Gli arcipelaghi - Sardegna Cultura
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messa. Guardavo affascinata il vuoto sotto di me, e<br />
sentivo che fra poco vi sarei precipitata. Invece, con<br />
una faticosa tensione delle braccia e delle spalle, chiudendo<br />
gli occhi per non cedere alla vertigine, riuscii<br />
a sollevarmi sino alla soglia del fienile. Sentii il peso<br />
morto delle gambe oscillare nel vuoto e trascinarmi<br />
verso il basso. Feci un ultimo sforzo, e cercai di far<br />
presa con le dita e le palme delle mani aperte sul pavimento<br />
che era leggermente in pendio, poi con un<br />
colpo di reni e uno strappo faticoso delle spalle riuscii<br />
ad avanzare, superando l’abisso che mi calamitava. La<br />
stanza nella quale ero arrivata era grandissima e squallida.<br />
La polvere s’accumulava in gomitoli grigi sotto<br />
un letto di ferro sul cui materasso arrotolato s’allineavano<br />
delle pere marce. In un angolo c’era una sedia di<br />
paglia e un catino di ferrosmalto su un treppiedi di<br />
ferro. Il catino era pieno di carne, e carne c’era sulla sedia,<br />
e sul pavimento in mezzo alla polvere. Anche<br />
quelle che prima mi erano parse delle pere marce,<br />
m’accorsi adesso che erano dei pezzi violacei d’interiora.<br />
La stanza aveva l’aria d’essere stata disabitata da<br />
molti anni, e non mi sorpresi di trovare sul davanzale<br />
polveroso della finestrella il berretto di Giosuè. I vetri<br />
della finestra erano molto appannati. Coi polpastrelli<br />
inumiditi di saliva riuscii a lucidarne un circoletto<br />
attraverso il quale entrarono le note di una musica<br />
molto triste. Guardai giù nella strada e vidi che<br />
passava un funerale. Apriva il corteo Don Marcellino<br />
vestito da vescovo. Sotto la mitra, che teneva a sghim-<br />
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bescio e che ogni tanto minacciava di cadere, vidi<br />
però che il suo viso non era proprio il suo, ma quello<br />
di babbo. Don Marcellino sembrava ubriaco e inciampava<br />
continuamente sul bacolo che trascinava come se<br />
fosse troppo pesante per le sue forze. Dietro di lui veniva<br />
una fila interminabile di preti e di uomini delle<br />
confraternite con i camici bianchi e rossi. I loro visi<br />
erano coperti di maschere cornute di legno nero. Camminavano<br />
su due file un po’ distanti, saltellando su<br />
trampoli bianchi che sembravano ossa di morto e che<br />
battevano sul selciato, accompagnando in cadenza lugubre<br />
il rimbombo degli ottoni della banda municipale<br />
che marciava dietro di loro, suonando una musica<br />
triste e terribile. Seguivano gli orfani dell’ospizio<br />
che portavano corone di foglie secche. Poi cominciò la<br />
sfilata delle bare. Quando alla prima seguì la seconda,<br />
cominciai a contare. Alla settima non ne potei più e<br />
chiusi gli occhi. Ora sapevo qual era la provenienza di<br />
tutta quella carne sparsa nella stanza in cui mi trovavo.<br />
Sapevo perché quegli uomini si erano riuniti nel<br />
nostro cortile, sapevo di che cosa parlavano quando<br />
anziché cantare e giocare alla morra si raggruppavano<br />
a confabulare. Riapersi gli occhi e vidi che le bare continuavano<br />
a sfilare. Col berretto di Giosuè, provai a<br />
turare il foro della finestra. Le note della marcia funebre<br />
ora entravano velate e come più lontane. Non osai<br />
guardare di nuovo e mi ritirai verso la parete opposta<br />
a quella sulla quale appoggiavano il letto e il catino.<br />
Di lì potei guardare nel cortile che ora era deserto e<br />
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