa documentazione, 

sia per lo studio delle trasformazioni della Roma contemporanea, dalla capitale di 

fine Ottocento ad oggi. L’inserimento nel sistema GIS delle informazioni desunte 

dalla cartografia catastale (attraverso operazioni di georeferenziazione e vettorializzazione 

simili a quelle eseguite per l’informatizzazione della pianta del Nolli) e dai 

brogliardi (attraverso la compilazione di banche dati relazionali collegabili in chiave 

spaziale con la cartografia informatizzata) apre dunque prospettive di ricerca decisamente 

innovative, incentrate sul confronto diacronico e sull’integrazione tra diverse 

fonti 36 . La scala di 1 a 1000 delle mappe catastali permette un’analisi approfondita 

della struttura della città e del tessuto edilizio, ben superiore a quella realizzabile 

attraverso la pianta del Nolli (scala 1:2.900 circa), nonostante la sua accuratezza e 

la sua, già citata, maggiore precisione rispetto alle più dettagliate mappe del Catasto 

Pio-Gregoriano. 

Nell’attuale fase del lavoro è stata completata la schedatura delle informazioni 

per i 14 rioni e sono in corso le operazioni di verifica e collaudo che, pur potendosi 

avvalere di un utilissimo riscontro tra base descrittiva e base cartografica, presentano 

un elevato grado di complessità 37 . Il grafico 2 pone in evidenza la mole di lavoro 

affrontato con l’informatizzazione delle mappe catastali e dei brogliardi associati: 

Roma all’interno delle mura conta ben 10.508 particelle catastali. Il rapporto tra il 

numero complessivo di particelle e la superficie di ogni rione può essere considerato 

indicativo dell’intensità dell’edificato. Come è desumibile dalle statistiche effettuate 

sulla banca dati del secondo brogliardo, su un complesso di 15.658 fondi si contano 

302 unità fondiarie con destinazione d’uso a giardino e ben 858 con destinazione a 

colture, soprattutto vigne ed orti. 

Una prima lettura che si propone in questa sede riguarda un’indagine sulle principali 

proprietà della pubblica amministrazione nel 1823, anno entro il quale fu completato 

il secondo brogliardo da cui provengono le informazioni estratte con procedi-


Grafico 2. - Rapporto tra numero complessivo di particelle e superficie totale per ogni rione. 

Fonte: Catasto urbano Pio-Gregoriano. 

menti automatici e visualizzate in fig. 5. I possedimenti della Camera Capitolina non 

si spingono oltre lo storico nucleo del Campidoglio, salvo per i così detti «Prati del 

Popolo romano» nel rione Ripa, area ad uso pubblico compresa tra il monte dei Cocci 

e le mura, frequentata dai romani per giochi, feste, le tradizionali ottobrate e le gite di 

Pasquetta. Ne fa parte anche il Cimitero degli acattolici che il documento catastale 

non indica separatamente, poiché soltanto dal 1821 si definì ufficialmente la destinazione 

di un’area dei «Prati» a ridosso delle mura per le inumazioni degli acattolici i 

quali non potevano essere sepolti in chiesa o in terra benedetta 38 . Tra i possedimenti 

dell’amministrazione pontificia spiccano quelli della Reverenda Camera Apostolica, 

che gestiva anche le principali emergenze archeologiche (nella pianta qui riportata 

risultano distinguibili tra l’altro: le Terme Antoniniane, la Scala Santa e il Sancta 

Santorum, le Sette Sale, le Terme di Tito, il tempio della Pace, il Foro di Nerva, il 

mausoleo di Augusto), i giardini pubblici (il giardino e la passeggiata del Pincio, la 

scalinata di piazza di Spagna, il giardino pubblico sul Celio), le porte di ingresso in 

città, le Carceri Nuove, il porto di Ripetta con i vicini magazzini di deposito del legname. 

La Reverenda Camera Apostolica possedeva inoltre numerosi beni immobili 

sparsi un po’ ovunque in città, tra i quali vale la pena di menzionare (per l’importanza 

e per il cambiamento d’uso rispetto alla rappresentazione del Nolli) l’ex palazzo e


Fig. 5 - Le proprietà della pubblica amministrazione a Roma nel 1824. 

Fonte: Catasto urbano Pio-Gregoriano.


il giardino Salviati, situati in via della Lungara a Trastevere (n. 1227N 39 , n. 1282C e 

n. 1259C), che nel secondo brogliardo risultano già di proprietà dello Stato pontificio, 

che vi aveva ospitato, dal 1817, l’Archivio Urbano 40 (e, successivamente, anche 

l’Orto botanico) e l’ex palazzo Buoncompagni a Parione (n. 651N, n. 94C), che nel 

1823 risultava adibito a caserma. In fig. 5 si possono inoltre distinguere le aree indicate 

sotto la voce «Sagri Palazzi Apostolici», posizionate nella zona del Quirinale (ne 

fanno parte il palazzo e le scuderie del Quirinale, il palazzo della Consulta ed alcune 

proprietà adiacenti) e nel Borgo (ne fanno parte la Basilica di S. Pietro, il palazzo e i 

giardini Vaticani, il passetto di Borgo e il Castel S. Angelo). Le principali proprietà 

dell’Ospizio Apostolico di San Michele sono invece concentrate nella zona compresa 

tra piazza Montecitorio e piazza di Pietra (ne fanno parte, tra l’altro, il palazzo della 

Curia Innocenziana, il palazzo dell’Ospizio Apostolico e la Dogana di Terra), e a 

Trastevere, nelle adiacenze del porto di Ripa Grande (ne fanno parte l’edificio di San 

Michele, la Dogana Nuova, la Dogana del Passo del vino ed alcuni edifici adiacenti). 

Alla Dataria Apostolica appartiene, oltre allo storico palazzo omonimo sulle pendici 

del Quirinale (ed alcuni edifici adiacenti), il palazzo Madama, ex palazzo Medici (n. 

806N, n. 224C e n. 232C), acquistato da Benedetto XIV che vi trasferì la sede del 

Governatore di Roma. Con meno facilità, viste le ridotte dimensioni della stampa, si 

possono distinguere alcune delle proprietà della Presidenza delle Acque. Tra queste 

menzioniamo (per importanza e per il cambiamento d’uso rispetto alla rappresentazione 

del Nolli) la fontana dell’Acqua Paola, la fontana di Trevi, l’ex-palazzo del 

Bufalo (n. 234N, n. 394C) e l’ex-Collegio Nazzareno (n. 367N, n. 327C). Al Pio 

Istituto di Carità sono passati invece gli ex-granai alle Terme di Diocleziano (n. 

197N e n. 204N, n. 124C e n. 53C) divenuti carceri. E per concludere vale la pena 

di indicare la Casa Pia di S. Uffizio nel Borgo, tornata a vigilare sulla dottrina della 

fede dopo le turbolenze rivoluzionarie. 

Come si può desumere dall’esempio sopra riportato, le ricerche nella banca dati si 

possono effettuare facendo ricorso a diverse chiavi di lettura e le risposte sono visualizzabili 

automaticamente sotto forma di cartografie tematiche: ad esempio, si può 

chiedere al sistema di visualizzare le proprietà dei nobili, piuttosto che quelle di un 

individuo particolare, oppure quelle aventi un determinato uso del suolo. Questo sistema 

permette l’immediata comprensione della distribuzione spaziale dei fenomeni 

che si vogliono studiare, offrendo inoltre la possibilità di condurre un’analisi quantitativa 

a livello di particella catastale, di isolato o di rione. La capacità di produrre e 

di rappresentare topograficamente indici e statistiche desunte dall’analisi dei campi 

della banca dati (valori di estimi e pigioni, di superfici, di densità, di consistenze edilizie, 

ecc.) munisce questo progetto di un potente strumento di analisi e di sintesi. 

In conclusione, desideriamo sottolineare ancora una volta le potenzialità dell’impiego 

dei sistemi informativi geografici applicati alla ricerca storica. Le utilizzazioni 

possono essere numerose, perché viene impostata una struttura flessibile, in grado di


supportare livelli di complessità sempre maggiori, accogliendo una vasta gamma di 

informazioni provenienti da fonti diverse, sovrapponibili tra di loro e consultabili, 

grazie ai più recenti sviluppi tecnologici, anche attraverso internet. Questo ultimo 

aspetto offre ampi margini di sperimentazione: il settore è in continua evoluzione 

e gli esempi ben riusciti di strumenti GIS Web interattivi non sono frequenti. 

Per quanto riguarda le applicazioni che coinvolgono gli studi storici, si riscontra 

una quasi totale assenza di esempi in rete, nonostante alcune interessanti iniziative 

a scopo divulgativo messe a punto negli ultimi anni. La possibilità di consultare on 

line informazioni storiche complesse quali quelle catastali, oltre a contribuire sensibilmente 

alla conservazione della documentazione cartacea, rappresenta un grande 

passo in avanti verso la semplificazione e lo snellimento delle procedure di consultazione 

attualmente in uso presso gli archivi, con importanti ricadute sull’efficacia 

della condivisione della conoscenza nella comunità scientifica a livello nazionale ed 

internazionale, tra gli operatori specializzati nel settore dell’edilizia e del restauro, e 

tra il pubblico più vasto. 

Keti Lelo - Carlo M. Travaglini 

1 Nel corso del Settecento e dell’Ottocento la strumentazione scientifica utilizzata per la produzione 

delle cartografie viene perfezionata notevolmente, mentre la topografia viene codificata in termini 

sia di metodologia applicativa che di rappresentazione cartografica in diversi Stati europei. Inoltre, 

l’affermazione della geometria descrittiva contribuisce a risolvere graficamente il problema del disegno 

orografico, mentre l’introduzione del sistema metrico decimale, reso obbligatorio dapprima in Francia 

(1791-1796) e poi gradualmente nel resto d’Europa, segna un’importante passo in avanti verso la standardizzazione 

delle rappresentazioni cartografiche. Cfr. M. DOCCI-D. MAESTRI, Storia del rilevamento 

architettonico e urbano, Roma-Bari, Laterza, 1993. In Italia il primo progetto cartografico unitario viene 

realizzato dall’IGM (Istituto Geografico Militare). Il governo del Regno, considerando inadeguati i 

disomogenei lavori realizzati negli stati pre-unitari, affida nel 1872 all’Istituto Topografico Militare (il 

quale avrebbe assunto l’attuale denominazione – IGM – nel 1882) l’esecuzione del progetto di rilevamento 

generale del territorio dello Stato e della formazione della nuova Carta Topografica d’Italia alla 

scala 1:100.000. L’Istituto Topografico, formatosi dalla fusione dell’Ufficio Tecnico del Corpo di Stato 

Maggiore del Regno Sardo con gli Istituti e gli Uffici topografici e cartografici dei diversi stati pre-unitari, 

ne aveva ereditato il materiale scientifico e cartografico. Cfr. D. BRIANTA-L. LAURETI, Cartografia, 

scienza di governo e territorio nell’Italia liberale, Milano, Unicopli, 2006. 

2 Sulla straordinaria importanza della pianta del Nolli per lo studio della Roma del Settecento cfr. 

C. FACCIOLI, Gio. Battista Nolli (1701-1756) e la sua gran «Pianta di Roma» del 1748, «Studi Romani», 

XIV, 1966, pp. 415-442; I. INSOLERA, Roma. Immagini e realtà dal X al XX secolo, Roma-Bari, Laterza, 

1980; G. SPAGNESI, L’immagine di Roma barocca da Sisto V a Clemente XII: la pianta di G.B. Nolli del 

1748, in Immagini del Barocco. Bernini e la cultura europea del Seicento, a cura di M. Fagiolo e G. Spagnesi, 

Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1982, pp. 145-156; e da ultimo l’ampia monografia di M. 

BEVILACQUA, Roma nel secolo dei lumi. Architettura erudizione scienza nella Pianta di G.B. Nolli “celebre 

geometra”, Napoli, Electa Napoli, 1998. 

3 V. VITA SPAGNUOLO, I Catasti generali dello Stato Pontificio. La Cancelleria del Censo di Roma poi 

Agenzia delle imposte (1824-1830), Roma, Archivio di Stato di Roma, 1996. Cfr. anche A. RUGGERI-L.


LONDEI, Il catasto urbano di Roma (1818-1824), in Eventi e documenti diacronici delle principali attività 

geotopografiche in Roma, a cura di A. Cantile, Firenze, Istituto Geografico Militare, 2000 (suppl. a 

“L’Universo”, 2000, 6), pp. 102-137; S. GREMOLI-C. PROCACCIA, Il Catasto urbano Pio-Gregoriano. Note 

per una banca dati, in I territori di Roma. Storie, popolazioni, geografie, a cura di R. Morelli, E. Sonnino, 

C.M. Travaglini, Roma, Università degli studi di Roma La Sapienza - Tor Vergata - Roma Tre, 2002, 

pp. 137-185. 

4 Cfr. C.M. TRAVAGLINI, Aspetti della modernizzazione economica tra fine Settecento e inizi Ottocento. 

La politica fiscale, in Roma negli anni di influenza e dominio francese. 1798-1814. Rotture, continuità, 

innovazioni tra fine Settecento e inizi Ottocento, a cura di Ph. Boutry, F. Pitocco, C.M. Travaglini, Napoli, 

ESI, 2000, pp. 233-272. 

5 I Geographical Information Systems (GIS) sono sistemi computerizzati in grado di “catturare”, gestire, 

analizzare e visualizzare informazioni qualitative e quantitative su base territoriale. 

6 F. PALAZZO –C.M. TRAVAGLINI, Towards a Historical and Environmental Atlas of Rome between the 18 th 

and 20 th Centuries, in Développement soutenable du milieu urbain. Rencontre entre science, culture et innovation, 

Actes de la Conference (Bruxelles, Parlement Européen, 27 Mai 1999), Bruxelles, sit, 1999, pp. 

107-116; C.M. TRAVAGLINI, Uomini e spazi, storie e rappresentazioni, in I territori di Roma, cit., pp. 23-32. 

Il progetto si è sviluppato in collabrazione con l’Archivio Storico Capitolino e l’Archivio di Stato di Roma, 

e si coglie l’occasione per ringraziare i direttori di entrambe le istituzioni: Paola Pavan e Luigi Londei. 

7 Cfr. K. LELO, GIS e storia urbana, in I territori di Roma, cit., pp. 191-212. 

8 La Nuova Pianta di Roma di G.B. Nolli nasce dall’iniziativa dei circoli antiquari romani facenti 

capo al cardinale Albani, interessati all’esecuzione di una «Pianta di Roma la più esatta di quante fin 

ad ora siano uscite alla luce», che rappresenti «non solo le fabbriche moderne, che al giorno d’oggi si 

vedono, ma in oltre tutte quelle che da due secoli in qua erano in Roma, e che poi sono state diroccate, 

il che si anderà ricavando da varie notizie, e dalle carte più antiche, che con tutta la diligenza di più si 

saranno segnate le fabbriche antiche nello stato in cui al presente si trovano, e ancora come due secoli 

addietro si vedevano innanzi la demolizione di molte di esse, servendoci della stessa guida delle carte in 

più volte stampate» (BIBLITECA APOSTOLICA VATICANA, Capponiani, 294, c. 22, cit. in M. BEVILACQUA, 

Roma nel secolo dei Lumi, cit., p. 25 e 185). 

9 L’unica eccezione che precorse i tempi fu la pianta di Roma realizzata nel 1551 da Leonardo 

Bufalini. Si tratta della prima rappresentazione zenitale di Roma redatta sulla base di un preciso piano 

di rilevamento della città. Nonostante il certo impiego della bussola nelle operazioni di rilevamento, la 

pianta è orientata a Est. Il risultato è tuttavia lontano dalla precisione geometrica che caratterizza l’opera 

del Nolli. Cfr. M. DOCCI-D. MAESTRI, Storia del rilevamento, cit., p. 112; P. MARCONI, Uno strumento 

per una città migliore, in Atlante di Roma. La forma del centro storico in scala 1:1000 nel fotopiano e nella 

carta numerica, Venezia, Marsilio, 1996, pp. 11-34: 22. 

10 La meridiana è visibile nel disegno preparatorio del Nolli (conservato alla Biblioteca di Archeologia 

e storia dell’arte di Roma). Essa segue l’andamento della linea tracciata sul marmo del pavimento 

della chiesa di S. Maria degli Angeli, percorrendo tutto il disegno nella direzione nord-sud. Nella parte 

settentrionale, appena fuori le mura all’altezza di porta Salaria, si intravede la scritta a matita «Meridiana 

della Certosa». 

11 Cfr. V. BAIOCCHI-K. LELO, Georeferencing the historical maps of Rome between the seventeenth and 

eighteenth centuries, in International Cooperation to save the World’s Cultural Heritage, XX International 

CIPA Symposium, Torino, CIPA, 2005. 

12 Tra il 1743 ed il 1744 Nolli, chiamato a collaborare alla riforma dei confini dei rioni della città 

intrapresa dal conte Bernardino Bernardini, utilizzò l’ormai pronto disegno preparatorio della sua 

pianta come base cartografica. Nel testo del Bernardini viene inserita, incisa da Carlo Nolli, una piccola 

pianta della città con evidenziata la divisione in 14 rioni. Cfr. B. BERNARDINI, Descrizione del nuovo 

ripartimento de’ Rioni di Roma fatto per ordine di N.S. Papa Benedetto XIV, con la notizia di quanto in essi 

si contiene, opera del conte Bernardino Bernardini, Roma, per Generoso Salomone, presso S. Eustachio, 

1744; Le piante di Roma, a cura di A.P. Frutaz, 3 voll., Roma, Istituto Nazionale di Studi Romani, 1962, 

vol. I, pp. 232-233. 

13 I contenuti dell’indice riguardano 1.320 voci numerate, articolate in 19 categorie, integrate dal-


l’inserimento direttamente in pianta di 657 toponimi, riguardanti principalmente vigne, orti, ville, giardini, 

canneti ecc., di cui solo 115 appaiono ripetitivi di indicazioni già presenti negli indici numerici. 

Nonostante il notevole ridimensionamento rispetto alle intenzioni iniziali, le informazioni descrittive della 

mappa del Nolli sono comunque le più complete rispetto alle rappresentazioni cartografiche coeve. 

14 Cfr. E. SONNINO, Popolazione e territori parrocchiali a Roma dalla fine del ’500 all’unificazione, in 

Popolazione e società a Roma dal medioevo all’età contemporanea, a cura di E. Sonnino, Roma, Il calamo, 

1998, pp. 93-139: p. 95. Le informazioni relative alle superfici ed agli usi del suolo sono tratte direttamente 

dall’elaborato cartografico informatizzato. 

15 Cfr. G. SIMONCINI, L’edilizia pubblica in Italia fra tardo Seicento e fine Settecento, in L’edilizia 

pubblica nell’età dell’illuminismo, a cura di G. Simoncini, 3 voll., Firenze, Olschki, 2000, vol. I, pp. 

11-72: 14. 

16 Cfr. G. CURCIO, L’area di Montecitorio: la città pubblica e la città privata nella Roma della prima 

metà del Settecento, in L’architettura da Clemente XI a Benedetto XIV. Pluralità e tendenze, a cura di E. 

Debenedetti, Roma, Multigrafica, 1989, pp. 157-204. 

17 Cfr. G. CURCIO, Luoghi e architetture del pubblico in Roma (1724-1758), in L’edilizia pubblica, 

cit., vol. III, pp. 639-720. 

18 Cfr. Regesto-Roma, a cura di A. Antinori, F. di Marco, T. Manfredi, in L’edilizia pubblica, cit., vol. 

III, pp. 795-811. 

19 Per un’ampia panoramica sulla normativa e sui maggiori interventi di tipo urbanistico a Roma 

è indispensabile la consultazione dell’archivio della Presidenza delle strade presso l’Archivio di Stato di 

Roma, il cui inventario è di prossima pubblicazione a cura di Daniela Sinisi e Orietta Verdi. Si vedano 

in particolare sull’argomento: D. SINISI, La Presidenza delle strade, in La Reverenda Camera Apostolica 

e i suoi archivi (secc. XV-XVIII), a cura di M.G. Pastura, Roma, Archivio di Stato di Roma-Scuola di 

Archivistica, Paleografia e Diplomatica, 1987, pp. 100-118; EAD., La Presidenza delle strade e il suo 

archivio nel XVIII secolo, «Roma moderna e contemporanea», II, 1994, 2, pp.491-502; EAD., I bandi 

della Presidenza delle strade nella Collezione II della biblioteca dell’Archivio di Stato di Roma (1580-1758), 

«Rivista storica del Lazio», IV, 1996, 5, pp.277-358; D. SINISI-O. VERDI, Licenze edilizie a Roma nel secolo 

XVIII, in Gli archivi per la storia dell’architettura. Atti del convegno internazionale di studi (Reggio 

Emilia, 4-8 ottobre 1993), 2 voll., Roma, Ministero per i Beni e le attività culturali-Ufficio centrale 

per i beni archivistici, 1999, vol. II, pp.728-738. Si veda anche P. MICALIZZI, Roma nel Settecento. Le 

trasformazioni della città tra magnificenza barocca e regola neoclassica, in Roma nel XVIII secolo, a cura di 

P. Micalizzi, 2 voll., Roma, Kappa, 2003, vol. I, pp. 7-71. 

20 P. MICALIZZI, Roma nel Settecento, cit., pp. 53, 55. 

21 Gli scavi al Foro Romano e alla basilica Ulpia, la costruzione del “clivus Palatinus”, le sostruzioni 

della Rupe Tarpea, la sistemazione di un giardino pubblico sul Celio tramite il reimpiego del materiale 

di scavo dei Fori. 

22 Nel trasmettere il 28 ottobre 1815 le proprie «Riflessioni sul sistema amministrativo» in risposta 

ad un questionario diramato dalla Segreteria di Stato, la Congregazione governativa di Ancona osservava: 

«Il lavoro de’ nuovi catastri è già cominciato dal Governo italiano [...] Trovandosi iniziato il lavoro 

tanto più sarebbe facile il proseguirlo» (ARCHIVIO DI STATO DI ROMA, d’ora in poi ASR, Camerale II, 

Camerlengato e Tesorierato, b. 20). 

23 E. CONSALVI, Memorie, a cura di mons. Mario Nasalli Rocca di Corneliano, Roma, Angelo Signorelli, 

1950, pp. 147-148. 

24 La Congregazione dei catasti si insediò il 3 gennaio del 1817 ed uno dei suoi primi atti fu la 

predisposizione del Regolamento che venne pubblicato il 22 febbraio 1817. Il passo immediatamente 

successivo fu l’affidamento, con un contratto sottoscritto il 4 marzo dello stesso anno, a tecnici milanesi 

del completamento delle operazioni di impianto del catasto con la sola esclusione dei territori di Roma 

e dell’Agro romano. Il 5 settembre 1817 venne stipulato con 4 ingegneri romani il contratto per la 

catastazione dell’Agro, per tentare di riassorbire il malumore dei tecnici pontifici per l’affidamento a dei 

forestieri dell’appalto precedente (ASR, Biblioteca, manoscritti n. 441). 

25 Delle poco più di 4.000 mappe che vennero nel tempo a costituire il catasto pontificio, circa 

1.280 erano state ereditate dalle operazioni compiute dal Regno d’Italia, cfr. V. VITA SPAGNUOLO, I


Catasti generali dello Stato Pontificio, cit., p. 63. 

26 La canna censuaria, tradizionale unità di misura dello Stato pontificio, fu equiparata al metro. 

27 La Direzione dei catasti era articolata a livello periferico per le varie province dello Stato in 

Cancellerie del censo. Le Cancellerie, istituite nel 1817, avevano compiti esecutivi, di controllo e di 

conservazione della documentazione. La Capitale godeva di uno status particolare per cui le funzioni 

della Cancelleria del censo di Roma – con competenza su Roma e sull’Agro romano – erano assolte 

dalla stessa Direzione generale dei catasti. V. VITA SPAGNUOLO, I Catasti generali dello Stato Pontificio, 

cit., pp. 58-60. 

28 ASR, Segretari e cancellieri della RCA, b. 1254. 

29 Ivi. 

30 Il contratto prevedeva l’esecuzione dell’opera entro sei mesi ed un compenso omnicomprensivo 

di 9.500 scudi, così che restavano a carico di Salvi e Palazzi tutte le spese di realizzazione, inclusi i compensi 

per tutti i collaboratori e le spese per attrezzature e materiali. 

31 Cfr. A. RUGGERI-L. LONDEI, Il catasto urbano di Roma, cit., p. 110. 

32 Nella fig. 4 sono rappresentate delle sovrapposizioni tra la cartografia numerica ufficiale del Comune 

di Roma e cartografie storiche georeferenziate e vettorializzate. Per una maggiore compressione 

dei confini sono stati eliminati alcuni elementi di decoro presenti nelle rappresentazioni storiche. 

33 In dettaglio: rione I – Monti 18 fogli; rione II – Trevi 5 fogli; rione III – Colonna 6 fogli; rione IV 

– Campo Marzio 6 fogli; rione V – Ponte 3 fogli; rione VI – Parione 2 fogli; rione VII – Regola 3 fogli; 

rione VIII – S. Eustachio 2 fogli; rione IX – Pigna 1 foglio; rione X – Campitelli 10 fogli; rione XI – S. 

Angelo 1 foglio; rione XII – Ripa 14 fogli; rione XIII – Trastevere 10 fogli; rione XIV – Borgo 9 fogli. 

34 I registri delle isole estimative sono conosciuti anche con il nome di bastardelli. 

35 Istruzioni per la rettifica catastale della parte topografica e descrittiva delle proprietà costruite della 

provincia di Roma, Firenze, 1871 (ASR, Presidenza del Censo, b. 2105). 

36 V. BAIOCCHI-K. LELO, Confronto di cartografie storiche con cartografie attuali per l’area del centro 

storico di Roma, Atti della 6 a Conferenza nazionale ASITA (Perugia, 5-8 Novembre 2002); S. GREMOLI- 

C. PROCACCIA, Il Catasto urbano Pio-Gregoriano, cit. 

37 La schedatura informatizzata della seconda serie dei brogliardi del Catasto urbano Pio-Gregoriano 

ha presentato non pochi problemi per la grande ricchezza di informazioni che si è cercato di conservare 

nella loro interezza, per la frequente molteplicità di possidenti di singole particelle e, soprattutto, per 

il fatto che non vi è un’equivalenza tra numero dei fondi e numero delle particelle essendo i primi più 

numerosi di circa il 50% delle seconde; così che ad una singola particella, che costituisce l’elemento di 

collegamento univoco con la cartografia vettorializzata, possono fare riferimento più fondi appartenenti 

anche a possidenti diversi o, in modo indiviso, a più soggetti. Una volta completate le operazioni di 

revisione della banca dati dei brogliardi sarà possibile stabilire in modo organico il collegamento tra 

banche dati catastali e cartografia vettorializzata, eventualmente sperimentando la possibilità di una loro 

consultazione via internet grazie alle nuove interfacce web che si stanno dischiudendo per i GIS. 

38 W. KROGEL, All’ombra della Piramide. Storia e interpretazione del Cimitero acattolico di Roma, 

Roma, Unione internazionale degli istituti di archeologia, storia e storia dell’arte, 1995, p. 138-140. 

Sempre nel rione Ripa vi era anche il Cimitero degli ebrei, autonomamente gestito dalla «Compagnia 

della Morte degli Ebrei». 

39 L’indicazione numerica con la desinenza «N» fa riferimento all’indice del Nolli, mentre la desinenza 

«C» fa riferimento alla numerazione delle particelle del Catasto Pio-Gregoriano. 

40 M. FRANCESCHINI, L’Archivio Storico Capitolino e il problema degli strumenti di ricerca, in Archivi 

e archivistica a Roma dopo l’Unità. Genesi storica, ordinamenti, interrelazioni, Atti del convegno (Roma, 

12-14 marzo 1990), Roma, Ministero per i Beni culturali e ambientali-Ufficio centrale per i beni archivistici, 

1994, pp. 278-293: 281.


LE CADASTRE DE LOMBARDIE (1758) : UNE SOURCE POUR 

L’HISTOIRE URBAINE. LA RÉALISATION D’UN SYSTÈME 

D’INFORMATION GÉOGRAPHIQUE POUR LA VILLE DE MILAN * 

L’essor de l’histoire urbaine depuis les années 1970 a incité les historiens à se 

pencher sur un type de source jusqu’alors assez peu utilisé pour l’histoire des villes : 

les cadastres 1 . Parallèlement, le développement de l’outil informatique a permis le recours 

à une approche quantitative, puis l’utilisation de la cartographie informatique 2 . 

Les villes italiennes ont constitué des objets privilégiés pour ce type d’étude. Deux 

raisons principales peuvent expliquer ce constat : la première tient à l’importance et à 

la précocité des sources dont elles disposent. En effet, c’est dans l’Italie du XIII e siècle 

que réapparaissent les cadastres, alors que la pratique avait disparu au haut moyenage. 

Les exemples célèbres de Macerata (1268) ou d’Orvieto (1292) sont parmi les 

principaux témoins de ce renouveau 3 . Quelques siècles plus tard, c’est toujours dans 

la péninsule italienne que sont réalisés les premiers cadastres disposant de cartes géométriques 

et parcellaires : cadastres du Piémont (1738) et cadastre de Lombardie 

(1758). Une seconde raison tient au rôle spécifique que les facultés d’architectures 

ont pu jouer, en Italie, dans cette prise d’intérêt pour la cartographie et aux liens 

étroits qu’elles entretiennent avec l’histoire urbaine. 

Le cadastre de Lombardie du XVIII e siècle, dit «Catasto teresiano», considéré 

comme l’un des premiers cadastres modernes, n’avait pas encore été l’objet, pour ses 

parties urbaines, d’une véritable exploitation quantitative, appuyée également sur 

le support cartographique 4 . En ce qui concerne Milan, il existe des études prenant 

en compte l’ensemble de la ville, mais elles n’ont pas donné lieu, par la suite, à une 

exploitation à la mesure de leur importance 5 . Depuis, le développement des logiciels 

de cartographie permet aux historiens une nouvelle approche de la source grâce à la 

production de cartes, qui n’ont pas seulement une fonction illustrative mais qui sont 

aussi de véritables outils de travail. La production de cartes thématiques constitue en 

effet un moyen de repérer des phénomènes remarquables qui seront ensuite l’objet 

d’analyses plus approfondies, mobilisant d’autres méthodes et d’autres types de sources. 

La carte est dès lors envisagée comme un point de départ du travail de recherche 

et non plus, seulement, comme son aboutissement. La réalisation d’un Système 

d’Information Géographique (SIG), dont le principe est de relier un objet figurant

458 ALBANE COGNÉ 

sur une carte (une parcelle, par exemple) à une base de données informant sur cet 

objet, rend ainsi possible une véritable prise en compte de la dimension spatiale. 

Elle permet notamment la localisation précise des phénomènes ainsi que le calcul de 

surfaces. Pour une exploitation de ce type, le cadastre de Lombardie apparaît comme 

une source exceptionnelle, tant par la rigueur de sa réalisation que par la présence de 

cartes géométriques et parcellaires. Il fut, du reste, utilisé comme modèle pour nombre 

de réalisations postérieures 6 . Il est aussi l’un des premiers cadastres à posséder ces 

caractéristiques et à prendre en compte les villes. En effet, le cadastre piémontais, 

achevé à la fin des années 1730, concerne essentiellement les terres rurales. La ville 

de Turin, en tout cas, ne dispose pas de cadastre 7 . Quant au cadastre précédent de 

Milan, datant du milieu du XVI e siècle, dit «Cadastre de Charles Quint», il s’agit 

d’un cadastre descriptif qui ne possède pas de cartes parcellaires 8 . Cette absence de 

cartes, propre aux cadastres anciens, rend difficile la localisation précise des biens. 

Celle-ci ne peut s’appuyer que sur les registres, où figurent des indications telles que 

la proximité d’une église ou d’un lieu public connu. Pour les historiens qui veulent 

reconstituer l’état de la ville en localisant les biens mentionnés dans les registres sur 

des cartes cadastrales postérieures, le travail s’avère donc complexe et parfois délicat, 

d’autant plus que les registres étaient souvent organisés en fonction du lieu de résidence 

des propriétaires et non en fonction de la localisation géographique des biens. 

Par ailleurs, un nombre important de propriétés n’apparaissait pas dans les registres : 

biens appartenant à des personnes exemptées d’imposition ou maisons destinées à 

la résidence du propriétaire. En effet, seuls les biens procurant un revenu étaient 

considérés comme imposables. Enfin, les modalités de réalisation des cadastres, basées 

sur la déclaration des biens par les propriétaires eux-mêmes, étaient souvent à l’origine 

de fraudes que le système d’imposition, reposant sur une taxation personnelle et non 

réelle, rendait plus difficiles à détecter. Le cadastre de Lombardie se distingue ainsi des 

précédents par la modernité de ses principes comme de sa réalisation. Ses caractéristiques 

méritent donc que l’on s’y arrête un peu avant de voir plus précisément la réalisation 

du SIG de Milan et de présenter quelques pistes pour l’exploitation de celui-ci. 

1. Un cadastre urbain et moderne 

La mise en œuvre de ce cadastre, décidée en 1714 par l’empereur Charles VI, 

répond à la fois à des objectifs fiscaux et politiques. La volonté de réformer un système 

d’imposition qui multiplie les exemptions et dont le poids est très inégalement 

réparti n’est pas nouvelle, mais la fin de la Guerre de Succession espagnole contribue 

à la renforcer. Il s’agit en effet, après la signature des traités d’Utrecht et de Rastadt 

(1713-1714), d’affirmer la domination autrichienne sur la Lombardie et de combler 

le déficit creusé par la guerre. La réalisation du cadastre est cependant longue et difficile 

puisqu’il ne sera achevé qu’en 1758 et activé le 1 er janvier 1760, constituant ainsi 

l’une des premières grandes réformes qui marquèrent le règne de l’impératrice Marie-

LE CADASTRE DE LOMBARDIE 459 

Thérèse. Deux phases sont traditionnellement distinguées au cours de sa réalisation. 

La première, de 1718 à 1733, correspond à la mise en oeuvre du projet sous la direction 

du napolitain Vincenzo De Miro qui se heurte à de fortes oppositions, mais pose 

les bases du cadastre des terres agricoles. La reprise des guerres en 1733 interrompt 

alors les opérations jusqu’en 1749. Après la signature de la paix d’Aix-La-Chapelle, 

la seconde phase des travaux commence (1749-1758). Le pouvoir autrichien montre 

désormais la volonté inébranlable d’achever les opérations et d’appliquer le système 

fiscal qui en résultera. Il n’hésite pas, pour cela, à réformer les administrations locales 

9 . Durant cette seconde phase, le toscan Pompeo Neri reprend le travail réalisé par 

De Miro : il met à jour les registres des campagnes et prend en compte les modifications 

de frontières. C’est aussi durant cette seconde phase qu’est réalisé le cadastre 

des villes, qui nous intéresse ici. 

Un cadastre spécifique pour les villes 

Durant la première phase des opérations cadastrales, la ville n’avait été envisagée 

que de façon secondaire, ce qui peut sûrement s’expliquer par la primauté des revenus 

agricoles dans l’économie traditionnelle d’Ancien Régime. Il semble encore assez 

difficile de savoir exactement quelles étaient les intentions de la première Giunta del 

Catasto au sujet des espaces urbains dans la mesure où celle-ci n’a pu achever son 

travail. C’est pourtant à elle que l’on doit la réalisation des premiers plans de Milan, 

appelés mappe di Carlo VI. On sait également qu’elle avait demandé à chaque propriétaire 

de déclarer les biens en sa possession. Mais on ne dispose pas, pour cette 

époque, d’un relevé exhaustif des propriétés réalisé par les ingénieurs du cadastre 

et surtout les critères d’estimation des biens bâtis ne sont pas fixés 10 . Or, ceci est le 

préalable à la réalisation du cadastre des villes puisque dans celles-ci, le bâti occupe 

évidemment une place plus importante que les terrains. 

Dès l’origine, le cadastre de Lombardie repose sur la distinction entre les terrains 

(beni di prima stazione) et les autres biens qui seront finalement circonscrits, après 

débat, aux seules constructions (beni di seconda stazione). Pour la première catégorie, 

les modalités d’estimation semblent avoir été décidées assez rapidement : il s’agit de 

mesurer les terrains et de leur attribuer une valeur en fonction de leur catégorie d’appartenance. 

Plusieurs classes de terrains sont distinguées, tenant compte de leurs aptitudes 

agricoles. Pour la seconde catégorie, celle du bâti, le débat fut plus complexe 

et c’est à la Giunta Neri que revient le mérite d’avoir fixé les principes d’estimation. 

L’idée était d’abord d’estimer les biens construits à partir de la superficie occupée 

au sol en créant une catégorie de terrain particulier, celle de «site de maison» (sito 

di case). Dans ce système, les jardins maraîchers (ortaglie) et les jardins d’agrément 

(giardini) étaient envisagés à part comme un type de terrain différent. Pour réaliser 

l’estimation, seule importait la surface occupée au sol et non les qualités propres des 

constructions telles que le nombre d’étages ou la nature des matériaux. Si ce système


sera en partie conservé pour les constructions des campagnes, il est très rapidement 

écarté pour les villes où Neri est conscient qu’il faut prendre en compte les qualités 

spécifiques du bâti. Les experts sont alors tenus de se baser sur le loyer, réel ou estimé, 

du bien. Cette décision pose désormais le problème de la délimitation du champ 

d’application de ces différentes méthodes d’estimation : où commence la ville et où 

se termine la campagne ? Si la présence d’un mur d’enceinte a pu sembler à l’origine 

un moyen d’identifier les espace urbains, elle ne résout pas le problème de deux types 

de catégories qui ont un statut intermédiaire : les gros bourgs ruraux (qui peuvent être 

pourvus d’une enceinte) et les faubourgs des grandes villes (zones immédiatement 

hors des murs, mais qui possèdent parfois des caractéristiques urbaines). Des relevés 

et des estimations à titre expérimental sont réalisés au début de 1751 et finalement 

la décision est prise de limiter cette méthode d’estimation reposant sur le bâti à cinq 

villes, à cause de sa plus grande complexité, ainsi que pour des raisons de temps et de 

coût. Pour ces cinq principales villes de Lombardie (Milan, Crémone, Côme, Pavie 

et Lodi), des instructions spécifiques sont publiées en 1751 et fixent précisément les 

modalités de recension et d’estimation du bâti. Les cas de terrains non rattachés à 

des constructions sont jugés suffisamment rares pour ne pas être l’objet d’une prise 

en compte particulière. Ainsi n’est élaboré qu’un seul registre : celui du bâti 11 . Le 

traitement distinctif de ces cinq villes manifeste donc bien la reconnaissance d’une 

spécificité du fait urbain de la part des techniciens du cadastre. 

Une recension exhaustive des propriétés 

Les instructions de Pompeo Neri aux ingénieurs chargés des opérations de «description 

et d’estimation des biens», en date du 14 mai 1751 12 , nous assurent que 

la totalité du bâti urbain est concernée et qu’aucun bien ne sera oublié ou laissé de 

côté. Le débat au sujet des maisons habitées par leur propriétaire a été tranché en 

faveur d’une prise en compte de celles-ci dans le cadastre, au même titre que les 

autres maisons louées, ce qui va à l’encontre de la pratique habituelle et suscite des 

controverses 13 . Les instructions recommandent ainsi de procéder paroisse par paroisse, 

côté de rue par côté de rue, de manière à ne rien omettre. Chaque bien doit 

être visité intérieurement et extérieurement. Il est ensuite pourvu d’un numéro et 

l’expert, suivant le modèle d’un tableau qui lui a été remis, en produit une «description 

circonstanciée» qui mentionne également les confins de chaque parcelle. Il est 

précisé que nul ne peut soustraire ses biens à cette opération quel que soit le prétexte 

invoqué. Malgré les protestations des anciens privilégiés 14 , l’ensemble du territoire 

urbain a donc été recensé. L’étude des cartes nous prouve du reste qu’aucun bien n’a 

été laissé de côté. Il est plus délicat de savoir si les propriétés ont été estimées à leur 

juste valeur. L’importance des recours de propriétaires demandant une révision de la 

valeur attribuée à leur propriété tendrait pourtant à laisser penser que les estimations 

de complaisance ne furent pas trop nombreuses. La confrontation aux valeurs du


marché immobilier, à travers les actes notariés, permettra peut-être d’éclairer ce point. 

Les édifices publics ou religieux sont également décrits. Ils sont identifiés par le moyen 

d’une lettre (et non d’un chiffre), et n’étant pas imposables, ils ne sont pas estimés. 

Pour l’estimation des autres biens, Neri recommande aux experts 15 de se baser sur 

les loyers réels ou estimés. Mais quels sont exactement les critères d’estimation de ces 

biens bâtis ? Il est en fait assez difficile de saisir ce que recouvrent les «méthodes habituelles» 

évoquées dans les Instructions. Les critères sont-ils la situation dans la ville, 

la qualité de la construction ? Une forme de secret sur ce point semble manifeste de 

la part du Collège des Ingénieurs et Architectes dont relevaient les experts. De plus, 

les minutes d’estimation qui pourraient nous aider à mieux saisir ces critères ont été 

détruites en ce qui concerne la ville de Milan. On ne dispose donc que de quelques 

recours de propriétaires qui contestent la valeur attribuée à leur bien. Les critères 

que l’on y perçoit sont alors peut-être un peu différents de ceux des techniciens et 

relèvent parfois du vécu. Il s’agit aussi bien de critères concernant la situation du 

bien (éloignement de l’église paroissiale qui rend plus difficile l’accès à la messe dominicale, 

chemin de desserte en piteux état, mauvaise situation dans la ville ...) que 

de critères internes à celui-ci (manque de commodité du bâtiment, accès à la rue 

indirect, mauvais état, travaux à faire …). Certains de ces critères sont sûrement pris 

en compte également par les experts : la situation près des murs de la ville est, par 

exemple, considérée de manière récurrente et unanime comme peu favorable. Ces 

opérations, commencées le 14 juin 1751 dans les cinq villes concernées, sont quasiment 

achevées à la fin de l’année 1751, à l’exception de quelques problèmes ponctuels 

qui restent à régler. Ces descriptions et estimations des maisons constituent la 

base des registres du cadastre urbain. 

On sait assez peu de choses sur la réalisation des cartes des villes 16 . Les premiers 

relevés, pour la ville de Milan, ont été effectués en 1721-1723, sous la direction de 

l’ingénieur vénitien Giovanni Filippini. Ces cartes constituent l’une des premières 

représentations planimétriques et géométriques de la ville qui influencera ensuite 

les autres cartographies, comme celle, fameuse, de Marc’Antonio Dal Re datant de 

1734 17 . Lorsque les opérations reprennent dans les années 1750, de nouvelles cartes 

sont réalisées. Elles constituent une mise à jour des anciennes mais sont aussi plus 

précises puisque figure désormais l’ensemble des parcelles numérotées, tandis que sur 

la carte de Filippini seules les parcelles contenant des jardins étaient identifiées. 

Au début du mois de mars 1758, la Giunta Neri est dissoute après avoir publié 

en février la sentenza d’Estimo, l’acte officiel de naissance du cadastre. Ce dernier 

est activé par un édit de novembre 1759, à compter du 1 er janvier 1760, et restera 

en vigueur jusqu’à la réalisation du cadastre lombardo-vénitien au milieu du XIX e 

siècle. La rigueur de sa réalisation et l’existence de cartes parcellaires font donc de ce 

cadastre une source exceptionnelle pour l’histoire urbaine, qui a permis, pour la ville 

de Milan, la constitution d’un système d’information géographique.


2. La réalisation du SIG : aspects techniques 

La base de ce système d’information géographique est constituée par les cartes 

et registres du cadastre de Milan 18 qui reprennent le découpage traditionnel de la 

ville en fonction des paroisses et des six portes principales, qui donnent leur nom 

aux 6 quartiers de la ville (porta Comasina, porta Nuova, porta Orientale, porta Romana, 

porta Ticinese, porta Vercellina). Les paroisses sont au nombre de 62 mais l’on 

compte 71 subdivisions paroissiales car certaines paroisses sont divisées entre 2 portes 

(par exemple, la paroisse San Protaso ad Monacos est partagée entre porta Comasina 

et porta Nuova). Chaque bien mentionné dans le registre est donc identifiable sur 

la carte à partir de 3 références : la porte, la paroisse et le numéro de parcelle. Les 

registres nous informent sur le propriétaire du bien, sur le bien lui-même 19 , et donnent 

son estimation, exprimée en scudi, qui a été obtenue par capitalisation du loyer 

annuel sur la base de 4%. 

L’ensemble des données des registres a été entré dans un tableur Excel, en conservant 

la formulation originale. La base de données obtenue comporte plus de 5900 

lignes correspondant au nombre d’unités de propriété (certaines parcelles sont en 

effet partagées entre plusieurs propriétaires et occupent donc plusieurs lignes). L’ensemble 

a ensuite été retravaillé pour être uniformisé et a reçu quelques informations 

complémentaires. En effet, une certaine uniformisation de la base de données était 

nécessaire pour permettre un traitement informatique. Elle concerne aussi bien les 

noms des propriétaires pour lesquels a été retenue l’orthographe la plus courante (par 

exemple, Serbelloni plutôt que Sorbelloni, Magenta plutôt que Mazzenta …), que 

l’usage des biens. On a notamment distingué les propriétés qui étaient loués de celles 

qui ne l’étaient pas. En ce qui concerne les propriétaires, on leur a ensuite attribué un 

code en fonction de leur statut (nobles - grâce à la présence des titres - ou non-nobles, 

ordres religieux, confréries, hôpitaux …). Les familles faisant partie du patriciat ont 

également été identifiées 20 . 

Les 6 cartes, correspondant aux 6 quartiers de Milan, ont été assemblées de manière 

à ne former qu’un plan unique pour l’ensemble de la ville 21 . Ce plan a ensuite 

été traité avec le logiciel Autocad pour la phase de vectorisation. Ce dernier travail 

consiste à rendre identifiable par l’ordinateur les différents éléments de la carte, en 

reprenant ceux-ci dans des couches successives de dessin. Ces différentes couches 

correspondent en fait à deux types d’informations : celles concernant la topographie 

de la ville (canaux, îlots et rues) et celles concernant les limites administratives 

(quartiers, paroisses, parcelles). A divers niveaux, ce travail de dessin, qui n’est pas un 

simple décalquage, a conduit à réaliser des choix, notamment pour la restitution du 

parcellaire. L’une des limites principales de la source tient en effet à la représentation 

cartographique de celui-ci : si les numéros de parcelles sont bien mentionnés sur les 

cartes, les contours de celles-ci ne sont pas tous bien dessinés. La situation varie en 

fait d’une porte à l’autre : pour le quartier de porta Romana, l’immense majorité


des parcelles est clairement identifiable sur la carte, pour celui de porta Ticinese, la 

quasi-totalité est à retracer. Ce travail de reconstitution des limites du parcellaire, 

nécessaire pour de larges zones, s’est donc fait grâce aux numéros mentionnés sur la 

carte mais aussi avec l’appui d’informations données par les registres de 1751 (mention 

des parcelles voisines qui encadrent) et par les cartes cadastrales de 1855. Trois 

niveaux ont ainsi été distingués dans le parcellaire : les parcelles dessinées sur le plan 

et donc a priori exactes, celles reconstituées de façon relativement sûre et enfin, les 

autres reconstituées de manière beaucoup plus aléatoire (fig. 1). Pour ces dernières, 

la reconstitution s’avère trop approximative pour permettre le calcul de surfaces à 

l’échelle des parcelles, mais rien n’empêche de réaliser ceux-ci à l’échelle de l’îlot. 

Enfin, l’apport d’autres sources permettra peut-être, par la suite, de préciser un peu 

mieux les formes du parcellaire. 

A la suite de ce traitement parallèle des cartes et des registres, le tout a été basculé 

sur le logiciel Mapinfo. Chaque parcelle dessinée a été pourvue d’un code qui permettait 

dès lors de l’associer avec la ligne correspondante dans le tableur contenant 

les informations des registres. Dès lors la production de cartes thématiques était 

possible grâce à la mise en œuvre de requêtes. 

Fig. 1 - Degré de certitude dans la restitution du parcellaire.


Fig. 2 - Jardins et jardins maraîchers à Milan en 1758. 

3. Quelques premières pistes pour l’exploitation du SIG 

A partir des données des registres cadastraux : un tableau de Milan en 1751 

Le cadastre présente une vision des choses à un moment fixe, celui de sa réalisation. 

Le SIG, dans son état actuel, nous apporte donc des informations permettant de préciser 

les connaissances sur la ville de Milan au milieu du XVIII e siècle, dans plusieurs 

domaines. L’un des avantages du système est notamment de faciliter la variation des 

échelles d’observation qui permettent de dégager différents niveaux d’analyse. 

La physionomie urbaine : formes du parcellaire et occupation de l’espace 

Certains aspects concernant la structure urbaine et son évolution ont déjà été 

soulignés par les historiens, notamment sa double organisation, à la fois circulaire et 

radiale. Milan possède en effet une structure circulaire, autour d’un centre ancien, 

d’origine romaine, localisé à proximité de l’actuelle piazza di San Sepolcro. Le développement 

de la ville a ensuite été marqué par deux cercles principaux constitués par


l’enceinte médiévale associée à la ceinture des canaux, puis par la construction d’une 

nouvelle enceinte au milieu du XVI e siècle, les Bastioni. La ville obéit aussi à une 

organisation radiale correspondant aux principales artères partant du centre et conduisant 

aux portes de la ville (corso di porta Orientale, corso di porta Romana …). 

L’étude du parcellaire du XVIII e siècle, qui n’a pas connu les grands bouleversements 

des XIX e et XX e siècles, permet de retracer l’évolution historique de l’espace urbain 

et peut apporter des informations très précises sur certains éléments. Le tracé des anciennes 

enceintes, antiques puis médiévales, est très nettement lisible. Par ailleurs, les 

quartiers les plus anciens sont caractérisés par un parcellaire au maillage très serré, qui 

s’élargit au fur et à mesure que l’on s’éloigne du centre, sauf le long de ces grandes radiales 

conduisant aux portes, où le parcellaire reste étroit et contraste avec les grandes 

parcelles situées juste derrière. Ces grandes parcelles sont largement majoritaires dans 

les zones périphériques englobées lors de la construction des murs espagnols au XVI e 

siècle. La même opposition ressort des modes d’occupation du sol avec notamment 

la prédominance de jardins maraîchers (fig. 2) ou de grands monastères dans la zone 

périphérique et de boutiques dans la zone centrale et le long des grandes avenues. Ces 

premières remarques générales méritent bien sûr d’être approfondies, tandis que la 

précision des données obtenues peut faire l’objet d’approches morphologiques plus 

localisées, à l’échelle d’un ou de quelques îlots. Ces dernières viseraient à faire ressortir 

des unités de plan dans le parcellaire qui peuvent nous éclairer sur la réalisation 

de lotissements, sur la part du «spontané» et du «délibéré» dans le développement 

urbain 22 . Les hypothèses dégagées lors de ces analyses peuvent alors être vérifiées par 

la confrontation avec d’autres sources, écrites ou archéologiques. 

La répartition sociale de la propriété 

Des travaux concernant la structure sociale de la propriété à Milan à l’époque 

moderne existent déjà 23 . Cependant, la représentation cartographique est le moyen de 

préciser quelques éléments et d’en saisir de nouveaux. En effet les études reposant uniquement 

sur les données chiffrées des registres ne permettent pas de mesurer certains 

phénomènes. L’importance de la propriété religieuse dans la ville, par exemple, n’a pas 

toujours été considérée à sa juste mesure puisque les monastères et autres lieux religieux 

sont recensés mais ne sont pas estimés. Une simple approche en terme de valeur de la 

propriété les laisse donc de côté. Les cartes permettent, quant à elles, de contourner 

le problème et d’appréhender le phénomène en terme d’emprise au sol et de surface 

occupée. Trois grandes catégories de propriétaires peuvent être distinguées : l’Eglise, la 

noblesse et le «tiers-état» 24 , auxquelles il faudrait ajouter les institutions caritatives et 

organismes d’assistance (Scuole, Luoghi Pii, hôpitaux ...) qui possèdent une part non 

négligeable de la propriété (figg. 3-4). L’hôpital Majeur est ainsi le premier propriétaire 

à Milan, bénéficiant notamment de legs qui lui assurent une propriété dispersée 

dans toute la ville. Cette première approche mérite pourtant d’être approfondie afin

Fig. 3 - La propriété des institutions à Milan en 1758. 

Fig. 4 - La propriété des particuliers à Milan en 1758.


de mieux saisir les réalités sociales de la période, parfois complexes et difficiles à 

cerner. La propriété religieuse peut ainsi être appréhendée à partir de sous-catégories 

: propriétés de monastères, de paroisses, de chapitres canoniaux ou de bénéfices ecclésiastiques 

affectés à un individu. Le groupe des nobles peut-être divisé en fonction 

des titres (duc, marquis, comte, “don” 25 ) ou entre patriciens (c’est-à-dire les familles 

ayant accès aux charges politiques de la ville, et notamment au Conseil des 60 décurions) 

et non-patriciens. En ce qui concerne les particuliers n’appartenant pas à la noblesse 

titrée, le cadastre nous permet d’identifier les membres des principaux collèges 

(notaires, avocats, ingénieurs, physiciens …). Les activités des autres propriétaires ne 

sont malheureusement pas précisées mais pourraient peut-être l’être grâce à d’autres 

sources telles que les «états des âmes». 

Se pencher sur la répartition de la propriété à l’échelle d’une paroisse ou d’un îlot, 

permet un autre niveau de constatations. Ainsi, on peut remarquer certaines logiques 

dans les formes de localisation des biens d’un même propriétaire. Par exemple, autour 

de certains monastères, on observe de petites parcelles qui appartiennent à ce même 

monastère et sont mises en location. Il s’agit manifestement d’une forme de lotissement 

décidée par le monastère en question. La proximité géographique peut, quant 

à elle, établir un certain type de relations entre le propriétaire et les locataires. Il serait 

également intéressant de savoir pourquoi certaines de ces parcelles ont été vendues. Le 

même schéma se reproduit autour de certains palais de l’aristocratie milanaise (fig. 5). 

Ces remarques, dégagées de l’analyse des cartes, mériteraient à leur tour d’être approfondies 

par la consultation d’autres documents (actes notariés, etc.). 

Usage et structure juridique de la propriété 

Le cadastre mentionnant l’usage du bien (location ou habitation du propriétaire), 

il est possible de produire des cartes mettant en évidence la part des propriétés destinées 

à la résidence du propriétaire et celles mises en location. On constate ainsi que la 

grande majorité des biens sont à usage locatif, ce qui confirme la forte concentration 

de la propriété entre les mains de l’élite sociale. Les maisons destinées à la résidence 

du propriétaire concernent en fait essentiellement la noblesse et sont principalement 

situées dans une zone intermédiaire entre le centre et les canaux (fig. 6). La partie 

très centrale (piazza de’ Mercanti, piazza del Duomo, piazza di San Sepolcro et alentours) 

ne comprend quasiment que des biens en location. C’est la zone de la ville où 

les valeurs foncières sont les plus élevées, en lien avec son caractère commercial très 

marqué. Les biens en location de la partie périphérique sont, quant à eux, constitués 

essentiellement des jardins maraîchers. 

La mention des livelli dans le cadastre permet, en théorie, d’identifier les cas de 

dédoublement de la propriété entre un propriétaire éminent et un propriétaire direct. 

Dans les faits, il semble que, malgré l’obligation pour les ingénieurs chargés de la 

description des biens de signaler cette situation (sous la forme «X, livellario de Y»),

Fig. 5 - Répartition de la propriété : le cas d’un îlot (Porta Vercellina, paroisses S. Maria 

Porta et S. Pietro alla Vigna). 

Fig. 6 - Résidences des propriétaires et biens loués à Milan en 1758.


elle ait parfois été négligée. En effet, elle apparaît assez peu et surtout la consultation 

d’autres documents tels que les actes notariés révèle des cas non mentionnés. Malgré 

ces lacunes, on constate dans le cadastre un nombre assez important de propriétés 

en livello dans la zone de porta Nuova : il s’agit essentiellement de biens appartenant 

à l’Abbaye de San Dionigi. Il faut souligner que la situation des propriétés en livello 

apparaît assez ambiguë et ne semble pas toujours correspondre à un bail emphytéotique 

26 . Elle recouvre dans certains cas des pratiques juridiques anciennes et comporte 

une redevance minime dont la fonction semble essentiellement symbolique 

en 1751 ; dans d’autres cas (notamment pour les contrats récents), elle possède un 

contenu économique plus marqué avec une redevance plus importante. Les situations 

sont donc variées et seraient à préciser par l’intermédiaire d’autres documents, 

tels que les actes notariés. La consultation de ces derniers révèle, dans tous les cas, 

l’obligation pour le propriétaire utile d’améliorer le fonds. 

Enfin, les cas d’indivision, de propriétés communes ou partagées, peuvent aussi 

être l’objet d’études. Pour les familles nobles, par exemple, il est intéressant de voir qui 

est propriétaire du patrimoine familial et notamment du palais. Pour la majorité des 

familles, c’est évidemment au seul nom de l’aîné que figure l’ensemble des propriétés. 

C’est le résultat de l’établissement de primogénitures qui a été massif en Lombardie à 

partir du XVI e siècle 27 . La formulation sous la forme «X et frères» nous invite, quant à 

elle, à vérifier la répartition du patrimoine à l’intérieur de la famille. Dans quelle mesure 

des situations comparables aux fratries vénitiennes existent-elles à Milan ? Le palais 

Cusani est en tout cas partagé entre Girolamo, aîné de la branche I (pour la moitié), son 

frère Carlo Francesco (pour un quart) et leur cousin Agostino de la branche II (pour 

le quart restant). Une situation encore rare en 1751, se développe par la suite : celle de 

résidences différentes pour chaque frère. Ce sera notamment le cas des Serbelloni suite 

aux dissensions qui traversent la famille dans le dernier quart du XVIII e siècle. 

Les activités économiques 

C’est aussi dans le domaine des activités économiques que le cadastre nous fournit 

des informations. Les édifices industriels sont mentionnés mais leur faible nombre 

peut faire soupçonner un manque d’exhaustivité. Ce que recouvre exactement le 

terme n’est d’ailleurs pas toujours précisé et de nombreuses activités associant production 

et vente sont en fait recensées dans le cadre des «boutiques». En revanche, 

la présence de quais de débarquement (sostra), d’entrepôts (fondaco), ou de moulins 

paraît exhaustive et peut nous permettre de localiser certaines activités. C’est cependant 

au sujet des boutiques que les informations sont les plus intéressantes. Nous disposons 

du nombre de boutiques par parcelle et parfois de l’activité qui est pratiquée 

dans celles-ci : la mention de boucher revient à plusieurs reprises, celle de prestino di 

pane également. En revanche les autres activités ne sont mentionnées que de manière 

beaucoup plus ponctuelle (tailleur, teinturier …). La logique de localisation des bou-


tiques est très claire. Elles se trouvent quasi-exclusivement dans deux types espaces 

: la zone centrale (autour de la piazza de’ Mercanti, de la piazza del Duomo et vers 

le Broletto) et le long des principales artères de la ville qui conduisent aux portes, 

notamment le corso de porta Comasina et celui de porta Ticinese (figg. 7a-7b). Les 

boutiques du centre accueillent des commerces «nobles» du type orfèvrerie tandis 

que les activités plus polluantes (teinturerie, tannerie …) sont rejetées vers l’extérieur, 

notamment la partie périphérique du corso de porta Ticinese où elles bénéficient 

aussi de la présence des canaux qui fournissent l’eau nécessaire. 

Les informations que l’on peut tirer des registres cadastraux ne sont donc pas négligeables. 

Cependant, l’une de leurs limites est de présenter la situation à un moment fixe, ce 

qui ne permet pas la prise en compte des transformations et des évolutions de la ville. Le 

recours à d’autres sources peut alors constituer un moyen de remédier à cela. En effet, les 

cartes parcellaires du cadastre constituent un support qui peut aussi être couplé à d’autres 

bases de données. Plusieurs séries de documents ont été consultées dans ce but. Leur 

dépouillement se limite, pour la majeure partie, aux propriétés du patriciat. Une prise en 

compte totale dépasse en effet les possibilités d’un chercheur isolé. 

L’apport d’autres sources : pour une approche dynamique des phénomènes urbains 

Le marché immobilier à travers les trasporti d’estimo 28 

L’activation du cadastre, le 1 er janvier 1760, impliquait aussi la mise en oeuvre 

d’une administration qui tienne à jour les données des registres tandis que les nouveaux 

propriétaires étaient obligés de déclarer toute nouvelle acquisition de biens 

en fournissant un certificat notarial (lorsqu’il s’agissait de nouvelles acquisitions) ou 

paroissial (afin de certifier le décès, dans le cas de succession sans testament) 29 . Ces 

transferts de propriété nous ont laissé 2 types de documents : d’abord la «demande de 

mise à leur nom» de la part des nouveaux propriétaires à laquelle est jointe un résumé 

de l’acte notarié ou du moins ses références (nom du notaire et date de l’acte) 30 . Ces 

petizioni sont très utiles car elles nous donnent la nature du transfert (vente de la propriété 

totale, utile ou directe, contrat de livello, héritage, donation ...), mais le fonds 

ne semble malheureusement pas exhaustif. Un autre type de documentation peut, 

dans une certaine mesure, combler cette lacune. Il s’agit des livres d’enregistrement 

de ces transferts qui sont organisés un peu comme des livres de comptabilité : chaque 

propriétaire de la ville possède une page double avec la valeur totale de ses biens en 

1760 ; sur la page de gauche sont enregistrées les nouvelles acquisitions et sur celle de 

droite, les pertes 31 . Cette source a l’avantage d’être exhaustive et il semble que tous 

les transferts aient bien été déclarés même si les délais sont un peu longs au début. 

En revanche, elle nous apporte une information moins complète puisque manque la 

nature de la transaction. Si ces deux documents apparaissent parfois redondants, ils 

méritent pourtant une exploitation complémentaire pour les raisons exposées. 

Une base de données a été constituée avec l’ensemble des petizioni concernant

Fig. 7a - Les boutiques à Milan en 1758. 

Fig. 7b - Les boutiques à Milan en 1758 (détail : la zone centrale).


les années 1760-1774 32 . Elle permet donc d’étudier les mouvements de propriété à 

Milan durant ces 15 ans et l’activité du marché immobilier : qui sont les vendeurs et 

les acheteurs ? Quels sont les quartiers privilégiés pour les transactions ? Quels types 

de biens sont davantage concernés ? Quelles formes prennent ces transactions : s’agitil 

notamment de ventes ou d’investiture en livello ? Nous ne savons malheureusement 

pas l’utilisation future de ces biens, c’est-à-dire s’ils sont destinés ou non à être loués. 

C’est là l’une des limites de la source. En effet, les changements d’affectation d’un 

bien (une maison de location qui devient résidence ou inversement) ne sont pas 

signalés. De même, il n’y a pas de réévaluation des biens dans le cadre de maisons 

agrandies ou nouvellement construites. 

A partir des livres d’enregistrement, ont été repris tous les mouvements concernant 

les propriétés de familles patriciennes entre 1760 et 1802. Cet angle d’approche, 

à partir d’un groupe social, amène à faire jouer les échelles non seulement au niveau 

spatial mais aussi au niveau social : échelle du groupe, de familles ou d’individus. 

Il s’agit d’abord d’étudier la localisation de la propriété patricienne dans la ville : y 

a-t-il des quartiers privilégiés en 1751 et la seconde moitié du XVIII e siècle voit-elle 

la constitution de «beaux quartiers», notamment dans la zone de porta Orientale 

et porta Nuova ? Dans quelle mesure les familles patriciennes profitent-elles de ces 

larges espaces disponibles dans la deuxième ceinture de la ville pour édifier leurs 

nouveaux palais ? La structure familiale des propriétés connaît-elle des évolutions : 

tendance à constituer des blocs dans la ville ou au contraire tendance à la dispersion, 

regroupements entre les mains d’une même personne ou partages entre frères ? 

Les évolutions du bâti 

Les concessions d’espace public et les permis de construire 33 permettent d’appréhender 

les transformations concernant le bâti. L’obligation de requérir une autorisation 

pour des travaux est cependant limitée aux parties concernant aussi l’espace 

public (façade sur rue …), comme c’est généralement le cas pour d’autres villes italiennes 

(à Venise, par exemple). Ceci constitue donc l’une des limites de cette source. 

Elle permet néanmoins de mesurer un peu mieux l’activité édilitaire qui anime Milan 

durant la deuxième moitié du XVIII e siècle 34 . Si la majorité des requêtes concerne des 

travaux d’assez faible ampleur (réalisation de balcons, agrandissement de portes …), 

elles permettent néanmoins de voir quels sont les nouvelles exigences des propriétaires 

durant la période. Certaines demandes concernent également des entreprises de 

plus grande ampleur, telles le réaménagement ou la construction de nouveaux palais, 

qui réclament parfois des concessions d’espace public. Il semble aussi possible de 

dégager les zones de la ville concernées par les opérations d’alignement de façades. 

Ces dernières se font du reste plutôt au «coup par coup» en fonction des occasions. Il 

peut donc s’avérer intéressant de réaliser des cartes représentant le type de demande 

effectuée et la chronologie de celles-ci. Il semble, en effet, que certains quartiers


soient particulièrement affectés par cette activité de construction et de transformation, 

tel le corso de porta Orientale 35 . 

L’observation d’un phénomène particulier : la suppression des ordres religieux 

La politique religieuse de Marie-Thérèse et surtout de son fils Joseph II aboutit à un 

bouleversement important de la propriété urbaine, à la mesure de la part très importante 

qu’occupait l’Eglise dans ce domaine au milieu du siècle (cf. carte 3). L’expulsion 

des jésuites, la suppression d’ordres considérés comme «inutiles», la réorganisation des 

institutions caritatives entraîne la disparition de près de la moitié des ordres religieux 

à Milan entre les années 1760 et 1790. Les effets de cette politique ont déjà été l’objet 

d’études. Certaines s’attachent à examiner la réaffectation des espaces libérés dans la 

ville de Milan et utilisent pour cela une base cartographique 36 . C’est pourtant essentiellement 

la récupération des bâtiments et des terrains par le pouvoir et leur destination 

à des fins publiques qui ont été au centre des intérêts. Il serait donc utile de se pencher 

aussi sur la récupération par des particuliers des espaces ainsi libérés, en utilisant 

d’autres fonds d’archives dont les données seraient ajoutées au SIG 37 . En effet, la réaffectation 

de ces biens dépend aussi de leur nature : si les importantes surfaces libérées 

par les monastères se prêtent à de grandes réalisations, il y a aussi tout un marché 

concernant les maisons de location qui sont vendues aux enchères ou attribuées en livello 

par le Fondo di Religione chargé de la gestion des biens des ex-congrégations. Des 

cartes démontrant la part des propriétés récupérées pour un usage public et la part 

des propriétés rachetées par des personnes privées permettrait sûrement de mieux 

mesurer l’ampleur et les différents effets du phénomène : nobles qui profitent de ce 

mouvement pour agrandir leurs palais, entrepreneurs qui installent des manufactures 

en récupérant de grandes surfaces ou simples particuliers qui se procurent une petite 

maison pour leur résidence ou comme investissement locatif. 

Le cadastre de Lombardie du XVIII e siècle s’avère donc, malgré quelques limites, 

une source particulièrement riche pour l’étude des espaces urbains. Sa fiabilité et 

l’existence de cartes parcellaires nous garantissent un tableau exhaustif de la propriété 

à Milan, ce qu’aucune source antérieure ne pouvait offrir. La réalisation d’un système 

d’information géographique constitue un travail de longue haleine. Les premiers résultats 

et les perspectives d’exploitation montrent en tout cas la diversité des usages 

que l’on peut en faire, en le couplant également à d’autres sources. Il constitue, par 

ailleurs, un point de référence qui peut être utilisé dans le cadre de comparaisons avec 

les évolutions ultérieures (par exemple, avec la situation présentée par les nouveaux 

cadastres du XIX e siècle). Il représente également, à des fins plus modestes mais non 

moins utiles, un futur outil de recherche qui pourrait fournir des informations ponctuelles 

pour les usagers des Archives de Milan s’intéressant au XVIII e siècle. 

Albane Cogné


* Ce texte présente un travail réalisé dans le cadre d’une thèse, encore en cours, portant sur la 

propriété du patriciat à Milan au XVIIIe siècle. Je remercie l’École française de Rome, et en particulier 

Brigitte Marin, pour l’organisation d’écoles doctorales qui m’ont offert une première approche 

de la cartographie informatique. Je remercie également très vivement Jean-Luc Arnaud qui m’a aidée 

pour la réalisation du SIG. 

1 Les cadastres ont pendant longtemps été l’objet d’une approche essentiellement juridique et 

financière. Ils ont ensuite suscité un grand intérêt de la part de l’histoire rurale qui y trouvait des 

informations concernant les types de cultures, la répartition de la propriété dans les campagnes, etc. 

Cet usage transparaît bien dans l’ouvrage de R. ZANGHERI, Catasti e Storia della proprietà terriera, 

Torino, Einaudi, 1980. 

2 Sur ce sujet, un premier état de la recherche ainsi qu’une confrontation franco-italienne furent 

réalisés en 1985 lors d’une table ronde : Les cadastres anciens des villes et leur traitement par l’informatique. 

Actes de la table ronde organisée par le Centre d’histoire urbaine de l’École normale supérieure 

de Saint-Cloud avec la collaboration de l’École française de Rome et du Centre national de la recherche 

scientifique (Saint-Cloud, 31 janvier-2 février 1985), édités par J.L. Biget-J.C. Hervé-Y. Thebert, 

Rome, EFR, 1989. L’une des premières grandes réalisations associant exploitation quantitative et 

cartographie fut le travail sur le cadastre de Carpi. Cf. F. BOCCHI-F. LUGLI, Informatica e storia urbana. 

Il catasto di Carpi del 1472 analizzato con il computer, «Storia della città», 1985, 30. 

3 Cf. R. FOGLIETTI, Il catasto di Macerata nell’anno 1268, «Opusculi di storia del diritto», Macerata, 

1886, pp. 229-270; E. CARPENTIER, Orvieto à la fin du XIIIe siècle. Villes et Campagnes dans le Cadastre 

de 1292, Paris, éd. CNRS, 1986. Le terme générique de «cadastre» désigne cependant des documents 

parfois très différents, pour lesquels les possibilités d’exploitation sont très variables. Bien souvent, 

ces cadastres anciens sont uniquement descriptifs, ne possédant pas de cartes parcellaires. Le terme 

plus approprié serait donc celui «d’estime». Le Catasto florentin de 1427 illustre bien cette diversité 

dans la mesure où il tient autant du recensement de la population que de l’état des propriétés. Il a 

du reste été utilisé dans une perspective d’histoire démographique et d’histoire de la famille. Cf. D. 

HERLIHY-C. KLAPISCH-ZUBER, Les Toscans et leurs familles. Une étude du Catasto florentin de 1427, 

Paris, EHESS, 1978. Quant au cadastre de Carpi (1472), il se caractérise par des mesures très détaillées 

puisque l’impôt se fondait sur les dimensions des façades des maisons. Cette précision a permis 

de restituer la localisation des biens sur des cartes. Cf. F. BOCCHI-F. LUGLI, Méthode informatique 

utilisée pour l’analyse et la reconstruction graphique du plan cadastral de Carpi (1472), in Les cadastres 

anciens des villes, cit., pp. 229-254. 

4 Des études quantitatives et informatisées ont été réalisées pour les campagnes : Cf. S. ZANINELLI, 

Agricoltura e regime fondiario: la distribuzione della terra per gruppi sociali nella Lombardia austriaca 

nel terzo decennio del Settecento, in Cultura, religione e politica nell’età di Angelo Maria Querini, éd. G. 

Benzoni-M. Pegrari, Brescia, Morcelliana, 1982, pp. 247-267. 

5 Parmi ces premières exploitations systématiques et quantitatives : M. ROMANI, Note sul patrimonio 

edilizio milanese intorno alla metà del Settecento, in Studi in onore di A. Sapori, Milano, 1957, 

vol. II, pp. 1301-1319 (M. Romani annonçait une suite à cette première présentation mais dont la 

trace n’a pas été retrouvée) ; V. MAZZUCCHELLI, Catasto e volto urbano : Milano alla metà del Settecento, 

Roma, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, 1983. L’ouvrage consiste notamment 

en la publication de tableaux présentant la situation de chaque paroisse : les valeurs et unités de 

propriété sont totalisées en fonction des types de biens (maison habitée par le propriétaire, maison en 

location, maison en location avec boutiques …) et du statut social du propriétaire. 

6 Cf. R. ZANGHERI, I Catasti, in Storia d’Italia, vol. V, I Documenti, pp. 761-804, Torino, Einaudi, 

1976. 

7 C’est là le résultat d’un privilège qui lui permet d’échapper à l’imposition et qui caractérise aussi 

d’autres villes italiennes. Turin doit attendre le début du XIXe siècle (1805-1807) pour disposer d’un 

cadastre, qui fut mis en oeuvre par l’administration napoléonienne. Cependant, dans ce cadastre, le 

territoire urbain est traité de manière identique au territoire rural : les propriétaires ne doivent pas 

déclarer les revenus de leur maison mais seulement la superficie occupée par celle-ci. La valeur du 

bien est alors obtenue à partir de cette superficie en fonction du type de terrain (ces derniers étant


classés en 5 catégories et 4 classes). Cf. R. CURTO, Concezioni di valore e significati della proprietà 

nella formazione dei primi catasti urbani piemontesi, in Forma e Struttura di catasti antichi, a cura di S. 

Mattia-R. Bianchi, Milano, Città Studi Edizioni, 1994, pp. 178-199. Nous verrons que la réalisation 

du cadastre urbain de Lombardie est bien différente. 

8 Il reste assez peu de traces de ce cadastre dans les archives milanaises. R. Pignotti affirme qu’il 

comprenait une table graphique et un registre foncier des constructions. Il mentionne l’existence 

d’une carte cadastrale de la ville de Milan, datant de 1580 (donc bien postérieure à la mise en œuvre 

de ce cadastre, décrétée en 1543), dont l’original serait conservé à l’Académie S. Luc de Rome. Sur 

cette carte, ne figure pourtant pas la numérotation du parcellaire : peut-on donc véritablement parler 

de carte cadastrale ? Cf. R. PIGNOTTI, I catasti milanesi e l’evoluzione cartografica censuaria dal 1543 

ad oggi, Milano, Mazzanti, 1985, p. 19. 

9 Sur les aspects politiques de la réalisation du cadastre : Cf. C. CAPRA, La Lombardia austriaca 

nell’età delle riforme (1706-1796), Torino, UTET, 1987, pp. 63-79 et pp. 160-178. Pour la première 

phase des opérations, voir en particulier : S. ZANINELLI, Il nuovo censo dello Stato di Milano dall’editto 

del 1718 al 1733, Milano, 1963. Pour le travail réalisé par la Giunta Neri : Cf. G. MAZZUCCHELLI, La 

riforma censuaria nella Lombardia del Settecento. Note sui documenti conservati nell’Archivio di Stato di 

Milano, «Rassegna degli archivi di Stato», 1973, 2-3, pp. 359-394. 

10 Seule l’estimation des terrains non construits dans les villes (jardins et jardins maraîchers) 

semble menée à terme lors de la première phase. La carte de Filippini conservée à l’Archivio di Stato 

di Milano (dorénavant ASMI) témoigne de ce travail. Elle représente les jardins maraîchers, avec une 

liste des 304 parcelles numérotées où figure le nom du propriétaire, la qualité du bien (orto, ortaglia, 

giardino), l’éventuelle présence de mûriers et la quantité de terrain (exprimée en perches milanaises). 

Cf. G. FILIPPINI, «Iconografia della città e castello di Milano in cui si attrovano dellineate con giusta 

misura tutte le strade, piazze, chiese, oratori, monasteri e colleggi, abbazie, commende, croci e luoghi 

pii più insegni, con le giardini ed orti. Per ordine dell’Ecc. Cesarea e Real Giunta del Nuovo Censimento 

Generale di tutto lo Stato di Milano», 1722. 

11 «14. […] Non si è creduto di dover duplicare dentro il recinto delle città i Catastri e formarne 

uno di Prima e l’altro di Seconda Stazione, come è stato per la campagna ma di comprendere tutti i 

fondi dentro le città nell’unico Catastro di Seconda Stazione, adattandosi a ciò che richiede il caso 

frequentissimo della connessione, che quasi tutti gli orti hanno con qualche casa», dans «Instruzione 

delle Real Giunta del Censimento data alli periti da essa deputati alla descrizione reale delle case ed 

altri edifici, che diconsi di seconda stazione dentro al recinto della città di Milano, Pavia, Cremona, 

Lodi e Como, approvata per decreto di essa Real Giunta del 14 maggio 1751», Raccolta degli editti, 

ordini, istruzioni, riforme e lettere circolari istruttive della R. Giunta del Censimento Generale dello Stato 

di Milano, riunita con cesareo r.le dispaccio de’ 19 luglio 1749, e sciolta il 2 marzo 1758 (ASMI). 

12 «Instruzione delle Real Giunta del Censimento data alli periti da essa deputati alla descrizione 

reale delle case ed altri edifici, che diconsi di seconda stazione dentro al recinto delle città», cit. 

13 En témoigne une réflexion sur le sujet (aux propos parfois contradictoires) adressée à la Giunta : 

«Tolta che fusse alle riferite case la sua naturale libertà di non soggiacere a tributo, […] si spegnerebbe 

la voglia di acquistare case per propria abitazione ed altri pure moltissimi che senza occupazione o 

impiego alcuno dimorano in città per comodo che hanno di abitare in casa propria, penseranno 

ad abitare in villa per sostrarsi in tal guisa dal carico e mettere inoltre la sua casa a guadagno con 

affittarla. Con ciò verra a mancare l’affluenza del popolo, si diminuirà sempre più il già decaduto 

commercio, sarà minore il prodotto delle Regalie, non più finiranno le arti; non più si penserà a lauti 

edifici, non più all’ornato delle fabbriche, promosso per fine dalle nostre provvinciali costituzioni, 

prezzo de’ generi abbassato, case decadute negli affitti, ed […] oltre altre pessime conseguenze, che 

sogliono nascere dall’alterare quelle regole» (en date du 12 juillet 1751, signature effacée, ASMI, 

Fondo Censo p.a., cart. 25). 

14 Dans ce domaine, les ingénieurs du cadastre possèdent désormais les moyens d’affronter les 

oppositions de ceux qui tentent de contrer les opérations. En effet, la lettre du Comte Luigi Arrigoni 

à la Giunta del Catasto, lorsqu’il est informé du passage des ingénieurs pour l’estimation de sa maison 

située dans la paroisse de San Babila, témoigne bien du fait que ces oppositions n’ont pas disparu:


«Essendo poc’anzi stato dato avviso all’agente mio generale Giuseppe Oltrabelli dal anziano di questa 

parrocchia come questa matina medesima debba portarsi certo ingegnere degato a fare visita o sia 

descrizione, o sia stima di questa casa propria di mia abitazione […] e ciò in seguito della Generale 

descrizione che dicessi essere già da qualche giorno cominciata a farsi di tutte le case giardini ed ortaglie 

non sapendosi precisamente per qual motivo a fine se non per quanto comunemente vien detto 

ad effetto di meglio e più proportionatamente adequere li carici delle tasse che pagano annualmente 

detti fondi a questa Ecc. Città. Quindi è che considerando io quando detta Generale Descrizione, 

stima o come in fatti fosse veramente diretta a tale fine come e fama avrebbe questa ad essere omninamente 

superflua ed inutile riguardo alle accenate case e beni di ragione mia e del prefatto Sig 

Conte mio zio che non pagano ne in tempo alcuno hanno mai pagato carico di tasse, o d’altre sorte 

stante li antichissimi privilegi di mia famiglia, e l’antico pacifico possesso della Generale mia onerosa 

immunità ed espressamente intendendo che per questo fatto ne per altro qualonque mai non possa 

pregiudicarsi e non sia per essere pregiudicata in alcuna maniera a dette mie prerogative privilegi e 

ragioni [...]. Protesto che in modo alcuno non intendo di acondescendere aderire e consentire a tale 

descrizione e visita, o come in fatti di dette case e beni ogni qual volta possa perciò provvenire qualche 

pregiudizio a nostri privilegi e comuni ragioni come sopra intendendo e dichiarando come intendo 

e dichiaro che restini e sino in ogni caso e non ostante qualunque fatto salvi». (ASMI, Fondo Censo 

p.a., cart. 1521). 

15 Le personnel chargé de ces opérations de description et d’estimation des biens est désigné 

dans les Instructions sous le terme de periti. Il s’agit en fait d’ingénieurs relevant du Collège des 

Ingénieurs et Architectes de Milan. Chacun des 6 quartiers de Milan est sous la responsabilité de l’un 

de ces hommes : Gaetano Portigliotti, Cesare Quarantino, Giuseppe Ricchino, Francesco Carcano, 

Giuseppe Gallarati, Angelo Antonio Pallavicino (ASMI, Fondo Censo p.a., cart. 25). 

16 La réalisation des cartes rurales ou des cartes du territoire paraît avoir été davantage étudiée. 

Cf. notamment : L’immagine interessata : territorio e cartografia in Lombardia tra ’500 e ’800, Como, 

Archivio di Stato di Milano, 1988. 

17 «La pianta di Dal Re non è che una elaborazione in scala non poco ristretta del primo disegno 

catastale di Milano eseguito nel 1722 a scala di uno a due mila da Giovanni Filippini, proto ai fiumi 

della Serenissima che la prima Giunta del Catasto aveva incaricato della traduzione del rilievo catastale 

in piani topografici», L. GAMBI-M.C. GOZZOLI, Milano, Roma-Bari, Laterza, 1982, p. 112. 

18 Ces documents sont conservés à l’Archivio di Stato di Milano, Fondo Catasto, Registri catastali, 

Milano città (cart. 2619, 2623, 2627, 2631, 2636, 2640) ; Fondo Catasto, Mappe Catastali, Milano città 

(cart. 3558, 3559, 3560, 3561, 3562, 3563). Ils sont microfilmés. Les cartes sont en fait des copies 

réalisées au XIX e siècle, les cartes originales ayant été abîmées par les manipulations administratives. 

19 Pour le propriétaire sont mentionnés : son nom, son prénom, son ascendance puis dans certains 

cas son titre (titre nobiliaire ou religieux, titre d’ingénieur, d’avocat, de capitaine, ou de docteur 

pour les membres des principaux collèges). Pour le bien, nous connaissons son usage et ses caractéristiques 

(maison de location ou habitée par le propriétaire, présence d’une hôtellerie, de boutiques, de 

jardins d’agrément ou de jardins potagers, éventuellement de quais de débarquement sur les canaux 

...). Sont mentionnés aussi les cas de propriétés partagées ou soumises à un livello. 

20 L’identification a été réalisée grâce à «l’Elenco delle attuali nobili famiglie patrizie milanesi 

rassegnato dall’Ecc città di Milano all’Ecc Tribunale araldico in esecuzione dell’editto di governo 

del giorno 20 novembre 1769» (ASMI, Fondo Araldica p.a., cart. 136). Cet annuaire a ensuite été 

mis à jour pour l’année 1751, grâce à une liste des familles patriciennes éteintes entre 1751 et 1769 

figurant dans D.E. ZANETTI, La demografia del patriziato milanese nei secoli XVII-XVIII-XIX, Pavia, 

1972, pp. A 255-A 261. 

21 L’assemblage a été réalisé avec Photoshop. Les décalages résultant de cette action sont faibles : 

une largeur de rue au maximum au niveau des raccords. 

22 Pour davantage de précision sur l’analyse morphologique du parcellaire, je renvoie aux travaux 

de Bernard Gauthiez sur Rouen et sur Lyon et à son article présentant la démarche méthodologique. 

Cf. B. GAUTHIEZ, Approche morphologique des plans de villes, archéologie et sources écrites, «Revue archéologique 

de Picardie», 1999, n° spécial 16, pp. 17-25.


23 Certains ont été réalisés à partir du cadastre : Cf. V. MAZZUCCHELLI, Catasto e volto urbano, 

cit. ; d’autres ont été réalisés à partir des «états des âmes» rédigés par les curés des paroisses : Cf. E. 

ARMELLONI, Casa, famiglia e professione nella Milano di fine ’700: la parocchia di S. Stefano Maggiore secondo 

lo “Status animarum” del 1797, «Archivio storico lombardo», 1987, pp. 163-188 ; S. D’AMICO, 

Le contrade e la città : sistema produttivo e spazio urbano a Milano fra Cinque e Seicento, Milano, F. 

Angeli, 1994. 

24 Le terme de «bourgeois» semble d’un usage un peu délicat pour caractériser ces propriétaires 

particuliers qui n’appartiennent pas à la noblesse. Il est, de plus, assez difficile de savoir ce qu’ils 

recouvrent précisément dans la mesure où nous ne possédons pas d’indications sur leur identité professionnelle 

(à l’exception des membres des collèges). Il peut donc s’agir de professions libérales, de 

gros négociants, de petits boutiquiers, d’artisans, etc. 

25 Le terme de “don” s’applique aussi à des ecclésiastiques mais, dans ce cas, il est complété par la 

mention de prêtre, révérend, chanoine, etc. Il a donc été, a priori, facile d’identifier ceux pour qui il 

s’agissait d’un premier échelon dans le statut nobiliaire. 

26 Sur le problème de la division de la propriété, Cf. Le Sol et l’immeuble : les formes dissociées de la 

propriété immobilière dans les villes de France et d’Italie XII e -XIX e siècle. Actes de la table ronde organisée 

à Lyon en 1993, éd. par O. Faron-E. Hubert, Rome, EFR, 1995. Voir également ce que disait G. 

MAZZUCCHELLI à propos des livelli dans La riforma censuaria, cit., pp. 377-378. 

27 A. PADOA SCHIOPPA, Sul fedecommesso nella Lombardia teresiana in Economia, Istituzioni, Cultura 

in Lombardia nell’età di Maria Teresa, Bologna, Il Mulino, 1982, t. 3, pp. 807-826 ; M.C. ZORZOLI, 

Della famiglia e del suo patrimonio : riflessioni sull’uso del fedecommesso in Lombardia tra Cinque e 

Seicento, «Archivio storico lombardo», 1989, pp. 91-148. 

28 L’intérêt des trasporti d’estimo a déjà été souligné : Olivier Faron avait mené une étude sur le 

quartier de porta Nuova au début du XIX e siècle. Cf. O. FARON, Intérêt et limites de l’exploitation par 

l’informatique du cadastre de Milan pour la première moitié du XIX e siècle, dans Les cadastres anciens des 

villes, cit., pp. 465-488. 

29 Cette obligation de signaler les transferts de propriété est notifiée par un décret, en date du 

30 septembre 1752. Le nouveau propriétaire doit déclarer son acquisition dans un délai de 4 mois 

sous peine d’une amende de 1 lire pour 4 scudi d’estimo non déclaré et d’un doublement de l’impôt 

à recouvrir. Le montant de l’amende reviendra pour moitié au fisc et pour moitié au dénonciateur. 

(ASMI, Fondo Censo p.a., cart. 24). 

30 ASMI, Fondo Catasto, cart. 1979 à 1996 : il s’agit des petizioni concernant la période 1758- 

1784. Elles sont classées de manière géographique (par portes et paroisses) alors que les suivantes, 

concernant les années 1784-1802 sont classées par ordre alphabétique des propriétaires (ASMI, 

Fondo Catasto, cart. 3123-3248). La mention des références de l’acte notarié permet de le retrouver 

facilement si l’on souhaite des informations sur le bien (description plus ou moins sommaire de 

celui-ci, selon qu’elle émane du notaire ou d’un ingénieur), informations sur les conditions de vente 

(prix, etc.). 

31 ASMI, Fondo Catasto, Libri dei Trasporti d’estimo, cart. 3193 à 3197 (pour la période 1758-1802). 

32 Elle comporte les informations suivantes : références cadastrales du bien, nom de l’ancien propriétaire, 

du nouveau, nature de la transaction (vente, héritage, etc.), nom du notaire, date de l’acte, 

date de l’enregistrement par le cadastre. Un codage a ensuite été réalisé en fonction de l’appartenance 

sociale de l’ancien et du nouveau propriétaire. 

33 Elles se trouvent dans le fonds Località Milanesi (Archivio storico-civico di Milano). Celui-ci, 

classé par ordre alphabétique des lieux, regroupe dans ses 461 cartelle des documents émanant des 

différentes magistratures de la ville, en particulier du Tribunal et des Douze de Provision, ainsi que 

du Giudizio delle Strade. 

34 L’importance du secteur du bâtiment dans l’économie milanaise du XVIII e siècle a été soulignée 

par Luca Mocarelli. Cf. L. MOCARELLI, Una realtà produttiva urbana nel secolo dei lumi. Milano 

città atelier, Brescia, Cooperativa Libraria Universitaria Bresciana, 2001, pp. 117-138. 

35 Les dernières décennies du XVIII e siècle à Milan sont en effet connues pour être celles de grandes 

transformations urbaines, liées en partie à l’installation de l’Archiduc Ferdinand et à la volonté


du pouvoir habsbourgeois de faire de la ville une véritable capitale. L’action des pouvoirs publics a 

été l’objet de plusieurs études. Cf. G. BERTRAND, L’impossible invention d’une capitale : Milan à la 

fin du XVIII e siècle, dans Lieux de Pouvoir, Europe XV e -XX e siècles, Lisbonne, Fondation Gulbenkian, 

1998, pp. 287-310; A. SCOTTI TOSINI, Lo Stato e la città : architettura, istituzioni e funzionari nella 

Lombardia illuminista, Milano, F. Angeli, 1984 ; A.M. BRIZIO, Il rinnovamento urbanistico di Milano 

nella seconda metà del Settecento, in Nuove idee e nuova arte nel Settecento italiano. Atti del convegno 

internazionale, Roma 19-23 mai 1975, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1977, pp. 361-409. 

Le rôle des particuliers dans les transformations urbaines reste cependant en large partie à éclairer. 

36 Cf. L. PATETTA, Il ruolo del demanio e del patrimonio pubblico nella costruzione della città. Il 

caso di Milano in Demanio e patrimonio pubblico nella gestione della città, atti del convegno (Milano, 

11-12 aprile 1980), éd. A. Acuto, Milano, Comune di Milano-Ripartizione Demanio e patrimonio,1980, 

pp. 19-27. 

37 Le Fondo Camerali p.a. (ASMI), contient notamment des documents sur la vente aux enchères 

des biens des ex-congrégations religieuses.


ICONOGRAFIA DEI CENTRI DELLA VERSILIA STORICA 

NEGLI STRADARI LEOPOLDINI 

L’architettura delle strade nel periodo leopoldino 

«Nel 1765, l’imperatrice Maria Teresa decise di mandare a Firenze il figlio cadetto 

Pietro Leopoldo, ancora diciannovenne, affinché studiasse da imperatore facendosi esperienza 

nel granducato» 1 . Pietro Leopoldo aveva preso molto a cuore il compito di governare 

la Toscana. Ma lo stato che gli era stato consegnato era per buona parte distrutto. 

Nella seconda metà del Settecento mancava nel granducato di Toscana una cartografia 

eseguita con precise metodologie di rilevamento e con criteri rappresentativi 

esatti. Il più delle volte si ricorreva a carte ricavate utilizzando come punti di riferimento 

i disegni eseguiti nel XVI secolo da autori quali Girolamo Bellarmati o il 

frate Stefano Bonsignori 2 . La carenza di una cartografia attendibile si avvertì soprattutto 

negli anni del regime di Pietro Leopoldo, quando, per realizzare i progetti di 

bonifiche e le riforme del territorio, era indispensabile ricorrere a rappresentazioni 

più precise. «Il funzionario Gaetano Canini avendo ricevuto il compito di riformare 

l’amministrazione delle circoscrizioni giudiziarie, nel 1758 osservava che non esisteva 

una carta esatta di tutto il granducato e che, essendo questa necessaria per attuare i 

piani di Pietro Leopoldo, il granduca stesso ordinava ai suoi cartografi di disegnare 

diverse carte particolari per ogni vicariato, e una carta generale di tutto il territorio 

toscano» 3 . «Gaetano Canini lavorava a fianco dell’ingegnere Ferdinando Morozzi, 

matematico e cartografo che godeva di grande stima presso il granduca. Proprio al 

Morozzi venne affidato il compito di disegnare una “Carta Generale dello Stato del 

Granduca in Toscana” in cui risultassero anche le nuove divisioni amministrative, da 

progettare in collaborazione col Canini» 4 . 

Pietro Leopoldo prese a visitare in lungo e in largo tutta la Toscana, spingendosi a dorso 

di mulo fino alle parti più inospitali, e di volta in volta stendeva minuziosi e impietosi 

appunti di viaggio. Da qui la convinzione che la causa del mancato sviluppo di alcuni 

centri fosse proprio la diretta conseguenza dell’isolamento e dell’inefficienza delle vie di 

comunicazione: «è fuori mano è quasi affatto abbandonata e di lì proviene sua miseria» 5 . 

Il granduca di Toscana si circondò di ingegneri esperti e di tecnici stradali, attenti studiosi 

delle realtà geografiche ed economiche, profondamente sensibili allo spirito scientifico

480 

DENISE ULIVIERI 

proprio della cultura illuministica europea. «La strada divenne uno strumento assai importante 

e talora decisivo per promuovere un processo di unificazione statale» 6 . 

Durante il periodo di governo dei granduchi Lorenesi il territorio della comunità 

di Seravezza, sotto la diretta giurisdizione del Capitanato di Pietrasanta, era attraversato 

da diverse strade che non garantivano una rete viaria capillare e sicura. Già il 

granduca Pietro Leopoldo, visitando nel 1768 le terre di questa comunità, descriveva 

la viabilità, sul versante montano, notando che «è tutta tagliata nel pendio della 

montagna e molto difficile a praticarsi essendo il fondo tutta lastre di pietra che la 

rendono anche molto difficile per le bestie da soma» 7 . 

«Con la legge del 17 giugno 1776 venne disciolta la vecchia Amministrazione 

del Comune di Seravezza […] e riunito il Comune a quello della Cappella; cosicché 

Seravezza, Ripa e Corvaia, già formanti il Comune con il popolo di San Lorenzo, e 

Santa Barbara, e con porzione di quello della Pieve di Vallecchia, ebbero a sè aggregato 

tutto il popolo della Pieve della Cappella» 8 . La valenza che assunse il reticolo 

stradale nelle comunità di Seravezza e Pietrasanta, soprattutto intorno alla fine del 

Settecento, è direttamente correlata con la riforma pietroleopoldina, che dal 1769 

soppresse la miriade di magistrature che si occupavano di viabilità, e istituì un organo 

unico, la «Camera delle comunità»; inoltre, col Regolamento generale fu stabilito 

l’obbligo da parte di queste unità territoriali di base di mantenere le strade. Le vie 

furono così ripartite secondo l’organismo di gestione che ne avrebbe curato la manutenzione. 

La classificazione delle strade prevedeva tre diverse categorie: strade regie 

da ristrutturare a spese dello stato, strade comunitative gestite dalla comunità, strade 

vicinali e strade provinciali mantenute in parte dalla comunità ed in parte da privati. 

Nel 1774 Pietro Leopoldo emanava i regolamenti relativi al funzionamento del 

sistema amministrativo del contado fiorentino e nel 1776 il «Regolamento Generale 

del Dipartimento Pisano» 9 ossia quello della Toscana occidentale. «Per conoscere 

l’estensione delle strade comunitative, alle quali dovranno pienamente provvedere 

le suddette rispettive nuove Comunità […] potrebbero essere» utili «le descrizioni, e 

piante dell’estimo, o altre straordinariamente accadute, e conosciute confinazioni»; 

il sistema viario doveva essere descritto in un «Campione di tutte le strade comunitative 

esistenti» e «il nuovo plantario avrebbe dovuto essere usato come strumento di 

base per tutte le evenienze della politica territoriale» 10 . 

Tutte le comunità granducali dovettero adempiere all’obbligo legislativo ma è 

certo che la grande maggioranza degli enti preferì optare per il censimento scritto 

delle pubbliche strade. La formazione dei campioni solitamente si affidava ad operatori 

territoriali che ricoprivano l’ufficio di «provveditore delle strade e fabbriche». 

Questo incarico fu istituito con la riforma pietroleopoldina e aveva una durata di tre 

anni, potevano presentarsi concorrenti «di qualunque classe e condizione» 11 , solitamente 

però venivano eletti gli agrimensori che godevano di una certa notorietà ed 

esperienza. Gli articoli 120, 122, 124 e 125 del «Regolamento Generale Pisano» del

ICONOGRAFIA DEI CENTRI DELLA VERSILIA STORICA 481 

17 giugno 1776 e il «Regolamento di elezione della comunità» 12 , chiariscono meglio 

le competenze e il modus operandi del provveditore di strade, che doveva avere, per 

forza di cose, una profonda conoscenza del territorio e una riconosciuta formazione 

professionale. 

L’agrimensore-cartografo 

In origine il cartografo si faceva le ossa «a’ bottega» dove memorizzava i metodi 

del mestiere dai Maestri delle Arti. Nelle botteghe si imparava a disegnare, misurare, 

rilevare ma anche a lavorare come pittore, miniaturista, scultore, intarsiatore, incisore 

e si acquisivano le cognizioni geografico-descrittive. 

Fino al XVI secolo la storia della cartografia si mescolava con la storia della pittura, 

la realtà veniva riprodotta e ridotta attraverso moduli paesaggistico-vedutistici, 

spesso infatti era impossibile distinguere l’attività di pittore da quella di cartografo. 

Intorno alla metà del XVIII secolo la cartografia acquistò maggiore autorità: erano 

infatti i sovrani stessi che si preoccupavano di istituire delle strutture in grado di garantire 

una adeguata formazione dei novelli tecnici. Il potere lorenese convalidò definitivamente 

il prestigio di questa disciplina e l’ufficialità della figura del cartografo. Si 

sentì presto l’esigenza di regolamentare l’esercizio della professione di agrimensore-cartografo 

proprio perché «ogni persona a suo volere assumeva l’esercizio di agrimensore 

senza pratica, o scienza alcuna e da siffatti agrimensori si commettevano stranezze senza 

numero in occasione di stime e di testificati, venendone gravissimi danni ai cittadini il 

cui stato era talvolta in loro mano» 13 . Basti pensare che anche durante la stesura degli 

estimi avvenivano diverse manipolazioni che consistevano per lo più in alterazioni di 

possesso, di misurazioni, di stime e omissioni nelle registrazioni. In un documento del 

5 agosto 1797 si faceva luce sulla urgenza di compilare un nuovo estimo di Seravezza 

e di Pietrasanta, perché erano state commesse diverse inesattezze e si lamentava il fatto 

che gli estimatori mancassero della necessaria precisione; inoltre, si sottolineava che a 

causa della «negligenza dei possessori molte sono le partite delle quali non si rinvenivano 

i nuovi possessori» 14 e che negli estimi si trovavano poste doppie 15 . 

Il 27 agosto 1651 il Consiglio generale aveva istituito la «Matricola degli 

Agrimensori» un organo di controllo sull’attività dei tecnici e di tutela del cittadino 

dalle numerose frodi compiute dagli agrimensori. La «Matricola» era sotto la 

direzione dell’«Offizio sopra le Fortificazioni» ed era regolata da ufficiali eletti ogni 

anno fra gli agrimensori stessi. Vi si entrava dopo aver superato un esame scientifico, 

e presentando l’attestazione di un certificato di frequenza sotto la guida di un agrimensore 

approvato; bisognava inoltre corrispondere il pagamento di tre scudi. Gli 

allievi dovevano essere sudditi dello Stato ed avere compiuto il ventunesimo anno 

di età 16 . L’apprendistato degli agrimensori consisteva in una preparazione teorica «a 

tavolino», sulla manualistica scientifica, e in una preparazione empirica «in campagna», 

per imparare a conoscere ed usare gli strumenti. Gli allievi dovevano svolgere

482 


l’apprendistato presso un agrimensore già accettato dalla «Matricola». Quando si 

trattava di figli di agrimensori l’addestramento era affidato ai padri. Alla «Matricola» 

spettava il controllo generale della calibratura di tutte le bussole e la conservazione 

di un campione della misura della Pertica o della Canna. Tale organo doveva inoltre 

controllare tutte le operazioni di agrimensura e la relativa cartografazione affinché in 

tutti i disegni fosse sempre indicata la misura della scala «con la quale è formato il 

disegno» 17 . L’agrimensore prima di effettuare qualsiasi stima o giudizio era obbligato 

a considerare e misurare di persona il bene in oggetto per «cogliere appieno le caratteristiche 

d’insieme e quelle particolari del territorio» 18 , per evitare di incorrere nella 

privazione, per dieci anni, del proprio offizio. 

I «Capitoli da osservarsi dagli Agrimensori e loro Matricola» vennero modificati nel 

corso del tempo, 1680, 1723, 1725 19 e 1744. Queste variazioni furono la diretta conseguenza 

delle spropositate mercedi degli agrimensori «per ciascheduna benché tenue loro 

operazione» 20 ; gli agrimensori da parte loro si lagnavano dei bassissimi compensi 21 . Alle 

proteste seguirono le rettifiche dei Capitoli del regolamento della «Matricola», fino 

ad arrivare alla determinazione di una «tariffa delle mercedi che dovranno conseguire 

gli agrimensori per le loro osservazioni» 22 . 

Il Campione di strade di Pietrasanta 

La riforma comunitativa prevedeva il decentramento delle competenze concernenti 

soprattutto l’amministrazione urbanistica e quindi la viabilità. Ogni ente locale incaricava 

un tecnico, esperto in materia di rilevamento, progettazione e gestione delle componenti 

urbanistiche, di redigere «un registro o sia campione dove siano descritte tutte le strade 

comunitative esistenti» 23 . Tra il 1770 e il 1780 tutte le comunità granducali dovettero 

conformarsi a tale disposizione governativa. La grande maggioranza degli enti preferì 

optare per il «Registro delle vie», un semplice elenco delle strade principali. Alcuni circondari 

maggiori, invece, come la Comunità di Pietrasanta e Seravezza, procedettero alla 

compilazione di veri e propri plantari che rilevavano fedelmente l’assetto viario e ogni 

altro fenomeno territoriale 24 . D’altronde compilare un campione non era uno scherzo. La 

costruzione di questo strumento geopolitico basilare per il governo del territorio implicava 

inevitabilmente un grosso dispendio sia di risorse umane che di risorse economiche 25 . 

Il «Campione delle Strade situate dentro il circondario di Pietrasanta e nei territori 

soggetti alla sua Comunità» 26 è stato disegnato da Carlo Maria Mazzoni 27 nel 1783. 

Le notizie sulla vita e sull’attività professionale del Mazzoni sono piuttosto scarne. 

Sappiamo per certo che «egli era Accademico Fiorentino fin dal 1762 ed esercitava fin 

dal 1759» 28 , Pubblico agrimensore al servizio di Sua Altezza Reale ed Ispettore dell’Uffizio 

fiumi e sciali del Capitanato di Pietrasanta. Il Mazzoni «fu un uomo singolare per 

i suoi tempi e di sicuro fu uno dei migliori Ingegneri del Capitanato (di Pietrasanta)» 29 . 

Si ricorreva spesso al Mazzoni «nelle differenze pubbliche e particolari, tanta è l’esattezza 

della misurazione, quanto in certo modo la bellezza del disegno» 30 . «Passò alquanto


tempo in Ispagna, dopo aver compilato l’Estimo del pietrasantino e tratta tutta la pianta 

dell’agro comunale, nonchè della città stessa, colle diverse sessioni dei possessi dei 

proprietari, tanto in terreni che caseggiati; ondè che il di lui Estimo fu da tutti reputato 

un capolavoro di quei giorni che Municipio alcuno d’Italia non possedeva al certo» 31 . 

Il «Campione di Pietrasanta» registra tutte «quelle strade che per unica direzione 

conducano in diversi luoghi riguardevoli in Pietrasanta, le sue chiese e monasteri, 

piazze, fonti e porte alle quali corrispondono le strade che conducono a diverse 

Chiese Parrocchiali e di Cure, e ai paesi e ai confini circondari dei territori soggetti ed 

uniti alla Comunità di Pietrasanta e suo Magistrato, le quali strade solamente riguardano 

la Proprietà Comunitativa alla quale si aspetta il diloro mantenimento» 32 . 

Descrizione del Campione di Pietrasanta 

Il ‘Libro di strade’ di Pietrasanta consta di 25 carte numerate, ognuna raffigurante 

un tratto di strada contrassegnato da lettere alfabetiche consecutive che ne permettono 

la ricostruzione completa. Ogni pianta riporta oltre alla sede viaria propriamente 

detta, raffigurata solitamente da una striscia continua di colore giallo, elementi indicativi 

del territorio circostante la strada stessa. Si notano infatti alcune piante di 

edifici di colore rosso, abitazioni, ponti ed abbondanti riferimenti idrografici: canali, 

scoli, fiumiciattoli e fonti. Anzi, molto spesso il percorso della strada corre parallelamente 

al corso del fiume Seravezza o lo attraversa mediante ponti. In grande evidenza 

sono i riferimenti direzionali che danno la collocazione spaziale della pianta. Si tratta di 

frecce che si intersecano ortogonalmente attraversando tutta la superficie del disegno: il 

Nord è segnato da una punta di freccia, il Sud dalla lettera ‘M’ che sta per Meridione, 

la ‘P’ indica Ponente (Ovest) e la ‘L’ il Levante (Est). Ogni tratto di strada è titolato da 

una scritta in stampatello maiuscolo di colore rosso che identifica la zona rappresentata. 

Si noti che la toponomastica è rimasta pressoché invariata, le aree registrate dallo 

stradario conservano ancora oggi gli stessi nomi. Infine vi è una descrizione relativa 

ad ogni tracciato racchiusa in cornice, collocata in varie posizioni in conformità all’andamento 

del tratto di strada. Il Campione consta inoltre di alcune pagine introduttive 

che descrivono i territori di appartenenza del Capitanato di Pietrasanta 33 . 

Il Campione di strade di Seravezza 

Il Campione è stato redatto e disegnato nel 1784 dall’agrimensore Francesco 

Angelo Folini, con il contributo di un altro «pubblico agrimensore», Giovanni 

Battista Fortini, come sembra dimostrare la registrazione del saldo della comunità del 

28 agosto 1783, con cui Fortini viene compensato con lire 110,18 per i lavori svolti 

in campagna. Il Fortini si trovava, nell’opera di rilevamento, in posizione subalterna 

al Folini che ebbe invece la responsabilità della «formazione» dell’opera, con relativo 

compenso di lire 115. 

Ma chi era Francesco Angelo Folini, uno dei tanti agrimensori? Era impensabile

484 


che la comunità di Seravezza affidasse ad un tecnico sconosciuto la redazione di un 

Campione che avrebbe dovuto essere usato come «strumento di base per tutte le evenienze 

della politica territoriale» 35 . Francesco Angelo Folini 36 era figlio di Valentino 

«che fu chierico beneficiato ed abitò per qualche tempo a Minazzana, ma deposto 

l’abito ecclesiastico prese moglie ed esercitò l’agrimensura» 37 . 

I primi due documenti, in ordine cronologico, ritrovati tra le carte d’archivio, 

sono stati autografati dallo stesso Francesco Angelo «Pubblico Agrimensore». 

Nel dicembre del 1778 la comunità di Pietrasanta procedeva «all’Elezione di un 

Provveditore di Strade, e Fabbriche per anni tre in ordine al nuovo Regolamento 

generale del dipartimento pisano de 17 Giugno 1776» 38 . Il 27 dicembre, i due 

«Pubblici Periti Agrimensori» Francesco Angelo Folini e Marco Pisani erano candidati 

alla carica di «Provveditore di Strade, Ponti, e Fabbriche» della comunità di 

Pietrasanta. Purtroppo Francesco Angelo non vinse la concorrenza del Pisani che «ottenne 

voti favorevoli sei, contrari nessuno». Il «Signore Marco del fù Giovanni Pisani 

di Vallecchia», per fortuna, rinunciò «alla carica di Provveditore di Ponti, Strade», e 

«sentita la verbale istanza del Signore Francesco Angelo Folini di Seravezza, che domandava 

detto impiego» fu «eletto per Provveditore con voti favorevoli 5 e contrari 

Fig. 1 - Carlo Maria Mazzoni, Mappa della Città di Pietrasanta, 1783, penna, inchiostro e acquerello su 

carta ruvida (Archivio Storico Comunale di Pietrasanta, Stradario Mazzoni, carta 5).


nessuno» 39 . L’11 dicembre del 1778 il Consiglio generale di Pietrasanta stabilì «un 

Annuo stipendio di scudi trenta Fiorentini […] alla detta carica di Provveditore», «da 

non potersi riscuotere per altro se non dopo che abbia finito il suo Uffizio» 40 . Il trattamento 

economico non era, certamente, adeguato alle numerose incombenze e ai 

tanti obblighi che richiedeva tale ufficio. Il 23 novembre 1781 il Consiglio generale 

di Pietrasanta prese di nuovo in considerazione il trattamento economico e decide di 

aumentare la provvisione «dalli scudi trenta à scudi quaranta l’anno» 41 . 

Il triennio da provveditore del Folini, dal 20 gennaio 1779 al 21 gennaio 1782, 

fu contraddistinto da una intensa attività professionale, piena di incombenze che 

richiedevano una seria formazione e una profonda conoscenza teorica e tecnica. I 

compiti che si presentavano al Folini erano numerosi e diversi. Il Folini riceveva numerose 

commesse − perizie, relazioni, piante, stime −, con le quali integrava l’esiguo 

stipendio di provveditore. Dal 1783 fino al 20 maggio 1801 − l’ultimo lavoro autografo 

che conosciamo in ordine cronologico − Francesco Angelo riceveva frequenti 

incarichi dalla Magistratura di Seravezza. 

Descrizione del Campione di Seravezza 

La cartulazione del Campione è segnata nell’angolo sinistro delle carte in numeri 

arabi. Si tratta di 26 carte che rappresentano la rete viaria della comunità di 

Seravezza. Ogni tavola rappresenta diversi tronchi delle principali strade di collegamento, 

ciascuno dei quali è legato con il tratto della tavola successiva mediante 

corrispondenza delle lettere alfabetiche. Ogni carta possiede un testo a fronte di 

introduzione e spiegazione alle mappe. 

Sulla parte superiore della prima carta, una profilatura a disegno geometrico inquadra 

la scritta: «strada di Marina» 42 , e sulla parte inferiore è riportata la «Scala di 

Pertiche 100 di Braccia 5.1/3 Lucchese» − la pertica pietrasantina di braccia 5 e 1/3 = 

metri 3,11 43 

− (la scala è proporzionale al tratto che viene descritto in ogni carta). La scelta 

di adottare «Braccia Lucchesi» come misura lineare in territorio fiorentino può essere 

individuata nella continuazione di «un’eredità di una passata dedizione a Lucca» 44 . 

È anche vero che le unità di misura utilizzate per levare le piante commissionate 

dalla comunità di Pietrasanta o di Seravezza o su incarico privato erano diverse. Non 

crea certo stupore l’uso contemporaneo di diverse unità di misura: «pietrasantino», 

«lucchese» e «fiorentino», specialmente in una zona di confine, come il comprensorio 

di Pietrasanta, un punto nevralgico e strategico compreso fra la Repubblica di Lucca, 

il Granducato di Toscana, il Ducato di Modena e quello di Massa. 

D’altronde il problema dell’unificazione dei criteri di misurazione era di difficile 

risoluzione. Pietro Leopoldo osservava infatti che ogni città, terra, castello 

della Toscana «aveva pesi e misure diverse» 45 , ogni piccola circoscrizione territoriale 

adottava unità di misura particolari e difficilmente equiparabili le une alle altre. 

L’amministrazione centrale nel 1781-1782 emanò un editto teso a uniformare le

486 


misure. La riforma del 1781 riuscì ad apportare un po’ d’ordine, anche se in molte 

zone si continuarono ad utilizzare misurazioni locali. 

Tutte le carte sono orientate verso sud. Ogni mappa fornisce una grande quantità 

di informazioni che riguardano il territorio adiacente alla rete viaria: ponti, fiumi, 

canali, fossi, gore, marginette, edifici, chiese, piazze, fontane, acquedotti, pozzi, lavatoi, 

strade vicinali, le proprietà (e in alcuni casi i livelli) confinanti con le strade e 

i nomi dei loro possidenti. 

La tavola 21 riproduce la situazione relativa all’abitato di Seravezza prima dell’inondazione 

del 1885. Infatti in seguito a questo accadimento si decise di trasformare 

il percorso del torrente Vezza nel punto d’incontro col Serra e di modificare 

l’aspetto urbano di Seravezza. 

Seravezza, sorge alla confluenza di due grandi torrenti che scendono dai monti 

e si uniscono a formare un solo fiume. L’antica confluenza del Vezza nel Serra si 

presentava come un fenomeno anomalo, perché «il Vezza, giunto al termine del suo 

corso, anziché volgere verso il mare ed unirsi col Serra, si rivolgeva contro il flusso 

dell’altro torrente» 46 . Seravezza nel 1784 era attraversata da due strade principali che 

seguivano le naturali vie di comunicazione fluviali e si univano nel paese per proseguire 

fino al mare. Il vecchio tracciato di queste strade, che seguiva quello del Serra e 

del Vezza, è documentato nel Campione di strade. La tavola 21 infatti mostra chiaramente 

l’antico andamento fluviale del Vezza che, giunto alla piazzetta del paese e al 

palazzo del Borrini, con una conversione ad angolo acuto piegava a sinistra e si univa 

col Serra. «Un gruppo considerevole di case, che costituivano il centro di Seravezza, 

si trovavano circondate per due lati dal fiume ed erano unite alla piazzetta mediante 

il ponte di piazza, oggetto anch’esso di saltuarie riparazioni» 47 . La soluzione che si 

decise di adottare dopo la piena del 1885 fu quella di rendere l’andamento fluviale il 

più possibile naturale; nel luglio 1889 furono iniziati i lavori, portati a termine nel 

1891. Il corso del fiume assunse da allora la conformazione attuale e Seravezza acquisì 

la struttura urbana che conserva anche oggi per lo più invariata. 

Uno degli scopi del Campione era la ripartizione delle spese tra i frontisti e soprattutto 

la volontà di segnalare le strade soggette alle rispettive comunità. La manutenzione ordinaria 

delle strade o dei tratti di strada corrispondenti spettava ai frontisti; tuttavia, almeno 

per i lavori di maggiore impegno, essa toccava alla comunità che aveva l’obbligo legale di 

provvedere al riattamento delle strade. È vero però che dalla lettura degli accolli stabiliti 

per le strade comunitative di Seravezza emerge spesso che i proprietari più ricchi della 

zona contribuivano dal punto di vista finanziario all’esecuzione dei lavori. 

Le carte sono state eseguite con grande accuratezza e con un certo gusto, anche 

per la colorazione. Gli edifici (abitazioni, chiese, colombaie, marginette) sono stati 

evidenziati con un colore rosso sanguigna, le strade da un colore «lionato», le acque 

(fiume, canali, fossi, pozzi, fontane, lavatoi, «acquidotti») da un colore verde. Le 

scritte sono in corsivo (inchiostro nero). Tutte le emergenze sono raffigurate in pian-


Fig. 2 – Francesco Angelo Folini, Strade che sono nel Corpo della Terra di Seravezza, 1784, penna, 

inchiostro e acquerello su carta ruvida (Archivio Comunale di Seravezza, Campione di Strade, filza 

373, carta 21).

488 


ta, non c’è traccia del linguaggio prospettico-vedutistico proprio della cartografia 

tradizionale, la costruzione topografica è rigorosamente d’impianto planimetrico, le 

case, le chiese, fonti, gore ecc., sono rappresentate attraverso dei segni convenzionali, 

«la rappresentazione cartografica tende a divenire sempre meno un fatto figurativo, 

per assumere una fisionomia più decisamente tecnica, assolvendo alla sua effettiva 

funzione di immagine del territorio» 48 . 

Queste raccolte cartografiche hanno un valore testimoniale proprio per quanto 

concerne le componenti fondamentali del territorio, la toponomastica, la ricostruzione 

dell’assetto territoriale. I Campioni rappresentano quindi una chiave di lettura assai 

utile dell’organizzazione territoriale e del patrimonio paesistico-ambientale attuale. 

La Versilia dei cartografi 

Alla vita e all’opera professionale del Mazzoni e del Folini, si intrecciano la biografia 

e l’operato di altri tecnici, periti e agrimensori: Giovanni Battista Fortini, Patrizio 

Botti, Giovanni Niccola Mazzoni, Agostino Silicani. 

Negli anni Settanta e Ottanta del XVIII secolo nella Versilia storica vi era la presenza 

di tecnici territoriali di spicco, formati nell’Università di Pisa o nell’Accademia delle 

Arti del Disegno di Firenze e inquadrati nell’apparato dello Stato lorenese. Intorno ai 

«professionisti» gravitavano numerosi operatori territoriali meno conosciuti. 

Dalle fonti consultate non risulta che Francesco Angelo Folini abbia mai condotto 

studi specifici; i rudimenti del mestiere gli sono stati trasmessi quasi sicuramente 

dal padre Valentino, anch’egli agrimensore. Sono del resto piuttosto numerose le 

piccole dinastie professionali che si tramandano il mestiere di padre in figlio. Non è 

però da escludere che il Folini frequentasse l’ambiente culturale di Stazzema, piccola 

località nelle immediate vicinanze di Seravezza, dove fin dalla «prima metà del secolo 

XVIII cominciarono a comparire delle persone che delle cognizioni scientifico-letterarie 

dovettero tener conto ed usufruire al proprio ed al comune vantaggio» 49 . «Gli 

Stazzemesi furono anche dei primi a darsi all’agricoltura 50 e tale troviamo Antonio 

Tommasi, il quale nel 1680 levò le piante della Culla, ordinategli dall’Ingegnere 

Giuseppe Santini di Pisa» 51 . Il Folini, intorno al 1770, era uno dei pochi che praticava 

l’agrimensura dividendosi tra la committenza di Seravezza e di Pietrasanta. Il 

Santini lo cita a proposito degli uomini illustri di Stazzema: «e quando quasi alcuno 

scienziato in tal genere [l’agrimensura] non esisteva in Pietrasanta e solo un Folini 

ed un Campana in Seravezza, in quella villa − Stazzema − si trovava nel 1770 come 

Perito Ingegnere Antonio Silicani (anzi Agostino), ma che era assai di grado inferiore 

al contemporaneo Carlo Mazzoni» 52 . 

Anche l’ingegnere Agostino Silicani di Stazzema era cresciuto in questo paesino 

centro di attrazione di «ingegni, studiosi e tecnici di ogni settore, e personalità che 

ricoprirono incarichi ufficiali» 53 . Nel giugno del 1764 si laureò all’Università di Pisa 

per intraprendere poco dopo la carriera di perito estimatore. Venne nominato inge-


gnere dalla Camera dei ponti e fiumi di Firenze intorno al 1782; egli compare negli 

annuari degli Arcadici di Roma con lo pseudonimo di Persilio Labaide. Silicani, che 

opera per privati e su commissione granducale, è «assai di grado inferiore al contemporaneo» 

54 Mazzoni, ingegnere di Pietrasanta, che effettivamente era considerato tra 

i più dotati e operosi tecnici granducali degli anni Sessanta-Ottanta. 

È vero che l’ufficio di Provveditore di strade era aperto a concorrenti «di qualunque 

classe e condizione» 55 , è altrettanto vero però che di solito venivano eletti gli 

agrimensori che godevano di una certa notorietà ed esperienza. Terminato l’incarico 

del Folini, Patrizio Botti 56 e Giovanni Niccola Mazzoni, due stimati operatori tecnici 

di queste zone, concorsero al «vacante impiego» 57 di Provveditore di Strade della 

Comunità di Pietrasanta, ma non ebbero la meglio su Francesco Bindi. 

Il Pubblico e Generale Consiglio della comunità di Seravezza, scaduto il mandato 

«A’ detto Domenico Bartelletti stato Provveditore di Sua Altezza Reale, anzi di Strade 

di detta Comunità per anni trè, à forma degli ordini dal dì primo settembre 1776; à 

tutto Agosto 1779» 58 elesse Giovanni Battista Fortini, suo nuovo provveditore, per 

il triennio successivo. Si tratta dello stesso Giovanni Battista Fortini che venne rimborsato 

del «vitto, e cavalcatura» 59 per formare il Campione di Strade della comunità 

di Seravezza. Il 18 agosto 1779 il Fortini venne incaricato dalla Magistratura della 

Comunità di Stazzema di fare le misure di detta Comunità, probabilmente per la formazione 

dell’estimo di Stazzema e Pomezzana dato a cottimo all’ingegnere Agostino 

Silicati; la diaria, cioè il compenso giornaliero della missione «in campagna», era di 

cinque lire al giorno, per un totale di 16 giorni − 80 lire in tutto; inoltre, il lavoro «a 

tavolino» durò 9 giorni, per un totale di 45 lire. 

Il Folini aveva acquistato una certa notorietà come Provveditore di Strade e così 

il magistrato della comunità di Stazzema lo deputò in qualità di perito, insieme 

a Bartolomeo Rossetti, «per decidere, e stanziare la mercede dover all’Illustrissimo 

Signore Dottore Ingegnere Agostino Silicani per la formazione de due estimi di 

Stazzema, e Pomezzana» 60 . La ulteriore qualifica di perito 61 , in aggiunta al titolo di 

agrimensore, ne è la conferma. Nei mandati di pagamento, registrati nei Saldi di 

Seravezza, il nome del Folini compare spesso, insieme al perito agrimensore Patrizio 

Botti e a Giovanni Niccola Mazzoni. Perfino nel campione di Seravezza vi sono 

notazioni posteriori, con interventi di accorpamento di vecchie vie o di inserimento 

di nuove, effettuati dallo stesso Folini fino al 1797 o da altri periti come Giovanni 

Nicola Mazzoni. Nel testo a fronte della carta numero 14 troviamo una notazione 

posteriore alla compilazione del Campione: la nota riguarda l’accorpamento di un 

tronco di strada che risulta «vantaggiosa al Pubblico» 62 , la misurazione è stata effettuata 

dallo stesso autore, Francesco Angiolo Folini, e riportata in pianta da Giovanni 

Niccola Mazzoni 63 . 

Denise Ulivieri

490 


Abbreviazioni: ARCHIVIO DI STATO DI PISA = ASP; ARCHIVIO STORICO COMUNALE DI PIETRASANTA = 

ASCP; ARCHIVIO DI STATO DI LUCCA = ASL; ARCHIVIO COMUNALE DI SERAVEZZA = ACS. 

1 P. PIEROTTI, Imparare l’ecostoria, Milano, Franco Angeli, 1999, p. 142. 

2 G. PANSINI, La riforma delle circoscrizioni territoriali del Granducato di Toscana nella cartografia di 

Ferdinando Morozzi e di Luigi Giachi, in La Toscana dei Lorena nelle mappe dell’archivio di stato di Praga. 

Memorie ed immagini di un Granducato. Catalogo e mostra documentaria (Firenze, 31 maggio-31 luglio 

1991), Pisa, Pacini, 1991, pp. 59-76: 60. 

3 Ibidem. 

4 Ibidem. 

5 P.L. ASBURGO LORENA, Relazioni sul governo della Toscana, a cura di A. Salvestrini, 3 voll., Firenze, 

Olschki, 1969-1974, vol. II, p. 560. 

6 R. VALENTINI, Lo spazio extramoenia e la cartografia tematica, in Imago et descriptio Tusciae, a cura 

di L. Rombai, Venezia, Marsilio, 1993, pp. 245-303: 260. 

7 P.L. ASBURGO LORENA, Relazioni sul governo della Toscana, cit., vol. II, p. 110. 

8 V. SANTINI, Vicende storiche di Seravezza e Stazzema tratte dal manoscritto conservato in Archivio 

comunale di Pietrasanta, in ID., Commentari storici sulla Versilia antica e moderna, 6 voll., Pisa, tipografia 

Pieraccini, 1858, vol. VI, p. 161. 

9 ASP, Regolamento Generale del Dipartimento Pisano dè 17 Giugno 1776. 

10 R. VALENTINI, Lo spazio extramoenia, cit., p. 265. 

11 ASCP, Partiti dal 1778 al 1781, fasc. 41, Obblighi del provveditore di strade e ponti della comunità 

di Pietrasanta. 

12 ASCP, Partiti dal 1778 al 1781, fasc. 41. 

13 I. BONCOMPAGNI-D. ULIVIERI, La Versilia dei cartografi. Stradari del periodo leopoldino, Pisa, Pacini, 

2000, p. 18. 

14 P. PIEROTTI, La Valle dei Marmi, Pisa, Pacini Editore, 1995, p. 155. 

15 La documentazione d’archivio è ricca di istanze di proprietari che si trovavano censite alcune 

partite doppie, le poste erano registrate sia nell’estimo di Pietrasanta che in quello di Seravezza. Il 24 

febbraio del 1801 Maria di Vincenzo Osteria e Luca Antonio di Giovanni Osteria denunciano che i 

loro terreni «si trovano descritti all’estimo di Seravezza» e sono descritti anche all’estimo di Pietrasanta, 

«essi domandano che siano cassati dall’Estimo di Seravezza essendo descritti con giusta ragione all’estimo 

di Pietrasanta». Fin dal 1797 fu affidato al perito Patrizio Botti l’incarico di fare un «elenco dei 

terreni di questa Comunità non affioranti», cioè i terreni che non erano stati descritti negli estimi; il 31 

luglio si votò a favore della compilazione del nuovo estimo di tutta l’intera Comunità. ASCP, Partiti e 

Deliberazioni (1794-1798), fasc. 9. 

16 J. NICCOLAI, Cartografia storica di Montignoso: le mappe dal XVI al XIX secolo, Pisa, Pacini, 2004. 

17 I. BONCOMPAGNI-D. ULIVIERI, La Versilia dei cartografi, cit., pp. 13-31: 20. 

18 L. ROMBAI, Rappresentazione cartografica del Granducato di Toscana, in La Toscana dei Lorena, cit., 

pp. 35-46: 39. 

19 ASL, Capitoli da osservarsi dagli Agrimensori e loro Matricola, riformati dall’Ill.mo Offizio delle 

Fortificazioni per Domenico Ciuffetti, 1725. 

20 I governatori delle comunità nominavano delle persone che avevano compiti ben definiti: gli stimatori 

che calcolavano il valore delle terre, e i correttori che controllavano e correggevano gli eventuali 

errori incorsi durante le valutazioni. Quanto agli stipendi, sappiamo che nell’ottobre del 1635 i governatori 

stanziano «scudi 2 per pagare gli estimatori e scudi 3 per pagare i correttori degli estimi»; inoltre 

erano a carico della comunità i libri infatti l’otto giugno 1633 si «stanziano 10 scudi per l’acquisto di 

libri nuovi per rifare gli estimi». Apposite «instruzioni delli Magnifici Signori Nove e Governatori della 

Jurisdizione e dominio fiorentino» obbligavano la comunità della Cappella a «fare inventario di tutti i 

libri e così dell’estimo». ASCP, Partiti, fasc. 5. 

21 Leonardo Ximenes, nel 1763-1764, si lamenta con il granduca Francesco Stefano dell’inadegua- 

to compenso ricevuto per la massacrante impresa dei lavori di bonifica in ARCHIVIO DELL’OSSERVATORIO 

XIMENIANO DI FIRENZE, Piano di Bientina, 89, ins. 28, Memoria di Leonardo Ximenes per l’onorario relativo 

all’esecuzione dei lavori ordinatigli da S.M.I., «Lo stesso tipo di denuncia per l’inadeguato trattamento eco-


nomico era lamentato anche dagli altri funzionari tecnici a servizio dello Stato come Ferdinando Morozzi 

e Giovanni Targioni Tozzetti» (I. BONCOMPAGNI-D. ULIVIERI, La Versilia dei cartografi, cit., p. 21). 

22 ASL, Consiglio Generale, fasc. 491, 9 settembre 1746. 

23 ASP, Regolamento Generale del Dipartimento Pisano dè 17 Giugno 1776. 

24 Oltre ai campioni di Pietrasanta e di Seravezza, fino ad oggi abbiamo conoscenza di pochi plantari: 

Prato, Pontassieve, Campi Bisenzio, Bagno a Ripoli, Scandicci, San Casciano, Impruneta, Fiesole, 

Barberino di Mugello, San Marcello Pistoiese. 

25 I. BONCOMPAGNI-D. ULIVIERI, La Versilia dei cartografi, cit., pp. 13-31. 

26 ASCP, Stradario Mazzoni, 1783, descritto in I. BONCOMPAGNI-D. ULIVIERI, La Versilia dei cartografi, 

cit., pp. 29-63. 

27 Per ulteriori notizie riguardanti la «carriera» e l’attività del Mazzoni vedi I. BONCOMPAGNI-D. 

ULIVIERI, La Versilia dei cartografi, cit., pp. 27-31. 

28 V. SANTINI, Commentari storici sulla Versilia, cit., vol. VI, p. 384. 

29 Ibidem. 

30 Ibidem. 

31 Ibidem. 

32 ASCP, Stradario Mazzoni, 1783, c. 24. 

33 I. BONCOMPAGNI-D. ULIVIERI, La Versilia dei cartografi, cit., p. 31. 

34 Ivi, p. 64, tavola I. 


36 Attraverso i «Registri delle Portate del Sale» si è potuto ricostruire il curriculum della sua famiglia. 

Francesco era nato nel 1736, viveva a Seravezza in una casa di sua proprietà, posta lungo «la strada maestra 

detta Rugha» che «principiava dalla piazza centrale del paese e si dirigeva verso il ponte di Riomagno 

- detta ancora oggi ‘rughetta’» (P. PIEROTTI, La Valle dei Marmi, cit., p. 224). Era sposato con Elisabetta 

che aveva un anno meno di lui, aveva fino a quel momento almeno sei figli, cinque maschi ed una femmina; 

il figlio maggiore, Paolo Antonio, era nato nel 1759, mentre il più piccolo, Pietro, nel 1771. 


38 ASCP, Partiti dal 1778 al 1781, fasc. 41, c. 50r. 

39 ASCP, Partiti dal 1778 al 1781, fasc. 41, c. 61v. 

40 ASCP, Partiti dal 1778 al 1781, fasc. 41, c. 59v. 


42 La via di Marina principiava «dalla ferriera della Real Magona presso Pontestazzemese nella valle 

del Cardoso, fiancheggiava il lato destro del fiume Vezza e, superato il conservatorio Campana e la 

chiesa parrocchiale, giungeva nella piazzetta di Seravezza. Da qui proseguiva verso i palazzi Borrini e 

Campana e, attraversato il fiume di Riomagno o fiume Serra col ponte della Santissima Annunziata, 

si congiungeva con un’ulteriore via proveniente dalla valle del Serra. Proseguiva poi passando sotto il 

monte della Mezzaluna e, superata una località detta «la Fucina» per l’esistenza di abitazioni e opifici, 

attraversava Corvaia, Ripa e Querceta e giungeva al magazzino dei marmi in prossimità del mare» (P. 

PIEROTTI, La Valle dei Marmi, cit., p. 220). 

43 Tavole di ragguaglio per la riduzione dei pesi e misure che si usano in diversi luoghi del Granducato di 

Toscana al peso e misura vegliante in Firenze, Firenze, Cambiagi, 1782. 

44 A. BARTELLETTI-A. TARTARELLI, Agricoltura e mondo rurale nella Versilia del ’500, in Barga medicea e le 

“enclaves” fiorentine della Versilia e della Lunigiana, Firenze, 1984, («Studi sulla Toscana Medicea»), p. 293. 

45 P.L. ASBURGO LORENA, Relazioni sul Governo della Toscana, cit., vol. I, p. 272. 

46 P. PIEROTTI, La Valle dei Marmi, cit., p. 230. 

47 Ivi, p. 224. 



50 Sic per agrimensura. 


52 Ivi, p. 384. 

53 Ivi, p. 383.

492 


54 Ivi, p. 384. 

55 ASCP, Partiti dal 1778 al 1781, fasc. 41, Obblighi del Provveditore di strade e ponti della comunità 

di Pietrasanta. 

56 «Il nome Botti viene citato più volte nelle filze d’archivio anteriori e posteriori al 1820, e questo 

porta a presumere che la sua fosse una di quelle famiglie da sempre inserita nell’organizzazione politica, 

economica ed anche tecnica di questo territorio. L’attività di cartografo di Patrizio Botti risulta particolarmente 

documentata grazie ad un cospicuo numero di mappe e disegni attualmente conservati, per lo 

più in buono stato, da uno dei suoi discendenti di Pietrasanta, il geometra Enrico Botti […] Si tratta di 

produzioni eterogenee, almeno in parte eseguite da periti o cartografi appartenenti a famiglie note per la 

riproduzione cartografica del territorio, quali la famiglia Mazzoni e la stessa famiglia Botti» (P. PIEROTTI, 

La Valle dei Marmi, cit., p. 72). 


58 ACS, Saldi di Seravezza dal 1777 al 1797, fasc. 178. 

59 ACS, Saldi di Seravezza dal 1777 al 1797, 1783, ricevuta n. 22. 

60 ACS, Cancelliere Casanova 1779-1785, c. 22. 

61 Perito significa infatti «persona dotata di particolare competenza in una determinata materia per 

cui viene chiamato a compiere indagini tecniche sia per conto di privati che del giudice» (R. MARTINELL- 

L. NUTI, Fonti per lo studio del paesaggio agrario, Lucca, Ciscu, 1981, pp. 405-411: 406). 

62 ACS, Campione di strade, 1783, filza 373, c. 14 r. 

63 «Con due Partiti del General Consiglio della Comunità di Serravezza dell’Anno 1797. fù ordinato 

descriversi al Campione il suddetto Tronco di strada vantaggiosa al Pubblico, e misurata dal 

Signore Francesco Angiolo Folini, e da Me riportata come sopra di commissione dell’Eccellentissimo 

Signore Cancelliere questo di 11. Dicembre 1797= Giovanni Niccola Mazzoni», in I. BONCOMPAGNI-D. 

ULIVIERI, La Versilia dei cartografi, cit., p. 31.


IL SISTEMA CATASTALE NEGLI STATI ITALIANI 

E LA VICENDA DEL MEZZOGIORNO 

DAI BORBONE ALL’UNITÀ 

La graduale introduzione del sistema catastale nei principali Stati europei a partire 

dagli inizi del XVIII secolo 1 preannunciò, anche in campo fiscale, l’affermazione 

della classe borghese che si sarebbe verificata entro gli inizi dell’Ottocento con il 

dominio napoleonico, favorendo lo sviluppo della nuova proprietà fondiaria a danno 

degli antichi privilegi feudali ed ecclesiastici, e contestando l’idea di una proprietà 

avulsa dal mercato per affermare il possesso pieno e libero della terra. Anche in Italia 

il catasto rappresentò, nei casi più significativi che descriveremo, l’aspirazione verso 

un nuovo ordine sociale, atto a premiare l’industria e la produttività: per l’intero 

corso del Settecento ci si mobilitò intorno a questo tema, talvolta precedendo di 

alcuni decenni – come fu per il catasto savoiardo o per quello milanese – l’adozione 

di nuovi sistemi poi attuata sotto l’Impero. Va detto però che, a differenza di paesi 

come la Francia e l’Inghilterra, ove il nuovo impianto catastale fu il naturale effetto 

di una trasformazione radicale delle strutture politico-amministrative e dei rapporti 

di proprietà, negli stati italiani pre-napoleonici alla precocità delle idee illuministiche 

in materia di scienza finanziaria non si accompagnò un’azione rivoluzionaria e 

i programmi riformatori furono promossi direttamente dai governi assolutistici in 

relazione ai crescenti bisogni delle finanze statali, cioè dall’alto verso il basso e, in generale, 

senza una diretta partecipazione della classe intellettuale né un reale sviluppo 

del capitalismo terriero 2 . 

Analizziamo allora la vicenda sette-ottocentesca dei principali stati della penisola 

3 , per poi occuparci del regno napoletano e delle iniziative nell’Italia post-unitaria. 

In Piemonte sin dal 1738 fu introdotto da Vittorio Amedeo II un catasto geometrico-particellare 

modernamente inteso e ispirato ai principi che già si stavano diffondendo, 

come vedremo, in ambito milanese, dove però erano ostacolati nell’attuazione 

dagli eventi politici: essi si basavano sulla misura e sulla stima peritale diretta, con il 

superamento del lacunoso sistema delle “rivele” da parte dei proprietari; il successivo 

regolamento del 1775 stabilì quindi i metodi di misura e di elaborazione delle mappe 

4 . In Savoia, in particolare, il nuovo impianto catastale era già completato alla metà 

del secolo: oltre che tecnicamente impeccabile, anche nella cartografia, esso mostrò

494 ALFREDO BUCCARO 

notevoli progressi nell’adozione del principio della generalità dell’imposta, che ancora 

tardava ad affermarsi in molti stati europei, tra cui la Francia. Ma in altri territori 

del regno sabaudo, in particolare a Torino, per avere un catasto geometrico si dovrà 

attendere la dominazione napoleonica tra il 1804 e il 1813, e, rivelatosi imperfetto 

anche questo primo rilevamento, si procederà tra il 1820 e il 1830 alla formazione di 

un nuovo catasto particellare, che verrà completato poco prima dell’Unità 5 . 

Veniamo ora all’importante vicenda del catasto milanese 6 , decretato a partire dal 

1713 da Carlo VI d’Asburgo: i lavori, diretti prima dal napoletano Vincenzo de 

Miro, poi dal fiorentino Pompeo Neri, durarono dal 1718 al 1757 e si basarono 

sulla redazione di precise mappe particellari mediante l’uso della tavoletta pretoriana. 

Questo catasto, fondato sui criteri di perequazione e di stabilità dell’imposta, 

e soprattutto di esenzione degli incrementi di valore nella produzione (secondo il 

cosiddetto principio “fisiocratico”), rappresentò un modello di perfezione in tutta 

Europa; esso però da un lato fu fortemente osteggiato dai ceti privilegiati, che ostacolarono 

e ritardarono la lodevole opera del governo austriaco, dall’altro restò privo 

di un appoggio diretto del movimento illuminista e riformatore lombardo. Solo negli 

anni Settanta, sotto Maria Teresa d’Austria, furono affrontate per la prima volta le 

questioni concernenti la descrizione fisica dei suoli nel rispetto dei principi di uguaglianza 

dei possidenti e di proporzionalità e universalità dell’imposta, privando finalmente 

i poteri locali della funzione esattoriale. Erano però tutti da definire i criteri di 

esenzione, che vedevano ancora particolari privilegi accordati agli ecclesiastici; solo 

nel 1782, con Giuseppe II, verranno assoggettati tutti i beni a un eguale tributo e in 

buona parte vinte le resistenze del patriziato lombardo. Se, come si è detto, i lavori 

scontarono, specie nella provincia di Milano, il ritardo dovuto agli eventi politici e 

bellici, tutte le altre province dello stato lombardo-veneto ancora prive di un moderno 

catasto ne saranno dotate sotto il governo napoleonico. 

Tra gli altri stati della penisola è significativa la vicenda dello Stato pontificio 7 , ove 

nel 1777 Pio VI aveva intrapreso la creazione di un nuovo catasto; ma i lavori di rilevamento 

ed elaborazione delle mappe, avviati solo con il Regno d’Italia, rimarranno 

interrotti con la caduta dei francesi: l’opera, ripresa da Pio VII, verrà terminata nel 

1835 sotto Gregorio XVI, con l’elaborazione di splendide mappe per le quali sarebbero 

state in parte riutilizzate quelle di epoca francese. 

Per lo Stato della Chiesa va pure ricordato il tentativo fatto a Bologna 8 , seguendo 

l’esempio milanese e sabaudo, dal cardinale Boncompagni a partire dal 1780, che 

però non andò a buon fine per le forti resistenze dei proprietari terrieri e per il mancato 

appoggio pontificio. Anche in questo caso fu proposta l’applicazione di un metodo 

“fisiocratico” per il calcolo dell’imposta in rapporto ai progressi dell’agricoltura; 

il Boncompagni si ispirava direttamente alle tesi del francese Quesney e all’esperienza 

attuata con successo ad Angoulême, nel Limousin, basata però ancora su un catasto 

descrittivo. Il sistema, se applicato, avrebbe recato un duro colpo ai privilegi dell’ari-

IL SISTEMA CATASTALE NEGLI STATI ITALIANI 495 

stocrazia terriera, spingendo di fatto i possidenti ad adottare le tecniche di coltura più 

convenienti in rapporto alla produzione. 

Idee progressiste come quelle del Boncompagni animarono anche lo sfortunato 

tentativo del viceré Caracciolo in Sicilia tra il 1781 e il 1786 9 : di ritorno da un viaggio 

in Francia, anch’egli vide nel metodo “fisiocratico” la soluzione contro i privilegi 

e le immunità. Basandosi sulle tesi dei napoletani Broggia e Genovesi e ispirandosi al 

modello milanese, egli cercò di convincere dell’utilità di quel sistema il re di Napoli 

Ferdinando IV: come vedremo in dettaglio, il catasto già introdotto da Carlo di 

Borbone non era stato per nulla apprezzato dalla classe intellettuale napoletana. In 

questo caso le resistenze dei siciliani alla proposta del Caracciolo finirono per trovare 

appoggio proprio nella corte di Napoli, oltre che, naturalmente, nel parlamento palermitano. 

Così in Sicilia, rimasto senza esito questo ispirato tentativo, sotto il governo 

francese e poi durante la Restaurazione si cercherà di porre ordine nella materia, 

giungendo però all’Unità senza un soddisfacente strumento fiscale. 

Per quanto riguarda il regno di Napoli − alla cui storia catastale abbiamo dedicato 

qualche anno fa un ampio volume 10 − va detto che la capitale, a differenza di altre 

città europee, dagli inizi dell’età moderna fino alla venuta di Giuseppe Napoleone fu 

privilegiata sotto il profilo fiscale, e questa fu una delle principali cause del suo congestionamento 

nei secoli XVI-XVIII; persino quando, nel 1741, re Carlo introdusse 

nel Regno il cosiddetto catasto onciario 11 , Napoli ne fu nuovamente esentata. 

Dopo una prima idea di un’imposta fondiaria basata sul modello già introdotto 

da Vittorio Amedeo II in Piemonte, con il catasto carolino si preferì adottare un’imposta 

reale e personale, basata sulla tassazione delle rendite derivanti da beni mobili 

e immobili, e, con riferimento ai prodotti della terra, in rapporto alla loro qualità e 

quantità; il catasto era detto onciario perché il valore capitale era espresso nell’antica 

moneta, detta appunto oncia 12 . La procedura di calcolo delle rendite risultava assai 

farraginosa e ciò finiva per danneggiare i contribuenti più poveri, concedendo maggiori 

opportunità ai ceti privilegiati; inoltre, in base al concordato del 1741, solo una 

parte dei beni ecclesiastici fu tassata, mentre quelli feudali restarono addirittura esenti. 

Ma più ancora, come sottolineò l’economista Antonio Genovesi 13 , si diede più 

valore alle terre dei poveri che a quelle dei ricchi e venne sottoposta a tributo anche 

l’industria libera. Tra gli altri oppositori va ricordato Carlo Antonio Broggia, il quale, 

prima nel Trattato de’ tributi del 1743, poi in una memoria data alle stampe nel 1754, 

osservò come in quelle norme non si fosse considerata la preminenza delle rendite 

fondiarie sulle altre; egli, però, giudicò sufficiente la descrizione dei beni sulla base 

delle antiche “rivele”, senza comprendere l’esigenza di una loro diretta misurazione. 

Era dunque chiaro a questi economisti come non fosse più possibile legare i tributi 

alle persone, né conveniente tassare la produzione e l’industria. Non fu un caso che le 

loro idee non venissero affatto prese in considerazione, stante lo scollamento ancora 

esistente tra ricerca scientifica e riformismo borbonico. Così in gran parte del Regno,


specie nei centri minori, il nuovo sistema non fu mai applicato per l’incapacità o per 

la corruzione degli amministratori, come del resto per l’assenza di adeguate strutture 

burocratiche. All’interno del potere assolutista, d’altra parte, non c’era una reale 

spinta di rinnovamento e fuori di esso le opere di pensiero erano destinate a rimanere 

nel limbo delle buone intenzioni 14 . 

L’assenza per la capitale, fino al volgere del XVIII secolo, di un qualsiasi strumento 

catastale, tanto meno geometrico-particellare, fa sì che per i secoli del viceregno 

e per la prima età borbonica, ai fini di uno studio dei processi di trasformazione del 

tessuto edilizio e, quindi, della città storica, ci si debba riferire all’iconografia urbana 

redatta tra Cinque e Settecento, oppure alle mappe “pre-catastali”, ossia a inventari 

dei beni nobiliari e religiosi redatti su iniziativa privata 15 . 

Bisognerà attendere il 1796 per l’introduzione, anche per la capitale, di una tassa 

detta decima, ossia pari ad un decimo delle rendite derivanti dai terreni e dagli immobili 

16 . Ai fini della tassazione, da cui erano escluse le rendite già sottoposte al catasto 

onciario, fu intrapreso dal topografo Luigi Marchese il rilevamento dei casali napoletani 

e dei centri del casertano, di cui sono state recentemente ritrovate le mappe 17 . 

Purtroppo fu nuovamente prevista l’esenzione dei beni ecclesiastici, mentre per le 

case di Napoli tassate per la prima volta si stabilì l’esenzione per le prime abitazioni 

e per i cosiddetti “bassi”. Dopo questi provvedimenti il governo borbonico tentò più 

volte un riordinamento generale del sistema fiscale, ma senza approdare a sostanziali 

innovazioni, specie a causa del blocco dovuto alla rivoluzione del ’99. 

Con la venuta dei francesi l’introduzione di un nuovo metodo di contribuzione 

fondiaria rientrò nella più ampia politica dei napoleonidi per una riorganizzazione 

del Regno, comprendente tra l’altro un’organica divisione del territorio in province, 

l’eversione della feudalità e la soppressione monastica. In tal senso due iniziative parallele, 

come la redazione del Catasto provvisorio tra il 1806 e il 1814, e l’elaborazione 

della Statistica del Regno nel 1811, dovevano concorrere a un’esatta conoscenza, 

fisica e socio-demografica, del territorio meridionale. 

Nel 1806 Giuseppe Bonaparte, nel rispetto del modello catastale francese, introdusse 

in luogo del sistema vigente un’unica imposta reale, riguardante sia la proprietà 

terriera sia quella edilizia, oltre alle rendite derivanti da investimenti in titoli di Stato 

o dalla vendita di uffici pubblici, nonché gli introiti tratti dall’impiego di capitali 

nel commercio o nell’allevamento del bestiame. Tali provvedimenti ebbero lo scopo 

di riformare il sistema delle imposte dirette attraverso la formazione di un catasto 

«provvisorio» nominale in tutti i comuni del Regno, compresa la capitale, cui avrebbe 

fatto seguito un rilevamento geometrico. L’iniziativa permise non soltanto un 

più efficace prelievo fiscale, ma l’avvio di un preciso censimento della popolazione. 

Infatti poco dopo fu istituito un regolare servizio di stato civile, mentre l’indagine 

demografica venne effettivamente condotta tra il 1809 e il 1813. 

Il nuovo sistema fiscale distingueva le contribuzioni secondo la natura delle pro-


prietà e il valore delle rendite, ma non stabiliva ancora alcuna separazione tra il catasto 

dei terreni e quello dei fabbricati: l’imposta interessava tutti i beni soggetti a 

contribuzione diretta, ossia le terre, anche incolte, le case di città e di campagna adibite 

ad abitazione o a servizi, gli opifici, ecc. La contribuzione si basava sul cosiddetto 

«prodotto netto», ossia, per quanto riguardava la terra, ciò che rimaneva al proprietario 

tolte le spese di coltivazione e manutenzione; per le case si considerava l’affitto, 

dedotte anche qui le spese di manutenzione. La legge non stabiliva un’aliquota 

uniforme per la tassazione, ma una quota globale di contribuzione annua per tutto 

il Regno. La normativa, nel fissare nuovi criteri per la determinazione della rendita, 

affidava a una commissione presieduta dal sindaco la suddivisione del comune in sezioni, 

di ciascuna delle quali sarebbero state descritte le caratteristiche fisiche e toponomastiche. 

Negli «stati delle sezioni» sarebbero stati indicati il nome, la professione 

e il luogo di residenza dei proprietari, il numero delle proprietà, la denominazione 

dei possessi, la natura e tipologia di ciascun immobile, la superficie dei fondi rustici 

e la relativa classe, infine la rendita netta imponibile 18 . 

Dunque in luogo del vetusto sistema del catasto onciario, basato sulle autodenunce 

e conseguente apprezzo, si adottò il moderno metodo della rilevazione diretta. 

Nella determinazione delle aliquote, e quindi dell’imposta, fu attuata una vera e propria 

inversione di tendenza rispetto al catasto onciario: mentre infatti quest’ultimo 

aveva gravato gli immobili in misura minore rispetto agli altri beni, ora si veniva a 

tassare prevalentemente il reddito immobiliare, favorendo le attività concernenti la 

libera industria; le aliquote furono applicate in maniera differenziata nelle varie province 

del Regno, in relazione al diverso grado di ricchezza degli abitanti o di fertilità 

dei terreni. Il sistema adottato conteneva, per la prima volta, precisi dati sui caratteri 

fisici degli immobili, sull’evoluzione del loro valore e sui mutamenti della titolarità 

e della condizione sociale dei proprietari, potendosi peraltro basare sul primo censimento 

degli ex beni feudali. 

Nel 1809 furono introdotte disposizioni più precise per la valutazione dell’estensione 

dei fondi, onde evitare abusi e frodi. Ma, se da un lato il criterio di ripartizione 

globale dell’imposta fece scattare un meccanismo di controllo reciproco tra comune 

e comune, dall’altro, a fronte del vantaggio di premiare con le nuove norme la 

produttività, la nuova quotizzazione dei demani e la vendita dei beni dei monasteri 

soppressi avrebbero favorirono i grandi latifondisti e gli speculatori locali. Nel 1813 

i difetti della prima catastazione erano dunque sotto gli occhi di tutti, rendendo 

improrogabile una rettifica del lavoro già intrapreso e, soprattutto, la redazione delle 

annunciate mappe geometriche 19 . 

Per quanto riguarda in particolare la capitale, si comprese come, specie a seguito 

delle imponenti opere pubbliche promosse dai napoleonidi sui soppressi beni feudali 

e conventuali, la città risultasse profondamente trasformata rispetto ai primi anni 

del governo francese e quindi fosse fortemente mutato il regime fondiario. Così, allo


scopo di regolare la contribuzione relativa ai fabbricati della città, a partire dal 1814 

furono redatti nuovi «stati delle sezioni», distinguendo questa volta tra fabbricati e 

terreni. Ai fini dei nostri studi tali registri risultano particolarmente interessanti 20 , in 

quanto recano precise descrizioni dell’articolazione interna degli edifici ai vari livelli, 

e quindi della tipologia architettonica, prima dei vasti interventi urbanistici dei secoli 

XIX e XX. Si tratta di informazioni sull’intero patrimonio edilizio privato della città, 

recuperabili del resto anche per gli altri centri del Mezzogiorno attraverso le fonti 

locali del catasto «provvisorio». 

Dopo la Restaurazione, nel 1817 Ferdinando I volle proseguire sulla linea di 

un incoraggiamento della produzione agricola e della rendita fondiaria urbana nel 

Regno, stabilendo addirittura di tenere fisso l’imponibile fino al 1860. Nel 1818 fu 

avviato un aggiornamento catastale per tutti i comuni, poiché si avvertiva nuovamente 

l’urgenza delle mappe geometriche, ma si faceva ancora riferimento agli stati 

delle sezioni compilati sotto il governo francese; cosa che si sarebbe verificata persino 

in occasione dell’ultimo rilevamento catastale dell’età borbonica, condotto a partire 

dal 1840. Ma la situazione, nel Mezzogiorno, era destinata a restare immutata fino 

agli anni successivi all’Unità: a quell’epoca permaneva, nelle regioni meridionali, un 

grave deficit delle strutture fiscali, che riflettevano ancora rapporti di forza fra le classi 

più potenti e i deboli apparati amministrativi 21 . 

Nel 1860 la disparità dei sistemi di catastazione ereditati dagli Stati preunitari 

risultò subito evidente: addirittura all’interno di uno stesso Stato vigevano più catasti 

e meno della metà dei comuni della penisola erano dotati di tavole grafiche. Quando 

si trattò, quindi, di distribuire il contingente d’imposta previsto tra le varie aree del 

paese, sorsero gravi difficoltà: nel 1864 fu necessaria una legge per il conguaglio 

provvisorio e nel 1865, con la cosiddetta «legge Minghetti», l’imposta sui fabbricati 

fu unificata e distinta da quella sui terreni; sebbene di lì in avanti tale provvedimento 

divenne noto per aver sancito l’istituzione del catasto dei fabbricati nel regno d’Italia, 

in realtà esso fissò soltanto un’imposta, basata su semplici matrici e non su registri 

catastali né su mappe. Nel 1870 il ministro Quintino Sella riuscì a far approvare un 

regolamento per la formazione di un vero catasto dei fabbricati: nelle province prive 

di catasti geometrici fu allora avviato, finalmente, il rilevamento dei principali centri 

urbani, sebbene ancora con metodi disomogenei e poco aggiornati sotto il profilo 

tecnico 22 . 

Risultava a questo punto improrogabile un riordinamento dell’imposta relativa 

ai terreni. Così, dopo vari progetti presentati e discussi in Parlamento, fu finalmente 

varata la legge del 1° marzo 1886 sulla perequazione fondiaria: essa ebbe i due scopi 

fondamentali di accertare le proprietà immobili di ogni genere, tenendo conto delle 

successive mutazioni, e, appunto, di perequare l’imposta tra i vari territori dello 

Stato; fu dunque prevista la redazione del Nuovo catasto terreni in forma geometricoparticellare, 

uniforme per tutti i comuni del Regno e fondato sulla misura e sulla sti-


ma, il cui modello è da ritrovarsi nel citato catasto milanese 23 . La mappatura redatta 

a norma delle disposizioni del 1886 costituì, per molti comuni italiani, la prima rappresentazione 

integrale del territorio, risultando oggi preziosa ai fini di una precisa 

perimetrazione dei nuclei storici a seguito degli sconvolgimenti e ampliamenti del 

Novecento, nonché quale strumento d’indagine sulle tipologie urbanistiche, sulle 

fasi di sviluppo degli insediamenti e in materia di toponomastica storica 24 . 

Per Napoli le tavole di aggiornamento del Catasto fabbricati furono fatte eseguire 

dall’Ufficio tecnico di finanza tra il 1894 e il 1905 sulla base di quelle già redatte tra 

il 1865 e il 1871; nel frattempo fu avviato l’impianto del Nuovo catasto terreni, che 

fu completato tra il 1892 e il 1900 con il rilevamento mediante teodolite e la successiva 

elaborazione dei fogli di mappa alla scala di 1: 1.000 o 1: 2.000 25 . Le tavole 

del catasto fabbricati sono andate fuori consultazione solo nel secondo dopoguerra, 

in seguito all’attivazione del Nuovo catasto edilizio urbano, mentre quelle del catasto 

terreni sono tuttora in visura: si tratta, in entrambi i casi, di mappe degne di far parte, 

a pieno titolo, del repertorio della cartografia storica della città. 

Alfredo Buccaro 

1 Cfr. sull’argomento R. ZANGHERI, I catasti, in Storia d’Italia, vol. V: Documenti, Torino, Einaudi, 

1973, pp. 762 e sgg.; M. OLIVIERI, I catasti all’Unità d’Italia, in Città e proprietà immobiliare in Italia 

negli ultimi due secoli, a cura di C. Carozzi-L. Gambi, Milano, F. Angeli, 1981, pp. 47 e sgg. Su questi 

temi abbiamo recentemente partecipato al convegno internazionale su Les systèmes cadastraux en France et 

en Europe aux XIX e et XX e siècles (Bercy, Paris, 20-21 jan. 2005) - i cui atti sono in corso di pubblicazione 

- con una relazione dal titolo: Les cadastres italiens avant et après l’Unité: l’Italie du Sud pendant la période 

napoléonienne et sous les Bourbons. 

2 R. ZANGHERI, I catasti, cit., p. 767. 

3 Ivi, pp. 768-806, in cui è un ampio excursus sui sistemi catastali preunitari italiani e sul dibattito 

che animò la materia tra Sette e Ottocento. Si veda ancora M. OLIVIERI, I catasti, cit., pp. 47-61. 

4 R. ZANGHERI, I catasti, cit., pp. 778-784. 

5 M. OLIVIERI, I catasti, cit., pp. 48-49. 


7 M. OLIVIERI, I catasti, cit., pp. 64-65. 


9 Ivi, pp. 774-778. 

10 G. ALISIO-A. BUCCARO, Napoli millenovecento. Dai catasti del XIX secolo ad oggi: la città, il suburbio, 

le presenze architettoniche, Napoli, Electa Napoli, 2000. Cfr. pure A. BUCCARO, Recenti acquisizioni per 

una storia dei catasti a Napoli e nel Mezzogiorno: dalla descrizione alla rappresentazione del tessuto urbano, 

in L’Europa moderna. Cartografia urbana e vedutismo, a cura di C. de Seta-D. Stroffolino, Napoli, Electa 

Napoli, 2001, e ID., Città ed evoluzione della consistenza immobiliare tra Sette e Ottocento: i catasti 

napoletani, «Città e storia», n.s., I, 2004, n. 0, Atti del II Congresso dell’Associazione Italiana di Storia 

Urbana (Roma, 24-26 giugno 2004). 

11 Si veda in particolare la documentazione conservata, per l’intero territorio del Regno, in ARCHIVIO 

DI STATO DI NAPOLI (d’ora innanzi ASNa), Catasto onciario. 

12 A. BUCCARO, Il sistema catastale nello Stato napoletano e in Italia: dal metodo “descrittivo” murattiano 

al rilevamento geometrico-particellare postunitario, in G.C. ALISIO-A. BUCCARO, Napoli millenovecento, 

cit., p. 21. 

13 A. GENOVESI, Delle lezioni di commercio o sia d’economia civile, Napoli, 1770, vol. II, p. 485.


14 R. ZANGHERI, I catasti, cit., p. 768. 

15 Sull’argomento vedi T. COLLETTA, Napoli. La cartografia pre-catastale, «Storia della Città», 1987, 

34-35, pp. 5-177. 

16 ASNa, Atti superstiti della decima, f.lo 4/16, foll. vari. Si veda A. BUCCARO, Il sistema catastale, 

cit., p. 22. 

17 U. BILE, Luigi Marchese Ingegnere Camerale, in Napoli 1804. I siti reali, la città, i casali nelle piante 

di Luigi Marchese, catal. della mostra (Napoli, 21 dic. 1990-3 mar. 1991), Napoli, Electa Napoli, 1990, 

p. 22. Le planimetrie dei casali rilevati dal marchese sono conservate presso il Museo campano di Capua 

e pubblicate in Napoli-Spagna. Architettura e città nel XVIII secolo, a cura di A. Gambardella, Napoli, Ed. 

Scientifiche italiane, 2003; si veda in particolare O. CIRILLO, “A nord del Vesuvio”: i casali di Somma nelle 

piante di Luigi Marchese. Insediamenti rurali e monastici, in Napoli-Spagna, cit., pp. 293-315. 

18 A. BUCCARO, Il sistema catastale, cit., pp. 25 e sgg. 

19 Ivi, p. 25. 

20 ASNa, Catasto provvisorio della città di Napoli, «Stati delle Sezioni». Per una precisa descrizione 

dei contenuti e dell’utilità dei volumi, si veda A. BUCCARO, Il sistema catastale, cit., pp. 30-31. Riguardo 

all’uso di tale documentazione per un’analisi storico-tipologica dell’edilizia nobiliare sette-ottocentesca, 

cfr. ID. Modelli funzionali della residenza nobiliare napoletana: le fonti catastali, in L’uso dello spazio 

privato nell’età dell’Illuminismo, a cura di G. Simoncini, 2 voll., Firenze, Olschki, 1995, vol. II, pp. 

455-475. 

21 A. BUCCARO, Il sistema catastale, cit., pp. 26-27. 

22 Ibidem. 

23 Ivi, p. 28. 

24 Un’applicazione dello strumento cartografico catastale postunitario è stata da noi proposta, ad 

esempio, in Le città nella storia d’Italia. Potenza, a cura di A. Buccaro, Roma-Bari, Laterza, 1997, 

passim. 

25 Si veda, per maggiori approfondimenti e per la riproduzione integrale delle tavole originali del 

catasto terreni postunitario, G.C. ALISIO-A. BUCCARO, Napoli millenovecento, cit., passim. Nel volume 

sono pure contenute sovrapposizioni grafiche, redatte al computer, tra le piante catastali di fine Ottocento 

e il rilievo attuale dei quartieri urbani, oltre alle aerofotografie storiche e a un indice toponomastico con 

l’elenco completo delle presenze naturali, architettoniche e industriali rilevabili nelle mappe.


Fig. 1 - G. Filippini, Mappa Catastale della città di Milano, 1722. Milano, Direzione 

dell’Ufficio Tecnico Erariale (Catasto), sala Ispettore di zona. 

Fig. 2 - Catasto Piano della città di Roma, 1819-24; foglio relativo al Rione Pigna. Roma, 

Archivio di Stato.


Fig. 3 - Catasto onciario della città di Caserta, 1749. Napoli, Archivio di Stato.


Fig. 4 - G. Sacco, Platea del territorio de «Le Celse» (fine sec. XVII). Napoli, Archivio di 

Stato.


Fig. 5 - Platea del territorio dei principi di Bisignano a Napoli (inizi sec. XVIII). Napoli, 

Archivio di Stato.


Fig. 6 - Catasto provvisorio o «francese» della città di Napoli, 1814. Registro dello stato di 

sezione del quartiere Chiaia. Napoli, Archivio di Stato.

Fig. 8 - Ufficio Tecnico di Finanza, Impianto del catasto terreni della città di Napoli (1895-1900). Quartiere S. Ferdinando. Napoli, 

Agenzia del Territorio del Ministero delle Finanze. 

506 ALFREDO BUCCARO


MAPPE CATASTALI DELLA PROVINCIA DI NAPOLI 

NEL XIX SECOLO 

La complessa storia della realizzazione di un catasto grafico per la città di Napoli 

è stata di recente indagata in una monografia curata da Giancarlo Alisio e Alfredo 

Buccaro, che hanno messo in evidenza l’importanza di un fondamentale strumento 

di conoscenza della struttura urbana del capoluogo campano 1 . 

Non altrettanto nota e studiata è, invece, l’elaborazione di mappe geometricoparticellari 

per i comuni della provincia napoletana: in questi ultimi anni la vicenda 

si è anche arricchita di importanti acquisizioni cartografiche. La questione “provinciale” 

risulta ancora più interessante perché, come si vedrà, le più antiche planimetrie 

catastali di Napoli sono andate perdute nel secondo dopoguerra. Inoltre, per tutta 

l’età moderna, la città fu esentata da tributi di natura fiscale, sia durante il viceregno 

spagnolo (1503-1707) che austriaco (1707-1734) 2 . Nel primo periodo borbonico la 

situazione non venne modificata, neppure in seguito all’introduzione, datata 1741, 

del cosiddetto catasto “onciario”, avviata dal primo dei Borbone, Carlo (1734-1759). 

Questa forma di imposizione fiscale tassava i prodotti agricoli in base al peso (che, 

all’epoca, aveva quale unità di misura l’oncia), attraverso un complesso sistema di 

calcolo. Anche questo tipo di prelievo fiscale non fu previsto per la capitale ed in ogni 

caso non contemplava la realizzazione di grafici 3 . 

Nel più generale quadro italiano nel Settecento il primato per la realizzazione sistematica 

di mappe allegate ai volumi catastali spetta alla città di Milano: l’operazione di rilevamento, 

ispirata dagli austriaci e realizzata nel 1718 sotto il regno di Carlo VI, fu coordinata 

da un napoletano, Vincenzo De Miro, che avviò la misurazione in scala dell’intero 

territorio. Il progetto, interrotto nel 1733, fu ripreso nel 1749 da Maria Teresa d’Austria e 

portato a termine dalla Giunta presieduta da Pompeo Neri; proprio per essere stato ultimato 

dalla figlia di Carlo VI è ricordato come catasto teresiano. La cifra e l’importanza dei 

rilievi, al di là dei fini meramente fiscali, si evincono dalla volontà delle truppe austriache 

− in ritirata da Milano nel 1733 − di portare con sé le preziose cartografie 4 . 

Un analogo progetto di rilevamento fiscale del territorio, a cavallo tra le due 

iniziative del milanese, era stato promosso negli stati sabaudi a partire dal 1728 da 

Vittorio Amedeo II, re di Sardegna. Il risultato raggiunto nel 1738, a soli dieci anni

508 

MARCO IULIANO 

dall’istituzione, è infatti straordinario: le mappe restituiscono l’immagine di tutti i 

comuni della Savoia nel primo Settecento 5 . Infine non può essere dimenticata, per la 

stretta relazione con il Regno di Napoli, la realizzazione del catasto grafico dei ducati 

di Parma, Piacenza e Guastalla, che doveva essere elaborata sul modello milanese. 

L’iniziativa, avviata per volontà del primo ministro borbonico Guillame Du Tillot, 

fu portata a termine per la città di Parma nel 1767 6 . 

La Decima, una prima forma di catasto grafico 

Tornando al regno borbonico, le difficoltà riscontrate nell’adozione del catasto onciario 

portarono, mezzo secolo più tardi, alla creazione di una nuova forma di imposizione 

fiscale condotta dalla Real Sovrintendenza della Decima. La Sovrintendenza fu 

istituita da Ferdinando IV nel 1796 con l’incarico di esigere 1/10 delle rendite realizzate 

da beni mobili ed immobili (sia terreni che fabbricati) nell’agro napoletano ed aversano. 

La nuova imposta sembrava non aver modificato il concetto di catasto descrittivo, ma 

recenti acquisizioni cartografiche permettono, invece, di valutare la Decima come una 

prima forma di catasto dotato di grafici, grazie ad alcune mappe rinvenute nel 2002 

presso il Museo campano di Capua e che riguardano comuni della provincia di Napoli, 

Somma Vesuviana e i suoi quattro casali: Massa, Pollena, Trocchia e Santa Anastasia 7 . 

Erano già noti da tempo una serie di pagamenti per rilievi eseguiti tra il 1800 ed 

il 1802 dal cartografo Luigi Marchese in diversi centri urbani del napoletano e della 

Terra di Lavoro (come sono ancora oggi definiti i territori della città di Caserta ed i 

suoi dintorni). Il ritrovamento delle citate cartografie scioglie definitivamente i dubbi 

che avvolgevano l’attività del Marchese, senza dubbio impegnato in un’operazione di 

natura fiscale a cavallo tra i due secoli. Assai interessante si rivela il fatto che accanto 

alle planimetrie dei casali napoletani recuperate vi siano anche una serie di volumi 

che registrano la rendita fondiaria da tassare. Questi volumi sono una scrupolosa 

Descrizione de’ territorj e rendita di essi, e nomi de’ rispettivi possidenti dove sono annotate, 

accanto ai nomi dei proprietari dei fondi, le rendite annue divise secondo 

un ordine che pone in successione 8 : territori arbustati, vitati e seminatori; giardini; 

vigneti; selve e castagneti. 

Alcuni documenti d’archivio, poi, chiariscono la successiva prassi di realizzazione 

dei registri per l’imposizione fiscale. Nel 1801, ad esempio, si specifica proprio nel 

pagamento 

al razionale D. Casimiro de’ Cristofaro ducati 600 di compenso di tutte le fatiche sue, quanto delli 

Prorazionali D. Nicola de’ Cristofaro, D. Carlo Parise, D. Giuseppe Zito, ed altri amanuensi occorseli 

per la formazione delle nuove liste di carico estratte dalle piante topografiche dell’intiero distretto di 

questa Città formate dal Regio Ingegnere D. Luigi Marchese relativamente alla rendita de’ giardini, 

paludi, e territori, come per la formazione delle pannette dei nomi e cognomi de’ possidenti 9 . 

Luigi Marchese aveva quindi realizzato una prima forma di catasto modernamente 

inteso, per i 33 casali della provincia di Napoli, per quelli della Terra di Lavoro e

MAPPE CATASTALI DELLA PROVINCIA DI NAPOLI 509 

per alcuni altri centri nei pressi della città di Aversa 10 . Le mappe, ad inchiostro ed 

acquerello, in scala di mezzo miglio italiano, sono estremamente semplici e raffinate; 

non prevedono la restituzione grafica dell’orografia dei luoghi al fine di rendere con 

estrema chiarezza le distinzioni tra le varie proprietà, tutte contrassegnate da un numero 

− una particella, diremo noi − che rimanda al registro dei proprietari. I centri 

urbani, rappresentati in rosso, sono nettamente distinti dal verde che ricopre le ampie 

campagne circostanti il nucleo abitato. Grande attenzione è prestata anche nella 

registrazione del fitto tessuto formato dalle strade di comunicazione, dalle cupe, dai 

canali di irrigazione naturali ed artificiali. 

Le piante dei casali della capitale confluirono nella Pianta topografica dell’intero 

territorio della città di Napoli suoi trentatré casali corrispondenti alle particolari piante 

in dettaglio (1802), il foglio ad inchiostro e acquerello su carta (75x116 cm) firmato 

«Luigi Marchese Regio Ing. Camerale» e datato 1802. La mappa, in scala di «miglia 

due Italiane», abbraccia un territorio che si sviluppa ad occidente oltre la pianura di 

Coroglio e dalla parte opposta fino a Torre Annunziata. Sono segnate, lungo i margini, 

le denominazioni dei territori contermini, mentre i limiti delle singole unità amministrative 

sono perimetrate attraverso una leggera acquerellatura 11 . Il documento 

è di notevole importanza perché è la prima completa testimonianza grafica della rete 

dei casali napoletani, della loro consistenza planimetrica e delle infrastrutture di collegamento, 

che segue la Topografia dell’Agro Napoletano del 1793, alla quale Marchese 

aveva lavorato. Sul lato destro è la ricca legenda esplicativa che sintetizza i dati già 

rilevati in tutte le singole piante dei casali: dalla precisa suddivisione delle coltivazioni, 

ai boschi, ai giardini. Una «fotografia» della situazione territoriale ancora legata a 

filo doppio al sistema feudale: delle 81.296 moggia del suburbio partenopeo più di 

¾ (64.733) erano di proprietà dei privati, in gran parte nobili. L’indagine topografica 

− come ricorda Luciana Arbace nell’illustrare la pianta − è 

impreziosita da un ricco apparato decorativo: il foglio è inquadrato da una delicata bordura di gusto 

neoclassico con miniature di animali su fondo scuro, ispirate agli affreschi a cammeo ercolanesi 

e pompeiani, alternate a rosette, con gigli negli angoli. In basso, il margine sinistro ospita alcuni 

elementi architettonici di scavo, circondati da vegetazione, dietro i quali si affaccia una vedutina 

della città dal mare con il Vesuvio fumante. Al centro è posta un’ara, sormontata da un putto e dallo 

stemma borbonico, cui si appoggia l’allegoria di Partenope, con ai piedi gli utensili propri della civiltà 

contadina ed altri amorini recanti fiori fasci di grano ed una cornucopia, simboli beneaugurali 

allusivi al benessere, alla fecondità ed alla fortuna 12 . 

Luigi Marchese, formatosi nell’officina cartografica del celebre geografo padovano 

Rizzi Zannoni (1736-1814) 13 , aveva da questi appreso i più aggiornati principi 

scientifici del tempo. Ciò che però lo ha reso un cartografo «completo» − come lo 

ha giustamente definito il Valerio − è stata la capacità nei suoi lavori di associare 

all’impeccabile scientificità del rilievo la finezza del tratto, l’uso dello sfumo, la raffinata 

acquerellatura e la sensibilità grafica nella redazione dei frontespizi. Queste non 

comuni doti artistiche erano maturate in Marchese nel corso della sua collaborazione

510 

Fig. 1 - Luigi Marchese, Pianta 

di Pollena casale della città di 

Somma (1802). Capua, Museo 

Campano. 

MARCO IULIANO 

Fig. 2 - Luigi Marchese, Pianta 

di Pollena casale della città di 

Somma (1802), particolare. 

Capua, Museo Campano.


con il pittore Alessandro d’Anna (1743-1810), anch’egli impiegato nell’Officina del 

Rizzi Zannoni come miniaturista e disegnatore di frontespizi e di montagne 14 . 

L’attività del Marchese, ampia e articolata, è stata oggetto di diversi contributi 

specialistici, specie in seguito alla «riscoperta», avvenuta nel 1990, di numerose planimetrie 

urbane e dei siti reali borbonici 15 ; a queste carte vanno aggiunti altri due 

lavori, una «Pianta Topografica della Città d’Isernia quasi tutta devastata dall’accaduto 

tremuoto de’ 26 luglio corrente anno 1805» e la rappresentazione planimetrica 

di San Giovanni a Teduccio «appendice del Quartiere Mercato», del 1813, entrambe 

presso la Società napoletana di storia patria 16 . 

Le mappe catastali dei casali delle province, eseguite per la Soprintendenza della 

Decima tra il 1800 ed il 1802, erano state redatte, con differente logica d’esazione, 

anche per la città di Napoli. Di tali grafici, datati 1798 e conservati sino alla II guerra 

mondiale nel museo dell’Archivio di Stato di Napoli, resta oggi solo lo splendido 

quadro d’unione, che permette di comprendere la divisione della città in «venti pezzi» 

(venti fogli), perfettamente definiti nell’estensione planimetrica 17 . 

Dal catalogo della mostra di topografia napoletana del 1930 dove furono esposti 

si comprende che le piante erano ciascuna di cm. 40x50 e che «ogni pezzo ha annesso 

l’elenco delle strade e dei vichi in esso esistenti, con la numerazione civica e coi nomi 

dei singoli proprietari» 18 . Si conosce, inoltre, un Notamento, o sia inventario delle liste 

di carico della Decima delle case in questa capitale del 1803 che non permette di stabilire 

con certezza le modalità di esazione, ma traccia una linea netta di demarcazione 

tra l’imposta fiscale in città legata alle rendite immobiliari e quella dei casali fondata 

sui redditi agricoli. Va aggiunto che, già nel 1798, Luigi Marchese si firmava regio 

ingegnere camerale, qualificandosi quindi come tecnico che affiancava la Camera 

della Sommaria, istituzione preposta alla gestione finanziaria del Regno 19 . 

Qualche considerazione va fatta anche su altre redazioni successive (1804 e 1813) 

delle piante dei quartieri di Napoli che ci sono giunte 20 . Il soprintendente di polizia 

Troiano Marulli Duca d’Ascoli nel 1803 commissionò a Luigi Marchese una nuova 

stesura delle mappe, portata a termine l’anno successivo: i documenti fiscali redatti 

nel 1798, quindi, diverranno la base per quelli di natura amministrativa 21 . 

La cartografia catastale dopo l’Unità 

Se ai Borbone va attribuita la primogenitura nella catastazione grafica dei terreni 

nel Mezzogiorno, al decennio di controllo francese nel Regno (1806-1815) si deve 

la riorganizzazione della materia fiscale, con la creazione del «catasto provvisorio», 

introdotto da Giuseppe Bonaparte tra il 1807 ed il 1814. Con le leggi dell’8 agosto 

e dell’8 novembre 1806, infatti, venne importato il modello catastale francese che 

prevedeva un’unica imposta riguardante la proprietà terriera e quella edilizia. Il rilevamento 

geometrico − che non ebbe mai luogo − avrebbe dovuto seguire una prima 

fase di natura conoscitiva sui caratteri fisici delle proprietà e degli immobili 22 .

512 

Fig. 3 - Luigi Marchese, Pianta di Trocchia 

casale della città di Somma (1802), particolare. 

Capua, Museo Campano. 

MARCO IULIANO


Nell’ambito della produzione grafica catastale borbonica, va segnalato un progetto 

di redazione di una planimetria in scala 1:5.000 portato avanti da Benedetto 

Marzolla tra il 1854 ed il 1858. Si tratta della realizzazione di una pianta parziale 

del comune di Castellammare di Stabia al fine di pervenire ad un prototipo poi replicabile 

per i segni grafici 23 ; i volumi cui rimandavano questi grafici erano proprio 

quelli del catasto provvisorio francese. Il 1854 non è una data casuale nella storia 

cartografica del Regno delle Due Sicilie: l’anno precedente, infatti, era stata ultimata 

la rettificazione del catasto fondiario in Sicilia, avviata − per quanto riguarda la 

produzione delle mappe − nel 1837 24 . L’esperienza siciliana, fortemente voluta dal 

re Ferdinando II (1830-1859), probabilmente richiedeva una più attenta omologazione 

grafica per ritenersi pienamente operativa: di qui i «saggi» affidati al Marzolla. 

Bisognerà, in ogni caso, attendere gli anni che seguono l’Unità d’Italia per assistere 

ad un rilevamento pressoché totale della città e delle province napoletane. 

Nella nuova Italia unita va sottolineata l’estrema frammentazione della produzione 

grafica di natura fiscale proveniente dagli stati d’ancien régime che lasciarono 

in eredità cartografie eterogenee per modalità di rappresentazione, rapporto di scala 

e non completa copertura territoriale, dai ducati di Parma e Piacenza allo Stato 

Pontificio, dalla Sardegna al Regno di Napoli. Proprio per la ex capitale del Regno, 

recenti documenti hanno permesso di stabilire che la prima sistematica campagna 

di lavoro fu svolta e conclusa nel 1873: portò alla rilevazione dell’intero territorio 

comunale partenopeo, operata dall’ingegnere Luigi Mazzoni 25 . Pare interessante notare 

che lo stesso Mazzoni predispose la sua opera di rilevamento urbano riferendosi 

al catasto descrittivo di murattiana memoria, costituendo un importante nesso con 

lo strumento fiscale «importato» dai francesi. In questa prospettiva la catastazione 

descrittiva del territorio poteva essere realmente considerata il primo e propedeutico 

passo alla redazione dei grafici che nel corso del decennio non ebbe luogo per evidenti 

problemi di tempo. Senza entrare nel merito del farraginoso quadro legislativo 

italiano post-unitario 26 , si limiterà l’analisi al citato 1873, anno in cui fu emanata 

una norma attraverso la quale il Ministero delle Finanze predisponeva il rilevamento 

geometrico-particellare dei centri urbani con più di 6.000 abitanti 27 . In questo ambito 

ricade la produzione cartografica per i comuni della provincia di Napoli, avviata 

nel 1874. L’attuale sede napoletana dell’Agenzia del Territorio del Ministero delle 

Finanze conserva gran parte delle mappe realizzate in quell’occasione, di straordinario 

interesse sia come documento − i coevi rilievi operati per Napoli, ad esclusione 

di qualche brandello, non sono più presenti − sia come strumento di conoscenza e 

pianificazione del territorio 28 . 

alla pagina successiva 

Fig. 4 - Luigi Marchese, Pianta topografica dell’intero territorio della città di Napoli e suoi 

trentatré casali corrispondenti alle particolari piante in dettaglio (1802). Napoli, Museo 

Nazionale di Capodimonte, Gabinetto Disegni e Stampe.

514 

MARCO IULIANO


Tab. 1 - Le mappe del catasto fabbricati della provincia di Napoli (1874-1882) 

Comune Rilievo Fogli Rettifica 

Barra 1874-1875 21 1877 

Marano 1874-1875 4 

Portici 1874-1875 21 1877 

Pozzuoli [1874] 7 

Resina (Ercolano) 1874 16 1877 

San Giorgio 1874-1875 14 1877 

San Giovanni a Teduccio 1874 19 1877 

Sant’Anastasia 1874 6 1877 

Sant’Antimo 1874 4 

Secondigliano 1874 8 

Torre del Greco 1874-1875 45 e 2 allegati 1877 

Afragola 1875 6 1877 

Caivano 1875-1876 6 

Castellammare 1875-1876 30 1877 

Frattamaggiore 1875-1876 4 1877 

Giugliano 1875 6 

Gragnano 1875-1876 8 1877 

Pomigliano 1875-1876 9 

Ponticelli 1875 9 1877 

Torre Annunziata 1875 20 1877 

Meta di Sorrento 1877 7 1878 

Casalnuovo 1878-1879 6 

Grumo Nevano 1878-1879 4 

Ottaviano 1878-1881 9 e 31 allegati 

Cardito con Carditello 1879 4 e 1 allegato 

Piano di Sorrento 1879 15 

Poggiomarino 1879 13 

Vico Equense 1879-1880 11 

Boscoreale 1880 8 e 8 allegati 

Boscotrecase 1880-1881 17 e 2 allegati 

Ischia 1880-1881 9 e 2 allegati 

Sant’Agnello 1880-1881 10 e 2 allegati 

Sorrento 1880 13 e 6 allegati 

Massa Lubrense 1882 6 e 30 allegati 

Mugnano 1882 2 

Casamicciola s.d. 13

516 

MARCO IULIANO 

Attraverso le cartografie può essere perimetrato il nucleo storico di questi comuni, 

passo necessario per la conservazione della memoria urbana e per la riappropriazione 

dell’identità che spesso questi centri hanno perso: dagli antichi toponimi 

alla definizione del rapporti con la morfologia dei luoghi, fino alla comprensione 

dell’uso dello spazio fisico 29 . 

I 36 comuni, rilevati nella scala di 1:1.000, sono elaborati a china e acquerello 

su di un supporto della dimensione di 55x70 cm. Presentano sempre un foglio con 

frontespizio sul quale è individuato il «Comune Censuario» di appartenenza, gli 

ingegneri ed i tecnici impegnati nell’opera di rilevamento, gli anni di realizzazione e 

gli eventuali aggiornamenti. Sulla parte destra del foglio con il frontespizio è anche 

il «Modello per l’unione dei fogli rettangoli» (il quadro d’unione), nel quale è spesso 

raffigurato il rilievo del centro urbano ad una scala maggiore. I singoli fogli, numerati 

in alto a sinistra, presentano l’acquerellatura degli edifici in rosa ed i numeri di 

particella a china nera; le fabbriche religiose acquerellate in rosso (contrassegnate da 

una croce e da una lettera), il tracciato viario in giallo, i corsi d’acqua ed i pozzi in 

azzurro. In pochissimi casi è conservato il prezioso «Foglio del Rilievo Planimetrico», 

nel quale è tracciata la rete di triangolazione e sono individuati i «punti fiduciali» 

necessari alla corretta e scientifica esecuzione delle mappe. 

Il catasto fabbricati, poi aggiornato a cavallo tra i due secoli − di questa seconda 

elaborazione è ancora presente il rilievo della città di Napoli −, precede senza dubbio la 

costituzione del catasto terreni avviata in seguito alla legge del 1 marzo 1886 sulla perequazione 

fondiaria: forse una delle poche leggi cui fece seguito una corposa campagna 

di rilevamento in scala 1:2.000, per Napoli e provincia, tra il 1893 ed il 1900 30 . 

Il confronto tra queste diverse redazioni si rivela uno strumento insostituibile per la 

conoscenza dell’evoluzione dei centri urbani prima degli interventi di trasformazione 

tra le due guerre e della cementificazione selvaggia del secondo dopoguerra. Uno strumento 

di analisi che qualsiasi programma urbanistico deve tenere nella dovuta considerazione, 

perché, come scriveva Carlo Afan de Rivera nel 1813, «il primo passo che 

una Nazione deve dare verso la sua cultura morale, la sua prosperità, il suo ingrandimento 

e la sua politica consistenza, è fuori dubbio quello della formazione d’un esatto 

catasto» 31 : un pensiero che rende l’eredità cartografica ancora più preziosa. 

alla pagina seguente 

Marco Iuliano 

Fig. 5 - Antonio Foggini - Oreste Calanca, Torre Annunziata, Modello per l’unione dei fogli 

rettangoli (1876). Napoli, Agenzia del Territorio. 

Fig. 6 - Antonio Foggini - Oreste Calanca, Torre Annunziata, foglio n°8 (1876). Napoli, 

Agenzia del Territorio.

MAPPE CATASTALI DELLA PROVINCIA DI NAPOLI 517

518 

MARCO IULIANO 

1 G. ALISIO-A. BUCCARO, Napoli Millenovecento. Dai catasti del XIX secolo ad oggi: la città, il suburbio, 

le presenze architettoniche, Napoli, Electa Napoli, 2000, e in forma più sintetica, A. BUCCARO, Città ed 

evoluzione della consistenza immobiliare tra Sette e Ottocento: i catasti napoletani, «Città e storia», 2004, 

n.s., (numero zero), pp. 23-30. Cfr. inoltre i saggi (in corso di pubblicazione) di A. BUCCARO, Le cadastres 

italiens avant et après l’Unité: l’Italie du Sud pendant la période napoléonienne et sous les Bourbons, e 

M. IULIANO, Le cadastre de Naples et de la province, Atti del convegno Les systemès cadastraux en France 

et en Europe aux XIX e et XX e siécles (Paris, Ministère de l’Économie des Finances et de l’Industrie, 20-21 

gennaio 2005). 

Per un inquadramento generale sulla cartografia catastale cfr. R.J.P. KAIN-E. BAIGENT, The cadastral 

map in the service of the state: a history of property mapping, Chicago-London, Chicago University Press, 

1992; per il contesto italiano R. ZANGHERI, I catasti, in Storia d’Italia, vol. V: I Documenti, Torino, 

Einaudi, 1973, pp. 759-856. Per l’approfondimento della vicenda catastale nel più ampio contesto 

della produzione cartografica meridionale, cfr. V. VALERIO, Società uomini e istituzioni cartografiche nel 

Mezzogiorno d’Italia, Firenze, Istituto Geografico Militare, 1993, passim. 

2 Per questa tipologia di produzione grafica, precedente la realizzazione delle mappe geometricoparticellari, 

cfr. T. COLLETTA, Napoli. La cartografia storica precatastale, «Storia della città. Rivista internazionale 

di storia urbana e territoriale», nn. 34-35, 1985, pp. 5-178. 

3 L. BARIONOVI, La formazione del catasto onciario in Il Mezzogiorno Settecentesco attraverso i catasti 

onciari, Napoli, Centro Studi Antonio Genovesi, 1983, pp. 117-134; G. DELILLE, De la statistique au 

‘nominatif’: l’example des cadastres du royaume de Naples, in Les cadastres anciens des villes et leur traitment 

par l’informatique, a cura di J.L. Biget-J.C. Hervé-Y. Thébert, Rome, École française de Rome, 1989, 

pp. 457-464. 

4 Sul catasto milanese cfr. S. DELLA TORRE, Le mappe “teresiane”: dalla misura al segno grafico, La 

misura generale dello Stato. Storia e attualità del catasto di Maria Teresa d’Austria nel territorio di Como, 

(catalogo della mostra, Como 1980), Como, New Press, 1980, pp. 31-39 e G. LIVIA-M. SAVOJA-M. 

SIGNORI, L’immagine interessata: territorio e cartografia in Lombardia tra Cinque e Ottocento, Milano, 

Archivio di Stato di Milano, 1984. 

5 Cfr. I. RICCI-M. CARASSI, I catasti piemontesi del XVIII e XIX secolo da strumento di politica fiscale 

a documento per la conoscenza del territorio, in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di 

Sardegna 1773-1861, (catalogo della mostra, Torino 1980), 3 voll., Torino, Electa, 1980, vol. III, pp. 

1190-1197; P. GUICHONNET, Le cadastre savoyard de 1738 et son utilisation pour les recherches d’histoire et 

de geographie sociales, «Revue de geographie alpine», XLIII, 1955, 2, pp. 255-298 e M. BRUCHET, Notice 

sur l’ancien cadastre de Savoie. Nouvelle édition, complétée et mise à jour par J.Y. Mariotte et R. Gabion 

précédée d’une étude de Paul Guichonnet, Annecy, Archives départementales, 1977, (Sources et methodes 

de l’histoire de la Savoie, I). 

6 P. ZERMANI, Rappresentazione e ingegneria del territorio negli Stati Parmensi sotto i primi Borbone, 

«Storia della città. Rivista internazionale di storia urbana e territoriale», n. 19, 1981, pp. 37-52. Non mi 

pare sia stata messa in relazione questa catastazione dello stato borbonico con quella che verrà avviata 

pochi anni più tardi nel napoletano; si tenga conto che nel 1793 delle 640.000 «biolche» del Parmigiano 

ne erano state misurate 127.000; inoltre, erano state emanate disposizioni ed istruzioni a stampa ad uso 

dei rilevatori nel 1777, poi integrate ed aggiornate nel 1781 e nel 1793. 

7 Cfr. D. JACAZZI, La Regia Giunta della Decima e le planimetrie di Luigi Marchese dei casali di Somma, 

in Napoli-Spagna. Architettura e città nel XVIII secolo, Atti del convegno (Napoli 2001), Napoli, 

Edizioni Scientifiche Italiane, 2002, pp. 317-332; per la descrizione delle altre mappe cfr. nello stesso 

volume O. CIRILLO, “A nord del Vesuvio”: i casali di Somma nelle piante di Luigi Marchese. Insediamenti 

rurali e monastici, pp. 293-313 e M.G. PEZONE, I casali di Pollena e Trocchia nelle piante di Luigi Marchese 

e gli interventi borbonici per la “lava di Pollena”, pp. 333-345. Cfr. anche le 5 piante conservate presso 

il Fondo manoscritti del museo di Capua: buste numero 541 (Pianta di S. Anastasia casale della città di 

Somma, cm 183x160), 543 (Pianta di Pollena casale della città di Somma, cm 107x170), 544 (Pianta di 

Massa casale della città di Somma, cm. 144x102), 545 (Pianta di Trocchia casale della città di Somma, cm 

107x107), 546 (Pianta della città di Somma, 166x201). 

8 O. CIRILLO, “A nord del Vesuvio”, cit., p. 293 e p. 311, nota 6.


9 D. JACAZZI, La Regia Giunta della Decima, cit., p. 329, nota 41. 

10 Ecco l’elenco dei pagamenti per alcune piante dei casali della provincia di Napoli consegnate dal 

Marchese tra il 1800 ed il 1802 riportato in U. BILE, Luigi Marchese Ingegnere Camerale, in Napoli 1804. 

I siti reali, la città, i casali nelle piante di Luigi Marchese (catalogo della mostra, Napoli 1990-1991), 

Napoli, Electa Napoli, 1990, p. 23 (note 9 e 11). 1800: San Giorgio a Cremano, San Pietro a Patierno, 

Casavatore, Secondigliano, Ponticelli. 1801: Miano, Resina, Piscinola, Marianella, Polvica, Chiaiano, 

Mugnano, Panecuocolo, Melito, Casandrino, Marano, Nevano, Arzano, Grumo, Frattamaggiore, Massa 

di Somma, Casalnuovo, Casoria, Torre Annunziata, Afragola, San Sebastiano, Boscoreale. 1802: 

Boscotrecase, Torre del Greco, Pollena, Trocchia, Sant’Anastasia, Somma, Pozzuoli. Per l’elenco delle 

piante degli altri casali cfr. U. BILE, cit., note 13-14, p. 23. 

11 Sulla problematica vicenda dell’evoluzione dei casali si rimanda a I casali di Napoli, a cura di C. 

de Seta, Roma-Bari, Laterza, 1989 2 . 

12 L. ARBACE, scheda in Napoli 1804, cit., pp. 62-63 e nello stesso volume ID., Note sull’apparato 

decorativo delle piante di Luigi Marchese, pp. 31-41. 

13 Cfr. G. MANGANI, Giovanni Antonio Rizzi Zannoni, in Professori e scienziati a Padova nel Settecento, 

a cura di S. Cesellato-L. Sitran Rea, Padova, Antilia, 2002, pp. 689-697, con elenco delle opere a 

stampa e repertorio bibliografico. Per gli studi sull’attività del Marchese si veda la nota successiva. 

14 V. VALERIO, Società uomini, cit., pp. 485-488. Sull’attività dell’Officio si veda la sintesi di V. VA- 

LERIO, Vicende politiche e attività scientifiche dell’Officio Topografico di Napoli, in Civiltà dell’Ottocento. 

Architettura e urbanistica, a cura di G. Alisio, Napoli, Electa Napoli, 1997, pp. 169-180. 

15 Cfr. E. RE, La cartografia di Napoli. Le piante dei dodici quartieri di Luigi Marchese, «Bollettino del 

Comune di Napoli», nn. 5-6, 1930 e ID., Luigi Marchese nella cartografia napoletana della fine del ‘700 e 

il principio dell’ ‘800, in Atti dell’XI Congresso Geografico Italiano, II, Napoli, Giannini, 1930, pp. 277- 

279; G. ALISIO-V. VALERIO, Cartografia napoletana dal 1781 al 1889. Il Regno, Napoli, la Terra di Bari 

(catalogo della mostra, Napoli-Bari, 1983-1984), Napoli, Prismi, 1983; V. VALERIO, Luigi Marchese, tecnico 

ed artista dell’Ancien Régime, in Civiltà dell’Ottocento, cit., pp. 163-171; ID., Costruttori d’immagini. 

Disegnatori, incisori e litografi nell’Officio Topografico di Napoli, Napoli, Paparo, 2002, pp. 117-119. 

16 Le piante sono state ritrovate nel corso dell’indagine sulle rappresentazioni storiche dei centri 

urbani in Campania, realizzata dal Centro di ricerca sull’iconografia della città europea con il finanziamento 

della regione Campania. Si tratta della «Pianta Topografica dei Territorj di S. Gio. a Teduccio 

Appendice del Quartiere Mercato», firmata in basso a destra «Luigi Marchese 1813» e della «Pianta Topografica 

della città d’Isernia» conservate presso la Società Napoletana di Storia Patria; cfr. M. IULIANO, 

scheda in Iconografia delle città in Campania. Napoli e i centri della provincia, a cura di C. de Seta-A. 

Buccaro, Napoli, Electa Napoli, 2006, pp. 156-158. 

17 Cfr. G. ALISIO, Indice dimostrativo della pianta della città di Napoli divisa in venti pezzi, ognuno dei 

quali colla denominazione, e numero corrisponde al pezzo della pianta in dettaglio come esiste nel presente 

anno 1798, in G. ALISIO-V. VALERIO, Cartografia napoletana, cit., p. 169 e Vedute napoletane della Fondazione 

Maurizio e Isabella Alisio, Napoli, Electa Napoli, 2001, p. 43. 

18 Cfr. F. RUBINO-MAZIOTTI, Catalogo della mostra di topografia napoletana in onore di Bartolomeo 

Capasso, Napoli, Industrie tipografiche ed affini, 1930 e L. DI MAURO, scheda, in Napoli 1804, cit., 

pp. 90-91. 

19 Cfr. U. BILE, Luigi Marchese Ingegnere Camerale, cit., p. 18. 

20 Queste non coincidono con la ripartizione in 20 pezzi, bensì suddividono la città in 12 quartieri 

assecondando una disposizione del 6 gennaio 1779; cfr. G. ALISIO, La cartografia napoletana dell’Ottocento, 

in ID., Napoli nell’Ottocento, Napoli, Electa Napoli, 1992, pp. 8-9. 

21 Cfr. sul tema B. MARIN, Découpage de l’espace et contrôle du territoire urbain: les quartiers de police 

à Naples (1779-1815), «Mélanges de l’École française de Rome. Italie et Méditerranée», CV, 1993, 2, 

pp. 349-374 e EAD., Rappresentare i quartieri : amministrazione e cartografia. Prime riflessioni su Parigi, 

Madrid e Napoli, in Tra Oriente e Occidente (atti del convegno, Napoli, 2003), a cura di C. De Seta, 

Napoli, Electa Napoli, 2004, pp. 55-66. 

22 Cfr. A. BUCCARO, Il sistema catastale nello Stato napoletano e in Italia: dal metodo “descrittivo” 

murattiano al rilevamento geometrico-particellare postunitario, in Napoli Millenovecento, cit., pp. 23-25;

520 

MARCO IULIANO 

C. DE SETA, Rendita e trasformazioni urbane a Napoli nell’Ottocento. I catasti urbani dal 1806 al 1865, 

«Storia urbana», 1977, 2, pp. 127-144. 

23 Cfr. V. VALERIO, scheda, in G. ALISIO-V. VALERIO, Cartografia napoletana, cit., p. 157. Cfr., inoltre, 

B. MARZOLLA, Sulle carte geometriche dei comuni da servire di base alla statistica generale alla costruzione 

della carta amministrativa ed al definitivo catasto de’ reali dominii continentali del Regno delle Due Sicilie, 

Napoli, Tipografia del R. Ministero dell’Interno, 1854. 

24 Le mappe catastali hanno datazioni tra il 1837 ed il 1853 e sono state realizzate sulla base del 

real decreto per la rettifica del catasto fondiario dell’8 agosto 1833; cfr. T. CANNAROZZO, Storia e cultura 

del territorio nelle mappe disegnate per la riforma del catasto siciliano, in Le mappe del catasto borbonico di 

Sicilia. Territori comunali e centri urbani nell’archivio cartografico Mortillaro di Villarena (1837-1853), 

a cura di E. Caruso-A. Nobili (catalogo della mostra, Palermo 2001), Palermo, Regione Sicilia, 2001, 

pp. 11-32. 

25 Per queste nuove acquisizioni documentarie relative alla città di Napoli si veda, in questa stessa 

rivista, il saggio di Maria Concetta Migliaccio sulla città di Aversa. Ringrazio la collega che mi ha gentilmente 

messo a disposizione i carteggi da lei consultati nel fondo Presidenza del Censo dell’Archivio di 

Stato di Roma. Si rimanda al testo citato per tutte le indicazioni archivistiche del caso. 

26 Cfr. A. BUCCARO, Sistema catastale nello Stato napoletano e in Italia, in Napoli Millenovecento cit., 

pp. 21-32; in particolare, per l’analisi il quadro normativo attentamente ordinato, pp. 27-28. 

27 Per le operazioni necessarie al rilevamento delle mappe, dettate dalle norme del 20 marzo 1873, 

cfr. V. FRANZESE, Formazione delle mappe catastali, in M. ROSI, Napoli nella cartografia storica, Napoli, 

Tipografia Giannini, 1997, pp. 53-54, passim: «Il rilievo di ciascuna mappa si divideva in due parti: la 

prima era riservata al rilievo del perimetro stradale e degli isolati. La seconda parte era destinata al rilievo 

delle singole proprietà di cui si componeva l’isolato. […] Compiuta la costruzione in lapis della mappa 

si accertava, mediante revisione, che tutto il rilievo fosse esattamente figurato, per poi passare alla fase 

di delineazione in nero e alla colorazione della singola particella». 

28 L’elenco dei comuni interessati è nella tabella allegata al presente testo. 

29 Con la cattedra di Storia dell’urbanistica della facoltà di Architettura dell’Università di Napoli 

Federico II abbiamo avviato diverse tesi di laurea dedicate a questi temi. Ringrazio l’architetto Paolo 

Fiordoro dell’agenzia del Territorio di Napoli che ha sempre supportato l’attività di ricerca. 

30 Questo nuovo modello catastale fu presentato dal Ministero delle finanze-Direzione generale 

del catasto anche all’Esposizione universale; cfr. Notice sur la formation du nouveau cadastre Italien, loi 

du 1 mars 1886, pour l’Exposition universelle de 1900, Rome, Impr. Elzevirienne De La Veuve Adelaide 

Pateras, 1900. 

31 Cfr. V. VALERIO, Cartografia napoletana, cit., p. 157. Interessanti approcci all’utilizzazione dei 

catasti sono in G. CANIGGIA, Lo studio dei catasti storici per la ricerca e la pianificazione urbanistica, in 

La misura generale dello Stato, cit., pp. 51 sgg.; Les cadastres anciens des villes et leur traitment par l’informatique, 

cit.


BRANI DI CITTÀ MEDIEVALE NELLA INEDITA CARTOGRAFIA 

CATASTALE DI AVERSA DEL 1876 

Il rilevamento urbano nelle province meridionali: l’organizzazione amministrativa 

La redazione della mappa catastale di Aversa rappresenta un’occasione di ricerca 

per la storia urbana, al fine di seguire in dettaglio lo sviluppo del rilevamento di quei 

centri urbani sprovvisti di mappa, per i quali, in seguito alla promulgazione di leggi e 

regolamenti per la formazione del Nuovo Catasto de fabbricati, negli anni successivi 

all’Unità di Italia, si provvide alla dotazione di questo indispensabile strumento di 

ricognizione e lettura del territorio. 

In seguito al congresso di Firenze del 1873, il Ministero delle Finanze, attraverso 

la Direzione generale delle Imposte Dirette e del Catasto, comunicò all’ufficio della 

Direzione del Censo di Roma la disposizione che si provvedesse al rilevamento parcellare 

dei centri urbani superiori ai 6.000 abitanti nelle province meridionali. 

Diviso, dunque, il territorio del Regno delle due Sicilie nelle quattro province di 

Caserta, Benevento, Avellino, Salerno che facevano capo alla città di Napoli, gli uffici 

competenti avviarono le procedure amministrative. L’ispettore censuale di Roma 

Luigi Mazzoni, preposto alle ispezioni censuali di Roma e della provincia romana, 

fu designato, per il buon esito dei lavori di rilevamento nelle province meridionali 

«garante la ben nota abilità e il provato zelo» 1 , a dirigere l’operazione del Nuovo 

Catasto urbano di Napoli. Mazzoni nell’eseguire lo «spinosissimo compito» 2 di rilevamento 

dei centri minori, nonché della città partenopea, coordinò una squadra di 

operatori composta dai tre periti geometri censuali Giustiniani, Abati e Imperiali 3 , 

forniti dall’ufficio della Direzione del Censo di Roma. Ai tre geometri si aggiunsero, 

in seguito, gli applicati tecnici Eduardo Banfi e Luigi Mentasti. La carenza di personale, 

già impegnato nelle campagne di rilievo nelle province romane, obbligò al 

reclutamento di tredici rilevatori distaccati dalla giunta del Censimento di Milano 

che, arrivati a Napoli nell’aprile del 1873, iniziarono senza indugio i lavori di rilevamento. 

Canne triplometriche e catene per misuratori furono fornite all’intera 

squadra dalla giunta del censimento di Milano e somministrate in base alla richieste 

del dirigente Mazzoni. Gli operatori distaccati dell’ufficio della Direzione del Censo 

di Roma erano muniti in proprio della tavoletta pretoriana 4 .

522 MARIA CONCETTA MIGLIACCIO 

I lavori di rilevamento dei centri urbani avrebbero dovuto compiersi nell’arco di sei 

mesi. La campagna di rilievo presentò non poche difficoltà considerata anche l’estraneità 

dei luoghi agli operatori, che spesso ricorsero a canneggiatori locali. Una parte delle 

operazioni di rilevamento di Napoli 5 si concluse nel dicembre del 1873 e le operazioni 

di rilevamento dei centri urbani delle province ripresero nella primavera del 1874. Il 

caso di Aversa si concluse in circa sei mesi (5 agosto 1875-29 febbraio 1876) grazie 

agli ingegneri Enrico Regali e Salvatore Sebregondi, applicati dell’ufficio Tecnico di 

Finanza. Più tardi, nell’aprile del 1876, il disegnatore Gaetano Marschitzeh provvide 

alla copiatura della mappa catastale in conformità a quella originale, così come accertato 

dal funzionario Nemesio Abati e dal reggente l’ufficio di Stralcio della soppressa 

Direzione del Censo di Roma, ingegnere Luigi Mazzoni. 

Con la soppressione della Direzione del Censo, avvenuta il 23 dicembre del 

1875 6 , si formò l’ufficio di Stralcio della Direzione del Censo di Roma 7 . Gli atti di 

identificazione dei fabbricati dei centri urbani si trasmettevano all’ufficio di Stralcio 

della cessata Direzione del Censo da parte dei dirigenti delle ripartizioni delle province, 

previo avviso all’intendente di Finanza. Gli atti si componevano del sommarione 

con la relativa appendice, delle mappe – costituite dall’insieme dei fogli rettangolari 

e dal modello di unione degli stessi, in versione originale e in copia – e del repertorio 

dei numeri di mappa, dell’elenco delle strade che veniva trasmesso dal sindaco, dell’indice 

alfabetico delle strade trasmesso dall’agente, della tabella dei numeri variati, 

degli estratti partitari del sommarione. Tutti gli atti riveduti e regolarizzati servivano 

alla formazione del libro delle partite e delle tavole censuarie. La Direzione Generale 

delle Imposte Dirette e del Catasto incaricò la giunta del Censimento di Lombardia 

di occuparsi della compilazione dei registri delle partite o «catastini» dei fabbricati 

di alcuni comuni delle province napoletane. Per alleggerire il gravoso compito assegnato 

alla giunta del Censimento di Lombardia per la formazione dei registri delle 

partite e delle tavole censuarie dei fabbricati per i centri urbani di tutte le province 

napoletane e lombardo-venete, le cui mappe furono di nuovo rilevate, se ne demandò 

una parte all’ufficio di Stralcio. Così, la competenza dei lavori di identificazione 

per tutti i comuni del riparto di Caserta, che si andavano ultimando, d’allora in poi 

passò all’ufficio di Stralcio, a cui furono spediti gli atti, come pure quelli già ultimati 

della provincia di Cosenza. Il Mazzoni, reggente l’ufficio di Stralcio, dispose che man 

a mano che giungevano gli atti, si desse «tosto principio alla formazione dei relativi 

Registri, secondo le norme tracciate dalla Istruzione 26 ottobre 1876» 8 . 

La mappa catastale di Aversa 

Recentemente presso l’Archivio di Stato di Caserta 9 è stata ritrovata da chi scrive 

un’inedita mappa catastale di Aversa del 1876, che dà un nuovo contributo alla 

storia della città. 

La mappa, copiata il 20 aprile 1876 dal disegnatore Gaetano Marschitzeh, è confor-

BRANI DI CITTÀ MEDIEVALE 523 

me a quella originale, come certificato dal funzionario Nemesio Abati e dall’ingegnere 

Luigi Mazzoni 10 , reggente dell’ufficio di Stralcio della Direzione del Censo di Roma, 

il 9 gennaio del 1878. Queste notizie sono riportate nella tavola dal titolo «Mappa 

del Centro Urbano di Aversa» (fig. 1), la quale, divisa in doppio riquadro, reca da 

una parte i visti dei funzionari, dall’altra il modello per l’unione dei fogli rettangoli 

rappresentati in scala di canne di triplo metro. La qualità del rilevamento consentì 

un’accettabile restituzione grafica nella scala a piccolo denominatore. Il disegno tecnico 

indulge ad un certo pittoricismo, senza tuttavia tradire il suo carattere geometricodescrittivo. 

Questa mappa catastale è relativa alla levata compiuta tra il 5 agosto 1875 

e il 29 febbraio 1876 dagli ingegneri Enrico Regali e Salvatore Sebregondi, applicati 

dell’ufficio Tecnico di Finanza, come riportato in epigrafe al foglio di mappa 2 del 

1908. A quella data, il perito catastale Costantino Colò aggiornò i fogli di mappa del 

1876, ritenuti, per i dati informativi, la base per lo sviluppo cartografico successivo. Il 

livello di rappresentazione è elevato considerata la precisione e la cura dei dettagli. La 

città è rappresentata in dieci fogli in scala 1:1.000, di cui manca il foglio di mappa n. 6, 

Fig. 1 - Gaetano Marschitzeh, Mappa del Centro Urbano di Aversa, Mandamento di Aversa, 

Provincia di Caserta, Modello per l’unione dei fogli rettangoli, Caserta, 1876 (ASCE, Fondo 

Ufficio Distrettuale delle Imposte Dirette di Aversa).


corrispondente all’area orientale della città, di origine angioina, occupata dai conventi 

dei celestini e dei francescani. Il quadro di unione, quindi, è mutilo (fig. 2). I fogli 

rettangoli misurano 69 cm di lunghezza e 54 cm di altezza. Le linee marginali di color 

carminio poste a sud e ad ovest del disegno consentono la reciproca ed esatta unione 

dei fogli. Il riferimento ad assi cartesiani era fondamentale sia per le operazioni di rilevamento 

sia per la costruzione grafica di ciascuna tavola. Il registro delle trasformazioni


alla pagina precedente 

Fig. 2 - [Enrico Regali e Salvatore Sebregondi], Quadro di unione dei fogli rettangoli 2-3, 

5-6 , 8-9, 1875-1876. Il foglio n. 6 mancante è stato sostituito con quello corrispondente 

estratto dalla Mappa del Centro Urbano di Aversa, cit. (ASCE, Fondo Ufficio Distrettuale delle 

Imposte Dirette di Aversa). 

Fig. 3 - Allegato A, Mappa di Aversa, numeri variati, aggiornamento eseguito nel 1898. Sono 

riportati i settori urbani estratti dai fogli II-III-V-VI (ASCE, Fondo Ufficio Distrettuale delle 

Imposte Dirette di Aversa). 

urbane avvenute tra il 1876 e il 1898, riportate nel foglio degli aggiornamenti «Allegato 

A» (fig. 3) 11 , contribuisce alla specificazione del tessuto urbano affidata agli apporti 

settoriali dei fogli II, III, V, VI. La coincidenza delle mappe del 1876 con quelle del 

1908 mediante sovrapposizione consente sia di individuare le parti dell’edificato o del 

tessuto viario modificato, sia di rintracciare l’applicazione di un unico metodo di rilevamento, 

eseguito con l’uso della tavoletta pretoriana e con le canne triplometriche. Si 

rinvengono i colori acquerellati tipici della cartografia catastale: il rosa per l’edificato, il 

carminio per le fabbriche religiose, il giallo tenue per la viabilità, l’azzurro per le fontane 

e i corsi d’acqua. La differenziazione delle aree, affidata al colore, si semplifica nelle 

tavole successive al 1876. Strade e piazze conservano i toponimi di derivazione antica 12 .


La «Carta dei Contorni di Napoli», foglio n. 18, del 1836-1840, realizzata dall’Ufficio 

Topografico dell’ex Regno di Napoli in scala 1:20.000, si considera unico precedente 

significativo per la lettura di Aversa. La precisione planimetrica si accompagna poco al 

puntuale trattamento figurativo degli isolati urbani a causa della scala di rappresentazione, 

quindi il riferimento alla carta su cui si sono basati i più recenti studi non sempre 

ha consentito di interpretare in maniera soddisfacente le trasformazioni dedotte dal 

confronto tra schema grafico e documento di riferimento. 

Diversamente, l’inedita mappa catastale, per il rigore nella registrazione delle 

forme e nella localizzazione dei punti sulla carta, rappresenta un complemento indispensabile 

della geografia urbana; si configura come inventario, strumento pedagogico 

e analitico, in quanto, ad un tempo, fissa i limiti urbani e individua le aree di 

ripartizione che s’intersecano e interagiscono tra spazi pieni e vuoti, strade ed edificato. 

I fogli di mappa del 1876 si saldano alla cartografia già nota, tra le esperienze 

pre-unitarie, informate alla funzionalizzazione della città 13 , e quelle post-unitarie, 

che produssero tagli e sventramenti all’insegna del decoro e dell’igiene 14 . La tavola 

denominata «Allegato unico» del 1910-1911, eseguita dal geometra Carletti, riproduce 

gli interventi edilizi-urbanistici pre-bellici. 

Nuove interpretazioni per la storia urbana di Aversa 

Il foglio di mappa n. 5 rappresenta il nucleo antico della città normanna. Il tracciato 

medievale, unitario e compatto 15 , ripropone problemi storiografici 16 sulla fondazione 

della città 17 . 

La cattedrale normanna, centro del potere religioso 18 , il cui spazio antistante diventava 

luogo di mercato, è il polo su cui convergono le strade principali e secondarie. 

L’antica parrocchia di Sant’Antonino, inglobata nella struttura dell’attuale 

convento di San Domenico, a cui fu ceduta nel 1298 19 , e posta all’interno della primitiva 

cinta muraria, accoglieva funzioni comunitarie e religiose, documentate fino 

al 1303. La porzione di suolo amministrata comprendeva, nel 1140, aree libere o 

semilibere, come riportato nel 1144, consistenti in «petiola de terra cum domo super 

fabricatam» 20 , e edificate a partire dal XIII secolo. Tali aree si evolvono progressivamente, 

mutando, da un indistinto tessuto edilizio, in spazio qualificato, formato da 

qualche palatium, domus contigue, dotati di lamia, di corti e cellari, spesso a confine 

con la via pubblica 21 . Nel 1200 è documentata, per la prima volta, l’esistenza del 

palatium di Fenicia Mosca, baronessa aversana, situato «iuxta prope ecclesia Sancti 

Antonini» 22 . Non si esclude, peraltro, la presenza di una cappella privata all’interno 

del palazzo baronale che accogliesse funzioni parrocchiali per i fedeli. La creazione 

del sistema piazza-chiesa-convento domenicano significò il soffocamento dell’autonomia 

parrocchiale. 

L’insula domenicana assunse una nuova configurazione in seguito alla demolizione 

dell’ala sud-ovest del convento lungo l’attuale via Frattini 23 , avvenuta nel


1878 (fig. 4). La realizzazione del nuovo prospetto occidentale, risalente al 1881, 

che invase l’area cimiteriale di Sant’Antonino 24 , modificò l’impianto urbano verso 

la piazza. Si trattò di un intervento che regolarizzò spazi sghembi, tipicamente medievali, 

per ragioni di decoro e d’igiene. L’analisi delle fonti, insieme all’indagine in 

situ, consente di formulare l’ipotesi che il convento inglobasse una fabbrica preesistente 

alla sua fondazione avvenuta nel 1278; l’area di sedime sulla quale si edificò 

la fabbrica di origine normanna è occupata da rilevanti presenze archeologiche (ciò 

si pone a testimonianza dell’antica antropizzazione dell’area). Ampi archi a tutto 

sesto, sostenuti da piedritti poligonali, rintracciati nell’ala meridionale al piano terra 

del convento 25 , databili intorno al XII secolo, sono riferibili a strutture superstiti del 

palatium di Fenicia Mosca 26 (fig. 5). È evidente, dalla lettura di antiche pergamene, il 

carattere isolato dell’edificio. Diversamente da altri palatia, al suo intorno non sono 

documentati confini; l’area inedificata farebbe ipotizzare la presenza di una sorta di 

pomerio 27 . Il canonico Pagliuca, storico aversano, racconta che la casa di Rinaldo 

Mosca fu inglobata nella fabbrica di San Domenico 28 . I baroni Mosca erano legati 

da vincoli di parentela ai fondatori della città 29 . Il prestigio dell’antico palazzo è testimoniato 

dal fatto che, nel 1116, Roberto, principe di Capua, fratello di Riccardo 

I, «in domo Richardi Musce» concesse uno jus al monastero di San Biagio; ciò ne 

attesta l’esistenza prima del 1200. Il carattere privato del palazzo s’interseca con quello 

comitale. L’insula di San Domenico ricade nel perimetro del castellum. Alfonso 

Gallo, storico aversano, sostiene «che entro la cerchia delle mura, poco lontano dalla 

chiesa di S. Paolo, su per giù dove più tardi sorgerà il castello, esso costituiva la cittadella 

nella quale forse dimorarono i conti, circondata da una sua propria cerchia di 

mura che si spingevano fino nella parrocchia di S. Antonino cioè ad un dipresso fino 

all’area occupata dalle Cappuccinelle» 30 . All’interno della primitiva cinta muraria, 

sono rilevabili trasformazioni relative all’area sud della cattedrale. 

L’intervento di demolizione del fabbricato, situato nel vico II San Paolo, compreso 

nel fitto tessuto edilizio 31 , cancella un’armonia secolare. Nel 1920, seguì l’abbattimento, 

di più ampie proporzioni, dell’insula di San Girolamo. Nell’area antistante il 

Palazzo vescovile, adiacente alla cattedrale, la chiusura del largo del Seminario 32 altera 

il rapporto dimensionale tra piazza e cortina stradale, mutando la composizione della 

piazza stessa. Nel Medioevo, lo slargo non è concepito come recinto indipendente, 

ma è strettamente legato alle strade che vi confluiscono. Mutazioni di tessuto urbano 

si registrano a ridosso dell’antica chiesa di Santa Martella, compresa nella cinta muraria 

di tarda età normanna, dove un’area libera viene edificata. 

L’insula di Sant’Agostino, fondata sul versante meridionale della città alla fine del 

XIII secolo, adiacente all’antica parrocchia di San Nicola, fu interessata da un processo 

di disintegrazione delle aree di pertinenza. Il vicolo dietro l’abside della chiesa di 

San Nicola, che collegava la chiesa di Sant’Agostino con la via San Nicola, fu chiuso 

per allargare la via omonima (fig. 6) 33 . Il rettifilo della strada si ottenne abbattendo


Fig. 4 - [Enrico Regali e Salvatore Sebregondi], Stralcio planimetrico relativo all’insula 

di S. Domenico, 1876, Estratto dal foglio di mappa n. 5 del 1876 (ASCE, Fondo Ufficio 

Distrettuale delle Imposte Dirette di Aversa). 

Fig. 4 - Stralcio planimetrico relativo all’insula di S. Domenico, Estratto da Allegato A, 

Mappa di Aversa, numeri variati, aggiornamento eseguito nel 1898.


Fig. 5 - Rilievo dell’insula di S. Domenico, Pianta del piano terreno, particolare del fronte 

su via Frattini. 

alcuni fabbricati. All’interno dell’insula, le aree libere furono edificate; ciò comportò 

un avanzamento dell’edificato ai margini di essa, lungo la via San Nicola. 

Lo slargo sghembo antistante la chiesa della SS.ma Trinità 34 , edificata nel 1582, 

compresa nella seconda cinta muraria, presso la porta Nova, fu rettificato con l’abbattimento 

di un fabbricato. Lievi interventi di sistemazione degli spazi, tendenti a 

migliorare la viabilità in prossimità di incroci stradali, sono, generalmente, compiuti 

per riparare i guasti generati dalla demolizione delle porte urbiche. È il caso del quadrivio 

di San Nicola, sede dell’antica porta omonima, in cui confluisce la via Santa 

Lucia e la via Fuori Sant’Anna 35 , e dell’incrocio tra via Porta Nova e vico dei Bagni, 

sede dell’antica Porta Nova. 

Il foglio di mappa n. 2 riporta le aree occupate dagli antichi borghi extra moenia. 

L’intervento di rettifica dell’incrocio tra la via San Biagio e la via Porta San Giovanni 

cancellò gli avanzi dell’antica porta San Biagio, demolita nel 1840, così come riportato 

nella pianta del 1876. Nell’area del castello normanno-svevo, sede, in età 

murattiana, del Reggimento di cavalleria, si provvide alla riconfigurazione di piazza 

Cavallerizza. Nel 1886 una fabbrica si appoggiò allo sperone meridionale del mastio, 

chiudendone l’area su quel lato. La chiesa di Santa Maria degli Angeli fu annessa 

all’area contigua del castello, in modo da chiudere l’accesso alla strada secondaria, 

che ne consentiva il circuito. La traslazione della giacitura di quella strada comportò 

l’abbattimento di fabbriche prospicienti il largo Santa Maria degli Angeli (fig. 7). 

Il foglio di mappa n. 9 corrisponde alle zone di sviluppo della città comprese tra


Fig. 6 - [Enrico Regali e Salvatore Sebregondi], Stralcio planimetrico relativo all’insula di S. 

Nicola, 1876, Estratto dal foglio di mappa n. 5 (Caserta, Ufficio Tecnico Erariale). 

Fig. 6 - Costantino Colò, Stralcio planimetrico relativo all’insula di S. Nicola, 1908, 

estratto dal foglio di mappa n. 5 (Caserta, Ufficio Tecnico Erariale). 

il Lemitone, la via Nova e il borgo Savignano. L’ampliamento, nel 1889, della piazza 

Vittorio Emanuele 36 , sede del Mercato Vecchio, si compì con l’abbattimento di fabbricati, 

i cui giardini ricadevano nella contrada di piazza, per «provvedere all’ornato 

della città»; così, pure, la piazza Savignano si aprì ad una prospettiva più ampia, 

abbattendo il fabbricato d’angolo tra via Cappone e via Torrente. Lo sventramento 

delle aree di vico Filatoio e via Tribunali, nel 1918, consente di datare l’edizione di 

un’altra mappa, incompleta, della città 37 . 

Maria Concetta Migliaccio

Fig. 7 - [Enrico Regali e 

Salvatore Sebregondi], 

Stralcio planimetrico 

relativo all’area a ridosso 

del Castello normannosvevo, 

1876, Estratto dal 

foglio di mappa n. 2 del 

1876 (Caserta, Ufficio 

Tecnico Erariale). 

Fig. 7 - Costantino 

Colò, Stralcio 

planimetrico relativo 

all’area a ridosso del 

Castello normannosvevo, 

1908, Estratto 

dal foglio di mappa n. 

2 del 1908 (Caserta, 

Ufficio Tecnico Erariale). 

BRANI DI CITTÀ MEDIEVALE 531


Si ringrazia il prof. Giulio Pane e la dott.ssa Imma Ascione, direttrice dell’Archivio di Stato di 

Caserta, per i validi suggerimenti forniti. 

1 ARCHIVIO DI STATO DI ROMA (d’ora in poi ASR), Presidenza del Censo, b. 1801 (prot. 16021). 

La fitta corrispondenza tra il marchese Tommaso Lecce reggente della Direzione del Censo di Roma, 

l’intendente di Finanza in Napoli, il direttore generale della Direzione Generale delle Imposte Dirette 

e del Catasto in Firenze, rintracciata nel fondo archivistico Presidenza del Censo, presso l’ASR, chiarisce 

alcuni aspetti procedurali e amministrativi e fornisce nuove indicazioni sulla compagine di operatori 

impiegati nelle operazioni di rilevamento. 

2 ASR, Presidenza del Censo, b. 1801, lettera del 28 marzo 1873 «Sono in possesso della pregiata 

nota di S. V. di oggi stesso e dell’altra inclusavi della Direzione Generale di Firenze e nel mentre che 

la ringrazio nel più sentito modo delle cortesi espressioni che Ella si è compiaciuta di usare a mio riguardo 

e circa la passata e attuale mia destinazione in servizio dell’Amministrazione catastale del Regno 

l’assicuro che mi adopererò con tutte le forze dell’animo con la superiore buona volontà a riuscire 

nell’onorifico ma ad un tempo spinosissimo compito affidatomi dalla Direzione Generale sopradetta. 

Nulla ho però a ridire sulle disposizioni che questa sulle disposizioni che ha stimato di prendere intorno 

al personale tecnico che questa Direzione deve fornirmi a senso del ricordato foglio 16002 di quella 

Generale, imperciocchè ella è cosa che direttamente non mi riguarda soltanto. Le porto a cognizione 

che l’Ingegnere Signor Carafa, aggiunto alla medesima affinché lo conduca nel modo che lodevolmente 

ha fatto in passato allorché io ne fui assente per bisogna d’ufficio sia ordinari che straordinari e di appagare 

poi il desiderio espressomi nell’ultimo periodo della precitata sua nota le faccio intanto richiesta 

delle seguenti qualità e quantità di carta riserbandomi di esporle ogni altro fabbisogno allorché avrò 

conosciuto minutamente dai miei colleghi di Milano e di Torino quali oggetti entrino a far parte delle 

cosiddette spese di cancelleria alle quali la Direzione compartimentali del Catasto di quelle regioni sono 

in obbligo di sopperire. 

1. carta da disegno della fabbrica milioni di Fabriano per rettangoli di mappa detta da tavoletta: 

fogli 100 

2. carta bianca della stessa fabbrica di sesto ministeriale: risma 1 

3. carta simile rigata: risma 1 

4. carta bianca di sesto palomba: risma una 

5. simile rigata: risma una 

6. carta bianca ancora da minuta: risma due 

7. stampati per protocollo di cancelleria fogli cento. 

L’Ingegnere Ispettore Luigi Mazzoni». 

3 Giovan Battista Giustiniani è perito geometra censuale aggiornatore addetto alla rettifica dell’allibramento 

catastale e topografico del territorio di Viterbo, assegnato a Subiaco. 

4 Cfr. Il rilevamento nel secolo XIX, in M. DOCCI-D. MAESTRI, Storia del rilevamento architettonico e 

urbano, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 201-241. Circa la strumentazione adottata per le campagne di 

rilievo e per la formazione delle piante catastali si rimanda alla figura di Eligio Strona commesso calcolatore, 

autore della pianta icnografica della città di Fabriano, che attraverso le sue felici intuizioni, a 

partire dal 1847, introduce vari strumenti atti alla riproduzione delle mappe e al calcolo della superficie, 

inventore del tachimetro e autore del Nuovo Abaco per la sovrapposizione delle tavole pitagoriche. Cfr. 

ASR Presidenza del Censo, b. 1801. 

5 Cfr. ASR, Presidenza del Censo, b. 1801. Si segnala l’interessante carteggio tra il marchese Tommaso 

Lecce e l’ingegnere Mazzoni circa la campagna di rilevamento della città di Napoli. Nella lettera 

Mazzoni esibisce i risultati del lavoro di campagna della vasta e importante metropoli. Le mappe dell’intera 

città si componevano di 29.504 figure o parcelle senza i terreni che circondavano «l’incasato 

all’est, nord e ovest». Mazzoni intese predisporre 12 mappe con relativi brogliardi secondo cui la città 

era suddivisa «nell’attuale descrittivo» per eludere la difficoltà che presentava l’unificazione della topografia 

di «un vasto e accidentato e frazionato centro abitato quasi è questo ghetto meno le contrade 

principali». Diviso già in 12 sezioni, nell’ultimazione dei lavori di tavolino delle 12 sezioni, la Direzione 

del Censo espresse la volontà di fornire una sola mappa con numerazione unica. L’unificazione della 

mappa di Napoli è accolta da Mazzoni come «incubo spiacevolissimo». A quella data Mazzoni aveva


messo già «a posto rigoroso» quattro quartieri a destra di Toledo. Intanto attendeva allo sviluppo della 

rete di rettangoli di un altro quartiere «posto a cavaliere» di tale strada che si protende verso il mare e 

che comprende Palazzo Reale, piazza Plebiscito, Castel Nuovo e la riviera di Chiaia, fino ai giardini 

pubblici. Il rilievo di questo quartiere comportò molta difficoltà perché ad ovest si congiungeva con 

il resto della riviera protendendosi fino a Posillipo, ad est si congiungeva con il porto fino al muro di 

cinta (individuato come muro finanziere). L’operazione di rilievo di questo quartiere si riferì ad un’asse 

esattamente rilevata da un unico operatore, in modo che l’asse e il quartiere in oggetto fossero riusciti 

perfettamente orientati e le differenze di orientamento che ne derivarono potessero «essere affogate 

nel mare o facilmente compensate». La mappa unica sarebbe risultata di settanta o ottanta rettangoli 

dalle dimensioni di 0,64 m. di lunghezza e di 0,48 m. di altezza fra le linee marginali a sud e ad ovest 

della loro reciproca unione limitatamente alle aree fabbricate (incasato). Furono previsti altri trenta o 

quaranta rettangoli per i terreni disposti ad ovest, nord ed est. L’ingegner Mazzoni raccomandò i tre 

geometri «che si sono portati egregiamente». Riferendosi probabilmente ai periti geometri Giustiniani, 

Abati e Imperiali. Ferdinando Fantacchiotti e Giovanni Spera risultano addetti ai lavori di rilevamento 

urbano nel Riparto di Napoli nel marzo del 1876 e «provvedono alla copia delle mappe urbane già 

formate»; cfr. ASR, Presidenza del Censo, b. 1853. Cfr. A. BUCCARO, Città ed evoluzione della consistenza 

immobiliare tra Sette e Ottocento: i catasti napoletani, «Città e storia», nuova serie, 2004, n. 0, pp. 23-30. 

Recentemente si è tenuto a Parigi presso il Ministero dell’Economia, delle Finanze e dell’Industria il 

convegno «Les systèmes cadastraux en France et en Europe aux XIX e et XX e siècles» con atti in corso 

di stampa, cui si rimanda per l’inquadramento della vicenda catastale (in particolare i contributi sul 

mezzogiorno di A. BUCCARO e M. IULIANO). Per un’attenta analisi sul sistema catastale a Napoli cfr. 

G. ALISIO-A. BUCCARO, Napoli Millenovecento. Dai catasti del XIX secolo ad oggi: la città, il suburbio, le 

presenze architettoniche, Napoli, Electa Napoli, 2000. 

6 La soppressione avvenne per effetto del R.D. n. 2879 del 23 dicembre 1875. Dopo l’attivazione 

del catasto pontificio del 1835, l’organizzazione degli uffici apparve sempre più articolata e complessa e 

previde una puntuale individuazione delle competenze. Con l’Unità d’Italia furono istituite le cancellerie 

del Censo. Cfr. V. VITA SPAGNOLO, La cancelleria del censo di Roma poi agenzia delle imposte. (1824- 

1890), Roma, Archivio di Stato di Roma, 1995. 

7 Cfr. ASR, Presidenza del Censo, b. 1858, f. 568. Nel febbraio del 1876, Luigi Mazzoni reggente, 

Ercolano Ercolani commissario, Olimpiade Ludovici disegnatore furono nominati nella giunta del 

Censimento di Lombardia. Nemesio Abati, Giovan Battista Giustiniani e Oreste Calanca, insieme a 

Luigi Mazzoni furono nominati addetti alla soppressa Direzione del Censo di Roma e distaccati presso 

la squadra delle operazioni catastali a Napoli. 

8 ASR, Presidenza del Censo, b. 1853, 22 novembre 1876. 

9 ARCHIVIO STATO CASERTA (d’ora in poi ASCE), Fondo Ufficio Distrettuale delle Imposte Dirette 

di Aversa. Questo fondo contiene: la «Mappa del Centro Urbano di Aversa, Mandamento di Aversa, 

Provincia di Caserta - Modello per l’unione dei Fogli rettangoli» in scala di canne 50 di triplo metro 

nel rapporto di 1:1000. Per formare il quadro di unione, in 10 fogli, manca il n. 6; scala 1:1.000, 

misure cm 54x69. Le mappe isolate sono (stralci o aggiornamenti): «mappa di Aversa, numeri variati, 

Aggiornamento eseguito nel 1898, Allegato A» misure cm 54 x 69, che riporta settori urbani compresi 

nei fogli II, III, V, VI; inoltre si compone di un altro allegato contenente i settori urbani compresi nei 

fogli VIII-IX, firmato e datato. La tavola «Aggiornamento della mappa urbana di Aversa, numeri variati, 

Allegato Unico», datata dicembre-gennaio 1910-1911, scala 1:1.000, firmata dall’ing. capo dell’ufficio 

Tecnico di Finanza di Caserta e dal geometra A. Carletti. Questo foglio è successivo alle «Mappe di 

Aversa - Sezione Urbana» del 1908, il cui foglio n. 2 riporta la nota «desunta dall’originale che fu rilevato 

dal 5 agosto 1875 al 29 febbraio 1976 dagli applicati dell’Ufficio Tecnico di Finanza dall’ing. Regali 

Enrico e Sebregondi Salvatore aggiornata nell’anno 1908 dal perito catastale Geom. Costantino Colò». 

Il quadro di unione del 1908, è completo; cfr. G. AMIRANTE, Aversa. Dalle origini al Settecento, Napoli, 

ESI, 1998, p. 49. Il fondo, di recente inventariazione contiene, altresì, i fogli n. 3, 5, 8, 9, 10, della 

mappa catastale «Comune di Aversa sezione-urbana» L’edizione è successiva al 1918, anno del taglio 

di via Tribunali. Per l’inquadramento territoriale e la perimetrazione dei limiti urbani si segnalano le 

tavole «Comune di Aversa-sezione unica» fogli n. 1-2-3-4-5-6-7-8-9-10 con relativi aggiornamenti. Cfr.


anche A. CANTILE, Dall’agro al comprensorio, «L’Universo», n. 6, 1994. Dopo la stesura della «Carta dei 

Contorni di Napoli», levata del Real Officio Topografico del Regno di Napoli, (I.G.M. di Firenze f. 18) 

datata 1836-1840 in scala 1:20.000, il comune di Aversa, nel 1873, propose la redazione di una pianta 

aggiornata; cfr. ASCE, Prefettura, Carte Amministrative, V Inv., «Piante topografiche della città», anno 

1873. Nel 1875 seguì il rilievo catastale della mappa di Aversa (1875-1876), inedita. 

10 Cfr. V. VITA SPAGNOLO, La cancelleria, cit. 

La storia del catasto aversano è alquanto singolare. In proposito cfr. ASCE, Intendenza Borbonica, 

Affari Comunali, b. 533. Dalle notizie desunte dal documento datato 27 dicembre 1806 si evince che 

il catasto della città di Aversa fu formato nel 1754 eseguito secondo il metodo della tassa del vuoto formata 

nel 1799. Nel 1806 il procuratore della città espose che in esecuzione di ordini generali del 1741 

la Principale (Aversa) formò il catasto sull’intero agro aversano. Tale operazione incontrò l’ostilità dei 

cittadini napoletani proprietari di fondi in detto agro. Napoli si ribellò alla Principale. Nel 1755 un decreto 

della Regia Camera stabiliva che i cittadini napoletani possessori di fondi dovessero pagare la tassa 

di «bonatenenza» di detta città uti ceteri exteri cives. La Principale formò con i casali un catasto unico 

eseguito nel 1760. Tra il 1801 e il 1802 fu ordinato che i cittadini napoletani pagassero la bonatenenza. 

Per istruire la causa tra i cittadini napoletani e altri forestieri fu necessaria la rettifica del censimento dei 

beni nonché della tassa di tale censimento. Furono formate 250 relazioni per sgravi e aggregazioni dei 

carichi fiscali. Fu incaricato l’ingegnere Giovanni Sabatini per relazionare sulla causa contro la città di 

Napoli. Tale argomento è accennato anche da G. PARENTE, Origini e vicende ecclesiastiche della città di 

Aversa, 2 voll., Napoli, tip. di Gaetano Cardamone 1857-1858, vol. II, libro II, 1858, p. 62. Il catasto 

provvisorio viene formato nel 1816. Per riferimenti più generali cfr. C. DE SETA, Rendita e trasformazione 

urbane a Napoli nell’Ottocento. I catasti urbani dal 1806 al 1865, «Storia urbana», 1977. 

11 L’assenza del foglio n. 6 viene supplita dalle modifiche, ad esso relative, di seguito riportate: corso 

Campano, via Garibaldi, via Seggio, via San Francesco, strada Crocelle, vico Seggio, vico San Francesco, 

strada Cimarosa. 

12 A. GALLO, Aversa normanna, Napoli, ITEA, 1938. 

13 T. CECERE, Aversa: la città consolidata, Napoli, ESI,1998. 

14 Civiltà dell’Ottocento, Catalogo della mostra, a cura di G. Alisio, Napoli, Electa Napoli, 1997. 

15 L. PICCINATO, Urbanistica medievale, Bari, Dedalo, 1978. 

16 L. DI LERNIA, Storia urbanistica di Aversa, «Napoli Nobilissima», XIV, 1975, pp. 30-36. 

17 G. AMIRANTE, Aversa, cit.; G. FIENGO-L. GUERRIERO, Il Centro storico di Aversa: analisi del patrimonio 

edilizio, Napoli, Arte tipografica, 2002. Cfr. G. VETTA, «Storia normanna», s.d., manoscritto 

BIBLIOTECA COMUNALE DI AVERSA. 

18 G. AMIRANTE, Aversa, cit., p. 10; G. FIENGO-L.GUERRIERO, Il Centro, cit., p. 22. 

19 G. AMIRANTE, Aversa, cit., p. 98. 

20 A. GALLO, Codice Diplomatico normanno di Aversa, Napoli, 1927, doc. XL, doc. XLIX. 

21 J. MAIORANA, «Notae verum omnium quae continentur a scripturis in Archivio Aversani Capitulum 

possidet. A Josepho Maiorana canonico presbytero collecate et exaratae». Anno Domini 

MDLXX, ARCHIVIO STORICO DIOCESANO DI AVERSA. Le antiche pergamene contenute nell’Archivio 

capitolare e trascritte nel 1752, sono già state consegnate ad una consolidata storiografia della città. I 

titoli dei censi burgensatici e enfiteutici, le cessioni e le donazioni, i lasciti testamentarii documentano 

il rapporto tra aree libere e edificate a ridosso della cattedrale. 

22 Ivi, f. 29, doc. 37. 

23 ASCE, Prefettura, Carte Amministrative, XI Inv., fasc. 186, anno 1878. Cfr. G. AMIRANTE, 

Aversa, cit., p. 160. 

24 T. CECERE, Aversa, cit., p. 181. 

25 Cfr. P. PAGLIUCA, I Normanni. Fondazione di Aversa, 1857, p. 198, BIBLIOTECA COMUNALE DI 

AVERSA, ms. 16. Nel l463, i confini della zona franca della fiera antistante alla cattedrale erano indicati 

«reduendo dextrorsum per viam iuxta Refectorium Monasterii S. Ludovici». 

26 J. MAIORANA, «Notae verum omnium...», cit., fol. 158, doc. 17. Nel 1213, la domus di Symone 

clerico, si trovava prope ipsam ecclesiam. Nel 1271 al fol. 99, doc. 32, si cita un «casalinus situm prope 

ecclesiam».


27 È citato il palazzo di Melo, del barone de Apolita, del milite Roberto di San Elpidio confinanti 

tra loro. 

28 P. PAGLIUCA, I Normanni, cit., libro II, p. 72, BIBLIOTECA COMUNALE DI AVERSA, ms. 16. «La sua 

casa fu incorporata alla fabbrica del monastero di San Luigi detto poi di San Domenico». 

29 A. GALLO, Codice Diplomatico, cit., doc. XLI, doc. XXII, doc. XXXIII. Teraldo Mosca è elevato 

al rango di dominus nel 1073; suo discendente fu Rinaldo padre di Riccardo Mosca (a. 1116) che sposò 

Ata, sorella di Riccarda, che governò il monastero benedettino di San Biagio dal 1048 al 1073, e di 

Riccardo I, conte di Aversa, da cui nacque Rinaldo (a. 1131), detto Johel. Cfr. G. BOVA, Le pergamene 

normanne della Mater Ecclesia Capuana (1091-1197), Napoli, ESI, 1996, pp. 89-93. Nella pergamena 

del capitolo n. 6 dell’Archivio Storico Arcivescovile di Capua è riportato «Roberti I, Capuanorum 

princeps, per interventum Raynaldi Musce, dilecti baronis (a. 1109)». Il cognome Mosca oltre ad essere 

documentato ad Aversa e nell’agro aversano è menzionato negli Annales Barenses nel 1027 in quanto 

mercenari russi furono usati in due spedizioni in Sicilia intorno al 1020 e al 1038. La difficoltà di accesso 

alla consultazione dei documenti conservati presso l’Archivio Diocesano di Aversa ha reso mutila 

la ricerca. Cfr. A. GALLO, Aversa normanna, cit., p. 203. 

30 A. GALLO, Aversa normanna, cit. pp. 66-67. 

31 ASCE, Prefettura-Carte Amministrative, XI Inv., fasc. 266, anno 1887. 

32 Ivi, fasc. 185, anno 1884. Si recintò la piazza a causa «dell’igiene non meno che della buona morale». 

33 Ivi, fasc. 236, anno 1886. Cfr. T. CECERE, La città consolidata, cit., p. 283. 

34 T. CECERE, Aversa, cit., p. 230. 

35 ASCE, Prefettura, Carte amministrative, XI Inv., fasc. 159. 

36 Ivi, fasc. 160. 

37 ASCE, Fondo Ufficio Distrettuale delle Imposte Dirette di Aversa.

ASSOCIAZIONE ITALIANA DI STORIA URBANA 

Si è costituita nel 2001, l’Associazione Italiana di Storia Urbana (AISU) giuridicamente formalizzata 

come «associazione senza fini di lucro» e con sede legale presso il CROMA, via Ostiense 139, 00154, 

Roma, tel. 06.57374016 - 06.57374235, fax 06.57374030, mail: croma@uniroma3.it. 

Gli obiettivi dell’AISU possono essere riassunti nel modo seguente: 

1) dare maggiore visibilità e capacità di iniziativa ad un ambito di studi finora accademicamente poco 

riconoscibile, anche se scientificamente individuabile, stimolando il confronto e il dialogo tra le diverse 

aree disciplinari; 

2) costituire un gruppo attivo sul piano delle iniziative scientifiche ed editoriali; 

3) creare una rete per lo scambio di informazioni circa le iniziative in corso nei settori di competenza 

(seminari, convegni, ricerche, tesi di dottorato, pubblicazioni), la promozione di nuove iniziative coordinate 

e la divulgazione dei risultati scientifici. 

L’AISU opera in particolare per: 

• favorire una riflessione generale sui problemi di insegnamento e sulla nuova offerta didattica (secondo 

i diversi livelli oggi previsti dalla riforma universitaria) e contribuire a precisarne alcuni esiti 

accademici, oggi piuttosto carenti; 

• attraverso una serie di prodotti mediatici offrire canali per la pubblicazione tempestiva e la circolazione 

nella comunità scientifica di lavori che oggi stentano a trovare sbocchi editoriali; 

• promuovere un più ampio interscambio e forme di collaborazione scientifica (seminari, convegni, 

progetti di ricerca) e didattica a livello internazionale, anche in collaborazione con la “European Association 

of Urban history”; 

• consentire l’organizzazione di un convegno biennale di storia urbana e di altri incontri di studio, al 

margine dei quali svolgere l’assemblea annuale dei soci. 

L’AISU si propone di far circolare e produrre informazioni e conoscenze, mantenendo quel carattere 

trans-disciplinare che da sempre è stato un tratto inconfondibile della Associazione Europea di Storia 

Urbana (EAUH) e, al tempo stesso, contribuendo a sottolineare ed arricchire un’area di ricerca. 

presidente: Donatella Calabi, calabi@iuav.it 

vicepersidente: Carlo Maria Travaglini, c.travaglini@uniroma3.it 

segretario: Guido Vittorio Zucconi, zucconi@iuav.it 

tesoriere: Luca Mocarelli, luca.mocarelli@unimib.it 

consiglio direttivo: Claudia Conforti, Alberto Grohmann, Enrico Iachello, Paola Lanaro, Angela Marino, 

Roberta Morelli, Lucia Nuti, Rosa Tamborrino 

collegio dei revisori: Andrea Giuntini, Francesca Martorano, Lidia Piccioni 

Le quote sociali per il 2007 sono le seguenti: 

euro 45 per i soci strutturati (con abbonamento alla rivista «Città e Storia» euro 70,00) 

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Per informazioni e iscrizioni scrivere a: aisu@storiaurbana.it oppure consultare il sito internet dell’AISU 

http://www.storiaurbana.it


LES ANCIENS PLANS CADASTRAUX D’ISTANBUL 

Le plan cadastral, au sens fiscal du terme, n’apparaît pas en Turquie avant le milieu 

du XXe siècle. Mais, dans le cas de quelques rares villes de l’Empire ottoman 

(Istanbul, Bursa, Izmir), il existe des plans parcellaires qui ont les caractéristiques de 

plans cadastraux, et qui remontent à la fin du XIXe siècle ou au début du XXe . D’une 

manière ou d’une autre, la plupart d’entre eux sont le résultat de circonstances particulières, 

en l’occurrence des catastrophes (incendies, tremblements de terre). 

L’histoire des plans cadastraux dans Empire ottoman, ou plutôt celle de leur quasi-absence 

au sens strict, est évidemment liée à celle, d’un côté, d’une cartographie 

urbaine, au sens occidental du terme, qui n’apparaît qu’à la fin du XVIIIe siècle, et 

d’une autre, de l’absence de fiscalité foncière jusqu’à la République. La propriété 

n’était pas soumise à impôt, notamment en milieu urbain1 . 

L’essentiel de la cartographie parcellaire ancienne d’Istanbul est essentiellement 

lié aux incendies, qui étaient récurrents dans la ville, depuis la conquête ottomane 

au moins, comme l’attestent les interdictions de construire en bois répétées depuis 

le XVIe siècle2 . C’est à l’occasion d’incendies urbains que l’on a effectué des relevés 

«cadastraux», après le sinistre, ou au contraire avant les incendies, que l’on a élaboré 

des «cadastres» d’assurances. 

Le plan parcellaire le plus ancien qui ait été levé d’une ville ottomane semble bien 

être celui de Bursa, consécutif au tremblement de terre de 1855, dressé l’ingénieur 

Suphi Bey, et publié en 1861. Destiné à servir à la reconstruction de la ville, il est 

d’une grande précision (son échelle est le 1/1600 ème 

) puisqu’il indique bien la voirie, 

le parcellaire, le bâti, et distingue même les jardins (plantés) des cours. A la même 

époque de beaux plans ont été publiés, notamment pour Izmir, par Luigi Storari 

(1854-1856) et Lamec Saad (1876), mais, ils n’indiquent pas les divisions parcellaires. 

Pour Izmir, il faudra attendre les plans d’assurance, celui de Charles Goad, 

datant de 19053 , et un autre contemporain4 . Une autre ville a bénéficié du levé d’un 

très beau plan parcellaire, Sarajevo, mais après son rattachement à l’Empire austrohongrois5 

.

538 PIERRE PINON 

La cartographie d’Istanbul 

Le premier plan d’Istanbul réalisé selon une conception moderne, c’est-à-dire 

avec quelques visées topographiques, est celui élaboré pour le Voyage pittoresque de 

la Grèce (Paris 1782-1822), du comte de Choiseul-Gouffier, publié dans le tome 

III (pl. 68, Paris, 1822). Il s’intitule «Plan de la ville de Constantinople et de ses 

faubourgs tant en Europe qu’en Asie, levé géométriquement en 1776 par Fr. Kauffer 

ingénieur attaché à M. le Comte de Choiseul-Gouffier, Ambassadeur de France près 

la Porte Ottomane. Vérifié et augmenté en 1786 par le même Fr. Kauffer et par M. 

Le Chevalier. Dien script.». Mais Jean-Baptiste Le Chevalier, un des auteurs de ce 

plan, l’avait publié dans son Voyage de la Propontide et du Pont-Euxin, avec la description 

des monuments anciens et modernes de Constantinople, dès 1800-1802. Une 

version manuscrite 6 , logiquement antérieure, s’intitule, quant à elle «Carte de la ville 

de Constantinople levée géométriquement en 1776. Vérifiée et augmentée en 1786 

par François Kauffer Secrétaire de S. Exc. M. le Comte de Choiseul-Gouffier». On 

remarquera que si, dans cette dernière version, la date de 1776 est retenue pour les 

levés, le nom de Kauffer 7 n’apparaît que pour 1786. Ce qui amène à penser que le 

véritable auteur des premiers levés serait plutôt l’architecte et ingénieur des Ponts et 

Chaussées Jacques Foucherot qui, dès 1776, séjourne à Istanbul, dans la première 

mission envoyée en Orient par Choiseul-Gouffier 8 . La chose est d’autant plus probable 

que François Kauffer était plutôt un homme à tout faire, Choiseul-Gouffier 

le qualifiant aussi de secrétaire et E. Craven 9 en parlant, en 1786, comme du maître 

d’hôtel du comte. Foucherot, outre les dessins des monuments d’architecture 

antique publiés dans le Voyage pittoresque, a aussi donné le fond topographique du 

«Plan des environs d’Athènes pour le Voyage du Jeune Anacharsis par M. Barbié du 

Bocage, septembre 1785», levé en 1781, et publié par ce dernier dans son Recueil de 

cartes géographiques, plans, vues et médailles de l’Ancienne Grèce, relatifs au Voyage du 

Jeune Anacharsis, précédé d’une analyse critique des cartes (Paris, 1788) 10 . Faucherot est 

aussi l’auteur d’une «Karte von Constantinopel und dem Thrazischen Bosphorus, 

Aufgenommen und gezeichnet von den Fr: Kauffer und Foucherot, französiche 

Ingenieurs im Jahr 1776» 11 , et de nombreuses autres cartes topographiques. Il est 

donc probable que le fond du plan dit habituellement «de Kauffer», a été levé en 

1776 par Foucherot et Kauffer, et qu’il a été «habillé» des rues et des monuments par 

Kauffer et Le Chevalier en 1786. 

Ce plan, assez exact pour le fond topographique et pour l’emplacement des principaux 

monuments, est très incertain pour le tracé des rues, ce qui se conçoit aisément. 

La seconde génération de plans est allemande. Elle est d’abord l’œuvre du futur 

maréchal de Prusse Helmut von Moltke: «Karte von Constantinopel den Vorstaedte 

der Umgegend und dem Bosphorus [relevés 1836-1837]» (Berlin, 1842). Puis, il 

y a celle élaborée par Karl Stolpe: «Plan de la ville de Constantinople ainsi que de 

ses environs, à Sa Majesté Impériale Abdoul Aziz Chan, dédié avec le plus profond

LES ANCIENS PLANS CADASTRAUX D’ISTANBUL 539 

respect par C. Stolpe ci-devant au service de la Sublime Porte. Ce plan est dressé 

d’après les plans originaux des levés géométriques générales [sic] corrigé et augmenté 

depuis l’an 1855 jusqu’en 1863» (1/10 000 ème ) et «Plan de Constantinople avec ses 

faubourgs, le port et une partie du Bosphore, levé et dessiné par C. Stolpe, vérifié 

après les changements les plus récents jusqu’en 1880» (1/15 000 ème , Berlin). D’autres 

plans manuscrits ottomans, de la fin du XIX e siècle 12 peuvent compléter les plans 

gravés, mais ils ne comportent pas davantage de parcellaire. 

Les plans parcellaires d’Istanbul 

Le premier plan qui donne des indications sur le parcellaire est celui du relevé des 

adductions d’eau construites sous le règne de Beyazit II (fin XV e -début XVI e siècles), 

levé entre 1812 et 1813 (par l’ingénieur Seyid Hasan, et qui couvre la péninsule. Le 

parcellaire n’est pas dessiné en soi, mais il peut être théoriquement déduit des séparations 

entre maisons mitoyennes qui figurent apparemment selon leurs plans de toiture. 

Ce parcellaire n’apparaît donc qu’en bordure des rues et non au cœur des îlots, 

et il est probablement schématisé car les parcelles résultantes paraissent exagérément 

grandes 13 . En outre le fond de plan est très inexact. 

Récemment a été retrouvé, à la Bibliothèque Atatürk (Beyoğlu), un volume («VI. 

Cercle Municipal»), d’un «Plan cadastral de la ville Constantinople», apparemment 

élaboré en 1876. Ce document manuscrit, dont les indications écrites sont en français 

et en ottoman, élaboré au 1/2 000 ème , est d’une très grande qualité et précision. 

Toutes les parcelles et tous les édifices sont dessinés (le bâti lavé en rose), et les jardins 

rendus au lavis vert en donnant le détail des plantations (pelouses, arbres, bosquets. 

Peut-être a-t-il été levé et dessiné par une équipe de cartographes français ? Mais 

l’usage de la langue ne constitue pas une indication suffisante, tous les documents 

destinés à être diffusés, étant, à l’époque, rédigés en français. 

Il convient aussi de signaler un plan partiel des quartiers «francs» situés au Nord 

de la Corne–d’Or, de R. Hubert, datant de 1887, et intitulé «Plan de Galata, Pera, 

Taxim, Pankaldi et Ferikoy». Il est au assez détaillé, puisque établit au 1/1000 e , mais 

il donne un parcellaire schématique à partir du bord des rues, qui ne se poursuit pas 

dans les cœurs d’îlot. 

Les plans parcellaires d’état des lieux et de reconstruction après les incendies 

Les incendies ont toujours été nombreux à Constantinople, mais jusqu’au milieu 

du XIXe siècle les habitants se contentaient de reconstruire des maisons en bois 

de même type, sur les mêmes emplacements, c’est-à-dire sans changer le tracé des 

rues, ni même les alignements et la mitoyenneté. Un voyageur qui a séjourné à 

Constantinople à la fin du XVIII e 

siècle, G.-A. Olivier, en témoigne : «Les dommages 

que le feu occasionne sont bientôt réparés : peu de jours après l’incendie, on voit 

s’élever de toutes parts des maisons semblables à celles que le feu a consumées ; les


défectuosités que présentaient les rues étroites et mal percées sont exactement conservées 

; rien n’est changé dans l’ordre et la distribution des appartemens» 14 . 

A partir donc, du milieu du XIX e siècle, le mode de reconstruction change complètement 

: l’incendie est utilisé comme mode de modernisation. Depuis un certain 

temps l’administration ottomane rêvait de réformer la ville, dont elle avait honte face 

aux critiques des étrangers. Mais, elle ne savait comment procéder. Les incendies sont 

l’occasion attendue. L’ensemble du terrain incendié est exproprié par le Sultan (première 

loi d’expropriation en 1856) pour être redistribué de manière plus rationnelle; 

il est remembré, distribué par une voirie régulière, et loti. Les anciennes rues sont 

supprimées, de nouvelles sont tracées sur un plan orthogonal, et les nouveaux lots 

redistribués aux anciens propriétaires au prorata de leur possession initiale (moins 

l’espace consacré à l’élargissement des rues, perte de terrain compensée par la plusvalue 

des terrains riverains) 15 . 

Cette révolution qui va progressivement entraîner le renouvellement de la presque 

totalité des tissus urbains de Constantinople – le feu y a fait la ville moderne –, 

a été réglementairement encadrée. Le règlement de voirie et de construction du 20 

octobre 1863, prévoit dans son article 12 qu’en «cas d’incendie d’îlot délimités par 

des voies ou des quartiers, le nivellement, l’alignement et le nettoyage de chaque rue 

sera aménagé de la façon suivante. Il sera dressé un plan général des lieux en question 

et sur ce plan seront indiquées en premier lieu les anciennes rues et parcelles existantes 

avant l’incendie ainsi que leur superficie. Ensuite seront dessinées et indiquées les 

rues qui seront nouvellement tracées ainsi que la superficie des nouvelles parcelles 

destinées aux propriétaires» 16 . 

En fait cette réglementation a été mise en œuvre pour la première fois dès 1857 

après l’incendie du quartier de Salmatomruk. Le relevé de l’état après incendie et 

le projet de lotissement 17 sont l’œuvre de l’ingénieur italien Luigi Storari 18 , comme 

pour beaucoup d’autres lotissements (Aksaray, 1854 ; Sakızağacı, 1857). 

Du point de vue de la connaissance du parcellaire ancien d’Istanbul, donc des 

tissus urbains antérieurs au milieu du XIX e siècles, les deux incendies les plus intéressants, 

car les plus vastes, et situés dans la vieille ville (la péninsule de Stamboul) sont 

ceux de Kumkapı, quartier arménien en 1865 (figg. 1a-1b), et de Balat, quaıtier juif 

en 1866 (fig. 2). 

L’absence de cartographie ancienne rend quasiment impossible la connaissance 

des tissus urbains ottomans «traditionnels» (du XVI e au XVIII e siècle) car, notamment 

dans le cas d’Istanbul, presque tous les quartiers ont brûlé et ont été reconstruits 

autrement au cours du XIX e siècle. Il reste éventuellement le cas des villes de 

province relativement mieux conservées, même si les incendies ont frappé toutes les 

villes comportant des maisons construites en colombage. Par exemple, à Afyon 19 , 

Küthaya ou Tokat 20 , des quartiers ont été conservés, occupés par des maisons datant 

souvent du XIX e siècle, mais pouvant avoir été implantées dans des tissus urbains


Fig. 1a - Plan parcellaire du 

quartier de Kumkapı avant 

l’incendie de 1868 (en traits 

épais, les alignements de fonds de 

parcelles). 

Fig. 1b - Plan parcellaire du 

quartier de Kumkapı avant 

l’incendie de 1868 (la voirie).


Fig. 2 - Plan parcellaire du quartier de Balat avant l’incendie de 1865 (haut : en traits épais, 

les alignements de fonds de parcelles; bas: la voirie).


(voirie et parcellaire) plus ancien, sans pour autant pouvoir être datés. Il s’agit de 

maisons à l’alignement des rues, souvent mitoyennes (mais il existe aussi des jardins 

latéraux aux maisons, donnant donc sur les rues, fermés par des murs), implantées 

dans des parcelles relativement larges. 

Les relevés après incendie de quartiers anciens d’Istanbul, dans un état antérieur 

au sinistre, ouvrent donc des «fenêtres» sur ses tissus urbains de la capitale datant au 

moins du XVIII e siècle, ce qui est exceptionnel. 

Ces plans révèlent d’abord que les rues «matrices» et les voies de desserte sont 

nombreuses et denses, assez larges et rectilignes, que les îlots sont donc de taille parfois 

modeste, et qu’en conséquence les impasses sont rares. 

Ils révèlent aussi, d’abord, qu’il existe un parcellaire (puisqu’il peut être dessiné), 

alors que le parcellaire ne semble pas avoir d’existence légale (par absence de cadastre). 

Ce parcellaire est en outre laniéré (parcelles étroites et profondes), comme dans 

beaucoup de villes médiévales occidentales. Mais, il a encore une autre particularité : 

par groupes, ces parcelles sont rassemblées dans des «quartiers», blocs réguliers contigus 

aux rues «matrices». Ces «quartiers» évoquent de petits lotissements assez réguliers 

(parcelles de largeurs similaires). Dernière particularité : derrière ces «quartiers» 

se placent d’autres parcelles, (en second rang par rapport à la rue donc), en bandes, 

généralement distribuées par de courtes impasses. Avec leurs impasses, elles forment 

d’autres petits lotissements de désenclavement de cœurs d’îlots 21 . 

Quelles étaient les types de maisons qui occupaient ces tissus urbains ? Par analogie 

avec les parcelles étroites du quartier de Fener (quartier grec), assez bien conservé 

jusqu’il y a quelques années, et dont on connaît les maisons en maçonnerie par des 

photographies anciennes 22 et quelques relevés 23 , on peut supposer qu’il s’agissait de 

maisons similaires à celles de Fener, mais en bois peut-être, puisqu’elles ont brûlé. 

Au total, est révélé un paysage urbain qui ne devait guère différer de celui des vieilles 

villes européennes. La seule différence serait la présence de parcelles en double épaisseur, 

distribuées par des impasses, selon un technique urbaine plus «orientale» 24 . 

Les «plans cadastraux d’assurances» 

A partir du début du XX e 

siècle l’implantation de compagnies d’assurance à 

Istanbul a entraîné la confection de plans parcellaires privés, destinés à évaluer l’assiette 

des primes d’assurances à verser par les propriétaires voulant garantir leurs 

maisons ou leurs établissements industriels. 

La première série de plans cadastraux a été levée par une entreprise anglaise spécialisée 

dans les Fire Insurance Plans : celle de Charles-Edward Goad, ingénieur civil. 

Ch.-Ed. Goad (Londres 1848-1910) 25 , après des études à Oxford, émigre au Canada 

(Québec) où il fonde en 1875 son entreprise de cartographie. En 1885 il ouvre une 

succursale à Londres, qui va produire des Fire Insurance Plans jusqu’en 1960. 

Ses plans (imprimés) couvrent de nombreuses villes de Grande-Bretagne, d’Ir-


lande, d’Afrique du Sud, mais aussi du Danemark, du Chili, du Mexique, de France 

(Bordeaux), d’Egypte (Le Caire et Alexandrie) et de Turquie (Istanbul et Izmir). 

Pour Istanbul, Goad a élaboré 3 volumes de plans : 

- vol. I, Stamboul (1904), feuilles n° 1 à 18, du Palais de Topkapı à Cubalı, le long 

de la Corne d’Or ; 

- vol. II, Pera et Galata (1905), feuilles n° 30 à 45 ; 

- vol. III, Kadikoÿ et Haydarpaşa (1906), feuilles n° 51 à 64. 

Ces plans, à l’échelle du 1/600 ème ème 

(les feuilles d’assemblage sont au 1/3600 ), 

indiquent la voirie, le parcellaire et le bâti (lavé en rose pour les bâtiments en maçonnerie 

et en jaune pour ceux en bois). Les noms des édifices publics ou commerciaux 

sont reportés. 

Le plan de Goad n’ayant pas couvert l’ensemble de la ville, particulièrement les 

quartiers turcs, et la ville s’étendant très rapidement au Nord et à l’Est de Taxim, 

une seconde entreprise cartographique commença en 1922. Les conditions de cette 

entreprise restent largement à étudier. 

Les premiers plans (1922) sont simplement intitulés : «Plan cadastral d’assurances, 

trigonométré et dessiné par J. Pervititch, ing. Topographe». Un plan de 1923 précise 

«[…] établi sur base du réseau polygonal officiel de la ville de Constantinople» et 

indique après la signature de Pervititch «Ing. topogr. de l’Assoc. des C nies 

d’Assurances». 

Un plan de 1927 est intitulé «Plan foncier triangulé. Tous droits réservés». Plus 

tard (vers 1933) la formulation sera «Plan d’assurances levé et dessiné sur base de la 

triangulation officielle de la ville». 

Les plans (imprimés pour être diffusés) sont signés J. Pervititch de 1922 à 1943. A 

partir de 1940 (sauf en 1943), le nom de l’ingénieur (d’origine serbe) est turquifié en 

Pervitiç. A partir de 1934, la légende était devenue bilingue française-turque : «Plan 

spécial d’assurances-Hususi sigorta planı». A partir de 1940, le français disparaît et 

les plans sont intitulés: «Hoybar ve sururi mahalleleri». Le prénom de Pervititch, 

Jacques («Jacq.»), apparaît sur un seul plan, en 1931. De 1934 à 1936, il est indiqué 

que le «Plan spécial d’assurances» est «édité par le Bureau Central des Assureurs de 

Turquie». 

J. Pervititch a donc travaillé à ce plan partiel mais très détaillé de 1922 à 1945. 

Ce plan comprend plusieurs centaines de planches à différentes échelles (1/1000 ème 

, 

1/600 ème 

, 1/500 ème 

, 1/375 ème 

). Les feuilles d’assemblage sont au 1/2 000 ème 

ou au 

1/14 000 ème 

(figg. 3-4). 

La légende est encore plus riche que celle des plans de Goad : à la voirie, au parcellaire 

et au bâti s’ajoutent un code de couleur qui permet de distinguer les construction 

en bois (jaune) et en maçonnerie (rouge), les jardins sont dessinés quelquefois 

avec précision, les ruines indiquées, et la représentation s’applique aux coupoles pour 

les mosquées ou les hamans. 

Le relevé a concerné l’ensemble de l’agglomération (Stamboul, les quartiers mo-


Fig. 3 - Plan du quartier de Kumkapı (J. Pervititch, 1922-1923).


Fig. 4 - Plan du quartier de Balat (J. Pervititch, 1929).


Fig. 5 - Plan du quartier d’Aksaray (J. Pervititch, 1936).


Fig. 6 - Plan de la citerne ouverte d’Aspar et de la mosquée de Sultan Selim (J. Pervititch, 1929).


dernes au Nord, la rive asiatique), sauf certains quartiers déjà relevés par Goad. 

Entre 1922 et 1945, au total, ce sont presque 400 planches qui ont été dessinées. 

Après la Seconde Guerre, en 1951-1952, le plan d’assurances, au 1/500 ème 

, a été continué 

par l’architecte Suat Nirven (quartiers Alemdar, Eminonü, et Binbirdirek). 

Il semble que le principal client de Pervititch ait été la compagnie d’assurance 

française «L’Union». Des recherches seront à poursuivre sur le Bureau Central des 

Assureurs de Turquie pour mieux comprendre le cadre des travaux de Pervititch. 

Les plans de J. Pervititch méritent une étude spécifiquement cartographique. En 

effet, leur représentation va bien au delà de ce qui est demandé à un simple cadastre, 

niveau auquel s’est tenu (indication des matériaux de construction en sus) Ch.-Ed. 

Goad. Outre la richesse de la légende (5 couleurs, nombreux codes graphiques), outre 

des indications écrites concernant les espaces non construits surtout («jardin», «esplanade», 

«verger», «potager», «ruines», «baraquements», «cimetières arménien, grec 

ou musulman», «vaste terrain en forte pente», «terrain à bâtir», «champ», «champ de 

manœuvre», etc.), Pervititch a voulu donner un rendu réaliste à ses plans. 

Dans les vergers les arbres sont dessinés en élévation rabattue, dans les terrains 

vagues les escarpements, nombreux à Istanbul, sont rendus par des hachures très expressives, 

pour les mosquées les coupoles sont lavées avec leurs ombres. C’est comme 

une photographie aérienne de la ville que Pervititch offre. Sa fidélité va jusqu’à rendre 

avec réalisme tous les accidents du tissu urbain. Rien n’est régularisé, ni gommé. La 

ville, surtout les quartiers récemment incendiés (Aksaray ou Cihangir) (fig. 5) ou les 

lotissements en construction, sont montrés dans leur inachèvement, dans leur chaos. 

Les ruines antiques ou médiévales visibles sont dessinées (figg. 6-7). L’inscription des 

monuments dans leur tissu urbain d’origine est particulièrement suggestive (fig. 8). 

L’intérêt des «cadastres d’assurance» est d’autant plus vif que, eux aussi, montrent 

une ville qui a largement changé depuis leur élaboration, par le renouvellement habituel 

des maisons, mais encore par des percements de rues nouvelles, par de vastes 

opérations de dégagements autour des monuments historiques, effectuées au milieu 

du XXe siècle. Ces cadastres les intègrent encore dans un tissu urbain qui souvent 

permettait de comprendre leur configuration. 

Les cadastres parcellaires, à l’instar des incendies, sont dans l’Empire ottoman des 

instruments manifestes de la modernisation des villes. 

Pierre Pinon

Fig. 7 - Plan du quartier de Galata montrant la tour de Galata et la muraille médiévale (S. 

Nirven, 1949).


Fig. 8 - Plan du quartier de Mehmet Paşa et de la mosquée de Sokollu (J. Pervititch, 1929).


1 Les «taxes de tenure» rurales (resm-i tchift) ont une assiette agricole et non foncière, et n’ont 

donné lieu à aucune cartographie, pas plus que le système des usufruits et des locations dans le cadre 

des «fondations pieuses» (vakf). Cf. FR. HITZEL, L’Empire ottoman. XVe-XVIIIe siècles, Paris, 2001, pp. 

95-99 et 168-170. 

2 e e nd Cf. ST. YÉRASIMOS, La réglementation urbaine (XVI -XIX siècles), dans Proceedings of the 2 International 

Meeting on Modern Ottoman Studies and the Turkish Republic, Leiden, 1989, pp. 1-15. 

3 Voir plus bas. 

4 Datant également de 1905 (cf. C. ATAY, Osmanlı‘dan Cumuriyet’e Izmir Planları, Izmir, 1998, pp. 

61-71). Il existe bien un plan parcellaire de Smyrne, datant de 1865, mais il ne concerne que la bande 

de terrains longeant la mer, plan dressé préalablement à la construction des quais (ivi, pp. 110-115). 

5 Plan cadastral autrichien de L. TAUTCHER, A. KREZEVIC et J. MATASIC (Wien,1882). 

6 

BIBLIOTHÈQUE NATIONALE DE FRANCE, Cartes et Plans, SH. port. 98 bis 

, div. 8, art. 9. 

7 Sur ce personnage, cf. FR. HITZEL, Un ingénieur français au service de la Sublime Porte : François Kauffer 

(1715?-1801), dans «Lettre d’information. Observatoire urbain d’Istanbul», 1994, 6, pp. 17-24. 

8 Cf. P. PINON, notice Jacques Foucherot, dans Un canal … des canaux, Paris, 1986, p. 345. 

9 A journey through the Crimea to Constantinople, Londres-Paris (trad. française), 1789. 

10 «Voyage. Chap. IV, in 4°. Tome I, p. 311» (1788). «Voyage. Chap. VI. N°4, [grav.] Guill. De la 

Haye». «Il est bon de prévenir que l’Auteur de ce Plan s’est beaucoup servi de ceux que M. Foucherot 

a levé sur les lieux en 1781». 

11 H.-CH. VON REIMERS, Gesandtshafreise nach Constantinopel, Saint-Pétersbourg, 1805 (teil II. S.8). 

12 Cf. C. KAYRA, Istanbul Mekanlar ve Zamanlar, Istanbul, 1990. 

13 Cf. P. PINON-ST. YÉRASIMOS, Relevés après incendies et plans d’assurances : les précurseurs du cadastre 

stambouliote, dans pp. 112-129. 

14 Voyage dans l’Empire Othoman, l’Egypte et la Perse, fait par ordre du Gouvernement, pendant les six 

premières années de la République, Paris, an IX, t. III, p. 133. 

15 Sur les lotissements après incendies, cf. P. PINON, Topographie des lotissements et transformations 

urbaines d’Istanbul dans la seconde moitié du XIX e 

siècle, dans Histoire économique et sociale de l’Empire 

ottoman et de la Turquie (1326-1960), Aix-en-Provence, [1992], Collection Turcica, vol. VIII, Peeters, 

Leuven-Paris, 1995, pp. 687-703. 

16 Traduction de Stéphane Yérasimos, dans A. BORIE-P. PINON-ST. YÉRASIMOS, L’occidentalisation 

d’Istanbul au XIXe siècle, vol. I, Paris, 1989, p. 74. 

17 

ARCHIVES MUNICIPALES D’ISTANBUL. 

18 Cf. ST. YÉRASIMOS, Quelques éléments sur l’ingénieur Luigi Storari dans Atti del convegno Architettura 

e architetti italiani ad Istanbul tra il XIX e il XX secolo, Istanbul, 1996, pp. 117-123. 

19 Cf. A. BORIE-P. PINON-ST. YERASIMOS, Essais sur l’architecture domestique et la forme urbaine des villes 

anatoliennes. II. Afyon, dans Anatolia Moderna. Yeni Anadolu, VI, 1995, pp. 191-253. 

20 A. BORIE-P. PINON-S. YERASIMOS, Tokat: essai sur l’architecture domestique et la forme urbaine, dans 

Anatolia Moderna, I, 1991, pp. 239-273. 

21 Ces lotissements de désenclavement en impasse, sont fréquents dans les villes ottomanes (et plus 

généralement dans les villes «orientales») aux XVIIIe et XIXe siècles (cf. P. PINON, Essai de typologie des 

tissus urbains des villes ottomanes d’Anatolie et des Balkans, dans 7 Centuries of Ottoman Architecture, «A 

supra-National Heritage», Istanbul, 2000, pp. 174-198. 

22 Cf. H. DE BEYLIÉ, L’habitation byzantine, Paris, 1903. 

23 Cf. S.H. ELDEM, Turkish houses, Ottoman period, II, Istanbul, 1986. 

24 Si les impasses ne sont pas inconnues dans les villes médiévales européennes, elles sont plus «circonstancielles» 

(à l’approche des enceintes par exemple) que «structurelles». 

25 Cf. G. ROWLEY, An introduction to British Fire Insurance Plans, «The Map Collector», 1984, 29.


Saggi 

LA DEFINIZIONE E LA TUTELA DELL’AMBIENTE URBANO 

NELLA COSTRUZIONE DELLE CITTÀ MEDIEVALI, FRA BENE 

COMUNE E PROPRIETÀ PRIVATA 

In memoria di Vera Comoli 

Se sia possibile parlare per l’età medievale di una coscienza dell’ambiente urbano 

come bene culturale è quanto in questa sede ci si propone di discutere in modo preliminare 

1 attraverso la rassegna di alcuni casi noti. Per poter inseguire la variazione 

nel tempo del concetto di utilità e di bellezza dello spazio costruito e gli eventuali 

e conseguenti sforzi di tutela dei beni ritenuti portatori di tali qualità, è necessario 

osservare “dall’interno” almeno quattro diversi atteggiamenti: 

- lo stupore e il riconoscimento intuitivo della qualità urbana ed edilizia, attraverso 

la letteratura, in particolare quella di genere geografico, odeporico e cronachistico; 

- lo sforzo teorico degli investigatori del pensiero (filosofi e teologi) di dare un 

fondamento metafisico alla bellezza, codificato in trattati di estetica e contenuto in 

sistemazioni enciclopediche che propongono aprioristicamente un metodo induttivo 

di valorizzazione dei beni; 

- l’esaltazione dei valori urbani, propri della civiltà comunale e di ogni comunità 

particolare, da parte degli annalisti e dei cronisti, che esprimono il gusto dei propri 

gruppi dirigenti; 

- l’operazione giuridica di definire e normare l’aspetto della città – una volta apprezzato 

e considerato degno di tutela – contenuto soprattutto negli statuti comunali 

dell’Italia centro-settentrionale fra XII e XIV secolo: territorio che definisce i limiti 

della ricerca. 

Il primo modus cogitandi è ben rappresentato da due uomini del XII secolo appartenenti 

a culture diametralmente opposte: Maestro Gregorio, viaggiatore inglese, 

e al-Idrisi, geografo arabo vissuto alla corte di re Ruggero di Sicilia. 

Magister Gregorius descrive le meraviglie di Roma al ritorno dal suo viaggio nella 

Città Eterna 2 . La narrazione segue quindi di qualche tempo (il viaggio può essere durato 

mesi, se non anni) gli eventi e subisce probabilmente la suggestione del ricordo 

e l’influenza di altre descrizioni, la cui ampia produzione si colloca nel genere della 

letteratura odeporica 3 . Prescindendo quindi dalla struttura del racconto e depuran-

554 MARCO FRATI 

dolo da citazioni e calchi, resta la freschezza di molte annotazioni spontanee che restituiscono 

in modo “involontario” il giudizio dell’autore, svelandone la concezione 

fondante. I mirabilia da lui scelti definiscono i caratteri più significativi della città, 

cioè ciò che della città interessa di più all’autore e agli uomini della sua cultura. La 

Roma medievale offre ancora un «panorama entusiasmante», fatto di alte torri e palazzi 

decorati. La bellezza che provoca entusiasmo in Gregorio è quindi quantificabile 

(le dimensioni degli edifici) e qualificabile (la ricchezza di decorazione). Ma se la sua 

attenzione è colpita favorevolmente dalla presente configurazione urbana, ancora di 

più lo è dal fascino delle rovine, della “reliquia”, della memoria dell’impareggiabile 

cultura della Roma imperiale. La città viene poi descritta per parti, cominciando 

dalle porte delle mura, che ne costituiscono la definizione fisica e, soprattutto, sacra. 

All’interno del recinto si scoprono i meravigliosi resti della civiltà romana: le statue 

bronzee ancora in piedi e in buone condizioni di conservazione, quelle marmoree 

in pezzi ammucchiati confusamente. Nonostante la trascuratezza che le circonda, le 

immagini di personaggi difficilmente riconoscibili evocano tutte un irraggiungibile 

livello di produzione artistica e di organizzazione urbana. La desolazione che domina 

la città (per buona parte disabitata e concentrata sulle rive del Tevere) fa ironicamente 

esclamare a Gregorio la sua meraviglia per il complesso Palatino, talmente resistente 

che i romani non sono stati in grado di demolirlo! La sensibilità del visitatore verso 

la città è dunque molto più alta di quella dei suoi abitanti, soprattutto nei confronti 

dei monumenta più antichi. Infatti Gregorio mostra un interesse minimo per le basiliche 

e registra quasi con fastidio l’affluenza dei pellegrini alla Nuova Gerusalemme, 

notando che se le memorie del passato fossero meglio conservate attirerebbero ancora 

più visitatori. Con un anacronismo, sembra quasi di poter leggere nelle pagine della 

Narracio de mirabilibus urbis Rome un intento di turismo culturale che esprime chiaramente 

il riconoscimento di un valore storico al paesaggio urbano. 

Al-Idrisi, geografo arabo il cui vero nome è Abu Abd Allah Muhammad ibn 

Muhammad ibn Abd Allah ibn Idris al-Hammudi, stila nel 1154 per il suo sovrano 

una descrizione del bacino del Mediterraneo4 . Tra le città che più meritano la sua 

attenzione spicca Genova, potenza marinara in espansione ben nota ai viaggiatori per 

essere uno dei più importanti porti del mondo occidentale. 

Genova è città antica, di fondazione primitiva; belli ne sono i contorni e i passeggi, eccelsi 

gli edifici; ha frutta in abbondanza, molti campi da seminare, villaggi e casali e giace 

presso un piccolo fiume. È popolata da mercanti ricchi e agiati che viaggiano per le terre 

e per i mari e si accingono alle imprese facili e difficili. Essi hanno naviglio formidabile, 

conoscono le arti della guerra e del governo e sono popolo di altissimi spiriti fra tutti i 

romani5 . 

La descrizione di al-Idrisi è tutta concentrata sugli aspetti presenti della città, soprattutto 

sulle capacità dei suoi abitanti e sull’abbondanza di acqua e di vegetazione. 

Questo atteggiamento è frutto dell’incontro della cultura del geografo con la realtà 

della città: per un arabo molta importanza ha la fertilità del terreno e l’acqua è segno

LA DEFINIZIONE E LA TUTELA DELL’AMBIENTE URBANO 555 

di grande ricchezza per chi è abituato a orizzonti aridi; Genova, poi, ha ormai superato 

di molto le dimensioni del suo impianto romano e poco conserva dell’originale 

configurazione 6 , essendo tutta proiettata verso il futuro come i suoi intraprendenti 

abitanti, che non si curano eccessivamente della memoria del passato, convinti della 

superiorità del presente. Questi aspetti sono ben colti dall’osservatore, al quale è preclusa 

dalla propria forma mentis, condizionata dalla teologia islamica tutta schiacciata 

sul presente, una visione diacronica della realtà e la possibilità di apprezzare gli aspetti 

mimetici dell’arte: davvero diverso da Gregorio, che si emoziona davanti alla storia 

rappresentata dalle rovine dei suoi teatri e dalla fedele raffigurazione dei suoi attori! 

Gli uomini di pensiero, soprattutto religiosi, che si dedicano all’investigazione 

dei moti dell’animo umano danno una spiegazione del sentimento estetico fondata, 

naturalmente, sulla dominante visione teocentrica della realtà ma, sempre più, anche 

sulle nuove acquisizioni di una scienza capace di trarre insegnamenti dall’esperienza 

e dall’osservazione 7 . 

Riccardo di San Vittore (morto nel 1173) descrive l’emozione come un atteggiamento 

della mente volto verso le meraviglie, che porta, per passaggi successivi, 

fino alla contemplazione secondo una progressione molto simile a quella della scala 

mistica della Lectio divina 8 . L’emozione senza razionalizzazione, giudicata fonte di 

squilibrio, trova espressione nella coeva letteratura cortese, dove il tema “psicologico” 

della follia è spesso associato a quello di devianze morali e sociali a cui fa da sfondo il 

paesaggio anti-urbano per eccellenza, cioè il desertum 9 . E dal Duecento in poi anche 

le arti figurative, soprattutto la pittura, mostrano questa nuova consapevolezza estetica, 

rappresentando “graziosamente” l’emozione e il suo controllo razionale. 

Circa un secolo dopo, l’attenzione dei teologi si va maggiormente concentrando 

sull’oggetto della valutazione estetica stessa, indipendentemente dalla sua lettura teocentrica 

(la realtà creata come linguaggio del Dio creatore) o antropocentrica (l’uso 

che l’uomo fa delle cose e il suo rapporto morale con esse). Vitellio scrive, intorno al 

1270, la sua Perspectiva codificando due tipi di percezione della realtà e avvicinandosi 

alla formulazione di una primitiva scienza della visione 10 . La conoscenza delle cose 

avverrebbe in due momenti: il primo per effetto della luce che rende intellegibili forme 

e colori; il secondo attraverso la riflessione, con l’elaborazione dell’esperienza in 

concetti. Il principio della coscienza resta comunque un quid teologico, cioè la luce. 

Le caratteristiche che più colpiscono la sensibilità estetica e che quindi definiscono 

un bene artistico sono soprattutto la grandiosità, il disegno, la forma, la continuità 

della qualità, la disposizione, la politezza della superficie, la risposta alla luce, la brillantezza 

del colore 11 . 

Negli stessi anni Tommaso d’Aquino si dedica all’elaborazione della Summa theologica, 

che introduce due fondamentali categorie del giudizio di valore di un bene 

artistico: la proporzione e la perfezione, riferite sia alla forma che alla sostanza dell’oggetto 

12 . Con la prima si intende la convenienza di materia e aspetto, cioè si valuta


(nell’atteggiamento dell’artista, nel processo storico che ha prodotto una situazione 

complessa) la ragionevolezza dell’uso delle risorse rispetto allo scopo: di una forma 

nei confronti di un materiale e viceversa, di un linguaggio artistico nei confronti di 

un contenuto poetico. La seconda categoria tiene conto del grado di compiutezza 

intrinseca degli elementi che compongono un’opera d’arte e dei loro rapporti estrinseci. 

Una bella città, che è un organismo assai complesso, deve quindi essere costituita 

da spazi e costruzioni 13 che si armonizzano fra loro per un buon risultato finale, 

così come un bel gruppo statuario comprenderà figure volutamente deformate per 

permetterne una migliore visione da un punto di vista privilegiato. 

La bellezza, quindi, è riconosciuta come il prodotto di qualità connaturate, sapientemente 

e “tecnicamente” giustapposte, cioè messe in una corretta relazione fra 

loro. E la cattedrale gotica, che si propone come Gesamtkunstwerk, è l’espressione più 

compiuta di questa concezione così tipicamente urbana. Anche l’iniziativa dei privati, 

dunque, deve essere ritenuta positiva quando si inserisce armonicamente come 

una parte nel tutto; d’altra parte, uno spazio pubblico equilibrato è il risultato della 

giustapposizione di singole realizzazioni e non di una pianificazione preliminare. 

La città, la cui complessità appare evidente anche a chi filosofo non è, permette di 

essere osservata da punti di vista differenti che forniscono tutti preziose informazioni 

e sollevano aspetti particolari, non solo per estrazione culturale e mentalità, come si 

è visto con Maestro Gregorio e al-Idrisi, ma anche per interessi e motivazioni. Gli 

elementi che rendono riconoscibile (e attraente) lo spazio urbano sono il suo limite 

fisico, il suo stile di vita e la sua preziosa qualità materiale. 

Sicardo, vescovo di Cremona, scrive alla metà del XII secolo il suo Chronicon 

attingendo da altre opere annalistiche le notizie che a lui sembrano più interessanti, 

dimostrando in questa operazione di selective copy un particolare interesse verso i 

circuiti murari 14 . Soprattutto, è colpito dai momenti della costruzione e della distruzione 

delle città (Tortona, Asti, Vigevano, Pavia), quando più, cioè, il limite fisico 

del territorio urbano acquista valore simbolico e si dimostra indispensabile. Le mura 

sono per Sicardo i manufatti più necessari e degni di attenzione: e non può che essere 

così, dato che su di esse i nascenti comuni si basano per attirare popolazione, proteggere 

beni, organizzare il distretto. Il fenomeno delle demolizioni punitive (spesso 

codificato in statuti e capitolari) è diffusissimo durante il Medioevo. Ne restano per 

lo più esenti le istituzioni ecclesiastiche. A questo proposito è emblematico l’episodio 

della distruzione di Milano nel 1161, quando Federico I ne rade al suolo le mura e 

le case risparmiando le chiese. In quell’occasione l’imperatore sceglie come quartier 

generale, non a caso, il complesso di San Lorenzo: situato appena fuori dalla città, 

il «Corpo Santo» è dotato di una porta monumentale e di una via porticata romane 

che lo qualificano immediatamente come complesso di memoria e dignità imperiale. 

Come già in maestro Gregorio, la riconoscibilità dell’antico è un fattore di apprezzamento 

dell’oggetto, la cui descrizione ne aumenta il valore.


Tornando a Genova, per la quale è disponibile una serie notevole di testimonianze 

letterarie15 , ancora nella seconda metà del XII secolo, il rabbino Beniamino di Tudela 

la descrive circondata da mura e retta da un governo repubblicano16 . L’attenzione 

del viaggiatore è però attratta anche dall’aspetto delle case e dalle navi: queste ultime 

assomigliano a macchine da guerra e riflettono la struttura sociale in “alberghi”, 

quartieri chiusi su se stessi e così compatti da lasciare addirittura vuoti nel tessuto 

cittadino infra moenia. Le mura racchiudono un modo di vivere, il modo dei cittadini, 

totalmente diverso da quello dei distrettuali. Le mura sono percepite come strumento 

di difesa non solo dei beni materiali, ma dei meccanismi che ne garantiscono 

la produzione. Ecco che la costruzione/demolizione del circuito difensivo assume 

un nuovo significato: quello di proteggere/smantellare un sistema, un metodo di 

vita. E le descrizioni dei viaggiatori registrano puntualmente questo cambiamento 

di visuale. 

Restando a Genova, è interessante segnalare il punto di vista di un ambasciatore 

persiano, Rabban Sàumâ, particolarmente interessato agli “ornamenti” della città. 

Le prime ad essere segnalate sono le reliquie conservate in San Lorenzo: la testa di 

san Giovanni Battista e il sacro Graal. La visione si sposta rapidamente dalle preziose 

suppellettili (la cassa argentea e la coppa) al paesaggio genovese, ritenuto paradisiaco: 

al lontano visitatore interessano soprattutto oggetti eccezionali per valore artistico, 

economico e simbolico, secondo una sensibilità sempre più diffusa fra Due e 

Trecento anche in occidente. 

Nel 1358 Francesco Petrarca, in una lettera al Senato genovese, offre la sua visione 

della città, benché deformata dall’intento encomiastico e dal lontano ricordo. È sua 

la definizione di 

una città regale, addossata ad una collina alpestre, superba per gli uomini e per mura, il cui 

solo aspetto la indica signora del mare; la sua stessa potenza, come è già accaduto a molte 

città, le nuoce e le reca danno, perché offre materia alle contese e alle gelosie cittadine17 . 

Ma il poeta fornisce anche i contorni del regime dei suoli e dell’addomesticamento 

del paesaggio circostante, la cui descrizione, edulcorata dal ricordo, si avvicina molto 

a suggestioni figurative: colline, sentieri fra campi ben coltivati (le tradizionali creuze 

de mä), persone felici! Proprio la distanza dall’oggetto e la sua totale idealizzazione 

fanno di questa testimonianza un perfetto «manuale della veduta di una città oltre 

le mura» secondo i canoni della bellezza della metà del XIV secolo. Non sono più le 

mura al centro dell’attenzione, ma le torri slanciate, gli ampi palazzi, le colline coltivate, 

gli oliveti, le ville di marmo, le dolci insenature: si è persa la forza simbolica del 

recinto a favore dei segni della pace e della prosperità borghese che si regge sull’iniziativa 

imprenditoriale e sulla potenza economica e finanziaria. 

Un terzo atteggiamento – esemplificato dalla letteratura di tipo celebrativo, abbastanza 

ricca per fornire un ampio ventaglio di visioni dello spazio urbano fin dall’VIII 

secolo 18 – è frutto della volontà di depurare la realtà dagli aspetti negativi, defor-


mandola spesso gravemente. Ciononostante, è comunque possibile notarvi il mutare 

della sensibilità nei confronti dello spazio urbano: ad esempio, nelle descrizioni di 

Milano elaborate da Galvano Fiamma e da Bonvesin de la Riva in età viscontea 19 . 

Galvano Fiamma racconta con una nuova coscienza della ricostruzione della città 

dopo la distruzione e l’esilio decretati da Federico I 20 : lo spazio urbano è sottoposto 

a un progetto complessivo cui sono ricondotte tutte le sue parti. Innanzitutto viene 

scelta una precisa unità di misura che rende possibile la proportio fra il microcosmo 

del singolo elemento e il macrocosmo dell’intera città. Successivamente si dispongono 

le infrastrutture, a partire dal fossato, preceduto da un terrapieno e riempito di 

acqua corrente: tutti elementi che proteggono la lenta costruzione delle mura e offrono 

una possibilità di sostentamento (la pesca). Le porte urbiche sono equidistanti 

tra loro e orientano l’organizzazione interna della popolazione, che trova il suo fulcro 

nel broletto, il complesso delle sedi del potere comunale. In secondo piano è relegato 

il palazzo del vescovo, costruito secondo la tradizione con i gioielli delle matrone 

milanesi: segno di un’ormai conquistata autonomia dell’organismo comunale dal suo 

primo sostenitore (il capo della Chiesa locale) e della cittadinanza dalle sue mitiche 

origini. Anche lo skyline cittadino è segnato dal nascente bipolarismo: le due torri più 

alte sono quelle del vescovo e del duomo (questa, assegnata ai cittadini). La visione 

retrospettiva di Galvano rende conto naturalmente degli aspetti per lui più interessanti 

della vicenda, accaduta quasi un secolo e mezzo prima, svelando i nuovi canoni 

di bellezza della città: la progettazione, l’armonia delle parti, la centralità della zona 

di comando, l’espressione architettonica della potenza della comunità cittadina. 

Bonvesin de la Riva fa invece una descrizione dello stato di Milano a lui presente, 

risalente cioè alla fine del Duecento 21 . Nel De magnalibus urbis Mediolani viene offerta 

soprattutto una visione statistica della città, secondo un’ormai consueta struttura 

narrativa dal generale al particolare: il clima, il sito, le strade larghe, i palazzi belli, le 

case decorose. Il parametro di valutazione estetica scelto è la quantità: le vaste dimensioni 

dello spazio costruito (tradotto nell’alto numero di edifici e infrastrutture) sono 

il segno dell’elevato grado di inurbamento e cioè del successo della politica comunale 

di attirare più cittadini possibile entro le mura. Una particolare attenzione è dedicata 

agli edifici pubblici, segno del potere cittadino; compongono la curia comunale 

broletto, palazzo, torre, cappella del podestà, a cui vengono assegnati alti valori simbolici 

(la torre è ad esempio il punto di richiamo per tutta la città e per il distretto: 

con le sue campane si convocano le riunioni degli organi amministrativi, si raduna 

l’esercito, si scandiscono i ritmi del lavoro diurno). Le mura, circolari, aderiscono 

a un ideale di perfezione formale ed efficienza militare, mentre al loro interno va 

saturandosi ogni vuoto e all’esterno vanno crescendo i borghi suburbani. Soltanto al 

termine della descrizione trovano posto le chiese cittadine, enumerate per la quantità 

del loro preziosissimo contenuto: le reliquie e i tesori d’arte. 

Sul piano materiale, è interessante confrontare due episodi di reimpiego di ma-


teriale lapideo narrati alla fine del Trecento da Marchionne di Coppo Stefani ed 

entrambi accaduti a Firenze nel 1258. Innanzitutto il cronista registra impassibile 

– ritenendolo evidentemente giusto e opportuno – l’abbattimento delle case dei 

ghibellini e il riuso delle loro “buone pietre” nelle mura d’Oltrarno. Poi, con critica 

partecipazione, racconta l’esagerata pena comminata per l’indebita appropriazione 

di un vecchio cancello22 , esempio «Dell’amore e fede che portava il Popolo alla città 

di Firenze»: 

Giovanni Sodichi, il quale era l’uno de’ dodici Anziani del quartiere e sesto di Porta del 

Duomo, andando vide un cancello, il quale era stato d’una chiesa, ed era fradicio e stava 

in terra per lo fango. Tornando a casa mandò per esso e fecelosi mandare in villa ad un suo 

orto. Come fu uscito d’uficio fu richiesto e confessò non parendogli grave malificio, funne 

condennato in lire mille; e così d’altri d’ogni piccola cosa che occupassono del comune 

mettevano gran condennagione23 . 

Marchionne giudica “sfrenato” l’attaccamento dei propri antenati alla consistenza 

materiale dei luoghi che compongono lo spazio (e l’identità) della comunità ma, nella 

logica partigiana allora imperante, accetta tranquillamente la distruzione delle case 

degli avversari fuorusciti e l’inglobamento delle loro strutture nelle mura cittadine. 

Nell’affollata città popolare, dunque, gli spazi collettivi sono il vero bene da tutelare, 

mentre i materiali dei privati sconfitti debbono subire una sorta di riconsacrazione al 

bene “pubblico” attraverso il loro spietato e utilitaristico reimpiego 24 . 

Tornando a Milano, la città di Bonvesin appare come la logica evoluzione di 

quella narrata da Galvano, risorta velocemente secondo un preciso progetto sociale, 

prodotto di un gruppo dirigente sicuro di sé e cosciente della propria “urbanità” che, 

a prescindere dalla natura fondiaria della base del proprio potere, lo induce tosto a 

ritornare sul sacro suolo urbano. La diversità dei cittadini è ribadita nella descrizione 

dei vari ceti sociali, i cui comportamenti si confondono e le cui barriere si allentano, 

e in particolare dei mercanti, la cui libertà dalla terra è percepita come una novità 

rivoluzionaria. Effettivamente i commercianti milanesi, attivi sui mercati d’Europa 

e presto abituati al confronto e portati al realismo, hanno acquisito una mentalità 

nuova che li spinge a progetti politici di carattere associativo (il comune) a scala 

perfino regionale (la lega Lombarda). Con la diffusione del regime podestarile, la 

circolazione di idee è ancora più facile: i podestà, con la loro familia (gruppo di fedeli 

funzionari, veri tecnocrati), esercitano la loro professione spostandosi da un comune 

all’altro, con permanenze di un anno o poco più, diffondendo modelli di amministrazione, 

anche sul piano dei cantieri edilizi 25 . 

Le città vanno assumendo strutture simili, e simili sono i meccanismi approntati 

per governarne la crescita. A Brescia si predispone per la prima volta nel 1237 la lottizzazione 

dell’intera fascia tra le vecchie e le nuove mura per regolare l’insediamento 

dei nuovi cittadini 26 : esempio presto seguito da altre città lombarde. Sulla compagine 

comunale convergono ormai numerosi interessi e ai poteri originari se ne aggiungono 

di nuovi, dando luogo a una città policentrica, la cui frammentazione aumenta


con le crescenti dimensioni: comune, vescovo, università, monasteri e conventi urbani, 

consorterie si contendono attività, uomini e spazi. 

La molteplicità dei soggetti rende sempre più urgente il coordinamento degli interventi 

edilizi, che tendono a consumare il territorio urbano, e la salvaguardia degli 

spazi pubblici, in particolare quelli aperti. I comuni perciò si dotano, a partire dalla 

fine del XII secolo, di strumenti legislativi che governino la trasformazione della città 

secondo i criteri della funzionalità delle strutture pubbliche, della sicurezza reale e 

personale, della regolarità, della bellezza, svelando un quarto atteggiamento nei confronti 

dell’ambiente costruito. 

Le norme via via promulgate sono raccolte negli Statuti, che contengono sempre 

alcune rubriche o interi libri espressamente dedicati a questioni urbanistiche 27 . 

L’intensità con cui si definiscono i corretti comportamenti svela le preoccupazioni 

dei legislatori ma anche gli oggetti su cui s’intende esercitare la tutela: quelli che si 

possono cominciare a chiamare “beni pubblici”. Si tenta di diminuire il rischio degli 

incendi allontanando strutture deperibili e costruendo in muratura, cambiando 

dunque la consistenza della città da legno e paglia in pietre e mattoni. Si vogliono 

regolarizzare gli spazi pubblici, acquistando le case intorno ai vuoti urbani (piazze, 

vie, cortili pubblici) e normando le costruzioni che vi si affacciano. Si esercitano 

pressioni sul diritto all’uso degli spazi privati, facendo concessioni e divieti, in modo 

da compattare la proprietà, raddrizzare i fronti, eliminare gli ingombri. Infine, si 

regolano le nuove costruzioni imponendo dimensioni e qualità architettoniche precise, 

che rendono ciascuna città perfettamente riconoscibile 28 . La bellezza complessiva 

dell’ambiente urbano è dunque nuovamente determinata dalla perfezione e dall’armonia 

delle parti che lo costituiscono. 

Per ottenere questo ambizioso risultato – ambizioso perché intende investire tutta 

la città – si progettano e realizzano strade rettilinee e lunghe che terminano contro 

fondali architettonici: porte urbiche, chiese, palazzi pubblici, che sono così rapidamente 

messi in comunicazione, fisica e visiva, tra loro e con altre parti importanti 

della città. Le principali chiese e il broletto vengono dotati, a costo di estese demolizioni 

e in tempi assai lunghi, di piazze per lo svolgimento delle liturgie religiose e 

civili. A Bologna piazza Maggiore viene realizzata nel 1200 al centro della città e, 

proprio all’incrocio del cardo col decumano, viene costruito il palazzo del podestà; 

l’attestazione dei luoghi del potere nel punto più significativo è completata dalla 

sovrapposizione del broletto al sito della basilica del foro romano 29 . La continuità 

topografica è qui un aspetto decisivo nella scelta delle sedi pubbliche, tanto più se si 

cerca nei regimi del passato legittimazione a quello presente: è questo un ulteriore 

riconoscimento del valore della storia nella composizione di un bene culturale. 

A differenza dei grandi interventi monumentali, la normale amministrazione degli 

spazi pubblici è generalmente regolata dagli statuti comunali. Analizzando ad 

esempio sistematicamente la produzione legislativa dei comuni del Piemonte 30 , si


deve notare che, accanto alle numerose prescrizioni in materia di igiene e decoro, 

compaiono con diversa frequenza norme riguardanti gli spazi pubblici e, più in particolare, 

le sedi del potere 31 . Nell’arco del secolo e mezzo coperto dagli statuti di 

autonoma produzione comunale sembra di poter leggere una certa varietà nell’atteggiamento 

dei ceti dirigenti nei confronti dei luoghi ufficiali dell’esercizio della 

loro egemonia, che non è solo impressa dalle diverse condizioni locali ma, piuttosto, 

è l’espressione di uno sviluppo generalizzato delle istituzioni. Le consuetudini elaborate 

ad Alessandria e Mondovì fra XII e XIII secolo tengono soprattutto conto 

delle infrastrutture e degli opifici: gli unici luoghi di proprietà collettiva, nucleo di 

una coscienza urbana tutta da costruire in insediamenti appena fondati. Ad Alba si 

osserva il forte cambiamento prodotto dall’avvento del governo popolare: da una generica 

attenzione agli edifici religiosi (1215), dove sappiamo riunirsi le magistrature 

comunali, si passa alla precisa definizione della sede dei diversi organi di governo 

(1223). Gli Statuti elaborati in età federiciana a Vercelli (1241) e Alessandria (1247), 

sotto lo stretto controllo dei vicari imperiali, mostrano una situazione ancora più 

consolidata: i luoghi del potere appaiono ormai fissati, restando soltanto da definirne 

l’uso e la gerarchia degli ambienti; il broletto e il palazzo comunali sono spazi densi 

di significato, dove si accumulano funzioni pubbliche di ogni tipo. In pieno regime 

popolare, Novara e Alessandria rimettono mano alla loro legislazione: ne emerge 

una città perfettamente regolata in tutti i suoi aspetti e le cui infrastrutture, in via 

di completamento, innervano lo spazio circondato da nuovi limiti. L’attenzione per 

la piazza, per il broletto e per i palazzi comunali appare proporzionale al meticoloso 

controllo sulle strade, sui canali, sull’edilizia privata, sulle attività produttive e commerciali, 

e testimonia la centralità delle sedi pubbliche: sempre più luogo privilegiato 

d’incontro di tutta la cittadinanza (altrimenti divisa in mille diverse appartenenze), 

protetto da fortificazioni, garantito da pene severissime, onorato da procedure e liturgie 

civili che ne sottolineano la sacralità, perfino progettato come baricentro delle 

vicinie e nodo della viabilità (a Novara sul modello milanese). Altre sono le preoccupazioni 

dei piccoli centri (Cherasco e Fossano) che, nello stesso periodo, devono 

guardarsi dalle ingerenze esterne obbligando all’isolamento il podestà e all’uso delle 

sedi pubbliche il consiglio. 

Accanto all’amministrazione degli spazi pubblici, gli statuti stabiliscono incentivi 

alla costruzione privata. Ogni città lo fa a modo suo, mostrando, in una prospettiva 

diacronica, una sempre maggior sensibilità verso il bene comune (anche se a questo 

concetto di volta in volta viene dato contenuto dal gruppo al potere). 

A Firenze, ad esempio, la legislazione corporativa del governo dei guelfi neri, tende 

a favorire l’accorpamento della proprietà, aggiudicando a un proprietario il diritto 

di acquistare un terreno più piccolo confinante per due lati oppure concedendo le 

case dei banditi ai membri della stessa consorteria. Questi provvedimenti portano 

all’infittirsi dell’edificato, soprattutto delle torri, tanto che si rende necessario un


provvedimento di limitazione alla proliferazione in altezza delle costruzioni in muratura: 

un tetto massimo di 50 braccia (meno di 30 metri, corrispondente a quella 

della torre della Badia) per tutti gli edifici 32 . 

Ad Asti le poche indicazioni degli statuti viscontei del 1379 33 si riferiscono al 

divieto della costruzione in aree “proibite”, come nel castello bandito di Pollenzo, o 

alle dimensioni delle case, in funzione della distanza da mantenere rispetto ad altri 

edifici, dell’osservanza dei diritti di scolo delle acque, dello scavo di fogne, della possibilità 

di erigere portici o dell’obbligo della continuità dei fronti. Le norme tendono 

a garantire il decoro e a limitare le occasioni di conflitto, condizioni indispensabili 

per uno sviluppo ordinato della città, e in questa logica limitano l’azione dei privati 

in favore della comunità, già decurtata dei fuoriusciti. 

La continua “fame” di abitanti, il cui afflusso è favorito in tutti i modi dai comuni, 

veri interpreti della vocazione consumistica delle città di cui sono la massima 

espressione politica 34 , rovescia la visione degli interventi urbanistici come adeguamento 

ai mutamenti sociali. Si tratta, piuttosto, di motori del cambiamento, come 

dimostrano le enormi cerchie murarie approntate nel corso del Duecento risultate 

spesso sovradimensionate e saturate poi soltanto nell’Ottocento. 

È in questa prospettiva che i comuni attrezzano gli spazi pubblici e antepongono 

talvolta l’iniziativa privata all’immediato interesse comune. Ecco il senso delle molte 

concessioni dell’occupazione del suolo pubblico ai commercianti. A Firenze si concede 

la profondità di un braccio per esporre la merce, mentre è proibito costruire sporti 

nelle vie pubbliche. Ad Asti, invece, si permette di costruirli in modo da coprire quasi 

completamente le strade, fornendo così validi spazi protetti per esercitare le attività 

commerciali e artigianali. 

Le ampie e varie libertà sono quindi concesse ai privati nell’ottica del raggiungimento, 

in assenza di un vero e proprio Stato, di un beneficio comune, alternando il 

rispetto dell’interesse particolare al perseguimento di scopi collettivi e indicando, in 

ogni decisione, i valori che orientano via via il giudizio. 

Marco Frati 

1 Ringrazio Claudia Bonardi per la discussione del presente contributo, che fa seguito alla sua lezione 

La nuova codificazione del bene comune e l’espandersi del “privato” nel basso medioevo tenuta il 23 

maggio 2000 presso il Politecnico di Torino per il corso “Beni culturali ambientali in età medioevale” 

della scuola di dottorato in Storia e critica dei beni architettonici e ambientali. 

Per un’attenta analisi dei rapporti tra spazio pubblico e privato in un caso specifico, C. BONARDI, 

Spazio urbano e architettura tra X e XVI secolo, in Una città nel medioevo. Archeologia e architettura ad 

Alba dal VI al XV secolo, a cura di E. Micheletto, Alba, Famija Albèisa, 1999, pp. 61-88. Sulla terminologia 

usata per definire spazi ed edifici pubblici e privati, G. Gullino, Forme abitative a Vercelli. Questioni 

e problemi per una ricostruzione del processo terminologico dei manufatti edilizi dal secolo X al secolo 

XIII, Vercelli, Società Storica Vercellese, 1980. 

2 MAGISTER GREGORIUS, Narracio de mirabilibus urbis Rome, a cura di R.B.C. Huygens, Leiden,


Brill, 1970. Si veda anche il recente studio di C. NARDELLA, Il fascino di Roma nel Medioevo: le Meraviglie 

di Roma di maestro Gregorio, Roma, Viella, 1997. 

3 Un’antologia di fonti itinerarie è fornita da R. STOPANI, Le vie di pellegrinaggio del Medioevo. Gli 

itinerari per Roma, Gerusalemme, Compostella, Firenze, Le Lettere, 1991. 

4 AL-IDRISI, L’Italia descritta nel “Libro del re Ruggero” compilato da Edrisi: testo arabo, a cura di M. 

Amari-C. Schiaparelli, Roma, Salviucci, 1883; Id., Opus geographicum, sive Liber ad eorum delectationem 

qui terras peragrare studeant, Napoli, Istituto universitario orientale, 1970; Id., Il libro di Ruggero: 

il diletto di chi è appassionato per le peregrinazioni attraverso il mondo, a cura di U. Rizzitano, Palermo, 

Flaccovio, 1994. 

5 G. PETTI BALBI, Genova medievale vista dai contemporanei, Genova, Sagep, 1978, p. 66. 

6 Sulla topografia medievale genovese, L. GROSSI BIANCHI-E. POLEGGI, Una città portuale del Medioevo, 

Genova, Sagep, 1980; E. POLEGGI-P. CEVINI, Genova, Bari, Laterza, 1981. 

7 V. STELLA, Estetica, in Enciclopedia dell’arte medievale, vol. VI, Roma, Istituto dell’Enciclopedia 

Italiana, 1995, pp. 29-34. 

8 R. BARON, Hugues et Richard de Saint-Victor, Tournai, Bloud & Gay, 1963; RICHARDUS A SANCTO 

VICTORE, La preparazione dell’anima alla contemplazione, a cura di C. Nardini, Firenze, Cardini, 1991. 

9 Sulla dialettica città-non città si veda la Premessa mtodologica ai Complementi del corso di Storia 

della città e del territorio, a cura di V. Franchetti Pardo, Firenze, CUSL, 1986, pp. 7-17. 

10 WITELO, Opticae thesauris, Basel, 1572; E. TEA, Witelo. prospettico del secolo XIII, «l’Arte», XXX, 

1927, pp. 3-30; Witelonis perspectivae liber quintus: Book V of Witelo’s Perspectiva: an English translation, 

a cura di A.M. Smith, Wroclaw, Polish Academy of Sciences Press, 1983. 

11 Sulla percezione del colore in età medievale sono fondamentali gli studi di Michel Pastoreau, 

fra cui L’uomo e il colore, Firenze, Giunti, 1987; id., Blu - storia di un colore, Firenze, Ponte alle Grazie, 

2002. Sul colore nella pittura, Il Colore nel Medioevo: arte, simbolo, tecnica, Atti delle giornate di studio 

(Lucca, 5-6 maggio 1995), Lucca, Istituto storico lucchese, 1996. Sul colore in architettura hanno dato 

un notevole contributo le ricerche di Autenrieth: per restare in ambito piemontese, si veda H.P. AUTEN- 

RIETH, La “lettura coloristica” del chiostro canonicale di Novara. Appunti per il mattone a vista e l’incuria di 

decorazioni semplici, «Novarien», XI, 1981, pp. 39-72. 

12 TOMMASO D’AQUINO, La Somma teologica, 35 voll., Firenze, Salani, 1949-1975; G. PAPA, San 

Tommaso e l’arte, «La Scienza e la Fede», XXXV, s. III, 1875, vol. XXIX; U. ECO, Il problema estetico 

in S. Tommaso, Torino, Edizioni di Filosofia, 1956; M.D. CHENU, San Tommaso d’Aquino e la teologia, 

Torino, Gribaudi, 1989; G. SALATIELLO, L’autocoscienza come riflessione originaria del soggetto su di sè in 

San Tommaso d’Aquino, Roma, Ed. pontificia università gregoriana, 1998. 

13 Un facile esempio di questa mutata concezione culturale è fornito dalla diversa qualità assunta dai 

paramenti murari rispettivamente delle facciate e dei fianchi meno visibili di chiese e palazzi costruiti 

nelle città comunali dal Duecento in poi. 

14 Sicardi episcopi cremonensis Chronica, a cura di O. Holder-Hegger, in Monumenta Germaniae 

Historica. Scriptores, vol. XXXI, Hannover, Hahn, 1903, pp. 22-188. 

15 G. PETTI BALBI, Genova medievale, cit. 

16 «La città è circondata da una cinta muraria: non vi governa un re, ma senatori scelti dai cittadini 

all’interno della comunità. Ciascuna casa è provvista di torre ed in occasione di lotte civili si combatte 

dalla sommità di queste torri» (G. PETTI BALBI, Genova medievale, cit., p. 69). L’itinerario, composto 

tra il 1160 e il 1173, è edito in BENYAMIN BEN YONAH DI TUDELA, Itinerario, a cura di G. Busi, Rimini, 

Luise, 1988. Dello stesso testo si può vedere anche la traduzione Libro di viaggi, a cura di L. Minervini, 

Palermo, Sellerio, 1989. 

17 G. PETTI BALBI, Genova medievale, cit., p. 81. 

18 Le ricerche hanno preso avvio con O. CAPITANI, Storiografia e riforma della chiesa in Italia (Arnolfo 

e Landolfo seniore di Milano), in La storiografia altomedievale, Atti della XVII settimana di studio del 

centro italiano di Studi sull’alto medioevo (Spoleto, 10-16 aprile 1969), Spoleto, CISAM, 1970, pp. 

57-629, e G. FASOLI, La coscienza civica nelle “Laudes Civitatum”, in La coscienza cittadina nei comuni 

italiani del Duecento, Atti dell’XI convegno del centro di studi sulla spiritualità medievale (Todi, 11-14 

ottobre 1970), Todi, Accademia Tudertina, 1972, pp. 9-44. Più recentemente si sono occupati della


questione C. FRUGONI, Una lontana città. Sentimenti e immagini nel medioevo, Torino, Einaudi, 1983, 

pp. 61-79; R. BORDONE, La società cittadina del Regno d’Italia. Formazione e sviluppo delle caratteristiche 

urbane nei secoli XI e XII, Torino, Loescher, 1987, pp. 7-18. 

Per il Piemonte si possono vedere le fonti letterarie: GUILLELMINI SCHIAVINAE, Annales Alexandrini, a 

cura di V. Ferrero Ponziglione, in Monumenta Historiae Patriae (d’ora in poi MHP), vol. XI: Scriptorum, 

t. IV, Torino, tip. Regia, 1863, coll. 1-688; De civitate Alessandriae Ab anno fundationis MCLXVIII. & 

successive usque ad annum MDLXXXVI. Chronologica descriptio, in Monumenta Aquensia, 2 voll., a cura 

di G.B. Morimondo, Torino, tip. Regia, 1789-1790, vol. I, coll. 454-626; RAPHAELIS LUMELLI ALEXAN- 

DRINI, De origine atque historia civitatis, Ivi, coll. 433-453; GUILIELMI VENTURAE, Memoriale de gestis 

civium astensium et plurium aliorum, a cura di L. Cibrario, in MHP, vol. V: Scriptores, t. III, Torino, tip. 

Regia, 1848, coll. 701-816; SECUNDINI VENTURAE, Memoriale, a cura di L. Cibrario, Ivi, coll. 821-836; 

OGERII ALPHERII, Fragmenta de gestis astensium excerpta ex libro civis astensis, a cura di L. CIBRARIO, Ivi, 

coll. 673-696; G.F. REBACCINI, La più antica cronaca di Cuneo, a cura di P. Camilla, Cuneo, SASTE, 

1981. Per una raccolta dei brani piemontesi più interessanti allo scopo della ricerca, M. FRATI, I luoghi 

del potere nella città medievale: il Piemonte orientale fra ripresa urbana e signoria viscontea, tesi di dottorato 

di ricerca in Storia e critica dei beni architettonici e ambientali, tutors V. Comoli e C. Bonardi, 

Politecnico di Torino, XIII ciclo (1997-2000), pp. 208-210, 242-246, 275-278; app. 2. 

19 A. MONTEVERDI, Due cronisti milanesi dei tempi viscontei. Bonvesin de la Riva e Galvano de la 

Fiamma, «Cultura Neolatina», IV-V, 1944, pp. 5-20. 

20 FLAMMA GALVANEUS, Chronicon extravagans et Chronicon Majus, a cura di A. Ceruti, in Miscellanea 

di Storia Italiana, vol. VII, Torino, Stamperia Reale, 1869, pp. 439-784; GALVANO FIAMMA, Manipolus 

florum sive historia mediolanensis, in Rerum Italicarum Scriptores, vol. XI, Milano, 1727, pp. 531-740; A. 

ROVETTA, Un codice poco noto di Galvano Fiamma e l’immaginario urbano trecentesco milanese, «Arte lombarda», 

voll. 105/106/107, 1993, pp. 72-78; J.W. BUSCH, Die Mailänder Geschichtsschreibung zwischen 

Arnulf und Galvaneus Flamma: die Beschäftigung mit Vergangenheit im Umfeld einer oberitalienischen 

Kommune vom spaten 11. bis zum fruhen 14. Jahrhundert, München, Fink, 1997. 

21 BONVESIN DE LA RIVA, De magnalibus Mediolani. Le meraviglie di Milano, a cura di G. Pontiggia- 

M. Conti, Milano, Bompiani, 1974. 

22 Si trattava di «uno cancello vecchio ch’era stato della chiusa de’ Lioni», come racconta un secolo 

prima il cronista RICORDANO MALISPINI, Storia fiorentina, a cura di V. Follini, Firenze, Carli, 1816, p. 

129, dal quale Marchionne ha certamente tratto la notizia. L’errata lettura del codice da parte del nostro, 

non inficia la sincerità del suo atteggiamento. 

23 MARCHIONNE DI COPPO STEFANI, Cronaca fiorentina, a cura di N. Rodolico, in Rerum italicarum 

scriptores, vol. XXX, t. 1, Città di Castello, Lapi, 1903, pp. 44-45. 

24 In questo senso si può leggere anche il famoso episodio dell’apertura della piazza della Signoria al 

posto delle case maledette dei ghibellini Uberti. N. RUBINSTEIN, The Piazza della Signoria in Florence, 

in Festschrift Herbert Siebenhünner, a cura di E. Kubala-G. Scweikhart, Würzburg, Kommissionsverlag, 

1978, pp. 19-30. 

25 Sui rapporti fra podestà e circolazione della cultura: G. PIOVANELLI, I podestà bresciani nell’Italia 

medievale, Brescia, Zanetti, 1977; E. ARTIFONI, I podestà professionali e la fondazione retorica della politca 

comunale, «Quaderni Storici», n.s., LXIII, 1986, pp. 687-719; E. ARTIFONI, Tensioni sociali e istituzioni 

nel mondo comunale, parte II: Il podestà come politico di professione, in La Storia, a cura di N. Tranfaglia- 

M. Firpo, vol. II: Il Medioevo, Torino, UTET, 1986, pp. 459-490. Sullo scambio di esperienze nella 

gestione dello spazio urbano, C. MARTINI, Todi e Perugia: il “palazzo pubblico” e le istituzioni comunali, 

in La coscienza cittadina nei comuni italiani del Duecento, Atti dell’XI convegno del centro di studi sulla 

spiritualità medievale (Todi, 11-14 ottobre 1970), Todi, Accademia Tudertina, 1972, pp. 357-364; G. 

SOLDI RONDININI, Problemi di storia della città medioevale, «Libri & Documenti», VII, 1981, 3, pp. 11- 

18: 16; A.I. PINI, Città, comuni e corporazioni nel medioevo italiano, Bologna, CLUEB, 1986, p. 86; M. 

FRATI, I luoghi del potere, cit., pp. 135-138, 143-150, 184-186. 

26 Liber Potheris Communis civitatis Brixiae, a cura di F. Bettoni Cazzago-L.F. Fè d’Ostiani, in MHP, 

vol. XIX, Torino, Bocca, 1899. Ne fa una rapida interpretazione U. SORAGNI, La cultura urbanistica a 

Brescia da piazza del Mercato Nuovo a Piazza della Vittoria, secc. XII-XX, in Le piazze. Lo spazio pubblico


dal Medioevo all’età contemporanea, «Storia della città», XV, 1993, 54-56, pp. 11-22. 

27 Una prima antologia di statuti urbanistici è offerta da E. GUIDONI, Storia dell’urbanistica. Il 

Duecento, Roma-Bari, Laterza, 1989. Gli statuti sono regestati nel Catalogo della raccolta di statuti: 

consuetudini, leggi, decreti, ordini e privilegi dei comuni, delle associazioni e degli enti locali italiani dal 

Medioevo alla fine del secolo XVIII, 7 voll., Roma, Senato della Repubblica (poi Firenze, La Nuova Italia), 

1950-1990. Si vedano inoltre: Gli statuti cittadini: criteri di edizione, elaborazione informatica, Atti 

delle giornate di studio (Ferentino, 20-21 maggio 1989), Roma, Aurelia ’72, 1991; Statuti città territori 

in Italia e Germania tra medioevo ed età moderna, Atti della XXX settimana di studio (Trento, 11-15 

settembre 1989), a cura di G. Chittolini-D. Willoweit, Bologna, Il Mulino, 1991. 

28 Sulla territorialità dell’architettura, V. FRANCHETTI PARDO, Segnali architettonici e riconoscibilità 

politica di un territorio, in D’une ville a l’autre: structures matérielles et organisation de l’espace dans les villes 

européennes (XIII e -XVI e siécle), Actes du Colloque de Rome, 1 e -4 december 1986, Roma, École Française 

de Rome, 1989, pp. 727-739; M. FRATI, Architettura e territorialità nella Valdelsa medievale, «Bollettino 

storico empolese», XIII, 1997, pp. 181-228. 

29 F. BERGONZONI, Uno scavo nel Palazzo comunale, «Strenna storica bolognese», 1980, pp. 9-21; O. 

MAZZEI, Il Palazzo del Podestà a Bologna, «L’architettura», XXVII, 1981, pp. 590-595; Il palazzo comunale, 

a cura di G. Roversi, Bologna, Comune di Bologna, 1981; La piazza Maggiore di Bologna: storia, 

arte, costume, a cura di G. Roversi, Bologna, Banca popolare di Bologna e Ferrara, 1984; G. BERNABEI, 

Piazza Maggiore, Bologna, Santarini, 1992. 

30 Sugli statuti piemontesi si vedano le raccolte Leges municipales, 2 voll. in MHP, voll. II, XVI, 

Torino, Bocca, 1876; E. ASTORI, Note sugli statuti dei comuni e delle corporazioni nella provincia di Alessandria 

e Asti, «Rivista di storia archeologia e arte per le provincie di Alessandria e Asti», XLVII, 1938; 

I.M. SACCO, Note sugli statuti dei comuni in provincia di Cuneo, «Comunicazioni della società di studi 

storici archeologici e artistici per la provincia di Cuneo», V, 1933. Cfr. M. FRATI, I luoghi del potere, cit., 

pp. 198-206, 265-273. 

Su Vercelli, Hec sunt Statuta Comunis et alme Civitatis Vercellarum, a cura di P. Alciati, Vercelli, 

Tip. Peliparis, 1541. Su Casale Monferrato, N. BIANCHI, Gli statuti riformati del 1350, Casale, 1881; 

Gli statuti di Casale Monferrato del XIV secolo, a cura di P. Cancian, «Rivista di storia archeologia e arte 

per le provincie di Alessandria e Asti», LXXXVII, 1978. Su Alessandria, Codex Statutorum magnificae 

communitatis atque dioecesis Alexandrinae, Alessandria, Moscheni, 1547 (rist. an. a cura di M.E. Viora, 

Torino, Bottega d’Erasmo, 1969). Su Acqui, Gli statuti comunali acquesi, a cura di E. Colla, Cavallermaggiore, 

Gribaudo, 1987; Statuta vetera civitatis Aquis, a cura di G. Fornarese, Alessandria, Società di 

Storia per la Provincia di Alessandria, 1905 (rist. an. Bologna, Forni, 1971). Su Alba, F. PANERO, Gli 

statuti urbanistici di Alba, «Bollettino della società per gli studi storici di Cuneo», LXXII, 1975, pp. 

5-74; Rigestum Comunis Albe, vol. I, a cura di E. Milano, Pinerolo, Deputazione Subalpina di Storia 

Patria, 1903. Su Asti, Codice Catenato, Statuti di Asti, a cura di E. Arlieri-O. Campassi-N. Ferro, Asti, 

Associazione Amici di Asti, 1995; Rubrice statutorum Civitatis Ast per ordinem alphabeti, Asti, Garrone, 

1534; Statuta Revarum Civitatis Ast, Asti, Garrone, 1534. Su Bra, Gli antichi Statuti di Bra (MCDLXI). 

Riproduzione anastatica del codice originale, trascrizione e traduzione italiana. Introduzione, indici, glossario, 

appendici e breve scelta di passi di Ordinati braidesi dal 1356 al 1388, a cura di E. Mosca, Savigliano, 

L’Artistica, 1994. Su Cherasco, O. BADELLINO, Gli statuti di Cherasco e il governo cheraschese nel secolo 

XIII, «Bollettino storico-bibliografico subalpino», XXVIII, 1926; Statuta et ordinationes illustris civitatis 

Clarasci, Torino, Rusti, 1642. Su Tortona, E. DEZZA, Gli statuti di Tortona, «Studia et documenta historiae 

et iuris», XLIII, 1977, pp. 293-435. Su Mondovì, Statuta civitatis Montisregalis, Mondovì, tip. 

Torrentiniana, 1570 (rist. an. a cura di P. Camilla, Mondovì, Città di Mondovì, 1988); E. BREGANI, 

Aspetti territoriali, urbanistici ed economici negli statuti di Mondovì, tesi di laurea in storia, rel. G. Gullino, 

Università degli studi di Torino, a.a. 1998-1999. 

31 Si veda a questo proposito, per valore di metodo, C. DEVOTI-A. LONGHI, Il lungo medioevo acquese, 

in Acqui Terme. Dall’archeologia classica al loisir borghese, a cura di V. Comoli Mandracci, Alessandria, 

Cassa di risparmio di Alessandria, 1999, pp. 121-127: 123-124. Nel 1277, saldamente nelle mani del 

suo vescovo (anche se ancora per poco), la città di Acqui dedica ampio spazio ai luoghi religiosi, che 

si confondono con quelli del potere civile, alla tutela delle acque (non solo fonti e canali, ma bagni e


terme che ricordano in modo vivo gli antichi splendori della città), alle mura cittadine (manutenzione, 

rispetto e pulizia), ai luoghi della giustizia che disegnano una «geografia della violenza», riservando 

pochi accenni alle proprietà comunali (solo mobili e libri) e alla residenza del podestà, per la verità non 

più rilevanti, agli occhi del legislatore, del patrimonio edilizio privato. Per il testo degli statuti, Statuta 

vetera, cit., passim. 

32 Statuti della repubblica fiorentina, a cura di R. Caggese-G. Pinto-F. Salvestrini-A. Zorzi, Firenze, 

Olschki, 1999; cfr. P. SANTINI, Società delle torri in Firenze, «Archivio storico italiano», s. IV, XX, 1887, 

pp. 35-58. 

33 Cfr. Codice Catenato, cit., e Rubrice statutorum, cit. Sullo sviluppo urbanistico tardomedioevale, 

V. COMOLI MANDRACCI, Studi di storia dell’urbanistica in Piemonte: Asti, «Studi piemontesi», I, 1972, pp. 

57-72; C. BONARDI, Asti, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, cit., vol. II, pp. 659-663. 

34 E. GUIDONI, Residenze, case e proprietari nei patti fra feudalità e comune (Italia, secoli XII-XIII), 

in Structures féodales et féodalisme dans l’Occident méditerraneén (X e -XIII e siécle): bilan et perspectives de 

recherches, actes du colloque international (Rome, 10-13 octobre), Roma, École Française de Rome, 

1980, pp. 365-385; G. GULLINO, Uomini e spazio urbano: l’evoluzione topografica di Vercelli tra X e XIII 

secolo, Vercelli, Società Storica Vercellese, 1987.


GLI USI E LA GESTIONE DEGLI SPAZI COLLETTIVI 

A NAPOLI NEL XVIII SECOLO 

Nel corso del XVI secolo, allorché passa sotto la dominazione spagnola (1505), 

Napoli conosce quella straordinaria crescita demografica che la porterà ad affermarsi 

sulla scena europea come seconda città dopo Parigi. Questa crescita − tangibile nel 

passaggio dai 125.000 abitanti circa, stimati all’inizio del XVI secolo, ai 300.000 

d’inizio XVII − sarà interrotta dalla peste del 1656, per riprendere durante il XVIII 

secolo quando la ritrovata indipendenza del Regno (1734), dopo più di due secoli di 

dominazione straniera, porterà sul trono la dinastia dei Borboni. Il cambiamento apparirà 

in tutta la sua evidenza alla fine dell’Ancien Régime con oltre 400.000 abitanti, 

vale a dire il 10% della popolazione totale del Regno, concentrati nella capitale1 . 

Le ragioni di un simile progresso debbono essere ricercate in una serie di scelte 

politiche, più che in fattori economici: nei privilegi concessi ai napoletani dai vari 

sovrani e nel concentramento di funzioni politiche, amministrative e giudiziarie nella 

capitale. Conseguenza di tali scelte sarà un’imponente pressione sul mercato fondiario 

urbano ed una febbre edilizia senza precedenti, all’origine di un forte aumento 

dello spazio costruito. 

Dalla metà del XVI secolo, attraverso una serie di editti, gli spagnoli avevano fatto 

divieto di costruire fuori le mura2 . Queste misure, indotte da esigenze di difesa, ebbero 

tuttavia un impatto negativo sul tessuto urbano. All’interno della cinta muraria, 

non solo lo spazio fu aspramente conteso dai nuovi arrivati, ma i bisogni di alloggi 

spinsero alla sopraelevazione degli edifici preesistenti (pratica facilitata dall’uso di 

pietra vulcanica) ed all’occupazione di ogni spazio libero, inclusi giardini e corti. 

L’altezza degli immobili colpisce, non a caso, tutti i viaggiatori di passaggio a Napoli. 

Jean-Jacques Bouchard, nel 1632, nel porre a confronto Roma e Napoli annotava 

nel suo diario: 

non vi è a Napoli quella ineguaglianza di edifici che caratterizza Roma, dove per ogni bel 

palazzo ci sono cento piccole mediocri case basse e con un solo piano, a tal punto che 

Roma, nella maggior parte dei luoghi, sembra un vero villaggio, e ciò a non voler parlare 

delle grandi vigne che occupano oltre la metà della città; di questi aspetti non vi è traccia 

alcuna a Napoli dove solo poche case conservano dei piccoli giardini3 .

568 BRIGITTE MARIN 

La legislazione proibitiva si rivelò incapace di fronteggiare la crescita delle periferie 

che continuarono ad espandersi senza un controllo delle autorità pubbliche e 

senza disporre delle necessarie infrastrutture. Il divieto sarebbe stato rimosso definitivamente 

solo nel 1717 in virtù di una grazia dell’imperatore Carlo VI 4 . 

A contraddistinguere la città, specie nell’area intra-moenia, era poi l’ampiezza 

della proprietà fondiaria delle grandi famiglie nobili e dei complessi monastici in 

particolare 5 . 

Tenuto conto della vivace attività edilizia di nobili ed ecclesiastici e delle 

necessità abitative della popolazione, fu inevitabile una progressiva riduzione 

dello spazio comune non costruito (vie e piazze, o «vacui», vale a dire terreni non 

edificati appartenenti alla città) oggetto dei più diversi appetiti: appropriazioni 

abusive e usi privati da parte di commercianti, professionisti e di altre categorie 

sociali. La gestione di tali usi e la regolamentazione di queste appropriazioni di 

spazi pubblici 6 non ha richiamato, per l’età moderna, l’interesse della storiografia. 

Nella maggior parte degli studi Napoli è stata descritta come città caotica ed 

incontrollata, con autorità pubbliche volta a volta impotenti o impossibilitate a 

disciplinare gli usi del suolo. Una simile affermazione merita senz’altro di essere 

riesaminata alla luce della documentazione conservata in un fondo ad oggi largamente 

trascurato: gli archivi del Tribunale della Fortificazione, deputazione 

municipale preposta alla regolamentazione delle costruzioni 7 . 

Nelle pagine che seguono cercherò innanzitutto − attraverso un’analisi delle 

istituzioni incaricate della sua amministrazione e manutenzione 8 − di far luce sulle 

pratiche amministrative vigenti in materia di gestione del suolo pubblico. Alcuni 

esempi consentiranno, poi, di chiarire secondo quali modalità e per quali scopi, privati 

cittadini riuscissero ad appropriarsi di queste vie, vicoli o piazzette, sia in forma 

apertamente abusiva, sia per mezzo di autorizzazioni amministrative. In ultimo, e 

sulla base dei casi rintracciabili nelle fonti degli archivi municipali, mi soffermerò sui 

conflitti che tali appropriazioni potevano aprire, ed aprivano, tra le diverse categorie 

di utenti della città. 

Il controllo degli usi di suolo pubblico: una competenza municipale 

Sino alla fine dell’Ancien Régime, il Corpo municipale − collegio composto da 

sette eletti, sei dei quali nominati dalla nobiltà patrizia inscritta nei cinque seggi o 

piazze della città ed uno eletto del popolo − amministrava la città in virtù di privilegi 

e prerogative concessi dai sovrani succedutisi sin dal basso Medioevo. Questo governo 

locale, denominato Tribunale di San Lorenzo, si appoggiava nelle sue differenti 

branche dell’amministrazione urbana su una serie di deputazioni formate da nobili 

dei seggi e da popolani, coerentemente con un modello organizzativo dei poteri municipali 

che divideva le cariche tra nobiltà patrizia e popolo. 

La municipalità aveva larghe competenze ed interveniva in numerosi settori del-

GLI USI E LA GESTIONE DEGLI SPAZI COLLETTIVI A NAPOLI NEL XVIII SECOLO 569 

la vita cittadina: nell’approvvigionamento della capitale, nei compiti di polizia, nei 

controlli sanitari. Allo stesso tempo si faceva carico di assicurare la tutela del suolo 

pubblico, di vigilare sulla manutenzione degli acquedotti e della pavimentazione 

delle vie, di sorvegliare il corso delle acque piovane («lave»), la pulizia e l’irrigazione 

delle vie durante l’estate. Alla municipalità spettavano le autorizzazioni per nuove 

costruzioni e per l’occupazione − temporanea o perpetua − del suolo. Essa poteva 

altresì ordinare l’apertura di nuove vie o l’interruzione di antiche, e regolamentare, 

mediante un sistema di concessioni, l’uso delle acque pubbliche. Due deputazioni, 

il Tribunale della Fortificazione ed il Portolano, entrambe munite di poteri giurisdizionali, 

consentivano alla municipalità di intervenire direttamente nel campo della 

tutela del suolo pubblico e delle costruzioni pubbliche e private. 

Il Tribunale della Fortificazione, deputazione composta da otto deputati (cinque 

appartenenti alla nobiltà di seggio e tre al popolo) ed assistita da personale tecnico, 

aveva l’incarico delle costruzioni pubbliche, dell’amministrazione e manutenzione 

stradale come della cinta muraria, dell’approvvigionamento idrico della città. «La 

cura, e giurisdizione [...] de’ larghi, e suoli pubblici» rientrava nelle sue competenze 9 . 

Esso interveniva dunque, di diritto, in tutte le controversie riguardanti piazze e vie 

pubbliche («larghi, e strade pubbliche»). Per questa ragione, non erano infrequenti i 

conflitti di competenza che opponevano il Tribunale alla deputazione municipale del 

Portolano, che concedeva − per le proprie prerogative − le licenze per l’occupazione 

temporanea di suolo pubblico. I campi d’intervento dei due organismi sono chiaramente 

precisati in una consulta della Camera di Santa Chiara che, in data 21 maggio 

1764, stabiliva: la competenza del Portolano include le sole costruzioni precarie ed 

«amovibili» e non si estende alle costruzioni fisse e perpetue 10 . Va ricordato inoltre 

che era competenza del Tribunale della Fortificazione assegnare in concessione i 

«vacui» (terreni pubblici non occupati) ai singoli dietro corresponsione di censi di 

carattere enfiteutico, o accordare l’uso di porzioni delle mura cittadine; ogni concessione 

era confermata da un atto notarile 11 . Al Tribunale spettava, altresì, autorizzare 

la chiusura di alcuni vicoli. 

Le decisioni del Tribunale della Fortificazione potevano essere riesaminate in 

appello da una magistratura reale superiore: inizialmente dal Consiglio collaterale 

fino alla sua soppressione con l’avvento dei Borboni, e successivamente, a partire dal 

1735, dalla Camera di Santa Chiara. 

L’Ufficio denominato «Regio Portolano», o «Mastro Portolano», era stato ceduto 

dal re Alfonso I alla famiglia Moccia appartenente al seggio di Portanova. Alla morte 

di Gian Simone Moccia, nel 1617, la monarchia decise di riprendere questa carica, 

affittata nel 1635 per 30.000 ducati alla città stessa 12 . Nel 1672, in seguito a ripetute 

lagnanze della cittadinanza per l’aumento delle ammende e per un’altra serie di abusi 

compiuti dagli ufficiali, fu introdotta una nuova modalità di designazione del personale 

di questi uffici. L’accesso al Portolano sarebbe stato d’ora in poi regolato da una


diversa procedura: l’elezione avrebbe avuto il limite di durata di un anno e sarebbe 

stata fatta dai deputati delle sei piazze cittadine (i cinque seggi nobili e la Piazza del 

popolo). Esso veniva inoltre affiancato nelle sue funzioni da un giudice, da un tesoriere, 

da un percettore e da sei ufficiali in perlustrazione nella città 13 . 

La giurisdizione del Portolano si esercitava sulla superficie e sullo spazio situato 

«dal suolo in su per le strade di questa città» 14 , mentre quella sul sottosuolo competeva 

al Tribunale della Fortificazione. Il Portolano concedeva permessi per bancarelle e 

tettoie nelle vie, e per l’occupazione di suolo pubblico con chioschi, baracche e punti 

di vendita, ma anche per depositi di materiali e per la sosta di carri 15 ; queste autorizzazioni 

erano vincolate ad un pagamento dei diritti che andavano a costituire le 

rendite dell’Ufficio. Nessuno, inoltre, senza la licenza del Portolano, poteva costruire 

ex novo, o ricostruire edifici nelle vie pubbliche. La contiguità di ogni edificio privato 

con vie pubbliche comportava pertanto, per i lavori di rifacimento, un diritto di 

servitù dei proprietari nel quadro di una regolamentazione edilizia. 

La divisione di competenze fra Tribunale della Fortificazione e Portolano avveniva 

in modo tale che il primo era in grado di decidere per il suolo e per quanto si 

trovava al di sotto di questo; il secondo per tutto quello che occupava lo spazio a 

livello di suolo ed al di sopra di esso (balconi, pergolati, tettoie, sporgenze sulla via 

ecc.). Questa divisione introduceva inoltre il concetto di fissità delle costruzioni, o 

al contrario di temporaneità e di agevole smontaggio, e di conseguenza l’impiego di 

materiali distinti. 

La concessione, per usi privati, di terreni non costruiti rappresentava una non 

trascurabile risorsa finanziaria per la città, sotto forma di censi enfiteutici, di rendite 

perpetue e di diritti d’occupazione temporanea. Il governo municipale aveva un reale 

interesse finanziario a moltiplicare queste concessioni, che avevano per conseguenza 

di ridurre i terreni «vacui» d’uso comune e di creare ingombri perpetui di vie e piazze. 

Nel corso del XVIII secolo queste modalità di gestione dello spazio videro contrapporsi 

il Tribunale di San Lorenzo e la monarchia borbonica, intenzionata a stabilire 

la propria residenza nella capitale in conformità con le concezioni urbane diffuse nel 

secolo dei Lumi, tutte improntate a garantire un’accessibilità degli spazi pubblici che 

facilitasse i flussi e la circolazione delle persone, dell’aria e delle mercanzie 16 . 

Fonte privilegiata di questa ricerca sarà la documentazione prodotta dal Tribunale 

della Fortificazione e, segnatamente, le decisioni amministrative conservate nei registri 

detti delle «conclusioni». Questa fonte, oltre a ragguagliarci ampiamente su procedure 

e modalità di azione della Magistratura stessa, può consentire una lettura problematica 

degli usi privati ed esclusivi delle vie o dei terreni pubblici non costruiti. 

La concessione di vie pubbliche su decisione municipale 

Le chiusure di vie o vicoli non erano affatto eccezionali in epoca moderna. Esse 

avvenivano spesso dietro domanda di privati, il più delle volte di monasteri o di nobi-


li patrizi interessati a riservarsi l’uso di alcune vie pubbliche come strade di transito, o 

a costruirvi nuovi edifici, o ancora a realizzarvi estensioni dei propri beni immobiliari. 

Il caso del quale mi occuperò in queste pagine − quello relativo alla chiusura nel 

1754 del vicolo situato tra il convento di Santa Maria la Nova e la casa del monastero 

del Divino Amore 17 − si distingue da altri, dal momento che la richiesta non 

proviene, come d’ordinario, dai grandi proprietari fondiari. Esso illustra, piuttosto, 

il ruolo decisamente meno noto svolto dalle associazioni di vicinato nella gestione 

del territorio. 

La domanda di chiusura di questo vicolo fu avanzata alle autorità municipali dai 

«complateari» dell’ottina di donna Alvina. Napoli era all’epoca divisa in 29 circoscrizioni 

civili, chiamate «ottine», che servivano di base all’organizzazione municipale 

del popolo. Il lemma «complateari» designa letteralmente gli abitanti della stessa 

«platea» e cioè della stessa via. Pur in assenza di un riconoscimento giuridico espressamente 

formalizzato, queste associazioni di vicini − inclusivi dei cittadini che all’interno 

di ciascuna ottina provvedevano alla designazione di un «capitano» (l’ufficiale 

più modesto dell’organizzazione del popolo) − agivano spesso come corpo rappresentativo 

dell’ottina, per esempio in occasione di ricorsi presentati ai sovrani o ancora 

nell’amministrazione di alcuni luoghi sacri. La chiusura del vicolo fu effettuata a 

loro spese, con una sovvenzione del Tribunale della Fortificazione di 10 ducati, ed a 

condizione che i «complateari» avrebbero provveduto alla manutenzione di questo 

spazio. Il suolo pubblico veniva così a trovarsi sotto l’amministrazione diretta della 

comunità di quartiere. 

La domanda era stata motivata dall’assenza di un vero uso pubblico del vicolo, 

utilizzato piuttosto da riferimento e riparo per soggetti pericolosi e tale perciò da 

originare ripetuti disordini 18 . Questa giustificazione compare in pressoché tutte le 

decisioni amministrative concernenti la richiesta di chiusura di un vicolo pubblico; 

ed è sempre accompagnata dalla menzione «non pregiudica al pubblico», espressione 

illuminante del concetto chiave ricorrente nella procedura: vale a dire la non lesività 

per gli interessi pubblici. 

I modi di chiusura definiscono efficacemente l’uso privato di una porzione del 

vicolo chiuso. Mentre esso viene delimitato da un lato per mezzo di un’opera muraria 

(dell’altezza di 4 metri), dall’altro un cancello di legno permette l’uscita sulla via dei 

Coltrari, consentendo in questo modo un accesso ridotto all’antica via di passaggio. 

Le chiavi del cancello sono affidate ai due monasteri che vi risiedono, ma l’uso 

consentito di questo spazio si limita ad un diritto di passaggio: per i locatari di un 

magazzino che si apre in questa via e per l’accesso alla cantina del convento di Santa 

Maria la Nova. 

La proprietà del suolo resta dunque pubblica. Le decisioni precisano che i due 

monasteri non potranno in alcun caso avanzare pretese di possesso su questo terreno, 

sul quale il Tribunale della Fortificazione conserva piena competenza. Si fa inoltre


divieto assoluto, sotto pena di un’ammenda di 500 ducati, di realizzare costruzioni o 

di ingombrarlo con materiali di qualunque tipo. Al fine di mantenere viva la memoria 

del profilo indiscutibilmente «pubblico» del suolo, è apposta una lastra di marmo 

con un’iscrizione illustrativa dei fatti. 

Con condizione espressa, che coll’uso delle chiavi che il detto Venerabile Monastero del 

Divino Amore e suoi Piggionanti, e detto Venerabile Convento di S. M[ari]a della Nova 

rispettivamente faranno del detto Cancello, non possano già mai pretendere di aver acquistato 

jusso, e ragione alcuna di dominio su detta porzione di vicoletto da racchiudersi, 

ma la medessima debba rimanere sempre pubblica, e nel totale dominio del nostro 

Tribunale, ed in conseguenza non si possa già mai occupare con fabbrica, né imbarazzare 

con legnami sotto pena di duc[ati] cinquecento; ed affinché rimanga sempre chiara la 

memoria che il suddetto vicoletto pubblico per l’esposte cagioni si sia fatto chiudere dal 

nostro Tribunale, abbiamo stabilito che nel di lui frontespizio vi si debba apporre a spese 

del medesimo nostro Tribunale una lapide di marmo con la seguente iscrizione 19 . 

Forte della mai perduta proprietà pubblica, il Tribunale poté, quasi cinquanta 

anni più tardi, nel 1797, locare una porzione del vicolo ai falegnami Daniele, che 

affittarono a loro volta ad uno dei monasteri un magazzino ubicato nel vicolo chiuso 

ed un negozio davanti al cancello. L’uso «privato» del suolo pubblico fu nella circostanza 

esteso al di là del semplice diritto di passaggio precedentemente autorizzato, 

ma a vantaggio delle rendite del Tribunale della Fortificazione. 

Questo caso − ma numerosi altri potrebbero citarsi conclusi con disposizioni di 

chiusura del vicolo e concessione a privati dell’uso del suolo per edificazione − deve 

richiamare la nostra attenzione sull’articolazione dei diritti di proprietà e sulle differenti 

forme di uso del suolo ad esse connesse 20 . A tutti gli effetti, nell’esempio 

sopra richiamato, la proprietà del suolo resta pubblica, diversamente dai suoi usi di 

superficie. 

La stessa dissociazione appare chiaramente per tutte le concessioni di suolo pubblico 

fatte dal Tribunale della Fortificazione. Queste concessioni facevano per lo più 

seguito alle domande di permesso di costruzione su spazi non edificati di pertinenza 

della città. Se queste richieste erano spesso accolte favorevolmente, il Tribunale non 

si privava che in casi eccezionali della stretta proprietà del suolo: esso ne cedeva l’uso 

a privati in cambio di un censo enfiteutico perpetuo, sempre stipulato davanti ad un 

notaio. Di conseguenza i diritti di superficie potevano essere rimessi in questione, e 

questo costituiva un efficace strumento d’intervento del potere pubblico che rimaneva, 

sempre ed a tutti gli effetti, proprietario. 

Come attestato dalle conclusioni del 14 marzo 1746, il Tribunale concesse a 

Carlo Baes ed ai suoi eredi, per 11 ducati l’anno, due porzioni di suolo sotto le mura, 

dal lato dei fossi, a Porta Nolana, destinati alla costruzione di alloggi 21 . L’altezza degli 

edifici era stabilita con esattezza: essa non doveva superare il «Torrione», né recare 

fastidio ai vicini 22 ; il mancato rispetto di queste norme poteva dar luogo all’annulla-


mento immediato della concessione, e cioè al recupero del suolo con tutti gli edifici 

ivi costruiti e senza risarcimento. 

Le rendite perpetue erano una delle principali risorse finanziare per la municipalità. 

Questi censi, pagati annualmente, variavano in funzione dello statuto sociale e 

giuridico dei richiedenti; le concessioni erano spesso gratuite, assimilate ad opere di 

carità, per le istituzioni ecclesiastiche 23 . 

Risale in realtà al XVI secolo l’avvio di una politica di ampliamento territoriale 

da parte dei grandi monasteri, condotta attraverso l’acquisto di abitazioni confinanti 

con la propria area e l’assorbimento frequente in tali operazioni di una parte di suolo 

pubblico, ed in particolare di vie di passaggio: gli isolati, riuniti nella stessa unità 

proprietaria, si ritrovano così ad essere estesi. 

Il clero regolare figura, assieme ad alcuni nobili, ai primi posti nelle domande di 

concessione di suolo pubblico. Né mancano casi interessanti di scambi di suoli come 

attesta, per esempio, la decisone del 5 ottobre 1737 che assegna al principe di Tarsia 

una porzione di via pubblica in direzione di Porta Medina, in cambio di una maggiore 

di proprietà privata sul lato sinistro del palazzo, per consentire al principe di poter 

realizzare i progettati lavori di abbellimento della propria casa 24 . 

La facilità con la quale porzioni di suolo pubblico erano concesse rendevano questa 

pratica amministrativa un potente sostegno all’opera di urbanizzazione, incoraggiata 

in ogni modo da un governo locale composto in prevalenza dai rappresentanti 

dei grandi nobili costruttori. Inevitabile perciò, dal momento che numerose domande 

riguardavano nello specifico la costruzione di bassi e di botteghe, che il Tribunale, 

nel vagliare le domande di alloggio e di locazione di esercizi professionali, favorisse la 

speculazione dei grandi proprietari fondiari, nobili e religiosi. 

Un simile modo di procedere consentiva di addossare ai privati i costi di manutenzione 

e di sistemazione dei terreni pubblici. Così il 7 settembre 1736 il Tribunale 

concesse a titolo gratuito al monastero di Santa Maria della Sanità una porzione di 

suolo sul lato della chiesa − che rappresentava un allargamento sul lato della via − con 

l’autorizzazione a costruire su una parte soltanto di questo terreno, ed a conservare il 

resto a spazio a circolazione pubblica: 

quel vacuo, che sta lateralmente al Campanile, e Chiesa di detto Monastero, nell’imboccatura 

della strada, che dallo spiazzato avanti detta Chiesa, e Campanile conduce nel vicolo 

che và verso la Chiesa di S. Severo di Capodimonte, così per servirsi di un palmo e mezzo 

di detto vacuo per fabbricarsi, ed inquadrare una sua casa che sta dentro detto vacuo che al 

presente sta rifacendo, come ancora per servirsi poi del restante vacuo solamente per spiazzato 

avanti detta casa con la facoltà di cacciarvi balconi, ornie di portoni, stipiti di porte, senza 

però poterci in esso fabbricare, dovendone restate l’uso di esso vacuo pubblico 25 . 

Il Tribunale insisteva nel sottolinearne il vantaggio: questo piazzale, situato davanti 

al monastero, sarà un elemento di maggiore comodità dal momento che, messo 

a livello della via, non costituirà più «un ridotto di sporcizia» ma un «decoroso


e comodo spiazzo», sul quale potranno collocarsi delle porte. Il 13 marzo 1736, il 

Tribunale cedeva al principe di Cassano l’uso di una parte di suolo e di una via contigua 

al suo palazzo di Sant’Efremo Nuovo, per la somma di 2 ducati e 10 carlini 

l’anno, e nell’occasione precisava: «si vede non essere tal concessione pregiudiziale al 

pubblico anzi con farsici in tal vacuo fabbriche, si accresceva la vaghezza di tal calata e 

si toglieva un ricettacolo di immondizie» 26 . Il principe era tenuto ad erigere un muro 

per tutta la lunghezza dell’area concessa «acciocché riesca d’ornamento al pubblico, 

altrimenti non si sarebbe fatta detta concessione» 27 . L’esempio della concessione di 

terreni, in prossimità di Porta Medina, a Francesco Antonio Vitale ed ai suoi eredi, 

il 24 marzo 1736, con la possibilità di costruire edifici non superiori all’altezza delle 

mura, testimoniano ancora l’intenzione del Tribunale della Fortificazione di avvalersi 

di questa procedura per spingere i privati a realizzare abbellimenti e miglioramenti 

urbani. La decisione era in effetti motivata dall’interesse ad un ampliamento delle 

costruzioni in questa zona, che contribuisse ad accrescere la qualità e la sicurezza della 

città, e, al contempo, dalla possibilità di ottenere in tal modo un certa simmetria 

della strada spianata e di conseguenza una migliore percorribilità: 

dalla censuazione di tal vacuo non solo non si recava averne pregiudizio al pubblico, ma 

che con il farsi in tal luogo proporzionati edifici, ne cresceva la nostra città in splendore, e 

sicurezza, mutandosi il luogo da solitario che esso era, e ricettacolo di immondizie, in un 

quartiere colto, ed abitato. Ed oltre a ciò si sarebbe venuto a porre in maggior simmetria 

la strada, che dalla suddetta casa di Ruggieri cala verso Porta Medina, la quale ora per li 

tanti rialti, e fossi, che vi sono si è resa pressoché impraticabile 28 . 

I pavimenti della via pubblica sarebbero così stati realizzati dai privati in cambio 

della concessione dei terreni richiesti. Né mancano esempi di concessioni di terreni 

pubblici fatte a condizione che fossero i singoli beneficiari a provvedere alla sistemazione 

delle vie, dei passaggi o ai lavori di bonifica. E tuttavia gli utenti della città, ed 

i monasteri in particolare, non seguivano sempre la procedura regolamentare (domanda 

scritta, perizie sui luoghi degli uffici municipali, decisione amministrativa) 

per impadronirsi dei suoli pubblici. 

Chiusura di vicoli e costruzioni abusive 

Una conclusione del Tribunale della Fortificazione del 13 novembre 1739 porta 

all’attenzione un’interessante vicenda di costruzione illegale 29 . Nel 1651 la città 

aveva concesso al monastero della Sapienza il diritto di chiudere, a sue spese giacché 

questo ne aveva fatto domanda, il vicolo che lo separava dal vicino monastero di 

Sant’Antonio, in ragione delle «molteplici cattiverie» che vi si commettevano. Come 

nel caso del 1754 sopra riportato, il testo precisava che la municipalità restava in 

possesso del terreno e del diritto di riordinarne, in ogni momento, la riapertura a 

l’uso pubblico 30 . Ora i due monasteri avevano realizzato alcune costruzioni nei vicoli


chiusi, cosicché una parte della via si trovò ad essere completamente inglobata nel 

monastero di Sant’Antonio; mentre una fornace era stata costruita dal monastero 

della Sapienza. 

Benché la chiusura di un vicolo permettesse di costruire con maggiore facilità, 

e soprattutto al riparo da ogni sguardo 31 , l’informazione giunse probabilmente al 

Tribunale sotto forma di denuncia anonima e fu all’origine di un’ispezione sui luoghi 

− diligentemente condotta dal principe di Cassano, sovrintendente del Tribunale della 

Fortificazione alla presenza di esperti delle due parti − e di un’ampia e documentata 

relazione dell’ingegnere del Tribunale con dettagliate misure delle costruzioni 

abusive. Il monastero della Sapienza da parte sua rivendicava la proprietà del vicolo 

chiuso, senza alcuna servitù 32 . 

Il contenzioso si concluse a favore dei due monasteri. Quello di Sant’Antonio non 

poté produrre alcun documento in grado di giustificare la concessione della parte 

di vicolo annesso alla sua proprietà. Il dono annuale che questo monastero elargiva 

al Tribunale della Fortificazione − cinque livre e sei once di cera − parve però una 

ragione sufficiente per riconoscere la concessione di una parte del vicolo a beneficio 

del monastero 33 . Quanto alle costruzioni realizzate nell’altra parte del vicolo esse 

furono dichiarate illecite; ma, in considerazione della scarsa utilità pubblica di questa 

porzione di terreno, nessuna pena fu applicata e le costruzioni abusive vennero 

regolarizzate a poco costo 34 . La concessione si limitava a vietare la sopraelevazione 

delle costruzioni esistenti e all’obbligo di abbassare il caminetto del forno. Allo stesso 

modo il Tribunale della Fortificazione accettò a posteriori che il monastero della 

Sapienza si appropriasse di una parte del vicolo e vi costruisse un forno per uso proprio. 

Esso regolò inoltre le ricorrenti dispute tra i due monasteri attorno alla porzione 

del suolo ed alle rispettive costruzioni, indicando chiaramente i diritti di ciascuno ed 

ordinando le sistemazioni da compiere, e − secondo le indicazioni dell’ingegnere reale 

incaricato dell’affare − ponendo una speciale attenzione agli scarichi delle acque. 

Il caso illustrato mostra come fossero generalmente favoriti, nei loro graduali ingrandimenti, 

monasteri e conventi, di fronte ai quali il Tribunale della Fortificazione, 

amministrato dalle famiglie nobiliari legate alle grandi istituzioni monastiche urbane, 

si rivela particolarmente comprensivo ed indulgente; ed anche quando gli abusi 

erano flagranti, le costruzioni potevano essere regolarizzate a posteriori. Il Tribunale 

era interessato a disciplinare usi dello spazio che creavano tante sovrapposizioni e 

mescolanze, come nel caso dei due monasteri limitrofi. 

Ci si può evidentemente domandare come queste appropriazioni, contravvenenti 

allo statuto giuridico del suolo pubblico, fossero considerate dalla popolazione. Nella 

vicenda citata, il vicolo si era ritrovato inglobato nell’estensione delle proprietà monastiche. 

Ma i ricorsi al re, da parte del popolo, dalla fine del XVII secolo in avanti, 

vertono più spesso sulle espansioni fondiarie ecclesiastiche a danno delle abitazioni 

dei napoletani che sulla «privatizzazione» di vie e vicoli.


Gli archivi amministrativi municipali non offrono adeguate informazioni sulle 

pressioni convergenti sugli spazi pubblici. Nondimeno − sfruttando gli archivi delle 

grandi magistrature del regno chiamate ad arbitrare i conflitti di giurisdizione − è 

possibile ricavare elementi utili ad arricchire il quadro. 

Conflitti d’uso sui suoli pubblici 

Secondo una consolidata prassi, le concessioni di terreni a privati, da parte del 

Tribunale della Fortificazione, avvenivano in asta pubblica con due offerte consecutive 

alla candela e con assegnazione al miglior offerente. Non di rado gruppi di vicini 

e di altri privati si associavano nell’obiettivo di sottrarre una porzione di terreno a 

quanti ne avevano fatto domanda, con un’offerta maggiore. 

Talvolta si cercava di premunirsi delle conseguenze di questa prevedibile concorrenza 

per l’uso dei suoli pubblici. Una delle strategie poteva consistere nel domandare 

di primo acchito la concessione di un terreno più vasto di quanto necessitasse 

all’uso, allo scopo di prevenire eventuali futuri disegni espansionistici dei vicini. 

Si può a questo riguardo esaminare la vicenda che nel 1742 interessò la nuova 

costruzione del sedile di Porto (davanti alla chiesa de l’Ospedaletto), edificio nel 

quale la nobiltà patrizia del quartiere si radunava per deliberare sui propri affari 35 . 

Nel 1747 i nobili del seggio domandarono un allargamento della concessione che 

avevano ottenuta nel nuovo sito, al posto dell’antica piazza, onde evitare, da un lato, 

possibili contestazioni per le concessioni che il Tribunale avrebbe potuto fare in seguito 

attorno a questo nobile edificio e, dall’altro, la contiguità con attività artigianali 

incompatibili con la dignità del monumento: «pregiudiziale non meno al suo decoro, 

potendosi quello concedere ad altri che in tal luogo col decorso degli anni esercitasse 

arte e mestiere sconvenevole ad una tal situazione» 36 . 

Non sempre naturalmente le concessioni del Tribunale della Fortificazione appaiono 

vantaggiose per il vicinato. Così, negli anni 1730-1740, parti delle mura litoranee 

e porzioni di terreni adiacenti furono assegnati in misura consistente a privati. 

La concessione di un «vacuo», situato davanti alla chiesa di Santa Maria di Porto 

Salvo, suscita ad esempio l’opposizione dei «complateari» che si vedono in tal modo 

privati di uno spazio comune sul quale le barche potevano essere tirate in secca nelle 

stagioni di mare grosso 37 . 

Le conclusioni del Tribunale del 20 settembre 1746 ci illuminano su un altro 

affare. Il medico Pompeo Prudente aveva depositato un ricorso al Tribunale lagnandosi 

di tutti gli inconvenienti derivati dalla concessione di un «vacuo», situato lungo 

la strada del Corridoro (nel luogo detto Gesù e Maria), al mercante di legno Nicola 

Ferraiolo per 6 ducati l’anno «con facoltà di scaricarvi e di tenerlo in parte occupato 

con travi ed altri legnami per uso della sua mercanzia». A seguito di tale situazione il 

medico si era ritrovato impedito nell’accesso alla propria abitazione in carrozza, ed a 

subire le continue vibrazioni prodotte dagli scarichi della merce. Per ovviare a simili


danni l’uomo proponeva al Tribunale, e otteneva, di pagare personalmente i 7 ducati 

di censo purché il terreno fosse utilizzato come semplice disimpegno, libero da ogni 

costruzione e da ogni deposito di materiali 38 , mentre il mercante di legno avrebbe dovuto 

utilizzare esclusivamente il magazzino chiuso che egli affittava dietro il piazzale, 

tutto ciò in nome del vantaggio pubblico che ne sarebbe derivato. 

La tipologia degli abitanti di un quartiere, la loro idea degli usi comuni dello 

spazio, la loro capacità d’intervenire presso le autorità municipali, potevano dunque 

portare cambiamenti considerevoli nella gestione dello spazio e nell’organizzazione 

delle attività. Nel corso del XVIII secolo, nel periodo in cui iniziano a diffondersi 

forme di intolleranza per le attività professionali rumorose ed inquinanti, accade 

che i notabili si riservino l’uso, dietro pagamento di censi annuali, di alcuni spazi 

liberi, nell’intento di proteggersi dai danni delle attività economiche e partecipare 

così indirettamente ad una regolazione di queste attività, le stesse, del resto, che le 

autorità pubbliche cercavano di controllare, anche attraverso nuove regolamentazioni 

sanitarie urbane. 

Una deliberazione del Tribunale della Fortificazione del 16 giugno 1753 offre 

un raro esempio di decisione negativa di fronte alla richiesta di un complesso monastico. 

Sono le suore del convento di San Sebastiano ad avanzare domanda d’uso 

di una parte delle mura cittadine − completamente demilitarizzate nel XVIII secolo 

e di conseguenza oggetto di numerose concessioni − nella porzione confinante con 

il giardino monastico per realizzarvi delle botteghe. Si trattava, nello specifico, di ricavare 

spazi commerciali all’interno delle mura e camere sopra di essi senza superare 

l’altezza delle mura. Questa richiesta sollevò subito l’opposizione di molti nobili, dal 

momento che il terreno ubicato ai piedi delle mura era tradizionalmente adoperato 

per effettuarvi gli esercizi della cavalleria: «sposto il largo appiè della detta muraglia 

addetto al nobile esercizio di cavalcare, col permettere a dette Sig. monache il poter 

fare botteghe nel corpo della muraglia suddetta si verrebbe a perdere il deritto della 

medesima tanto necessario per lo detto esercizio e si renderebbe quasi che inutile 

detto Cavalcatoio» 39 . Il Tribunale, riconosciuto che la presenza di botteghe avrebbe 

creato ingombro al luogo, rinunciò a questa concessione evitando di modificare le 

abitudini dei nobili. 

Introdurre dei mutamenti nelle destinazioni d’uso degli spazi comuni poteva 

dunque essere operazione difficile. La lettura delle conclusioni del Tribunale della 

Fortificazione, se mostra bene l’intensa attività di questo, non manca nello stesso 

tempo di metterne in luce il potere regolatore, sempre secondo procedure tecniche 

ed amministrative definite. Anche se le sue iniziative rimangono frammentate, e non 

riconducibili ad un piano generale di riorganizzazione urbana, non di meno si tratta, 

a ben vedere, di un’azione coerente che corregge e spesso smentisce i luoghi comuni 

di una storiografia insistente sull’incuria delle autorità municipali e sulla crescita 

anarchica e caotica della città al di fuori di ogni regolamentazione pubblica.


Conclusioni 

Gli archivi del Tribunale della Fortificazione offrono una grande ricchezza informativa 

sui diversi aspetti dell’urbanizzazione e sull’evoluzione degli usi sociali dello 

spazio. La terminologia stessa impiegata in questo tipo di documentazione potrebbe 

costituire l’oggetto di uno studio specifico. Così, per esempio, il significato della 

parola «spiazzo», diverso da quello di «strada pubblica», meriterebbe un approfondimento; 

sebbene questi termini evochino immediatamente la categoria di suolo 

pubblico, essi sembrano designare spazi che hanno, se non nel diritto, almeno nella 

pratica amministrativa uno statuto più complesso. La conclusione del 1737 relativa 

alla concessione di suolo a favore del principe di Tarsia precisa: «spiazzo, ossia cortile 

scoperto che precede il menzionato palazzo» 40 . Si tratta, in effetti, e nella maggior 

parte dei casi nei quali si parla di «spiazzo», di un piazzale situato davanti ad una casa, 

ad un palazzo o ad una chiesa, per lo più non pavimentato, non essendo passaggio 

pubblico come la strada la cui pavimentazione rientrava invece nei compiti di manutenzione 

del Tribunale della Fortificazione. Non sono da escludere forme di spazio 

intermedio (non pavimentato, non curato) tra usi pubblici ed usi privati, dove le 

autorità intervenivano meno direttamente e meno regolarmente rispetto ai suoli detti 

«pubblici». Su tali spazi, piuttosto che sui luoghi specifici di passaggio, il Tribunale 

poteva riconoscere più agevolmente la legittimità delle pretese degli abitanti della 

strada, fatto salvo che essi rimassero sempre «spiazzi» improntati al decoro urbano 

(nelle prospettive, nei disimpegni o negli ingressi). 

Per una migliore completezza informativa, e cioè per un’indagine più estesa sugli 

usi di suolo pubblico, sui conflitti sociali che si aprono in materia e sull’arbitraggio 

svolto dalle istituzioni municipali o centrali, occorrerebbe passare al setaccio i numerosi 

dossiers conservati negli archivi della Camera di Santa Chiara. Per esempio, 

il conflitto che nel 1764 oppone le suore del monastero di San Gregorio Armeno 

al Portolano 41 − titolare dei diritti su un piccolo terreno sito dietro la chiesa di San 

Paolo − permette di indagare la dinamica delle istituzioni che possono diventare una 

risorsa per gli utenti dello spazio. L’affare solleva in effetti un problema di giurisdizione: 

chi tra il Portolano ed il Tribunale della Fortificazione deve procedere? Nessun 

documento testimonia di una concessione del Tribunale, il terreno è riconosciuto 

come pubblico e, di conseguenza, sotto la giurisdizione del Portolano per l’affitto 

dell’area ai venditori. Ai fini del nostro discorso, più che il conflitto di giurisdizione 

(risolto a favore del Tribunale) interessano gli argomenti addotti dal monastero: il 

«vacuo» in questione confina «da tre lati con li edificj del Monastero, e nel quarto lato 

attacca con la via pubblica detta di S. Paolo», ma è distinto dalla piazza dello stesso 

nome. Non si tratterebbe dunque di un luogo di passaggio pubblico, come viene 

sostenuto nella rivendicazione del monastero; ma questa argomentazione è smentita 

dall’ostacolo dei venditori al libero passaggio degli affittuari dello stesso monastero. 

Alla gestione dello spazio pubblico per mezzo di istanze municipali si oppone, nel


XVIII secolo, un’altra concezione dello spazio urbano e dei suoi usi che la monarchia 

cerca di promuovere: quella dello sgombro. Numerosi editti reali impongono ai poteri 

locali di procedere, specialmente nelle vie principali (Strada marittima, Chiaia, 

Regi Studi), allo sgombro dei suoli. Per far ciò il Tribunale della Fortificazione deve 

rinunciare ad alcuni censi, ed il Portolano a numerosi diritti. Queste opere di rimozione 

daranno luogo a nuovi conflitti fra il Portolano ed alcuni monasteri, soprattutto 

nel 1779, quando i venditori precedentemente allontanati da alcune vie e 

collocati davanti a chiese e monasteri, susciteranno le proteste dei religiosi. Così il 

largo antistante Santa Maria Maggiore 42 era rivendicato dal clero che pretendeva di 

essere pieno proprietario dello «spiazzo». Questo, in origine un giardino murato che 

si estendeva sino alla strada pubblica, era stato ridotto a «spiazzo» nel 1660 quando 

le sue mura erano state abbattute per rendere più agevole l’accesso alla chiesa. Anche 

in questa circostanza il conflitto verte attorno ad uno spazio che nessun elemento 

consente di distinguere dal suolo pubblico, ma che è a tutti gli effetti privato ed i cui 

usi, pubblici nella specie, sono di fatto consentiti dai loro proprietari. 

Usi privati su terreni pubblici, concessi dietro istanze municipali e contro rendite 

perpetue, e usi pubblici di terreni privati − mal distinti dalle vie pubbliche − costituiscono 

delle sedimentazioni complesse all’interno delle quali si giocano conflitti di usi 

che riguardano diritti del suolo, pratiche sociali e consumi dello spazio. 

Brigitte Marin 

1 Cfr. C. PETRACCONE, Napoli dal ‘500 all’800. Problemi di storia demografica e sociale, Napoli, Guida, 

1974; sulla concentrazione nel Settecento di una parte notevole della popolazione del Regno nella 

capitale e nei suoi dintorni, cfr. P. VILLANI, Territorio e popolazione: orientamenti per la storia demografica, 

in ID., Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Bari, Laterza, 1977, in particolare p. 95. 

2 Dopo l’allargamento della cinta muraria, sotto il viceré don Pedro de Toledo, una prima ordinanza 

vietò, per motivi di difesa, di costruire lungo il perimetro delle mura. Nella parte interna il divieto fu 

fissato in 80 metri circa, nella parte esterna in 530 metri circa. Diversi decreti cercarono successivamente 

di limitare l’espansione dei sobborghi nell’intento di contenere i flussi migratori di quanti, richiamati 

dai molti privilegi garantiti nella capitale, muovevano dalle province verso Napoli. I decreti del 20 luglio 

1566 e del 18 maggio 1569 sono in F. STRAZZULLO, Edilizia e urbanistica a Napoli dal ’500 al ’700, 

Napoli, Berisio, 1968, pp. 72-73. Queste disposizioni furono ribadite nel XVII secolo. 

3 «Il n’y a point dans Naples cette inégalité de bastiments qui est à Rome, où pour un beau palais 

l’on voit cent meschantes petites maisons basses, et mesme d’un étage; de sorte que Rome en la plus part 

des endroits semble un vrai village, sans parler de ces grans vagues de vignes, qui occupent plus de la 

moitié de la ville; dont tant s’en faut qu’il y ait aucune dans Naples, qu’à peine peu de maisons ont elles 

de petits jardins», E. KANCEFF, Œuvres de Jean-Jacques Bouchard. Journal, tomo II: Voyage dans le royaume 

de Naples. Voyage dans la campagne de Rome, Torino, Giappichelli, 1977, p. 242. Alla fine del XVII 

secolo Antonio Domenico Parrino osservava: «Le abitazioni dei cittadini sono assai comode ed alte a tal 

segno, che si veggono molte case a sei e sette piani. Ciocché avviene per la leggerezza della pietra e per 

l’ottima qualità dell’arena, detta pozzolana, la quale mischiata con la calce, fa una perfettissima congiunzione», 

in Teatro eroico e politico dei governi de’ vicerè del regno di Napoli dal tempo del re Ferdinando il 

Cattolico fino all’anno 1675, Napoli, presso M. Lombardi, 1875 (I ed. 1692-1694, 3 v.), vol. I, p. 38. 

4 In occasione delle convocazioni dei Parlamenti generali, i cittadini napoletani avevano a più riprese 

domandato al sovrano la grazia di costruire liberamente anche nelle zone vietate all’interno della


cinta muraria e nei borghi esterni. La richiesta era motivata con l’esigenza di alloggi destinati a soddisfare 

i bisogni della crescente popolazione urbana e con la necessità di un alleggerimento della forte 

pressione fiscale dei tribunali reali dal momento che, per ogni nuova costruzione, occorreva una licenza 

per ottenere la quale si dovevano pagare diritti assai elevati. Si veda, per esempio, la supplica indirizzata 

a Filippo IV nel 1636 nella quale i napoletani reclamavano un atto che consentisse di regolarizzare le 

costruzioni abusive (in F. STRAZZULLO, Edilizia e urbanistica a Napoli, cit., p. 130): «Supplicando Vostra 

Maestà resti servita far grazia a tutti coloro che avessero fabbricato per tutto il tempo passato, tanto 

dentro questa Città nei luoghi proibiti, quanto nei suoi borghi contro alla forma dei bandi e proibizioni, 

delle pene incorse e tasse fatte dalla Regia Camera; e che per l’avvenire sia lecito ai Napoletani 

tantum fabbricare liberamente nelle loro case, giardini e massarie, tanto dentro questa Città quanto in 

detti luoghi proibiti, senza pagare cos’alcuna e senza licenzia dell’Ill. Vicerè o altri Ministri». Il 1° luglio 

1718, sotto la dominazione austriaca, la Camera della Sommaria pubblicava l’avviso che consentiva a 

tutti i cittadini di costruire senza autorizzazione, né tasse al governo centrale: «si fa noto a tutte, e quali 

si vogliano persone, che possono fabbricare, rifare e migliorare le fabriche senza pagamento di diritto 

alcuno a beneficio della Regia Corte», ivi, p. 235. 

5 Sull’estensione della proprietà fondiaria ecclesiastica, si veda in particolare T. COLLETTA, Napoli. La 

cartografia pre-catastale, «Storia della città», X, 1985, 2-3, pp. 5-178. 

6 «Pubblico» o «pubblica» sono gli aggettivi più frequentemente impiegati nelle fonti per indicare 

le vie e le piazze della città. 

7 Questa serie archivistica è sopravvissuta al grave incendio che, nel 1946, distrusse la gran parte della 

documentazione relativa alla vita municipale. Attualmente il fondo è conservato presso l’Archivio storico 

del Comune di Napoli. Il catalogo di queste fonti, prima della loro irrimediabile distruzione, fu realizzato 

da B. CAPASSO, Catalogo ragionato dei libri, registri e scritture esistenti nella sezione antica o prima serie dell’archivio 

municipale di Napoli (1387-1806), parte I: Città in generale, ed in relazione colla suprema autorità 

dello stato e col resto del regno, Napoli, Giannini, 1876; parte II: Tribunale di San Lorenzo e sue dipendenze, 

Napoli, Giannini, 1899; parte III: Tribunali e Deputazioni ordinarie e straordinarie, Napoli, Giannini, 

1899. G. BRANCACCIO, Il governo del territorio nel Mezzogiorno moderno, Lanciano, Editrice Itinerari, 1996, 

cap. II, pp. 51-84, ha utilizzato queste fonti per illustrare le regolamentazioni vigenti riguardanti l’approvvigionamento 

idrico e le fogne, e per precisare l’andamento di alcuni lavori pubblici; sottolinea la 

mancanza di una vera e propria politica in questa materia. Invece, le autorizzazioni di costruzione e di usi 

dei terreni di pertinenza della città non sono state per ora, a mia conoscenza, indagate. 

8 Per un recente studio di queste amministrazioni deputate alla manutenzione urbana e delle loro 

pratiche, in un altro contesto cittadino, cfr. Fare la città. Salvaguardia e manutenzione urbana a Venezia 

in età moderna, a cura di S. Zaggia, Milano, Mondadori, 2006. 

9 ARCHIVIO DI STATO DI NAPOLI (d’ora in avanti ASN), Camera di Santa Chiara, Bozze di Consulta, 

277, inc. 28, 21 maggio 1764. 

10 «non si estende se non che nella destinaz[io]ne de’ luoghi amovibili e non già nelle strade, e luoghi 

fissi», ASN, Camera di Santa Chiara, Bozze di Consulta, vol. 277, inc. 28 (causa tra il monastero di San 

Gregorio Armeno et la Portolania). 

11 Un’analisi condotta sulle decisioni prese dal Tribunale della Fortificazione, dal 1735 al 1753, 

mostra come, su un totale di 255, 107 decisioni riguardino la concessione del suolo pubblico (il 42% 

circa, pari ad una media di 6 l’anno). 

12 «La concessione fu fatta con tutti i diritti, giurisdizione civili, criminali e miste e con tutti i lucri, 

emolumenti ecc. così nella città come nel distretto e casali di essa», B. CAPASSO, Catalogo ragionato dei 

libri, registri e scritture, cit., parte II, p. 125. 

13 Ivi, p. 126. 

14 ASN, Camera di Santa Chiara, Bozze di Consulta, vol. 281, inc. 1. 

15 «All’ufficio ... spettava … permettere l’occupazione di suolo o aria nelle strade e piazze con cacciate, 

pennate, banconi, baracche, scansie, tavole, scanni, sedie, sporte, tine, ridotti di pietre, some, 

carri o carretti o altro materiale che si getta a terra. Queste occupazioni, che si concedevano mediante 

decreto o licenza, formavano i diritti spettanti all’ufficio del R. Portolano, i quali si pagavano o 

mensilmente o giornalmente, sotto il nome di Piazza o di Moccia», B. CAPASSO, Catalogo ragionato 

dei libri, registri e scritture, cit., parte II, p. 127. Cfr. anche Situazione fatta dall’illustrissimo signor 

Portolano di questa Fedelissima Città nell’anno 1692. De cacciate, e pennate delle botteghe, posti fissi, e 

ammovibili, barracche, e altro, Napoli, per Carlo Porsile, 1692. Le istruzioni per questo ufficio furono


redatte nel 1725 e poi nel 1783; un nuovo tariffario dei diritti di Portolania si ebbe nel 1771. 

16 In una lettera del 17 gennaio 1764, il ministro Bernardo Tanucci, uomo di fiducia di Carlo III − 

quest’ultimo, chiamato ad assumere il governo in Spagna nel 1759 aveva dovuto abbandonare il Regno 

di Napoli affidandolo ad un Consiglio di Reggenza in attesa che suo figlio Ferdinando raggiungesse 

la maggiore età − denunciava le dannose pratiche di questo ufficio, tutte finalizzate ad accrescerne 

le entrate pecuniarie: «Signore, sa V. M. che la Portolania istituita par la polizzia, bellezza e sicurezza 

delle strade in mano della Città è stata per far denaro convertita in dispense pecunarie per sporcare le 

strade, imbarazzarle, guastarne la simmetria e anche colle materie pensili render pericoloso l’andar per 

le strade». Cfr. B. TANUCCI, Epistolario, vol. XIII: 1764, a cura di M. Barrio, Napoli, Società napoletana 

di storia patria, 1994, p. 19. 

17 R. PARISI, Catalogo ragionato dei libri registri e scritture esistenti nella sezione antica o prima serie 

dell’Archivio Municipale di Napoli (1387-1806), Napoli, Francesco Giannini, 1916, vol. II, parte III, 

pp. 532-534. ARCHIVIO STORICO DEL COMUNE DI NAPOLI (d’ora in avanti ASCN), Tribunale della Fortificazione, 

Conclusioni, vol. 1846, f. 50v. 

18 Due deputati del Tribunale della Fortificazione inviati sul luogo avevano osservato che questo 

vicolo «non solo non era di verun comodo a’ Cittadini, e di ornamento alla nostra Città, ma ivi la gente 

riducevasi a commettere mille scostumate laidezze, e sceleraggini», ivi. 

19 Ivi. 

20 Sulle pratiche di enfiteusi e sull’estensione dei diritti di superficie secondo i luoghi e le epoche cfr. 

Le sol et l’immeuble. Les formes dissociées de propriété immobilière dans les villes de France et d’Italie (XII e - 

XIX e siècle), Actes de la table ronde organisée par le Centre interuniversitaire d’histoire et d’archéologie 

médiévales et le Centre Pierre Léon (Université Lumière Lyon 2, École des hautes études en sciences 

sociales, CNRS) avec le concours de l’École française de Rome, (Lyon, 14-15 mai 1993), a cura di O. 

Faron-E. Hubert, Lyon, Presses universitaires de Lyon, 1995. 

21 ASCN, Tribunale della Fortificazione, Conclusioni, vol. 1845, f. 64v. Sulla storia della cinta muraria, 

vedi L. SANTORO, Le mura di Napoli, Roma, Istituto italiano dei Castelli, 1984; sulla sua progressiva 

demolizione, cfr. L. DI MAURO, Le mura inutili. L’aggressione dei napoletani alle mura nei secoli XVII e 

XVIII, in C. DE SETA-J. LE GOFF, La città e le mura, Roma-Bari, Laterza, 1989, pp. 245-264. 

22 Questa misura è presa nell’intenzione di lasciare ben visibile la torre di difesa, a memoria perpetua 

di un passato urbano simbolizzato dalle mura: «affinché il Torrione predetto da tal piano in sopra 

resti egli scoverto, siccome oggi stà per memoria dell’antichità in avvenire». Un’ulteriore condizione è 

precisata con il ricordare: «che li suddetti nuovi edifici faciendi debbano sempre in ogni futuro tempo 

servire per abitazione di gente oneste, e onorata», ASCN, Tribunale della Fortificazione, Conclusioni, 

vol. 1845, f. 64v. 

23 Il 22 dicembre 1744, il Tribunale della Fortificazione decideva di non fare più concessioni a titolo 

gratuito, al fine di disporre per l’avvenire delle entrate sufficienti a coprire le proprie spese ordinarie di 

manutenzione urbana, in ASCN, Tribunale della Fortificazione, Conclusioni, vol. 1845, f. 42v. 

24 «Possedendo l’Illustre Principe di Tarsia un magnifico palazzo sopra Pontecorvo, e rimpetto ad 

esso un ben ampio, e spazioso giardino, che va a confinare con la pubblica strada verso Porta Medina, 

nel quale giardino avendo costruito un nuovo sontuoso edificio con portici e logge, il cui ingresso viene 

incontro le mura della nostra città, e proprio in prospetto al palazzo dell’Illustre Marchese Ruggieri, con 

due giardini laterali al detto ingresso, perché per mettere in giusta simmetria le mura di tale ingresso, e 

giardini, gli conviene in un lato di detto ingresso, e proprio nel destro sporgere le sue mura in fuori, con 

occupare perciò la porzione della pubblica strada», ASCN, Tribunale della Fortificazione, Conclusioni, 

vol. 1844, f. 71r. 

25 Ivi, f. 59r. 

26 Ivi, f. 52r. 

27 Ibidem. 

28 Ivi, f. 54r. 

29 Ivi, f. 102r. 

30 «Per il qual vicolo con l’occasione di essere solitario, e soggetto a commettervisi molte malvagità, 

fu da questo Tribunale fin dall’anno 1651 conceduto al Venerabile Monastero della Sapienza, che ne fece 

l’istanza, con facoltà di poterlo chiudere a sue spese, con la condizione però, che nessun dominio si acquistasse 

su di esso a detto Venerabile Monastero … ottene [la concessione] con la riserva però che fosse 

restato ad libitum del medesimo Tribunale di quello, far riaprire sempre che gli fosse piaciuto», ibidem.


31 Questa circostanza fu messa in rilievo dall’ingegnere del Tribunale nel suo rapporto: «Con l’essere 

stati e star tuttavia tal vicolo e sua rivolta chiusi nella forma cennata di sopra, con facilità ambidue i 

Venerabili Monasteri suddetti si son potuti di quelli avvalere», ibidem. 

32 «detta proprietà si pretende esente da qualunque servitù, e con la facoltà di poter reintegrare ogni 

occupazione, al fine di così potersi esso Venerabile Monastero di tal vicolo servire, per quell’uso che gli 

fu di bisogno», rapporto dell’ingegnere reale Francesco Sciarretta, 25 novembre 1738, ibidem. 

33 «Quella corresponsione non poteva aver altra causa che la concessione fattagli di tal suolo. Come 

altresì dal lungo pacifico possesso che esso Monastero aveva sempre avuto di tutto il detto vicolo, avendo 

nella maggior parte, ed estensione di esso fatte fabbriche a suo arbitrio visibili agli occhi di tutti, e 

per aver avuto parte e passeggiata nell’altra porzione di detto vicolo non occupata anche con fabbriche... 

Quindi è che usando il nostro Tribunale della sua solita equità, dichiara in primo luogo che la porzione 

del vicolo segnata in pianta con la lettera G, che framezzava il palazzo dell’Illustre principe di Conca, e il 

detto Venerabile Monastero con il peso dell’annue libre cinque ed once sei di cera, sia in pieno utile dominio 

di esso Venerabile Monastero, né per tal porzione di vicolo possa mai essere molestato», ibidem. 

34 «Dichiara in secondo luogo che tutte le fabbriche fatte per parte del detto Venerabile Monastero 

nell’altra porzione di vicolo segnate in pianta con le lettere CD, siano state fatte in contravenzione nel 

suolo pubblico. Però avendo il nostro Tribunale riguardo, che tal porzione di vicolo era inservibile così per 

la chiusura fatta sin dall’anno 1651 come per il suo sito solitario, ed importuno, e che qualora prima di 

farci esso monastero le dette fabbriche, semmai ne avesse chiesto il permesso, glielo avrebbe conceduto il 

nostro Tribunale con la costituzione però del debito censo per il salario di esso. Perciò è che con la presente 

conchiusione assolviamo detto venerabile Monastero dalle pene nelle quali si trova incorso per le dette 

fabbriche ivi senza licenza fatte, e pagandoci per detto venerabile Monastero per il salario di detta porzione 

di vicolo … annue libre di cere sette in uno con l’antica prestazione, ordiniamo … che il suolo della detta 

porzione di vicolo passi in perpetuo utile dominio di detto venerabile Monastero», ibidem. 

35 La documentazione del Tribunale, per l’anno 1741, permette di conoscere in dettaglio le circostanze 

che accompagnarono la ricostruzione del sedile di Porto. Dalla fine del XVII secolo, i nobili 

di questo seggio avevano avanzato una domanda di concessione del suolo per trasferire il loro edificio 

in un luogo più adatto alla qualità di una tale fabbrica : «Sin dal passato secolo avendo considerato 

l’Eccellentissima Piazza di porto, che il sedile in cui essa per le pubbliche, e private sue assemblee si 

radunava, per essere basso il sito, stretto il luogo, e circondato intorno da ignobili edifici, senza avere 

per nessun lato alcun largo, molto improprio, e disadatto riusciva per quelle funzioni, e celebrità, che 

in esso celebrare sovente si dovevano, stimò di abbandonarlo, e formare altro nuovo in sito più rilevato, 

in luogo più ampio, e in mezzo a nobili edifici, che accompagnassero con la simmetria la magnificenza 

di quel Seggio che essi pensavano di ergere. E con sommo accordimento pose essa l’occhio sull’ampia 

strada o piazza, che dalla strada di S. Giuseppe Maggiore va a riuscire al lato del castello Nuovo in cui 

tutte le avvisate circostanze di ottimo sito, di ampio luogo, e di nobiltà dei vicini edifici, per appunto 

concorrevano» (ASCN, Tribunale della Fortificazione, Conclusioni, vol. 1844, f. 136v.). Ma una volta 

ottenuta la concessione del suolo, i nobili del seggio di Porto si trovarono di fronte ad un nuovo problema: 

l’interdizione di costruire in questa zona emanata dal governatore della vicina fortezza di Castel 

Nuovo. Il Tribunale decise allora di consentire l’occupazione dei luoghi solo per alcune costruzioni modeste; 

ma nel 1739 i nobili di seggio, ottenuta finalmente l’autorizzazione sovrana, chiesero a viva voce 

la distruzione di questi edifici per costruirvi il nuovo sedile. I piani furono discussi con tutti i proprietari 

implicati per trovare una soluzione che limitasse gli inconvenienti di questo insediamento. 

36 ASCN, Tribunale della Fortificazione, Conclusioni, vol. 1845, f. 94r. 

37 «sarebbe venuto a restringersi così il comodo del passaggio, come del tirar le barche in detto luogo 

in tempo di mareggiate». Ivi, vol. 1844, f. 62r. 

38 «censuare tal vacuo per uso di semplice e puro spiazzo, senza poterlo giammai occupare né con 

fabbriche né con altri materiali». Ivi, vol. 1845, f. 88r. 

39 Ivi, vol. 1846, f. 13r. 

40 Ivi, vol. 1844, f. 71r. 

41 ASN, Camera di Santa Chiara, Bozze di Consulta, 277, inc. 28, 21 maggio 1764. 

42 F. STRAZZULLO, Edilizia e urbanistica a Napoli, cit., p. 91.


IL PALINSESTO DI UNA CITTÀ MEDIEVALE 

METODI E PROBLEMI DELL’ARCHEOLOGIA 

URBANA A SIENA 

Un progetto per la città 

Al nome «Siena» tradizionalmente si associa l’immagine della città medievale, delle 

costruzioni in laterizio, con ballatoi in legno, e delle torri in pietra. Oppure si pensa 

al Palio, la corsa dei cavalli che si svolge nella piazza del Campo, ai costumi, alle 

bandiere e ai tamburi, con una percezione del passato che sembra arenarsi al medioevo. 

Solo nel corso degli ultimi anni questa immagine ha cominciato a trasformarsi, 

con il lento sorgere della consapevolezza che le radici della città medievale poggiano 

e affondano non sull’arenaria vergine che ne costituisce il sottosuolo, ma sulle tracce 

di un passato molto più remoto di quanto si sia abituati a pensare. E, anzi, probabilmente 

si può dire che la città medievale, con le sue strutture, la sua viabilità e la sua 

distribuzione degli spazi aperti e chiusi, verosimilmente ricalca e sviluppa strutture e 

organizzazioni dello spazio ben più antiche e lontane nel tempo. 

Fino alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, anche se alcune importanti 

informazioni sulle origini della città potevano essere dedotte dalle notizie di rinvenimenti 

di materiali archeologici frequentemente riportate dalle fonti della storia 

senese, i dati a disposizione, di fatto, non venivano ritenuti sufficienti per ipotizzare 

ricostruzioni dell’organizzazione del tessuto urbano nelle sue prime fasi di vita 1 . 

Queste informazioni, per lo più, erano costituite dalle scarne note che accompagnavano 

alcuni nuclei di materiali archeologici recuperati a Siena tra la seconda metà 

dell’Ottocento e i primi decenni del secolo successivo. Si trattava, ovviamente, solo 

di una piccola parte dei reperti effettivamente recuperati, che per varie ragioni erano 

sopravvissuti alla dispersione sul mercato antiquario, e di reperti che, muniti quasi 

esclusivamente di indicazioni generiche di provenienza, di fatto erano stati privati 

di gran parte del potenziale informativo originario. Per questa ragione, fino a quel 

momento, i tentativi di ipotizzare la struttura o, almeno, l’estensione della città antica, 

etrusca e romana, per forza di cose si erano trovati a dover integrare la scarsità 

di concreti indizi scientifici con l’apporto dei tanti racconti sulle origini della città o 

con letture, talvolta discutibili, di alcuni toponimi 2 . 

Negli ultimi decenni, invece, interventi urbanistici effettuati nel centro storico

584 SILVIA PALLECCHI 

hanno offerto l’occasione per raccogliere nuovi dati 3 che consentono di diradare un 

po’ quella spessa nebbia in cui si voleva avvolto il passato della città 4 e di formulare 

alcune ipotesi non solo sull’estensione e la forma del primitivo nucleo abitato, ma 

anche sulla sua organizzazione interna 5 . L’inversione di rotta è stata, in particolare, 

determinata da una serie di campagne di scavo condotte dal dipartimento di Archeologia 

dell’Università di Siena nell’area dell’ex Ospedale di Santa Maria della Scala. 

In quest’area, infatti, il perdurare della vocazione funzionale di certe zone attraverso 

i secoli del Medioevo e fino ai giorni nostri, ha consentito la conservazione di interi 

bacini stratigrafici riferibili alle fasi più antiche dell’insediamento. Per l’analisi di 

queste nuove informazioni, ma anche nel tentativo di costruire uno strumento di 

dialogo tra gli organi interessati alla ricerca e quelli preposti all’amministrazione del 

territorio, nel 2001 l’Università mise in piedi un progetto di studio che ha prodotto, 

tra l’altro, una carta del rischio archeologico per l’area del centro di Siena. 

La prima tappa di questo progetto ha previsto la raccolta sistematica delle informazioni 

relative alla struttura della città e alle sue trasformazioni nel tempo. Queste 

informazioni sono state organizzate all’interno di una banca dati, insieme a quelle 

relative ai rinvenimenti di materiali e stratificazioni archeologiche noti in bibliografia. 

All’interno di una apposita sezione della banca dati sono confluite anche le 

informazioni raccolte nel corso di una serie di campagne di ricognizione, condotte 

sia in superficie che nel sottosuolo della città, che hanno integrato le notizie fornite 

dagli scavi archeologici. 

La ricognizione di superficie ha previsto l’analisi delle aree non costruite e il censimento 

dei materiali di reimpiego riutilizzati nelle strutture medievali, ma anche la 

registrazione della presenza di percorsi chiusi e di modifiche alla viabilità originaria, 

talvolta facilmente leggibili sulle murature degli edifici in uso. La ricognizione nel 

sottosuolo, invece, ha previsto l’esplorazione e la documentazione di numerosissime 

strutture ipogee. Il sottosuolo di Siena, infatti, è caratterizzato dalla presenza di migliaia 

di cavità, di varia forma e dimensione, realizzate in varia epoca e con diverse 

funzioni, alcune delle quali, probabilmente, molto antiche 6 . Queste strutture ipogee, 

oltre a costituire di per sé stesse tracce importanti per la ricostruzione dell’organizzazione 

degli spazi della città antica, consentono anche, quando intaccano depositi 

superficiali, di registrare l’eventuale presenza, e di valutare l’entità e la qualità dei 

depositi archeologici sottostanti la città, oltre che di raccogliere informazioni a proposito 

della struttura geomorfologica originaria 7 . 

La ricostruzione della geomorfologia originaria, in effetti, era uno dei problemi 

fondamentali che si poneva la ricerca. Siena, infatti, è costruita su una serie di colli 

che presentano una caratteristica struttura a gradoni naturali, di solito nettamente 

scoscesi, separati tra di loro da salti di quota anche di diversi metri e, attualmente, nascosti 

al di sotto degli edifici, delle strade e dei relativi interventi di regolarizzazione. 

È evidente che, ai fini della ricostruzione dell’estensione e dell’organizzazione della

IL PALINSESTO DI UNA CITTÀ MEDIOVALE 585 

città antica, un’analisi dell’andamento originario di questi terrazzamenti era assolutamente 

fondamentale. La loro presenza, infatti, influisce da sempre sulle modalità di 

sviluppo e di organizzazione della città, e, anzi, è possibile che la lunghissima durata 

degli orientamenti principali della viabilità e dell’organizzazione e distribuzione degli 

spazi costruiti a Siena derivi proprio da questa complessa articolazione della struttura 

geomorfologica originaria. La presenza dei terrazzamenti, in particolare, da una parte 

rafforza naturalmente l’efficacia delle strutture difensive, dall’altra costringe la viabilità 

e l’organizzazione dell’insediamento ad affrontare una serie di problemi logistici 

connessi sia con la ridotta estensione delle superfici disponibili su ciascun gradone 

sia, soprattutto, con la necessità di collegamento tra le parti della città disposte su 

gradoni distinti. Il collegamento tra le diverse parti della città fu assicurato tramite 

la realizzazione, probabilmente in età antichissima 8 , di una serie di rampe artificiali 

(a Siena dette «coste» o «costoni»), create tramite tagli e colmate, di solito in maniera 

da distribuire omogeneamente l’ingombro della rampa tra i due gradoni che si 

intendeva mettere in comunicazione (fig. 1). Lo stesso principio fu applicato anche 

Fig. 1 - Illustrazione del sistema 

comunemente utilizzato a Siena 

per la realizzazione delle rampe di 

collegamento tra i gradoni naturali che 

scandiscono i colli su cui sorge la città. 

Si vuole creare una rampa di 

collegamento tra il gradone A ed il 

gradone B (illustrazione in alto). Si 

procede al taglio di una porzione del 

gradone superiore (immagine centrale). 

La terra rimossa viene scaricata a valle 

del gradone B ed utilizzata per creare 

una colmata che riempie il dislivello 

rimasto, dopo il taglio, tra il piano 

del gradone A e quello del gradone B 

(illustrazione in basso). 

Questo sistema, che permette di 

creare collegamenti distribuendo tra i 

due gradoni l’ingombro della rampa, 

fornisce soluzioni funzionali allo 

sviluppo della viabilità sugli stretti 

terrazzamenti che caratterizzano i colli 

di Siena, evitando, al tempo stesso, sia 

l’ostruzione dei gradoni tramite rampe 

troppo ingombranti sia il ricorso a 

rampe ripide e poco funzionali.


Fig. 2 - Illustrazione del sistema comunemente utilizzato a Siena per la realizzazione delle strutture 

in elevato. Le strutture sorgono a cavallo tra due gradoni adiacenti, in maniera da risparmiare, 

sulle superfici di entrambi, lo spazio per la viabilità. E’ per questa ragione che, di solito, 

a Siena gli edifici sono dotati di un piano in più sulla facciata a valle, rispetto alla facciata a 

monte; per lo stesso motivo, sulla viabilità che corre parallela all’andamento dei gradoni, sul lato 

a monte sono di solito posizionati gli ingressi alle cantine, ai magazzini e ai laboratori mentre 

verso valle sono tipicamente posizionati gli ingressi alle abitazioni vere e proprie. 

alla realizzazione delle strutture in elevato, che a Siena solitamente sorgono a cavallo 

tra due gradoni adiacenti, in maniera da risparmiare, su entrambi i terrazzamenti, lo 

spazio per la viabilità (fig. 2). 

Le informazioni raccolte nel corso delle ricognizioni nel sottosuolo di Siena, integrate 

con le notizie deducibili dalle fonti letterarie e iconografiche, hanno permesso, 

per l’area del Terzo di Città, che costituisce il nucleo originario dell’insediamento, 

di ipotizzare con una certa approssimazione l’andamento di buona parte del profilo 

originario di questi terrazzamenti e di riconoscere e localizzare un certo numero di


Fig. 3 - Terrazzamenti naturali dei colli nell’area del Terzo di Città e relative rampe di 

collegamento. 

rampe di collegamento, che sono probabilmente da riferire alla struttura della città 

pre-medievale (fig. 3). 

La semplice sovrapposizione della pianta catastale della città a quella con la ricostruzione 

dei terrazzamenti e delle rampe ad essa sottostanti è stata sufficiente ad 

evidenziare in maniera molto chiara gli aspetti di lunga durata dei nodi urbanistici 

fondamentali. D’altro canto, il fatto che le poche strutture murarie pertinenti alle 

fasi più antiche dell’insediamento, che andavano riemergendo nel corso degli scavi, 

sembrassero ricalcare, con poche sfasature, i medesimi orientamenti e insistere sugli 

stessi nodi, ha aperto la strada a nuovi fronti di indagine per le ipotesi ricostruttive 

relative all’organizzazione dell’abitato originario, suggerendo, per la prosecuzione 

della ricerca, l’adozione del metodo regressivo applicato all’analisi della cartografia


storica. Dal catasto moderno della città si è proceduto, allora, a sottrarre gli edifici 

più recenti, sostituendoli quando possibile con le piante e gli ingombri di quelli 

più antichi, ricreando i tratti di viabilità soppressi, le vecchie corti e i vecchi giardini, 

cercando di risalire quanto più possibile indietro nel tempo, per avvicinarci alla 

struttura della città pre-medievale. Sul modello urbano così ricostruito, l’analisi delle 

alternanze tra volumi pieni (le parti chiuse dagli edifici) e i volumi vuoti (giardini, 

corti, strade e piazze), ha consentito poi di rileggere strutture organizzative che forse, 

almeno in parte, rimandano alle fasi più antiche dell’abitato. 

Le informazioni relative a tutti i vari rinvenimenti di stratificazioni e materiali 

archeologici recuperati nell’area della città, rilette alla luce dei sistemi organizzativi 

ricostruiti e ancorate alle relative ipotesi di interpretazione funzionale, assumono 

finalmente un significato nell’organizzazione del territorio e consentono oggi di raccontare 

per Siena una storia nuova, che, naturalmente, non è in grado di esaurire la 

ricerca, ma che di certo ne moltiplica e orienta le domande 9 . 

Sotto la pelle della città medievale 

Le fonti letterarie su Siena sono decisamente scarse e forniscono solo pochi indizi 

per comprendere l’origine e la storia delle prime fasi di vita della città 10 . Una serie 

di rinvenimenti sporadici testimonia che l’area doveva essere frequentata già dall’XI- 

X secolo a.C., periodo a cui rimanda il rinvenimento di due ripostigli con asce di 

metallo, recuperati rispettivamente poco distante da Porta Pispini e presso Porta San 

Marco 11 . Si tratta, in entrambi i casi, di rinvenimenti in aree periferiche rispetto a 

quelle nelle quali si svilupperà, poi, il nucleo primitivo della città, ma, soprattutto, 

si tratta di rinvenimenti che, per il loro carattere di ripostigli, non possono fornirci 

indicazioni di alcun genere a proposito della presenza di un eventuale abitato. 

Le prime attestazioni di insediamento stabile sono, invece, documentate con certezza 

solo a partire dal VII-VI secolo a.C., momento a cui sono da riferire i resti di 

alcune strutture abitative identificate nel corso degli scavi archeologici condotti al di 

sotto dell’ex Ospedale di Santa Maria della Scala 12 e, probabilmente, anche una serie 

di fibule rinvenute poco più a valle nei primi anni del XX secolo, forse tra i resti di 

una sepoltura 13 . In effetti, le origini etrusche di Siena sembrano dichiarate già dallo 

stesso nome della città che pare riconducibile a quello della famiglia etrusca Saina, 

attestata dal II secolo a.C. su una serie di iscrizioni rinvenute a Montalcino, Chiusi e 

Perugia e che potrebbe avrebbe avuto possedimenti proprio nella zona di Siena 14 . 

Sullo stesso colle del Duomo, i resti di una serie di strutture in legno e materiali 

deperibili, databili tra il IV ed il III secolo a.C. 15 , dimostrano la continuità di vita 

dell’insediamento, che era probabilmente affiancato da un quartiere artigianale 16 e 

circondato da una rete di percorsi lungo i quali si sviluppavano alcune necropoli 

17 (fig. 4). Proprio a questo periodo potrebbe riferirsi l’instaurazione sul colle di 

Castelvecchio, così chiamato già dal 1010 18 , di un primo insediamento fortificato,


Fig. 4 - Organizzazione 

dell’abitato sul colle 

del Duomo tra IV e 

III sec. a.C. Ipotesi 

ricostruttiva. 

Fig. 5 - Assetto originario 

dell’area fortificata di 

Castelvecchio. Ipotesi 


immediatamente prospiciente a quello che si era sviluppato sul colle del Duomo, e 

collegato ad esso da una sella di origine naturale. Nella zona del colle di Castelvecchio 

l’analisi della cartografia, riletta attraverso il metodo regressivo, ha messo in 

luce, infatti, la presenza di una organizzazione della viabilità che segue uno schema 

geometrico impostato su assi ortogonali larghi circa 6 metri, che suddividono isolati 

a pianta rettangolare (fig. 5). Questa organizzazione può essere attualmente datata 

solo sulla base dei termini ante quem costituiti dagli edifici che sono andati a modificarne 

la struttura (in particolare, essa è precedente ad una serie di interventi edilizi


databili entro la prima metà del XV secolo). Se, però, essa sia precedente solo di 

qualche secolo o se debba essere considerata molto più antica, oggi non è possibile 

stabilirlo con certezza, anche perché, fino ad ora, in quest’area non è stato possibile 

intervenire con indagini stratigrafiche. 

Tuttavia, è interessante rilevare che, dal punto di vista tipologico, la struttura si 

adatterebbe senza particolari difficoltà ad un insediamento di IV-III secolo a.C. 19 . 

Nel suo complesso, questa organizzazione interessa un’area a pianta approssimativamente 

rettangolare, delle dimensioni di circa 800x400 piedi romani, il cui perimetro 

avrebbe potuto essere facilmente fortificato, sfruttando i dislivelli naturali del terreno. 

Lungo il perimetro di quest’area, in effetti, va a posizionarsi una serie di segnalazioni 

di strutture murarie rinvenute nel corso dei secoli passati e non più visibili, 

ma nelle quali, al momento del rinvenimento, si suggerì di identificare tratti delle 

fortificazioni del nucleo più antico della città 20 . 

Siena, che insieme ad altre città etrusche a nord di Roma aveva probabilmente 

acquistato la cittadinanza romana in base alla lex Iulia de civitate del 90 a.C. ed era 

stata elevata a municipio e iscritta alla tribù Oufentina intorno all’87, sulla base della 

lex Cornelia di Cinna, era probabilmente tra quelle città etrusche che faticavano a 

riconoscere la supremazia di Roma 21 . Durante le guerre civili tra Mario e Silla si era 

schierata, probabilmente, con Volterra dalla parte di Mario e pochi decenni più tardi, 

forse intorno al 29 a.C., era divenuta colonia militare con il nome di Saena Iulia, 

con il quale compare anche sulla Tabula Peutingeriana 22 e sulle iscrizioni funerarie 

di molti suoi soldati, attestate in gran parte del mondo romano fino alla fine del IV 

secolo d.C. 23 . 

Proprio all’organizzazione della colonia di Saena Iulia potrebbe esser fatto risalire 

un secondo reticolo urbano, riconosciuto nell’area del colle del Duomo. Il reticolo, 

che in buona parte coincide con il sistema organizzativo attuale del colle, è ancora 

una volta caratterizzato da un impianto ad assi ortogonali, che suddividono lo spazio 

urbano in file di isolati a pianta rettangolare, alternate a file di isolati a pianta quadrata 

(fig. 6). Anche in questo caso, il sistema può essere datato solo sulla base dei 

termini ante quem costituiti dagli edifici che andarono a modificarne la struttura, cioè 

sicuramente prima del secondo ventennio del XIV secolo, ma è interessante sottolineare 

che esso sembra compatibile con l’orientamento delle poche strutture murarie 

di età romana individuate sul colle nel corso delle recenti campagne di scavo 24 . Dal 

punto di vista tipologico, si rileva che sistemi di questo tipo sono caratteristici, nell’antichità, 

dell’organizzazione urbanistica delle colonie di età sillana e, in genere, 

delle fondazioni databili tra la fine della repubblica e la prima età imperiale, come, 

ad esempio, la vicina Firenze, colonia tra il 44 e il 41 a.C. 25 . 

Il reticolo ricostruito per il colle del Duomo interessa una serie di terrazzamenti 

che definiscono un’area a pianta approssimativamente rettangolare, delle dimensioni 

di circa 800x600 piedi. Il perimetro di quest’area avrebbe potuto essere facilmente


Fig. 6 - Assetto originario dell’area della colonia di Saena Iulia, sul colle del Duomo. Ipotesi 


fortificato, sfruttando il dislivello naturale, e, in effetti, lungo il perimetro dei terrazzamenti 

più a valle sono stati effettuati, in epoche diverse, rinvenimenti di imponenti 

strutture murarie che potrebbero essere riferite proprio alle fortificazioni del colle 26 . 

A queste fortificazioni è possibile che possa essere riferito anche un grande pilastro 

in muratura, che costituiva la fondazione di una imponente struttura in pietra, rinvenuto 

all’estremità di uno dei tracciati viari del reticolo, nel corso di una campagna 

di scavo condotta dall’Università al di sotto dei locali del Duomo 27 . Il pilastro, che 

sembra essere stato in relazione con una antica rampa scavata nell’arenaria vergine, 

che almeno dal III secolo a.C. consentiva l’accesso alla parte più alta del colle, è verosimilmente 

da interpretare come traccia di una delle porte urbiche della colonia. 

A conferma di questa interpretazione, poco distante è stato individuato un pozzetto 

sacrificale a pianta quadrata scavato nell’arenaria vergine, all’interno del quale sono 

stati rinvenuti i resti del sacrificio di tre cani e di un cavallo, che sembra costituire la 

traccia di un rito propiziatorio tipicamente legato alla fondazione delle mura o delle 

porte della città. L’evidente asimmetria degli assi viari principali del nucleo urbano 

così ricostruito suggerisce di avvicinarne la struttura a quella dei castra militari, con


un accostamento che potrebbe rafforzare la suggestione di una fondazione stabilita 

in funzione di controllo dei territori e della viabilità dell’Etruria interna. La nuova 

colonia, così strutturata (fig. 7), prosegue la sua vita senza soluzioni di continuità, 

attraverso i secoli dell’impero, il Tardo antico e l’Alto medioevo, oltre il quale si 

immerge nei secoli e nelle trasformazioni che l’hanno portata ad essere come oggi la 

vediamo. 

Silvia Pallecchi 

Fig. 7 - L’area di Siena tra la fine 

del I sec. a.C. e il III sec. d.C. 

Ipotesi ricostruttiva. Il nucleo 

della colonia di Saena Iulia viene 

a giustapporsi all’antico abitato 

fortificato di Castelvecchio.


1 E. MAZZESCHI, Cronache d’archeologia senese, Siena, Cantagalli, 1976, pp. 67-75; M. CRISTOFANI, 

Siena: le origini. Testimonianze e miti archeologici, Firenze, Olschki, 1979; L. BORTOLOTTI, Le città nella 

storia d’Italia. Siena, Roma-Bari, Laterza, 1982, pp. 1-11. 

2 Cfr., ad esempio, le ipotesi dell’antiquaria senese, tra cui: B. BENVOGLIENTI, Trattato de l’origine et 

accrescimento de la città di Siena, Roma, appresso Giuseppe de gli Angeli, 1571, pp. 2-19; O. MALAVOL- 

TI, Historia de’ fatti e guerre de’ Senesi, 3 voll., Venezia, per Salvestro Marchetti libraro in Siena all’insegna 

della Lupa, 1599, vol. II, pp. 11-12; G. TOMMASI, Dell’historie di Siena, 2 voll., Venezia, presso Gio. 

Batt. Pulciani sanese, 1625-1626; T. GALLACCINI, Informazioni dell’antichità di Siena di Teofilo Gallaccini 

dottore di Medicina e pubblico lettore di Mattematica nello Studio di Siena, in Memorie di cose antiche di 

Siena compilato da Teofilo Gallaccini, Siena, Archivio di Stato, ms. D.8.di, cc. 275r-283v: c. 279v; G. 

GIGLI, Diario Sanese, 2 voll., Siena, Tip. dell’Ancora di G. Landi e N. Alessandri, 1854 (2° ed.), vol. 

I, p. 548; G. MANCINI, Breve ragguaglio delle cose di Siena (1618-25), Siena, Bibl. Com., ms. C.IV.18., 

c. 52; P. ROSSI, Le origini di Siena, 2 voll., Siena, Tip. e lit. Sordo-muti di L. Lazzeri, 1895-1897, vol. 

II, pp. 38-49; S. TIZIO, Historiae Senenses, Siena, Bibl. Com., ms. D.III.6, I, copia del 1725-1726 

dell’originale conservato alla Biblioteca Vaticana (Chis. G.I.35), pp. 50-53; più di recente, V. LUSINI, 

Note storiche sulla topografia di Siena nel secolo XIII, «Bullettino senese di storia patria», 38, 1921, pp. 

239-341: 250-254 e A. LEONCINI, Siena in fasce: topografia e immagini della Sena Vetus, Monteriggioni, 

Il Leccio, 1998. A proposito delle tradizioni sulle origini di Siena, cfr. anche L. DOUGLAS, Storia politica 

e sociale della Repubblica di Siena, Siena, Libreria Senese Editrice, 1926, pp. 15-23; A. CIACCI, Le origini 

tra mito e archeologia, in Storia di Siena, a cura di R. Barzanti-G. Catoni-M. De Gregorio, 2 voll., Siena, 

Alsaba, 1995, vol. I, pp. 9-26; A. ORLANDINI, Piccola storia di Siena. Dalle origini al terzo millennio, 

Siena, Protagon, 2000, pp. 11-19. 

3 Cfr., ad esempio, Santa Maria della Scala. Archeologia ed edilizia sulla piazza dello Spedale, a cura 

di E. Boldrini-R. Parenti, Firenze, All’Insegna del Giglio, 1991; F. CANTINI-F. GABBRIELLI-S. PALLEC- 

CHI-C. SAFFIOTI, La storia sotto il vecchio ospedale, «Archeo», XVII, 2001, 10, pp. 34-45; F. CANTINI, 

Archeologia urbana a Siena. Altomedioevo, Firenze, All’Insegna del Giglio, 2005; M.A. CAUSARANO-R. 

FRANCOVICH-M. VALENTI, L’intervento archeologico sotto il duomo di Siena: dati e ipotesi preliminari, in 

Sotto il duomo di Siena. Scoperte archeologiche, architettoniche e figurative, a cura di R. Guerrini, Milano, 

Silvana Editoriale, 2003, pp. 153-167. 

4 L. DOUGLAS, Storia politica, cit., p. 16. 

5 S. PALLECCHI, Archeologia urbana a Siena. Per una indagine preventiva mirata all’individuazione delle 

aree di maggior rischio archeologico, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Siena, a.a. 2002-2003. 

6 M.A. CAUSARANO-R. FRANCOVICH-M. VALENTI, L’intervento archeologico, cit., p. 158. 

7 Cfr. S. PALLECCHI, Archeologia urbana, cit., pp. 82-220. 

8 M.A. CAUSARANO-R. FRANCOVICH-M. VALENTI, L’intervento archeologico, cit., pp. 158-159. 

9 S. PALLECCHI, Archeologia urbana, cit. 

10 PL., Nat. Hist., 3.5.52; TAC., Hist., 4.45. 

11 M. CRISTOFANI, Siena: le origini, cit., p. 194-196, nn. 25, 33. 

12 F. CANTINI-F. GABBRIELLI-S. PALLECCHI-C. SAFFIOTI, La storia, cit. 

13 M. CRISTOFANI, Siena: le origini, cit., p. 194, n. 28. 

14 Cfr., ad esempio, AS 1.215; Cl 1.558; Cl 1.1420; Cl 1.2271; Pe 1.1024-1025; cfr. M. CRISTOFA- 

NI, Siena: le origini, cit., pp. 3-4. 

15 Santa Maria della Scala, cit., pp. 179-184; C. SAFFIOTI-M. BELLI, Santa Maria della Scala. Area 

89.000: il cantiere, Relazione dattiloscritta presso l’Archivio del Santa Maria della Scala, Siena, 1999. 

16 M. CRISTOFANI, Siena: le origini, cit., p. 192, n. 12. 

17 S. PALLECCHI, Archeologia urbana, cit., pp. 231-233; 268-276. 

18 F. SCHNEIDER, Regestum Senense. Regesten der Urkunden von Siena, Roma, Loescher, 1911, p. 11, 

n. 29 (a. 1010): «Actum Sena locus intus casa Guidoni f.b.m. Rinaldi q. fuit vicecomes ad locus ad 

castello vetero»; cfr. P. BROGINI, Lo sviluppo urbanistico di Siena fino all’età precomunale, Tesi di laurea, 

Università di Siena, a.a. 1991-1992, p. 197. 

19 Cfr., ad esempio, F. CASTAGNOLI, Ippodamo di Mileto e l’urbanistica a pianta ortogonale, Roma, De 

Luca, 1956, pp. 73-80.


20 F. BARGAGLI PETRUCCI, Le fonti di Siena e i loro acquedotti, 2 voll., Siena, Lazzeri, 1905; R. BIANCHI 

BANDINELLI, Edizione archeologica della carta d’Italia al 100.000, foglio 120 (Siena), Firenze, Istituto 

geografico militare, 1927, p. 7, n. 7; M. CRISTOFANI, Siena: le origini, cit., p. 192, n. 15; V. LUSINI, Note 

storiche, cit., p. 248, note nn. 3-5; A. LEONCINI, Siena in fasce, cit., pp. 30-31. 

21 L. DOUGLAS, Storia politica, cit., p. 10; M. CRISTOFANI, Siena: le origini, cit., pp. 94-95; D. BAR- 

BAGLI-C. CIANFERONI, Museo archeologico. Siena, Siena, Protagon, 2001, pp. 64-65. 

22 L. DOUGLAS, Storia politica, cit., p. 11; M. CRISTOFANI, Siena: le origini, cit., pp. 95-96. 

23 Cfr. ed esempio, CIL III, 5538; CIL VI, 1793; CIL VI, 2379a; CIL VII, 1345; CIL XIV, 172. 

24 Santa Maria della Scala, cit., pp. 185-187. 

25 F. CASTAGNOLI, Ippodamo di Mileto, cit., pp. 90-94. Per Firenze, cfr. P. SOMMELLA, L’Italia antica. 

L’urbanistica romana, Roma, Jouvence, 1988, p. 168-169 e fig. 46. 

26 V. LUSINI, Note storiche, cit., p. 249, nota n. 1. 

27 M.A. CAUSARANO-R.FRANCOVICH-M.VALENTI, L’intervento archeologico, cit., p. 159.



VERA COMOLI: LA CITTÀ COME STORIA URBANA 

Vera Comoli (Borgosesia 1935-Val di Sesia 2006) è stata una studiosa attenta e 

appassionata della città, una personalità autorevole del mondo accademico, un punto 

di riferimento per le istituzioni che operano nel territorio, e una donna di grande umanità. 

I partecipanti all’ultimo congresso dell’AISU su La Città e le Regole, da lei stessa 

accolto con entusiasmo al Politecnico e tenutosi nella sede del Castello del Valentino il 

15-16-17 giugno 2006, hanno avuto modo di apprezzarne la levatura scientifica quando 

aveva operato come membro del comitato ordinatore dell’iniziativa e come coordinatrice 

di una sessione; ma hanno potuto anche conoscerne le straordinarie capacità 

organizzative. Certo tutti ne ricorderanno la vitalità, l’energia, la calda ospitalità. 

Si era laureata in architettura al Politecnico di Torino nel 1961 e dal 1981, professore 

ordinario, vi insegnava «Storia dell’urbanistica» e «Storia della città e del territorio». 

Nonostante gli incarichi di carattere istituzionale, manteneva più corsi, convinta 

dell’importanza che queste discipline devono rivestire nella formazione di base dell’architetto; 

il suo impegno in questa direzione aveva anzi indirizzato la scelta della 

facoltà torinese, quella cioè di mantenere l’insegnamento della «Storia della città» come 

parte fondamentale del percorso di studi, quando quasi ovunque nelle altre facoltà di 

architettura italiane la materia costituisce un’opzione facoltativa. Su questo fronte, Vera 

Comoli esprimeva la necessità di una conoscenza, quella del territorio e della sua storia, 

che da sempre considerava ineludibile; una difesa a oltranza sì, ma che non va affatto 

scambiata con un arroccamento corporativo di natura strumentale accademica. È piuttosto 

nella coerenza del suo impegno complessivo che si può davvero comprendere il 

significato di tale suo presidio culturale. 

Al momento della scomparsa, nel luglio 2006, Comoli era preside della Seconda 

Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino, dopo aver presieduto dal 1997 e per 

un lungo periodo l’unica facoltà di Architettura allora esistente a Torino; era coordinatore 

del dottorato di ricerca in storia e critica dei beni architettonici e ambientali (che 

aveva creato nel 1989), di cui aveva guidato, nell’ultimo anno, l’allargamento degli

596 NOTE E DISCUSSIONI 

Fig. 1 - Pensieri bellissimi di S.A.R. per i Palazzi della sua Piazza Carlina, 1671-73, Torino 

(Archivio Storico della Città, Collezione Simeom, D 246). 

orizzonti disciplinari verso un nuovo dottorato in storia e valorizzazione del patrimonio 

architettonico, urbanistico e ambientale; era direttore della Scuola di specializzazione 

in storia, analisi e valutazione dei beni architettonici e ambientali. 

D’altra parte, nella sua lunga permanenza al Politecnico, Vera Comoli ha ricoperto 

molte cariche; oltre che preside, è stata direttore di dipartimento («Casa-città» 1982- 

1987) e anche prorettore negli anni del rettorato di Rodolfo Zich (dal 1988 al 1997), incarichi 

questi che le hanno coagulato intorno energie e contrasti, entusiasmi e malumori, 

come spesso capita a quanti occupano posizioni di prestigio e insieme di grande potere. 

Nel maggio 1996 le era stato conferito dal Presidente della Repubblica il diploma 

di Prima Classe del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica 

riservato ai Benemeriti della Scienza e della Cultura, ed era stata eletta, nel 2002, membro 

corrispondente dell’Accademia delle Scienze di Torino, classe scienze morali, storiche 

e filologiche. Non da ultimo, va ricordato che Vera Comoli era allo stesso tempo 

straordinariamente attiva nelle iniziative delle istituzioni culturali cittadine e regionali.

NOTE E DISCUSSIONI 597 

Ha voltuto farsi interprete della cultura politecnica, a partire dalla specificità dell’architettura 

1 . Su questi temi ha diretto molte tesi e ricerche di giovani studiosi, lavori 

che hanno fatto nuova luce anche su figure di “tecnici” non molto noti, ma importanti 

per il loro ruolo di architetti e ingegneri militari al servizio del sovrano, personaggi che 

hanno fortemente segnato la storia della capitale e del territorio piemontese. Sotto la 

sua direzione tali figure sono state studiate come la migliore espressione di una tradizione 

culturale che si basava su un solido legame tra saperi tecnici e architettonici, tra 

le conoscenze dell’arte fortificatoria e quelle del disegno architettonico, tra le nozioni 

relative al tracciato di strade territoriali e quelle attinenti le divisioni negli ampliamenti 

urbani. È questa del resto l’ottica che aveva ispirato anche i suoi studi su un grande architetto 

come Filippo Juvarra, da lei indagato nell’attività complessiva svolta al servizio 

del re e dunque strettamente legata al disegno urbano e del territorio, dall’attenzione 

per i fondali delle piazze a quella per le porte urbiche, dal progetto dei quartieri militari 

al «drizzamento» delle strade della città settecentesca 2 . 

Certo è che nella scuola torinese, su questi suoi temi, ha formato generazioni di studiosi 

e ricercatori universitari, spingendoli con convinzione e intelligenza anche a farsi 

parte propositiva nella gestione del territorio e delle sue risorse storiche e artistiche. Pur 

essendo fermamente convinta infatti della specificità del ruolo dello storico e dell’autonomia 

di una ricerca non meramente finalizzata a pragmatismi progettuali 3 , è stata 

una sostenitrice altrettanto convinta di un suo impegno attivo ed etico nel riconoscere 

ed affermare quei «territori culturali» 4 che la storia trasmette. In tal senso, e non come 

cariche di rappresentanza, vanno interpretate le sue molteplici adesioni ai progetti e ai 

lavori di indagine delle istituzioni piemontesi. Ha rappresentato il Politecnico di Torino 

nella Consulta regionale del Piemonte per i Beni e le Attività culturali, nell’Associazione 

«Torino Città-Capitale europea»; nel Comitato scientifico per l’individuazione e la 

promozione degli Ecomusei della regione Piemonte. Tra le sue più recenti attività, di 

concerto con la direzione dei Beni Culturali della regione Piemonte, è il monitoraggio 

scientifico dei cantieri di restauro e di valorizzazione della residenza sabauda di Venaria 

Reale, di cui era responsabile per l’architettura. È stata altresì il referente per i lavori al 

Castello del Valentino 5 , sede delle facoltà di architettura, che amava in modo particolare, 

fino a verificarne la quotidiana manutenzione ordinaria. Non sono stati solo gli 

amici (che hanno spesso ironizzato con lei su questo), ma anche la città a riconoscerle il 

ruolo della «castellana» (il titolo de «La Stampa» in occasione della sua morte ricordava 

la signora del Castello). Sarà un compito arduo, ma per restituire davvero l’ampiezza del 

suo impegno, bisognerà lavorare seriamente ad una biografia che ricostruisca con precisione 

un percorso costituito non solo dall’attività accademica e didattica, dalle pubblicazioni 

e dai convegni internazionali, ma che tenga conto anche di tutti gli incontri, 

la direzione di collane, i comitati scientifici delle diverse istituzioni culturali, delle più 

grandi e piccole realtà locali, cui ha dedicato il suo tempo, spingendo amministratori 

e funzionari a convogliare risorse verso una conoscenza storica puntuale delle diverse 

aree del Piemonte.


Se la Regione, le Città, le grandi fondazioni bancarie e molte altre istituzioni culturali 

piemontesi sono tuttora partner solleciti di progetti di ricerca dei colleghi del 

Politecnico, di studi, catalogazioni e convegni, molto si deve alla stima che le è stata 

tributata e al ruolo che le era riconosciuto a fronte di un lavoro capillare e di lungo periodo. 

D’altra parte, Vera Comoli aveva costruito con chi operava in queste istituzioni 

un rapporto di collaborazione e di fiducia reciproca, impegnando con generosità le 

proprie energie e quelle di esperti e più giovani studiosi in ricerche che supportassero il 

lavoro di funzionari troppo spesso capaci e volenterosi ma privi di risorse economiche. 

In questo clima di scambio, che oggi costituisce una sorta di tradizione piemontese 

di intesa tra le diverse istituzioni culturali presenti, è comprensibile si scavalcassero le 

lungaggini e le vischiosità della burocrazia, che la commissione dei lavori del Castello 

con la Soprintendenza per i Beni architettonici del Piemonte si potesse riunire nel lasso 

di ventiquattr’ore, o che la sede del prestigioso Castello di Racconigi aprisse le sue porte 

alla cena sociale del congresso dell’AISU a Torino con la stessa facilità. In breve, potremmo 

riassumere la cifra della figura di Vera Comoli in quella particolare impronta 

che ha voluto conferire al III congresso dell’associazione con una tavola rotonda aperta 

al dialogo con le istituzioni, in cui assessori e funzionari sono stati chiamati a riflettere 

sulle questioni oggi poste dal tema delle regole della città. Un indirizzo che l’associazione 

ha raccolto come invito a cercare anche in futuro un confronto più attivo tra i temi 

della storia urbana e il ruolo delle istituzioni. 

L’ottica con cui Comoli si è accostata ai temi della città e della sua storia ha come 

base di partenza, più volte dichiarata, la «città considerata come principio ideale delle 

istorie italiane» di Cattaneo; in particolare, ha dimostrato di condividere l’affermazione 

del «rapporto non scindibile tra architettura e ambiente», lo stesso rapporto che la 

studiosa ha posto a premessa del suo lavoro sostenendo che la città forma con il suo 

territorio «un corpo inseparabile» 6 . Un legame verificato per il suo Piemonte come «una 

situazione territoriale antica», di cui riconosce una spia illuminante nella Relazione che 

ne traccia Giovanni Botero nel 1607 quando, precettore dei figli del duca, lo definisce 

tutto quanto come «una città di trecento miglia di giro» 7 . 

Questo suo interesse per la storia della città e per la conoscenza analitica del territorio 

si esprimono fin dalle prime pubblicazioni, mentre insieme si precisa anche 

l’attenzione per la tutela dei suoi valori: architetture ed elementi non monumentali 

ma di pregnanza urbana, quali l’edilizia diffusa delle case, il tessuto connettivo, sono 

posti a soggetto privilegiato di indagine nei primi anni di attività (per il Biellese e per 

la Valsesia), interessi poi proseguiti nel tempo esplorando altre aree 8 . Che non fosse 

ritrosia la sua, da giovane studiosa, per i grandi nomi della storia dell’architettura lo si 

riconosce dal contemporaneo maturare di un altro tema che le sarà caro e su cui darà 

nel tempo contributi fondamentali: il primo studio su Filippo Juvarra, con la pubblicazione 

di una fonte, è del 1967 9 . Riprenderà in mano gli studi juvarriani ampliandoli in 

chiave territoriale, prima con Andreina Griseri e poi, nel confronto con l’opera internazionale, 

con Antonio Bonet Correa e Beatriz Blasco Esquiviaz 10 .


Fig. 2 - Aureliano Monsa, Parte dela cità de Turino e nova fabrica. Novo disegno del sitto del novo Pallazzo 

di S.A.S. et Piazza castello con strada nova porta a Reimpeto al Catello o Pallazzo fatto da Aurelio 

Monsa 1605 li 15 maggio da presentare a S.A.S, 1605, Torino (Archivio Storico della Città, Collezione 

Simeom, D 254).


Fig. 3 - Torino, Schenografia della citta e della cittadella, 1670 circa. 

Il volume centrale nel suo percorso scientifico è dedicato a Torino ed è stato pubblicato 

nel 1983 11 . Qui Comoli ripercorre la storia urbana e urbanistica della città 

piemontese a partire da quella che definisce, con un’idea nuova che verrà poi spesso 

ripresa per definire simili interventi su altre capitali, «l’invenzione della capitale» per lo 

stato sabaudo. Nella lettura della struttura fisica della città d’ancien régime individua 

il senso della costruzione dello spazio urbano secondo un progetto che, a partire dagli 

interventi di Ascanio Vitozzi e poi dei Castellamonte, in diverse fasi (i tre successivi 

ampliamenti della cerchia di mura), procede verso la definizione di quella forma «a 

mandorla» che la caratterizza. I suoi studi indicano dunque un disegno urbano prefigurato 

nel tempo – un piano ante litteram – che, oltre a definire i nuovi confini dell’area 

cittadina, procede di volta in volta in una suddivisione sempre progettata delle zone via 

via annesse. Isole, quartieri, piazze, strade, verificate dai suoi studi come parti di città 

formalmente definiti e disegnati, sono alla base di una interpretazione che vede Torino 

più vicina alle capitali degli stati assoluti europei che ad altre città italiane dello stesso 

periodo 12 . Comoli ha definito tale fenomeno «la rispondenza precisa, lunga, tra un 

modello di pianificazione e la realizzazione urbanistica» 13 . 

Tale lettura individua poi gli «assi portanti della composizione urbana» – definizione 

entrata a far parte della storia di Torino –, su cui si imperniano gli ampliamenti, 

come «vera matrice dell’espansione barocca della città», a strutturare una griglia tutt’altro 

che «indifferente, ancorché regolare», secondo la bipolarità tra zona di comando e 

porte urbiche 14 . Segni che si consolidano nel tempo come elementi di continuità in una 

città che accetta l’eredità del suo passato anche dopo la demolizione delle fortificazioni


voluta da Napoleone. Dalle sue ricerche negli archivi francesi emergevano importanti 

documenti di questa fase strategica di passaggio all’età contemporanea, quando la città 

subisce «una revisione profonda» che apre le prospettive delle trasformazioni del paesaggio 

urbano tra Otto e Novecento 15 . Per quanto numerosi e acuti i suoi studi, dal 

disegno urbano alle grandi fabbriche, hanno anche avuto il grande merito di aprire la 

strada ad approfondimenti e a ulteriori ricerche, sollecitate spesso dalla stessa Comoli, 

in modo da suscitare nuove riflessioni e spunti a proposito di una storia che indubbiamente 

le apparteneva 16 . 

Questa sua conoscenza articolata e puntuale della città, insieme all’importanza sempre 

ribadita del legame che sosteneva tra il fare storia e il riconoscimento e la tutela dei 

valori culturali insiti nell’architettura e nella città, secondo quanto aveva definito la 

«struttura storica della città» in contrapposizione con una mera «struttura della città 

storica», ha guidato tra gli altri un gruppo di lavoro del dipartimento «Casa-città» del 

Politecnico in una ricerca di grande importanza, anche per i risvolti operativi, sui beni 

culturali del Comune di Torino. In molti vi hanno lavorato: un gruppo interdisciplinare 

della Facoltà di Architettura del Politecnico che dalla didattica aveva innescato 

ricerche numerose sul tessuto edilizio, che si erano poi ampliate fino a divenire un 

contributo significativo al progetto preliminare per la revisione del Piano regolatore del 

1980. Da qui era stato avviato dagli storici della città e dell’architettura un importante 

censimento, svoltosi tra 1981 e 1984 e promosso dall’Assessorato all’Urbanistica del 

Comune di Torino, i cui risultati sono confluiti in un documento annesso al Piano 

regolatore e in una pubblicazione che rendeva accessibili a tutti i materiali raccolti ed 

elaborati 17 . Schede puntuali e documentate per edificio avevano lo scopo di approfondire 

ed eventualmente rivedere le scelte del Progetto preliminare, anche attraverso 

l’individuazione di aree con valori specifici di interesse paesistico-ambientale, specie 

nell’ambito della zona collinare e fluviale, di nuclei di minore rilevanza monumentale, 

di parti periferiche, di insediamenti agricoli ancora esistenti, di ville storiche. 

Ai beni culturali, del resto, a conferma dei suoi interessi, aveva intitolato un dottorato 

e una scuola di specializzazione, in anni in cui il suo era un approccio senz’altro 

ancora pionieristico nell’affrontare la questione del patrimonio e della tutela come problema 

storico, invece che continuare a considerarla come attinente solo al restauro 18 . 

Il ministero aveva allora inserito una e di congiunzione ad unire quei beni che nella 

sua interpretazione erano «architettonici ambientali» tout court, specificazione più che 

liaison, che ricorda quanto Comoli aveva scritto di Cattaneo a proposito dell’unità 

indisgiungibile tra architettura e ambiente. Coerentemente con il lavoro impostato 

con lo studio dei beni culturali di Torino, l’impegno nell’attività di formazione sembra 

inteso a costruire le basi per una ricerca continuativa, capace di alimentarsi degli approfondimenti 

qualificati aggiunti dalle tesi di dottorato e di specializzazione a quanto 

aveva definito il «nodo del problema»: «produrre studi e metodologie che riescano anche 

a definire meglio il significato di bene culturale nella società attuale, nella coscienza 

del valore storico – e quindi non assoluto – delle scelte critiche che si operano nei


contesti reali» 19 . Successivamente era ritornata su tale questione per legare saldamente 

l’interpretazione del bene culturale alla conoscenza della storia urbana, senza la quale 

«tutti gli elementi della città rimarrebbero solo “oggetti”». 20 A tal proposito Comoli 

evidenziava come, dal secondo Settecento in poi, un nuovo concetto di catalogazione 

fosse andato profilandosi differente da precedenti forme di collezionismo antiquario, 

proprio perché sotteso alla città. Metteva in guardia, dunque, da ogni interpretazione 

dei beni culturali – definizione per la quale rinviava al senso del «patrimoine nell’accezione 

francese» – quali trésor d’art. 

A questo stesso impegno vanno ascritti ulteriori studi che, «estendendo un metodo 

di conoscenza che era specifico per l’analisi degli insediamenti al territorio e al paesaggio» 

21 , da aree urbane passano ad analizzare vasti territori quali il Gran Paradiso, la 

collina morenica di Rivoli, l’asta fluviale del Po, le ricerche per i piani paesistici; alcune 

trovano radici in lavori occasionati da progetti di ricerca internazionali, come quello 

curato per il versante Italiano sulle Alpi 22 . Anche il suo interesse per i giardini non va 

disgiunto, come già era avvenuto per le fortificazioni 23 , da una lettura legata al disegno 

della città e del territorio; dagli studi sulle residenze sabaude, corona di delitie che riconosce 

come un «sistema territoriale», si passa ad approfondimenti sulla palazzina di 

Caccia di Stupinigi, sul Castello del Valentino anche con il parco creato nell’Ottocento, 

per poi approdare al lavoro su Venaria 24 . 

In anni recenti gli studi su Torino, sempre ripresi per esplorare sotto diverse angolazioni 

una storia non solo di piani e di realizzazioni ma anche di progetti, di città 

possibili ipotizzate attraverso i materiali d’archivio nelle pubblicazioni per l’Archivio 

Storico della città 25 , avevano trovato nuova occasione di rilancio e aggiornamento grazie 

alla stesura di alcuni saggi per la Storia di Torino pubblicata da Einaudi. Qui Vera 

Comoli sembra concentrare la sua attenzione di studiosa soprattutto su due periodi di 

diversa discontinuità ma altrettanto cruciali nella storia della città sabauda, che sono 

poi quelli sui quali è ritornata sempre nella sua ricca produzione scientifica: la nascita 

cinquecentesca della capitale con l’invenzione dell’impianto barocco e poi il passaggio 

alla città italiana del Risorgimento 26 . 

Rosa Tamborrino 

1 V. COMOLI, Polytechniciens e territorio tra Impero e Restaurazione, in Giovanni Antonio Carbonazzi. 

Ingegnere del Genio Civile e ‘grand commis’ dei lavori pubblici del Regno di Sardegna (1792-1873), a cura 

di Nicola Vassallo, Atti della giornata di studi (Felizzano, 13 dicembre 1997), Alessandria, Boccassi, 

1999, pp. 11-12; EAD., Intervento, in L’insegnamento della storia dell’architettura nelle facoltà di ingegneria, 

a cura di F. Rispoli, Atti del convegno (Napoli 18 aprile 1997), Potenza, L’Aquilone, 2002, pp. 

105-108; Progetti del Politecnico per il Politecnico, Catalogo della mostra (Parigi, novembre-dicembre 

1990; Torino, febbraio-marzo 1991), a cura di Vera Comoli e Roberto Gambino, Torino, Politecnico 

di Torino, 1991. 

2 Cfr. V. COMOLI, La dimensione urbanistica di Juvarra per l’idea delle città capitali, in Filippo Juvarra:


architetto delle capitali da Torino a Madrid, 1714-1736, a cura di V. Comoli-A. Griseri, con B. Blasco 

Esquiviaz, Catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale, 5 settembre-10 dicembre 1995), Milano, Fabbri, 

1995, pp. 43-67. 

3 V. COMOLI, L’analisi storica come strumento di continuità per il progetto della città, in Progettare la 

città esistente, Atti del convegno dell’Associazione nazionale dei centri storico-artistici (Gubbio, 1983). 

4 Il territorio storico-culturale della regione piemontese. Temi e contributi, a cura di V. Comoli, Torino, 

Celid, 1983. 

5 V. COMOLI, Il Progetto Castello, in Lo sviluppo edilizio del Politecnico, Atti del workshop (Torino, 19 

luglio 2000), Torino, Politecnico di Torino, 2001, pp. 47-52. 

6 V. COMOLI, Premessa, in EAD., Torino, Roma-Bari, Laterza, 1983 (5^ ed. 2002), Collana «Le città 

nella storia d’Italia», p. 1. 

7 G. BOTERO, Relazione di Piamonte, in I Capitani, Torino 1607, ristampa Torino 1979, pp. 37-38. 

Riportato in V. COMOLI, Torino, cit., p. 3. 

8 Si veda a titolo di esempio: V. COMOLI, L’architettura delle case a loggiati nel Biellese e nella Valsesia, 

«Palladio», 1965, fasc. 1-4, pp. 143-156; EAD., Le antiche case Valsesiane: sviluppo storico di una cultura 

ambientale e problemi della sua tutela e valorizzazione, Società Valsesiana di cultura, Novara; EAD., Gli 

oratori del Sei e del Settecento della Valle Intelvi (Atti del convegno internazionale “Premesse per un repertorio 

sistematico delle opere e degli artisti della Valle Intelvi”, Varenna, 1-4 settembre 1966), «Arte 

Lombarda», XI, 1966, 2, pp. 121-134. Gli stessi temi della casa sono ripresi a distanza di vent’anni in 

Piemonte, a cura di V. Comoli, Collana «L’architettura popolare in Italia», Roma-Bari, Laterza, 1988, 

in particolare: L’architettura della casa nella montagna, pp. 90-128 e Casa e territorio di cultura walser, 

pp. 137-150. 

9 V. COMOLI, Le invenzioni di Filippo Juvarra per la chiesa di San Filippo Neri in Torino, con notizie 

dei vari disegni e della realizzazione dell’opera, Torino, Albra, 1967 (con anastatica f.t. del Modello della 

Chiesa di S. Filippo per li PP. dell’Oratorio di Torino, inventato, e disegnato dall’Abate e Cavaliere D. Filippo 

Juvarra Primo Architetto di S.M., dato in luce dal Conte Giampier Baroni di Tavigliano e dal medesimo 

consegnato a S.S.R.M. Carlo Emanuele Re di Sardegna ec.ec.ec., Torino, Stamperia Reale, 1758). 

10 Cfr. V. COMOLI, La proiezione del potere nella costruzione del territorio, in Filippo Juvarra a Torino. 

Nuovi progetti per la città, a cura di A. Griseri-G. Romano, Torino, Cassa di Risparmio di Torino, 1989, 

pp. 53-74. Cfr. inoltre V. COMOLI, Juvarra y el urbanismo de una ciudad capital, in Filippo Juvarra. De 

Mesina al Palacio Real de Madrid 1678-1736, a cura di A. Bonet Correa-B. Blasco Esquiviaz, Catalogo 

della mostra (Madrid, abril-junio 1994), Madrid, Ministerio de Cultura, Electa España, 1994, pp. 

122-139; Filippo Juvarra: architetto delle capitali, cit.; in particolare il saggio: V. COMOLI, La dimensione 

urbanistica di Juvarra per l’idea delle città-capitali, pp. 43-68. Si veda inoltre Itinerari Juvarriani, a cura 

di V. Comoli, Torino, Celid, 1995; V. COMOLI, Prefazione, in Architettura, governo e burocrazia in una 

capitale barocca. La zona di comando di Torino e il piano di Filippo Juvarra del 1730, Collana «Esiti», n. 

20, dottorato di ricerca in Storia e critica dei beni architettonici e ambientali, X e XI ciclo, Politecnico 

di Torino, Dipartimento Casa-città, pp. 7-8; EAD., Juvarra a Torino: la costruzione di una città-capitale 

del Settecento, in Ferdinando Sanfelice. Napoli e l’Europa, Atti del convegno internazionale (Napoli e 

Caserta, 17-18-19 aprile 1997), a cura di A. Gambardella, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2004, 

pp. 103-108. 

11 V. COMOLI, Torino, cit.; EAD., La capitale per uno stato. Torino. Studi di storia urbanistica, Torino 

1983 (1 a ristampa 1985), p. 388. Si veda inoltre EAD., La capitale per uno stato: Torino e il Piemonte sabaudo, 

in Il barocco romano e l’Europa, a cura di M. Fagiolo-M.L. Madonna, Roma, Istituto Poligrafico 

e Zecca dello Stato-Libreria dello Stato, 1992, pp. 233-252. 

12 Cfr. V. COMOLI-C. ROGGERO-A. BARGHINI, Turin. Die Erfindung einer barocken Hauptstadt des 

Absolutismus, in Klar und Lichtvoll wie eine regel, Planstädte der Neuzeit, vom 16.bis zum 18 Jahrhundert, 

Catalogo della mostra (Karlsruher Schloß, 15 Juni-14 Oktober 1990), Karlsruhe, Badisches Landesmuseum, 

1990, pp. 133-142. Si veda inoltre V. COMOLI, Torino paradigma per i modelli urbanistici 

e architettonici delle capitali nel Seicento e nel Settecento in Europa, in I Trionfi del Barocco. Architettura 

in Europa 1600-1750/The triumph of the Baroque. Architecture in Europe 1600-1750, Catalogo della mostra 

(Torino, palazzina di Caccia di Stupinigi), a cura di H.A. Millon, Milano, Bompiani, 1999, pp. 348-369.


13 V. COMOLI, Premessa, in Torino, cit., p. 1. 

14 Tali definizioni sono contenute in una ripresa successiva del tema; cfr. V. COMOLI, La storia come 

strumento di conoscenza critica, in Sapere per saper fare. Riflessioni sul dibattito tra storia e progetto. Esperienze 

e ricerche sulle città antiche per le città del futuro, Atti del convegno (Facoltà di Architettura di 

Torino, Dipartimento Casa-città, 25 maggio 1990), a cura di A. Magnaghi, Torino, Celid, 1995, p. 6. 

15 V. COMOLI, Torino, cit., p. 93; EAD., Pianificazione urbanistica e costruzione della città in periodo 

napoleonico a Torino, in Villes et territoire pendant la période napoléonienne (France et Italie), Actes du 

colloque (Rome, 1984), Rome, École Française de Rome, 1987, pp. 183-202; EAD., Progetti, piani, 

cultura urbanistica tra Rivoluzione e Impero, in Ville de Turin. 1798-1814, a cura di G. Bracco, 2 voll., 

Torino, Archivio Storico della città di Torino, 1989, vol. I, pp. 191-240. 

16 V. COMOLI, L’assetto urbanistico del primo Ottocento, in “Storia illustrata di Torino”, vol. IV: Torino 

dalla Restaurazione al Risorgimento, a cura di V. Castronovo, Milano, E. Sellino, 1992; Torino da capitale 

politica a capitale dell’industria, 2 voll., Torino, Archivio Storico della Città di Torino, 2004, vol. I: Il 

disegno della città (1850-1940), a cura di G. Bracco e V. Comoli. 

17 Ricerca diretta da Vera Comoli i cui esiti sono in Beni culturali ambientali nel Comune di Torino, 

Torino, Società degli Ingegneri e degli Architetti in Torino, 1984, 2 voll. Cfr. anche la mostra e il catalogo: 

VERA COMOLI, MICAELA VIGLINO, Beni culturali ambientali nel Comune di Torino, Catalogo della 

mostra, Torino, Celid, 1984. Si veda inoltre: CITTÀ DI TORINO, ASSESSORATO ALL’URBANISTICA, Qualità e 

valori della struttura storica di Torino, Architettura e città: valori storici, a cura di V. COMOLI-M. VIGLINO, 

Torino, Gregotti Associati Studio, 1992. Si veda inoltre V. COMOLI, I valori qualitativi dell’edificato e 

della struttura urbanistica della città, in A. CAGNARDI, Un senso nuovo del piano. Piani regolatori, Milano, 

Gregotti Associati, Etaslibri, 1995, pp. 205-208. 

18 V. COMOLI, Prefazione, in F. DI TEODORO-R. TAMBORRINO-F. TESTA-C. TOSCO, Patrimonio storico e 

tutela. Tra collezionismo e tutela, Torino, Celid, 1995 («Esiti», Collana del dottorato di ricerca in Storia e 

critica dei beni architettonici e ambientali), pp. 1-2. Si veda inoltre V. COMOLI, Piemonte: tutela dei beni 

architettonici, in Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti 1979-1992. Quinta Appendice dell’Enciclopedia 

Italiana, 5 voll., Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1994, IV, p. 140. 

19 V. COMOLI, Introduzione, in Beni culturali ambientali nel Comune di Torino, 2 voll., Torino, Società 

degli Ingegneri e degli Architetti in Torino, 1984. 

20 V. COMOLI, La storia come strumento di conoscenza critica, cit., p. 3. 

21 Ivi, p. 4. 

22 Le Alpi. Storia e prospettive di un territorio di frontiera. Les Alpes. Histoire et perspectives d’un territoire 

transfrontalier, a cura di V. Comoli-F. Very-V. Fasoli, Torino, Celid, 1997. 

23 Si veda a titolo di esempio l’intervento di V. COMOLI, Territorio e guerra nel XVII secolo. Disegni 

di Beaulieu per le Glorieuses conquêtes de Louis le Grand, in Situazioni d’assedio. Cities under siege. Etats 

de siège, Atti del convegno internazionale (Montalcino, 7-10 luglio 1999), a cura di L. Carle e A. Fauve 

Chamoux, Firenze, Pagnini e Martinelli, 2002, pp. 95-106. 

24 V. COMOLI, La città-capitale e la “Corona di delitie”, in Diana trionfatrice. Arte di corte nel Piemonte 

del Seicento, a cura di M. Di Macco-G. Romano, Catalogo della mostra (Torino, 27 maggio-24 

settembre 1989), Torino, Allemandi, 1989, pp. 304-311; cfr. inoltre V. COMOLI-C. ROGGERO, Fabbriche 

e giardini nel sistema territoriale delle residenze sabaude, in Il giardino come labirinto della storia, Atti del 

convegno internazionale (Palermo 14-17 aprile 1984), Palermo, 1987, pp. 184-189. 

25 Progettare la città. L’urbanistica di Torino tra storia e scelte alternative, a cura di V. Comoli-R. Roccia, 

Torino, Archivio Storico della città di Torino, 2001. 

26 V. COMOLI, Lo sviluppo urbanistico e l’assetto della città. Le scelte urbanistiche, in Storia di Torino, 

III, Dalla dominazione francese alla ricomposizione dello Stato (1536-1630), a cura di G. Ricuperati, Torino, 

Einaudi, 1998, pp. 355-386; EAD., Urbanistica e Architettura, in Storia di Torino, VI, La città nel 

Risorgimento (1798-1864), a cura di U. Levra, Torino, Einaudi, 2000, pp. 377-434; EAD., L’urbanistica 

della città-capitale e del territorio e L’urbanistica per la città capitale e il territorio nella “politica del Regno”, 

in Storia di Torino, IV, La città fra crisi e ripresa (1630-1730), a cura di G. Ricuperati, Torino, Einaudi, 

2002, pp. 431-461 e pp. 936-967.


RICORDO DI LUCIO GAMBI 

Nel settembre 2006 è scomparso Lucio Gambi, la cui produzione scientifica, 

attività d’insegnamento e di organizzazione culturale nel campo della storia della 

città e del territorio hanno lasciato un segno profondo nel panorama degli ultimi 

quarant’anni. 

Nello scrivere questi pensieri dedicati a Lucio Gambi si mescolano nella memoria 

i ricordi di una lunga amicizia con quelli di un’altrettanto lunga frequentazione professionale: 

le discussioni su libri letti, i commenti alle mostre visitate, le partecipazioni 

ai convegni, le più sommesse riflessioni degli ultimi anni nel pudore con cui viveva 

la condizione d’isolamento cui lo aveva costretto l’aggravarsi della malattia. 

Ero rimasta colpita dai suoi scritti. Attraverso la conoscenza personale ho apprezzato 

le qualità di un carattere schivo che però non esitava ad esporsi, anche in modo 

fortemente polemico e scomodo, quando si trattava di difendere valori e posizioni in 

cui credeva: l’onestà e la mancanza di pregiudizi nel valutare i lavori altrui; l’attenzione, 

quasi l’umiltà, nel leggere e valorizzare i contributi di giovani ricercatori, anche 

se non erano a lui legati da rapporti di sudditanza accademica; l’insofferenza verso 

gli atteggiamenti di autocelebrazione che regnano sovrani nel mondo accademico; la 

capacità di interessarsi a argomenti diversi e diverse prospettive di ricerca. 

La grande apertura di una mente acuta nel dettaglio e lucida nella sintesi costituiva 

la naturale vocazione verso la ricerca interdisciplinare, ed era anche ragione di 

sofferenza per il fatto che, geografo per formazione accademica, vedeva proprio nella 

geografia italiana dell’ultimo secolo un’area depressa della cultura. Aveva perciò iniziato 

una vivace battaglia per rivendicare alla geografia, fondata su una matura considerazione 

dei valori storici, un ruolo interdisciplinare, quale strumento consapevole 

e attivo per una moderna definizione dei rapporti tra uomo e ambiente. 

«Fare cultura è impegnarsi per la società»: affermazione programmatica degli anni 

Settanta, che appare molto distante dall’attuale condizione della cultura. 

Era il periodo della sua partecipazione al progetto della Storia d’Italia Einaudi. Il 

saggio di apertura del primo volume, I valori storici dei quadri ambientali (1972), e 

successivamente l’organizzazione e il breve saggio introduttivo alla sezione La città


da immagine simbolica a proiezione urbanistica per il volume sesto, Atlante (1976), 

hanno segnato un fondamentale punto di svolta nel modo di leggere il paesaggio e il 

documento cartografico. 

Nel 1995 a Bologna, nella giornata organizzata dal dipartimento di Discipline 

storiche nel momento del suo abbandono dell’insegnamento, eravamo in molti a 

testimoniare, attraverso la presentazione di riflessioni e ricerche in corso, la varietà 

dei settori disciplinari in cui la sua lezione era stata sviluppata. 

Oggi, nel ricordare la sua scomparsa, vorrei rivolgergli un sincero e semplice grazie 

per quello che ha saputo comunicare a me e a ricercatori di diverse generazioni, e 

per quanto da lui abbiamo imparato. 

Lucia Nuti


A PROPOSITO DI ROMA E DELLA «NUDA PIETRA» 

Il recente lavoro di Andreina Ricci (Attorno alla nuda pietra. Archeologia e città 

tra identità e progetto, Roma, Donzelli, 2006) è un libro piccolo ma prezioso, che 

ha avuto una eco meritata anche fuori delle aule universitarie. È un libro infatti che 

parla agli addetti ai lavori, ma non riguarda certo solo loro, e ci aiuta a riflettere e 

a domandarci perché lavoriamo, e soprattutto per chi. È un libro che ci stimola ad 

andare avanti, su un terreno centrale: il significato del passato nel presente della città, 

cioè il significato che le preesistenze assumono nell’immaginario dei cittadini, delle 

persone reali, e quindi per definizione non astratto, ma calato nel tempo storico, e 

per questo mutevole. 

Chi attribuisce i significati? La domanda non è retorica, perché da qui scaturisce 

un leit-motiv sotterraneo, che percorre tutto il libro: il motivo della responsabilità, e 

quindi della passione civile. 

I frammenti della città antica − dice Andreina Ricci − sono indecifrabili, quando 

non paradossalmente invisibili. Occorre fornire quindi un codice di decifrazione, e 

questo comporta la disposizione ad un atteggiamento pedagogico e ad una riflessione 

sull’uso pubblico dei resti del passato, che di questa pedagogia è stata una delle manifestazioni 

ricorrenti, di cui viviamo le conseguenze. 

Tornerò su questo rapidamente alla fine, anticipando − come fa la Ricci (p. 13) − 

una delle conclusioni del libro: «gli oggetti del passato devono parlare […] non tanto 

per ‘dovere di memoria’ quanto perché possano acquistare un senso, una qualità che 

li faccia emergere da una opaca e sovrabbondante quantità». 

Il libro si apre con un flashback storico, sul confronto fra una visione continuistica 

di quello che accadde a Roma − nel rapporto tra archeologia e urbanistica − tra il 

1870 e il fascismo, e una visione di discontinuità, che individua una cesura tra queste 

due fasi storiche, contigue ma non adiacenti. Certo, a mio parere almeno, una continuità 

è innegabile in alcune forme della trasformazione urbana e nella scelta degli 

strumenti (demolizioni, sventramenti, ecc.), ma una forte discontinuità è altrettanto 

innegabile nelle forme ideologiche entro cui si ebbe ad agire. E la Ricci lo mette 

bene in luce nella sintetica tipologia che contrappone il sacrificio al futuro effettuato


sull’altare di Roma Capitale con il sacrificio al passato, meglio direi alla caricatura del 

passato, allestito sul palcoscenico della Roma di Mussolini. 

Dovremmo dedicare altri momenti di riflessione su questi aspetti ormai storicizzati 

della storia urbana di Roma, sulle differenze, ad esempio, tra la modernizzazione 

napoleonica e quella tardottocentesca. È in quel frangente che io vedo, sul piano 

del rapporto tra archeologia e urbanistica, una discontinuità epocale, perché è solo 

con il 1870 che la ripresa urbana investirà, per la prima volta, dopo i secoli della 

riespansione tardomedievale, il suolo intramuraneo del disabitato e non soltanto la 

città consolidata. Le modernizzazioni precedenti avevano incontrato ed usato l’antico 

nel tessuto stesso della città storica (piazza Traiana, Pantheon − anche se non 

portato a termine −, lo stesso Giardino del Campidoglio); con Roma Capitale è la 

città ruralizzata e, almeno nel suo tessuto, ancora intatta nel sottosuolo che viene 

investita “contro” l’antico, o meglio, indipendentemente dall’antico (del medioevo 

non è questione in quegli anni), tanto è vero che gli sventramenti nella città consolidata 

(corso Vittorio e via del Tritone) si fermano al suolo moderno, non giungono 

neppure a porsi il problema del rapporto con i resti sepolti della città antica, dei cui 

esiti medievali stravolgono forme e percorsi. 

Insomma, quel che radicalmente cambia con Roma Capitale è che per la prima 

volta la ripresa quantitativa della città, e quindi l’espansione del costruito, non avviene 

sui luoghi storicamente adibiti all’abitato dall’alto medioevo in poi (la crescita 

fra XI e XIV secolo fu prevalentemente in verticale) ma all’interno del «disabitato» 

compreso nella città murata. Per la prima volta l’espansione orizzontale e massiccia 

del costruito impattò globalmente con la città antica, non per riuso, non per puntuale 

trasformazione, non per fisiologico ricambio cellulare, ma per sovrapposizione 

alternativa totalizzante. Questa mi sembra la vera cesura, più sconvolgente di quella 

arrecata dalla Roma fascista, che in questo senso ebbe un atteggiamento più arcaico 

(o tradizionale) nei rispetti della città e dell’uso pubblico dei suoi monumenti. 

È col fascismo tuttavia, ed io concordo con l’analisi di Andreina Ricci, che l’uso 

pubblico dell’archeologia trova in Roma una sua nuova specificità. Le differenze profonde 

rispetto al periodo postunitario sono quelle che, sul piano psicologico, suscitano 

in noi quelle emozioni diverse che ancora oggi proviamo percorrendo corso 

Vittorio piuttosto che la via dei Fori imperiali: «lì si è sacrificato il più antico al più 

recente, qui il più recente al più antico» (p. 25). 

Il discorso è naturalmente più complesso; ma è comunque negli anni del fascismo 

che, con una scelta niente affatto incoerente di diradamenti e sventramenti, la consacrazione 

dei luoghi del passato alla religione politica ha prodotto una lacerazione con 

la quale, forse per la prima volta, il passato si è separato dal futuro. E noi abbiamo 

ereditato quella stagione e i suoi frutti perversi; ma non possiamo esimerci (qui il 

libro tocca uno dei punti più delicati) da una lettura critica di quello che accadde 

dopo, grazie a quella nuova politica per i centri storici, che li mise finalmente al


riparo da eventuali futuri sventramenti, anche attraverso una attribuzione di valore 

alla città nel suo insieme, magari − commenta amaramente la Ricci con una metafora 

efficace − sacrificando il figlio minore, le periferie. 

In sintesi, se in quegli anni si misero in atto scelte conservative chiare e radicali 

per i centri storici, per altri versi non si affrontò il problema del rapporto che le preesistenze 

sparse nel territorio avrebbero dovuto o potuto intrattenere con la città in 

espansione, con la «città del futuro». Si creò un vuoto politico-culturale e una sorta 

di ripiegamento verso la condizione, ormai lontana, della Roma preunitaria, orientando 

la politica della tutela su un’idea nostalgica e immobile della «Roma sparita», 

capace però di mettere in atto una strategia di interdizione, che − in nome del passato 

− si è chiamata fuori da ogni responsabilità diretta sul presente e sul futuro. Oggi − 

commenta Andreina Ricci − possiamo osservare gli esiti di scelte che in quel periodo 

erano forse le migliori possibili. Ma intanto nei recinti della memoria la storia è 

scomparsa. Noi, archeologi o architetti, che responsabilità abbiamo? 

Spesso nella progettazione di nuovi interventi edilizi, quando i resti del passato 

si manifestano a volte come ospiti inattesi, ci interroghiamo sui modi necessari per 

superare l’indifferenza nei confronti della storia dei luoghi, e qualche volta − lamenta 

Andreina Ricci − assistiamo alla cancellazione della memoria stessa del luogo, che 

viene a perdere tracce e caratteri stratificati nel tempo. Ma attenzione: non è una 

critica al «progetto», quanto piuttosto l’affermazione della necessità del progetto, 

inteso però nella sua globalità. Siamo davvero nel cuore del dialogo fra archeologia 

e architettura. 

Gli archeologi scavano, gli architetti costruiscono: sono due pratiche ineludibili 

del mestiere. Ma non devono diventare due condanne. L’un atteggiamento e 

l’altro rischiano la bulimia. Non per questo dovremmo praticare un’archeologia o 

un’architettura anoressica, negando l’essenza stessa del mestiere. Ma una pratica più 

minimalistica forse sì. Una più umile consapevolezza del contesto in cui si agisce, 

sì. Un’ottica extradisciplinare attraverso cui guardare premesse ed esiti del nostro 

operare, questo sì. 

Gli archeologi «scolpiscono» il sottosuolo, ne traggono forme portandole alla luce. 

Fanno storia, ma creano documenti/monumenti; creano nuovi contesti (solo apparentemente 

più antichi) che alterano contesti precedenti. Dovrebbero accettare di più questo 

aspetto creativo del loro lavoro, accettare il suo lato affascinante, assumendosene però le 

conseguenti responsabilità. 

Gli architetti, in perenne bilico tra scienza e poesia, non hanno bisogno di accettare 

la loro creatività, semmai di governarla. Dovrebbero però riflettere di più sulle 

forme attraverso le quali essa interviene sulla storia, non per negare la possibilità di 

trasformazione del paesaggio storico, ma per trovare le forme del rispetto propositivo, 

adeguando i loro interventi al mantenimento e all’arricchimento del senso storico 

delle forme e dei contesti in cui si calano.


Gli archeologi possono anche progettare la ricopertura dei loro scavi (o di quelli 

altrui). Gli architetti possono anche progettare la demolizione delle loro costruzioni 

(o di quelle altrui). Ricopertura e demolizione sono pratiche di archeologia e di architettura 

tanto quanto lo scavo e la costruzione. 

Non voglio addossare ad Andreina Ricci queste ultime osservazioni, di cui mi assumo 

la responsabilità. Ma è comunque il suo libro che ci ricorda che tenere in conto 

la storia dei luoghi è cosa diversa dal limitarsi ad includere nei nuovi progetti una 

qualche emergenza slegata dal contesto. E che d’altra parte l’assenza di progettualità 

può configurarsi essa stessa come progetto, perché il congelamento, il non fare, evitando 

qualsiasi trasformazione, non garantisce affatto di per sé la conservazione. 

Parlare di conservazione − sostiene l’Autrice − dovrebbe imporre innanzitutto la 

presa d’atto che il problema della perdita esiste ed è in qualche misura ineliminabile. 

E che un vincolo non garantisce di per sé la conservazione, perché a volte le zone 

recintate e abbandonate a loro stesse sono luoghi dove si produce uno scarto prolungato 

e graduale. Ogni giorno, aspettando di individuare soluzioni «accettabili», 

si tollerano perdite costanti e indiscriminate, che occorrerebbe almeno tamponare 

indirizzandole. 

Già, ma come? Riflettendo, ad esempio, sul fatto che la stessa gestione degli scarti 

potrebbe tener conto che «deperire» può essere un «atto costruttivo» a patto che il 

fine principale permanga quello della conservazione selettiva delle conoscenze e dei 

valori essenziali. Quest’ultima potrà sembrare una affermazione dissacrante; a me 

sembra la presa d’atto matura della necessità di una maggiore assunzione di responsabilità 

che, nell’analisi dei siti, tenga innanzitutto conto della loro rappresentatività 

sul piano morfologico, tipologico, cronologico o, se vogliamo, culturale. 

È questo un tema attualissimo nel campo della valutazione archeologica, specie 

delle aree urbane, in tutta Europa. Sappiamo bene che i siti archeologici non sono 

tutti uguali. Ognuno di essi giunge a noi in uno stato di conservazione suo proprio, 

che lo rende diverso anche da quelli tipologicamente affini. Da ogni sito possiamo 

quindi aspettarci sistemi di informazioni molto differenziati. Dire quale, fra tanti tipi 

di siti, sia più importante resta quindi difficile o, forse, insensato. Alcuni siti possono 

essere eccezionali per quanto conservano di una determinata fase storica, altri per 

la loro capacità di preservare le tracce delle molte fasi che vi si sono succedute. Il 

“valore” di un sito non si misura con un solo parametro: la sua attribuzione ad una 

tipologia insediativa, la sua datazione, la rilevanza monumentale dei resti o la qualità 

dello stato di conservazione sono parametri che concorrono tutti, ciascuno a suo 

modo, a indicarne le caratteristiche di rappresentatività che ne suggeriscono l’analisi 

e, in seconda istanza, la eventuale conservazione. 

Con la seconda parte del libro l’argomentazione si fa ancor più politica. Osservando 

la città contemporanea − leggiamo − appare evidente una separazione netta tra gli 

specialisti, detentori di particolari saperi, e i comuni cittadini. È una separazione fisica,


divenuta nel tempo sempre più marcata, che ha pesato nell’associare a resti e rovine 

urbane un sentimento di decisa estraneità. In altri termini, il valore storico di quei resti, 

caposaldo della politica di tutela, sfugge allo sguardo del non specialista e l’assenza di 

qualsiasi strumento di comunicazione, anche del più elementare pannello esplicativo o 

di una semplice didascalia, non può essere considerata casuale. È anzi il frutto di una 

precisa intenzionalità, magari a volte inconsapevole: è una difesa negativa nei confronti 

di qualsiasi tentazione didattico-pedagogica. Noi archeologi, troppi e troppo spesso, 

continuiamo a frapporre nella ricerca come nella tutela «steccati, materiali e immateriali, 

nei confronti di qualsiasi cedimento ‘comunicativo’» (p. 81). 

Quello che si propone nelle aree archeologiche perimetrate è quindi un passato indefinito, 

evocato da un astratto valore dell’antico, che non ha nulla a che fare con la storia, 

e con quel susseguirsi di grandi e piccoli avvenimenti che hanno modificato gli spazi e dei 

quali restano tracce interpretabili attraverso complessi metodi di analisi. Insomma, ciò 

che ancora oggi si manifesta è una nuova forma di religione dell’antico, con il suo 

bagaglio di dogmi (l’intangibilità di ogni resto, l’esclusione categorica del nuovo); 

non è certo la storia, quanto piuttosto la sua assenza a circonfondere di un’aura di 

“venerabilità” luoghi e oggetti del passato. 

Anch’io ritengo che questa sorta di storicismo atemporale stia alla base delle nostre 

afasie, dei nostri feticismi, delle nostre anchilosi progettuali. Ho espresso altre 

volte la convinzione che sia opportuno riprendere un dibattito libero sulle forme, 

i limiti, il senso della ricostruzione dei ruderi: non ritorno sul tema. Ma Andreina 

Ricci, avviando il discorso conclusivo, coglie il punto quando scrive che l’uso pubblico 

che si fa oggi della storia, elitario e rivolto a fruitori del tutto virtuali, sottrae 

qualcosa ai cittadini senza restituire loro nulla in cambio. Un esempio? basta fare una 

passeggiata, partendo dalla copertina del libro, che riproduce l’Arco di Giano nel 

centro di Roma. 

Ingabbiato nella sua nuova recinzione l’arco è tornato ad essere una veduta, una 

moderna incisione, come al tempo di Napoleone. Certo, è facile criticare le recinzioni 

e le panchine per fantasmi, senza confessarci che quel che è venuto meno oggi, e 

non solo in quell’area urbana, è il controllo sociale; che sappiamo bene quale uso si 

farebbe forse oggi di quel sito come luogo delle marginalità, come pezzo stralunato di 

un’altra città. Ma vogliamo provare a ribaltare il discorso? Non è forse vero che l’uso 

improprio delle rovine da parte di utenti marginali della città suscita a volte un’attenzione 

sopita, riporta il resto antico abbandonato alla ribalta della contemporaneità? 

Da dove dobbiamo partire? Dai luoghi o dalle persone? forse non è facile rispondere 

a questa domanda; ma penso che dovremmo porcela. 

Duecento metri più in là dell’Arco di Giano: l’area di Sant’Omobono. Un contesto 

archeologico fisicamente e concettualmente impervio: angoli bui privi di luce e aree 

solatie inutilmente aperte alle domande di chi passa, controllate da occhiuti obiettivi 

arrugginiti. Negli anni, tanti interventi di scavo e di manutenzione; ma l’edizione


archeologica non a caso manca. Già, ma come farla questa edizione? E quindi, come 

esporre quell’area? Qual è il suo senso? Non sempre l’ordine riesce a nascere dal caos. 

Altri cinquanta metri: la chiesa di San Nicola in Carcere. Il sagrato della chiesa 

distrutto si apre su un vuoto di muretti muti, da cui si accede ad un’area chiusa, 

videocontrollata come una banca, dove le strade non portano a nulla, e un percorso 

di transenne eternamente provvisorie conduce al buco del Portico d’Ottavia: una 

realizzazione insensata, sulla quale ho già avuto modo di scrivere quello che penso 

(«Archeo», 253, marzo, 2006, pp. 104-107), un luogo dove la religione dell’antico 

di cui parla Andreina Ricci ha compiuto uno dei suoi più recenti e inutili autodafé. 

Certo, il discorso va al di là dell’esito felice o infelice di un progetto urbano. Ma 

i grandi temi della modernità e della globalizzazione si verificano poi giorno per 

giorno nella qualità di quello che facciamo, pensiamo, vediamo e nella qualità della 

nostra vita. 

La parte finale del libro va alla ricerca delle soluzioni: «deve avvenire qualcosa» 

perché alcune di quelle preesistenze arrivino a radicarsi «identitariamente». Nelle 

nostre leggi di salvaguardia − sintetizzo − il solo emergere dal terreno di una «pietra 

antica» fa di quell’epifania una sorta di natività che trasforma una nuda pietra 

in portatore di «valori di civiltà» così da imporre automaticamente la tutela, per 

la quale qualsiasi frammento di rovina rappresenta il luogo naturale della genesi e 

dell’affermazione delle identità individuali e collettive. Nonostante si tratti di una 

conquista irrinunciabile, di un punto fermo dal quale non si può recedere, è pur vero 

che questa concezione stabilisce una relazione privilegiata con un modo di concepire 

l’identità come fissa e predeterminata. 

E infatti le contraddizioni esplodono: perché una concezione non-selettiva della 

salvaguardia, basata sulla intangibilità di ogni frammento dotato di ‘valore’ in sé, 

convive con un potere illimitato che di fatto si esercita sui resti del passato, un potere 

di vita e anche di morte, che permette tranquillamente anche l’eliminazione di 

alcuni manufatti: un’operazione legittima e allo stesso tempo − dice Andreina Ricci 

− «opaca», ambigua. 

Le nude pietre, resti muti che della pietra hanno la forza e della nudità l’intrinseca 

debolezza (S. Settis, «La Repubblica», 27 ottobre 2006), sparse nella città, appartengono 

allo Stato e quindi a tutti, e proprio allo scopo di preservarle per tutti, vengono 

sottratte ai cittadini stessi, irretite in una stretta maglia giuridico-amministrativa di 

norme, che non per questo producono qualità, ma più spesso, purtroppo, paraventi, 

alibi, rinunce. 

Il libro si chiude con la proposta di un obiettivo politico: se la nostra concezione 

della tutela non ci permette più di riutilizzare o costruire sulle rovine (come per 

secoli è avvenuto) occorre allora puntare su un «mescolamento di significati», su un 

transito senza ostacoli fra recinti del passato e città del presente, puntare su una nuova 

alleanza che permetta ai tessuti contemporanei di riappropriarsi del loro spessore


temporale e alle «isole del passato» di ritrovare qualche senso in un presente proiettato 

ansiosamente verso il futuro. 

Il ruolo progettuale che si può riconoscere all’archeologia dovrebbe allora fondarsi 

sulla capacità di interpretare i resti; il progetto archeologico dovrebbe tradurre 

i risultati della ricerca spiegando le cose e gli eventi in modo accessibile a tutti, cosicché 

anche gli oggetti del passato possano trasformarsi in qualcosa di familiare. E’ 

un nodo importante, che nella nostra disciplina segna il passaggio dall’archeografia 

all’archeologia: un passo necessario, ma forse non sufficiente, forse − qui dovremmo 

approfondire la discussione − ancora prevalentemente “pedagogico”. 

Sono anch’io convinto, con Andreina Ricci, che un rapporto nuovo tra preesistenze 

e comunità urbane non può che fondarsi sulla possibilità che il valore storico 

di tali resti possa essere ampiamente condiviso − magari proprio attraverso quel 

sorprendente riconoscimento della familiarità di oggetti apparentemente estranei 

che è il migliore antidoto alle derive irrazionalistiche proposte dalla fantarcheologia 

−, che i recinti, che perimetrano oggi aree esclusive del passato, potrebbero 

diventare limiti frastagliati, improntati alla negoziazione, al dialogo con i vicini, 

alla conversazione. 

Ma proprio per questo mi domando se non si debba fare ancora un passo più 

avanti, assumersi una responsabilità che sia anche un atto di dismissione di potere. 

Io non so se la nostra generazione sia capace di vivere senza un intimo sentimento 

di nostalgia. Sono però anch’io convinto della necessità di “vivere” la città e non più 

di coltivarne la nostalgia. Con un atteggiamento anticlassicistico, antiromantico, ma 

non privo di passioni, Andreina Ricci ci suggerisce che le attuali aree archeologiche 

perimetrate potrebbero trasformare una perdita di tempo in un tempo organizzato, 

che starà a noi rendere avvincente e interessante. 

Ecco, qui mi domando se questa opzione pedagogica (anch’essa in fondo una forma 

di uso pubblico positivo) non possa essere affiancata e bilanciata da un processo 

vasto, capillare di adozione sociale di siti, di affidamento di aree e monumenti ai cittadini, 

alla società civile organizzata. Perché non provare a darne non uno, ma molti 

in gestione ai non specialisti, perché non vedere che ne fanno? Perché non provare a 

dare alla città e alle sue energie qualche volta la leva del comando? 

So bene che gli specialisti gestiscono solo una minima parte delle preesistenze, 

e che il discorso è di necessità più complesso di quanto queste righe possano dare 

l’impressione. Ma questa è una sfida che mi piace provocatoriamente affiancare a 

quella con cui la Ricci conclude il suo libro: una sfida lanciata per scoprire come una 

eredità culturale, che appartiene a tutti e riguarda tutti, possa anche interessare tutti 

ed essere, magari proprio dai margini, rinnovata, cioè rimotivata e quindi scongelata, 

ovvero sostanzialmente conservata. 

Daniele Manacorda


ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE E PAESAGGI URBANI 

Il quadrante Testaccio-Ostiense, che, come è noto, ha costituito la Prima Zona 

industriale di Roma secondo le direttrici tracciate dal Piano Regolatore del 1909, 

vive oggi una fase di accelerata trasformazione che merita una discussione estesa ed 

approfondita, poiché sollecita una riflessione su molti aspetti cruciali di governo di 

una grande città contemporanea. 

L’area è stata caratterizzata fino agli anni Trenta del Novecento da un accentuato 

sviluppo, anche nel quadro di un forte rilancio della proiezione della Capitale verso 

il mare. L’Ostiense si è venuta connotando come il polo delle grandi infrastrutture di 

servizio per la città: porti, stazioni e scali ferroviari, produzione di energia, mercati e 

magazzini generali. Inoltre, era divenuta sede di molte attività produttive di varia dimensione 

e ai suoi margini si stagliavano importanti complessi di edilizia popolare e 

di borgate rurali. Alcune scelte del regime fascista (il progetto dell’E-42, la definizione 

di una nuova area di sviluppo industriale a Roma-est, e poi la II Guerra mondiale) 

provocarono un progressivo declino dell’Ostiense, che divenne sempre più grave 

a partire dalla fine degli anni Cinquanta in conseguenza della grande espansione 

urbana e del venir meno della funzione strategica del trasporto fluviale e di quello 

ferroviario per via della fortuna del trasporto su gomma. A partire dagli anni Sessanta 

l’area ha conosciuto una fase di progressivo abbandono e degrado, segnata da un 

vuoto progettuale nel quale si sono più agevolmente inseriti alcuni vistosi interventi 

edilizi dai chiari connotati speculativi. 

L’istituzione nel 1992 dell’Università «Roma Tre» e il progressivo spostamento 

della sua area di insediamento predominante – attraverso una positiva serie di accordi 

di programma con il Comune di Roma – dalla zona marginale del Valco San 

Paolo all’asse della via Ostiense hanno determinato una fase del tutto nuova ai processi 

di trasformazione dell’area. L’impatto dell’Università è stato straordinario e 

funge da volano dei processi di trasformazione non solo sotto il profilo urbanistico 

ma anche demografico e socio-economico. L’Università è – insieme al Comune – il 

vero protagonista di questa nuova fase in cui l’area Ostiense-Testaccio ha in sé tutti 

i requisiti per tornare ad essere un laboratorio straordinario di innovazione urbana,


con un effetto di ricaduta sull’insieme della città almeno corrispondente a quello 

che ha esercitato agli inizi del Novecento. Naturalmente si tratterà di un apporto 

diverso alla modernizzazione della Capitale, che potrà più efficacemente riguardare 

i settori della ricerca e della formazione, della cultura, dei servizi avanzati, di un 

commerciale di qualità. 

Il Nuovo PRG riconosce la centralità dell’Ostiense e il Comune ha opportunamente 

avviato la definizione di un «progetto urbano» per l’area che risulta, tuttavia, 

ancora privo di un’anima ed aperto ad insidiose derive, come nel caso emblematico 

su cui si vuole qui richiamare l’attenzione con l’appello che accompagna questa nota: 

la distruzione di un complesso di archeologia industriale (emergenza n. 212, della 

Carta storica archeologica monumentale e paesistica del suburbio e dell’agro romano del 

Comune di Roma, 1982) per edificare cinque palazzi in riva al Tevere, praticamente 

sul sito dell’ex-porto fluviale e nel cuore delle più rilevanti emergenze di archeologia 

industriale dell’area. 

Nel disegnare la città futura, nel ragionare sul progetto urbano, la storia del territorio 

e degli uomini che lo hanno segnato non è un mero accessorio decorativo; è 

infatti essenziale, a nostro avviso, un’attenzione permanente sul nesso tra memoria 

e progetto, cioè, in definitiva, tra conoscenza del territorio ed effettiva capacità di 

Fig. 1 - I magazzini del Consorzio agrario cooperativo quando erano ancora in attività nel periodo tra 

le due guerre mondiali (Archivio e Biblioteca del CeDOT-Centro di Documentazione e di Osservazione 

del Territorio).


Fig. 2 - Veduta prospettica della zona Ostiense, 1961, volo Fotocielo, ICCD-Aerofototeca.


realizzare il buongoverno. La conoscenza dei caratteri e delle trasformazioni del territorio, 

il pieno recupero della memoria storica costituiscono, infatti, il presupposto 

indispensabile per la messa a punto di un progetto culturale ed urbanistico di elevata 

qualità, tale da trasformare l’Ostiense-Testaccio in una nuova, importante centralità 

urbana. Un territorio ove i segni e i valori del passato si fondano armoniosamente 

con l’innovazione, sia attraverso restauri conservativi e mutamenti di destinazione 

d’uso, sia mediante nuove espressioni architettoniche che sappiano inserirsi nello 

specifico profilo storico-ambientale. Si tratta di tutelare e valorizzare i caratteri dominanti 

dell’area – il fiume e le attività produttive –, di rispettare il paesaggio, i simboli 

e le prospettive. Vi è una grande arena per l’ideazione e per una positiva coesistenza 

di interessi privati e pubblici; non si tratta affatto di conservare tutto, né di tarpare 

le ali alla creatività architettonica, ma di valorizzare un paesaggio urbano, di rapportarsi 

al contesto, di puntare alla qualità delle singole opere e alla qualità dello spazio 

urbano complessivo. I cinque nuovi palazzi sono tutta un’altra storia: sono i fantasmi 

di quello che in letteratura si conosce come il «sacco di Roma». 

Figg. 3, 4 - Ricostruzione del 

nuovo scenario dell’area (veduta 

prospettica e dall’alto dei nuovi 

edifici indicati in grigio scuro) a 

seguito dell’applicazione dell’accordo 

di programma e della distruzione 

del sito di archeologia industriale del 

Consorzio (Archivio e Biblioteca del 

CeDOT-Centro di Documentazione 

e di Osservazione del Territorio). 

Carlo M. Travaglini


Appello per il recupero e il riuso del complesso dell’ex-Consorzio agrario cooperativo 

parte integrante del paesaggio urbano della riva sinistra del Tevere 

È recentemente emerso che attraverso una disposizione inserita in modo del tutto 

improprio in un «accordo di programma» – riguardante essenzialmente misure di 

programmazione edilizia per favorire un ordinato sviluppo degli insediamenti dell’Università 

statale «Roma Tre» nell’area Ostiense-Testaccio (delibera della Giunta 

Comunale del 12 gennaio 2005 n. 3 e successiva ratifica del Consiglio Comunale, 

seduta del 25 gennaio 2005) – si prefigura che venga raso al suolo il complesso di 

archeologia industriale dell’ex-Consorzio agrario cooperativo. Al suo posto, un raggruppamento 

di costruttori intende edificare ex-novo cinque palazzi di 6-7 piani 

per abitazioni e negozi in un’area di grande pregio storico e ambientale con affaccio 

diretto sul Tevere, un’area nella quale sembrerebbe peraltro di difficile reperimento la 

quota vincolante di standard urbanistici. L’operazione di distruzione e nuova edificazione 

risulta di così evidente impatto, anche sotto il profilo della cubatura, che nello 

stesso accordo di programma gli imprenditori offrono in compensazione alla città 

opere per un valore di oltre un milione di euro. 

Occorre approfondire tutti gli aspetti di questa operazione ed aprire su di essa una 

larga discussione ai sensi del Regolamento del processo di partecipazione dei cittadini 

alle scelte di trasformazione urbana del Comune di Roma. 

Infatti, il complesso di archeologia industriale del Consorzio merita indiscutibile 

attenzione sia per se stesso, per il suo pregio storico e tecnico-edilizio, sia per il contesto 

paesaggistico in cui si colloca. Il sito del Consorzio si affaccia direttamente su 

via del Porto Fluviale, quasi in corrispondenza del «Ponte di Ferro», e confina con 

via del Commercio e l’area golenale del Tevere; in sostanza è parte integrante di un 

profilo storico-ambientale che ha il suo asse nel Tevere e che vede a nord le infrastrutture 

ferroviarie di servizio delle ex-aree industriali e gli edifici dell’ex-Mattatoio, 

a sud la ex-Dogana, il complesso degli ex-Magazzini generali e quello dei gazometri 

dell’ENI-Italgas, ad ovest, dall’altra sponda del fiume, i siti degli ex-Mulini Biondi, 

della ex-Mira Lanza e della Federazione dei Consorzi agrari. 

Il complesso del Consorzio agrario cooperativo è costituito da un insieme di edifici 

– tutti progettati dall’ing. Tullio Passarelli e dal suo studio – coerentemente sviluppatosi 

a partire dal primo fabbricato risalente al 1919. Tullio Passarelli ha lasciato 

un’impronta rilevante nella grande edilizia industriale in tutta l’area circostante, quale 

autore del progetto sia dell’intero complesso dei Magazzini generali – ora Istituto 

Superiore Antincendi – sia dell’edificio della Federazione dei Consorzi agrari – ora 

Città del Gusto-Gambero Rosso. 

Rivolgiamo pertanto un vivo ed urgente appello alle Autorità responsabili della 

tutela del patrimonio culturale a livello territoriale, alle Autorità politiche Comunali, 

alle Autorità politiche nazionali, regionali e provinciali affinché compiano tutti gli


atti in loro potere per impedire che il complesso del Consorzio agrario cooperativo 

venga raso al suolo e che al suo posto vengano costruiti ex-novo i citati edifici di 

cospicua volumetria e completamente estranei al contesto, provocando così un’irreparabile 

compromissione di tutto il caratteristico profilo di zona industriale di quel 

settore strategico dell’area Ostiense e di quel tratto delle rive del Tevere. 

Il sito del Consorzio agrario cooperativo costituisce un’emergenza storica che è 

parte integrante di uno specifico ed irripetibile paesaggio e che merita di essere recuperata 

e opportunamente valorizzata. Il Consorzio agrario, insieme ad altri importanti 

siti di archeologia industriale che connotano l’area, è parte essenziale della 

memoria di Roma produttiva e, in particolare, della Prima zona industriale di Roma, 

delle attività economiche legate al Tevere e sarebbe grave che la sua testimonianza 

venisse cancellata e che il paesaggio urbano venisse irreparabilmente compromesso. 

Per aderire all’appello: cedot@uniroma3.it - croma@uniroma3.it 

tel. 06.57374235 - fax 06.57374030 

Fig. 5 - Veduta della riva sinistra del Tevere dall’ex-Mattatoio al Gazometro, 2006 (Archivio e Biblioteca 

del CeDOT-Centro di Documentazione e di Osservazione del Territorio).


Convegni, seminari, mostre 

LE CITTÀ STORICHE NEL XXI SECOLO: PER UN NUOVO 

APPROCCIO ALLE QUESTIONI DELLA CONSERVAZIONE URBANA 

Dal 4 al 6 giugno 2006 si è tenuto a Gerusalemme presso la sede del Center for 

Near Eastern Studies della Brigham Young University un importante seminario internazionale, 

avente carattere contemporaneamente multiculturale e multidisciplinare, 

organizzato dal Centro per il Patrimonio Mondiale dell’UNESCO per celebrare i 

60 anni dalla fondazione, sul tema Historic Cities in the 21st Century – Towards New 

Approaches in Urban Conservation. 

I coordinatori locali erano due professori, rispettivamente di un’università palestinese 

e di una prestigiosa scuola israeliana, e cioè il prof. Yusuf Natsheh (Al 

Quds University) e il prof. Michael Turner (Bezalel, Academy of Arts and Design). 

L’iniziativa si collocava simbolicamente in una prospettiva di ricerca della pace e 

della sicurezza in Medio Oriente, che promuova forme di collaborazione fra diverse 

nazioni attraverso l’educazione, la scienza, la cultura e la comunicazione. Il suo quadro 

di riferimento si trovava negli sforzi che l’UNESCO, e in particolare il direttore 

del centro Francesco Bandarin, sta compiendo da alcuni anni per la salvaguardia del 

paesaggio storico urbano in un periodo di forti trasformazioni della società contemporanea. 

Il dibattito è stato ampio, articolato e vivace e ha riguardato forme insediative 

anche molto diverse tra loro, quali un giardino pubblico al Cairo, alcuni sobborghi 

di Bangalore in India, accanto a riflessioni circa la California e la Florida, le metropoli 

dell’America del sud e molti centri europei (in Germania, in Inghilterra, 

in Olanda). Punto di partenza dell’iniziativa era il Memorandum approvato dalla 

Conferenza Internazionale tenutasi a Vienna nel maggio 2005. In quella sede l’Unesco 

aveva affrontato il tema del patrimonio mondiale e del ruolo dell’architettura 

contemporanea nel dare forma al paesaggio urbano storico. Preso atto del fatto che 

nel passato c’è stata assai poca sensibilità per l’impatto che le costruzioni recenti (ad 

esempio gli edifici multi-piano destinati ad uffici, costruiti in aree semiperiferiche di 

sviluppo urbano) possono avere sui centri antichi di grande valore storico-artistico, la

CONVEGNI, SEMINARI, MOSTRE 621 

conferenza di Vienna aveva discusso di casi di città in cui le dinamiche di trasformazione 

incidono profondamente sullo skyline tradizionale: esempi significativi sono la 

stessa Vienna, ma anche Pechino, Katmandu, Colonia, Potsdam, Avila o Guatemala 

City, in cui grandi investimenti in infrastrutture, edilizia residenziale e spazio per uffici 

costituiscono oggi una sfida non piccola all’idea della salvaguardia del paesaggio 

storico. Era emersa così l’opportunità di stabilire dei criteri guida, capaci di fornire 

suggerimenti operativi per la conservazione del carattere e dell’identità storica, senza 

tuttavia misconoscere i bisogni e le spinte della modernizzazione. 

L’incontro di Gerusalemme ha dunque recepito e riproposto le clausole proposte 

dal Memorandum di Vienna che definisce la nozione di «paesaggio storico urbano» 

come una costruzione mentale comprensiva anche del contesto naturale, descritta 

però e classificata in termini culturali, vale a dire come opera combinata della natura 

e dell’azione dell’uomo. Tale nozione va dunque al di là di quella tradizionale 

di «centro storico», spesso utilizzata per il passato nelle Carte Internazionali e nella 

legislazione sulla protezione del patrimonio, per includere un contesto più vasto, un 

insieme di spazio urbano e di stock edificato in diversi periodi storici, comprensivo 

spesso di edifici e stili differenti, che magari risalgono a migliaia d’anni fa. In questa 

prospettiva, i partecipanti alla conferenza di Gerusalemme hanno dato conto di 

esperienze di salvaguardia recenti o tuttora in corso non solo nei paesi nei quali esistono 

istituzioni consolidate di tutela (Olanda, Germania, Inghilterra), ma anche in 

situazioni nelle quali processi migratori e contaminazioni multiculturali propongono 

la necessità di pensare in modo nuovo la trasmissione della memoria. Il convegno ha 

anche toccato la questione di come affrontare oggi con strumenti tecnici aggiornati il 

tema dell’impatto visivo della nuova architettura, ma soprattutto ha richiamato con 

forza il tema delle dimensioni immateriali della memoria in un contesto di rapido 

cambiamento sociale e fisico. Ha contemporaneamente suggerito una rilettura degli 

sforzi fatti nel campo della salvaguardia dei centri urbani nei paesi dell’Occidente 

negli ultimi centovent’anni, come spunto di riflessione sul linguaggio e su alcune 

delle categorie concettuali utilizzate. 

Il seminario si è concluso con l’approvazione da parte dei partecipanti di 14 diversi 

paesi di un documento, nel quale essi − preoccupati da esempi di deterioramento 

accelerato del paesaggio storico urbano tanto quanto dell’erosione in corso dei valori, 

di fronte a fenomeni globali come una crescita urbana inappropriata, uno sviluppo 

abnorme del turismo, lo sfruttamento di mercato del patrimonio che ne tradisce i 

valori fondamentali − si sono detti convinti che le singole comunità devono poter 

trasferire e adattare i processi e le sfide globali ai loro contesti e alle tradizioni locali, 

che le soluzioni devono essere trovate localmente con la partecipazione attiva dei 

residenti, che la conservazione è soprattutto un processo etico e culturale, che paga 

un tributo alla nozione di genius loci, e deve essere vista come parte di un processo di 

sviluppo, anzichè come un fattore di ostacolo e di freno.

622 CONVEGNI, SEMINARI, MOSTRE 

Le azioni da intraprendere, riassunte dai presenti come parte del lavoro preparatorio 

per una Raccomandazione UNESCO in via di elaborazione, sono riportate qui 

nei sei punti che seguono: 

1) Building on the concepts of authenticity and integrity, refine the definition 

of Historic Urban Landscape as found in the Vienna Memorandum including inter 

alia natural elements, intangible dimensions, and cultural diversity that manifest 

themselves at different scales and over time. 

2) Ensure comprehensive identification, knowledge, understanding, and management 

of Historic Urban Landscapes by development of existing tools and creation 

of new ones such as cultural mapping to: 

a. Characterize and describe historic urban landscapes and their components to 

ensure their identification and understanding acknowledging subjectivity of perception, 

interpretation and representation of landscape as a cultural construct; 

b. Strengthen cultural, historical, and socio-economic studies aimed at understanding 

values, traditions and attitudes of the communities associated with Historic 

Urban Landscapes, so that they are thoroughly described to inform policies and 

define strategies; 

c. Document changes to historic urban landscapes when significant aspects, in 

particular vernacular, are in danger of disappearing; 

d. Evaluate and assess the proposals for change through techniques such as environmental, 

visual, social and economic impact assessments, and value-led management 

plans so that conservation and sustainable development may work together. 

3) Identify ways of protecting the wider setting and context of Historic Urban 

Landscapes through examining the function of “buffer zones” and other possible 

tools. 

4) Facilitate public understanding and involvement in the decision making processes, 

in conservation planning and implementation, and to improve their efficiency. 

5) Encourage academic networking and research on Historic Urban Landscapes, 

their meaning, identification, criteria for their evaluation and management methodologies 

and to make these the subject of future workshops by analyzing the different 

world-regional contexts. 

6) Share results of such research with decision makers, professionals, cultural and 

educational institutions, and local communities, and support corresponding capacity 

building at all levels. 

Donatella Calabi


IL IV CONVEGNO INTERNAZIONALE SULL’ICONOGRAFIA 

DELLE CITTÀ 

Il 23 e 24 giugno si è svolto a Napoli, in due splendide sedi dell’Università degli 

Studi di Napoli Federico II (la chiesa dei SS. Marcellino e Festo e l’Aula Magna in via 

Partenope), il convegno sull’iconografia urbana, giunto alla sua quarta edizione. 

Dal 1995, in collaborazione con importanti enti ed istituzioni europee come la 

Maison de Sciences de l’Homme, il Centro di ricerca sull’iconografia della città europea 

organizza periodicamente un convegno internazionale, i cui risultati sono stati 

pubblicati in tre volumi di atti: Città d’Europa. Iconografia e vedutismo dal XV al XIX 

secolo (1996), L’Europa moderna. Cartografia urbana e vedutismo (2002) e Tra Oriente 

e Occidente. Città ed iconografia dal XV al XIX secolo (2004). 

Gli incontri sono stati anche occasione di presentazione di volumi: proprio 

quest’anno è stato pubblicato il primo dei due tomi sull’Iconografia delle città in 

Campania. Napoli e i centri della provincia, frutto del capillare lavoro di indagine 

sull’iconografia urbana campana operato dal gruppo di ricerca del Centro, realizzato 

con il contributo della Regione Campania. 

Il IV convegno internazionale, organizzato in collaborazione con l’École française 

de Rome e diviso in quattro sessioni tematiche dal comitato scientifico (formato 

da Cesare de Seta, Alfredo Buccaro, Leonardo Di Mauro, Marco Iuliano e Brigitte 

Marin), è stato l’occasione per una ricognizione degli studi più aggiornati sulla ricerca 

iconografica e momento di confronto per la messa a punto di una comune 

metodologia di indagine. 

La prima sessione, presieduta da Cesare de Seta, è stata dedicata all’approfondimento 

delle questioni di metodo, con i contributi di Paul Harvey dell’University of 

Durham e di Lucia Nuti dell’Università di Pisa, entrambi centrati sulla cartografia 

del Medioevo. Il primo ha sviluppato il tema partendo dalle forme simboliche del 

X secolo che precedono la formazione delle mappe europee, con un excursus che ha 

raggiunto il XIV secolo; la studiosa toscana, invece, ha approfondito il lungo periodo 

di «buio iconografico» medievale, in cui una nuova società sta predisponendo nuove 

espressioni urbane, ed ha analizzato una serie di scritture redatte per descrivere Roma 

alle folle di pellegrini che la visitano in quegli anni.


Nella stessa sessione, Vicente Lleó Cañal (Universidad de Sevilla), nella relazione 

su Siviglia tra Cinque e Seicento, ha indagato la nuova centralità geografica e le implicazioni 

in chiave cartografica che seguono la scoperta dell’America. Jean Boutier 

(EHESS, Marseille), dopo le recenti fatiche che hanno portato alla pubblicazione 

di una puntuale monografia sulle mappe di Parigi, ha affrontato il tema de La ville 

des géographes au siècle des Lumières, chiarendo l’operato di Delisle, La Caille e 

Jeaurat in relazione alla cartografia urbana. Ha chiuso la mattinata dei lavori Iain 

Chambers de «L’Orientale» di Napoli che ha inteso proporre una diversa mappatura 

del Mediterraneo e delle sue città: non tanto quella geometrica ed astratta che serve 

per riconfermare il punto di vista unilaterale dell’osservatore, ma la registrazione 

dello spazio piegato sotto il peso di storie e culture diverse. 

Nel pomeriggio la seconda sessione, presieduta da Martine Boiteux (EHESS, 

Paris), si è svolta analizzando i modelli cartografici e la circolazione delle fonti: hanno 

aperto Giosi Amirante e Mariella Pessolano (Seconda Università di Napoli ed 

Università di Napoli Federico II) con un approfondimento sulla figura e le opere 

di Francesco Cassiano de Silva, attraverso lo studio critico di inedite raccolte 

manoscritte realizzate a cavallo tra Sei e Settecento. Guenievre Fournier (EHESS, 

Marseille), invece, ha studiato la seicentesca Vue panoramique de Marseille gravée par 

Jean Randon. 

Alfredo Buccaro e Marco Iuliano, dell’Università di Napoli Federico II, hanno 

messo in evidenza alcuni straordinari patrimoni conservati presso la Biblioteca 

Nazionale di Napoli Vittorio Emanuele III. In particolare Buccaro ha esaminato 

il «Codice Corazza» prezioso compendio dei testi di Leonardo redatto tra il 1637 

e il 1640 sui codici a quel tempo esistenti nella Biblioteca Ambrosiana di Milano, 

poi trafugati da Napoleone nel 1798; Iuliano ha analizzato il fondo cartografico del 

Deposito della Guerra, che, a tutti gli effetti, è da considerarsi la collezione cartografica 

di Giovanni Antonio Rizzi Zannoni (1736-1814) geografo di fama europea, 

fondatore dell’Officina Topografica. 

La mattinata del sabato, dedicata all’analisi del documento iconografico e presieduta 

da Leonardo Di Mauro della Federico II, si è aperta con la comunicazione di 

Emmanuel Lurin (Académie de France à Rome) sulla la pianta di Roma del 1577 di 

Etienne Du Pérac edita da Lafréry. 

Wouter Bracke (Biblioteca Reale del Belgio/Università Libera di Bruxelles) ha 

presentato e commentato gli splendidi atlanti delle città dei Paesi Bassi di Jacob 

van Deventer (1558-1572): si tratta del progetto di Filippo II di rappresentare su 

carta tutto il suo impero. Ilario Principe (Università della Calabria) e Giuseppina 

Scamardì (Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria) hanno descritto 

città, navi e battaglie del Mediterraneo in un manoscritto conservato alla Biblioteca 

Riccardiana di Firenze, realizzato tra il 1598 e il 1616 da un soldato di ventura: comprende 

il racconto di ben quindici viaggi al seguito di milizie impegnate nella difesa


del Mediterraneo dalla minaccia corsara. 

Jean-Luc Arnaud (CNRS, Institut de recherche sur le Maghreb contemporain, 

Tunis) ha mostrato la rappresentazione di Istanbul a volo d’uccello opera del francese 

Joseph-Guillaume Grelot sul finire del Seicento. Brigitte Marin (École française de 

Rome) ha attentamente descritto la pianta di Antonio Espinosa de los Montoros y 

Abadía, intitolata Plano topografico de la Villa y Corte de Madrid, stampata nel 1769 

con un’eccezionale esattezza. 

Il convegno si è chiuso nel pomeriggio di sabato con gli interventi di Paolo 

Militello (Università di Catania) sulle rappresentazioni a stampa di Palermo, Messina 

e Siracusa tra XVI e XIX secolo, di Cornélie Gérard (Università di Strasburgo) sull’iconografia 

di Strasburgo dalle origini al 1870, di Francesca Capano e di Maria 

Iaccarino dell’Università di Napoli Federico II rispettivamente sulla Carta dello Stato 

Pontificio di Rizzi Zannoni e sull’attività di Matthäus Merian. 

Marco Iuliano


CITTÀ, ARCHITETTURA E SOCIETÀ 

RIFLESSIONI SU UNA MOSTRA 

Delle cinque sezioni in cui la X Mostra Internazionale di Architettura della 

Biennale di Venezia (10 settembre-19 novembre 2006) si articolava, quella principale 

tenutasi alle Corderie dell’Arsenale, e curata da Richard Burdett, è parsa la più 

interessante. Come è stato sottolineato da più parti, l’ultima Biennale ha posto al 

centro dell’esposizione la città (o, meglio, le città), con le sue contraddizioni e i suoi 

mali: un ritorno della città all’interno della kermesse internazionale assai problematico, 

che non ha mancato di sollevare critiche e prese di posizione su vari fronti, e 

che sollecita una discussione in merito a un modo diverso, lontano da quello dello 

storico della città, di guardare agli insediamenti urbani e alle loro trasformazioni 

contemporanee. 

Articolata lungo lo splendido spazio delle Corderie, la mostra affrontava una questione 

importante, per altro già discussa (da Hénard a Gottmann), ma ora ampiamente 

rivisitata: che cos’è la metropoli/megalopoli, oggi, nell’era di trasformazione 

urbana globale che stiamo vivendo? Questo in sintesi il tema centrale, che, variamente 

declinato nelle altre sezioni, veniva illustrato in quella principale con riferimento ad 

alcuni casi specifici: sedici megalopoli distribuite su quattro continenti (Barcellona, 

Berlino, Bogotà, Caracas, Città del Messico, San Paolo, Tokyo…), luoghi di concentrazione 

demografica eccezionale destinati a crescere, se, come attestano le proiezioni 

demografiche, nel 2050 il 75% della popolazione dell’intero pianeta di sposterà a 

vivere nelle città. 

Più che soluzioni concrete, la mostra prospettava analisi di casi diversi. Le categorie 

d’indagine messe in campo (densità, popolazione, estensione) erano ben evidenti 

nella parte dedicata ai profili di città, anche se l’aspetto quantitativo accompagnava 

tutta la mostra, come base per stabilire possibili comparazioni. «Numeri senz’anima» 

come li ha definiti Cristina Bianchetti; tavole a tratti semplicistiche (quante Venezie 

possono essere contenute in ciascuna metropoli?), astratte, poco attente al dato qualitativo. 

Eppure efficaci, come le immagini che scandivano il percorso della mostra 

e coglievano le caratteristiche di ciascuna metropoli, rendendo espliciti gli squilibri 

sociali che in gran parte le contraddistinguono.


Particolarmente interessanti, inoltre, erano i plastici raffiguranti le densità abitative 

delle megalopoli esaminate. Più degli altri oggetti esposti, essi mostravano da 

un lato la diversità delle situazioni, dall’altro l’impossibilità di definire la forma delle 

megalopoli: se quei pochi a piramide evidenziavano il rapporto centro-periferia in 

maniera chiara, altri presentavano punte di densità in corrispondenza di quartieri 

marginali, altri ancora sfuggivano a ogni relazione. Questo aspetto della perdita della 

forma urbis ritornava in tutta la mostra, a fronte dell’ampia attenzione rivolta ai dati 

quantitativi. Non si tratta certo di una casualità: l’analisi si muoveva nell’ambito 

socio-antropologico piuttosto che architettonico-urbanistico. Questo distacco veniva 

tuttavia in parte colmato da alcune realizzazioni intese come interventi chiave 

per risanare i mali delle metropoli (come il gimnasio vertical, palestra sociale che, 

coinvolgendo i giovani dei barrios, ne riduce il tasso di criminalità). Interventi come 

questo sembrano dare risposta a un pressante interrogativo, la cui discussione è rinviata 

al saggio di Burdett nel catalogo della mostra 1 : come costruire la città in un’era 

di trasformazione urbana globale? Quali sono le responsabilità degli amministratori 

e degli architetti? La risposta è implicitamente racchiusa nel titolo stesso dell’esposizione: 

si tratta di restiture all’architettura il proprio ruolo sociale. Solo così potranno 

essere risolti i conflitti tra i due protagonisti del racconto (città e società). Una ricerca 

d’equilibrio che può attenuare le diversità, gli squilibri di una crescita ormai incontrollabile 

e i cui effetti sono sotto gli occhi di tutti. 

Ma le soluzioni erano altrove, nelle altre sezioni della Biennale. Va almeno menzionata 

la più originale: la città di fondazione, VEMA, presentata alla Tesa delle 

Vergini (padiglione italiano) nella mostra curata da Franco Purini, che illustrava una 

forma insediativa riconoscibile e ben definita, alternativa alla cosiddetta città diffusa, 

e in grado di attivare nuove relazioni territoriali. 

Alle Corderie, invece, il visitatore era in qualche modo portato dalle immagini a 

riflettere sulla necessità di attenuare una serie di distinzioni tradizionali, paradigmatiche 

(come quelle tra centro e periferia, tra città e campagna), che fanno parte del 

nostro bagaglio culturale. Emblematica la foto dell’espansione illimitata di Città del 

Messico 2 : essa poneva il tema della perdita del limite della città e, conseguentemente, 

della sua dissoluzione in forme di insediamento le cui caratteristiche non sono più 

facilmente identificabili (Secchi). 

Ha ancora senso, dunque, pensare alla città in quella che è stata definita l’era posturbana? 

Nell’epoca della globalizzazione, in cui si aprono nuove frontiere di comunicazione, 

nuovi processi di transizione e di mobilità, sono i legami ad essere posti 

al centro della riflessione (Sassen). Emergono nuovi poli, che non coincidono con la 

tradizionale distribuzione dei centri abitati; nuove configurazioni filiformi, puntuali, 

disperse, che delineano distretti economici, megalopoli, città-regione. Non è certo 

un caso se queste analisi sulla nuova condizione, definita posturbana, non provengano 

dalla cultura architettonica, ancora fortemente legata come si è detto all’immagi


ne tradizionale della città e dei suoi spazi, né dall’ambito disciplinare della geografia 

storica (si pensi alle indagini di Turri). Alle Corderie, del resto, la rappresentazione 

degli insediamenti urbani avveniva attraverso lenti diverse, come la concentrazione 

del consumo di elettricità, il circuito globale dell’oro come strumento finanziario, e 

così via. 

Nonostante tutto ciò, l’indicazione più rilevante che emerge da questa mostra è 

che all’inizio del XXI secolo, dopo una fase di degrado fisico e sociale, le città ritornano 

ad essere luoghi strategici. Che siano globali poco importa; ci interessa, invece, 

continuare a discutere sul perché le città sono importanti 3 . 

Elena Svalduz 

1 R. BURDETT, M. KANAI, La costruzione della città in un’era di trasformazione urbana globale, in 

Città, architettura e società, Catalogo della X Mostra Internazionale di Architettura, Venezia, Marsilio, 

2006, pp. 3-23. 

2 Città, architettura e società, cit., pp. 128-129. 

3 Titolo del saggio di Saskia Sassen nel catalogo della mostra (pp. 27-51).


Informazioni 

DIFESE, COSTRUITE, AMMINISTRATE. LE CITTÀ E I MILITARI 

IN ETÀ CONTEMPORANEA 

Organizzato dall’Università degli studi del Molise e dall’Associazione italiana di storia urbana 

(Aisu), il convegno “Difese, costruite, amministrate. Le città e i militari in età contemporanea” 

avrà luogo a Termoli dal 20 al 22 settembre 2007. Al pari di altre occasioni tenutesi 

in passato, l’incontro vuole costituire un momento di scambio scientifico culturale su un 

tema che tiene conto delle diverse anime dell’associazione. Obiettivo è quello di favorire interscambi, 

per garantire una riflessione ad ampio respiro che consenta di mettere a confronto 

gli studi storici e di agevolare la partecipazione attiva dei soci al fine di valorizzare il carattere 

multidisciplinare dell’associazione. 

Come è noto, a partire dagli ultimi anni del Settecento, i militari forniscono un apporto 

decisivo tanto alla costruzione della città contemporanea, quanto alla formazione di un ambito 

specialistico attorno ai problemi urbani e territoriali. La topografia, come altri strumenti di 

indagine e di controllo della città, ad esempio, si avvale di tecniche elaborate dai militari. Ma 

il loro contributo non riguarda esclusivamente l’ambito conoscitivo. Sulla scia di una lunga 

tradizione in materia di insediamenti, a partire dall’Ottocento nascono piccole e medie città 

interamente progettate dai tecnici militari sulla base di modelli consolidati. 

Nelle terre d’Oltremare (Senegal francese, Eritrea italiana, Congo belga), ma anche in città 

come Odessa, La Spezia, soltanto per citare alcuni casi, i genieri monopolizzano la totalità 

dei problemi di natura territoriale: dalla costruzione di reti carrozzabili alla realizzazione di 

approdi portuali, fino al tracciamento di interi insediamenti urbani. 

I militari vengono chiamati a fronteggiare scenari di guerra, ma anche epidemie e catastrofi 

naturali (dalle alluvioni ai terremoti), con un slancio che va ben oltre la situazione di 

emergenza. Delimitano le aree soggette a regimi speciali di edificazione o destinate a determinate 

funzioni. In alcuni casi ai militari spettano anche i compiti di polizia. In altri, si occupano 

di definire e progettare le attrezzature civili (scuole, prigioni, ospedali), sia da realizzarsi 

ex novo, sia da adattare in strutture preesistenti (come nel caso dei tanti organismi religiosi 

soppressi, o dei castelli e delle rocche che vengono trasformate per ospitare caserme, convitti, 

carceri, ospedali, scuole). In altri casi ancora, gestiscono non solo l’ambito urbano ma anche 

territoriale (si pensi alle vicende dei sacrari di guerra o degli aeroporti). 

In alcune città, inoltre, i progetti di trasformazione e di riadattamento del sistema difensivo 

surrogano le assenze di piani edilizi generali. In altre, il parere dei tecnici del genio militare è deci-

630 INFORMAZIONI 

sivo sul disegno di strade e percorsi, e sul processo di riconfigurazione urbana. Non solo dunque 

funzioni di controllo e di veto. Nella riconversione dell’apparato difensivo e nella definizione delle 

aree di interesse strategico, i militari applicano una capacità progettuale ampia. 

L’incontro di Termoli si rivolge a studiosi (storici, conservatori, geografi, sociologi, storici 

dell’arte e dell’architettura, pianificatori, economisti, ingegneri, architetti), che lavorano sui 

diversi aspetti della storia urbana e territoriale. I partecipanti al convegno si interrogheranno 

pertanto sul tema tenendo presente due filoni principali: da un lato, i “Saperi tecnici per la 

città e il territorio” (statistiche, topografia, catasti, mappe, igiene, scuole di pensiero specialistiche); 

dall’altro, le “Pratiche di progetto per la città e il territorio” (gestione delle trasformazioni 

e ri/costruzione di parti di città o di territorio, compilazioni di piani, riuso degli spazi 

esistenti e/o riconversione dei luoghi, inserimento/sovrapposizione/demolizione di strutture 

militari in conflitto/dialogo con la città). 

Il comitato scientifico del convegno è composto da Donatella Calabi (IuaV, presidente 

Aisu), Donatella Cialdea (Università degli studi del Molise), Fabio Mangone (Università degli 

studi di Napoli “Federico II”), Marco Pretelli (Università degli studi del Molise), Massimiliano 

Savorra (Università degli studi del Molise), Carlo Maria Travaglini (Università “Roma Tre”, 

vicepresidente Aisu), Guido Vittorio Zucconi (IuaV, segretario Aisu), Ilaria Zilli (Università del 

Molise, Centro di Cultura del Molise) 

Le proposte da inviare per e-mail agli organizzatori dovranno definire il tema che sarà oggetto 

del contributo. Coloro che sono interessati a presentare un abstract dovranno inviare una 

cartella (max 2500 battute) al seguente indirizzo: massimiliano.savorra@unimol.it; il testo del 

contributo (circa 10 cartelle) sarà reso disponibile nel sito dell’Aisu: www.storiaurbana.it. 

M.S. 

Fig. 1 - Domenico Aspari, La demolizione delle fortificazioni del castello di Milano, 1801 

(Museo di Milano).

INFORMAZIONI 631 

DESCRIPTIO URBIS: MEASURING AND REPRESENTING THE 

MODERN AND CONTEMPORARY CITY 

La conferenza internazionale Descriptio urbis: measuring and representing the modern and 

contemporary city avrà luogo a Roma fra il 27 ed il 29 Marzo 2008. 

L’iniziativa, promossa da numerosi enti – CROMA (Centro per lo studio di Roma)- 

Università «Roma Tre»; Archivio storico Capitolino-Comune di Roma; Direzione generale 

per gli Archivi e Archivio di Stato di Roma-MiBAC; Telemme-Université d’Aix-en-Provence; 

Institut J.-B. Say-Université de Paris XII-Val de Marne – e patrocinata dall’Associazione 

italiana di storia urbana (AISU), nasce dall’esigenza di mettere a confronto esperienze di 

ricerca internazionale riguardanti lo sviluppo e l’implementazione delle tecniche informatiche 

avanzate per lo studio della città moderna e contemporanea. 

Le ultime iniziative dell’EUAH (European Association for Urban History) hanno 

messo in evidenza un crescente interesse da parte di studiosi di varie aree disciplinari nei 

confronti dell’utilizzo di strumenti informatici per indagare diversi aspetti della storia urbana 

e per divulgarne i risultati. La conferenza di Roma vuole essere un’occasione di ulteriore 

approfondimento e discussione fra gli specialisti del settore – e tutti gli interessati – di 

tematiche, metodologie e strumenti di un ambito di ricerca in continuo sviluppo. 

Questo primo tentativo di confronto internazionale ha un carattere sperimentale e 

accoglierà contributi che riguardano il periodo storico compreso fra il XVIII ed il XX secolo. 

La scelta è strettamente legata alla volontà di accogliere applicazioni basate sull’impiego dei 

sistemi informativi geografici nello studio della città storica e, di conseguenza, di disporre 

di dati cartografici e tematici che abbiano raggiunto adeguati standard di accuratezza ed 

omogeneità. 

Le principali tematiche riguarderanno: le tecniche e i prodotti cartografici, i sistemi 

catastali e altre forme di rilevamento censuario, i sistemi informatizzati applicati agli studi 

sulla città storica, gli atlanti delle città storiche. 

È attualmente aperto il call for sessions sul sito http://host.uniroma3.it/centri/croma/ 

descriptiourbis, sul quale si troveranno tutte le notizie circa la conferenza e il programma 

articolato dell’iniziativa, nonché alcune indicazioni logistiche. 

Gli abstract (di massimo 500 parole) dovranno essere inviati per e-mail agli organizzatori 

al seguente indirizzo: urbis@uniroma3.it. 

Per ulteriori informazioni si può contattare la segreteria organizzativa: 

urbis@uniroma3.it, tel. +39.06.57374016, fax. +39.06.57374030. 

Keti Lelo

632 INFORMAZIONI 

IL IX CONGRESSO INTERNAZIONALE DI STORIA URBANA 

Si terrà a Lione dal 27 al 30 agosto 2008 il IX Congresso internazionale di storia urbana dedicato 

al tema Comparative History of European Cities. 

Presso il sito web http://eauh.ish-lyon.cnrs.fr/ è possibile acquisire tutte le informazioni relative 

all’organizzazione e alle modalità di partecipazione. Qualsiasi informazione relativa al Congresso può 

essere richiesta a: eauh@ish-lyon.cnrs.fr. 

Dal mese di maggio 2007 è aperto il call for papers per le sezioni previste dal programma 

provvisorio: 

Urban Planning and the pursuit of happiness – S 

M. Schalenberg, A. Bartetzky 

Disability and the City – M 

A. Borsay, M. Nelson 

Resorts and Ports c.1700-c.2000 – M 

P. Borsay, L. Miskell, S. Poole, O. Roberts, J. Walton 

Generalization and Synthesis in European urban History – RT 

L. Lees 

The foreign Policy of Western cities, 14th to 17th centuries – M 

S. Péquignot, P. Monnet 

Visionary Urbanism: Photographic, Filmic and Digital 

Representation - S 

N. Huber, R. Stern 

The Post-Socialist City. Continuity and Change in Urban 

Space and Imagery – S 

A. Kliems 

Public services and urban politics in European cities, 14th to 18th centuries – M 

H. Jelle, M. Van der Heijden, G.Vermeesch 

Around the property, 12th to 18th centuries - M 

P. Lanaro, S. Cerutti 

Urbanisation and changing adminisrtative borders - M 

L. Nilsson, L. Bellander 

The Baltic Sea Region 1700-1900.Trade, credits and 

family relations across the sea – S 

J. Parland-Von Essen 

Framing identities, building political organizations.The 

construction of urban political identities in Late Medieval 

WesternEurope - M 

J. A. Jara Fuente, P. Stabel 

Migration/displacement and the dissemination of urban 

planning expertise in non-Western areas in the mid 20th 

Century – S 

J. Lagae, M. Martin 

The Practice of Comparison : The Sources of a Compared 

History of European Cities (Urban Utilities and Public 

Works, 15th to 20th centuries – M 

S. Frioux, D. Bocquet 

Punishing the city from the Antiquity to modern time – M 

P. Gilli, J. Guilhembert 

Dancing with the enemy? Cultural and social relatioons in 

cities occupied by french troops (1792-1815) – S 

A. Wurgle 

The underground: the very forbidden urban space – S 

R. Varriale 

Modernity and Material Culture in Urban Asia, c. 1900- 

1950 – S 

P. Kidambi 

Laughing in the city, laughing at the city. Humor, wit and 

modern urban life – S 

M. Baumeister 

Writing Urban History : (Multi)Disciplinary Comparisons - S 

A. Kervanto Nevanlinna 

Mapping the Hinterland – S 

G. Favero, M. Seerruys 

The integration of economic immigrants in early modern 

and industrializing cities – M 

B. De Munck, S. Hahn, A. Winter 

Enviromental and Social Inequalities in the City 

since 1800 – M 

G. Massard-Guilbaud, R. Rodger 

Cosmopolitanism and the city : urban production and 

consumption 1600-1800 - M 

J. Stobart, B. Blonde, N. Coquery 

Urban society as a producer and a Product of Space. 

Historians of the City and Henri Lefebvre after 35 years – M 

M. Boone, Cl. Billen, M. Howell, E. Lecuppre- 

Desjardin

Port Cities: Social, Cultural, Built Repositories of Globalization 

and Networking in the 19th and 20th Century – M 

L. Amenda, C. Hein 

Small and middle-sized European towns and their urban 

history – S 

I. Nevzgodin 

Urban Centresof South Asia: Merchants and Maritime 

Commerce – S 

P. Mishra 

Urban uses of the middle ages – M 

P. Boucheron, F. Moret 

Lyon regarded from elsewhere (1245-1650): exchanges, 

contests and perceptions – S 

J. Gaulin, S. Rau 

Big Buildings- Concepts of Competition and Order since 

the 19th Century – S 

C. Kress 

Computer science in urban history – M 

C. M. Travaglini, K. Lelo, B. Marin 

Authoritarian Urbanism: Politics and Design in 

European communist and Fascist Cities Since 1917 – S 

K. Zarecor, F. Trabalzi 

The artistic districts : Between urban economy and social 

uses of the city,15th to 19th centuries – S 

M. Traversier 

From chronicles to novels. European cities and literary 

sources from the 15th to 19th century – S 

M.Weis 

Popular Housing and social control in the European cities, 

18th to 20th centuries – M 

T. Thibault, C. Denys 

Demographic catastrophes, social mobility and urban 

Growth in modern Europe – S 

L. Mocarelli, J. F. Chauvard 

Innovative Cities from the Renaissance to 2000 - M 

P. Clark, M. Vietala 

Inventing an International Culture of Change: 1870- 

1930 – S 

M. Hessler, R. H. Kargon, M. Levin 

Urban Governance Since 1945: State, Welfare and civic 

society – M 

P. Shapely 

The importance of being green: urban development and 

green areas – S 

D. Kowaltowski 

Urban diversity: Planning and defining vs.living and 

experiencing – S 

T. Syrjamaa 

Self representation and Public Culture of the Balkan 

Urban Classes – S 

W. Fischer 

INFORMAZIONI 633 

Lost tracks: how the XIX century transformed the historical 

city – S 

F. Torello 

The powers and the circulation of urban elites (Europe, 

16th to 18th centuries) – S 

A. Cogné, M. Barbot 

The city in the eye of Law – S 

R. Carvais 

19th century cities:historical knowledge and urbanistic 

references in the 20th century – M 

F. Boutillon, L. Coudroy 

Villes portuaires de la mediterranèe et colonies des marchants 

- S 

T. Colletta 

Les espaces « intouchables » de la ville coloniale (XVIIIe- 

Xxe siècle) – S 

X. H. De la Lemps 

Sanatoriums and the city – S 

L. Sapounakis-Dracaki 

The relationship between Towns, their territories and 

spaces, 5th to 12th centuries, in North West Europe – S 

H. Galinie 

Réseaux urbains et communications dans les villes arabomusulmanes 

– S 

T. Madani 

Le polycentrisme religieux urbain – S 

J. Chiffoleau 

The University and the city – Partnership or Rivalry? – S 

L. Kolbe 

Shopping and housing: Shops, merchants’ Houses and the 

market Place in Europe in the Early Modern Age – M 

R. Tamborrino, E.Welch 

Cities and Revolution in Latin America – S 

J. Dym 

The rise and fall of urban cultural industries: placebound 

dynamics of urban cultural indusries – S 

M. Lavanga 

Les petites villes de montagne – S 

J.-L. Fray 

Medieval and Early modern – RT 

P. Clark 

Modern and Contemporary – RT 

B. Morris 

M = main session 

S = specialist session 

RT = round table

Catalogo della mostra fotografica (Roma, Istituto Superiore Antincendi, 26 giugno- 

15 ottobre 2004), pp. 252. Prezzo del volume euro 30,00. 

Per informazioni contattare: 

CROMA - tel. 06.57374016, fax 06.57374030, croma@uniroma3.it


Schede 

MARIA FILOMENA BOEMI - CARLO M. TRAVAGLINI (a cura di), Roma dall’alto, Catalogo della 

mostra. Roma, Casa dell’Architettura, Acquario Romano (25 ottobre–30 novembre 2006), 

Roma, Università Roma Tre-CROMA, 2006, pp. 372, ill., euro 35,00. 

Il volume illustra, attraverso una ricca documentazione fotografica (390 immagini), l’evoluzione 

della città di Roma e la sua espansione dalla seconda metà dell’Ottocento a oggi. Il 

punto di vista offerto dalla fotografia aerea e dalle immagini satellitari si dimostra un formidabile 

strumento di analisi e di divulgazione scientifica, consentendo ad un ampio pubblico 

di riscoprire e riappropriarsi della memoria storica. Quattro studi di approfondimento 

scientifico introducono le nove sezioni, attorno alle quali si è articolato il lavoro e la lettura 

della crescita della Capitale: Carlo Travaglini, nel suo saggio Lo sguardo sulla città. Note sulle 

trasformazioni della Capitale tra Otto e Novecento, spiega che il volume vuole da un lato 

richiamare l’attenzione su Roma Capitale, sulle grandi trasformazioni, su alcuni problemi 

strutturali e, dall’altro, vuole mettere in luce le potenzialità della fotografia e delle immagini 

cinematografiche come fonti per lo studio della storia urbana. Per poter apprezzare e trarre 

informazioni dalle riprese dall’alto è necessaria una premessa storica e metodologica oggetto 

del contributo Sopra Roma di Maria Filomena Boemi, direttrice della Aerofototeca Nazionale, 

dal cui archivio proviene gran parte delle riprese aeree del volume: è necessario infatti distinguere 

tra fotografie prospettiche e planimetriche − osserva Maria Filomena Boemi −, perché 

se le prime offrono una visione più affine a quella cui è abituato l’occhio umano, le seconde 

sono invece assimilabili ad una pianta, consentendo con tecniche e strumenti sempre più 

sofisticati di precisare spazi e misure del territorio. Riccardo Santangeli Valenzani, Archeologia 

e città, si occupa di esplicitare il legame tra tutela del paesaggio monumentale, conservazione 

del paesaggio naturale e vivibilità della città: la documentazione fotografica è in questo caso 

testimone del difficile e complesso rapporto con la memoria storica, rappresentata anche dalle 

emergenze monumentali e archeologiche che sono parte integrante del tessuto urbanistico 

della città. Keti Lelo, Le «frontiere» dell’urbano, affronta il tema dell’evoluzione e della trasformazione 

urbana attraverso il concetto di limite, che, inteso come linea di demarcazione 

tra città e campagna, non è più applicabile a Roma, dove, soprattutto nella seconda metà del 

Novecento, si assiste alla crescita caotica delle periferie. L’analisi e la rielaborazione di una 

serie di immagini satellitari, dal 1970 al 2000, permette di evidenziare proprio il fenomeno 

dell’erosione del territorio aperto, tradizionalmente agricolo, in favore, marcatamente negli 

anni ’90, dell’insediamento diffuso. 

Seguono nel volume le nove sezioni che costituiscono il nucleo della ricerca e che offrono 

una chiave di lettura della crescita della Capitale: la prima sezione (La forma della città di Keti 

Lelo), si pone su un registro diverso rispetto alle altre perché, da un lato, mostra la città nel 

suo insieme grazie a riprese dall’alto che restituiscono una copertura completa dell’edificato e,

636 SCHEDE 

dall’altro, mette in luce l’evoluzione della città confrontando i suoi piani regolatori dalla fine 

dell’800 a oggi; nella seconda (Interventi nella città storica 1883-1940 di Carla Mazzarelli), 

le immagini degli sventramenti e delle demolizioni perpetrate tra XIX e XX secolo e la ricca 

documentazione fotografica che riproduce la stessa area prima e dopo l’intervento testimoniano 

i cambiamenti impressi alla città in nome della modernità, dell’ideologia e del gusto, e 

rappresentano quindi una fonte di inestimabile valore per comprendere la storia della città in 

senso lato; nella terza (L’espansione residenziale di Bruno Bonomo), si ripercorre la nascita e lo 

sviluppo di nuovi quartieri residenziali partendo dall’inizio del ’900 con Prati e Delle Vittorie, 

per finire alle zone di espansione abusiva degli anni ’70, come Torre Angela; nella quarta (Da 

Roma al mare di Elena Tinacci), si evidenzia il rapporto tra la città e il mare, soffermandosi 

sulla costruzione delle vie di comunicazione verso Ostia e sulla crescita di Ostia Lido, ma anche 

sull’erosione del litorale che la fotografia aerea è in grado di documentare con molta efficacia; 

nella quinta (Tevere e Aniene di Alessandra Vico), è ancora il rapporto tra la città e l’acqua ad 

essere oggetto di analisi ma questa volta si tratta dei suoi fiumi: la costruzione dei muraglioni 

del Tevere, a seguito delle esondazioni, ha cambiato profondamente alla fine del XIX secolo il 

paesaggio urbano. Anche le funzioni del fiume e il suo rapporto con gli abitanti hanno subito 

trasformazioni significative, soprattutto per la cessazione delle attività commerciali e artigianali 

che si svolgevano non solo lungo il Tevere ma anche lungo l’Aniene; la sesta (Infrastrutture e 

trasporti di Elena Tinacci), è dedicata alla trasformazione della viabilità e alla creazione di assi di 

scorrimento all’interno del tessuto urbano per far fronte alla crescita e allo sviluppo della città. 

La costruzione del Grande Raccordo Anulare, l’asse stradale a scorrimento veloce che collega 

tutte le vie consolari della Capitale con un tracciato circolare equidistante dal centro cittadino, 

alla fine degli anni ’40, la realizzazione delle due linee della metropolitana, i cui lavori si conclusero 

in occasione dei mondiali di calcio del 1990, così come lo sviluppo progressivo dello scalo 

aereo intercontinentale di Fiumicino rappresentano alcuni esempi di opere infrastrutturali che 

hanno inciso profondamente sul territorio e sull’assetto della città; la settima (Industria e servizi 

di Fernardo Salsano e Bruno Bonomo), affronta i modelli di sviluppo della produzione industriale 

che vedono la distribuzione delle attività in una prima fase sparse in tutti i settori della 

città, mentre, in un momento successivo, si assiste al tentativo di concentrare le attività produttive 

in aree delimitate. La crescita e l’espansione della Capitale è analizzata anche attraverso lo 

sviluppo dei servizi che offre alla popolazione, come la distribuzione alimentare (dai Mercati 

Generali ai grandi centri commerciali), l’alta formazione e la ricerca (la costruzione della Biblioteca 

Nazionale nell’area di Castro Pretorio e l’aumento del numero delle università con il 

loro diverso impatto urbanistico) e la sanità (gli ospedali collocati in aree strategiche della città); 

nell’ottava (Ville storiche e parchi urbani di Tommaso Allegra e Carla Mazzarelli), si concentra 

l’attenzione sul verde urbano costituito non solo dalle grandi ville storiche, ma anche dalla creazione 

in epoche più recenti di parchi archeologici e di 14 grandi parchi destinati al recupero del 

verde urbano e extraurbano; a questa positiva tendenza si affianca tuttavia la progressiva perdita 

dei giardini storici che costituivano delle vere e proprie unità paesaggistiche e architettoniche. 

Nell’ultima sezione (Eventi e grandi opere di Fernando Salsano), si pone in primo piano il ruolo 

dei grandi eventi nel promuovere attività economiche e trasformazioni urbane permanenti: è il 

caso degli edifici costruiti in occasione del Concorso nazionale d’architettura per l’Esposizione 

celebrativa del cinquantenario del Regno d’Italia nel 1909-1911, della costruzione dell’area dell’Eur, 

verso la quale nel tempo si concentreranno molte funzioni direzionali sia pubbliche che

SCHEDE 637 

private, ma anche, per finire in tempi più recenti, delle trasformazioni connesse ai campionati 

mondiali di calcio del 1990 e al Giubileo del 2000. 

Si tratta quindi di un volume che presenta numerose chiavi di lettura della città, mostrando 

come l’utilizzo della fotografia aerea rappresenti una fonte documentaria versatile e uno 

stimolo ad un approccio multidisciplinare alla storia urbana. 

Giulia Vertecchi 

DONATELLA CALABI (a cura di), Venezia in fumo. I grandi incendi della città-fenice, Bergamo, 

Leading Edizioni, 2006, pp. 229, ill., euro 33,90. 

La nascita mitica di Venezia, così come narrata dalla Chronica di Andrea Dandolo, coincide 

con la distruzione, ad opera di un incendio, del palazzo costruito dall’architetto Entinopo 

e delle dodici case lignee che lo circondavano; sulle rovine di quell’originario insediamento 

lagunare fu fondata la prima chiesa cittadina, San Giacomo di Rialto. La portata simbolica 

del fuoco come evento fondativo della città acquatica si allarga al significato di ciclica 

rifondazione: ogni volta che un incendio infligge una ferita al tessuto urbano, Venezia ne 

approfitterà per ridefinire il proprio significato mitico di città inviolata ed inviolabile, che 

ha «pro pavimento mare, pro muro frectum, pro tecto coelum, pro stratis et regis viis […] 

pelagi aquas» (Felix Faber). Il fuoco, insomma, è elemento fondamentale del mito con cui 

Venezia costruisce progressivamente la propria autoidentificazione: è, infatti, occasione di 

ciclica «purificazione» (più o meno imposta dall’Alto), ma anche di ripensamento dello spazio 

urbano, di riflessione sulla continuità delle forme e/o delle funzioni del sito, dei materiali da 

costruzione e delle norme di prevenzione. L’incendio, d’altronde, è l’unico evento davvero 

traumatico e di vasta portata cui è esposta la città che, fino a Napoleone, non ha mai vissuto 

direttamente un assedio e che, per le sue uniche caratteristiche naturali, è poco esposta ai 

terremoti e alle tempeste. La singolarità del caso veneziano, nel contesto europeo, permette 

allo storico di utilizzare l’incendio come un eccezionale strumento conoscitivo, una sorta di 

indicatore qualitativo. Infatti, nel caso della storia urbana di Venezia (assai ben documentata 

almeno dalla sua fase bassomedievale) è possibile stabilire una serie coerente e continua di 

dati utilizzando lo studio degli incendi. L’efficacia di questa pressochè inedita procedura può 

derivare da due principali caratteristiche dei roghi a grande scala che, nel contesto veneziano, 

appaiono con singolare chiarezza: la prima è che la serie degli incendi veneziani occupa un 

arco cronologico che coincide in pratica con quello della città (dal leggendario incendio realtino 

alla distruzione del Molino Stucky nel 2003). Il secondo aspetto rilevante è la capacità 

di un evento così traumatico ed improvviso di colpire una parte di popolazione, coincidente 

spesso con una frazione verticale di società, mettendone in luce comportamenti e mentalità. 

Non solo, la necessità, imposta ogni volta dal fuoco, di ridefinire un valido sistema, anche 

normativo, di prevenzione e, soprattutto, di impostare la ricostruzione della zona colpita 

coincide con un ripensamento della forma urbana, che ha, in Venezia, significative varianti a 

seconda del luogo da ricostruire e del momento storico interessato. Se, dunque, gli incendi, 

ordinati in serie diacronica, permettono di avere uno sguardo complessivo sulla storia della 

città, una volta studiati singolarmente consentono, nel loro carattere di fenomeno trasversa-

638 SCHEDE 

le, di elaborare riflessioni di storia sociale, della città, dell’architettura, dell’economia, della 

mentalità. La potenzialità di una storia degli incendi veneziani è stata efficacemente messa in 

luce dal libro collettivo Venezia in fumo. I grandi incendi della città-fenice, a cura di Donatella 

Calabi. Il testo, nella sua stessa struttura editoriale, riflette la complessità del tema e la varietà 

dei problemi da affrontare, organizzandosi con una progressiva focalizzazione cronologica e 

tematica. Dopo una introduzione di Donatella Calabi, mirata a contestualizzare il caso veneziano 

nella storia d’Europa, mettendo in luce soprattutto le norme di prevenzione e la gestione 

della ricostruzione, Ennio Concina ed Elena Svalduz delineano una storia degli incendi 

veneziani, rispettivamente nel Medioevo e nell’Età Moderna. Il quadro tematico tracciato 

in senso cronologico dai due autori è ripreso e ulteriormente problematizzato nella seconda 

sezione del libro, dove l’azione distruttrice del fuoco viene indagata a seconda dei diversi 

luoghi della città che ne subiscono le conseguenze. I due saggi successivi, dunque, riguardano 

le due aree pubbliche più significative e simboliche, quella marciana e quella realtina. Qui, 

le conseguenze dell’azione traumatica dell’incendio non potrebbero essere più significativamente 

divergenti. Riguardo al primo caso, Ennio Concina mostra come la progressiva configurazione 

del centro politico della città sia stata realizzata, nel corso dei secoli, per mezzo 

di campagne di lavori spesso conseguenti ad un incendio di vasta portata. A San Marco la 

sacralità civile del luogo investe anche la forma degli edifici che deve, dunque, rimanere intatta 

in occasione di ogni ricostruzione. Così, per esempio, accade alle Procuratie Vecchie dopo 

l’incendio del 1514 e, soprattutto, è questo il leit motiv delle ricostruzioni di Palazzo Ducale 

dopo i disastrosi eventi del 1483, 1574 e 1577. L’ultimo episodio, in particolare, innescò il 

noto, aspro dibattito sulla immutabilità della forma come garanzia e rappresentazione della 

sua sacralità (e dunque della intangibilità delle istituzioni repubblicane), contrapposta invece 

ad una idea di profondo rinnovamento formale e funzionale, che Andrea Palladio intendeva 

basato sulle «buone regole» degli antichi e sulle leggi naturali. Anche nel caso del mercato di 

Rialto, distrutto dall’incendio del 1514, il governo veneziano non poteva accettare la proposta 

di radicale stravolgimento elaborata da fra’ Giocondo in forma di foro «alla greca», 

ma per ben altri motivi. Qui, come dimostra Donatella Calabi, la sacralità del luogo (spazio 

mitico della prima fondazione urbana) non imponeva l’intangibilità della forma e, anzi, la 

distruzione provocata dal fuoco fu da subito interpretata come occasione di razionalizzazione 

dello spazio mercantile, per migliorarne la funzione e, soprattutto, la rendita a favore 

dello stato. La proposta elastica ed empirica (nella forma e nella prassi di cantiere) del proto 

Scarpagnino non poteva, quindi, non essere preferita a quella dell’intellettuale veronese, che, 

come scrive Marin Sanudo, «el locho non capisse». Ecco: il fuoco impone di capire e, quindi, 

di reinterpretare il luogo con i mezzi dell’architettura, a partire da una distruzione che, per 

quanto disastrosa e inattesa possa essere, non mette mai in discussione il significato ed il ruolo 

dello spazio interessato nel processo di autoidentificazione che Venezia si sta costruendo. A 

Venezia, insomma, il fuoco non fa mai tabula rasa. Al contrario, nel caso dei palazzi privati 

e dei teatri, gli incendi sono delle preziose opportunità per ricostruire manufatti obsoleti 

dotandoli di nuovi aggiornamenti formali e funzionali. 

Come mostra il saggio di Stefano Zaggia, alcuni tra i palazzi più rappresentativi della 

storia dell’architettura lagunare nascono dalla distruzione ad opera del fuoco di edifici preesistenti: 

è il caso dei grandi manufatti del XVI secolo come palazzo Corner a San Maurizio, 

ricostruito da Jacopo Sansovino, e la casa dei Corner a San Polo e quella dei Grimani a San

SCHEDE 639 

Luca costruite entrambi da Michele Sanmicheli. L’edilizia residenziale era quella più esposta 

al rischio d’incendio, che «non dipendeva esclusivamente dalla materialità degli edifici, ma 

era altresì connessa agli impieghi del fuoco, elemento essenziale dell’abitare […], e alle modalità 

d’uso degli spazi abitativi» (p. 199). Il frequente ricorrere degli incendi ha sicuramente 

influito sulla trasformazione della città di legno medievale in quella moderna con edifici in 

laterizio e pietra, ma anche sulle innovazioni tecnologiche dei sistemi costruttivi, a partire 

dall’evoluzione delle canne fumarie. Il teatro, poi, è il tipo edilizio per sua natura maggiormente 

esposto al rischio di incendi; il saggio di Adriana Pellizon e Rossella Vivante traccia una 

storia dei teatri veneziani alla luce degli eventi catastrofici che ne hanno imposto ciclicamente 

la ricostruzione. Al di là del forte impatto visivo e della valenza simbolica dei grandi incendi 

di teatri come quello della Fenice, si delinea, sul lungo periodo, una evoluzione profondamente 

influenzata dal fuoco, inteso come fattore inatteso che, se da una parte impone di volta 

in volta la necessità di adeguamenti tecnologici (gestione delle scene, impianti antincendio, 

ecc.), dall’altra diventa occasione di rinnovamento formale. Il versante tecnologico della fenomenologia 

degli incendi veneziani appare in tutta la sua valenza nel saggio di Ennio Concina 

sull’Arsenale. Luogo chiuso e inaccessibile per definizione, l’Arsenale è la sede civile della 

téchne ed in quanto tale condivide con Piazza San Marco (depositaria della sapienza di stato) 

e col mercato di Rialto (centro nevralgico della potenza commerciale e finanziaria della repubblica) 

valenze simboliche prima ancora che formali e funzionali. L’Arsenale, come è noto, 

aveva la doppia funzione di cantiere navale e di deposito di armi: se la lavorazione del legno 

aveva da sempre costituito un reale pericolo di incendi, la presenza di bocche da fuoco e l’immagazzinamento 

delle polveri, a partire dalla fine del XIV secolo, aumentò esponenzialmente 

il rischio di esplosioni. Le deflagrazioni del 1440 e del 1476, dovute all’incauta vicinanza 

della polveriera alla zona delle fonderie, furono nulla di fronte alla catastrofe del 13 settembre 

1569, che coinvolse il campanile e la chiesa di San Francesco della Vigna, ma soprattutto 

i due conventi della Celestia e di San Daniele. La successiva ristrutturazione dell’Arsenale, 

come dimostra Concina, fu resa necessaria anche da questo evento traumatico. 

Data la loro esperienza in merito, gli arsenalotti hanno sempre avuto tra le loro numerose 

competenze anche quello di costituire le squadre di pronto intervento in caso di incendio 

nella città. La loro attività, accuratamente indagata nel primo saggio di Elena Svalduz, è stato 

oggetto, fin dal XII secolo, di sempre maggiore attenzione normativa da parte delle magistrature 

veneziane, fino a giungere, nel corso del Settecento, ad un efficace sistema di prevenzione 

ed ad un veloce apparato di intervento. Il passaggio da un sistema normativo sostanzialmente 

empirico ad un dispositivo razionale di controllo della città vide anche l’impiego di sempre 

più efficaci macchine per lo spegnimento degli incendi, ideate in gran parte nell’Inghilterra 

reduce dal Great Fire londinese del 1666. La maggiore efficacia delle norme preventive e le 

nuove tecnologie non impedirono, però, l’ultimo grande incendio veneziano in epoca di 

Antico Regime, che il 28 novembre del 1789 distrusse buona parte della parrocchia di San 

Marcuola. Evento vissuto con drammaticità ben superiore alla sua reale portata, l’incendio 

di San Marcuola, come efficacemente dimostrato nel secondo intervento di Elena Svalduz, 

segna una decisa svolta nella percezione del significato del fuoco: l’evento catastrofico non è 

più concepito come un castigo divino incontrollabile e inconcepibile, ma come un fenomeno 

da descrivere e raffigurare accuratamente. La stessa ricostruzione avviene con modalità del 

tutto inedite, subordinando, cioè, il riassetto dell’area ad una ricognizione cartografica che si

640 SCHEDE 

estese contestualmente alle altre zone della città «con iminenti pericoli»: si trattava, usando 

le parole di Elena Svalduz, di «una specie di catasto a scala urbana, il cui esito non fu che 

frammentario» (p. 225). Questo episodio, che chiude significativamente il libro, segna dunque 

un passaggio non solo nel significato simbolico degli incendi veneziani, ma anche nella 

definizione del quadro normativo, nella gestione dell’evento catastrofico e nella successiva 

impostazione del riassetto urbano. L’operazione storiografica realizzata con Venezia in fumo 

dimostra quanto l’ambito della storia urbana possa essere efficacemente allargato grazie a 

indagini concentrate su fenomeni, come l’incendio, che sembrano maggiormente pertinenti 

ad altri ambiti scientifici. In effetti, le prospettive aperte da questo libro sono numerose e 

promettenti: sarebbe auspicabile, infatti, allargare lo sguardo anche agli incendi di edifici religiosi 

(basti pensare, ad esempio, al rogo del convento dei Servi nel 1769 e ai bombardamenti 

novecenteschi ai danni della chiesa degli Scalzi e di Santa Maria Formosa), ma soprattutto di 

indagare sui grandi incendi del XIX, XX e XXI secolo. I due roghi della Fenice (1836 e 1996) 

e, forse ancora di più, quello del Molino Stucky del 2003 hanno infatti obbligato Venezia a 

ripensare se stessa in una vicenda ciclica di morte e rinascita che ha nel fuoco una delle più 

eloquenti visualizzazioni. 

Gianmario Guidarelli 

CESARE DE SETA - ALFREDO BUCCARO (a cura di), Iconografia delle città in Campania. Napoli e i 

centri della provincia, Napoli, Electa Napoli, 2006, pp. 416, ill., euro 60,00. 

Il libro è il risultato di un progetto finanziato dalla Regione Campania che ha impegnato 

il Centro Interdipartimentale di Ricerca sull’Iconografia della Città Europea dell’Università degli 

Studi di Napoli Federico II. 

Si tratta di un ricco censimento del patrimonio cartografico e vedutistico su Napoli e i centri 

della provincia, frutto del capillare lavoro di indagine sull’iconografia urbana operato dal gruppo 

di ricerca del Centro, a cui farà seguito la rassegna riferita alle altre province della Campania. 

Il prodotto è un lavoro rigoroso di schedatura sistematica tra musei, archivi, biblioteche e collezioni 

private su tutto il territorio nazionale e non solo. Il volume propone finalmente quel corpus 

di dati storici e scientifici imprescindibile per ogni indagine sulla struttura urbana e per le ipotesi 

di recupero di Napoli e per i centri della sua provincia. 

Sulla scia della fortunata stagione critica per la pittura di paesaggio che dagli studi di 

Raffaello Causa giunge ai giorni nostri e sulla base della preziosa esperienza storico-critica nel 

campo dell’iconografia e del vedutismo di Cesare de Seta, il libro analizza criticamente la lunga 

tradizione cartografica di ambito napoletano, ricca di una produzione cospicua e ininterrotta di 

piante e vedute di città, realizzate in massima parte tra il XV e il XIX secolo. 

Il volume è diviso in una prima parte a carattere generale, in cui si analizzano i diversi 

aspetti dell’iconografia urbana dal XV secolo al primo dopoguerra. In dettaglio, nei saggi 

sono i diversi studi sui centri minori della Campania di Leonardo Di Mauro; l’analisi 

puntuale della cartografia della provincia di Alfredo Buccaro; la ricerca sulle tecniche e i 

metodi di rappresentazione della città di Daniela Stroffolino; gli studi sul vedutismo tra 

il Seicento e il Settecento di Paola Carla Verde e Gian Giotto Borrelli; e, infine, l’inte-

SCHEDE 641 

ressante approfondimento critico sulla trasformazione dell’immagine urbana negli anni 

recenti di Marco Iuliano. 

Nella seconda parte si indaga nel particolare l’iconografia dei luoghi nelle rispettive singolarità. 

Dall’analisi si comprende come gli artisti ricalchino il più delle volte modelli iconografici 

consolidati nel contesto italiano ed europeo, proponendo sovente punti di vista originali e 

offrendo così spunti innovativi ai fini di una storia iconografica ed evolutiva dei centri urbani 

rappresentati. Nel caso napoletano, la raffigurazione urbana appare quasi monotona, fino al 

XVII secolo la città è rappresentata prospettante sul mare e ritratta da ogni angolazione nelle 

sedi del potere o nei luoghi celebri per essere stati teatro di eventi memorabili, con uno scopo 

principalmente documentaristico e/o celebrativo; nella seconda metà del Settecento inizia la 

raffigurazione della città dalle colline, mentre nell’Ottocento i pittori si distribuiranno per 

ogni angolo interno ed esterno della città, alla ricerca degli aspetti più vari e pittoreschi e dalla 

città verso i centri grandi e piccoli della Campania e tutto il territorio interno. 

La schedatura rappresenta, inoltre, per gli organi preposti alla tutela e alla gestione del 

territorio, una solida base analitica per una politica tesa alla conservazione delle identità urbane 

e alla programmazione di auspicabili interventi di recupero delle città storiche e del 

paesaggio. Un archivio informatizzato generale, che si spera possa essere esteso ad altre città e 

territori italiani e un esempio tipologico per la ricerca iconografica a scala europea. 

La cospicua banca dati così ricavata fa di questo primo volume uno strumento di consultazione 

e di ricerca obbligatorio per chiunque si occupi della storia dei centri urbani di 

Napoli e del territorio partenopeo, consentendo anche opportuni raffronti e scambi culturali 

con istituzioni operanti nel medesimo ambito d’interesse scientifico. Il libro presenta, infine, 

un repertorio bibliografico distinto per luoghi e uno generale di riferimento e i sempre più 

rari indici dei nomi e dei luoghi, utili apparati di ricerca per gli studiosi. 

Massimo Visone 

STEFANIA FICACCI, Tor Pignattara. Fascismo e Resistenza di un quartiere romano, Milano, Franco 

Angeli, 2007, pp. 152, ill., euro 18,00. 

MONICA SINATRA, La Garbatella a Roma 1920-1940, Milano, Franco Angeli, 2006, pp. 159, 

ill., euro 18,00. 

Questi due libri sono i primi risultati di un programma di ricerca, diretto da Lidia 

Piccioni, dedicato alla ricostruzione della Roma novecentesca attraverso un’analisi delle sue 

complesse articolazioni territoriali, dei suoi quartieri e dei suoi luoghi identitari, allo scopo 

di individuare e valorizzare le tante «realtà differenti» della capitale. Un progetto ambizioso 

e stimolante che, dopo questo inizio, avrà presto un seguito con altre due monografie ormai 

prossime alla pubblicazione (Pietralata e Borgata Gordiani) e altre due (Piazza Bologna e 

Quartiere delle Valli) in avanzata fase di preparazione. 

La comune ispirazione dei libri di Monica Sinatra e di Stefania Ficacci risalta nell’impianto 

simile delle due ricerche: l’arco cronologico delimitato per gran parte al periodo 

tra le due guerre, l’utilizzo di fonti di diversa natura (da quelle d’archivio alle testimonianze 

orali), la ricostruzione del paesaggio fisico come scenario della vita quotidiana

642 SCHEDE 

della comunità, l’attenzione alla dimensione politica come fattore decisivo nella costruzione 

di un’identità di quartiere. Ma, pur rivelando questa matrice condivisa, i due lavori 

hanno fisionomie distinte. 

Sinatra si addentra in una realtà, la Garbatella, per molti aspetti ben conosciuta, da tempo 

oggetto di ammirazione e di analisi da parte di urbanisti e architetti, tuttavia la sua ricerca, 

ispirata alle metodologie della storia sociale, offre una prospettiva diversa sulla formazione e 

sullo sviluppo di un quartiere pensato originariamente come garden-city per gli operai dell’area 

industriale sorta lungo la via Ostiense, e poi progressivamente trasformato dalla costruzione 

di casette rapide per gli sfrattati dal centro storico, alloggi per i «baraccati», villini a riscatto e 

fabbricati intensivi per gli impiegati, «alberghi suburbani» per i senza tetto. Questo sviluppo 

edilizio, assai più articolato dell’immagine stereotipata del quartiere operaio, è uno specchio 

della complessa stratificazione sociale della Garbatella, indagata con intelligenza dall’autrice, 

facendo ricorso anche a fonti poco usate dalla storiografia sul Novecento, come ad esempio i 

registri parrocchiali. Sinatra riesce così a configurare in modo convincente alcuni aspetti, sia 

quantitativi sia qualitativi, della vita quotidiana nel quartiere, delle sue dinamiche e delle sue 

progressive trasformazioni. Lascia aperti più interrogativi, a mio avviso, la parte dedicata alla 

costruzione della memoria collettiva, di quella che potremmo definire un’identità antifascista 

della Garbatella, dove l’analisi dei processi di formazione di un sentimento d’appartenenza 

comunitaria sembra a volte identificarsi nell’autorappresentazione del quartiere modellata 

dopo la caduta del fascismo. 

Ficacci, invece, esamina una realtà pressoché sconosciuta, Tor Pignattara, e lo fa con 

ammirevole puntiglio, raccogliendo un gran numero di notizie e di informazioni da fondi 

archivistici, giornali, memoriali e testimonianze orali, quest’ultime utilizzate con dovuta accortezza. 

Il risultato è un una prima dettagliata ricostruzione della fisionomia di un quartiere 

«modello» della periferia popolare romana, cresciuto negli anni Venti in modo «semi-abusivo» 

per impulso dei nuovi immigrati e poi trasformato e consolidato dagli interventi dell’edilizia 

pubblica. Merito dell’autrice è di avere individuato i confini di un’area dalla morfologia 

indeterminata, confusa all’interno del variegato tessuto edilizio della periferia orientale, ma 

fin dall’inizio connotata da un’identità comunitaria ben definita, costruita anche su una complessa 

gerarchia sociale interna che tiene conto non solo dei profili professionali, ma anche 

delle diverse appartenenze regionali. Ficacci analizza le dinamiche dell’immigrazione, l’insediamento 

delle strutture assistenziali del fascismo, il ruolo delle istituzioni religiose, e restituisce 

al lettore un quadro complesso della vita a Tor Pignattara, arricchito anche dall’esame 

ravvicinato di alcuni casi individuali. Molto spazio, poi, è dedicato al quartiere negli anni 

della guerra e dell’occupazione nazista, dove attraverso una raccolta di interviste e di notizie 

disperse nella memorialistica ricompone con ordine le vicende dei gruppi della Resistenza 

attivi nella zona. 

Entrambi i libri, dunque, offrono un contributo significativo allo studio di Roma tra le 

due guerre e soprattutto costituiscono altri importanti tasselli per la ricostruzione dell’origine 

e dello sviluppo di quel complesso mosaico che è la «periferia» romana nel Novecento. 

Francesco Bartolini

SCHEDE 643 

PAOLA LANARO (ed.), At the Centre of the Old World: Trade and Manufacturing in Venice and the 

Venetian Mainland (1400-1800), Toronto, Centre for Reformation and Renaissance Studies, 

2006, Dollari USA 32. 

At the Centre of the Old World raccoglie e presenta al pubblico anglosassone, ma non solo, 

le più recenti ricerche relative all’economia “veneta” dal basso Medioevo all’età moderna, con 

particolare riguardo ai settori commerciali e manifatturieri. Nell’ampio saggio introduttivo di 

Paola Lanaro, curatrice del volume, vengono ripercorse le principali tappe della storiografia 

economica veneziana degli ultimi cinquant’anni, dagli studi sulle figure del mercante medievale 

alle indagini su Venezia centro industriale e al ruolo dell’agricoltura e dell’espansione 

nell’entroterra. A partire dagli anni ’80, però, la nuova attenzione portata alla Terraferma e 

alle sue realtà urbane andò a compensare un precedente atteggiamento mirante a focalizzare 

l’analisi sulla città Dominante, guardando invece allo stato suddito (che a partire dal XV secolo 

si estendeva dal Cremasco alla Patria del Friuli) come serbatoio di mano d’opera e materie 

prime. Grazie alle nuove domande poste dalla storiografia internazionale, ad un approccio 

interdisciplinare, ma soprattutto alla diversità di fonti utilizzate (in primis gli archivi giudiziari 

e notarili della capitale o delle città suddite), diversi studiosi hanno ampiamente mostrato 

come la Terraferma fosse costituita da un insieme di centri caratterizzati da una vivacità – manifatturiera 

e commerciale – di prim’ordine. Unendosi alle nuove indagini sui diversi settori 

della capitale, queste ricerche hanno così permesso di ampliare il quadro d’insieme offerto in 

precedenza dalle sintesi di Gino Luzzatto e Frederic Lane. 

Mettendo in dubbio l’idea di un declino relativo (ancor più che assoluto) dell’antico 

comune veneciarum e del suo stato regionale, criticando l’idea di una progressiva aristocratizzazione 

del ceto mercantile veneziano, questa nuova letteratura ha sottolineato il ruolo 

e l’autonomia dei «bacini economici» della Terraferma «veneta» (che allora includeva anche 

i centri lombardi di Bergamo e Brescia) e la capacità di tenuta e di rinnovamento di alcuni 

settori della capitale, sollecitando ulteriori ricerche su aspetti chiave, ma ancora sconosciuti, 

quali lo spostamento degli interessi verso i nuovi mercati dell’Europa centrale e orientale o 

l’atteggiamento capitalistico nei confronti della proprietà terriera. 

Il volume si struttura in due parti: la prima è dedicata alla città di Venezia, con tre saggi 

specifici ed una panoramica più generale relativa alle industrie della capitale. La seconda, 

invece, consta di cinque interventi relativi ad alcuni settori manifatturieri della Terraferma 

e ai processi di specializzazione e d’integrazione regionale in alcune aree nel corso dell’età 

moderna. La particolare attenzione mostrata alla dinamica economica e sociale coniuga in 

diverse parti l’interesse per la storia urbana, in relazione soprattutto ai temi dell’espansione 

cittadina, dell’integrazione fra i diversi centri a livello regionale o supra-regionale, e del lavoro 

nelle città, con particolare riferimento all’integrazione o all’esclusione dal processo produttivo 

di fasce minori quali donne e stranieri. 

Venice è la sezione dedicata alla capitale, aperta dal saggio di Andrea Mozzatto sul lanificio 

veneziano fra basso Medioevo ed età moderna (The Production of Woollens in Fifteenth-and 

Sixteenth-Century Venice). Modificando precedenti tesi che vedevano nel ruolo di emporio 

commerciale il principale freno allo sviluppo dell’industria locale, l’autore delinea la fiorente 

produzione di panni-lana sviluppatasi a partire dalla fine del Medioevo, grazie al continuo ricambio 

di forza lavoro e a figure imprenditoriali che favorirono la diffusione di un know how 

tecnico e pratico fra le principali realtà dell’Italia centro-settentrionale. Alcune di queste te-

644 SCHEDE 

matiche sono ancor più approfondite nei due saggi sull’arte della seta fra Sei e Settecento e su 

quella del vetro, ad opera di Marcello Della Valentina (The Silk Industry in Venice: Guilds and 

Labour Relations in the Seventeenth and Eighteenth Centuries) e Francesca Trivellato (Murano 

Glass, Continuity and Transformation, 1400-1800). Gli autori si soffermano infatti su aspetti 

di storia del lavoro urbano, quali il ruolo di donne e forestieri all’interno del processo produttivo 

o dell’attività manifatturiera per l’economia familiare, mostrando una particolare sensibilità 

alla collocazione degli attori nello spazio, senza tralasciare osservazioni sull’architettura 

delle case-bottega o di edifici di più ampie dimensioni (si pensi alle fornaci per la produzione 

del vetro). Una panoramica generale sui diversi settori manifatturieri della capitale è infine 

fornita da Walter Panciera nel suo The Industries of Venice in the Seventeenth and Eighteenth 

Centuries. In un quadro caratterizzato da grande incertezza e repentini cambiamenti, risalta la 

capacità di tenuta dei diversi settori, grazie alla lunga esperienza maturata nel corso dei secoli 

dal ceto mercantile e imprenditoriale della capitale. 

The Venetian Mainland è invece oggetto della seconda parte del volume. Si tratta di un 

territorio assai vasto, che si estende dalle città lombarde di Bergamo e Brescia fino alla cosiddetta 

Patria del Friuli. Le ricerche qui presentate – focalizzate in larga parte sui settori manifatturieri 

– mostrano la vivacità dei centri urbani, ma anche delle aree rurali, nel mantenere 

e sviluppare, fino alla fine dell’antico regime, bacini economici propri, rispondendo in modo 

positivo ai cambiamenti nelle correnti di traffico d’oltremare, creando un solido background 

di competenze tecniche, propensione al rischio e all’innovazione e autonome reti commerciali 

in grado di superare l’ambito locale o regionale. In Wool and Silk. The Textile Urban 

Industry of the Venetian Mainland (15th-17th Centuries), Edoardo Demo affronta ad esempio 

lo sviluppo del lanificio e del setificio fra il Quattrocento e l’inizio del Seicento, mostrando 

l’essor della lavorazione di panni-lana fino alla riconversione verso la lavorazione serica, fatto 

comune a molte altre aree dell’Italia centro-settentrionale; mentre Carlo Marco Belfanti in 

Hosiery Manufacturing in the Venetian Republic (16th-18th Centuries) prende in esame un settore 

ancora poco conosciuto (la maglieria), ma di estrema importanza nelle vicende dell’economia 

veneta, sottolineando l’importanza del lavoro femminile e minorile e la capacità dei 

mercanti-imprenditori nel tessere le fila del putting-out urbano. Il lavoro di Giovanni Favero 

Old and New Ceramics: Manufacturers, Products, and Markets in the Venetian Republic in the 

Seventeenth and Eighteenth Centuries propone un settore fino ad oggi poco noto: la ceramica. 

Dopo la crisi nei principali centri di Padova e Venezia, questa attività si sviluppò attorno a 

centri minori del Vicentino (Bassano, Angarano, Nove), dove diversi mercanti-imprenditori 

diedero vita a numerose fabbriche capaci di imitare alcuni fra i prodotti allora più in voga, 

grazie anche al ruolo svolto dallo Stato nell’incentivare e promuovere quelle attività (che 

riguardarono in un secondo tempo anche la capitale). 

Gli ultimi due saggi sono dedicati ai processi di specializzazione territoriale, analizzati 

rispettivamente da Luca Mocarelli (Manufacturing Activity in Venetian Lombardy: Specialized 

Products and the Formation of a Regional Market, 17th and 18th Centuries) e Francesco 

Vianello (Rural Manufactures and Patterns of Economic Specialization: Cases from the Venetian 

Mainland). L’intento degli autori è di esaminare modi e tempi con cui le strutture produttive 

regionali risposero ai cambiamenti sui mercati, riorganizzando le rispettive produzioni in 

accordo a nuove specializzazioni. È così che, in primo luogo, le aree di Brescia e di Bergamo 

furono integrate sempre più nei réseau produttivi e commerciali gravitanti attorno al centro

SCHEDE 645 

urbano di Milano, mentre nelle aree pedemontane del Veneto si assiste allo sviluppo di manifatture 

rurali in accordo con le caratteristiche dell’agricoltura locale. 

Trasformazioni e innovazione nei settori produttivi e commerciali, grazie a continui transfert 

fra le diverse realtà urbane; processi di specializzazione e creazione di reti cittadine intra 

e supra-regionali; inclusione ed esclusione di gruppi di lavoratori (forestieri, donne, bambini) 

“dentro” e “fuori” la città: questi sono solo alcuni fra i principali temi affrontati da un volume 

di quasi 400 pagine. Il messaggio più immediato, riprendendo le parole di Maurice Aymard 

(autore di un saggio conclusivo di ampio respiro), è che: «Venezia non ha ancora finito di 

affascinare gli storici». 

Andrea Caracausi 

FRANCESCO LUCARELLI - MARCO IULIANO - ALESSIA MIGNOZZI (a cura di), Culture et architecture 

in Italie dans les années Trente. La Triennale, l’E42 et la Modern Heritage List, Napoli, Paparo 

edizioni, 2006, pp. 120, euro 12,00. 

Il libro è pubblicato in occasione del convegno internazionale Architettura urbanistica e 

cultura in Italia tra le due guerre che si è tenuto a Parigi presso l’Istituto Italiano di Cultura il 

19 settembre 2006. L’incontro ha visto la partecipazione dei diplomatici italiani in Francia, 

dello storico Pierre Milza, del direttore del World Heritage Centre Francesco Bandarin, e di 

una delegazione di studiosi napoletani, tra i quali gli autori del libro e Cesare de Seta. Con 

l’appuntamento parigino si è inteso sottolineare il valore di unicità ed eccezionalità di tre siti 

italiani progettati negli anni Trenta del Novecento: la Triennale a Milano, l’E 42 a Roma e la 

Mostra d’Oltremare a Napoli in relazione alla possibile iscrizione nella Modern Heritage List 

dell’Unesco, che da tempo ospita patrimoni di architettura contemporanea (valga, per l’Italia, 

il caso di Crespi d’Adda). 

È interessante la lettura trasversale delle Mostre al tempo del Regime inserite in un ampio 

disegno strategico di trasformazione a scala metropolitana delle grandi città, Roma, Milano e 

Napoli, nell’ambito di un ridisegno del governo del territorio che rimodula il rapporto tra città 

e campagna, creando nuove periferie urbane. Il problema era decongestionare il centro delle 

città, dando un volto coerente alla città moderna che rispondesse anche alle nuove esigenze 

dell’evoluzione industriale e delle classi emergenti, soprattutto quella operaia. Negli anni in 

cui Le Corbusier e l’associazione degli architetti aderenti al CIAM progettano la città moderna, 

caratterizzata da funzioni intersettoriali (lavorare, abitare, circolare, ricrearsi). Si tratta 

di creare ex novo delle periferie attrattive, dei quartieri modello, che, nel disegno tracciato da 

Le Corbusier, rappresentino in scala ridotta il modello centrale; periferie, la cui integrazione 

urbana sia garantita dalla dotazione di attrezzature primarie e secondarie, di collegamenti di 

trasporti metropolitani e nazionali, di presenza istituzionale pubblica, di scuole, ospedali, 

sanità. Quartieri dove possa essere allocata, attraverso l’edilizia residenziale pubblica, la nuova 

classe operaia, prossima alle grandi fabbriche, o dove comunque possa aspirare di allocarsi la 

nuova borghesia di reddito medio. In questo quadro emerge il ruolo che vengono ad assumere 

le Mostre. Quella dell’Eur, ispirata al modello dell’Esposizione Universale di Parigi del 1900; 

le altre, rispettivamente, sulla proiezione di Napoli verso il Mediterraneo coloniale e quella

646 SCHEDE 

di Milano relativa alle arti moderne e contemporanee: entrambe destinate ad esposizione 

triennale. Tutte e tre le mostre hanno il ruolo di svolgere una funzione attrattiva nell’espansione 

urbana che è coeva alla loro realizzazione: il quartiere dell’Eur per Roma, il quartiere 

sperimentale QT8 per Milano, quello operaio di Fuorigrotta per Napoli. 

Si può senza dubbio essere d’accordo con gli autori nel concludere che le grandi esposizioni 

furono occasione di confronto e di sperimentazione della cultura architettonica del 

ventesimo secolo. In Italia personalità di spicco hanno collaborato alla progettazione di opere 

oggi emblematiche per le varianti che il linguaggio e la costruzione moderna hanno assunto 

nel Ventennio: esempi significativi che vanno necessariamente tutelati, per diffondere profonda 

consapevolezza dell’importanza che questo patrimonio moderno riveste nella storia e 

nella cultura del Paese. 

Oltre ai quattro capitoli in cui è diviso il libro, va segnalato il pertinente apparato di 

immagini che lo correda, integrato da puntuali schede di approfondimento sugli archivi fotografici 

opera di Gabriella Musto, Marco Iuliano e Silvia Paoli, direttrice del Civico Archivio 

Fotografico di Milano. 

Leonardo Di Mauro 

GIULIANA MAZZI - GUIDO ZUCCONI (a cura di), Daniele Donghi. I molti aspetti di un ingegnere 

totale, Venezia, Marsilio, 2006, euro 44,00. 

L’ingegnere torinese Daniele Donghi (1861-1938) è stato finora prevalentemente noto 

per il suo farraginoso Manuale dell’architetto, pubblicato a dispense per un quarantennio dalla 

UTET (a partire dal 1896), ma meno come autore di opere architettoniche esemplari o di 

contributi significativi al dibattito teorico dell’epoca. 

Il volume recentemente pubblicato a cura di Giuliana Mazzi e di Guido Zucconi, esito 

del Convegno tenutosi all’Università di Padova nel 2005 e frutto di un finanziamento ministeriale 

biennale che ha permesso lo studio del suo archivio privato e familiare, affronta 

per la prima volta la complessa biografia professionale di Donghi; vicenda che si snoda fra 

il Piemonte e il Veneto a cavallo del XX secolo, proponendo una lettura trasversale della sua 

opera di ingegnere-architetto, in un periodo di transizione in cui i due saperi disciplinari sembrano 

offrire inesplorate opportunità per la costruzione di un nuovo ruolo professionale. 

Come ipotesi interpretativa portante del volume troviamo, da un lato, la complessa biografia 

di Donghi «ingegnere totale» che offre spunti in quanto osservatorio privilegiato su 

un periodo di trasformazione delle pratiche architettoniche e dei saperi collegati, nonché 

dei mezzi di trasmissione degli stessi; mentre, dall’altro lato, i venticinque contributi critici 

intendono verificare questioni storiografiche relative al rapporto fra arti decorative applicate 

all’industria e l’architettura intesa come pratica edilizia influenzata dalla logica implicita dei 

materiali stessi (alla Viollet le Duc). 

I temi sono indagati secondo una scansione suddivisa in nodi cronologici decisivi: il primo 

fra il 1860 e il 1890 e il secondo fra il 1890 e il 1920, il quale corrisponde al periodo di 

attività di Donghi e all’inizio di una epoca di sperimentazione di nuovi materiali e procedimenti 

tecnici, dei quali egli sarà nel panorama italiano uno dei promotori più significativi, un

SCHEDE 647 

vero e proprio pioniere del cemento armato. 

Il suo ruolo è stato indagato in relazione non solo alle diverse mansioni svolte e all’attività 

progettuale (pubblica e privata), ma come attore di un’epoca transitoria nella quale perdura 

ancora un certo dibattito animato dai precetti boitiani sul razionalismo architettonico e sullo 

stile organico. Principi ai quali non sarà insensibile in un primo momento lo stesso pragmatico 

Donghi, legato da amicizia a Camillo Boito (che lo preferì a Giovannoni alla cattedra 

patavina), ma che rapidamente li abbandonerà in favore di approcci di tipo architettonico e 

soluzioni strutturali innovative. 

Infatti il nome di Donghi è legato anche all’attività di agente del sistema Hennebique, la 

cui diffusione nel territorio italiano permette di verificare la genesi di pratiche architettoniche 

messe a punto a partire dai nuovi materiali. In questo settore Donghi compie un tentativo di 

mediazione eclettica fra le questioni di stile, la scansione strutturale e la decorazione esemplificata, 

fino a fare di queste delle cifre ricorrenti in tutte le sue opere (Cavalcavia di Padova, 

Teatro Sociale di Rovigo, etc.). L’impiego del cemento armato sarà determinante nella sua 

opera di progettista. Il suo Manuale, raccolta di esempi pratici di ogni genere e tipo, si propone 

come una vera e propria metodologia pratica di progetto che ne comprende largamente 

il suo utilizzo. 

Gli esordi del Donghi sono legati al fervente clima culturale di fine secolo della città di 

Torino, dove inizia la sua carriera di progettista a fianco del padre Felice e lavora nell’ufficio 

tecnico dal 1884 fino a ricoprire in seguito l’incarico di ingegnere capo, per trasferirsi poi con 

il medesimo ruolo nelle città di Padova (1896) e Venezia (1904). La sua attività pubblica è 

intrecciata con quella di libero professionista, agente per la ditta Porcheddu, concessionaria 

del sistema Hennebique, pubblicista di riviste («Architettura pratica»; «Memorie di un architetto»), 

promotore di strumenti didattici e docente di Architettura Tecnica presso l’ateneo 

patavino. 

Gli incarichi professionali pubblici ricoperti da Donghi costituiscono una cartina di tornasole 

delle trasformazioni che avvengono nel settore degli uffici tecnici municipali sul finire 

del secolo in direzione di una maggiore specializzazione, così come delle pratiche edilizie e 

della progettazione urbana ad essi strettamente connessi: la loro analisi permette di mettere 

a fuoco e verificare alcune vicende costruttive negli ambiti geografici e nei punti nevralgici 

del nord del Paese in cui Donghi si trova ad operare per oltre un trentennio: nel torinese, in 

Veneto in generale e per certi versi anche nel milanese. 

Le sue molteplici attività hanno tutte a che fare con i tentativi di razionalizzazione del 

processo progettuale e costruttivo, soprattutto in termini di potenzialità applicative, ben interpretate 

anche dall’opera del Manuale. Il testo, che deve molto alle impostazioni ottocentesche 

dell’art du bâtir di Jean Rondelet e al modello del recente Baukunde des Architekten, si 

pone soprattutto come esaustivo repertorio di esempi pratici, nel quale le questioni stilistiche 

vengono declinate a favore di una architettura pratica di progetto tutta improntata sui materiali 

da costruzione, sulle tecniche combinatorie e sulle forme archetipe. 

Non si può certo parlare di diffusione di uno stile Donghi attraverso il Manuale o per 

mezzo della sua opera di progettista, quanto piuttosto di una fortuna critica riscontrabile in 

una dimensione prettamente locale, dovuta alla diffusione di pratiche e di costanti architettoniche 

tutte improntate alla decorazione semplificata in relazione all’impiego del cemento 

armato, che si possono rintracciare in numerosi teatri, scuole e cinema. È un nuovo milieu di

648 SCHEDE 

progettisti che opera a livello locale a utilizzare le medesime pratiche donghiane in linea con 

quello che era stato un nuovo profilo professionale. 

Infine, il volume pone una questione su come e quanto le tecniche edilizie innovative del 

cemento armato e del sistema Hennebique abbiano avuto nel settore italiano della costruzione 

reali capacità rifondative per il sistema delle pratiche edilizie. La risposta, che qui ottiene 

risultati parziali e individua linee di ricerca, tuttavia non può che essere demandata all’approfondimento 

e alla verifica di questa ipotesi sulla base di ulteriori studi. 

Tiziana Serena 

RICHARD RODGER - DENIS MENJOT (eds.), Teaching Urban History in Europe. L’enseignement de 

l’histoire urbaine en Europe, Leicester, Centre for Urban History, 2006, pp. euro 12,00. 

Il volume raccoglie gli atti di una sessione all’interno del VII convegno internazionale dell’EUHA, 

tenutosi ad Atene nell’ottobre del 2004 dedicato all’insegnamento della storia urbana 

nei diversi paesi europei, colti in una prospettiva comparativa all’interno di un framework 

d’indagine comune. L’esigenza formativa della disciplina è diventata ormai indispensabile 

all’interno del panorama europeo contemporaneo. In tal senso basterebbe pensare al dibattito 

– in primo luogo politico, ma anche sociale e culturale – che anima network televisivi, community 

web o testate giornalistiche attorno ai molteplici problemi derivanti dalla crescita fuori 

controllo di agglomerati urbani, dall’igiene all’ambiente, dai problemi d’identità all’integrazione 

(o al rifiuto) dei diversi gruppi etnici che popolano metropoli o centri minori. 

Ben 11 sono i contesti nazionali analizzati: Regno Unito (R. Rodger), Paesi bassi (P. 

Koolj), Francia (F. Moret e D. Menjot), Spagna (I. de Val Valdivieso e B. Arizaga Bolumburu), 

Portogallo (A. Agugiar Andrade), Grecia (L. Sapounaki-Dracaki e M. Kotea), Italia (P. Lanaro, 

G. Favero), Ungheria (E. Szívós), Polonia (H. Manikowska, U. Sowina), Svezia (L. Nilsson), 

Germania (H. Reif), mentre due interventi conclusivi si soffermano sulla prospettiva degli 

studenti dei corsi di storia urbana (Claire Townsend) e sul ruolo dei siti web multimediali 

nell’insegnamento e nella ricerca. 

Pur con le normali diversità, tipiche delle comparazioni di ampio respiro, i principali 

punti in comune emersi dall’indagine, come sottolineato dai curatori Richard Rodger e Denis 

Menjot nella loro introduzione, sono i seguenti: lo studio della storia urbana è, nella maggior 

parte dei casi, ancora in embrione; presente in diversi corsi di laurea, è di rado praticata in 

master o scuole di specializzazione. Ad offrire nuove possibilità per lo sviluppo della disciplina 

sono soprattutto le nuove tecnologie (si pensi all’utilizzo di risorse digitali o collaborazioni 

inter-universitarie), ma anche le possibilità di incontro interdisciplinare fra i diversi cultori 

grazie alle strutture e alle società di livello internazionale. 

I saggi raccolti mostrano in primo luogo il leggero avanzamento degli studi di storia 

urbana nel Regno Unito e nei Paesi Bassi, il ruolo svolto da alcuni centri (come il Centre for 

Urban History di Leicester) e la presenza dell’insegnamento di storia urbana in molti MA o 

Ph.D. Meno presente, anche se di prim’ordine, appare la disciplina nelle università francesi, 

in particolare nei corsi di primo livello, mentre si può notare un maggior spazio riservato alla 

ricerca storica nei livelli superiori. Una situazione più difficile è invece riscontrabile in Spagna

SCHEDE 649 

e Portogallo (spesso influenzata dal dibattito in sede politica), mentre si rileva il ruolo positivo 

svolto da programmi di relazioni internazionali per lo sviluppo della disciplina e lo scambio 

di conoscenze nei paesi ex-comunisti (Ungheria e Polonia). L’analisi del caso italiano, operata 

da Paola Lanaro e Giovanni Favero, è basata su di un questionario circolato attraverso l’AISU; 

22 risposte rilevanti sono state analizzate su circa 70 corsi di «Storia urbana» o simili individuati 

tramite una ricerca su web. Nonostante le difficoltà inerenti il campione, la mappatura 

permette di affermare la rilevanza dei corsi presenti a Roma e Torino (ben 8), a Napoli e 

Venezia (6), Milano e Catania (5), e infine a Bologna (4). Le facoltà più presenti sono quelle 

di Architettura (58%) e di Lettere (37%); i docenti sono prevalentemente di prima fascia o 

ricercatori, mentre minore è il numero dei professori associati o a contratto. I corsi di Storia 

urbana figurano all’interno di lauree più ampie, mentre pochi sono i Master o i Dottorati 

(questi ultimi a Roma, Torino, Perugia e Venezia). L’arco cronologico abbracciato dagli studi 

è quello compreso fra età moderna ed età contemporanea, sebbene non manchino riferimenti 

all’età medievale o antica, segno dell’eredità della cultura greco-romana nella nostra penisola. 

Nelle università italiane emerge infine come l’insegnamento di storia urbana si contraddistingua 

per l’oggetto comune, la città, analizzata però da un ampio spettro di differenti approcci, 

condizionati dalle rispettive facoltà in cui è inserita (Architettura, Lettere, Economia, 

Giurisprudenza). In tal senso un ruolo importante appare svolto dall’AISU, soprattutto per 

le possibilità di incontri interdisciplinari offerte ai diversi studiosi. 

Andrea Caracausi 

MONICA VISIOLI, Le piazze maggiori di Cremona in età sforzesca: Platea Maior e Platea Domini 

Capitanei, Cremona, Edizioni Delmiglio, 2005, pp. 182, 36 ill. 

Inserendosi in un filone di ricerche che nel corso dell’ultimo decennio ha prodotto una 

serie studi a carattere analitico e comparativo sulle piazze dei centri urbani insistenti nell’area 

padana (pp. 7-8, n. 2), il libro di Monica Visioli, agile e di piacevole lettura, ricostruisce la 

formazione e la trasformazione delle due piazze centrali di Cremona: la piazza del Duomo 

(già Maggiore) e la piazza del Capitano (oggi Stradivari). Le vicende indagate si snodano su 

un arco cronologico ampio e articolato: una configurazione spaziale a grandi linee già definita 

dall’età tardo medievale (cap. I), si consolida in epoca signorile fino al dominio di Francesco 

Sforza (cap. II), con un’ulteriore fase di riqualificazione sotto Ludovico il Moro (cap. III). 

Trattando della genesi dei due principali invasi di Cremona e della formazione delle 

strutture urbane centrali che ad essi si rapportano, la prima parte del volume si pone come 

imprenscindibile tappa di avvio alle più serrate analisi svolte nei due capitoli principali. Qui 

l’autrice ripropone l’assetto delle funzioni che via via si affollano intorno alla cattedrale e al 

battistero, a dispetto delle perentorie disposizioni d’ordine imposte dagli statuti viscontei. Ma 

è sulla seconda piazza, quella del Capitano o platea parva, forse sorta sul sedime dell’antico 

foro, che l’esercizio di ricostruzione storica si fa più complesso. La puntuale identificazione 

degli edifici che a partire dalla seconda metà del Duecento vi si affacciano (la casa dei 

Mercanti, il palazzo Dovara) risulta fondamentale per comprendere gli sviluppi successivi e la 

portata degli interventi messi in campo in epoca sforzesca.

650 SCHEDE 

Le trasformazioni avviate durante il dominio di Francesco Sforza vengono analizzate nel 

secondo capitolo. Sullo sfondo di complesse e minute operazioni di riordino urbano (l’espulsione 

di funzioni indecorose, la sistemazione delle sedi istituzionali, la costruzione di nuove 

botteghe in pietra a nord del Torrazzo), spiccano due iniziative: la lastricatura completa della 

piazza Maggiore e il progetto di erigere nella stessa un monumento trionfale (1454, mai realizzato) 

per celebrare il principe e la consorte Bianca Maria Visconti. Per quanto connesse tra 

loro, e motivate da esigenze di onore e decoro della città («ad honorem et decus huius civitatis»), 

le due operazioni appaiono guidate da intenzioni divergenti: da un lato la volontà del 

ceto locale di conferire prestigio alla piazza; dall’altro quella del signore di lasciare un segno 

inequivocabile del suo dominio sulla città. 

Al di là dei termini specifici in cui si dispiegò la vicenda dell’arco trionfale, ampiamente 

discussa e illustrata nel volume con riferimento anche al ruolo degli artisti coinvolti (il 

Filarete, discreditato dai deputati del Consiglio, l’ingegnere ducale Giovanni da Lodi), e alle 

resistenze latenti ed esplicite manifestate dal ceto locale, dall’analisi emerge un dato significativo: 

le iniziative di riordino e magnificenza pensate per la piazza maggiore sono coordinate 

alle operazioni di ampliamento e riorganizzazione contestualmente avviate nell’altra piazza. 

Grazie al supporto di una documentazione inedita legata alle vicende degli assetti proprietari 

(esemplare il caso del palazzo fatto erigere da Giovanni da Tolentino), l’autrice mette 

insieme i diversi tasselli dell’opera di ridisegno urbano impostata nella piazza del Capitano 

durante il governo di Francesco Sforza. Quest’ultimo, per altro, sembra essere personalmente 

coinvolto nella definizione formale dell’opera, che passa attraverso la demolizione 

di alcuni edifici. 

Ma sarà Ludovico il Moro, che ben conosceva la città, a riprendere gli interventi incentrati 

sulla riqualificazione delle due piazze, nell’ambito di un complessivo programma di 

rinnovamento e riordino urbano dei centri dello stato: un programma in gran parte condiviso 

con il Consiglio cittadino, come attesta il fitto scambio epistolare con il duca nel biennio 

1496-98. Due sono le operazioni degne di nota: l’urbanizzazione dell’area detta del Prato del 

Vescovo e il rifacimento della facciata della cattedrale, dove, a distanza di quarant’anni, torna 

il tema delle effigi di Francesco e Bianca Maria. Questa volta, esse faranno la loro comparsa 

per poco più di un anno, per essere poi smontate nel 1499 con l’arrivo dei Veneziani. Matura 

in tale contesto la decisione di sostituire il portico ligneo della cattedrale con una struttura 

in pietra, impostata su colonne reggenti archi a pieno sesto: poco gradita al Moro, che forse 

vi scorgeva un impedimento alla sistemazione delle statue dei predecessori, l’opera trovò 

tuttavia l’approvazione di Ercole d’Este, a Cremona nel 1492. Di nuovo, sottolinea l’autrice, 

a distanza di quasi cinquant’anni dal progetto per l’arco trionfale, le operazioni cremonesi 

riflettono quanto attuato in precedenza a Ferrara: nella fattispecie, la ricostruzione in muratura 

e colonne lapidee della loggia degli strazaroli, lungo il fianco meridionale della cattedrale 

della città estense. 

Se, dunque, al centro del libro è posto il Quattrocento, in quanto epoca fondamentale 

per la strutturazione dell’assetto urbano di Cremona, Visioli coglie da un lato le inerzie e le 

resistenze opposte ai progetti trasformativi voluti dal potere signorile, dall’altra il riaffiorare 

sul lungo periodo di quegli stessi disegni di riassetto, fino alle soglie del Cinquecento. L’uso 

sistematico di fonti archivistiche, esaminate nella loro serialità (la corrispondenza tra il duca 

di Milano, i suoi ufficiali a Cremona e i rappresentanti della comunità), consente a Monica

SCHEDE 651 

Visioli di ricostruire processi decisionali analizzati nel loro divenire. Il che, in definitiva, ci 

restituisce un’immagine dinamica di questi spazi, dapprima con una pluralità di funzioni, 

quindi frantumati e divisi in aree specializzate: una visione quanto mai lontana dalle rappresentazioni 

astratte, sul genere di quella contenuta nella tarsia lignea di Giovan Maria Platina, 

che campeggia in copertina. 

Nel corso del Quattrocento, dunque, la platea maior da grande invaso polifunzionale 

diventa spazio di rappresentanza, mentre viene definito un nuovo polo urbano, la piazza del 

Capitano: luogo di aggregazione di funzioni commerciali, ma anche sede di tornei, giostre 

e feste. L’inedita ricostruzione delle vicende relative a questa seconda piazza, condotta dall’autrice, 

mette in luce il ruolo importante di Francesco Sforza, senza tuttavia enfatizzarne la 

portata. Uno degli aspetti più interessanti di questa ricerca sta a nostro parere nel tentativo 

di scalzare una persistente lettura principe-centrica, rivalutando il rapporto dialogico che si 

instaura tra i diversi attori, tra le forze di volta in volta solidali o antagoniste: il signore, i 

suoi rappresentanti in loco e la comunità. Emergono così una serie di figure di mediazione, 

come i commissari ducali inviati a Cremona, il cui ruolo nella configurazione del nuovo 

invaso è di assoluta preminenza, per quanto fino ad ora sottovalutato. Attori che esportano 

conoscenze, come il commissario ducale Francesco Visconti, uomo colto e probabile tramite 

con la corte ferrarese. 

Sotto questo punto di vista, risulta di estremo interesse la lettura del carteggio sforzesco 

opportunamente riportato nell’ampia appendice, che ospita, in ordine cronologico, la trascrizione 

di sessanta documenti, alcuni già noti, altri parzialmente conosciuti e qui editi in 

forma completa, altri infine inediti. A fronte della frammentarietà delle fonti documentarie 

locali (le delibere del Consiglio generale della città), essi ci restituiscono un quadro esaustivo 

degli interventi che hanno riconfigurato le due piazze nel corso del Quattrocento. Ma l’autrice 

interroga con grande padronanza di metodo fonti di tipologia e provenienza diversa, già 

disponibili o di nuova acquisizione: cronache, atti giudiziari (come il processo per l’eredità di 

Giovanni da Tolentino), mappe (la pianta di Antonio Campi del 1583, sulla quale si sforza 

continuamente di localizzare gli edifici e gli spazi in esame), incisioni e tarsie. Nuove interpretazioni 

sono infine derivate da una rilettura puntuale e innovativa di tutta la bibliografia 

disponibile, e non solo di quella relativa alla storiografia artistica. 

Molte sono le indicazioni di metodo e di ricerca che da questo volume si possono trarre: per 

esempio la necessità di distaccarsi da una consolidata tradizione storiografica locale per aprire 

al confronto con altri casi. E sulla base di questi presupposti, non stupiscono le strette relazioni 

esistenti con la corte estense, che, soprattutto intorno alla metà del Quattrocento, rappresenta 

per la Cremona sforzesca «un importante modello artistico-culturale di riferimento»; oppure, 

l’esistenza di un «modello dinastico» d’intervento sulle aree centrali urbane, che l’autrice identifica 

tanto nell’apertura della piazza grande di Pavia, voluta da Galeazzo II Visconti, quanto 

nella successiva ridefizione formale e funzionale della piazza del Capitano di Cremona. Forme 

di mediazione e di circolazione dei saperi e dei modelli lontane da schemi interpretativi ormai 

desueti, basati su un rapporto gerarchico tra centro (Milano) e periferia (Cremona). 

Elena Svalduz

652 SCHEDE 

FABRIZIO VISTOLI (a cura di), Emergenze storico-archeologiche di un settore del suburbio di Roma: 

la Tenuta dell’Acqua Traversa. Atti della Giornata di Studio (Roma, 7 giugno 2003), Roma, 

Comune di Roma-XX° Municipio, 2005, pp. 354, ill. 

Richiamare l’attenzione su un settore della periferia capitolina poco conosciuto, ma denso 

di storia e di presenze archeologiche, architettoniche e naturalistiche: è questo l’obiettivo del 

volume Emergenze storico-archeologiche di un settore del suburbio di Roma: la Tenuta dell’Acqua 

Traversa, che contiene gli atti della giornata di studio svoltasi nel giugno del 2003 presso la 

Fondazione-Museo Venanzo Crocetti, con il patrocinio dal Municipio Roma XX. 

L’iniziativa, come sottolineato nella prefazione, costituisce un pregevole esempio di collaborazione 

fra organi ministeriali e istituzioni cittadine, rivolta alla conoscenza di un ricco 

territorio, premessa necessaria e fondamentale per la tutela del suo patrimonio. 

Il saggio introduttivo di Fabrizio Vistoli, curatore e promotore della ricerca, ci accompagna 

lungo un itinerario che inizia nel cuore di Roma, nella basilica di S. Lorenzo in Lucina 

in Campo Marzio, ed illustra le vicende del «locum qui dicitur aqua trans versa» attraverso i 

secoli. In queste pagine iniziali, esempio di come un’accurata divulgazione scientifica possa 

essere anche un’avvincente lettura, sono descritti i luoghi dell’area a nord di Roma, depositari 

di storia e patrimonio archeologico; si affrontano sottili questioni topografiche, si ricostruisce, 

attraverso la lettura delle fonti più disparate, l’origine del nome «Acqua Traversa» con 

una grande attenzione per la componente naturale: il fosso omonimo che segna e disegna 

questa parte di territorio, antico confine naturale fra etruschi e romani, e il bosco sacro alla 

dea Robigo, al V miglio della via Clodia, dedicato alla misteriosa divinità pericolosa per i 

raccolti, cui Alessandro Locchi dedica il suo contributo, delineandone il profilo tramite un 

approfondito esame delle fonti letterarie antiche. 

Di seguito Gaetano Messineo presenta i risultati di recenti scavi presso la collina Fleming, 

vicino a Ponte Milvio, in cui ha proposto la localizzazione degli antichi Horti del poeta 

Ovidio, dimostrando come già nell’antichità vi fosse una forte predisposizione in questi luoghi 

per l’otium, vocazione in realtà conservata fino al ’900, quando da luogo ameno, a causa 

dell’edificazione selvaggia degli anni ’60, il paesaggio bucolico si è trasformato in quartiere 

residenziale intensivo, a scapito del verde e delle preesistenze archeologiche, spesso obliterate 

o distrutte a favore del cemento. 

Emanuela Caserta descrive gli scavi effettuati nel 1987 per intercettare in questa zona 

il tracciato dell’antica via Cassia, che non coincide con quella moderna, e per riconoscere 

alcune strutture adiacenti descritte in una pubblicazione del 1925 – apprestamenti funerari 

e altre testimonianze materiali – da cui si ricava l’indicazione in negativo di questo tratto di 

consolare. 

G. Messineo descrive, in un altro saggio, la sontuosa villa dell’imperatore Lucio Vero, di 

cui Matilde Carrara fornisce un’attenta biografia. Realizzata nel II sec. d.C. presso il V miglio 

della via Clodia e già famosa in antico per il lusso con cui era ‘arredata’, la dimora si caratterizzava 

per la splendida decorazione vitrea delle sue architetture; decorazione smembrata 

nei secoli e confluita, attraverso i canali del mercato antiquario, nella collezione del tenore 

Evan Gorga, descritta e studiata da Lucia Saguì, assieme ad un gruppo di giovani ricercatori. 

Anche il contributo di Riccardo Capriata è dedicato alle decorazioni della villa di Lucio Vero, 

con un’attenta analisi della lavorazione delle lastre, delle forme e dei colori, delle tipologie di

SCHEDE 653 

vetri; troviamo anche indagini statistiche operate sulla quantità e qualità dei pezzi rinvenuti e 

descrizioni sulle modalità di impiego e sulle tecniche di lavorazione. 

Il volume si chiude con una proposta di musealizzazione del parco di Aquatraversa e di 

Villa Manzoni da parte di Valentina Mastrodonato, che descrive anche la storia degli scavi a 

scopo antiquario della famiglia Borghese, antica proprietaria della Tenuta. Il progetto è finalizzato 

alla creazione di un percorso naturalistico, che enfatizzi l’ambiente naturale circostante, 

e alla valorizzazione della complessa storia del sito, delle persistenze archeologiche e della 

Villa Manzoni, costruita dall’architetto Brasini sopra la dimora imperiale. 

Beatrice Mirri, infine, descrive gli strumenti legislativi attraverso i quali tutelare un bene 

già sottoposto a tre vincoli di diversa natura, enumerando le varie opportunità che si sono 

perdute per salvare la Villa e l’ambiente limitrofo, ma lasciando aperto un inquietante punto 

interrogativo sul perché non sia stato fatto assolutamente nulla per tentare di salvare un contesto 

così prezioso. 

È sicuramente affascinante la storia di Villa Manzoni, di cui l’atlante fotografico a fine 

volume offre una preziosa documentazione per lo studio del paesaggio storico; è ancora da 

indagare, tuttavia, il motivo della scelta meditata di insediarsi sulla villa imperiale, frutto del 

rapporto fra il conte Gaetano Manzoni, singolare personaggio di diplomatico ed ambasciatore 

d’epoca fascista, e l’architetto Armando Brasini, entrambi certamente consapevoli delle 

strutture esistenti, ma non abbastanza da risparmiarle. 

Rossana Nicolò

Abstracts 

M.B. BETTAZZI, City Frescos: Researches for a Catalog Raisonné 

The aim of the present study is to locate and analyze pictorial cycles in which the urban 

scene is the main subject. These are often situated in buildings that were the seat of an 

authority, be it religious, political or family. In creating a detailed mapping of the “city 

frescoes” phenomena, the anthropological aspect is also studied: while itself a meaningful 

gesture due to the complex underlying factors, the reproduction of a space perceived as 

significant on a lasting support reveals the “sentiment” towards space, a central issue. The 

aspects that must be taken into account are numerous: how the images were constructed, the 

client and the artist’s specific contributions, the cultural context and how such messages came 

across. All this implies a multidisciplinary approach to urban history, in which the history of 

urban representation becomes a privileged observatory. 

M. NAKAHASHI, Japanese Urban Iconography in the Rakuchu-rakugaizu of the Early XVI th century 

The first urban iconography in Japan is a series of paintings of Kyoto. They are, what we 

call, rakuchu raku-gaizu. Rakuchu rakugaizu were drawn from the middle of the sixteenth 

century until the beginning of the nineteenth century. The style of representation differs from 

those of the European urban iconographies from various points of view. The city is divided in 

two parts in order to represent it on two folding screens, and depicts the customs and culture 

of the time as well as the urban structure. The characteristic expression of rakuchu rakugaizu 

has its origin in medieval iconographies such yamato-e, mandara and emaki. The purpose of 

this paper is to examine how this new capital and its urban structure is represented in rakuchu 

rakugaizu, using technical and conceptional influences from former Japanese iconography. 

L. NUTI, The Cities of Palazzo Vecchio in Florence 

The essay analyzes the views of cities as they appear in the cycle of frescos in Palazzo 

Vecchio in Florence after its restoration ordered by Cosimo I de Medici in 1555. These 

murals comprise two very distinct cycles. The first is in the rooms of the ducal apartments 

and the great hall where the audiences were held. In these frescos Cosimo wished to depict 

the undertakings of the Medici dynasty and the history of the battles in Tuscan territory that 

had led to the domain’s conquest. The second cycle is located in the first courtyard which 

underwent restoration for the wedding of his son Francesco I with Johanna of Austria. For 

this reason, in addition to those images relating to the Medicean hagiography, there are 

others depicting cities of the Habsburg Empire. The frescos in both cycles were original, 

commissioned expressly for the occasion. Precise instructions were given to the Italian and 

foreign draughtsmen who were sent to specific locations and whose renditions were then 

incorporated in the frescos by Vasari’s collaborators.

ABSTRACTS 655 

B. GAUTHIEZ, The history of urban mapping in XVI-XVIII th centuries, Appearance and 

development of the representation modes 

Town maps were produced between 1500 and 1750 according to a varied solutions, 

corresponding to different purposes. The archaic urban cartography, dominated by symbolic 

representation, is progressively replaced in the 16 th century by representations of a continue 

and objectivated space using triangulation invented in the late 15 th century. Numerous 

precise geometral plans were produced by the military engineers. In civil contexts, the desire 

of images more similar to the perceived reality leads to axonometric drawings showing cities 

in volume on the basis of geometral plans. This technique requires a huge work of measuring 

in the field and so was later abandoned. The worth of geometrical maps for technical uses was 

slowly recognised outside the military domain. Triangulated cadastral plans become frequent 

in urban context in the 18 th century. The utilisation of precise plans for building licences and 

urban transformations develops only from the mid-18 th century. The historiographical view 

that sees the generalization of geometral mapping only in 18 th century has to be questioned, 

as it is already widespread from the early 16 th century. Axonometric maps, the summit of 

urban mapping during the Modern period, have long been neglected as misinterpreted. 

H. JINNAI, Cadastre in Japanese Urban History 

Graphic representation of both city and local spatial structure was already present in 

medieval Japan. During the Edo period (1603-1867), maps and plans of various types 

were made for the diverse administrative needs of the han (feudal clan). Among these, is 

the dempata-ezu (dempata = agricultural land), cadastral map. These were created by the 

authorities in order to have access to the most important data concerning cultivated land: its 

typology, area and productivity. In the first half of the eighteenth century, the bakufu ordered 

the creation of maps called koken-ezu in order to manage and control the zone of Edo (the 

previous name of Tokyo). The koken-ezu contained extremely detailed information about 

the local society (properties, administrations, land prices, etc.) as well as about the public 

infrastructure (canopies, sewers, aqueducts, roads, canals, etc.). The koken-ezu demonstrates 

that the individual districts in the city were well managed thanks to a certain autonomy 

granted by the feudal regime. This cadastre of Edo was a truly indispensable document for 

every phase of the city’s social and administrative life. 

P. MILTENOV, Representations of St. Petersburg in the Cartography of the Russian National Library 

(1714-1839) 

Interesting depictions of the “Capital of the North” from the early years of its foundation 

by Peter the Great in 1703 are housed in the Russian National Library. A careful study of these 

representations, extremely stimulating for their historic and iconographic content, has made it 

possible to furnish a detailed contribution to the vast cartographic repertory by different generations 

of European artists. These graphic renditions also provide a basis for the understanding of the 

exceptionality of both St. Petersburg’s urban plan and of those individual buildings depicted. 

A detailed study of seven watercolor painted lithographs by I. Agafonov portraying the city in 

significant phases of its development – during the reigns of the czar Peter the Great, Anna Ivanovna, 

Catherine II, Alexander I and Nicholas I – has made it possible to outline the framework of the 

urban development of this absolutist court between the eighteenth and nineteenth century.

656 ABSTRACTS 

C. CAMARERO BULLÓN, The Cadastre of Ensenada, a Source for the Study of the Cities of the 

Crown of Castile at the Middle of the Eighteenth Century 

Between 1750 and 1757 a major census was carried out in the Spanish territories of 

the Crown of Castile. Known as the Catastro di Ensenada, it had been promoted by the 

then Minister of Treasury, Zenón de Somodevilla, 1 st Marquis of Ensenada, and included 

people, properties, revenues and debts. It is a cadastre based on text, not cartography. When 

dealing with a city it provides its location, a description, the measurements, the revenue 

values and the names of the owners of all the buildings (homes, shops, bakeries, warehouses, 

municipal buildings etc.) and also lists filial relationships, social class, economic activity and 

civil status of the population members. Such a vast amount of information makes it possible 

to reconstruct with adequate detail the level and socio-economic structure of the population 

of the Castilian towns and villages. 

K. LELO-C.M. TRAVAGLINI, From the «Nuova Pianta» of Nolli to the Pius-Gregorian Urban 

Cadastre: The Image of Rome in the Days of the Grand Tour 

This essay presents an analysis of Rome’s territory in the one hundred and fifty years leading 

to the breach of Porta Pia by utilizing the period’s two most significant cartographic sources: 

the Nuova Pianta di Roma by Gian Battista Nolli, published an 1748 and the Pius-Gregorian 

cadastre, compiled between 1818 and 1824. Although initially drafted for different purposes 

these cartographies are strongly linked and share the need for exact metric measurements. The 

results presented in this study are an integral part of an ongoing project, promoted by CROMA, 

for the creation of an atlas of Modern and Contemporary Rome (Atlante di Roma). Its aim is to 

reconstruct the evolution of the city’s historical environment by combining historical research 

and geographic information systems (GIS), thanks to multidisciplinary diachronic analyses 

made possible by the digitization of historical cartographic and thematic sources. 

A. COGNÉ, The Cadastre of Lombardy (1758): a Source for Urban History. The Production of a 

Geographical Data System for the City of Milan 

The eighteenth century cadastre of Lombardy, the Catasto Teresiano, is a particularly 

interesting source for the study of cities, to which it dedicates a special treatment. The 

modernity of the guidelines which inspired it (such as taxation of goods as against personal 

taxation or the descriptive registers associated to the geometric parcels’ maps), the rigor of 

the procedures (census and property calculations produced by appraisers working on preestablished 

norms and not on the owners’ statements) all contribute towards making it an 

ideal source for the production of a geographical data system. As it is possible to locate 

the properties exactly, to measure the areas and work on different scales, we now have new 

options to investigate Milan in the eighteenth century. Also the cadastre’s greatest limitation, 

that of presenting a somewhat static description, can be overcome with the use of other 

sources (changes of ownership documents, building permits etc.) that can help disclose the 

multiple aspects of urban transformation. 

D. ULIVIERI, Historical Versilia, the Iconography of its Centers in the Stradari Leopoldini 

By the end of the eighteenth century grand duke Peter Leopold’s reform had strongly 

influenced the communications’ network in the territories of Seravezza and Pietrasanta. In

ABSTRACTS 657 

1769 this reform had replaced the myriad entities dealing with roads with a single institution, 

the Camera delle Comunità; furthermore the Regolamento Generale obligated each basic territorial 

unit to care for road maintenance. The network of roads had to be described in a “Campione 

di tutte le strade comunitative esistenti” (a representation of all the community’s existing roads); 

new maps were to become a starting point for any future territorial instance. Some of the 

larger townships, like those of Pietrasanta and Seravezza effectively produced detailed mapping, 

carefully surveying the roads’ layout and any other territorial phenomena. 

A. BUCCARO, The Cadastral System in the Italian States and the Case of Southern Italy from the 

Bourbons to the Unification 

After a presentation of the cadastral systems in use in the principal states of the peninsula 

from the early eighteenth century, the present study focuses on the Reign of Naples. The capital 

in particular, from the beginning of the Modern Age to the arrival of Joseph Napoleon, had 

been privileged from a fiscal standpoint; with the arrival of the French direct taxation was 

reformed and a temporary cadastre created in each town, including the capital, to be followed 

by property surveying. While the latter was never carried out, beginning in 1814 the stati delle 

sezioni (borough registers) were compiled. With the Unification property taxation throughout 

the Reign of Italy became uniform and surveying of the main urban centers was carried out 

in those provinces lacking geometric cadastres. The institution of a new, nationally uniform 

Nuovo Catasto Terreni based on geometric parcels was contained in the March 1, 1886 law on 

property regularization. For many cities of southern Italy cadastral mapping constituted the 

very first instance of complete representation of their territory. It thus became a precious means 

for drawing perimeters of historical towns and investigating urban history. 

M. IULIANO, Cadastral Maps of the Province of Naples in the Nineteenth Century 

The difficulties encountered in adopting the oncaiario cadastre (1741) in the province of 

Naples resulted in the creation of a new form of taxation managed by the Sovrintendenza della 

Decima (tax agency), founded by the Bourbons in 1796. Recent cartographic acquisitions 

have made it possible to consider the Decima as the first cadastre with graphic representations. 

A more precise cartographic survey of the province’s cities was conducted after the Unification 

of Italy. Specifically, in 1873, the Ministry of Finance arranged for the geometric survey of 

towns with more than 6,000 inhabitants. In 1874 work was begun on further surveys. The 

documents are presently kept in the Ministry of Finance’s Territorial Agency: the maps made 

at that time are of enormous interest as documents as well as a means of territorial analysis, 

knowledge and planning. 

M.C. MIGLIACCIO, Medieval City Fragments in the Unpublished Cadastral Cartography of Aversa 

from 1876 

Aversa’s first cadastral map was produced upon the Unification of Italy, when a new law 

required the formation of buildings’ cadastres: the office of the Direzione del Censo of 

Rome arranged for the survey of parcels of those towns with more than 6,000 inhabitants 

within the southern provinces. Responsible for the surveying campaign was the engineer 

Luigi Mazzoni, also manager of operations for the Nuovo Catasto Urbano of Naples. The 

surveying of the center of Aversa was completed in about six months (5 August 1875 – 29

658 ABSTRACTS 

February 1876) thanks to the work of the engineers Enrico Regali and Salvatore Sebregondi, 

employees of the Ufficio Tecnico di Finanza. Later on, in April 1876, the draughtsman 

Gaetano Marschitzeh copied the cadastral map in conformity with the original. The cadastral 

map is a useful tool to understand the actual relevance of the transformations undergone by 

the city starting in 1876. 

P. PINON, The Antique Cadastral Maps of Istanbul 

Cadastral maps, in the strictest sense, appear in Turkey only after the second half of the 

twentieth century. However, for several cities of the Ottoman Empire (Istanbul, Bursa, Izmir) 

plans from the nineteenth century with characteristics similar to those of cadastral maps do 

exist and were produced following catastrophic events (fires, earthquakes). In the case of 

Istanbul, the oldest parcel maps date from the middle of the nineteenth century and had been 

drawn up – for sections of the city – following fires. In fact, from this period, after the fire in 

a district, the reconstruction process was no longer intended merely as the rebuilding of the 

preexistent urban fabric. The land was expropriated by the state and, after the elaboration 

of a new urban plan, it was redistributed among the original proprietors. At the beginning 

of the twentieth century, another type of map appeared: the insurance cadastral maps. In 

anticipation of possible fires, as to insure buildings and establish insurance premiums, these 

documents compiled useful information, including the surface of the various units and their 

usages. These different cadastres, be they antecedent or subsequent to the fires, provide us 

with images of a city nowadays almost completely disappeared. 

M. FRATI, Definition and Protection of the Urban Environment in the Construction of Medieval 

Towns, Between Public and Private Property 

By illustrating some known cases, this essay discusses whether the urban environment was 

perceived in the Middle Ages as a form of cultural patrimony, combining public and private. 

The two criteria of aesthetic evaluation of the built environment taken into consideration 

are beauty and utility: from them stems the necessity to protect urban spaces, hence lawmaking 

and enforcement efforts to this end. Four categories of actors were behind the 

construction of a mental imagery of the Medieval urban landscape: travelers, philosophers 

and theologians, chronicle writers and members of the institutions. From travelers came an 

intuitive acknowledgement of the quality of urban life by means of geographic literature and 

chronicles; philosophers and theologians provided instead the theoretical background for the 

concept of beauty. Annal and chronicle writers narrated the history of cities by exalting those 

values typical of townships and by expressing the views of the dominant groups. Lastly, those 

in the institutions enforced the norms contained in the towns’ statutes (especially in central 

and northern Italy between the twelfth and fourteenth century) and defined the aspect of 

cities thus laying the foundation for their protection. 

B. MARIN, Uses and Management of Public Spaces in Naples in the Eighteenth Century 

The present essay’s aim is to illustrate the administrative aspects concerning the 

management of public soil in Naples in the Modern Age. To do so, it analyzes the 

documentation produced by the main city institutions entrusted with urban maintenance at 

the time (such as the Tribunale della Fortificazione and the Portolano). Some of the instances

ABSTRACTS 659 

taken into consideration help understand how private citizens could appropriate alleys, streets 

or even squares, both illegally or with the necessary permits, as well as the reasons behind their 

actions. A special focus is put on the conflicts that such appropriations generated between 

different citizens’ groups. Private uses of public soil or public uses of private properties both 

were aspects of a complex urban reality, a stage for conflicts over soil usage rights, social 

practices and space consumption. 

S. PALLECCHI, The Palimpsest of a Medieval City. Methods and Problems of Urban Archeology 

in Siena 

Until the 1970s, the available information concerning Siena’s origins was considered 

insufficient to attempt a reconstruction of the organization of the urban fabric during its first 

phases of development. Work carried out in the city’s historic center during the last decades, 

particularly some excavations by the Department of Archeology of the University of Siena 

in the area of the former hospital Santa Maria della Scala, have provided new data making it 

possible to formulate hypotheses, not only about the extent and form of the original inhabited 

nucleus, but also about its internal organization. 

a cua di Susan Spafford

Annali di storia dell’impresa 15-16/2004-2005, 

Venezia, Marsilio, 2005, pp. 652, s.i.p. 

C. BARUCCI, Virginio Vespignani, architetto tra 

Stato Pontificio e Regno d’Italia, Roma, Argos, 

2006, pp. 382, euro 75,00. 

City museum as centres of civic dialogue? Amsterdam, 

Amsterdam Historical Museum, 2006, pp. 216, 

s.i.p. 

Culture et architecture en Italie dans les années 

Trente, a cura di F. Lucarelli, M. Iuliano e A. 

Mignozzi, Napoli, Paparo edizioni, 2006, pp. 

103, s.i.p. 

Dalla corporazione al mutuo soccorso, a cura di P. 

Massa-A. Moioli, Milano, FrancoAngeli, 2004, 

pp. 764, euro 45,00. 

D. FELISINI, «Quel capitalista per ricchezza principalissimo», 

Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004, 

pp. 275, euro 12,00. 

S. FICACCI, Tor Pignattara, Fascismo e Resistenza 

di un quartiere romano, Milano, FrancoAngeli, 

2007, pp. 152, euro 18,00. 

R. FUNICIELLO-G. HEIKEN-D. DE RITA-M. 

PAROTTO, I sette colli. Guida geologica a una Roma 

mai vista, Milano, Cortina, 2006, pp. 328, euro 

24,00. 

M. FURNARI-S. BERNARDI-M. FERRETTI-C. PAGANI, 

La Fabbrica del Gas all’Ostiense, Roma, Gangemi, 

2006, pp. 220, s.i.p. 

Pubblicazioni pervenute 

B. GRUET, La rue à Rome, miroir de la ville, Parigi, 

Pups, 2006, pp. 557, euro 65,00. 

Guerra e resistenza politica, storie di donne, a cura 

di D. Gagliani, Reggio Emilia, Aliberti, 2006, pp. 

363, euro 19,00. 

I saperi della città, Atti del colloquio internazionale 

di storia urbana, a cura di E. Iachello, Palermo, 

L’Epos, 2006, pp. 2006, euro 48,30. 

Iconografia delle città in Campania. Napoli e i centri 

della provincia, a cura di C. De Seta-A. Buccaro, 

Napoli, Electa, 2006, pp. 415, euro 60,00. 

L’architettura romana, L. Canina, a cura di J. 

García-Gutiérrez Mosteiro, Madrid, Intituto Juan 

de Herrera, 2006, pp. 24, s.i.p. 

La palude di Torre Flavia, a cura di C. Battisti, 

Roma, Gangemi, 2006, pp. 493, s.i.p. 

La polpa e l’osso, a cura di M. Gorgoni, Napoli, 

L’ancora del Mediterraneo, 2005, pp. 333, euro 

18,00. 

La storia come esperienza umana. Gaetano Cozzi: 

sei conversazioni, una lezione inedita, la bibliografia, 

a cura di M. Folin-A. Zannini, Treviso, 

Edizioni Fondazione Benetton Studi Ricerche/ 

Canova, 2006, pp. 170, euro 15,00. 

Le collezioni dell’Aereofototeca Nazionale per la 

conoscenza del territorio, a cura di G. Ceraudo, 

Frosinone, Editrice Frusinate, 2006, pp. 119, 

s.i.p.

L’industria chimica italiana nel novecento, a cura 

di G.J. Pizzorni, Milano FrancoAngeli, 2006, pp. 

277, euro 20,00. 

L’industria dell’ospitalità a Roma, secoli XIX-XX, a 

cura di A.M. Girelli Bocci, Padova, Cedam, 2006, 

pp. 577, euro 47,00. 

G. MAIFREDA, La disciplina del lavoro, Milano, 

Mondadori, 2007, pp. 345, euro 27,00. 

U. MARIOTTI BIANCHI, Ottocento romano minore, 

Roma, edilizio, 2006, pp. 185, euro 18,00. 

«Mélanges de l’École française de Rome», tome 

117-2-2005, Roma, l’École française de Rome, 

2006, pp. 445, s.i.p. 

Mosaico statistico. I municipi romani, n. 2/2006, 

Roma, Comune di Roma, 2006, pp. 240, s.i.p. 

D. PALOMBI, Rodolfo Lanciani, l’archeologia a 

Roma tra Ottocento e Novecento, Roma, «L’Erma» 

di Bretschneider, 2006, pp. 356, s.i.p. 

D. PANZIERI, Valle dell’inferno, valle Aurelia, antifascismo 

e resistenza, Roma, Associazione Le 

Fornaci, 2005, pp. 119, s.i.p. 

Piacenza in età moderna e contemporanea, a cura 

di A. Carrera, Milano, Vita e Pensiero, 2004, pp. 

325, euro 27,00. 

Piano di assetto per l’attuazione del progetto urbano 

Ostiense-Marconi, a cura di M. Canciani, Roma, 

Kappa, 2004, pp. 316, s.i.p. 

«Proposte e ricerche», n. 57, Ancona, Libreria 

editrice Sapere Nuovo, 2006, pp. 265, s.i.p. 

I. PUGLIA, I Piccolomini d’Aragona duchi di Amalfi, 

1461-1610, Napoli, Editoriale scientifica, 2005, 

pp. 262, euro 25,00. 

PUBBLICAZIONI PERVENUTE 661 

Relazione annuale sullo stato dei servizi pubblici locali 

e sull’attività svolta, Roma, Comune di Roma- 

Agenzia per il controllo e la qualità dei servizi 

pubblici locali, 2006, pp. 253, s.i.p. 

«Rivista della Società pesarese di Studi storici», n. 

21, Pesaro e Urbino, Società pesarese di Studi storici, 

2005, pp. 175, s.i.p. 

G. RIVOLTA, I ribelli di Testaccio, Ostiense e 

Garbatella dal biennio rosso alla liberazione, Roma, 

edizioni Cara Garbatella, 2006, pp. 112, s.i.p. 

R. ROSSI, La lana nel Regno di Napoli nel XVII 

secolo, Torino, Giappichelli, 2007, pp. 301, euro 

35,00. 

M. SINATRA, La Garbatella a Roma 1920-1940, 

Milano, FrancoAngeli, 2006, pp. 159, euro 

18,00. 

Sistole/Diastole, a cura di M. Folin, Venezia, 

Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, 2006, 

pp. 490, euro 54,00. 

Storia e ambiente. Città, risorse e territori nell’Italia 

contemporanea, a cura di G. Corona-S. Neri 

Serneri, Roma, Carocci editori, 2007, pp. 239, 

euro 22,50. 

T. SYRJÄMAA, Constructing Unity, Living in 

Diversity, Helsinki, Finnish Academy of Science 

and Letters, 2006, pp. 272, s.i.p. 

M. TACCOLINI, La costruzione di un’Europa del lavoro, 

Milano, FrancoAngeli, 2006, pp. 218, euro 

19,00. 

Tra futurismo e visual design. Attilio Calzavara e 

il progetto grafico di opere pubbliche 1922-1932, 

Reggio Calabria, iiriti editore, 2005, pp. 219, 

euro 45,00.

cura di M.F. Boemi e C.M. Travaglini 

SOMMARIO 

Prefazioni, Gianni Borgna, Guido Fabiani, Maria Rita Sanzi Di 

Mino 

Carlo M. Travaglini, Lo sguardo sulla città. Note sulle trasformazioni 

della Capitale tra Otto e Novecento 

Maria Filomena Boemi, Sopra Roma 

Riccardo Santangeli Valenzani, Archeologia e città 

Keti Lelo, Le “frontiere” dell’urbano 

Sezione 1. La forma della città, a cura di Keti Lelo 

Sezione 2. Interventi nella città storica (1883-1940), a cura di 

Carla Mazzarelli 

Sezione 3. L’espansione residenziale, a cura di Bruno Bonomo 

Sezione 4. Da Roma al mare, a cura di Elena Tinacci 

Sezione 5. Tevere e Aniene, a cura di Alessandra Vico e Elena 

Tinacci 

Sezione 6. Infrastrutture e trasporti, a cura di Elena Tinacci, Carla 

Mazzarelli e Alessandra Vico 

Sezione 7. Industria e servizi, a cura di Bruno Bonomo e Fernando 

Salsano 

Sezione 8. Ville storiche e parchi urbani, a cura di Tommaso Allegra 

e Carla Mazzarelli 

Sezione 9. Eventi e grandi opere, a cura di Fernando Salsano 

Enti ed istituzioni culturali. Archivi e documentazione fotografica 

Cronologia - Bibliografia - Indice delle illustrazioni 

Il Catalogo è in grande formato (cm. 30x30) per un complesso di 

372 pagine ed oltre 380 illustrazioni in bianco e nero e a colori. 

Collana «Atlante di Roma moderna e contemporanea», 1, ISBN 

88-8368-011-1, Euro 35,00 (euro 50,00 copie rilegate). 

Edizioni Università degli Studi Roma Tre - CROMA 

Via Ostiense, 139 – 00154 Roma 

Tel. 06.57374016 - fax 06.57374030 


http://host.uniroma3.it/centri/croma

1. TESTO 

a) il file va inviato per e.mail (c.travaglini@uniroma3.it) o 

per posta su cd-rom al CROMA (via Ostiense, 139 - 00154 

Roma) in qualsiasi versione di Word (indifferentemente per 

PC o per Macintosh). Si raccomanda vivamente di evitare 

qualsiasi formattazione del testo, anche nell’andata a capo. Il 

file avrà la denominazione: “cognome autore.testo” 

b) insieme al testo dell’articolo dovrà essere inviato l’abstract 

(in italiano e, possibilmente, in inglese) di max 1.000 caratteri 

o 190 parole; il file avrà la denominazione: “cognome 

autore.abstract” 

c) l’articolo dovrà riportare l’indicazione del numero di telefono, 

eventuale fax, e-mail e indirizzo postale dell’Autore; 

l’Autore deve indicare l’eventuale ente di appartenenza. 

2. IMMAGINI, TABELLE, GRAFICI 

L’autore dovrà dichiarare che le immagini sono esenti da diritti 

ovvero dovrà segnalare le autorizzazioni ottenute per la 

riproduzione. Le immagini devono essere fornite esclusivamente 

su cd-rom, in formato tiff o jpg, con una risoluzione 

di almeno 300 dpi riferita alla dimensione cm 20x30. Vanno 

contraddistinte da un numero progressivo (Fig. 1, Fig. 2, ...) 

e associate a una didascalia con indicazione di autore, soggetto, 

datazione e fonte. Il file contenente le didascalie avrà la 

denominazione: “cognome autore.dida”. 

Le tabelle avranno una loro numerazione ed intestazione (in 

corsivo); si raccomanda di evitare formattazioni. 

I grafici avranno una loro numerazione ed intestazione (in 

corsivo); per essi, inoltre, l’A. dovrà fornire non solo l’immagine 

ma anche la base dati in excel in modo da consentire una 

corretta impaginazione. 

3. CITAZIONI 

a) le citazioni brevi (2-3 righe) vanno tra virgolette caporali (« 

») con il rinvio alla fonte; le citazioni più lunghe (infratesto) 

vanno separate dal testo, in corpo minore e senza virgolette; 

b) eventuali citazioni contenute in detti brani vanno contraddistinte 

con virgolette doppie in alto (“ ”); c) eventuali 

omissioni vanno indicate con tre puntini tra parentesi quadre 

[…]; d) per facilitare la lettura è preferibile sciogliere le abbreviazioni 

contenute nei brani riportati nonché modificare la 

punteggiatura e l’accentazione secondo l’uso moderno. 

4. MAIUSCOLE 

Le maiuscole vanno usate il meno possibile attenendosi alla 

massima uniformità in tutto il contributo: a) vanno lasciate 

quando una denominazione fa corpo con il nome proprio 

cui si accompagna (nel caso di Istituto e di toponimo); b) 

Santo, San, Santi vanno maiuscoli solo nella denominazione 

di chiese, basiliche, ecc., e vanno comunque citati sempre per 

esteso; c) le denominazioni di magistrature, enti, fondazioni, 

istituzioni, accademie, ecc. vanno maiuscole, in tondo anche 

se straniere, in tutte le iniziali delle parole che le compongono; 

d) le sigle vanno maiuscole e senza punto (BNL, INPS, 

CEE, ecc.); e) le parole: chiesa, basilica, monastero, tempio, 

porta, ecc. vanno minuscole (ad eccezione di: Porta Pia, Basilica 

Vaticana, Acquedotto Felice, ecc.); f) Vanno maiuscoli: 

Paesi nel senso di nazionalità, Stato e Chiesa intesi come istituzione, 

Regione, Provincia, Comune intesi come autorità; 

così pure Codice e Raccolta, quando sono seguiti da nome 

proprio; Seminario, Convegno, Colloquio, ecc. quando sono 

seguiti dal titolo; i secoli come Cinquecento, Ottocento, ecc., 

e anni Venti, anni Quaranta, ecc.. 

5. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 

a) nome puntato e cognome dell’autore in tondo seguito da 

virgola (nel caso di più autori, i nomi vanno separati da un 

trattino); b) titolo dell’opera o dell’articolo per intero, in corsivo, 

seguito da virgola (nel caso di titolo in una lingua straniera, 

diversa dal francese, inglese, spagnolo e tedesco, si darà 

la traduzione in lingua italiana tra parentesi quadre); c) luogo 

di pubblicazione; nome dell’editore e per le edizioni antiche 

NORME REDAZIONALI 

del tipografo; data di pubblicazione; rinvio alla pagina (p.) o 

alle pagine (pp.). 

Per le opere in più volumi, dopo il titolo si indicherà il numero 

dei volumi (in numeri arabi), seguiranno il luogo, l’editore, 

l’anno (o gli anni) di pubblicazione, l’indicazione specifica 

del volume (in numeri romani) e delle pagine cui si intende 

fare riferimento. Con l’eccezione di dizionari, enciclopedie, 

ecc. per i quali si darà solo l’indicazione bibliografica del volume 

citato. 

Per le opere anonime e per le opere collettive si darà indicazione 

del solo titolo come sopra (non preceduto da “AA. 

VV.”), seguito dall’indicazione dell’eventuale curatore (in 

tondo, con la sola iniziale del nome); per le opere straniere 

è preferibile dare l’indicazione “a cura di” nella lingua originale, 

come compare nel frontespizio; per gli atti di convegni 

seguirà, in tondo e preceduta da una virgola, l’indicazione: 

Atti del convegno … (luogo, data). 

Per gli articoli di riviste indicare, come sopra, nome dell’autore 

(in tondo) e titolo dell’articolo (in corsivo), quindi segue 

il titolo del periodico tra virgolette caporali («Città e Storia», 

non preceduto da “in”), l’indicazione dell’annata in numeri 

romani, dell’anno solare, del fascicolo dell’anno (non preceduto 

da “n.” né da “fasc.”), delle pagine complessive e, se 

del caso, della/e pagina/e cui ci si intende specificatamente 

riferire (le pagine estreme vanno indicate per esteso: pp. 235- 

254); ad esempio: G. Giarrizzo, Intellettuali e Mezzogiorno 

nel secondo dopoguerra, «Studi Storici», XX, 1979, 1, pp. 91- 

110: 93. 

Per contributi in opere collettive o in raccolte miscellanee 

si indicherà autore e titolo del contributo come sopra aggiungendo 

altresì (preceduti da “in”) i riferimenti completi 

dell’opera collettiva in cui è contenuto, inclusa la specificazione 

delle pagine relative all’insieme del contributo, seguirà 

l’eventuale specificazione di particolari pagine cui ci si intende 

riferire. 

Quando si ripete a distanza la citazione da uno stesso libro o 

articolo si indicherà, come di consueto, l’autore e, invece, in 

forma abbreviata (limitata alle due o tre parole iniziali) il titolo, 

seguito dalla virgola e dall’espressione “cit.” (in tondo); seguirà 

l’indicazione della pagina/e. Non si daranno altre indicazioni 

di luogo e di data. Quando la seconda citazione segue 

immediatamente la prima si userà l’abbreviazione “Ibidem” 

in corsivo senza indicazione di pagina se ci si riferisce ad altra 

riga dello stesso luogo, ovvero l’abbreviazione “Ivi” in corsivo 

con indicazione di pagina se ci si riferisce ad altro luogo. 

6. PER LE CITAZIONI DI DOCUMENTI D’ARCHIVIO E DI MANO- 

SCRITTI 

a) successivamente agli eventuali riferimenti relativi allo specifico 

documento, si darà indicazione dell’archivio (in tondo), 

del fondo e di eventuali serie (in corsivo), della busta o registro 

e, infine, eventualmente, della carta con specificazione 

recto o verso; b) qualora le citazioni di documenti d’archivio 

si ripetano più volte, occorrerà premettere alle note un’avvertenza 

non numerata, e collegata con asterisco al titolo, nella 

quale si darà l’elenco delle abbreviazioni usate, es.: ASR = 

Archivio di Stato di Roma; BAV = Biblioteca Apostolica Vaticana; 

c) il titolo di documenti manoscritti andrà citato in 

tondo tra virgolette caporali; d) per i rinvii alle pagine di un 

manoscritto si useranno le seguenti abbreviazioni: c. = carta; 

cc. = carte; r = recto; v = verso. 

Si raccomanda in particolare di indicare sempre nella citazione 

di volumi: l’editore; nella citazione di articoli: gli 

estremi completi della rivista (annata, anno, fascicolo, pagine 

entro le quali è compreso il testo completo dell’articolo). 

Si prega infine di evitare qualsiasi formattazione/tabulazione 

del testo.

LA CITTÀ ALLO SPECCHIO 

a cura di Claudia Conforti, Lucia Nuti e Carlo M. Travaglini 


M.B. BETTAZZI, A. BUCCARO, C. CAMARERO BULLÓN, A. COGNÉ, B. GAUTHIEZ, M. IULIANO, 

H. JINNAI, K. LELO, M.C. MIGLIACCIO, P. MILTENOV, M. NAKAHASHI, L. NUTI, P. PINON, 

D. ULIVIERI, C.M. TRAVAGLINI 

SAGGI 


M. FRATI, B. MARIN, S. PALLECCHI 

NOTE E DISCUSSIONI 


D. MANACORDA, L. NUTI, R. TAMBORRINO, C.M. TRAVAGLINI 

CONVEGNI, SEMINARI, MOSTRE, INFORMAZIONI 


D. CALABI, M. IULIANO, M. SAVORRA, E. SVALDUZ, K. LELO 

SCHEDE 

ISSN 1828-6364 

Semestrale - Sped. in abbonamento postale 70% - DCB - Roma - Poste italiane Spa 

ISBN 88-8368-013-8 

9 788883 680137 > 

Prezzo del volume € 30,00

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