la battaglia di trafalgar - Marina Militare

DELL’ISTITUTO DI STUDI MILITARI MARITTIMI
LA BATTAGLIA DI
TRAFALGAR

DIREZIONE E REDAZIONE:
Anno XV - n. 135 - 2005
DELL’ISTITUTO DI STUDI MILITARI MARITTIMI
ISTITUTO DI STUDI MILITARI MARITTIMI
CENTRO STUDI
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La riproduzione, totale o parziale degli scritti
e delle illustrazioni è subordinata all’autorizzazione
della Direzione del Bollettino.
Pubblicazione non in commercio
LA BUSSOLA
Sommario
5 LA BATTAGLIA DI TRAFALGAR
ANALISI E CONSIDERAZIONI
15 IL TOTAL QUALITY MANAGEMENTE
APPLICATO AL CORSO NORMALE
DI STATO MAGGIORE
CONSIDERAZIONI E APPLICABILITA’
27
DELL’ISTITUTO DI STUDI MILITARI MARITTIMI
COMUNICARE L’INTANGIBILE
VALORI ED EMOZIONI
35 IL DOMINIO DEL COSMO E LA
QUARTA DIMENSIONE GEOPOLITICA
IL RUOLO DELLE POTENZE MONDIALI NELLA
SPARTIZIONE DEL TERRITORIO SPAZIALE
43 IL MEDITERRANEO

Quale strategia alternativa avrebbe potuto adottare la
Spagna nel conflitto ispano-americano che consacrò definitivamente
gli Stati Uniti come potenza emergente
alla fine del XIX secolo? Quali diversi
accorgimenti sul piano della politica estera
avrebbe potuto escogitare l’Italia per trarre
maggiori vantaggi nel conflitto Italo-turco
che la vedeva affacciarsi per la prima
volta sulla scena internazionale come
aspirante nazione colonialista? Dove
sbagliò la Russia nel cercare un confronto
nel 1905 con la potenza in ascesa del Giappone
che le causò una enorme umiliazione
sul piano dell’immagine internazionale e un
ulteriore indebolimento sul fronte interno?
A chi giova la storia con i se e con i ma? Quanto può
essere utile un’analisi di tipo “controfattuale” e fino a
che punto può essere utilizzato il frutto di queste “sliding
doors” storiche, questo esercizio di fantasia che specula
sugli eventi storici che avrebbero potuto verificarsi se
solo quel grande statista o condottiero avesse preso un’altra
decisione? Dice Franco Cardini ”La storia è un lungo
cammino fatto di sentieri che di continuo si biforcano, e
quel che alla nostra dabbenaggine appare come una linea
conseguente e consecutiva di fatti l’uno collegato all’altro
(magari logicamente) è, invece, una sequenza puntiforme
d’infinite fratture (e senza logica alcuna).”
L’analisi storica, si sa, costituisce parte integrante dei
corsi di strategia in tutte le scuole militari attraverso l’approfondimento
del caso di specie. Questo esercizio consente
di verificare la bontà delle scelte adottate sui tre livelli
classici delle operazioni militari strategico, operativo, tattico,
di rivisitare concetti dottrinali vecchie e nuovi o di vedere
adottati sorprendentemente nel passato, in una forma
embrionale, concetti dottrinali sviluppati solo secoli dopo.
L’utilità dunque di una operazione di vera natura, che
è da sempre nella tradizione dei Corsi di Stato Maggiore
dell’IGM e oggi dell’ISMM, sta proprio nel valore della
trasposizione delle deduzioni elaborate sul piano dell’analisi
storica al contesto dottrinale dove le argomentazioni
più varie, le idee e i ragionamenti, devono trovare forma
e organizzazione in uno spazio fatto di principi e norme
condivise utili per l’azione. L’elemento di novità, anche
se di vera novità non si può parlare, è l’applicazione dei
criteri di analisi propri del “metodo” all’analisi storica ed
La BUSSOLA
in particolare di quelle regole e procedure logiche che
trovano nel GOP, la pubblicazione NATO Guide for Operational
Planning quegli elementi di schematicità
che la pianificazione operativa richiede
quando, nell’intento di chiarire al meglio gli
obiettivi, cerca di individuare con maggiore
precisione possibile gli end state, i centri di
gravità, i decisive points e i culminating
points e di posizionarli attentamente
sulle linee dei disegni operativi. La disamina
di questi concetti, che prendono le
mosse dai testi più noti della strategia e della
dottrina militari dei Von Clausewitz e dei de
Jomini, consentono proprio di procedere in
senso “controfattuale” e di vedere cronologicamente
quale è stato il momento, contrassegnato da quello
specifico decisive point, in cui grazie a quella scelta e non
ad un’altra tra le tante possibili la storia ha preso quella
piega. La storia non si fa con i se ma con i se si può con una
certa approssimazione pensare al futuro.
In questo numero abbiamo così voluto presentare proprio
un esempio di analisi storica secondo le procedure del
GOP con un caso di specie di tutto rispetto, la battaglia di
Trafalgar, che tanto ha contribuito a modificare gli equilibri
europei all’inixio del XIX secolo così come è stata
analizzata dal T.V. NOTTI che si è cimentato con linee di
operazioni e end states a livello strategico e operativo.
Il C.C. MARCHIÒ ci presenta invece una interessante
analisi alla luce del TQM circa il gradimento del C.N. di
Stato Maggiore mentre il C.C. CACACE, in una sua riflessione
sulle tecniche di comunicazione, analizza quali
debbano essere le modalità per trasmettere messaggi che
implichino il trasferimento di valori ed emozioni, nella
sfera cioè dell’”intangibile” quella dunque più astratta e
delicata. Completa il numero il lavoro del T.V. SCORCEL-
LETTI con un quadro d’insieme sulla geopolitica della
quarta dimensione, quella dello spazio.
Anche se per la verità con un po’ di ritardo il Centro
Studi ha finalmente elaborato gli atti della XIII giornata
di studio “A Occidente di chi ; linee di faglia e punti di
contatto” di cui pubblichiamo l’intervento del Prof. Franco
Cardini, mai troppo citato, circa il rapporto Oriente-Occidente.
Buona lettura a tutti

LA BATTAGLIA
DI TRAFALGAR
ANALISI E CONSIDERAZIONI

OSSERVATORIO
Tenente di Vascello
Sergio Gianluca NOTTI
INTRODUZIONE
Tra la fine del XVIII secolo e
l’inizio del XIX secolo, la Francia di
Napoleone si scontrava con la Gran
Bretagna, che voleva annientare la
volontà imperialistica del generale
corso, divenuto Imperatore di Francia.
Il conflitto ebbe per l’Inghilterra
un eroico protagonista: l’ammiraglio
Horatio Nelson (fig. 1), che
combatté contro Napoleone e lo
sconfisse definitivamente sul mare
nei pressi di Capo Trafalgar (sulle
coste occidentali della Spagna, 25
miglia a Nord-Ovest di Gibilterra)
il 21 ottobre 1805, in quella che fu
definita, tatticamente e strategicamente,
la battaglia navale più decisiva
della guerra contro l’Impero
napoleonico 1 .
Alcuni autori considerano la
battaglia di Trafalgar la più grande
battaglia navale della storia della
vela 2 . L’importanza strategica risiede
nel fatto che tale battaglia pose
fine ad ogni ulteriore tentativo di
invasione delle Isole Britanniche da
parte di Napoleone o di perseguire
l’ambizioso progetto di creare una
potenza navale francese. Togliendo
dalla scena la flotta franco-spagnola,
la Gran Bretagna eliminò ogni
serio ostacolo al raggiungimento
del dominio sui mari da parte della
sua flotta, potendo affermare quel
potere marittimo che per 140 anni,
orgogliosamente, avrebbe imposto
al mondo.
GLI EVENTI TRA IL XVIII
ED IL XIX SECOLO CHE
PORTARONO ALLA BATTA-
GLIA DI TRAFALGAR
Dopo la battaglia navale di
Aboukir (1° agosto 1798) che vide
la flotta inglese sconfiggere quella
francese ed il fallimento della
campagna napoleonica in Egitto,
il generale Napoleone Bonaparte,
il 23 agosto 1799, approfittando
del momentaneo allentamento del
locale blocco navale britannico 3 ,
fuggì da Alessandria a bordo di una
fregata. A seguito della sua riuscita
fuga dall’Egitto, maturò nella sua
mente un’errata e sempre più convinta
sottovalutazione del potere
navale inglese. Rientrato a Parigi, il
9 novembre 1799 scalzò con la forza
il Direttorio e lo sostituì con un
Consolato, facendosi poi nominare
Primo Console. Con questo colpo
di Stato Napoleone irrompeva sulla
scena politica francese, diventandone
un indiscusso protagonista.
Il 25 marzo 1802 si gettarono
le basi per la pace in Europa, con
la firma ad Amiens del trattato di
pace tra Gran Bretagna e Francia;
tuttavia la Francia non interruppe i
lavori per l’allestimento di una flotta
d’invasione delle Isole Britanniche
e ciò determinò la ripresa delle
ostilità, il 16 maggio 1803. Nello
stesso periodo la Spagna iniziò a
violare le regole della neutralità,
ospitando e sostenendo regolarmente
navi francesi, vanificando
quindi in parte il blocco britannico.
Poco dopo (12 dicembre 1804)
la Spagna dichiarò guerra alla Gran
Bretagna, alleandosi con Napoleone,
che dieci giorni prima era stato
incoronato Imperatore dei francesi
dal pontefice Pio VII. Tra l’aprile e
l’agosto 1805 il governo di Londra,
sfruttando l’emozione suscitata in
5
Europa dalla nomina di Napoleone
ad imperatore e dalla sua successiva
incoronazione a re d’Italia (avvenuta
a Milano il 26 giugno 1805),
formò la terza coalizione anti-francese
con Austria, Russia, Regno di
Napoli e Svezia.
Frattanto Napoleone, convintosi
dell’impossibilità di tentare un’invasione
delle Isole Britanniche con
la forza, pensò ad un piano diversivo
che costringesse gli inglesi ad
allontanare gran parte delle loro
navi dal canale della Manica e permettesse
alla sua forza da sbarco
di mettere agevolmente a terra le
truppe. Il piano prevedeva la forzatura
del blocco navale britannico
ai porti franco-spagnoli da parte
delle flotte francese e spagnola, per
farsi poi inseguire da quelle inglesi
verso le lontane Indie Occidentali.
Tuttavia il piano fallì, sia per
le troppo ottimistiche ed errate
valutazioni di Napoleone, concernenti
un temporaneo dominio sulla
Manica, sia per l’eccessiva cautela
dall’ammiraglio Pierre Villeneuve,
comandante della flotta di Tolone,
che ebbe paura di scontrarsi con
RITRATTO DELL’AMMIRAGLIO NELSON
con la decorazione donatagli dal Sultano turco;
Castello della Ducea di Bronte
XIX sec
1 Nicholas Tracy, Nelson’s battles – The Art of Victory in the Age of Sail, Londra, Chatha¬m Publishing, 1996, p. 157.
2 Ennio Dalmaggioni, Battaglia di Trafalgar, www.cronologia.it, 24 mag. 2005.
3 Dopo la 1° guerra anglo-olandese, conclusasi nell’agosto 1653, la Marina inglese attuò una strategia che sarebbe divenuta una costante da parte della flotta britannica: il blocco navale dei porti nemici. Con questo
sistema la flotta inglese (storicamente la flotta prevalente da allora fino alla 2^ guerra mondiale) poneva le sue navi davanti ai principali porti nemici, impedendo così allo Stato “bloccato” sia di commerciare,
danneggiandone l’economia, sia di impiegare il proprio strumento marittimo, se non a rischio di uscire in mare e di farsi battere definitivamente. Ne conseguiva un deterioramento delle qualità professionali dei
propri marinai che, chiusi nei porti, non potevano addestrarsi alla navigazione e al tiro; va infatti ricordato che le flotte mercantili e quelle militari in gran parte coincidevano. Nel caso di Aboukir i due vascelli
inglesi, incaricati di bloccare Alessandria d’Egitto, erano stati contemporaneamente ed erroneamente ritirati per rifornirsi di viveri a Cipro.

OSSERVATORIO
Nelson e si rifugiò a Cadice.
Le mire espansionistiche di Napoleone
si rivolsero allora al Regno
di Napoli; l’Imperatore ordinò
quindi alla flotta di Tolone, ferma a
Cadice e costituita da navi francesi
e spagnole (queste ultime al comando
dell’ammiraglio Francesco
Gravina), di entrare nel Mediterraneo,
unirsi alla squadra spagnola di
Cartagena e cooperare con l’esercito
francese contro il Regno di Napoli.
Per fare ciò, tuttavia, le navi
franco-spagnole avrebbero dovuto
forzare il blocco navale che la flotta
britannica, al comando dell’ammiraglio
Horatio Nelson, aveva nel
frattempo posto al porto di Cadice.
LA BATTAGLIA
DI TRAFALGAR
Il 17 ottobre 1805 l’ammiraglio
Pierre Villeneuve, comandante
della flotta di Tolone, venne a sapere
dalle sue vedette, poste lungo
il litorale spagnolo, che 6 vascelli
britannici erano a Gibilterra, per
rifornirsi d’acqua e viveri, e che
quindi le forze in mare di Nelson
erano considerevolmente ridotte.
Pertanto la mattina del 19 ottobre
1805, dopo una sortita iniziale di
ricognizione, la flotta franco-spagnola
partì da Cadice e si mise
lentamente in formazione, diretta
verso Gibilterra, dando così inizio
alla prima fase della battaglia di
Trafalgar. In totale salparono 33
vascelli (18 francesi e 15 spagnoli),
5 fregate e 2 corvette; a questa flotta
dotata di 2.626 cannoni, Nelson
opponeva 27 vascelli, 4 fregate e 2
brigantini con un totale di 2.148
cannoni. Le 4 fregate e i 2 brigantini
inglesi, di vigilanza vicino a
Cadice, riportarono la notizia della
partenza a Nelson, che si trovava al
largo con i vascelli; all’alba del 21
ottobre 1805 Nelson avvistò il nemico
e diresse contro di lui da ponente,
con un filo di vento a favore,
che permetteva alle navi britanniche
di raggiungere una velocità di
circa 3 nodi 4 .
Il piano di battaglia dell’ammiraglio
Horatio Nelson
Il piano che Nelson aveva preparato
per la battaglia navale contro
la flotta francospagnola,
in caso di
forzatura del blocco
di Cadice, consisteva
nella più importante
rivoluzione
tattica mai avvenuta
fino a quel momento
nella guerra sui
mari. Infatti, fino
ad allora, le battaglie
navali si erano
sempre combattute
tra due squadre avversarie,
disposte su
due linee, con rotte
opposte e parallele;
in ogni squadra le
navi rimanevano incolonnate
l’una nella
scia di quella prece-
6
dente e si affrontavano, sparandosi
contro, quando erano affiancate e
a portata di tiro. In Gran Bretagna
questa tattica di combattimento era
sancita dalle Fighting Instructions 5 .
Il piano di Nelson, da lui stesso
battezzato “il tocco di Nelson”, innovava
profondamente le Fighting
Instructions nei seguenti tre punti:
- suddivisione della flotta inglese
in due colonne parallele,
che avrebbero dovuto
puntare perpendicolarmente
sulla linea di fila nemica ed
attraversarla. In questo modo
le navi inglesi si sarebbero
poste trasversalmente (di
prora o di poppa) ai vascelli
avversari, al fine di isolare il
corpo centrale della formazione
nemica dall’avanguardia
e dalla retroguardia 6 ;
- la manovra doveva avvenire
ad opera di tutta la flotta e
non soltanto di singole navi,
come era accaduto occasionalmente
in passato 7 ;
- le navi ammiraglie Victory,
su cui era imbarcato Nelson,
e Royal Sovereign su cui era
imbarcato l’ammiraglio Cuthbert
Collinghwood, sarebbero
state disposte in testa
alle due colonne, per guidarle
direttamente all’impatto con
il nemico, anziché al centro
delle rispettive formazioni,
come era consuetudine. I
due vascelli avrebbero così
rappresentato precisi punti
di riferimento per le navi
che le seguivano, evitando i
laboriosi segnali a bandiere,
causa spesso di fatali equivoci.
Nelson scelse quindi, con grande
coraggio, di porre inizialmente
la propria formazione nella scomoda
posizione, che esponeva
le navi ammiraglie (impossibilitate
a colpire il nemico con le
artiglierie disposte sui fianchi)
4 Le condizioni meteorologiche erano buone, ma in rapido peggioramento, mentre il vento era debole dai quadranti occidentali e si mantenne tale per quasi tutta la battaglia crescendo
poi d’intensità fino a tramutarsi in tempesta violentissima, protrattasi per quattro giorni. Cfr. Alberto Santoni, Storia e politica navale dell’età moderna (VI – XIX secolo), Roma,
Ufficio Storico della Marina Militare, 1998, p. 214.
5 Alberto Santoni, Storia e politica navale dell’età moderna (VI – XIX secolo), Roma, Ufficio Storico della Marina Militare, 1998, p. 56. Rigide ed importanti regole di combattimento
sul mare, introdotte l’8 aprile 1653 dai tre principali coman¬danti della flotta inglese, Robert Blake, George Monck e Richard Deane.
6 Nelson addirittura avrebbe voluto creare tre colonne d’attacco, ma fu costretto a limitarle a due, non disponendo,nel momento della battaglia, dei previsti 40 vascelli. Cfr. Alberto
Santoni, Storia e politica navale dell’età moderna (VI – XIX secolo), Roma, Ufficio Storico della Marina Militare, 1998, p. 212.
7 Le manovre però non erano state studiate a tavolino, come nel caso di Trafalgar, ma erano state frutto di favorevoli circostanze del momento o determinate da un’iniziativa estemporanea
dei comandanti delle singole navi. Cfr. Alberto Santoni, Storia e politica navale dell’età moderna (VI – XIX secolo), Roma, Ufficio Storico della Marina Militare, 1998, p. 212.

OSSERVATORIO
Il Disegno operativo di Nelson
END STATE OPERATIVO BRITANNICO: eliminare la minaccia navale posta dalla flotta franco-spagnola.
CENTRO DI GRAVITÀ OPERATIVO NEMICO: le navi da guerra della flotta franco-spagnola.
CENTRO DI GRAVITÀ OPERATIVO BRITANNICO: le navi da guerra della flotta britannica.
ANALISI DEL CENTRO DI GRAVITÀ OPERATIVO FRANCO-SPAGNOLO (VISTO DAI BRITANNICI)
CENTRO DI GRAVITÀ OPERATIVO NEMICO
- Le navi da guerra della flotta franco-spagnola di Villeneuve.
- Forzare il blocco navale inglese;
- Un piano di battaglia da contrapporre alla linea d’azione inglese;
- Combattere in superiorità relativa di fuoco per sfruttare il vantaggio
numerico e compensare le carenze addestrative;
- Mantenere l’iniziativa.
7
CRITICAL CAPABILITIES
- Respingere l’attacco delle navi da guerra della flotta di Nelson;
- Minacciare gli interessi britannici, bloccando le basi navali e le
linee di comunicazione inglesi.
CRITICAL REQUIREMENTS CRITICAL VULNERABILITIES
DECISIVE POINTS
- La mancanza di addestramento nelle manovre in mare e nel
combattimento degli equipaggi franco-spagnoli;
- La vulnerabilità delle navi da guerra nei settori prodieri o poppieri;
- La mancanza di determinazione ed iniziativa di Villeneuve e
dei suoi subordinati;
- La negazione di informazioni intelligence.
1. Mantenere i vascelli della flotta britannica al largo del porto di Cadice;
SCOPO: avere una forza navale pronta ad attaccare la flotta franco-spagnola, non appena quest’ultima fosse uscita in mare aperto;
2. Negare al nemico l’informazione riguardante il numero di navi da guerra della flotta britannica al largo di Cadice;
SCOPO: conseguire un notevole effetto sorpresa ed impatto psicologico nei quadri di comando e sugli equipaggi della flotta nemica (in caso di scontro
navale), all’atto della scoperta della reale consistenza numerica della flotta britannica;
3. Collocare un ridotto numero di navi da guerra minori (tipo fregate) all’uscita del porto di Cadice;
SCOPO: simulare un blocco navale di modesta entità inducendo l’avversario a prendere il mare e, nello stesso tempo, fornire rapidamente a Nelson
la notizia dell’eventuale partenza delle navi della flotta franco-spagnola;
4. Effettuare il blocco navale di Cadice con tutti i vascelli al largo del porto;
SCOPO: ridurre significativamente le capacità operative degli equipaggi franco- spagnoli e nello stesso tempo conseguire l’indebolimento economico
della Spagna;
5. Costituire due colonne d’attacco di vascelli con le due navi ammiraglie in testa;
SCOPO: nel caso di scontro navale, attaccare la linea di fila nemica in due punti distinti e ridurre il più possibile le comunicazioni a bandiere, quindi
mantenere l’iniziativa;
6. Ritardare l’intervento in battaglia dell’avanguardia nemica;
SCOPO: mantenere il più a lungo possibile la superiorità
numerica locale;
7. Perforare ed attaccare perpendicolarmente la linea di
fila nemica alla massima velocità, attuando il “controtaglio”
del “T” ai vascelli avversari, in prossimità del
centro e della retroguardia;
SCOPO: ridurre il tempo di esposizione al fuoco nemico,
conseguire la superiorità locale del fuoco, isolare
il corpo centrale della linea nemica dall’avanguardia e
dalla retroguardia, disorientare, sfasare e sconfiggere
il centro e la retroguardia del nemico;
8. Sconfiggere le navi dell’avanguardia franco-spagnola.

OSSERVATORIO
al fuoco concentrato di almeno
due-tre vascelli della trasversale linea
di fila nemica. Egli però sapeva
che il tiro dei franco-spagnoli non
era né rapido né troppo preciso e
che quindi, superata la prima mezz’ora,
nella quale il nemico sarebbe
stato in posizione di vantaggio,
ogni nave inglese avrebbe perforato
la linea avversaria ed avrebbe avuto
da ambo i suoi lati un bersaglio
che, offrendo la prora o la poppa,
sarebbe stato vulnerabile ed impossibilitato
a sparare. Nelson preparò
quindi un piano fondamentalmente
semplice 8 , lasciando la massima
iniziativa ai suoi subordinati, per la
fase successiva al contatto con l’avversario.
Le scelte dell’ammiraglio
Pierre Villeneuve
L’ammiraglio Villeneuve si era
reso conto già da tempo che le
tattiche di combattimento erano
antiquate e che costituire un’unica
linea di fila era proprio ciò che
voleva il nemico. D’altronde Villeneuve
conosceva i metodi di Nelson,
essendosi scontrato con lui
nella battaglia di Aboukir del 1798,
pertanto giunse alla conclusione
che gli inglesi avrebbero tentato in
battaglia l’avvolgimento della retroguardia
franco-spagnola. Tale
convinzione si dimostrò poi completamente
errata e determinò una
serie di decisioni che fornirono alla
formazione di Nelson un notevole
vantaggio tattico-operativo.
Sorprendentemente, Villeneuve
non diede ai suoi subordinati alcun
piano per la battaglia, prevedendo
di disporre le sue navi nella classica
linea di fila; la sua unica innovazione
fu di costituire una squadra
d’osservazione di 12 navi, comandate
dall’ammiraglio Gravina, posizionate
sopravvento rispetto alla
linea di fila principale, da contrap-
porre alle navi inglesi che avrebbero
tentato l’accerchiamento.
Alle prime luci del mattino del
21 ottobre 1805, con la flotta britannica
che si avvicinava da ponente,
Villeneuve fece assumere
alle proprie navi la formazione da
battaglia, posizionandole però in
una sequenza differente da quella
assunta fino a quel momento. A
causa dei venti deboli, le navi franco-spagnole
impiegarono moltissimo
tempo per raggiungere le nuove
posizioni, al punto che Nelson vide
solamente un enorme disordine tra
le navi avversarie.
La confusione aumentò quando,
all’altezza di Capo Trafalgar,
l’ammiraglio Villeneuve, avendo
visto avvicinarsi il nemico con vento
favorevole da ovest, stimò che
quest’ultimo stesse per realizzare il
temuto attacco alla sua retroguardia
e alle 08:00 ordinò alle navi la
contemporanea inversione di rotta.
Lo scopo di tale decisione era
duplice: eliminare questa ipotetica
minaccia e non allontanarsi dal
porto di Cadice, che avrebbe potuto
offrire un riparo sicuro alle navi
danneggiate nell’ormai inevitabile
battaglia. Dopo un’ora e mezza la
flotta franco-spagnola riuscì ad
invertire la rotta e a malapena disporsi
in una formazione curva irregolare,
piuttosto disordinata, con
le navi raggruppate in alcuni punti
e grandi spazi vuoti in altri, su una
lunghezza di circa nove chilometri
e mescolate senza alcun ordine
preciso.
La scontro navale
La rotta e la formazione delle
due flotte contrapposte era dunque
la seguente (fig. 2):
- gli inglesi provenivano da
ovest suddivisi in due colonne
parallele, una settentrionale,
guidata dal Victory di
8
Nelson e comprendente 11
vascelli e una meridionale,
guidata dal Royal Sovereign
di Collingwood e composta
da 15 vascelli. Il ventisettesimo
vascello del gruppo
settentrionale, l’Africa, era
rimasto indietro ed intervenne
in battaglia solo più
tardi;
- la linea di fila franco-spagnola
di Villeneuve e Gravina
dirigeva piuttosto disordinatamente
verso nord.
Alle 11:00 Villeneuve fu in grado
di vedere l’intera formazione di
Nelson, spiegata su due colonne a
poche miglia di distanza, pertanto
alle 11:30 ordinò alla squadra
di supporto di Gravina (che dopo
l’inversione di rotta si trovava in
coda alla formazione) di raggiungere
il centro della linea di fila
franco-spagnola, per contrapporre
due navi ad ogni nave inglese attaccante.
Tuttavia la manovra non
fu mai portata a termine a causa
dell’eccessiva lentezza delle navi di
Gravina.
Alle 11:45, in procinto di iniziare
la battaglia, Nelson inviò
alla flotta il galvanizzante segnale
a bandiere “England expects that
every man will do his duty” 9 , accolto
con entusiastiche acclamazioni
dai suoi equipaggi. Poco prima di
mezzogiorno e per circa mezz’ora
le navi franco-spagnole ebbero nel
proprio campo di tiro le due navi
capofila inglesi, dirette su di loro,
ed iniziarono a sparare unilateralmente,
causando però pochi danni
(il Victory ebbe la ruota del timone
e l’albero di contromezzana distrutti
e 50 tra morti e feriti). Nel
frattempo Collingwood posizionò
le navi della sua colonna in linea
di rilevamento, in modo da attraversare
la linea di fila nemica in più
punti e addirittura ingaggiarla da
ambo i lati. Alle 12:20 il Royal So-
8 Nicholas Tracy, Nelson’s battles – The Art of Victory in the Age of Sail, Londra, Chatham Publishing, 1996, p. 176. Con questa decisione Nelson anticipò un principio riportato
anche nel Della guerra, p.119, di Von Clausewitz (che Nelson non poté leggere, essendo stato pubblicato solamente nel 1832): “Tutto è molto semplice in guerra, ma anche la cosa
più semplice diventa difficile”.
9 Traduzione: “l’Inghilterra si aspetta che ciascuno faccia il proprio dovere”. Cfr. Alberto Santoni, Storia e politica navale dell’età moderna (VI – XIX secolo), Roma, Ufficio Storico
della Marina Militare, 1998, p. 216.

OSSERVATORIO
vereign perforò per primo la linea
di fila nemica, scaricando una rabbiosa
e micidiale bordata attraverso
le vetrate poppiere del vascello
spagnolo Santa Ana, diciottesimo
della formazione avversaria. I 50
colpi a doppia palla sparati dalla
murata sinistra del vascello britannico
spazzarono longitudinalmente
i ponti del Santa Ana come un
uragano e causarono un massacro.
Intanto Nelson, con la colonna
settentrionale, aveva compiuto
un’abile mossa diversiva, accostando
provvisoriamente verso nord,
per dare all’avanguardia nemica
l’impressione di volerla impegnare
in un combattimento su rotte parallele.
L’inganno raggiunse completamente
lo scopo di tenere a
lungo l’avanguardia nemica sotto
la falsa minaccia di attacco da parte
delle navi inglesi, motivo per cui
essa giunse in soccorso del centro
solamente a battaglia pressoché
conclusa. Compiuta questa manovra,
tutti i vascelli della colonna di
Nelson ripresero l’originaria rotta
a levante e tagliarono anch’essi “a
pettine” la linea di fila avversaria;
alle 12:30 il Victory passò a poppa
del Bucentaure, nave ammiraglia di
Villeneuve e dodicesima nave della
formazione franco-spagnola, devastandola
con due rapide e micidiali
bordate (fig. 3).
Il Redoutable accorse allora in
aiuto dell’ammiraglia francese ed
ingaggiò il Victory in un accanito
duello; alle 13:15 dalla coffa di
mezzana del Redoutable partì una
fucilata che colpì Nelson alla spalla,
causandone successivamente la
morte 10 .
Dopo il contatto tra le due formazioni,
la battaglia continuò in
duelli d’artiglieria isolati, in una
mischia generale, terminando alle
16:45 con l’esplosione del vascello
francese Achille. Al termine 8 vascelli
francesi, tra cui l’ammiraglia
Bucentaure, e 9 vascelli spagnoli,
tra cui il Santissima Trinidad, erano
stati catturati, mentre gli inglesi
non persero nessuna nave e 10 dei
loro 27 vascelli non ebbero alcun
albero o pennone abbattuto. I francesi
ebbero 2.218 morti, gli spagnoli
1.022 e gli inglesi 456, mentre i
feriti furono rispettivamente 1.155,
1.383 e 1.153; infine i prigionieri
franco-spagnoli risultarono oltre
7.000.
ANALISI
TATTICO-OPERATIVA
Agli inizi del XIX secolo, la
Marina francese poteva ancora
vantare, nei confronti dell’antagonista
britannica, la superiorità
qualitativa della scuola tattica 11 e
delle costruzioni navali, che continuavano
ad essere migliori di
9
Figura 2
Le opposteformazioni all’inizio della battaglia
quelle inglesi, grazie a più scientifiche
strutture e più avanzate
dottrine ingegneristiche, tutte
risalenti alle innovazioni seicentesche
del Colbert 12 ; tuttavia ciò
a nulla valse contro la genialità di
Nelson.
La linea d’azione dell’ammiraglio
inglese, volta ad eliminare
la minaccia navale posta dalla
flotta franco-spagnola (End State
operativo desiderato), era infatti
diretta sulle navi da guerra avversarie
(Centro di Gravità operativo
nemico), sia con il blocco navale,
sia in battaglia, qualora le navi
nemiche fossero uscite dal porto
di Cadice. In questo secondo
caso, però, l’intento di Nelson era
anche quello di proteggere le navi
della sua flotta (Centro di Gravità
operativo inglese), azione possibile
solamente con la superiorità
locale del fuoco, ottenibile tramite
la perforazione a “pettine” da
parte delle sue navi ai danni della
formazione di Villeneuve. Se non
10 Nelson respinse le raccomandazioni di trasferirsi prima della battaglia a bordo di una fregata che non prendeva parte al combattimento, così come rifiutò di indossare un soprabito
per occultare i gradi e le sue numerose decorazioni, che erano un invitante bersaglio per i cecchini, utilizzati dalla Marina francese per colpire gli ufficiali nemici. Cfr. Alberto
Santoni, Storia e politica navale dell’età moderna (VI – XIX secolo), Roma, Ufficio Storico della Marina Militare, 1998, p. 218.
11 Antonio Flamigni, Evoluzione del Potere Marittimo nella Storia, Venezia, ISMM, agosto 2003, p. 61. Il testo di tattica di Bigot de Morogues era certamente il migliore dell’epoca
e la scuola tattica francese attirava l’invidia dei migliori ammiragli inglesi.
12 Giovan Battista Colbert, ministro delle finanze francese all’epoca di Luigi XIV, nella seconda metà del seicento, diede impulso a nuove dottrine tattiche e strategiche per la Marina
francese e creò una scuola di architettura navale, da cui uscirono vascelli invidiati e imitati dagli inglesi. La principale innovazione fu l’innalzamento della batteria più bassa che,
essendo più distanziata dalla linea di galleggiamento, poteva sparare meglio con mare agitato e con la nave sbandata al vento. Cfr. Alberto Santoni, Storia e politica navale dell’età
moderna (VI – XIX secolo), Roma, Ufficio Storico della Marina Militare, 1998, p. 102.

OSSERVATORIO
fosse riuscito in questa manovra,
probabilmente avrebbe avuto
grosse difficoltà a proteggere le
proprie navi, poiché i vascelli e i
cannoni inglesi erano numericamente
inferiori.
Pertanto, in caso di battaglia,
Nelson aveva individuato come
condizioni per il successo la rottura
della linea di fila avversaria
in almeno due punti, isolandone
i tronconi, e la superiorità locale
del fuoco. In caso di blocco navale,
invece, l’unica condizione
per il successo era rappresentata
dalla possibilità di mantenere un
gran numero di vascelli britannici
per lungo tempo davanti al
porto di Cadice, condizione resa
possibile dall’importante base di
Gibilterra 13 , che, essendo relativamente
vicina alla Gran Breta-
Fig. 3
Penetrazione del Victory nella linea di fila nemica
gna, garantiva la turnazione ed
il rifornimento delle navi britanniche.
In realtà, poiché Nelson e
Villeneuve erano nemici di vecchia
data e Villeneuve in passato
era già riuscito a sfuggire ad una
battaglia contro le navi di Nelson,
quest’ultimo avrebbe fatto di tutto
per poterlo affrontare in mare;
prova ne è il fatto che, per indurre
l’ammiraglio francese a portare le
sue navi in mare, simulò un blocco
leggero di Cadice, impiegando
solamente fregate.
Il piano di Nelson avrebbe
inoltre permesso di ridurre significativamente
le comunicazioni
durante la battaglia e di ottenere
un notevole impatto psicologico
negativo sugli equipaggi avversari,
grazie all’effetto sorpresa, alla
rapidità e al sincronismo con cui
10
si sarebbe condotta l’azione. Se i
vantaggi erano quindi consistenti,
non di meno lo erano i fattori di
rischio, non tanto nel blocco navale
(per il quale erano minimi)
quanto in battaglia. Il piano prevedeva
infatti di esporre al fuoco
concentrato del nemico le prime
navi delle due colonne d’attacco,
senza possibilità di difesa, per
quasi mezz’ora (Risk Assessment).
Per ridurre al minimo i fattori di
rischio e rendere il piano effettivamente
vantaggioso per gli inglesi,
in termini di risultati ottenibili
a fronte dei possibili danni,
Nelson decise allora di svolgere
l’avvicinamento iniziale, fino al
contatto con l’avversario, alla
massima velocità. Ciò permetteva
di minimizzare sia il tempo di
esposizione di ogni nave inglese
al fuoco nemico, sia le perdite di
navi e uomini (Risk Reduction).
Nel preparare il suo piano di
battaglia e nel Risk Assessment,
Nelson tenne largamente in conto
le capacità di combattimento
della flotta avversaria; infatti egli
basò la sua tattica sul principio
del “rischio calcolato”, convinto
di poter contare sui migliori equipaggi
del tempo e su un’incomparabile
compattezza del corpo
ufficiali, da lui definito “band of
brothers” 14 .
Elemento rilevante fu la capacità
degli inglesi di sparare da
ogni cannone un colpo al minuto
(quindi in 60 secondi un vascello
da 100 cannoni riversava sul
bersaglio 50 colpi dal suo fianco
impegnato), mentre francesi
e spagnoli sparavano con tempi
almeno doppi se non tripli. Ciò
compensava in parte le carenze di
personale che lamentavano alcu-
13 Alberto Santoni, Storia e politica navale dell’età moderna (VI – XIX secolo), Roma, Ufficio Storico della Marina Militare, 1998, p. 102. La base di Gibilterra fu strappata agli
spagnoli il 4 agosto 1704 da un reparto di fanti di Marina, poi denominati Royal Marines. In questo modo la Gran Bretagna, procurandosi un gran numero di basi in tutto il mondo,
anticipava l’importantissimo principio di disporre di adeguati supporti logistici ovunque, condizione necessaria per mantenere a lungo la presenza delle proprie navi anche in aree
molto distanti dalla madrepatria. Tale principio si è ulteriormente sviluppato nel corso della storia e oggigiorno si è estremizzato con la capacità di Sea Basing, contemplata nel
nuovo CONCETTO STRATEGICO DELLA US NAVY, denominato SEA POWER 21.
14 Alberto Santoni, Storia e politica navale dell’età moderna (VI – XIX secolo), Roma, Ufficio Storico della Marina Militare, 1998, p. 213. Gli ufficiali erano coscienti di ciò che voleva
il loro capo e si erano da tempo adeguati al suo favorito ed aggressivo monito: “Nessun comandante sbaglierà se porterà il proprio vascello al fianco di un vascello nemico”.
15 Alberto Santoni, Storia e politica navale dell’età moderna (VI – XIX secolo), Roma, Ufficio Storico della Marina Militare, 1998, p. 78. Queste carenze avrebbero rappresentato
una seria limitazione per Nelson, se gli inglesi avessero dovuto armare le batterie di ambo i lati dei vascelli. Solitamente un veliero era impegnato in battaglia su un solo lato, ma
se esso si trovava circondato poteva essere costretto a sparare da ambo le murate e dover trasferire parte dei suoi cannonieri anche sulle batterie del lato opposto, poiché il numero
complessivo di costoro, già normalmente, non copriva mai le necessità di tutte le artiglierie di entrambe le fiancate. La riduzione del numero di serventi presso ciascun cannone
determinava fatalmente una diminuzione della celerità di tiro.

OSSERVATORIO
ne navi inglesi, armate solo con i
due terzi della forza tabellare 15 .
Va comunque detto che, se il
supporto fornito dalla base di Gibilterra
giocò un ruolo importante
per raggiungere tale risultato,
vincolò però l’ammiraglio inglese
a formare solo due colonne d’attacco,
invece delle tre previste dal
piano originale, e determinò, all’atto
della battaglia, l’inferiorità
numerica dei vascelli, poiché sei
di loro erano a rifornirsi di viveri.
All’indebolimento della Marina
francese, soprattutto nei quadri
di comando, contribuì anche
la rivoluzione francese, poiché i
più anziani ed esperti ammiragli
d’origine nobile furono costretti
all’esilio e furono rimpiazzati da
giovani ufficiali, frettolosamente
promossi ai più alti gradi più sulla
base della loro fedeltà alla repubblica
e che della loro competenza
professionale; questa in ogni caso
non poteva essere eccelsa, tenendo
conto della loro scarsissima
esperienza di comando.
Quindi Nelson, certo dell’inferiorità
qualitativa degli equipaggi
franco-spagnoli nelle manovre in
mare e nell’azione di fuoco, diede
per scontato (Assumption)
che Villeneuve, se fosse riuscito a
forzare il blocco navale britannico
e fosse venuto a contatto con
la flotta inglese per ingaggiare
la battaglia, avrebbe adottato la
classica linea di fila, riponendo le
speranze di vittoria nella superiorità
numerica dei propri cannoni.
Pertanto gli equipaggi inglesi,
consci di tutto ciò, affrontarono
la battaglia col morale molto alto
e forte motivazione.
Le probabilità di successo erano
dunque elevate, se le navi di
testa delle due colonne d’attacco
inglesi avessero retto fino all’impatto
iniziale; gli eventi si svolsero
proprio come aveva previsto
Nelson nel suo piano di battaglia:
- il centro di Villeneuve do-
vette sopportare il concentramento
britannico;
- le navi della retroguardia
franco-spagnola furono affrontate
e sconfitte ad una
ad una dalle navi della colonna
di Collingwood;
- l’avanguardia dell’ammiraglio
Dumanoir, grazie alla
brillante manovra d’inganno
compiuta dalla colonna
di Nelson, invertì tardivamente
la rotta e giunse sul
luogo della mischia centrale
a battaglia pressoché
conclusa.
Tutto questo senza che Villeneuve,
o i suoi collaboratori, avessero
saputo escogitare un piano
di risposta adeguato che potesse
perlomeno contenere le perdite.
In realtà Villeneuve sospettava
fortemente una manovra completamente
fuori dai canoni da parte
del suo avversario; egli però pensava
erroneamente che Nelson
avrebbe tentato di accerchiare la
flotta franco-spagnola. Rimase
quindi molto sorpreso quando
capì che Nelson avrebbe tentato
di isolare il centro della sua linea
di fila e per questo motivo attese
l’ultimo momento per ordinare
all’ammiraglio Gravina, che si
11
trovava in coda alla formazione
con i vascelli di rinforzo, di posizionarsi
nel minor tempo possibile
in supporto del centro, ma
ormai era troppo tardi.
A tal riguardo, un altro fattore,
che contribuì pesantemente alla
vittoria inglese, fu proprio la modesta
intensità del vento durante
la battaglia; infatti, sia la squadra
d’osservazione di Gravina,
sia quella dell’avanguardia di Dumanoir,
con tutte le vele aperte,
potevano procedere a 3-4 nodi,
velocità che non consentì loro di
raggiungere in tempo il centro
della linea di fila franco-spagnola
e supportarlo adeguatamente.
D’altronde, l’inversione di rotta,
ordinata da Villeneuve prima
di Gibilterra aveva già annullato
l’utilità della squadra d’osservazione
di Gravina, poiché la lentezza
dei suoi vascelli, che dopo l’inversione
si erano trovati in coda,
determinò un varco eccessivo con
la restante linea di fila, difficilmente
colmabile in poco tempo, a
causa del vento debole. Pertanto
a nulla valse costituire la squadra
d’osservazione e rinforzo.
Inoltre, la presenza in mare di
Horatio Nelson come suo avversario,
al comando della flotta più

OSSERVATORIO
potente dell’epoca, condizionò
non solo le decisioni, ma anche
la capacità di reazione dell’ammiraglio
francese. Ciò è confermato
dal fatto che il commodoro Churruca,
comandante del San Juan
Nepomuceno, avendo percepito
che l’intento di Nelson era quello
di isolare l’avanguardia nemica
e di escluderla dalla battaglia,
si aspettava che Villeneuve ordinasse
alle navi dell’avanguardia
una contemporanea inversione
di rotta, per contrastare l’azione
britannica; ma vedendo che Villeneuve
non reagì, lasciando le navi
senza un piano preciso, capì che
tutto era perduto 16 .
In ultima analisi la genialità,
la determinazione e il coraggio
di Nelson portarono la flotta di
Villeneuve al Culminating Point,
rappresentato dalla perdita della
superiorità quantitativa locale dei
vascelli e del fuoco e, di conseguenza,
non avendo l’ammiraglio
francese un piano alternativo, all’incapacità
di contrastare gli inglesi
adeguatamente.
FATTORI DI POTENZA E
CONDIZIONI DI VULNE-
RABILITA’ DELLA FLOTTA
BRITANNICA
I fattori di potenza della flotta
britannica, risultanti dall’analisi
condotta, possono essere così
riassunti:
- l’iniziativa, che Nelson riuscì
sempre a mantenere e che
gli permise di decidere come,
dove e quando condurre la battaglia;
- la genialità e la determinazione
di Nelson, che portò in campo
un piano innovativo e relativamente
semplice, ma estremamente
efficace;
- la volontà di combattere degli
equipaggi inglesi, il cui ottimo
addestramento, l’elevato morale
e la compattezza permisero
di ridurre al minimo le comunicazioni
necessarie durante la
battaglia e di condurre rapidamente
l’azione;
- la sorpresa che ebbero Villeneuve
ed i suoi subordinati, quando
compresero, ormai troppo
tardi, il piano di Nelson;
- la manovra di Nelson che permise
alla flotta inglese, tramite
la penetrazione a “pettine” a
danno della navi franco-spagnole,
di ottenere la superiorità
locale del fuoco;
- il supporto logistico, fornito
dalla base navale di Gibilterra,
che garantì i rifornimenti delle
navi inglesi e permise di mantenere
a lungo il blocco navale
di Cadice.
Le condizioni di vulnerabilità più
evidenti, invece, furono:
- il numero inferiore di vascelli e
cannoni, oltre a carenze numeriche
di personale;
- l’esposizione delle prime navi
delle due colonne d’attacco inglesi
al fuoco concentrato del
nemico, senza possibilità di
reazione, per quasi mezz’ora.
FATTORI DI POTENZA E
CONDIZIONI DI VULNE-
RABILITA’ DELLA FLOTTA
FRANCO-SPAGNOLA
I fattori di potenza della flotta
franco-spagnola furono:
- la superiorità numerica totale
dei vascelli e dei cannoni;
- la superiorità qualitativa delle
costruzioni navali francesi.
Le condizioni di vulnerabilità, invece,
furono:
- l’addestramento degli equipaggi,
che, sebbene numericamente
adeguati alle necessità belliche,
16 Nicholas Tracy, Nelson’s battles – The Art of Victory in the Age of Sail, Londra, Chatha¬m Publishing, 1996, p. 181.
12
non poterono mai considerarsi
equivalenti a quelli inglesi per
motivazione ed addestramento;
- la mancanza, durante le fasi della
battaglia, del comando, coordinamento
e controllo da parte
di Villeneuve sulle sue navi;
- le errate valutazioni e la mancanza
di determinazione e di
iniziativa da parte di Villeneuve,
che causarono lo sfaldamento
della propria linea di fila e
l’incapacità di reagire all’attacco
inglese;
- la completa assenza di un piano,
da contrapporre a quello di Nelson,
che permise all’ammiraglio
inglese di mantenere l’iniziativa;
- il ritardo d’intervento dell’avanguardia
e della squadra di rinforzo
franco-spagnola.
CONSIDERAZIONI
Per capire il motivo che determinò
la sconfitta dei francesi
e degli spagnoli, si deve considerare
il fatto che in guerra gli
uomini, ed in particolare gli ufficiali
e i comandanti, valgono più
di qualsiasi altro mezzo o organizzazione.
In altre parole, per
quanto importante sia la tattica
in mare, all’epoca della vela come
oggi, oltre alla superiorità numerica
e alla qualità dei mezzi, sono
senza dubbio la determinazione,
la motivazione e l’iniziativa degli
uomini a decidere le sorti della
battaglia. Infatti, la tendenza dell’ammiraglio
Villeneuve a tenersi
costantemente sulla difensiva, ad
evitare lo scontro, anziché tentare
di affondare le navi nemiche,
annullò completamente i fattori
di potenza della flotta francese.
In altre parole, sintetizzando il
pensiero di Nelson col Mahan, “Il
principio fondamentale di tutta
la guerra navale è che la difesa è

OSSERVATORIO
assicurata solo dall’offesa 17 ” .
Si può quindi affermare che
i fattori principali, che determinarono
il successo del piano di
Nelson, siano stati la determinazione,
la compattezza ed il morale
degli equipaggi inglesi, oltre
alla loro superiorità qualitativa
nel combattimento e alla geniale
linea d’azione dell’ammiraglio
inglese, che, rivoluzionando le
Fighting Instructions, permise
di ottenere anche la superiorità
locale del fuoco.
D’altra parte, l’incapacità di
apprezzamento della situazione,
la scarsa iniziativa e reattività di
Villeneuve, oltre alla mancanza di
un piano per contrastare l’azione
inglese, furono probabilmente
le cause principali di sconfitta
della flotta franco-spagnola. Se
infatti Villeneuve avesse avuto
una linea d’azione alternativa e
avesse manovrato per tempo la
propria avanguardia, il centro e
la retroguardia, in modo da contrapporli
in linea di fila alle due
colonne inglesi (o addirittura
raddoppiando, dove era possibile,
le proprie navi per ogni nave
inglese), probabilmente avrebbe
portato la flotta di Nelson al
Culminating Point, rappresentato
dall’impossibilità di compiere
la manovra di penetrazione “a
pettine” e di avere la superiorità
locale di fuoco.
Bisogna, però, anche considerare
il fatto che Nelson poteva
rischiare perché, in ogni caso, la
sua flotta non era l’unica flotta
della Marina britannica; in altre
parole se Nelson avesse perso
a Trafalgar, un’altra flotta era
pronta a difendere la Manica. La
sconfitta di Villeneuve, invece,
avrebbe significato, e significò,
la fine delle possibilità d’invasione
delle Isole Britanniche da
parte della Francia, e Villeneuve
sentiva fortemente questa re-
17 Roberto Domini, Cenni di Geopolitica, Geostrategia e Geoeconomia, Venezia, ISMM, agosto 2003, p. 22.
BIBLIOGRAFIA
13
sponsabilità. I risultati delle battaglie
navali convinsero dunque
i francesi che non avrebbero mai
potuto sconfiggere gli inglesi in
mare, con scontri diretti fra le
flotte. Questa convinzione scaturì
anche dalla consapevolezza
che la Gran Bretagna si stava trasformando
in una potenza economica,
grazie principalmente
alla rivoluzione industriale e ad
un ottimo sistema bancario, che
le permise di dedicare ingenti risorse
alla Marina, migliorando le
costruzioni navali e mantenendo
operative più flotte. La Gran
Bretagna poté quindi dominare
i mari, proteggendo la madrepatria
e controllando le vie di
comunicazione. D’altronde la
ricchezza di uno Stato è, ancora
oggi, uno dei principali fattori di
potenza, che permette di avere
uno strumento navale moderno
ed efficiente.
LIBRI:
Alberto Santoni, Storia e politica navale dell’età moderna (XV – XIX secolo), Roma, Ufficio Storico della Marina Militare,
1998;
Alberto Santoni, Da Lepanto ad Hampton Roads – Storia e politica navale dell’età moderna (secoli XVI - XIX), Biblioteca del
Mare – La guerra sui mari, Ugo Mursia Editore, 1990;
Nicholas Tracy, Nelson’s battles – The Art of Victory in the Age of Sail, Londra, Chatham Publishing, 1996;
Terry Coleman, Nelson – L’uomo che sconfisse Napoleone, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2003;
PUBBLICAZIONI:
Antonio Flamigni, Evoluzione del Potere Marittimo nella Storia, Venezia, ISMM, agosto 2003;
Roberto Domini, Cenni di Geopolitica, Geostrategia e Geoeconomia, Venezia, ISMM, agosto 2003.
MANUALI:
ISMM, Il processo di pianificazione operativa – Manuale ad uso dei frequentatori dei corsi normali di Stato Maggiore, Venezia,
luglio 2003.
SITI INTERNET:
Giampiero Ricci, La battaglia di Trafalgar, www.navievelieri.it, 24 mag. 2005;
Ennio Dalmaggioni, Battaglia di Trafalgar, www.cronologia.it, 24 mag. 2005;
AA.VV., La battaglia di Trafalgar, www.masterclass.it, 24 mag. 2005;
Giampiero Ricci, H.M.S. Victory – Un po’ di storia, www.navievelieri.it, 24 mag. 2005;
Roberto Bignami, Victory – Un po’ di storia, www.modellismo-navale.it, 24 mag. 2005;
Roberto Sironi, Her Majesty Ship Victory, www.csveduggio.it, 24 mag. 2005;
Rutilio, Biografia di Nelson, www.unarosadoro.com, 24 mag. 2005.

IL TOTAL QUALITY
MANAGEMENT
A P P L I C AT O A L C O R S O N O R M A L E
D I S TAT O M A G G I O R E
Considerazioni ed applicabilità
14

OSSERVATORIO
Capitano di Corvetta
Riccardo MARCHIO’
INTRODUZIONE
Già da qualche anno ormai assistiamo
ad una progressiva trasformazione
della scuola pubblica che
si svincola dalle azioni centralizzate
a livello ministeriale, acquistando
sempre maggiore autonomia funzionale
e gestionale. La sfida che
la scuola deve affrontare è quella
di differenziare ed arricchire l’offerta
formativa, in rapporto ai bisogni
diversificati ed evoluti, non più di
fornire istruzione di massa. Il processo
di rafforzamento dell’autonomia
scolastica ha portato con sé la
cultura della qualità del servizio e
con esso la riconsiderazione della
funzione del ruolo dei dirigenti, dei
docenti e degli operatori scolastici.
Emerge chiaramente che il raggiungimento
di livelli qualitativi elevati,
si rende possibile solo attraverso
la collaborazione di tutte le parti
interessate. Numerose sono le iniziative
in corso presso le Università
e gli Istituti scolastici di ogni ordine
e grado, pubblici e non, che dimostrano
che il sistema di gestione
per la qualità è soprattutto efficace
se s’impone una serie di controlli a
diversi livelli, sia con misurazioni di
tipo quantitativo sia di tipo qualitativo,
con un riesame periodico.
Analogamente, nell’ottobre del
2001, l’istituto di Studi Militari Marittimi
e l’Università ”Ca’ Foscari”
di Venezia hanno congiuntamente
effettuato uno studio di applicabilità
di Total Quality Management (TQM)
alla Marina Militare Italiana. In particolare,
una parte della ricerca, è
stata condotta sul processo forma-
tivo degli Allievi della Scuola Navale
Francesco Morosini; lo studio è stato
mirato all’analisi della percezione,
da parte degli allievi, della qualità
del servizio offerto dalla scuola.
Lo scopo di questa ricerca è
stato, invece, quello di verificare le
condizioni d’applicabilità del TQM al
processo “Corso Normale di stato
Maggiore”; in particolare, lo studio
ha i seguenti obiettivi:
• il monitoraggio sulla soddisfazione
del Cliente, ossia
l’individuazione e l’interpretazione
delle attese del
frequentatore, inteso anche
come livello di valore culturale
che il Cliente ricerca nell’Ente
di Formazione;
• il miglioramento continuo,
ossia la ricerca delle cause
di un problema e l’individuazione
di possibili soluzioni,
nella gestione dei processi
per il raggiungi-mento della
soddisfazione del Cliente.
I PRINCIPI DEL TQM
APPLICATI ALL’ISMM
Le fonti normative da cui discende
l’operato dell’ISMM sono costituite
dal “Regolamento”, approvato in
via definitiva dal Ministro della Difesa
il 31 marzo 2003, e dalle “disposizioni
attuative” discendenti dallo
stesso. Secondo quanto previsto
dal citato regolamento, la missione
affidata all’ISMM è di far acquisire
ai frequentatori, attraverso il Corso
Normale di SM, la capacità di contribuire
all’ideazione, alla pianificazione
e alla conduzione, secondo il
corpo d’appartenenza, delle attività
di Stato Maggiore relative a Coman-
15
di Navali complessi e ad organismi
militari marittimi centrali e periferici,
nazionali, esteri ed internazionali e
delle capacità necessarie per l’esercizio
di funzioni direttive complesse.
Il Corso Normale di Stato Maggiore
ha un’impronta essenzialmente formativa
ed è impostato sul criterio
dell’approfondimento progressivo
delle materie trattate attraverso
un’attività consistente in (tra parentesi
le percentuali di massima):
• insegnamento diretto a cura
del personale docente dell’Istituto
(25%);
• conferenze integrative e
d’approfondimento tenute da
personalità di spicco sia del
mondo militare , sia di quello
accademico e culturale
(15%);
• esercitazioni pratiche, individuali
e di gruppo, consistenti
nella redazione di documenti
e nella presentazione in pubblico
del risultato del lavoro
d’analisi (30%);
• visite presso Comandi ed
Enti delle altre FFAA e presso
realtà industriali e aziendali di
rilievo (8%);
• partecipazioni a Seminari e
Giornate di Studio organizzate
presso l’Istituto su tematiche
d’interesse (2%).
Il Corso Normale di SM è obbligatorio
per tutti gli ufficiali appartenenti
al Ruolo Normale dei Corpi
della Marina, nel grado di Tenente
di Vascello (post-Comando per lo
SM) o Capitano di Corvetta. A loro
possono essere aggregati ufficiali
del Ruolo Speciale, Funzionari civili
dell’Amministrazione Difesa, Ufficiali
di altre FFAA e ufficiali appartenenti
a Marine estere.

OSSERVATORIO
Definizione di cliente
La convergenza tra, la soddisfazione
dei bisogni del cliente e un
processo di produzione efficiente
ed economico, chiarisce questa definizione
di qualità in cui la coerenza
e la conformità allo scopo per cui il
servizio è stato creato restano un
elemento centrale. Tuttavia, a chi
compete allora la messa in discussione
degli scopi e delle finalità di
un’istituzione formativa?
Se pure il meccanismo di miglioramento
continuo della struttura
che si vuole attivare non può non
tenere conto del “cliente interno”
del servizio (l’insegnante) che è
coinvolto in prima persona in ogni
fase del processo di TQM, tuttavia
tale approccio sembra lasciare in
ombra aspetti relativi alla qualità intrinseca
della situazione educativa.
L’accento sulla qualità centrata sul
cliente soprattutto “esterno” è inteso
come un approccio “rivoluzionario”,
che introduce in un contesto troppo
spesso centrato su se stesso nuove
concezioni del successo formativo.
Stabiliamo chi sono i clienti del
Corso Normale di Stato Maggiore
all’ISMM:
Cliente Esterno
• il frequentatore;
• la società o l’organizzazione.
Cliente Interno
• il personale direttivo;
• il personale docente e didattico
in genere;
• il personale di segreteria ed
amministrativo;
• gli esperti e i professionisti
chiamati dall’esterno;
• gli organismi diversi che offrono
servizi, come riscaldamento,
telefonia, manutenzione e
riparazione, sicurezza, pulizia
e lavanderia, rifiuti ordinari e
speciali, sussidi, strumenti
e materiali didattici, polizze
assicurative, viaggi di studio,
comunicazione e pubbliche
relazioni, ecc.
Strategie applicate: il KAIZEN
Il Daily Routine Work (DRW) costituisce
uno strumento gestionale
che mira al mantenimento delle prestazioni
ma anche al miglioramento,
per piccoli passi e a tutti i livelli
(Kaizen) della struttura aziendale,
attraverso un sistema giornaliero
di controllo e di standardizzazione
delle procedure che permettano di
“fare le cose giuste la prima volta”.
Il Kaizen interessa tutto il personale
e per questo richiede un forte
coinvolgimento umano; si produce
principalmente per fattori endogeni
(interni all’organizzazione).
Metodologie e strumenti operativi
del miglioramento continuo
Relazione causa-effetto
I diagrammi causa-effetto furono
messi a punto in Giappone da
Kauru IshiKawa nel 1943 e sono
gli strumenti più impiegati per la soluzione
di problemi di qualità nelle
aziende.
Questo strumento è utilizzato
per individuare le cause di un problema
mediante il coinvolgimento di
tutti gli operatori direttamente interessati
e permette di visualizzare in
modo semplice l’insieme delle cause
potenziali di un qualsiasi effetto
16
osservato. La visualizzazione dei
dati, in un solo diagramma, aiuta a
studiare le relazioni esistenti tra un
effetto e le cause presunte raggruppate
per famiglia.
Partendo dal presupposto che
per ogni effetto esistono una molteplicità
di cause, questo strumento
consiste nell’enumerare quante più
possibili cause ritenute collegate
ad un determinato effetto oggetto
di analisi. Attraverso un “facilitatore”
(figura specifica che conduce il
lavoro), con la tecnica di brainstorming,
sono selezionate le cause
sulla base dell’importanza che si
vuole loro dare nel collegamento
con quel dato effetto.
Una volta definite le cause più
importanti si chiede agli operatori
di formulare delle ipotesi o contromisure
che riducano le cause considerate
. Lo strumento serve anche
per motivare e responsabilizzare gli
operatori e dare al gruppo uno strumento
che possa aiutare a risolvere
i problemi quotidiani in maniera organizzata
e sistemica. Il problema è
“l’effetto” e viene scritto in un rettangolo
sulla destra, “le cause” sono
scritte nello spazio bianco verso
sinistra.
Diagramma polare
Permette di visualizzare su un
solo diagramma un insieme di parametri
che definiscono le varie
dimensioni dell’oggetto in esame.
Evidenzia in modo contemporaneo
tutti i vari parametri studiati e rappresenta
la situazione di insieme.
È anche possibile valutare l’evoluzione
dei parametri nel tempo introducendo
nel grafico la situazione
passata e presente.

OSSERVATORIO
Diagramma di dispersione
(Correlazione fra componenti)
Permette di evidenziare la relazione
esistente fra due variabili
misurabili. La relazione può essere
misurata, ma non necessariamente
è prova di un legame di causa ed
effetto tra le due variabili in esame,
essa indica soltanto l’esistenza di
una relazione più o meno forte fra le
loro. Può essere utilizzata per evidenziare
e rappresentare due importanti
informazioni sulle variabili
in esame: l’andamento della relazione
(direzione e inclinazione della
retta risultante) e il grado di relazione
rappresentato dalla dispersione
dei punti (“dimensioni della nuvola”).
Per realizzare il diagramma è
necessario avere due coppie di dati
misurabili per ogni campione.
GLI STRUMENTI DI ANALISI
TQM ALL’ISMM
Una scelta motivata
Analizzare i problemi in modo
che essi possano essere compiutamente
ma anche tempestivamente
compresi, risulta particolarmente
importante per un’organizzazione
sia da un punto di vista analitico che
gestionale.
Imparare dai propri sbagli è sicuramente
la base per sviluppare
organizzazioni migliori e di qualità;
prima di tutto è necessario riuscire
e percepire e comprendere i propri
errori, i problemi che essi generano,
le cause che realmente li sostengono
e le possibili soluzioni da attuare.
La minimizzazione dell’errore
risulta tanto più efficace ed oppor-
tuna quanto basata su un’analisi
della realtà che utilizza strumenti
in grado di cogliere e sintetizzare i
problemi; in questo modo è possibile
una riduzione della complessità
e contemporaneamente una focalizzazione
della nostra attenzione
sulle cose che effettivamente sono
in grado di condizionare il sistema
se non opportunamente affrontate.
Molto spesso i “clienti frequentatori”
avvertono “sintomi” negativi dell’organizzazione,
ma a volte risulta
difficile definire precisamente un
problema sia nelle sue caratteristiche
sia nelle sue dimensioni. Di seguito
vengono presentati e descritti
gli strumenti che sono stati utilizzati
per questa ricerca.
Un nuovo database elettronico
per l’ISMM
Dal XXVI corso in poi, in ambito
ISMM, ai frequentatori è stato
richiesto di compilare un questionario
di fine corso allo scopo di collezionare
elementi di valutazione e
spunti di riflessione per un continuo
miglioramento del Corso Normale.
Detti questionari, compilati a mano
dai frequentatori, vengono alla fine
di ogni corso valutati, raccolti e catalogati;
questa procedura semplice
consente però, solo un’analisi
parziale del campione raccolto per
il corso stesso. Altri approcci utilizzano,
invece, dei sistemi più strutturati
e logici ma soprattutto strumenti
matematici o statistici in grado di
poter ben “rappresentare” la realtà.
La rappresentazione grafica e
concettuale del problema, dei fattori
determinanti, delle loro relazioni,
degli effetti quantificati, è di fondamentale
importanza nel lavoro in
17
team, dove la condivisione dell’analisi
e delle soluzioni proposte diventa
vitale per operare, far funzionare
e migliorare l’organizzazione.
In questa ottica e per dare così
un carattere analitico alla ricerca (ed
in generale fornire uno strumento di
analisi TQM all’ISMM), si è ritenuto
opportuno creare un database elettronico
in cui sono state trasferite
tutte le valutazioni e considerazioni
dei frequentatori così come riportate
su carta (nei questionari di fine
corso) dal 2001 (dal XXVI corso al
XXXVII).
Allo scopo di rendere la ricerca
flessibile, modificabile e perfezionabile
in futuro, si è costruito il database
elettronico con un semplice
foglio elettronico in Microsoft Excel;
questo foglio di lavoro potrà essere
aggiornato tramite dei collegamenti
automatici ad un nuovo Questionario
di fine corso (in formato Excel)
che i frequentatori potranno compilare
direttamente in rete. Il database
elettronico ad oggi è stato popolato
con 3450 punti di valutazione dei
singoli frequentatori dei corsi precedenti,
in base a parametri riferiti al
corso di appartenenza, alla categoria
ed al grado rivestito.
La struttura del foglio di lavoro
consente un aggiornamento automatico
e la visualizzazione dei grafici
e tabelle in tempo reale.
Il questionario di fine corso
elettronico
Il questionario di fine corso è uno
strumento indispensabile per raccogliere
i dati da elaborare e, poter
eseguire un’analisi delle cause reali
di un problema. Il foglio è normalmente
utilizzato per la raccolta delle

OSSERVATORIO
informazioni necessarie a misurare
l’efficacia della soluzione messa in
opera.
Lo scopo di questo strumento è
di semplificare la raccolta delle informazioni
e consentire l’immediata
aggregazione dei dati, rendendoli
pronti per successive elaborazioni.
Il foglio di raccolta dati è una tabella
sulla quale sono segnati dati
qualitativi e/o quantitativi. Come
indicato nella Monografia del Corso
Normale, lo scopo del Questionario
è di raccogliere i pareri dei Frequentatori
sul Corso appena passato, al
fine di disporre del maggior numero
possibile di elementi per impostare
il Corso successivo, nell’ottica di un
miglioramento continuo dell’offerta
formativa.
Per un adeguato monitoraggio
sulla soddisfazione del Cliente, ossia
l’individuazione e l’interpretazione
delle attese del frequentatore,
sono stati analizzati in particolare i
seguenti aspetti:
• Contenuti
• Metodologia didattica impiegata
• Ausili didattici impiegati
• Aggiornamento programmi
• Efficacia complessiva
• Tempo a disposizione per lo
sviluppo della didattica
• Tempo a disposizione per lo
studio
• Tempo a disposizione per attività
pratiche (esercizi, seminari,
ecc.)
• Livello delle Conferenze e dei
Conferenzieri
• Utilità del viaggio di istruzione
Il frequentatore ha la possibilità
di esprimere il grado di soddisfazione
in percentuale (da 25% minimo
a 100% massimo) per ognuno delle
dieci componenti; la media delle
percentuali porta alla valutazione
globale che il frequentatore ha del
processo di formazione del Corso
Normale di Stato Maggiore.
Definizioni
• Gradimento Percepito Specifico
(GPS): la percentuale
di gradimento del cliente frequentatore
per ogni singola
componente di valutazione
del questionario.
• Gradimento Medio Percepito
(GMP): la media pondera-
Figura 1
ta delle dieci GPS, fornisce
quella che noi definiamo indice
di Gradimento Medio Percepito
del processo da parte
del singolo frequentatore.
• ERRORE: come applicazione
di TQM al corso è stato utilizzato
lo strumento Relazione
causa-effetto; in quest’ottica
si definisce ERRORE (o problema
da minimizzare) ciò
che segue:
GMA
ERRORE = 1 - ( )
18
GMP
dove er GMA s’intende l’indice di
soddisfazione atteso dal cliente frequentatore,
che mediamente corrisponde
al 100%. In figura 1 è rappresentato
il diagramma Relazione
causa-effetto:
ANALISI DEI RISULTATI
OTTENUTI
La misurazione e la valutazione
delle informazioni disponibili, il conseguente
apprezzamento e la continua
sollecitazione alla qualità sono
elementi imprescindibili del TQM. E’
in quest’ottica che, una volta raccolti
tutti i dati, sono stati analizzati per
cercare di individuare le cause che
più influenzano il problema (ERRO-
RE) o le caratteristiche chiavi di una
data situazione.
Nei paragrafi successivi sono
forniti degli elementi d’interpretazione
scaturiti dall’analisi dei dati memorizzati
nel database elettronico.
Grado di correlazione tra le variabili
in gioco
In linea generale si è constatato
un elevato grado di correlazione positiva
fra le variabili che definiscono

Figura 2
OSSERVATORIO
gli elementi del campione analizzato. In particolare come evidenziato in figura
2, in questa ricerca è stato analizzato il grado di “somiglianza o correlazione”
tra il campione (descritto e definito dalle variabili/componenti del questionario)
di frequentatori del corpo di Stato Maggiore (SM) e di quello di altri corpi.
Figura 3
Gradimento Medio Percepito dal frequentatore per corsi
19
Un possibile sviluppo/proseguo
della ricerca potrebbe essere quello
di analizzare il grado di correlazione
esistente fra campioni descritti da
tutte le possibili combinazioni delle
variabili misurabili che concorrono
alla descrizione delle cause dell’errore.
GMP in funzione del grado
e corpo di appartenenza del
cliente frequentatore
Analizzando il grafico in figura 3
che indica la soddisfazione generale
per corsi, si evince come l’indice
GMP (dal XXVI fino all’ultimo corso
XXXVII) sia quasi sempre cresciuto
nel corso degli anni; il trend di crescita,
peraltro, negli ultimi corsi, è
rallentato assestandosi ad un valore
del 78%.
In generale, comunque, si è constatata
una derivata positiva nella linea
di tendenza del gradimento percepito
dal frequentatore che, tende
ad una continua “minimizzazione”
dell’ERRORE per come lo abbiamo
concepito. Questa informazione
rende merito all’organizzazione che
ha dimostrato in questo settore una
crescente attenzione all’applicazione
dei principi TQM.
In realtà, i dati a disposizione ci
consentono di supporre che esista
un legame ed un certo grado di correlazione
tra il GMP/GPS, la tipologia
di cliente frequentatore (Corpo,
Grado) e la composizione del corso
in termini quantitativi (vale a dire il
numero di frequentatori) e qualitativi
(esperienze professionali dei frequentatori).
Vediamo nel dettaglio,
quali sono gli elementi significativi:

OSSERVATORIO
Funzione del GRADO
Come indicato nel grafico in figura
4 che indica la soddisfazione
generale per gradi, il GMP risulta
crescente dai gradi più bassi verso
Figura 4
Figura 5
i più alti (da Tenente di Vascello a
Capitano di Fregata); i dati suggeriscono
che gli Ufficiali più anziani
sono mediamente più soddisfatti
dei colleghi più giovani.
Gradimento Medio Percepito dal frequentatore per gradi
Gradimento Medio Percepito dal frequentatore per corpo
20
Funzione del CORPO
Nel grafico in figura 5 relativo
all’indice di soddisfazione generale
per corpi, si evince chiaramente
come il GMP per i frequentatori
appartenenti ai corpi di SM,
AN (Armi Navali) e GN (Genio
Navale) si attesta intorno al 69%,
mentre, aumenta per il corpo dei
CM (Commissariato), CP (Capitaneria
di Corpo), SAN (Sanitario)
e per i frequentatori stranieri; per
il primo gruppo, una possibile interpretazione
della convergenza
di gradimento potrebbe essere
ricondotta alla medesima esperienza
acquisita in Accademia
Navale come frequentatori dei
Corsi Normali.
Funzione della composizione
del corso
Si è verificato verificato come,
la composizione di un corso in
funzione del corpo di appartenenza,
il grado e la numerosità, possa
condizionare il GMP. In generale,
si può osservare nel grafico in figura
6, riportante il numero di frequentatori,
che in punti di flessioni
di MINIMO di GMP corrispondono
flessioni di MASSIMO del numero
di frequentatori e viceversa; quindi
come era lecito aspettarsi, la
curva del numero dei frequentatori
per corso sembra, nei suoi punti
di flessione, influenzare il GMP.
E’ interessante evidenziare come
il GPS del tempo a disposizione
per lo sviluppo della didattica risulti
condizionato dal numero di
frequentatori di ogni corso.

OSSERVATORIO
GPS delle singole
componenti in
funzione di grado e
corpo
Si è analizzato in
dettaglio il GPS delle
singole componenti cercando
di capire come
l’Indice possa essere influenzato
in funzione del
Corpo grado del cliente
frequentatore od eventualmente
dalla composizione
del corso in
termini di percentuale di
frequentatori di un certo
corpo o grado.
Guardando il grafico
dell’indice di soddisfazione
specifico per
Corpo in figura 7, è
opportuno focalizzare l’attenzione
sulle componenti per cui le curve
si discostano molto l’una dall’altra
(nell’ordine del 10%).
In questo caso si possono indagare
le componenti Metodologia didattica,
Tempo a disposizione per lo
Studio e il Livello delle Conferenze
Figura 7
21
Figura 6
e dei Conferenzieri come elementi
di interesse per un eventuale approfondimento.

OSSERVATORIO
Metodologia
didattica impiegata
Per questa componente,
come appare in figura 8, oltre
a presentarsi un incremento
di GPS (confermando ciò che
accadeva per il GMP) con l’aumento
di grado, si osserva un
gradimento per clienti frequentatori
dei corsi di SM,GN e AN,
corrispondente ad un valore
decisamente inferiore rispetto
agli altri. La linea di tendenza
per questo GPS è positiva ma,
ciò che tranquillizza è il valore
assoluto di gradimento che si
attesta comunque sopra il GMP
generale.
Tempo a disposizione per
lo studio
Come era lecito aspettarsi,
il cliente frequentatore risulta
insoddisfatto del tempo a disposizione.
Nel grafico dell’indice di
soddisfazione specifico, come
appare in figura 9, è evidente la
somiglianza delle curve di GMP
e GPS del tempo a disposi-zione
per lo studio: questo dimostra
che il GMP è, in assoluto,
molto condizionato dal GPS del
tempo disponibile per lo studio.
Peraltro, la linea di tendenza
polinomiale per questo GPS è
molto positiva; questo potrebbe
far supporre che vi sia da
qualche corso un’attenzione
maggiore da parte dell’organizzazione
e quindi una probabile
migliore gestione e ripartizione
dei periodi di studio (per come
viene percepito dal frequentatore).
22
Figura 8
Figura 9

OSSERVATORIO
Livello delle Conferenze
e dei Conferenzieri
La particolarità di questo GPS
sta nel fatto che gli Ufficiali del corpo
Sanitario sembrano gradire più
degli altri questa fase formativa.
Va subito presa in considerazione
l’andamento della linea di
tendenza polinomiale dell’indice
di soddisfazione specifico relativo
dove, dal XXXV corso in poi, risulta
una diminuzione preoccupante del
GPS.
Questo dato, soprattutto riferito
agli ultimi mesi, non mette in discussione
in assoluto lo spessore
qualitativo dei conferenzieri o il contenuto
delle conferenze stesse (per
questa componente, infatti, rimane
rispetto alla media, un alto indice
di gradimento), ma potrebbe significare
una tendenza nella scelta dei
conferenzieri verso uno standard
relativamente più basso rispetto agli
anni scorsi.
Figura 11
23
Elementi da presidiare
Le valutazioni fatte fino ad ora,
non hanno la pretesa di “azzerare”
l’ERRORE così come è stato concepito.
E’ pur vero che sono emerse
delle considerazioni che potrebbero
essere un buono spunto di riflessione
per i clienti interni ed in generale
per tutta l’organizzazione.
In particolare, alla luce di questa
ricerca, mi sembra doveroso “passare
in consegna” due aspetti molto
importanti:
Tempo a disposizione
in generale
Fissatto che la durata del corso
sia prestabilita e apprezzato il trend

OSSERVATORIO
crescente di gradimento degli ultimi
mesi, rimane un dato assoluto con
valore basso, fortemente condizionante
il grado di soddisfazione generale
del corso.
Componenti dal trend negativo
Il tempo a disposizione per le
attività pratiche (esercizi seminari,
ecc) presenta dall’ultimo corso una
linea di tendenza leggermente negativa;
non si hanno elementi per
stabilirne le cause perciò si suggerisce
di monitore la componente nel
prossimo futuro. Il gradimento del
livello delle Conferenze e dei conferenzieri
invece mostra un trend negativo
decisamente preoccupante.
CONCLUSIONI E
PROPOSTE
In paesi diversi dal nostro dove
da anni si sperimentano tecniche di
TQM, di valutazione educativa attenta
al contesto formativo nel suo
complesso e ai processi educativi
attivati, recenti ricerche segnalano
i rischi impliciti in un’operazione di
“qualità totale”.
In generale, ritengo che, le
maggiori perplessità riguardo all’applicazione
del TQM a contesti
formativi siano legate all’approccio
di un continuo miglioramento organizzativo
e sistemico legato all’ab-
24
battimento della variabilità dei processi
“produttivi”. Se tale concetto
è senz’altro applicabile al mondo
dell’industria, ove il sistema di produzione
che mira allo “zero difetti”
deve combattere la variazione dei
processi, diviene difficile utilizzare
gli stessi presupposti in un contesto
formativo ove il “prodotto” sono i risultati
ottenuti dai frequentatori.
Il 13 maggio 1999 l’allora Sottocapo
di Stato Maggiore della Marina,
Ammiraglio Marcello De Donno
nel corso di una tavola rotonda
organizzata a Livorno dal titolo “La
qualità totale: il nuovo umanesimo
dell’era tecnologica”, dichiarò:

OSSERVATORIO
[…] La Marina è consapevole
delle difficoltà d’adattamento
della metodologia della Qualità
Totale, sviluppata per accrescere
la capacità e la competitività
d’aziende produttrici di
beni e servizi commerciali, al
proprio sistema ed alle tipologie
di servizi che istituzionalmente
essa fornisce. Ritengo,
tuttavia, che la filosofia alla
base del metodo corrisponda
validamente alla sua volontà di
mantenere un profilo alto, pur
in una situazione di ridotte risorse
quantitative. L’esigenza
è sentita in assoluto non solo
come garanzia di qualità professionale
all’interno della Forza
Armata, ma anche di conseguimento
di un livello standard,
equiparabile ed intercambiabile
in una situazione di crescenti
iniziative di cooperazione
interforze ed internazionali. La
qualità nella formazione è la
punta avanzata di un disegno
globale rivolto all’eccellenza,
che mi auguro possa sinteticamente
identificare l’essenza
della Marina Militare nel terzo
millennio […].
Prendo spunto dalle parole dell’Ammiraglio
De Donno, per pronunciarmi
sull’opportunità o meno
d’applicazione di TQM in ambito
ISMM. Gli spunti di riflessione, che
emergono dalla ricerca effettuata,
infatti, non devono, a parere dello
scrivente, essere considerati lo strumento
per cercare di azzerare l’ER-
RORE ad ogni costo. E’ necessario
invece, pensare a questo “potente”
strumento come l’applicazione di
una filosofia di mantenimento di un
alto profilo, pur in una situazione
di “ridotte risorse quantitative” (per
il CN: breve durata del corso). E’
auspicabile adottare i principi e gli
strumenti del TQM perché in ogni
modo ci consentono di “mirare alto”,
alzare lo standard del servizio e del
“prodotto” fornito.
La ricerca vuole essere un punto
di partenza verso un approccio
analitico-statistico che possa offrire
un valore aggiunto alla risoluzione
di problematiche; forse, quest’ultime
possono apparire scontate agli
addetti ai lavori ma, acquistano un
diverso spessore se considerate
come risultato di una analisi imparziale
e priva di condizionamenti
mentali o pregiudizi.
In definitiva, i risultati della ricerca
effettuata non fanno altro che
confermare una corretta ed implicita
25
applicazione di TQM al Corso Normale
di Stato Maggiore; si evince,
generalmente, per le aree esplorate,
una linea di tendenza positiva
sul grado di soddisfazione percepito
dai clienti frequentatori. Il tutto, peraltro,
è sicuramente giustificato dal
fatto che l’ISMM, dal 2001, effettivamente
persegue una politica d’ottimizzazione
dei processi sulla base
d’osservazioni e pareri ottenuti dai
frequentatori dei vari corsi.
Al fine di proseguire sulla strada
intrapresa, si propone di sperimentare,
sin dal prossimo corso, la
compilazione del questionario elettronico
ed in particolare si auspica
un perfezionamento del database
elettronico al fine di fornire all’ISMM
un ulteriore strumento che possa
contribuire nell’ottica del “miglioramento
continuo” al raggiungimento
dei propri obiettivi.

COMUNICARE
26

OSSERVATORIO
L’INTANGIBILE
VALORI ED EMOZIONI
Premessa
Capitano di Corvetta
Francesco CACACE
Avvicinandomi a quest’argomento mi
sono interrogato molto sul taglio da
dare alla tesi. Avendo però scartato,
a priori, le ipotesi “perbeniste”, ho
ritenuto preferibile dover sviluppare
quest’elaborato con un approccio
assertivo e propositivo, valutando
un’inaccettabile insolenza intellettuale
fornire un lavoro ridondante di concetti
stereotipati e demagogici.
Il travaglio storico dei valori
militari
Dopo la prima guerra mondiale,
il crollo degli ideali fu il terreno di
coltura per l’emergenza dei totalitarismi
nazionalistici, visti illusoriamente
come antidoto efficace alla scomparsa
del vecchio ordine. Nello “Stato etico”
creato dai vari fascismi europei, i militari
trovarono ovviamente una collocazione
centrale che comportava,
in quanto tale, ampia gratificazione
anche morale. Ciò diede vita ad una
fioritura di retorica patriottica e moralistica
che, d’altro canto, non s’indirizzava
solo al mondo militare, ma
tendeva a mettere in divisa l’intera
società. Successivamente, la fine della
seconda guerra mondiale, sotto il
profilo dell’etica militare, fu un’esperienza
traumatizzante sopratutto per
gli sconfitti, la maggior parte dei quali
(è innegabile) visse sulla propria pelle
il crollo di un mondo che credevano
ideale e su cui si erano poggiati. Ma,
a parte le reazioni psicologiche dei reduci,
sta di fatto che nei Paesi sconfitti
si è finito per accantonare il ricorso a
richiami etici in opposizione agli abusi
precedenti. Tipica può considerarsi
la situazione italiana, dove nel dopoguerra
la letteratura sull’etica militare
è in pratica scomparsa. Un caso sintomatico
è quello dell’opera di Luigi
Russo, apparsa per la prima volta nel
1916 col titolo di Vita e morale militare
– Laterza editore – riedita nel 1946
col titolo di Vita e disciplina militare.
E’ evidente quindi la volontà di abbandonare
un termine impegnativo come
“morale” desiderando liberare il discorso
dalle ipoteche di una compromettente
ideologizzazione. Il concetto
di disciplina, infatti, non impegna
in problematiche ideologiche ma appare
render conto di regole più vicine
alla deontologia professionale che ad
una più alta prospettiva etica.
In definitiva, per terminare questa
breve introduzione storica, si può affermare
che in occidente si era creata
27
una situazione paradossale, per cui da
una parte – quella dei vinti – si temeva
perfino il ricorso ad una terminologia
etica ritenuta compromettente; dall’altra
– quella dei vincitori – si riteneva
del tutto superfluo una promblematizzazione
di questo tipo.
L’autenticità come
presupposto indispensabile
Il giorno 3 febbraio 2005 si è
schiantato sulle montagne afghane
un aereo delle linee Kam Air. In questa
drammatica circostanza sono perite
104 persone tra le quali il Sig.
Bruno Vianini. Quest’uomo era un
ufficiale superiore delle Forze Armate
che ha indossato l’uniforme della
Marina Militare per oltre ventidue
anni. Nella sua carriera è diventato un
berretto verde, è stato imbarcato su
diverse navi ed ha prestato servizio
in svariati teatri operativi all’estero,
in situazioni d’indubbia pericolosità.
Pensando a questo collega che non
ho mai conosciuto, incontrollabilmente
sono passate nella mia mente una
serie d’immagini. Come se fosse un
film senz’audio, ho visto i suoi giorni
passati in mare, i momenti personali
che ha dovuto vivere lontano dalla sua
famiglia, il sudore, la sofferenza e la
tenacia per conseguire il durissimo
brevetto da incursore. Nessuno però

OSSERVATORIO
potrà mai sapere le infinite cose che
gli saranno accadute in tanti anni di
professione e chissà quante volte
avrà pianto o si sarà emozionato nel
lasciare compagni d’arme con i quali
avrà diviso il sonno, il cibo e, sopratutto,
avrà affidato loro la vita in quei
momenti in cui un team diventa un
sol uomo ed ognuno risulta indispensabile
per la sopravvivenza dell’altro.
Ora quest’ufficiale è morto. E’ morto
a migliaia di chilometri da casa con i
suoi resti sbattuti su una montagna
come un pugno vigliacco che ti colpisce
quando non te l’aspetti. In questo
momento, tuttavia, il Comandante
Vianini sta offrendo all’organizzazione,
oltre che un sicuro esempio, la
possibilità di fare comprendere a tutti
i valori che ci uniscono proprio come
in una grande famiglia. Per provare
però a noi per primi che facciamo
realmente parte di una famiglia, v’è
bisogno, anzitutto, che questa dimostri
(e faccia avvertire) subito ed autenticamente
le sue emozioni senza
attendere che un pezzo di carta dattilografato
ordini di fare un minuto di
silenzio. V’è bisogno che tutti i militari
percepiscano che tutta la Marina
sia provata da una sincera sofferenza
sebbene ferma e perseverante negli
intenti prefissi. C’è il dovere di unirsi
al dolore di una moglie e dei suoi figli
perché non credano che i loro sacrifici
siano stati fatti per qualcuno che si è
subito dimenticato del loro caro.
Solo così potremmo poi parlare
d’etica e di morale essendo certi d’esser
creduti. In caso contrario l’unica
cosa che ci accomunerà a questa
morte avvenuta su di una montagna
innevata, sarà il gelo di vuote ed altisonanti
parole che ci si trasmetterà
ipocritamente l’un l’altro.
La situazione attuale.
Il re è “quasi” nudo
Tutti vogliono scorgere un significato
elevato in quello che fanno per
guadagnarsi da vivere. Ci si aspetta
di provare piacere per quello che si
produce durante l’orario di lavoro. Si
è orientati ad attendersi soddisfazioni
dal lavoro: si pretende che esso consenta
di sviluppare le proprie qualità
nel senso più ampio e non solo limitatamente
a quella piccola combinazione
di talento e sapere che fa muovere
le braccia o permette di far funzionare
un computer. Eppure, ascoltando
“radio prora” o “radio banchina”,
l’esperienza di lavoro risulta essere
non totalmente intrisa di quelle vigorose
emozioni che possono avvertirsi
solo attraverso l’assoluto coinvolgimento
etico. Insomma, passiamo sul
lavoro ben più
della metà della
nostra vita, essendo
implicati,
approssimativamente,all’ottanta
percento
sotto il profilo
morale. Conseguenza
dell’uso
non adeguato
dei valori e
delle emozioni
degli uomini, è
che questi ultimi
risultano in-
28
tralciati nello sprigionamento dell’ingegno,
dell’iniziativa e nell’adesione
totale ai fini che l’organizzazione si è
prefissa.
La conclusione è che quest’ultima
sta pagando più del dovuto per ottenere
in cambio una quota che, sebbene
molto alta, non corrisponde all’intera
potenzialità degli individui che
impiega. Inoltre, il personale potrebbe
essere contagiato dalla peggiore
piaga: lo scetticismo.
Per detti motivi è fondamentale
che si faccia appello all’esigenza individuale
di arricchire la vita di significati
profondi per il raggiungimento di
grandi obiettivi.
In questo quadro, le iniziative di
management messe in campo dalla
Marina come, ad esempio, il grande
impulso che si sta dando alla formazione,
oppure la visibile rivisitazione
del freddo e razionale modello di gestione
del personale basato sovente
sul solo comando e controllo, sta facendo
percepire che può iniziare l’era
della condivisione dei valori.
Una visione dell’intangibile
Il patrimonio intangibile è un po’
come l’aria, non si vede e non sì tocca,
è intangibile ma pesa. E se l’aria
ha una funzione basilare per la vita,
il patrimonio intangibile ha un valore
fondamentale per la vitalità e la prosperità
di un’organizzazione.
Questa necessarietà si basa sul fatto
che l’intangibile alimenta l’essenza
degli uomini: le loro emozioni ed i
loro valori.
Allora, conseguentemente, bisogna
porsi la domanda che diviene il
fulcro della questione: soddisfare le
emozioni è una necessità o un valore
accessorio?
Prima di offrire la risposta, bisogna
immancabilmente preporre che
sino a poco tempo fa si approcciava
alle persone trascurando, o meglio

OSSERVATORIO
disconoscendo, il loro Q.I. emozionale.
Questo perché per molti secoli si è
erroneamente ritenuto che l’unica intelligenza
“vera” fosse quella razionale.
Entrambe le intelligenze (razionale
ed emotiva) però, hanno pari dignità e
sono necessarie per la sopravvivenza
sebbene i pensatori razionalisti facciano
dell’eliminazione dell’emozione
dal pensiero il loro credo.
Tuttavia ciò che hanno trascurato
è l’inevitabile onnipresenza delle
emozioni in ogni azione. In merito è
chiarificatore il pensiero di Goleman,
scopritore dell’intelligenza emotiva,
che ha definito questa come “la capacità
di motivare se stessi, di persistere
nel perseguire un obiettivo nonostante
le frustrazioni, di controllare gli
impulsi e rimandare la gratificazione,
di modulare i propri stati d’animo
evitando che la sofferenza impedisca
di pensare e di sperare”. Questa
breve digressione ci consente di non
avere alcun dubbio sul quesito posto
in precedenza: appagare i valori e le
emozioni dell’uomo è indispensabile
e prioritario. S’intende bene ora che
fornire una breve definizione che concettualizzi
cosa significhi patrimonio
intangibile, risulti oltremodo riduttivo
anche perché quest’argomento, secondo
me più d’ogni altro, pretende
un uso sapiente e straordinariamente
attento del lessico. Infatti, se è vero,
in generale, che un utilizzo errato delle
parole può “ferire”, è oltremodo
vero, in questo particolare, che una
definizione appena non ade-guata potrebbe
avere ripercussioni fuorvianti
o negative sull’intera comunità di
un’organizzazione.
Fermo restando quanto sopra, a
mio avviso il così detto intangibile
potrebbe rappresentarsi come l’immateriale
carta costituzionale dei
valori e dei principi di un’organizzazione
e, giacché tale, fonte primaria
e condivisa cui fare riferimento. Essa
è tanto un’eredità culturale/spirituale
che affonda e nutre le sue radici nel
passato, quanto un ponte su cui basare
le azioni del futuro. Sua particolare
caratteristica, usando ancora questo
parallelismo, è che risente fortemente
del “clima dialettico” dell’organizzazione.
Detto clima, sempre a mio
parere, è qualche cosa di diverso dal
glossario proprio di un luogo di lavoro
o dalle gergalità che inevitabilmente
contraddistinguono un ambiente
professionale da un altro.
Il “clima dialettico” è molto di più
perché riesce ad influenzare la costituzione
dei valori essendo capace finanche
di modificarla qualora vi fosse
un comune e costante comportamento
comunicativo ( anche inconsapevole)
da parte della maggior parte dei
consociati. Riscontrare ad esempio
che, anche nel mondo militare, si
sente sempre meno la parola subordinato
preferendo espressioni come
collega meno anziano o collaboratore
oppure, venendo ad una realtà a noi
più vicina, coadiutore al posto di docente
(quest’ultimo, infatti, comporta,
come postulato, che dall’altra parte vi
siano degli alunni e non degli ufficiali
con una sensibile anzianità anagrafica
e professionale) sono evidenze di un
approccio diverso che tiene conto, in
questo caso, della maggiore considerazione
che l’organizzazione sta dando
al “valore uomo”.
Detto comportamento dialettico,
come si diceva, ha così modificato la
costituzione dei valori affermando
maggiore centralità alla figura dell’uomo.
Si rileva quindi che cambiare
linguaggio non è una banale operazione
di marketing lessicale, ma è un
sintomo chiaro ed inequivocabile della
penetrazione dei valori all’interno
di una comunità d’individui che formano,
appunto, un’organizzazione.
Azzardando una sorta di cacofonico
neologismo, potrei affermare che se
esistesse un “intangilometro”, ovvero
un misuratore d’intangibile, questo
29
registrerebbe, ad ogni variazione di
linguaggio, un aumento o una diminuzione
dei valori percepiti.
Impresa e patrimonio
intangibile
Restando ancora nell’ambito delle
variazioni dialettiche, è importante
notare come il mondo privato,
comprendendone le ricadute anche
sul profitto, si è subito affrettato a
cambiare addirittura le etichette organizzative:
ben poche usano ancora
il termine direzione del personale,
sostituito ormai dalla c.d. direzione
delle risorse umane.
Andando ancora avanti nell’esperienza
delle imprese private, è d’interesse
vedere come queste definiscono
il patrimonio intangibile. Ebbene,
praticamente tutte rappresentano
questo concetto con tre pilastri: la
conoscenza, la credibilità e, per quel
che a noi maggiormente interessa in
questo breve studio, la coesione e la
dedizione del personale.
Ora è utile porsi questa domanda:
perché le aziende sono così attente a
questo tipo di patrimonio?
Una delle più grandi realtà industriali
italiane, la Fiat, risponde così
al quesito: “Il patrimonio intangibile
condiziona il Capitale Finanziario perché
è inserito nei processi aziendali (e
acquista valore con l’uso, al contrario
delle risorse tangibili), e si trasforma
in risultati vendibili dall’azienda”.
Dalla lettura di questa significativa asserzione,
appare evidente quanto un
insieme forte di valori influisce sui risultati
e le performance dell’impresa.
Si badi bene che non è stata utilizzata
la parola migliori i risultati oppure
ottimizzi i risultati. L’affermazione è
inequivoca: Condiziona. Per comprendere
al meglio questo pensiero basta
mutuare il concetto giuridico di condizione.
Facendo ciò ci si accorge, lapalissianamente,
che senza il verificarsi

OSSERVATORIO
di essa non vi sarà alcuna possibilità
d’efficacia dell’impresa. Questo accade
perché il patrimonio intangibile
è il fondamento,
è la base
su cui costruire
e non un orpello
da mostrare poiché
politically correct.
La grande azienda
italiana in questione,
poi, sostiene un’altra
idea che ritengo ancora
più forte ed efficace e che,
per tale motivo, parimenti
riporto integralmente: “Il
vero punto focale non è il
livello del capitale intangibile
di per sé, ma il tasso di cambiamento
ed il tasso del suo utilizzo”.
Si comprende allora, ancor
di più, quanto questo è lo strumento
primario per la sopravvivenza stessa
dell’azienda.
Nell’ultimare questa veloce sortita
esplorativa nelle conoscenze maturate
dal modo privato, è indicativo
quanto affermato da uno dei più noti
manager italiani, Franco Tatò, il quale
ha affermato al riguardo: “tutta la
nostra cultura aziendale è permeata
dalla misurazione e dalla gestione degli
elementi tangibili. I nostri bilanci
esprimono i valori delle cose e il costo
delle persone in un universo governato
da modelli fisici. Il futuro, invece,
suggerisce la necessità di rappresentare
nei bilanci anche le idee, i comportamenti,
il valore delle persone e
le loro emozioni”.
Il punto d’arrivo è che le realtà economiche,
pungolate dalla competizione
del libero mercato, sono obbligate
ad ascoltare costantemente tutti i segnali,
sopratutto se deboli, che provengono
dalla società allo scopo di
decifrarli ed immediatamente tradurli
in azioni concrete per la sopravvivenza
e lo sviluppo dell’impresa.
La conclusione è che prendere
coscienza dell’importanza
dei valori, non diventa
un’opzione ma una scelta obbligata
per ogni organizzazione perché è la
società stessa a richiederlo.
Militarità ed intangibile
Se le autorevoli affermazioni esposte
dal mondo imprenditoriale convincono
sulla giustezza del loro tipo
d’approccio, c’è da chiedersi: per una
forza armata in che termini si pone la
questione?
Per essa riterrei che si tratti di una
cosa sostanzialmente diversa. Il dovere
d’essere attenti custodi di antiche
tradizioni, la consapevolezza di mettere
a dura prova i propri sentimenti
(ad esempio per quelle intuibili ragioni
legate alle drammatiche situazioni
delle popolazioni che insistono nei
c.d. teatri operativi), la certezza di
svolgere una professione che richiede,
finanche per obbligo di legge, di
dover sacrificare la propria vita, sono
solo alcuni esempi della citata differenza.
Per dare una dimostrazione
incontrovertibile della richiamata diversità,
mi servirò di un breve estratto
del messaggio che il Presidente della
Repubblica ha inviato, nel 2003, al 9°
30
Reggimento alpini di stanza in
Afghanistan:
“...Sappiate che l’Italia
è con voi, che avete il sostegno
morale della nazione.
Sono certo che,
nella tradizione delle
nostre Forze Armate,
voi, porterete alta e
onorerete la bandiera
del 9° Reggimento
alpini. E’
una bandiera che
richiama la storia
più nobile del nostro
esercito ed in particolare di quegli
alpini che hanno lasciato un solco di
eroismo, di generosità e di abnegazione
nelle montagne, nei deserti e nelle
grandi pianure dove hanno servito
la Patria fino al sacrificio. Ovunque i
nostri militari abbiano operato, hanno
scritto pagine di patriottismo, di
disciplina, di spirito di corpo. Hanno
dato esempio di valor militare. Hanno
infuso speranza e coraggio ai compagni
d’arme. Hanno mostrato sempre
umanità e altruismo nei confronti
delle popolazioni civili ed anche oggi,
proteggendo i valori cari all’umanità,
difendete la nostra Patria...”.
E’ di considerevole utilità vedere
(è proprio il caso di dirlo) quanto “intangibile”
è stato appassionatamente
evocato in una, tra l’altro ridotta, porzione
di testo. La segnatura che ho
voluto apporre, sottolineando detti
concetti morali, rende poi ancor più
evidente anche la stretta frequenza
che lega gli stessi.
A questo punto, mi sembra evidente
che discorrere sul tipo di legame
che intercorre tra militarietà
ed intangibile risulti, francamente,
riduttivo. Sarebbe come ipotizzare di
poter individuare nel mare dove inizia
l’acqua e dove finisce il sale.
Insomma, i valori non sono né dentro
né fuori perché sono essi stessi la
Forza Armata.

OSSERVATORIO
L’importanza delle emozioni
Storicamente sono tremila anni o
forse più che disprezziamo le emozioni.
Aristotele sottolineò con vigore i
pericoli di un inquinamento emotivo
dei processi razionali ed oggi si continua
a considerare le emozioni una
componente poco affidabile e seria
della natura umana. Non a caso nella
lingua degli stereotipi le emozioni
sono sempre “dirompenti” e lo stato
emotivo “scosso”. Anche il linguaggio
di tutti i giorni è un segnale del modo
in cui si tende a guardare alle emozioni
in una cultura occidentale cui piace
credere che l’uomo sia un essere sostanzialmente
razionale. Si attribuisce
gran valore al pensiero razionale, del
quale si celebra l’ordine, il controllo
e l’assenza d’emozioni. Quando definiamo
qualcosa razionale è proprio
perché vi scorgiamo il prodotto di una
logica scevra da venature emotive. E’
dunque un’ironia che la scoperta più
importante che ci giunge dal campo
apparentemente asettico delle neuroscienze,
sia proprio che il cervello
è governato dalle emozioni. Questa
scoperta non ha solo svelato l’importanza
delle emozioni, ma ha indicato
che sono queste a guidare anche gli
approcci del pensiero razionale più
puro: “Le emozioni costituiscono un
elemento integrante anche del processo
decisionale apparentemente
più razionale. Ogni qual volta il pensiero
entri in conflitto con le emozioni,
sono queste ultime a prevalere” .
La razionalità pura quindi non esiste.
Le emozioni colorano e influenzano
tutto il nostro pensiero. Anche
la nostra memoria registra la componente
emotiva di un’esperienza
accanto al suo contenuto oggettivo
(o cognitivo), senza effettuarne una
separazione. Questo meccanismo è
chiamato da Antonio R. Damasio, uno
dei padri delle nuove neuroscienze,
“memoria emotiva”.
Sono le emozioni e non la razionalità
a costituire il tessuto connettivo
delle nostre esperienze. Le emozioni
sono la fitta trama che sta dietro all’immagine
razionale di noi stessi che
ci piace presentare al mondo esterno.
Per quanto ora detto e tenendo
in evidenza le considerazioni esposte
sul mondo con le stellette, risulta indispensabile
rinvigorire quella forte
emotività insita nell’universo militare
invece di tentare di sintonizzarsi sui
suoi aspetti razionali.
Questo è assai di più di quello che,
usualmente, s’individua con il termine
motivazione. Costruire un rapporto
emotivo, invece, significa qualcosa
che penetra più in profondità ovvero
nell’interiorità dell’individuo. E’ la
creazione di qualche cosa in grado di
generare livelli elevatissimi d’attenzione
perché fondata, appunto, sulle
emozioni.
Per rendere l’idea, utilizzando un
termine inglese abbastanza di moda
nelle imprese, bisognerebbe passare
dal c.d. customer satisfaction al peopIe
satisfaction.
Solo questo livello di condivisione
potrà far dire al singolo consociato:
sono fiero di dire agli altri che lavoro
qui.
Comunicare l’intangibile per
renderlo visibile
Si è detto che i valori dell’organizzazione
militare sono l’essenza della
stessa. Riuscire a renderli visibili con
trasparenza ed efficacia, deve essere
allora la sua principale responsabilità.
Per raggiungere questo primario
scopo, andrebbe predisposta una vera
e propria strategia per la condivisione
e diffusione dei valori. Atto fondante
potrebbe essere la codificazione dell’etica,
proprio allo scopo di renderla
tangibile. La creazione di standard di
condotta (previsti dal Codice), dovrebbe
essere oggetto d’un piano di
31
comunicazione a livello interno ed
esterno d’ampio respiro.
A livello interno andrebbero individuati
3 obiettivi:
- comunicare a tutti i dipendenti il
Codice Etico;
- creare condivisione;
- sviluppare comportamenti.
Immediatamente dopo l’approvazione
del Codice Etico, andrebbe
organizzata una serie di eventi di presentazione
del Codice ai comandanti
delle strutture poste al più alto livello
decisionale, similarmente a ciò che si
farebbe per il top management di tutte
le società di un medesimo gruppo.
Il Codice dovrebbe essere un opuscolo,
di massimo 10 pagine, essenziale
nei contenuti e nella forma grafica,
che andrebbe spedito a tutti i militari
unitamente ad una lettera di presentazione
(a “stimolo positivo” e non
gerarchico!) a firma del Capo di Stato
Maggiore della Marina in quanto più
alto referente della Forza Armata. Al
Codice Etico andrebbero dedicati una
serie di speciali nei notiziari della marina
e nella rivista marittima. Auspicabile,
poi, sarebbe dedicare mirati dvd
da distribuire capillarmente a tutte le
navi/componenti della F.A. Gli speciali
e i supporti video dovrebbero illustrare
le caratteristiche ed i contenuti del
Codice con interviste al top management
(comandanti di Cincnav, Maridipart,
ecc), ed attraverso puntate tematiche
dedicate ad aspetti specifici.
Anche il canale intranet potrebbe
dedicare un’intera sezione al Codice
Etico pubblicandone il testo, gli approfondimenti
e sollecitando il personale
a richiedere informazioni e ad inviare
segnalazioni. Il Codice andrebbe poi
distribuito sopratutto ai neoarruolati,
allo scopo di far percepire subito loro
tanto l’importanza fondamentale che
la Marina pone ai valori, quanto il codice
sia lo strumento base del lavoro
che si accingono ad iniziare.
Inoltre, nell’ambito dei corsi di

OSSERVATORIO
formazione istituzionali, andrebbero
previsti interventi di sensibilizzazione
sul tema dell’attuazione del Codice.
Queste iniziative di comunicazione
dovrebbero essere massicciamente
lanciate in un lasso di tempo
non troppo lungo (es. circa sei mesi).
L’obiettivo dovrebbe essere quello di
rendere tangibili detti valori e principi
all’intero corpo militare per trasferire
la teoria in pratica e trasformare i
principi in comportamenti concreti.
A livello esterno la comunicazione
dovrebbe perseguire i seguenti obiettivi:
- comunicare a tutti l’esistenza ed il
contenuto del codice etico;
- contribuire a creare un clima di fiducia
e di chiarezza sugli impegni
e le aspettative che si assumeranno;
- puntare sul Codice Etico come
elemento di identity della Forza
Armata.
Per raggiungere tali obiettivi potrebbero
anche esser condotte attività
di stimolo. Ad esempio, si potrebbe
pubblicare il Codice sul sito internet
della Marina per sollecitare la richiesta
d’informazioni e/o l’invio d’eventuali
infrazioni al Codice stesso.
Altra robusta forma di proiezione
all’esterno dei valori, dovrebbe essere
la pubblicità. Essendo però quest’argomento,
a mio avviso, di fondamentale
importanza, ritengo utile trattarlo
singolarmente nella parte che segue.
Il futuro non è grande come il
mare
Prima di analizzare in dettaglio lo
spot che oggi appare sui media, è necessario
interrogarsi sui meccanismi
di funzionamento della pubblicità. Secondo
gli esperti del settore, la comunicazione
pubblicitaria persegue due
distinte finalità.
La prima è diretta verso il mondo
esterno all’azienda. Scopo doppio è
quello di tentare la persuasione del
potenziale cliente e di convincere, chi
cliente lo è già, che ha operato la scelta
giusta.
La seconda finalità è diretta al
mondo interno all’azienda. Scopo è
far capire a chi lavora nell’azienda,
che sta producendo beni o servizi di
successo che è inserito in un ambiente
talentuoso, che la sua impresa possiede
dei valori, ecc.
Bene, su questa base esaminiamo
allora lo spot della nostra Forza Armata.
Una nave militare che scivola via
su di un mare piatto. Un giovane ufficiale
dallo sguardo gagliardo. Una
voce fuori campo che, dopo aver invitato
a fare la domanda d’arruolamento,
conclude: “Marina Militare un
futuro grande come il mare”. Questo,
in estrema sintesi, lo spot.
Ora, “spremiamo” il concetto contenuto
in questo messaggio traducendolo
con parole tanto pure quanto
vere. Quello che si percepisce dallo
spot, in buona sostanza, è: qui c’è un
posto di lavoro per te. E’ sicuro. Non
avrai incertezze verso il futuro.
Tralasciando, per carità di patria,
gli effetti sulla bontà persuasiva verso
chi le stellette già le indossa, e sottacendo,
per decenza, lo stridente contrasto
tra il gran futuro reclamizzato
e le tante morti che hanno colpito i
nostri contingenti, viene da chiedersi:
i valori dove sono?
Non v’è traccia alcuna dell’essenza
della Forza Armata. Non si percepiscono
le diversità e le peculiarità di
una professione caratterizzata da un
profondo coinvolgimento morale.
Immaginiamo invece, propositivamente,
quest’altro possibile tipo di
spot. Militari, visibilmente sudati, che
sbarcano da una nave aiuti per popolazioni
bisognose. Un incursore che,
sebbene provato dalla stanchezza,
dà una mano al compagno. Giovani
militari che dividono, con familiarità,
32
il cibo in una mensa di bordo ed una
voce fuori campo che afferma: “il lavoro
a volte è duro ma le soddisfazioni
non mancano. Marina Militare: un
modo di valori”.
Sotto il profilo interno, credo che
chiunque indossi la nostra uniforme
guardando questo spot possa scorgervi
motivo d’orgoglio sociale. Potrebbe
considerare che chi l’incontri per
strada non pensi che svolge un lavoro
statale e sicuro, ma che è una persona
che ha fatto una scelta dura perché
crede in valori forti.
Sotto il profilo esterno, s’impedirebbe
ai neoarruolati, catapultati prima
nei ferrei istituti di formazione e
poi presso la prima destinazione (che
proprio perché tale appare disagiata),
l’effetto di credere d’esser stati, in
qualche modo, raggirati.
Quest’inganno, infatti, potrebbe
esser percepito perché il rischio della
comunicazione per la promozione
dell’immagine è quello di esagerare
mostrando una rappresentazione dell’amministrazione
che non corrisponde
alla realtà. In questi casi tale tipo di
comunicazione diventa un boomerang,
poiché s’interpreteranno le promesse
come prova dell’inaffidabilità dell’amministrazione.
Pertanto è essenziale
che vi sia una stretta correlazione tra
quello che l’istituzione – attraverso
la campagna di promozione – dice
di voler fare e quello che in concreto
poi l’istituzione stessa fa, altrimenti
la campagna si ritorcerà su chi l’ha
promossa. Sostanzialmente, qualsiasi
forma di promozione dell’istituzione
pubblica non può non basarsi che sul
dato reale e fattuale dell’istituzione
stessa, ripudiando qualsivoglia forma
(anche involontaria) d’esagerazione.
In definitiva, una campagna di comunicazione
non può reggersi sui toni
dell’enfasi. In tale campagna, sono la
scelta emotiva ed i valori che devono
rivelarne il carattere, permettendo di

OSSERVATORIO
identificarne il mittente e, sopratutto,
di credere al messaggio perché in lui
si ripone fiducia.
Considerazioni e conclusioni
La prima considerazione cui sono
giunto è di ordine metodologico.
Pensare di comunicare l’intangibile,
approcciandovi come se fosse una
normale questione di comunicazione
istituzionale, sarebbe un errore fatale.
Questo perché l’intangibile d’una Forza
Armata è la sua anima.
Conseguentemente, sarebbe come
voler progettare di divulgarne lo spirito
che, proprio perché tale, non è comunicabile
ma solo percepibile. Quindi
nessun messaggio, anche se forte
e ben studiato, potrà dare i risultati
sperati se i consociati non avvertiranno,
nei comportamenti quotidiani, valori
ed emozioni.
Per questa ragione mi sono convinto
che bisognerebbe anteporre a
qualsiasi iniziativa mediatica diretta
in tal senso, massicci sforzi umani (e
non semplicemente organizzativi) per
tradurre, e far tradurre a cascata, detti
valori in fatti e comportamenti percepibili
a tutti.
Per chiarezza però, ritengo utile
sottolineare che con questo non
intendo l’adozione di un buonismo
diffuso o la normazione di struggenti
assemblee quotidiane, ma l’uso d’una
autentica attenzione al dialogo emozionale,
d’un più intenso orientamento
a spiegare le ragioni degli ordini,
della fermezza e del rigore del bonus
pater familia al posto della neutra severità.
Il punto d’arrivo è, in buona sostanza,
che bisognerà prima agire
concretamente per poter, poi, comunicare
efficacemente.
La seconda considerazione, invece,
è di ordine storico-contingente.
In questo periodo i noti conflitti
in essere, a causa della loro efferatezza
e mediaticità, stanno fortemente
coinvolgendo la pubblica opinione.
Inoltre, nelle odierne operazioni belliche,
il numero dei nostri militari
morti è elevatissimo (il più alto dal
dopoguerra) e la collettività, probabilmente
come risposta alle decapitazioni
e ad altre atroci barbarie, fa
più forte e pressante, verso le Forze
Armate, la richiesta di valori e di maggior
trasparenza etica. Esplicativo - a
33
contrariis - di questa attuale richiesta
sociale, è quel che ha dichiarato il Presidente
Bush, rivolgendosi agli USA ed
al mondo, in riferimento allo scandalo
sui prigionieri di guerra: “ Questi fatti
macchiano l’onore del nostro Paese.
Gli abusi sui prigionieri sono estranei
ai nostri valori”.
Questi accadimenti, per quanto
dibattibili, hanno indotto i mezzi
di comunicazione di massa a tenere
ferma una lente d’ingrandimento sul
mondo militare che diviene ora tanto
straordinariamente visibile, quanto
potenzialmente vulnerabile. Tuttavia,
questa posizione di apparente equilibrio
stabile, tenderebbe a sbilanciarsi
negativamente se la collettività percepisse
finanche un mero non comportamento.
La conclusione è che proprio questa
è l’occasione da sfruttare.
Ora è il momento migliore per agire,
per arricchire l’organizzazione delle
emozioni di tutti i militari, per lanciare
la grande sfida della condivisione
dei valori.
BIBLIOGRAFIA
Libri
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Maorino V. L’intangibile nelle organizzazioni, Pirelli, Milano, 1990;
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Casula C. I porcospini di schopenhauer, Franco Angeli, Milano, 1997;
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Riviste
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Rivista Italiana di Comunicazione Pubblica, Franco Angeli, Milano, 2004 articoli dal titolo:
Politica di immagine e credibilità. Note a margine della festa della Polizia di Stato;
Responsabilità sociale dell’impresa. Crescono le iniziative si sviluppa la comunicazione.
Siti Internet
www.crf.it (centro ricerche FIAT)
www.aiaf.it; (associazione italiana analisti finanziari)
www.quirinale.it/Comunicati

IL DOMINIO DEL
COSMO E LA QUARTA
DIMENSIONE
GEOPOLITICA
IL RUOLO DELLE POTENZE
MONDIALI NELLA SPARTIZIONE
DEL TERRITORIO SPAZIALE
34

OSSERVATORIO
Tenente di Vascello
Beniamino SCORCELLETTI
INTRODUZIONE
Da sempre l’uomo ha cercato di
soddisfare quella che sembra essere
una delle sue esigenze primarie,
ovvero l’accaparramento dello spazio
fisico circostante e l’imposizione
del proprio predominio su di
esso. Ce lo racconta la scienza, per
quanto riguarda gli albori della civiltà
umana, attraverso lo studio
dei nostri più antichi antenati che
si spostavano in gruppi alla ricerca
di siti adatti alla sopravvivenza e
quindi da consolidare e difendere; e
ce lo racconta la storia, per quanto
riguarda il nostro passato “documentato”,
scandito dal susseguirsi
di civiltà lanciatesi, in nome del
diritto all’espansione, alla conquista
di territori, culture, commerci,
ricchezze e gloria attraverso lo
strumento sempre più specializzato
della guerra come sopraffazione fra
popoli.
Ed oggi che questo impulso primordiale
dell’uomo è addirittura
diventato materia di studio sotto
forma di geopolitica, il copione non
sembra essere mutato sebbene si
cominci ad intravedere il seme del
cambiamento. Un cambiamento
che, a mio parere, trae origine essenzialmente
da tre fattori principali:
- il grado di evoluzione tecnica,
scientifica, sociale ed
etico-spirituale finalmente
raggiunto dall’umanità;
- il continuo aumento delle relazioni,
interazioni e interdipendenze
di varia natura che
“tagliano” i confini nazionali
e vanno sotto il nome di processi
di globalizzazione;
- l’evoluzione del concetto di
strategia globale in cui si inserisce
la scoperta/conquista
della cosiddetta quarta di-
mensione geopolitica ovvero
lo spazio cosmico così complesso,
difficile ed affascinante
rispetto agli ormai familiari
mari, territori e cieli
“terrestri”.
Negli ultimi cento anni il concetto
di geopolitica ha subito cambiamenti
profondi a causa di un
tormentato assestamento degli
equilibri politici globali passato attraverso
due guerre mondiali ed un
periodo di conflittualità latente fra
le due super potenze USA-URSS.
Ancora oggi i suddetti equilibri
stentano a consolidarsi sulle fragili
basi di un nuovo ordine mondiale
orientato verso l’unanime riconoscimento
di accordi internazionali
che fissino chiaramente ed in modo
vincolante i principi regolatori delle
relazioni fra i vari governi.
E’ infatti evidente come gli interessi
nazionali e la competizione fra
Stati abbiano ancora il sopravvento
sulle intenzioni dei sinceri fautori
del suddetto ordine mondiale. Ed
in questa ottica oggi sembra proprio
che non ci sia prospettiva di
sovranità sulla terra senza accesso
allo Spazio. Da quando, il 4 ottobre
1957, l’Unione Sovietica lanciò in
orbita il primo satellite artificiale,
la geopolitica ha acquistato la sua
quarta dimensione. Non si limita
alla analisi dei conflitti per il controllo
degli spazi terrestri (mare,
terra, aria), ma deve integrare nei
suoi ragionamenti lo spazio cosmico,
in particolare quello circumterrestre.
Lungi ancora dal rappresentare
la “provincia della intera
umanità”, come auspicato dal Trattato
sullo Spazio esterno prodotto
dalle Nazioni Unite nel 1967 , il
cosmo è posta in gioco nella competizione
fra Stati.
Ma perché lo Spazio interessa
tanto i protagonisti della geopolitica
planetaria? Quale è l’attuale regime
giuridico vigente in materia?
E quali sono gli Stati che si possono
permettere di competere per la
35
spartizione del cosmo? Sono queste
le domande cui è necessario rispondere
per poter analizzare propriamente
il complesso tema della
spartizione del territorio spaziale.
I MOTIVI DELLA CORSA
ALLA
CONQUISTA DEL COSMO
Le ragioni per cui lo Spazio
interessa i protagonisti della geopolitica
planetaria sono essenzialmente
tre: prestigio, ricchezza e
sicurezza. E non è un caso che tali
elementi si ritrovino all’interno di
numerosi testi di strategia come
definizione dei fattori di spinta degli
interessi di uno stato . In una parola,
potremmo dire che l’interesse
è il potere in gioco, quel potere che
Friedrich Nietzche, nella sua opera
“Aurora” definisce il “dèmone degli
uomini”:
“Non lo stato di necessità, né
la bramosia, ma l’amore della potenza
è il dèmone degli uomini. Si
dia loro tutto, salute, nutrimento,
abitazione, svago; essi sono e resteranno
infelici e balzani: poiché
il dèmone attende e vuole essere
soddisfatto. Si prenda loro tutto e
si soddisfi quest’ultimo: saranno
quasi felici, tanto felici come proprio
uomini e dèmoni possono essere.”
Il prestigio
La capacità di mandare l’uomo
nello Spazio può essere considerata
oggi la massima espressione di
potenza per una nazione. Lo hanno
dimostrato USA ed URSS negli
anni della guerra fredda quando
l’esibizione di potenza serviva ad
incutere il timore sull’avversario.
Lo Sputnik 1 nel 1957 (primo satellite
in assoluto ad essere inviato
in orbita) e Jurij Gagarin il 12 aprile
1961 (primo cosmonauta nello
Spazio) diedero all’URSS orgoglio
e visibilità. Il mito della superpotenza
sovietica ne fu moltiplicato.

OSSERVATORIO
Alcuni leader americani temettero
che l’imminente sorpasso
sovietico profetizzato
da Nikita Chruscev stesse
per compiersi.
Ma l’orgoglio americano
reagì a tempo di record ed
il 5 maggio 1961 anche gli
Stati Uniti andarono nello
Spazio con Alan Shepard.
Ma non era sufficiente: il
primato del prestigio spaziale
doveva essere conquistato
ed il 20 luglio
1969 l’Apollo 11 porta
l’uomo sulla Luna.
L’immagine di Neil Armstrong
trasmessa in
tutto il mondo, quando
con gesto da “conquistador”
pianta la bandiera
a stelle e strisce
sul suolo lunare,
esprime l’intreccio
di scienza e potere
che segna l’epopea
dell’astronautica.
Ed infine oggi la Cina celebra
la sua prima missione orbitale del
taikonauta Yang Liwei (15 ottobre
2003) generando una esplosione di
orgoglio popolare e perplessità internazionale
sulle future strategie
del paese.
La ricchezza
Gli interessi economici legati
allo Spazio si stanno rivelando
enormi. La Luna è ricca di minerali
come alluminio, ferro, calcio, titanio,
oltre che di silicio e forse oro.
Tra le risorse che la Luna potrebbe
donare al nostro pianeta ce n’è una
in particolare che fa molto discutere:
l’elio-3, un isotopo leggero
di elio che si forma nel corso delle
reazioni nucleari all’interno delle
stelle. Sulla Terra è rarissimo, ma
nel suolo del nostro satellite, grazie
ai venti solari, di questo gas se ne
sono accumulate enormi quantità.
Quantità che, secondo molti esperti,
potrebbero trasformarsi in combustibile
particolarmente efficiente
p e r
alimentare reattori
a fusione nucleare producendo
una quantità di scorie radioattive
irrisoria.
Ma la cosa più entusiasmante è
il fatto che 25 tonnellate di elio-3
(equivalenti più o meno ad un singolo
carico dello Shuttle) basterebbero
a soddisfare il fabbisogno
energetico degli USA per un anno,
mentre c’è chi sostiene (Gerald
Kulcinski, direttore del Fusion Technology
Institute dell’Università
del Wisconsin a Madison) che
l’elio-3 Lunare potrebbe “produrre
tanta energia da alimentare la
Terra per 60 mila anni”. Secondo
Gerald Kulcinski del Fusion Technology
Institute presso l’Università
del Winsconsin, l’elio-3 lunare
avrebbe un valore di quattro miliardi
di dollari a tonnellata in termini
della sua energia equivalente
in petrolio.
Per non parlare, poi, dei satelliti
di telecomunicazione, di navigazione
e di osservazione della Ter-
36
ra che rappresentano la
nervatura strategica delle
economie più sviluppate
favorendone l’interdipendenza.
Basti considerare
che il settore spaziale globale
valeva circa 144 miliardi
di dollari nel 2003 .
Dei tre poli di attività spaziale
oggi dominanti – il
lancio, l’osservazione del
nostro pianeta e le telecomunicazioni
– il primo resta
un bastione dell’intervento
pubblico, il secondo si allarga
alle sinergie fra settore statale
e privati, mentre l’ultimo è il
più aperto al libero mercato .
In un futuro non troppo
lontano potrebbe infine svilupparsi
un turismo spaziale dalle
potenzialità sufficienti a suscitare
l’interesse di imprenditori
coraggiosi.
La sicurezza
Il terzo e più incisivo dei motivi
della corsa al dominio del cosmo
sono le strategie di sicurezza.
Nel gergo militare americano lo
Spazio è “the ultimate highground
– l’altura decisiva”. Chi ha accesso
al cosmo si concentra sullo Spazio
terrestre perchè qui operano i satelliti
di osservazione e navigazione
e qui potrebbero essere collocate le
future armi spaziali in grado di colpire
bersagli terrestri. A tale proposito
appare inconfutabile, nella
sua assoluta semplicità, la tesi di
Everett C. Dolman (docente della
School of Advanced Airpower Studies
della base aerea di Maxwell,
Alabama) il quale, mutuando Sir
Halford Mackinder, afferma che
“chi controlla le basse orbite terrestri
controlla lo Spazio vicino alla
Terra. Chi controlla quello Spazio
domina la Terra. Chi domina la
Terra determina il futuro dell’umanità”
. Per questo motivo gli stessi
programmi civili della NASA hanno
spesso un retrogusto militare: i
sistemi satellitari Sea-Wide Field

OSSERVATORIO
Studies (Sea-WIFS), ad esempio,
sono serviti ad identificare le milizie
talibane durante la campagna
afghana .
Ufficialmente bandito dal diritto
internazionale, l’uso militare
dello Spazio è in corso da tempo
attraverso quella che viene definita
la Revolution in Military Affairs
(RMA), cuore della rivoluzione
militare del XXI secolo; militarizzazione
intesa, per ora, non come
installazione di sistemi d’arma su
vettori orbitanti, ma come utilizzo
dello Spazio per funzioni di intelligence,
di controllo strategico e
come segmento spaziale del campo
di battaglia.
IL REGIME GIURIDICO
DELLO SPAZIO
Il sistema giuridico oggi in vigore
è sempre più frammentario
ed inadeguato a far fronte ai problemi
derivanti dall’uso crescente
dello Spazio. Esso si basa infatti
su alcuni principi molto generali
formulati in cinque trattati specifici
sottoscritti a partire dal 1967
ed in un accordo sul controllo degli
armamenti secondo i dettami
del diritto internazionale. Fa inoltre
riferimento a varie intese sullo
sfruttamento commerciale dello
Spazio riguardanti, ad esempio, i
diritti di utilizzazione delle orbite
geostazionarie. L’idea di fondo è
che lo Spazio debba essere utilizzato
per scopi pacifici e che è un
bene comune. Ma poiché i paesi in
grado di avvantaggiarsene sono pochi,
questi principi non sono stati
in realtà messi alla prova e rimangono
in larga misura ideali astratti.
Cosa si intenda inoltre per “scopi
pacifici” non è chiaro e allo stato
delle cose la sfera celeste è insufficientemente
protetta dal punto di
vista ecologico , né esiste una definizione
comunemente accettata
del concetto di “pubblico dominio”
utilizzata nel Trattato sullo Spazio
extraterrestre.
L’attuale regime prevede dunque
una serie di modeste limitazioni
riguardo alle attività militari
nello Spazio vicino alla Terra e
vieta l’uso dei corpi celesti quali la
Luna a scopi bellici. Ma sebbene lo
Spazio extraterrestre sia riservato
a “scopi pacifici”, ciò non esclude,
secondo le potenze spaziali, attività
“passive” o di supporto militare
(osservazione, sorveglianza, comunicazioni).
Del resto lo stesso
regime giuridico attuale, sebbene
fissi alcuni limiti importanti alle
attività militari, presenta grosse lacune
in questo senso. Pur vietando,
ad esempio, lo stazionamento di
armi di distruzione di massa nello
Spazio, non proibisce il transito
di armi nucleari al suo interno; né
vieta esplicitamente l’uso di armi
antisatellite o l’installazione di armamenti
convenzionali o di nuovo
tipo (come quelli ad energia diretta)
nello Spazio.
Grazie a queste lacune, i sostenitori
americani della militarizzazione
dello Spazio tendono ad istituire
un’analogia fra di esso e l’alto
mare che non ricade sotto la sovranità
di alcuno Stato. Analogamente
a quanto accadeva cento anni
fa con la Pax Britannica, possono
oggi dominare lo Spazio allo stesso
modo in cui la Gran Bretagna dominava
un tempo i mari.
Ma la soluzione per il futuro
dello Spazio non sta nel riproporre
un facile quanto datato principio
ottocentesco, bensì nello sviluppo
di un nuovo regime giuridico dello
Spazio, ovvero di nuovi principi
guida più adatti alla realtà del
nostro secolo. Per raggiungere
questo obiettivo è necessario passare
da un quadro di riferimento
basato prevalentemente sull’analogia
con la “libertà dei mari” ad
uno fondato invece sui principi di
sicurezza generale ed equità nell’uso
delle risorse spaziali. Una più
ampia concezione della sicurezza
deve trascendere i suoi aspetti pu-
37
ramente militari (evidenziati nella
precedente sezione 2.c.) per tener
conto anche di quelli ambientali
ed economici, strettamente interconnessi
nella sfera spaziale, dati
gli effetti che il suo uso produce su
scala internazionale e planetaria.
Tanto per fare un esempio, la sperimentazione
delle armi antisatellite
crea enormi quantità di detriti
che potrebbero rendere molto più
pericoloso il lancio in orbita a bassa
quota di satelliti commerciali o
militari.
CHI PUÒ COMPETERE PER LA
SPARTIZIONE DEL COSMO
Un posto al tavolo delle “potenze
spaziali” insieme agli Stati
Uniti è ambito da paesi di taglia
variegata. Così la Cina, con la missione
orbitale del Taikonauta Yang
Liwei, ufficializza la sua ascesa
nelle gerarchie internazionali. La
Russia difende, per quel che può, il
rango di grande potenza ereditato
dall’URSS. Nella politica europea
lo Spazio è destinato ad avere una
parte centrale e la sicurezza, per la
quale la commissione UE ha chiesto
un finanziamento di almeno un
miliardo di euro l’anno, sarà l’investimento
più importante nelle
applicazioni spaziali. Più recentemente
sono scesi in lizza stati sorretti
da una certa idea di grandezza
quali il Brasile, l’India, il Pakistan,
il Giappone e persino il Kazakistan
che, nelle parole del suo primo ministro,
aspira a “diventare una vera
potenza spaziale”. Infine l’Iran è la
prima nazione islamica a proiettarsi
nel cosmo con la messa in orbita
del suo satellite Mesbah .
La Cina
Secondo il Rapporto annuale al
Congresso USA sul potere militare
Cinese del luglio 2003, relativamente
ai vettori spaziali, Pechino
sta sviluppando una nuova famiglia
di razzi modulari per l’invio

OSSERVATORIO
nello Spazio di carichi pesanti
(fino a 25 tonnellate). Sempre
secondo lo stesso Rapporto,
la Cina ha anche piani a lungo
termine per lanciare una
propria stazione spaziale
ed una navetta spaziale
riutilizzabile. Inoltre sta
lavorando intensamente
sull’uso bellico del laser e,
“usando una combinazione
di capacità tecnologiche
proprie e di assistenza
straniera, potrebbe
diventare il paese leader
nella tecnologia militare
del laser entro il
2020” .
Inoltre, secondo
Robert Walzer,
ex Presidente della
Commissione sul futuro
dell’industria
aerospaziale statunitense,
la Cina è
impegnata in un aggressivo programma
spaziale al fine di andare
sulla Luna e di stabilirvisi permanentemente
entro un decennio. Le
basterà investire l’1% del proprio
PIL nei prossimi anni per garantire
le risorse per un programma spaziale
molto robusto.
La Russia
La Russia ha ereditato l’infrastruttura
spaziale e gran parte della
tecnologia e delle risorse umane
che avevano messo a segno una
lunga serie di clamorosi successi
nell’epoca dell’Unione Sovietica;
l’URSS era un valido concorrente
degli Stati Uniti nella corsa allo
Spazio e, almeno in certi settori, un
paese guida. Data la sua mancanza
di risorse, la Russia è oggi costretta
a ridimensionare le ambizioni
ed a concentrarsi su alcuni settori
chiave. Ma considerandosi ancora
una grande potenza, essa respinge
l’idea di rassegnarsi al ruolo di alleato
di secondo piano degli Stati
Uniti e di membro poco influente
del mondo occidentale.
L’Europa
Entro il 2005 sarà messo a punto
il Piano spaziale europeo (ESP).
Per allora si sarà concluso anche
il lavoro di SPASEC (Space Security),
il gruppo europeo di esperti
nel campo dello Spazio e della sicurezza,
terminerà la fase di sviluppo
di Galileo (il GPS europeo) e
sarà già avanzata l’implementazione
del GMES (Global Monitorino
for Enviroment and Security), un
programma finanziato dall’UE al
servizio degli interessi ambientali
e di sicurezza. Il colore ambientalistico
del suddetto programma
non ha comunque impedito agli
Stati Uniti di leggervi un sinistro
intento concorrenziale rispetto al
GPS, nell’ambito di una strategia di
emancipazione europea dalle capacità
americane. Tentazione tanto
più pericolosa dopo che la Cina si
è ritagliata una sua nicchia (costata
200 milioni di euro) nell’ambito di
Galileo.
38
Il Brasile
Le ragioni che inducono
il Brasile, desideroso di
essere arruolato nel novero
delle grandi potenze, a cercare
di conquistare lo Spazio
sono essenzialmente culturali.
Esse provengono dalla
taglia territoriale del paese e
dal sentimento di “grandezza
nacional”, più volte ripreso
dalla classe politica, che riflette
sostanzialmente una diffusa
percezione popolare relativa al
destino glorioso del Brasile. Il
programma spaziale brasiliano
si basa essenzialmente sulla collaborazione
con altri Stati che
presentano caratteristiche socioeconomiche
o semplicemente geografiche
similari. Da paese continente,
come alcuni usano notare,
parla lo stesso linguaggio di altri
paesi che hanno una taglia territoriale
equivalente. Ne sono prova gli
accordi con la Cina, a partire dal
1988, per lo sviluppo di quattro satelliti,
e l’istanza di coordinamento
politico tra Brasile, Africa del Sud
e India che intende esplorare forme
di cooperazione avanzata Sud-
Sud .
Il Giappone
La politica spaziale giapponese
del passato è stata caratterizzata
da ambizioni incerte sostenute da
investimenti inadeguati. E’ mancata
una strategia nazionale in grado
di produrre risultati apprezzabili
nei limiti delle risorse disponibili.
Verso la fine degli anni Novanta,
le cose hanno cominciato però
a cambiare. Le crescenti minacce
rappresentate dai missili a medio e
lungo raggio della Corea del Nord
e l’espansione cinese nel campo satellitare
hanno spinto il Giappone
a utilizzare lo Spazio come mezzo
per contribuire alla sicurezza nazionale
lanciando in orbita satelliti
da ricognizione o, come preferiscono
definirli, “satelliti per la rac-

OSSERVATORIO
colta delle informazioni”.
Sebbene il Giappone sia ancora
la seconda potenza economica del
mondo ed abbia la possibilità di
destinare risorse adeguate ai suoi
programmi spaziali, deve compiere
un grande sforzo per riconquistare
il suo vantaggio tecnologico.
India e Pakistan
Gli sforzi di questi due paesi
nella ricerca spaziale sono essenzialmente
orientati allo sviluppo
del settore difesa. L’agenzia spaziale
indiana sta già realizzando un
micro-satellite sperimentale di 60
chili, chiamato Anusat, da lanciare
in orbita entro la fine del 2005 nell’ambito
dello sviluppo di “satelliti
killer”. Essa, inoltre, ha già lanciato
in orbita vari satelliti per il telerilevamento
nell’ambito del programma
IRS (Indian Remote Sensing),
fra cui uno sperimentale con una
risoluzione di 1 metro.
Sebbene il Pakistan sia meno
avanzato tecnologicamente dell’India,
ha anch’esso creato una propria
agenzia, la Space and Upper
Atmosphere Research Commission,
per la realizzazione ed il lancio
di satelliti nazionali, firmando
inoltre un accordo per rafforzare la
cooperazione con la Cina in questo
settore.
Occorre infine non dimenticare
che molti altri paesi, fra cui ad
esempio la Corea del Nord, seppure
oggi privi delle capacità tecniche
necessarie per ambire alla competizione
spaziale, cercano di seguire la
scia delle grandi potenze attraverso
lo spionaggio, la desecretazione e
forse anche il mercato nero. Senza
considerare che mettere in campo
uno schieramento rudimentale di
intercettori orbitali, mine spaziali,
mini satelliti killer, potrebbe risultare
né eccessivamente costoso, né
tecnologicamente inarrivabile.
IL RUOLO DELLE POTENZE
MONDIALI NELLA
SPARTIZIONE DEL
TERRITORIO SPAZIALE
Da quanto sopra esposto si intuisce
come la competizione spaziale
stia rapidamente espandendosi
ed inizi a rappresentare un
intreccio di preoccupazioni, euforie,
collaborazioni e “fughe” in solitario.
La spartizione dello Spazio
è lontana dall’essere un processo
regolarizzato o gestito di comune
accordo fra i paesi interessati.
Si sta ripetendo quanto accadde
per l’Antartide dopo il secondo
conflitto mondiale, quando molti
governi, intuendo l’esistenza di
notevoli risorse nel continente di
ghiaccio, inviarono numerose spedizioni
a scopo esplorativo dando
inizio alla corsa per l’acquisizione
di aree strategicamente importanti
nel suddetto continente (si riporta
in Allegato A un approfondimento
sul caso Antartide come parallelo
con la corsa alla conquista dello
Spazio).
In questo contesto la responsabilità
che incombe oggi sui governi
mondiali è di proporzioni enormi,
anche perchè, nell’era della conoscenza,
la mancata valutazione
di errori fatti in casi analoghi del
passato e la capacità di effettuare
verosimili previsioni sugli effetti di
future scelte sbagliate, sarebbero
un’aggravante pesantissima.
Lo sviluppo dei tre fattori di
spinta nella conquista dello Spazio
(prestigio, ricchezza e soprattutto
sicurezza) rappresenta per qualsiasi
potenza in gioco una impresa
titanica sul piano tecnologico,
che comporterà dei costi proibitivi
e che potrebbe alienare eventuali
simpatie fra nazioni, ponendo le
basi per conflitti fra i governi mondiali.
Sebbene lo Spazio sia già militarizzato
in qualche misura, ovvero
utilizzato a scopi di supporto
dell’apparato bellico di vari paesi,
nessuno vi ha finora introdotto de-
39
gli armamenti. Ciò significherebbe,
infatti, oltrepassare una soglia
mai finora varcata, con il probabile
effetto di provocare uno scontro
per il predominio nello Spazio che
minerebbe seriamente la sua attuale
e già precaria regolamentazione
giuridica.
Ma tutti sanno che un conflitto
per il controllo dello Spazio oggi
si concluderebbe senza vincitori e
con soli perdenti. Tutte le grandi
potenze mondiali elaborano giornalmente,
tramite i loro strateghi,
decine di scenari basati su altrettante
ipotesi scaturite dal costante
monitoraggio della situazione internazionale.
Essi valutano fattori
di potenza, condizioni di vulnerabilità,
fattibilità ed accettabilità di
eventuali linee di azione nei confronti
di potenziali competitors testate
all’interno dei suddetti scenari
in un continuo wargaming. E, a
quanto pare, la conclusione è che
l’eventualità di uno scontro “violento”
per il primato spaziale produrrebbe
inevitabili, pesanti ripercussioni
anche sui propri governi,
senza pensare alle pericolose ed
incontrollabili escalations che ne
deriverebbero .
Così, da parte dei contendenti,
si continua la lenta, progressiva,
controllata conquista di obiettivi
intermedi che consentano, in modo
discreto e spesso mascherato da nobili
passi per il progresso umano, di
mantenere, nella competizione del
secolo, primati settoriali per alcuni
e distacchi accettabili per altri.
Rimanere indietro significherebbe
perdere credibilità, influenza e
quindi potere deterrente; in poche
parole significherebbe passare dalla
parte dei soggiogabili.
Gli effetti della globalizzazione
economica
Ma contemporaneamente a
questo processo “controllato”, sta
sempre più prendendo campo un
fenomeno incontrollabile ed inevi-

OSSERVATORIO
tabile, dilagante specialmente nei
settori della ricerca e della produzione;
un fenomeno che è figlio
di questa era e che, a mio parere,
ci salverà dalle opzioni distruttive
nel contesto delle strategie globali
elaborate dai potenti della Terra: la
multinazionalizzazione delle imprese
o, se si preferisce, la cooperazione
nello sviluppo di programmi,
specialmente se molto onerosi
(come nel caso di quelli spaziali
appunto) da sostenere per un singolo
paese. Si riporta, di seguito,
qualche esempio eloquente:
- nell’ambito del progetto GA-
LILEO partecipano UE, Cina
(con conseguente creazione del
centro di cooperazione e formazione
tecnica Cina-Europa
per la navigazione via satellite)
e Canada. La Russia, che ha
sviluppato e gestito un proprio
sistema di posizionamento globale
(GLONASS) a partire dai
primi anni ’80, sta negoziando
con l’UE i termini della sua partecipazione;
- sono state create joint venture
fra Russia e Francia, Germania e
Stati Uniti. Le buone prestazioni
dei motori a propulsione russi e
le ottime condizioni dei cosmodromi
dell’ex Unione Sovietica,
hanno dato il via ad iniziative
congiunte per la commercializzazione
dei lanciatori e dei servizi
connessi: Eurockot Launch
Services GmbH (Krunicev con
Daimler-Benz) e Sea Lasunch
(Boeing, ERSC Energia, Kvaerner
Marittime e KB juznoye).
L’RKA (Agenzia Spaziale Russa)
collabora, inoltre, con il consorzio
europeo per lo Spazio e la
difesa aeronautica.
- la Stazione Spaziale Internazionale
(ISS) è la più grande e costosa
cooperazione internazionale
cui partecipano Stati Uniti,
Russia, Europa, Brasile e Giappone.
- La cooperazione spaziale fra
Russia e Cina, che l’antagonismo
ideologico rendeva impossibile
in epoca sovietica, sta oggi
40
prendendo slancio in virtù di interessi
economici e tecnologici
complementari. La consulenza
russa nel campo spaziale non
può che essere ben vista dalla
Cina. E l’RKA ha tutto l’interesse
a fornire la sua assistenza in
cambio di valuta forte. Come
ha dichiarato il suo direttore
generale Jurij Koptev nel 2003
durante una visita a Shanghai,
“la Russia è pronta a collaborare
con la Cina in qualsiasi settore
della esplorazione e della ricerca
spaziale e ad avviare scambi
tecnologici e progetti comuni
senza alcuna restrizione su una
base di parità nel reciproco interesse.
La cooperazione in corso
abbraccia ventuno settori della
ricerca spaziale ed è molto intensa
in tutti i campi” . Ciò sta a
dimostrare che la collaborazione
fra Russia e Cina in campo
spaziale prelude allo sviluppo di
rapporti sempre più stretti con
Washington da parte di entrambi
questi paesi, data la loro necessità
di capitali e di tecnologie
che, in larga misura, soltanto gli
Stati Uniti possono fornire.
- Stati Uniti e Giappone hanno
accettato di collaborare nel
campo della sicurezza e dello
sviluppo di standard operativi
compatibili nell’ambito dei satelliti
per le telecomunicazioni.
Hanno quindi deciso, di comune
accordo, la distribuzione delle
radiofrequenze impegnandosi a
rimuovere le eventuali barriere
alla espansione delle applicazioni
commerciali, allo scopo
di incrementare gli scambi e gli
investimenti. E per affrontare
questi problemi hanno creato
dei gruppi di lavoro appositi.
Quelli appena descritti sono
solo alcuni esempi della più generalizzata
internazionalizzazione
della economia che sta rapidamente
improntando tutti i settori
della ricerca e dello sviluppo alla
cooperazione multinazionale, a

OSSERVATORIO
sforzi congiunti che consentano
di ridurre il carico finanziario di
programmi dai costi esorbitanti.
L’effetto di questo fenomeno sono
il proliferare ed il consolidamento
di sempre maggiori vincoli che accrescono
la mutua dipendenza fra
stati. Quanto appena detto non fa
che confermare e rafforzare la volontà
di non incrinare il delicato
equilibrio in atto a scapito di uno
scontro violento che non gioverebbe
a nessuno.
Le alternative possibili
La conclusione è che oggi i governi
mondiali si trovano in una
situazione di stallo per uscire dalla
quale intravedo due opzioni contrapposte:
- la folle iniziativa di una delle
potenze in gioco, in preda al demone
di Nietzche, per procedere,
in contropiede sugli altri, al
dispiegamento di armi spaziali,
generando una sicura escalation
sul modello del confronto bipolare
USA-URSS, ma esteso a
tutto il mondo. Il dispiegamento
di armi antisatellite costituirebbe
infatti un grosso strappo
rispetto al regime attuale e la
comunità internazionale po-
-
trebbe trovarsi di fronte ad una
nuova competizione militare,
con conseguenze destabilizzanti
per la sicurezza globale;
la unanime decisione di dare
potere ad un organismo sovranazionale
che, tramite un sistema
giudiziario vincolante (non
più basato sull’arbitrato), si faccia
garante della sana collaborazione
fra stati nel rispetto di
un sistema giuridico preciso ed
esaustivo.
Ecco che, dunque, emerge evidente
quella che ritengo essere la
principale responsabilità dei governi
mondiali nella corsa al “far
west” del XXI secolo: l’unanime
riconoscimento di un regime giuridico
internazionale (peraltro già
esistente a livello embrionale con
le Nazioni Unite) chiaro e vincolante
che consenta di regolare le
attività lecite legate allo sfruttamento
dello Spazio nell’ottica di
uno sviluppo globale. Non si tratta
di utopia; non dimentichiamo che,
da questo punto di vista, i risultati
di oggi sembravano inarrivabili
solo sessanta anni fa.
Chiunque provi a riflettere sull’argomento,
non troverà alternative
per una matura risoluzione
del problema. Forse la soluzione
proposta dallo Space Command
americano (SPACECOM) potrebbe
rappresentare un ibrido delle due
precedenti. Secondo SPACECOM,
infatti, in seguito alla crescita delle
loro attività commerciali e militari
nello Spazio, gli Stati Uniti devono
difendere le posizioni conquistate
nel cosmo da eventuali attacchi,
consolidando la loro supremazia
con la forza. Ovvero sviluppando
una superiorità militare nello
Spazio secondo le indicazioni contenute
nel documento Vision for
2020 diffuso nel 1997 dallo SPA-
CECOM.
Autolegittimato il dominio diretto
per via militare dello Spazio
vicino alla Terra, Washinghton
assurgerebbe quindi al ruolo di
arbitro e gestore imparziale della
immane risorsa. Le regioni dello
Spazio verrebbero spartite fra le
nazioni terrestri in base a parametri
come la popolazione o il PIL;
la cintura geostazionaria potrebbe
essere divisa in 360 slots, ciascuno
dei quali assegnato ad uno stato riconosciuto
dall’ONU.
L’astropolitica di SPACECOM
non è per niente eccentrica rispetto
agli orientamenti della amministrazione
Bush che, tuttavia, non
sottovaluta il problema di bilanciare
gli interessi degli Stati Uniti con
quelli del resto del mondo. Perseguendo
inflessibilmente i suoi disegni
(seppure animata da sinceri
intenti) l’America entrerebbe infatti
in contrasto con chiunque, innescando
la tanto temuta escalation.
41
Sempre a proposito di responsabilità
delle potenze mondiali
nella corsa allo Spazio giova, infine,
considerare i seguenti due dati
interessanti:
- La maggior parte del materiale
mandato in orbita ha scopi legati
alla sicurezza (leggasi ancora
una volta “armamento”) ed
alla deterrenza ;
- Gli sforzi delle nazioni partecipanti
alla corsa spaziale producono
la duplicazione di sistemi
di comunicazione, osservazione,
rilevamento, posizionamento,
ecc., che, per tale motivo,
risultano spesso ridondati.
Quali enormi vantaggi deriverebbero
dalla sinergia degli sforzi
di più paesi nella progettazione e
messa in opera di un unico sistema
(ad esempio per le telecomunicazioni)
da condividere a livello
planetario? E quale risparmio otterremmo
dal bandire effettivamente
la produzione e messa in
orbita di materiale per la difesa e la
deterrenza? I miliardi di dollari risparmiati
potrebbero essere dirottati
per la risoluzione di problemi
a livello globale tra i quali la lotta
all’inquinamento, la produzione di
energie rinnovabili, la piaga della
fame e del sottosviluppo.
Non sono le solite frasi gonfie
di retorica: viviamo in un periodo
storico cruciale in cui non dobbiamo
sottovalutare gli effetti planetari
di fenomeni che non conoscono
frontiere e che, se innescati,
potrebbero mettere in ginocchio
l’intera comunità internazionale
facendo diventare la corsa allo Spazio
l’ultimo dei problemi da prendere
in considerazione. A riprova
della delicatezza dell’argomento,
lo stesso Carlo Jean, nel suo libro
Geopolitica del XXI secolo, dedica
ben cinque sezioni alla analisi delle
influenze che le problematiche di
livello globale iniziano già a produrre
sulla geopolitica mondiale.

OSSERVATORIO
CONSIDERAZIONI FINALI
C’è da chiedersi se e quando le
intenzioni dei sinceri fautori della
santuarizzazione dello Spazio in
quanto res communis troveranno
applicazione; o se la speranza che
le immensità celesti spingano gli
uomini a collaborare per sfruttarne
pacificamente le risorse sia solo
una visione. Occorre rovesciare
l’attuale punto di vista: guardare la
Terra dallo Spazio, non lo Spazio
dalla Terra.
Personalmente ritengo che non
dobbiamo sottovalutarci: oggi il
genere umano è in condizione di
comprendere la grandezza ed il
BIBLIOGRAFIA
chiaro beneficio di una simile visione
purchè i potenti del mondo
decidano di rinunciare alle proprie
egoistiche ambizioni in nome del
più nobile sentimento di progresso
del genere umano.
Per chi nutre la convinzione che
tutto ciò sia possibile, anzi inevitabile,
non sarà difficile immaginare,
in un prossimo futuro, la creazione
di una confederazione mondiale
entro la quale tutte le nazioni siano
unite intimamente e permanentemente;
una confederazione che
consista in un corpo legislativo
mondiale i cui membri, quali fiduciari
della umanità intera, debbano
controllare tutte le risorse delle
Pubblicazioni
Carlo Jean, Geopolitica, Editori Laterza, 1995;
Carlo Jean, Geopolitica del XXI secolo, Editori Laterza, 2004;
Carlo Jean, Guerra, strategia e sicurezza, Editori Laterza, 1997;
Shoghi Effendi, L’Ordine Mondiale di Bahà’u’llàh, casa editrice Baha’ì, 1982;
Benedetto Conforti, Le Nazioni Unite, casa editrice Dott. Antonio Milani, 6^ edizione, 2000;
Bernard Guillochon, La globalizzazione – un solo pianeta, progetti contrastanti, edizioni Rizzoli-La Rousse, 2003.
Riviste
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Pubblicazioni militari
C.V. Roberto Domini, Cenni di strategia globale, Istituto di Studi Militari e Marittimi di Venezia, edizione agosto 2003;
C.V. Roberto Domini, Cenni Geopolitica, Geostrategia e Geoeconomia, Istituto di Studi Militari e Marittimi di Venezia, edizione agosto
2003.
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www.kontrokultura.org/archivio2001/150/starwars.html;
42
nazioni componenti; un organo
esecutivo mondiale, spalleggiato
da forze armate internazionali,
potrebbe portare a compimento le
decisioni ed applicare le leggi promulgate
garantendo l’unità organica
della intera confederazione.
Le immagini del nostro fragile
pianeta riprese dal cosmo, un’arca
di Noè fluttuante nell’universo, dovrebbero
indurci a riconsiderare le
millenarie regole delle competizioni
territoriali fra gruppi rivali e risvegliare
in ciascuno di noi il senso
della sua appartenenza di specie e
di destino comune.

OSSERVATORIO
IL MEDITERRANEO
Prof. Franco CARDINI
Perché noi ci confrontiamo con l’Oriente,
addirittura con gli Orienti, sarebbe necessario
sapere che cosa siamo noi, ammesso
e non lo so poi quanto concesso, che
noi siamo, ci sentiamo, eccetera, e in che
maniera e fino a che punto ci sentiamo parte
dell’Occidente. Quindi, in altri termini, io
invidio molto tutta una serie di personaggi
illustri, che vanno dal Prof. Huntington al
Prof. Senatore Presidente Pera, i quali sanno
perfettamente che cos’è l’Occidente.
Il professor Huntington, addirittura, lo
spiega nel suo notissimo libro, il primo libro,
quello sullo scontro delle civiltà. Poi
ha scritto, come sapete, molte altre cose,
poi ne ha scritto un altro che è pudicamente
uscito in Italia con un titolo edulcorato, “La
nuova America”, mentre invece nell’originale
inglese è molto più esplicito, “Chi siamo
noi?”. E “chi siamo noi” finalmente ce
lo spiega. Perlomeno chi è lui e quelli che
la pensano e che sentono come lui. Egli è
un americano che si sente wasp, per quanto
personalmente non sia troppo wasp, perché
wasp come sapete significa white anglosaxon
protestant. Perlomeno il professor
Huntington protestante non è, ma si radica
43
in questa sua identità forte, e si potrebbe
dire che quindi tende a ridurre l’identità occidentale
ad una identità di questo genere.
Presenta ai suoi lettori il pericolo per questi
Stati Uniti, che hanno una radice forte
di tipo wasp: il pericolo che oggi corrono
non è più quello delll’Islam, ma è soprattutto
e piuttosto quello dell’essere ispanizzati,
questo pericolo piccolo e nero che viene dal
Messico, che viene dai Caraibi (nero nel
senso di scuro di capelli e di carnagione), e
che sta avanzando.
Naturalmente questa è una visione evidentemente
molto riduttiva dell’Occidente.
Del resto, non credo che questo secondo
libro del Prof. Huntington fosse, almeno
nelle intenzioni, troppo destinato al consumo
esterno, tanto è vero che non è stato
nemmeno un granché recensito e non se ne è
un granché parlato nell’Occidente europeo,
e non solo, credo, perché è uscito di recente
ma anche per altri motivi.
D’altra parte, però, tutto questo, incrociando
per esempio quello che dice Huntington
a proposito di una fortezza statunitense,
che sarebbe minacciata da forze
che in fondo sono in un certo senso a loro
volta occidentali, entro certi limiti, mi ha
portato recentemente a confrontare il parere
di Huntington con il parere invece di
un personaggio molto diverso da lui, sotto
infiniti aspetti: di Allen Mank, il quale in
un suo libro-intervista dedicato ai rapporti
Europa-Stati Uniti, osserva come l’Occidente
statunitense si vada progressivamente
“asianizzando”, per così dire, soprattutto
“indizzando” e “sinizzando” dal punto di vista
proprio di un certo tipo, se non di classe
dirigente, perlomeno di executive class (per
esempio, i tecnici provenienti dalla Bangalore
Valley, eccetera), e quindi come questo
Occidente statunitense per eccellenza, si
vada profondamente modificando, stia abbandonando
la sua sostanza europea e le sue
radici europee, e stia sempre più guardando
invece all’Oriente. Che poi è un Oriente che
geograficamente gli sta ad occidente, perché
evidentemente le mappe che circolano
per la California, che mostrano un mappamondo
che ha il suo centro nel Pacifico, e
dove quindi il continente americano è ad
oriente e l’Asia è ad occidente, possono essere
anche sconvolgenti per noi europei, ma
rappresentano qualcosa di molto interessante
anche dal punto di vista antropologico.
C’è un aneddoto che circola nei libri di
storia, io l’ho letto più volte ma non sono
mai riuscito a controllare la veridicità dell’episodio,
del resto è un episodio legato a
colloqui volanti che venivano raccolti da
giornalisti e poi metabolizzati più volte; ho
creduto a lungo che il vettore di questo epi-

sodio fosse Ruth Benedict, la famosa iamatologa
e agente dei Servizi americani, a cui
si deve un best seller dedicato al Giappone
immediatamente dopo la Seconda Guerra
Mondiale, ma non credo che sia stata lei.
L’episodio è quello di un dignitario imperiale
a cui fu affidato, per certe incombenze
quotidiane, niente meno che il Generale
Mac Arthur, e questo dignitario doveva
mostrargli certi musei, certi aspetti della
corte, delle collezioni imperiali. Il Generale
Mac Arthur era, come il Prof. Huntington,
molto sicuro di che cosa fosse l’Occidente,
e anche molto convinto della superiorità
dell’Occidente, e naturalmente ne parlava
con questo dignitario giapponese, il quale
un giorno, probabilmente stanco di sentirsi
ripetere che l’Occidente era superiore,
chiese molto compitamente al Generale se
avesse mai pensato che cosa c’era ad Occidente
degli Stati Uniti d’America. Il Generale
restò colpito, perché ad Occidente degli
Stati Uniti evidentemente non poteva esserci
nulla, e il dignitario gli rispose con una
banale osservazione di carattere geografico:
“Signor Generale, ad Occidente degli Stati
Uniti c’è il Giappone”.
Il che è una considerazione, evidentemente,
che, entro certi limiti, potrebbe essere
interessante anche per noi, per quelle
poche cose che io vi potrò dire nei minuti
che mi rimangono, per la considerazione
del nostro rapporto di noi, che come europei
siamo, per così dire ad Occidente e, nello
stesso tempo e soprattutto, a Nord del bacino
mediterraneo.
Se c’è un concetto che è fluido, che è
stato soggetto a mutamenti continui nel corso
dei secoli, e soprattutto nel corso degli
ultimi decenni, è proprio questo concetto di
Occidente. Io, per esempio, come medievista
(anche se faccio questo mestiere ormai
sempre meno), quando nel mio mestiere,
nelle fonti che riguardano il mio mestiere,
mi incontro con le categorie di Oriente ed
Occidente, a parte il puro uso geografico di
queste categorie (ma come tutti sappiamo,
quando noi pensiamo all’Occidente non
pensiamo mai al puro uso geografico di
tale categoria), io mi incontro sempre con
l’Editto di Tessalonica.
Nell’Editto di Tessalonica, l’Imperatore
Teodosio, nel 380 d.C., constatato che era
impossibile, vista la situazione geopolitica
del tempo e visto lo stato delle comunicazioni
del tempo, governare tutto l’Impero da
un solo centro (e questa constatazione del
resto ormai era vecchia quasi di 200 anni
nella compagine governativa dell’impero
romano, che infatti aveva approvato più
riforme istituzionali e circoscrizionali al
riguardo), divide decisamente l’impero in
due parti, chiamate proprio così, semplicemente
partes, che saranno istituzionalmente
e circoscrizionalmente governate da due
diversi Imperatori, una pars occidentis e
una pars orientis. Da allora in poi in tutte
le fonti, almeno fino a tutto il XV secolo, si
registra un uso ampio dei termini Occidente
ed Oriente, ma sempre limitato all’area
geopolitica culturale dell’Impero, quindi si
potrebbe dire all’area mediterranea, limitata
cioè, per darvi qualche parametro geografico
più o meno preciso, dal Caucaso e dal
Danubio a Nord, dalle Colonne d’Ercole,
cioè lo stretto di Gibilterra, a Ovest, dal
Sahara a Sud, e dalla linea dell’Eufrate a
Est. Questa era l’area dell’impero romano,
grosso modo. All’interno dell’area dell’impero
romano si usa il concetto di Oriente e
di Occidente, ricalcato sulle distinzioni territoriali
dell’Impero. Quindi i cronisti delle
Crociate per esempio (tanto per richiamarsi
a qualche cosa di cui dovremmo parlare un
pochino nei prossimi minuti), quando parlano
di sé stessi come occidentali che vanno
ad oriente, altro non intendono se non quello
di appartenenti all’area della vecchia pars
occidentis dell’impero, che si sono spostati
nella pars orientis.
Un cronista della prima Crociata, il quale
proveniva da Orleans e si era trasferito
a San Giovanni d’Acri (cioè nell’attuale
città israeliana di Akko), dice testualmente:
“noi che eravamo occidentali siamo diventati
orientali”; se invece che ad Akko si
fosse trasferito, che so io, a Isfahan, non si
sarebbe mai sognato di parlare di Oriente.
Pensando alla Persia o pensando addirittura
alla Cina, per quel po’ che nel XII secolo
si poteva sapere (quasi nulla) della Cina,
nessun europeo di cultura latina ci pensava
come ad un “Oriente”.
Il nostro concetto di Oriente e di Occidente,
in fondo, nasce attraverso varie
elaborazioni e ha forse una data di nascita
culturalmente importante, con “Il Divano
occidentale-orientale” di Goethe, e ha
un’altra data di rielaborazione in un quadriennio
fondamentale per la nostra storia
contemporanea, il quadriennio dell’immediato
primo dopo guerra, 1918-22, quando
da un lato Oswald Spengler scrive il “Tramonto
dell’Occidente” (e per lui l’Occidente
è fondamentalmente l’Occidente europeo
e Occidente è sinonimo di Europa), dall’altro,
esattamente negli stessi anni (la data
di nascita precisa è il 1919), alla Columbia
University si inaugura la prima cattedra di
Western Civilization, la prima cattedra nel
mondo. La prima cattedra del mondo di Western
Civilization vista dalla Columbia University
è fondata su un presupposto esplicito
che si legge nel documento di fondazione di
44
tale cattedra, cioè che l’Occidente è qualche
cosa che si irradia dagli Stati Uniti d’America,
che costituisce la sintesi della cultura
libera e liberale degli Stati Uniti, ed è un
Occidente che si contrappone alla vecchia
Europa. Quindi l’osservazione di Donald
Rumsfeld a proposito di una vecchia Europa
ormai agonizzante, di una nuova Europa
che potrebbe anche nascere su basi nuove,
ha radici profonde nella cultura americana,
almeno nel primo ‘900, ma io direi anche
decisamente nell’’800, e questo concetto di
Occidente si radica su una idea di estraneità
della cultura occidentale rispetto al mondo
europeo.
Poi è successo quello che è successo.
Quando a Yalta il signor Roosevelt e il Maresciallo
Stalin hanno deciso di dividere il
mondo in due aree di influenza, con una sparizione
obiettiva del concetto d’Europa, e il
mondo si è diviso in un mondo libero e in un
mondo socialista, il mondo libero è diventato
sinonimo di Occidente. Probabilmente
le nostre difficoltà, al di là delle ragioni
politiche, economiche, militari, di definire
l’Europa, cui alludeva prima dell’interruzione
il Dott. Caracciolo, dipendono anche
da questa nostra lacerazione, da questo nostro
disagio, derivante per un verso da una
nostra profonda abitudine d’origine, anche
scolastica, se vogliamo, culturale, politica
in senso lato, anche religiosa, soprattutto
nel mondo cattolico, che ci fa pensare che
l’Occidente per eccellenza sia l’Europa, e
che il nucleo dell’Occidente sia costituito
ancora, quanto meno culturalmente, se non
economicamente o militarmente, dalla presenza
europea; mentre per un altro verso ci
troviamo a navigare in una situazione egemonizzata
da forze, anche intellettuali, che
stanno al di fuori di noi.
In che ruolo gioca il nostro rapporto con
il Mediterraneo, al riguardo?
“Non esiste una sola cultura mediterranea”,
dice un grande interprete del Mediterraneo,
Predrag Matvejevic nel libro
“Il Mediterraneo e l’Europa” che è stato
tradotto qualche anno fa anche in italiano.
Non esiste una sola cultura mediterranea,
significa che, in fondo, nel nostro pensiero
storico, e non solo storico, odierno, noi
stiamo reagendo (badate, soltanto in parte:
queste osservazioni vanno sempre colte evidentemente
nel modo più relativo possibile)
alla visione storica, inaugurata alcuni decenni
or sono, da un grande studioso e da
un grande studio, cioè da Fernand Braudel
e dal suo straordinario affresco storico sul
Mediterraneo ai tempi di Filippo II, che in
realtà poi si irradiava anche sul Mediterraneo
tout court.
Infatti Braudel ha finito con l’essere

OSSERVATORIO
uno degli storici per eccellenza in
senso diacronico del Mediterraneo,
che fondava la certezza, almeno storiografica,
che il Mediterraneo costituisse
una sorta di continente liquido,
un continente liquido rispetto al quale
il mondo romano, e poi il mondo, diciamo
così, “occidentale” sia pur fra
virgolette, aveva guardato come al mare
nostrum, con un concetto di notevole,
quindi, unitarietà, corroborato, si direbbe,
dalla tradizione arabo-musulmana,
che chiama il Mediterraneo “Mahara-ar-
Rum” cioè il mare di Roma, o il mare
dell’impero bizantino, o comunque il
mare dei cristiani che stanno al nord del
Mediterraneo stesso.
Come sapete, questo concetto di Rum,
che significa propriamente Roma, ha storicamente
molte valenze, per cui un altro
grande storico della prima metà del ‘900,
un grande storico belga, Henry Pirenne, ha
potuto, per esempio, proporre che il Medio
Evo, questo periodo che in fondo non è
nemmeno caratterizzato da una definizione
(perché, se ci pensiamo bene, il concetto di
Medio Evo è una “non definizione”: c’è stata
una grande età nel mondo, nella storia della
civiltà - che è appunto circummediterranea
- che è stata l’antichità, che noi per brevità
di tempo potremmo definire classica tout
court, tanto per intenderci; c’è stata un’altra
grande età che è quella che potremmo definire
età moderna, e nel mezzo c’è appunto
una media tempestas, un tempus medium. E
questa è una “non definizione”, è una cosa
che non si riesce nemmeno a chiamare: si
chiama l’età di mezzo quella cosa che poi
non ha importanza. Evidentemente, questa
era la visione degli intellettuali dell’umanesimo
e del rinascimento, che quell’età non
avesse importanza; una visione che successivamente
è stata quasi rivoltata), questo
“non tempo”, sia iniziato con l’espansione
arabo-musulmana, la repentina espansione
arabo-musulmana che fra VII e VIII secolo
ha rotto l’unità mediterranea.
Unità mediterranea che, si è poi osservato
in seguito, era stata rotta solo fino ad
un certo punto, perché in realtà il Mediterraneo
che contava, e questo già lo sapeva
l’Imperatore Teodosio, era piuttosto a quei
tempi il bacino orientale del Mediterraneo,
più ampio, più ricco, caratterizzato da grandi
porti, caratterizzato dall’elemento più
forte del commercio e della circolazione
monetaria del tempo, mentre la parte occidentale
del Mediterraneo era sempre stata,
relativamente parlando, la più povera e,
diciamo, egemonizzata dall’altra. Ma anche
questo discorso andrebbe fatto in modo
molto relativo. Bisogna tenere presente che
la parte occidentale del Mediterraneo era
caratterizzata dal lambire territori che erano
estremamente importanti, dal punto di vista
dell’estrazione di certi metalli: il ferro dell’Elba
e della Sardegna, l’argento, il piombo
della Spagna, lo stagno della Spagna e
poi addirittura, fuori dal Mediterraneo, della
Cornovaglia. Senza stagno, come sapete,
non si fa il bronzo, lega di rame e di stagno,
per cui un intero periodo della preistoria,
l’età del Bronzo, sarebbe stato impensabile
senza il traffico del Mediterraneo occidentale.
Ma questo Mediterraneo, pensato come
unità (che quindi quando questa unità viene
rotta si pensa che addirittura sia cambiata
un’epoca nella storia), questo Mediterraneo,
d’altra parte, è caratterizzato da una
straordinaria varietà di culture, diciamo, da
una straordinaria variabilità di una cultura
di fondo, che ha avuto un forte momento
unitario nell’età cosiddetta ellenistica, nella
lunga età ellenistica, quindi da Alessandro
Magno fino, si sarebbe poi portati a pensare,
alla fine dell’impero romano; se non che:
quando è finito l’impero romano? Noi eurooccidentali
siamo abituati a definire la fine
dell’impero romano con il V secolo d.C.; in
realtà l’impero romano, se non vogliamo
proprio cedere a certe tendenze, in fondo
storico-giuridico-formali, che lo farebbero
arrivare fino al XV secolo (perché non c’è
dubbio che l’impero cosiddetto “bizantino”,
non è la prosecuzione dell’impero romano,
ma è esso stesso l’impero romano), bisogna
quanto meno farlo arrivare all’inizio del
XIII secolo, perché bisogna dire che dopo
45
la cosiddetta IV Crociata e dopo la conquista
da parte dei Crociati, e soprattutto dei
veneziani, di Costantinopoli, la compagine
imperiale non si è più ricreata.
Però già questo elemento, rispetto ad
una visione vagamente romantico-decadentista
che ci faceva pensare all’agonia
dell’impero di Bisanzio come ad una lunga
corruzione (mentre in realtà ancora
l’impero bizantino del XI-XII secolo è
tutt’altro che debole e in fondo è tutt’altro
che corrotto, tutto sommato), ebbene
questa realtà, che ha radici profonde,
che ha radici ellenistiche, è una realtà
che ha costituito la charpente di fondo,
di unità di una certa civiltà, al punto
tale che io ho l’impressione che al di
là di certe divisioni di carattere religioso
e di carattere linguistico, forse
sia perfino, in fondo, difficile parlare,
non dico di scontro di civiltà, ma
addirittura di differenze di civiltà all’interno
del Mediterraneo.
Voglio dire che la radice ellenistica,
l’impronta della cultura,
non ellenica, attenzione, ma ellenistica,
cioè risultante dall’incontro tra la Grecia e
l’Oriente da un lato, e il dilagare delle due
grandi religioni monoteistiche abramitiche,
l’Islam e il cristianesimo, che sono molto
affini tra loro e che hanno conquistato il
bacino Mediterraneo, dall’altro (l’ebraismo
è importantissimo naturalmente, ma è importantissimo
dal punto di vista religioso,
filosofico, teologico, culturale, meno importante
da un punto di vista politico-demografico,
per evidenti motivi: la diaspora per
un verso, l’esigua rappresentanza demografica,
diciamo così, del mondo ebraico all’interno
del Mediterraneo per l’altro), fa sì che
l’impressione dell’osservatore moderno e
contemporaneo, che si spogli un po’ di certi
pregiudizi secolari, sia quella che in fondo
si sia davanti ad una sola cultura, con molte
e grandi, forti variabili (ma tali variabili
sono soprattutto controllabili ed evidenti
dal punto di vista linguistico, molto meno
da altri punti di vista), e che questa cultura,
in fondo unitaria, anche se profondamente
articolata e ramificata, abbia costituito la
sostanza della realtà e della storia mediterranea,
direi fin quasi ai nostri giorni.
Da questo punto di vista, evidentemente,
come al solito e come sempre succede
nella storia, qualunque questione si infrange
davanti alla grande polemica fra i “continuisti”
e i “non-continuisti”, fra i fautori della
continuità e i fautori della rottura. Però io
ho l’impressione che la vera rottura nella
storia del Mediterraneo, rottura relativa, sia
quella individuata da Fernand Braudel, il
quale poi la minimalizza ad un certo pun-

OSSERVATORIO
to, che è quella del momento in cui con la
scoperta del Nuovo Mondo il Mediterraneo
cessa di essere un centro di gravità, perché
per il resto le varie rotture, caratterizzate
soprattutto dagli scontri militari, sono, direi,
riassorbite storicamente nel lungo periodo
da una unità di fondo i cui connotati
sono economici, tecnologici, scientifici e
culturali.
Ma quando è nato il nostro Occidente
moderno?
Il nostro Occidente moderno nasce senza
dubbio da alcune rivoluzioni che sono
state evidenziate, storicamente parlando.
A metà del XIII secolo è avvenuto un fatto
epocale: la bilancia commerciale, che fino
ad allora era a netto favore dell’Oriente, e
questo portava ad una continua emorragia di
metalli nobili dall’Occidente verso l’Oriente,
e ad un flusso altrettanto continuo di
merci, le cosiddette spezie, da Oriente a
Occidente, questa bilancia commerciale si è
rovesciata, grazie ad una crescita esponenziale
in termini economici, in termini produttivi
e anche di invenzione tecnologica,
dell’Occidente. Questa crescita si
è connotata immediatamente nel fatto
che gli occidentali hanno cominciato a
coniare moneta d’oro, e questa moneta
d’oro, lo Zecchino di Venezia, il Fiorino
di Firenze, è diventata, per così dire, il
Dollaro del Mediterraneo, soppiantando il
Bisante di Costantinopoli e tutte le monete
musulmane, che in fondo erano esemplificate
sul Bisante di Costantinopoli, che poi è il
vecchio solidus aureus romano.
A quel punto, grande rivoluzione della
bilancia commerciale, che si accompagna
ad una prima grande rivoluzione di tipo tecnologico,
eccetera, gli occidentali diventano
i padroni del Mediterraneo ed egemonizzano
un Mediterraneo che fino ad allora era
stato egemonizzato dal mondo arabo e dal
mondo bizantino. Ma nello stesso tempo gli
occidentali fanno un passo avanti sostanziale
(gli occidentali, nel senso degli europei e
latini, in fondo si dovrebbe dire così), fanno
un passo avanti nella loro appropriazione,
anche riappropriazione, della cultura antica,
attraverso, per esempio, la riappropriazione
della filosofia aristotelica. Ma tutto questo
avviene per il tramite musulmano, e avviene
in un Oriente che è per così dire, tra virgolette,
un “Oriente occidentale”: il Maghreb
e la Spagna. È da qui che arrivano non solo
le traduzioni del Corano (la prima traduzione
latina del Corano data dalla metà del XII
secolo, ed è rimasta una traduzione in circolazione
fino almeno alla metà del ‘500, con
poche varianti), ma mentre si traduce il Corano
(c’era un grande centro di traduzione
interculturale, cristiano-musulmano-ebrai-
co a Toledo, che ha funzionato per alcune
decine di anni), si traducono anche trattati
di medicina, trattati di astronomia, trattati
di fisica, di chimica, eccetera. Praticamente
di lì a poco Leonardo Fibonacci dal Maghreb
ci porta lo “zero”, e a quel punto siamo
a posto. Con la scoperta, o meglio con
l’adozione, dello “zero” nel nostro sistema
matematico siamo alla fondazione di un
grande flusso tecnologico che ci porta dritti
alla scienza delle finanze per un verso, e
alla rivoluzione informatico-telematica per
un altro, e questa probabilmente è la vera
grande fondazione dell’Occidente.
A questo punto ho fatto sparire con un
gioco maldestro, di prestigio, secoli di guerre
e di crociate, ma in realtà si può dire questo
per farle ricomparire, e darle quello che,
a mio avviso, è il posto che compete loro
nella Storia. Siamo davanti all’epifenomeno
militare di una realtà profonda
di tipo economico, di
tipo sociale,
di tipo
diplomatico, di tipo
militare, che è fondata sul dialogo,
sull’incontro e sulla complementarità
tra civiltà, e niente affatto sullo scontro
fra civiltà. Certo, non è uno scambio, se volete,
alla pari; è evidente che per molti secoli,
direi coscientemente forse fino al XVIII
secolo, anche se ho qualche dubbio, l’Islam
che ci interessa in questo momento, l’Islam
Mediterraneo, che è un elemento forte, un
elemento di spicco e di rilievo, un volano
nell’impero ottomano, continuerà a guardare
senza dubbio all’Europa come un Paese
barbaro, come diceva Sir Bernard Lewis in
un suo grande libro, forse quello più noto
ancora oggi, “Europa barbara e feudale”:
appunto, l’Occidente sarà visto dai Paesi
musulmani come un mondo barbaro.
Un mondo barbaro però da cui trarre
una sorta di tesoro nascosto, che diventava
progressivamente indispensabile, che era la
grande tecnologia, la tecnologia delle navi a
vela, la tecnologia dei cannoni, la tecnologia
delle conoscenze cartografiche. I sultani di
Istanbul hanno cercato progressivamente di
46
importare nell’impero anche l’altra grande
ricchezza tecnologica nuova dell’Occidente,
che era la stampa, ma in questo il peso
dei teologi e il peso dell’Islam tradizionalista
li ha bloccati per molto tempo. Bonneval
Pascià, cioè il marchese di Bonneval, amico
del Casanova, che era diventato il deux ex
machina tecnologico e anche diplomatico
della Istanbul del ‘700, fino alla scuola
navale, la scuola d’artiglieria, la scuola di
cartografia ci è arrivato, ma quando ha provato
ad impiantare nell’impero una stamperia
allora lì i problemi sono affiorati, e
sono affiorati in modo duro. Un osservatore
occidentale odierno direbbe che il fondamentalismo
musulmano, per certi aspetti, è
cominciato da quella reazione. Non è vero
naturalmente, perché il discorso, per certi
versi, era molto più lontano, e per certi altri
quello che noi chiamiamo fondamentalismo
musulmano è in realtà un’ideologia molto
moderna, fin troppo moderna e anche fin
troppo occidentale, per paradossale che la
cosa possa sembrare.
Ecco, arrivati a questo punto si dovrebbe
forse spendere qualche parola sulla grande
gloria cristiana di Lepanto, alla quale
non partecipò il Re di Francia, o meglio non
partecipò la Francia, che in quel momento
era, anche istituzionalmente, in una situazione
di crisi. Ma la Francia certo non fu
contenta della grande vittoria cristiana di
Lepanto, nonostante la Francia non fosse
meno cristiana della Spagna e nemmeno
della Repubblica di San Marco. E alla
stessa battaglia non partecipò il Sacro Romano
Imperatore, né un soldo né un soldato
alla flotta della Santa Lega, e non partecipò
nemmeno l’Inghilterra.
Della grande vittoria cristiana di Lepanto
l’unico a essere veramente contento fu lo
Scià di Persia (che però, anche se sciita, era
pur sempre musulmano), perchè con l’occasione
di Lepanto rispolverò tutta una vecchia
tradizione, che era già tartaro-persiana,
di idea di collegarsi con l’Occidente latino
per, in qualche modo, schiacciare l’Islam
mediterraneo. Era una vecchia tradizione
geopolitica con padri illustri, ci aveva pensato
addirittura San Luigi, Luigi IX di Francia
in pieno ‘200. Quest’idea di collegarsi
con i mongoli di Persia, per eliminare quello
che allora era l’Islam, perché i mongoli
non erano ancora musulmani, o perlomeno
non lo erano tutti, l’idea geopolitica di
questa possibile morsa euro-centro-asiatica
per eliminare la potenza islamica mediterranea,
rimase e sarebbe rimasta molto a lungo
(anche se successivamente i mongoli si
islamizzarono). Scià Abbas ne parlava col
nostro Pietro della Valle negli anni fra il
1611 e il 1614, se ricordo bene. E i piani di

OSSERVATORIO
crociata di Scià Abbas restano ancora un po’
da studiare, forse, e sono ancora disponibili,
comunque, per gli studiosi moderni.
Tutto questo per dire, per arrivare, concludendo,
ai giorni nostri, che la realtà delle
cose è di un mondo mediterraneo estremamente
vario, dove l’Islam maghrebino ha
evidentemente molti punti di contatto, ma
anche molti punti di diversità rispetto all’Islam
del vicino Oriente, all’Islam siriano,
giordano, egiziano, e non parliamo di quello
dell’Arabia Saudita o degli Emirati Arabi, e
dove il mondo europeo è evidentemente un
mondo che in questo momento sta scegliendo,
sta cercando di scegliere, forse con non
troppa chiarezza, la strada da intraprendere
nei confronti del mondo mediterraneo.
Non c’è dubbio che l’allargamento dell’Europa
dai 15 ai 25 ha in qualche modo
allontanato l’attenzione di questa cosa, e
mi rifaccio a quello che diceva Caracciolo,
me ne rifaccio con dolore perché io sono
da molti decenni un europeista convinto,
ma temo che effettivamente quest’oggetto
misterioso che è l’Europa, se noi astraiamo
evidentemente dall’Eurolandia, che forse
esiste (o che esiste senza dubbio a livello
monetario, finanziario, bancario), sia ancora
al di là da venire dal punto di vista diplomatico,
politico, militare, eccetera. Certo noi
abbiamo in questo momento una situazione
estremamente fluida nei confronti della nostra
considerazione del Mediterraneo, però
stanno succedendo alcune cose, mi rifaccio
per esempio alle due conferenze euro-mediterranee
di Barcellona, quella del 1995 e poi
quella forse leggermente più conclusiva, entro
certi limiti, almeno in teoria, del 2002,
dove si porta avanti un progetto di partenariato,
perlomeno per una zona di libero
scambio mediterraneo, che dovrebbe completarsi
e armonizzarsi entro il 2010, e che
dovrebbe interessare per il momento almeno
27 Paesi che si affacciano sul Mediterraneo,
quindi forse la quasi totalità, più l’Europa
dei 15, allargata all’Europa dei 25; ma naturalmente
gran parte dell’Europa dei 25 non
è interessata al mondo mediterraneo.
Nel contempo si fanno progetti che
ormai sono abbastanza avviati, per l’organizzazione
di una banca intermediterranea,
si fanno progetti per incentivare gli investimenti,
soprattutto nei confronti di certi Paesi
del mondo mediterraneo. Certo, evidentemente,
gli elementi di disagio, gli elementi
di debolezza sono sotto gli occhi di tutti, ne
cito soltanto alcuni a caso per non farvi perdere
tempo, dovrei leggere, ma non lo faccio.
Il Prodotto Interno Lordo dei Paesi non
europei rispetto a quelli europei aggettanti
sul Mediterraneo, che arriva al 5% rispetto
ai Paesi mediterranei dell’Europa; i pochi
investimenti nel sud del Mediterraneo, che
sono ancora oggi decisamente insufficienti;
lo squilibrio fortissimo, gran parte dei Paesi
del sud del Mediterraneo vive con una media
di 2 euro al giorno per abitante; la grande
massa dell’economia dei Paesi extraeuropei
del Mediterraneo è quasi tutta assorbita da
due soli Paesi, che sono Israele e la Turchia,
e quindi evidentemente questi da soli coprono
il 50% della produzione industriale
dei Paesi mediterranei. Evidentemente c’è
un forte squilibrio che incide pesantemente
sulle prospettive di uno sviluppo armonico
del mondo mediterraneo stesso. In più c’è
un fatto che non so giudicare se positivamente
o negativamente, ma certo è un fatto
di grande rilievo: la popolazione dei Paesi
del sud del Mediterraneo, praticamente
oggi si tratta di una popolazione di circa
250 milioni di persone (alludo ai Paesi mediterranei
che non sono inclusi nell’Unione
Europea), e sono 250 milioni di persone in
più caratterizzate da un forte elemento di
giovinezza; sono Paesi giovani, sono Paesi
i cui abitanti sono a grande maggioranza
sotto i 35 anni.
Questi elementi naturalmente rendono
evidentemente difficile o arduo e impegnativo
qualunque progetto a breve scadenza
di un rapporto di integrazione. Non si tratta
evidentemente di un allargamento dell’Unione
Europea: l’allargamento della UE
non può pensare di non aver limiti, per un
verso, per un altro nessuno ha mai pensato
di allargare l’Unione Europea a tutti i Paesi
del Mediterraneo, anche se la proposta
della Turchia (e anche una mezza proposta
avanzata e poi tornata indietro da parte di
Israele) ha scatenato una corsa all’interno
dei Paesi, per esempio musulmani del Mediterraneo,
una corsa al presentare credenziali
europee, che è almeno politicamente molto
interessante.
Concludo con questa osservazione, sulla
quale per la verità io avevo un po’ incentrato
la mia prospettiva di relazione; avrei
voluto principalmente parlare di questo, poi
quando si parla di storia si viene sempre un
po’ trascinati all’indietro.
In Algeria si va ormai profilando con
sempre più forza un movimento (e cito
l’Algeria perché è il caso forse che io conosco
meglio, ma è anche il caso in cui mi
sembra che - almeno nei Paesi del Maghreb
- questo movimento sia più forte, più deciso)
che riguarda le Università, ma riguarda
anche l’opinione pubblica, riguarda anche i
giornali, la televisione, riguarda insomma
la cultura diffusa e coinvolge (badate, con
non troppo apprezzabili differenze) sia i cittadini
algerini che possiamo chiamare filooccidentali
(una espressione molto grosso-
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lana), sia i cittadini algerini, e sono molti
come sapete, che hanno simpatie che noi, di
solito, nel nostro modo corrente di parlare,
definiamo fondamentaliste (sono categorie
evidentemente grossolane, in parte perfino
superate, però possono rendere l’idea).
Comunque, fra algerini dell’una o dell’altra
tendenza è fortissima e comune la tendenza
a sottolineare un dato, che viene detto a tutti
gli europei che arrivano in Algeri: l’Algeria
è il secondo Paese francofono del mondo. Si
obietta, beh, il secondo sarà il Québec, e la
risposta dell’algerino medio è: ma guardate
che noi parliamo francese, i québécois, ormai,
parlano un francese molto diverso.
L’osservazione dell’Algeria, secondo
Paese francofono del mondo, serve evidentemente
per un verso ad aprire interessanti
spiragli, oggi si direbbe revisionistici, sulla
storia della colonizzazione e sulla storia
della colonizzazione francese dell’Algeria,
e della decolonizzazione dell’Algeria, che,
come sapete, è stata particolarmente dura
e spinosa, ma per altri versi prelude ad
una osservazione che d’altra parte ci viene
anche da altri Paesi extra-mediterranei,
per esempio viene fortissima dai Paesi del
cosiddetto Cono Sur dell’America Latina
(quindi Argentina, ma anche Cile, e un po’
meno dal Perù, che non appartiene al Cono
Sur): cioè l’europeicità di queste culture, la
pretesa, che io credo storicamente, culturalmente
fondata (lo dico perché la parola
“pretesa” potrebbe sembrare pesante), di, in
qualche modo, partecipare della coscienza
europea, della cultura europea e quindi di
aspirare ad un qualche collegamento con
l’Unione Europea.
Lasciamo perdere l’Argentina e il Cile,
perché questa pretesa, ove fosse ascoltata,
andrebbe contro uno dei documenti forse
fondamentali che spiegano l’età contemporanea,
cioè la dichiarazione del Presidente
Monroe del 1823, con risultati fantastorici
difficili da immaginarsi oggi. Lasciamo da
parte questo, ma che un Paese musulmano,
con un forte elemento che noi chiamiamo
fondamentalista, aspiri, dopo la Turchia
(anche se a livello di opinione pubblica, che
i politici per il momento non recepiscono),
ad un rapporto privilegiato con l’Unione Europea,
non diciamo all’ingresso nell’Unione
Europea, diciamo a un rapporto di integrazione
e di dialogo, questo è estremamente
interessante, e credo che questo potrebbe
essere un suggerimento utile, importante,
per i politici di Bruxelles e di Strasburgo,
nel momento in cui potessero decidere di
adire sul serio ad una vera politica di unione,
che fosse anche dotata di caratteri autenticamente
politici, che ancora sono forse al
di là da venire.

IL MONDO IN EREDITA’
ALTERNATIVE SOSTENIBILI
E NUOVE CONFLITTUALITA’
PROGETTO GRAFICO: A. Rossetti - STAMPA: Tipografia I.S.M.M. Venezia