Gli arcipelaghi - Sardegna Cultura
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Maria Giacobbe<br />
<strong>Gli</strong> <strong>arcipelaghi</strong><br />
Il Maestrale
Tascabili . Narrativa
Della stessa autrice con Il Maestrale:<br />
Il mare, 1997<br />
Maschere e angeli nudi: ritratto d’un’infanzia, 1999<br />
Scenari d’esilio, 2003<br />
Diario di una maestrina, 2003<br />
Editing<br />
Giancarlo Porcu<br />
Grafica<br />
Nino Mele<br />
© 2001, Edizioni Il Maestrale<br />
Redazione: via Monsignor Melas 15 - 08100 Nuoro<br />
Telefono e Fax 0784.31830<br />
E-mail: redazione@edizionimaestrale.com<br />
Internet: www.edizionimaestrale.com<br />
ISBN 88-86109-56-3<br />
Maria Giacobbe<br />
<strong>Gli</strong> <strong>arcipelaghi</strong><br />
Il Maestrale
PARTE PRIMA<br />
Voci e silenzi
Esilio<br />
Dopo tanto spazio di mare, così azzurro che le creste circolari<br />
delle onde vi spiccavano con la ferma grazia di atolli,<br />
apparvero i contorni dell’isola, rosei come una cicatrice recente,<br />
bordati d’una frangia di spuma. Deserti, sembravano<br />
vergini, inviolati.<br />
Di nuovo, come ogni volta, lo colpì il carattere animale -<br />
non vegetale, non minerale - di quelle coste, che continuava<br />
nella solida, terrosa groppa d’elefante, che s’ingrandiva<br />
sotto l’aereo, mentre l’azzurro del mare diventava una lama<br />
sempre più sottile, lontana.<br />
Lasciando Milano, avevano sorvolato città, fiumi, campi<br />
coltivati, boschi, strade vive di traffico. Un paesaggio europeo.<br />
Una terra abitata da uomini. Uomini d’oggi. L’isola sulla<br />
quale ora volavano era la groppa terrosa d’un mastodonte<br />
morto da millenni. Setole rade e aride orlavano le screpolature<br />
e i graffi incisi sul fango asciutto.<br />
Come altre volte, vedendola dall’alto, si sorprese a ricordare<br />
quasi incredulo che quella terra, quel grumo di fango rappreso,<br />
aveva per tanti anni rappresentato il suo paradiso perduto.<br />
Il luogo segreto nel quale il suo pensiero e il suo ricordo<br />
sempre meno precisi, sempre più magici, si erano rifugiati ogni<br />
9
volta che da bambino e da ragazzo la paura e la malinconia<br />
l’assalivano, in quella città dove si era sentito ingiustamente<br />
esiliato.<br />
È difficile abituarsi a Milano, dicevano i genitori, forse<br />
per far sentire che lo capivano. Poi però la si scopre e non la<br />
si scambierebbe con nessun’altra città al mondo, soggiungevano.<br />
Ma che cosa gliene importava, allora, a lui delle “altre<br />
città” del mondo? Non era con “altre città” che avrebbe<br />
voluto scambiarla!<br />
Già qualche mese dopo il trasferimento, sua madre sembrava<br />
davvero essersi abituata. Le piaceva andare per negozi,<br />
o meglio per vetrine, dato che le possibilità d’acquisto,<br />
con i prezzi delle cose che erano di suo gusto, non erano tante.<br />
Godeva di sentirsi libera. Di camminare per le strade<br />
senza essere osservata. Criticata, forse. Nell’Isola tutti sanno<br />
tutto di te, diceva. Sanno che cosa fai, chi vedi, chi e che cosa<br />
ti piace o non ti piace, che cosa pensi. Sanno persino quanto<br />
hai in tasca. Le tasche son trasparenti nell’Isola, diceva. La<br />
gente ti giudica e ti pesa per ciò che possiedi e per il potere che<br />
puoi dimostrare d’avere. Conta molto il potere, in un mondo<br />
di senza potere, ma ancora più che la ricchezza e il potere<br />
conta l’“onore”… Non chiedermi che cosa sia l’onore… L’onore<br />
è un mostro, al quale ancora si fanno sacrifizi umani…<br />
A Milano nessuno sa niente di te, nessuno s’occupa di te.<br />
Né del tuo onore. Puoi essere povero o ricco, ma non è cosa che<br />
riguardi gli altri. Riguarda solo te. L’onore è qualcosa che<br />
hai dentro di te, che riguarda te, non gli altri… Che non<br />
chiede sacrifizi umani come conferma…<br />
Questo diceva, e sembrava esserne convinta. Ed essere con-<br />
10<br />
vinta della praticità e bontà di questa solitudine e anonimità.<br />
Ma, almeno in parte, per quanto sincera, questa lode della<br />
grande città dove viveva era anche una manovra per non cedere<br />
alla sua quasi costante nostalgia dei profumi, dei colori<br />
e anche delle voci e dei silenzi della sua terra. Nostalgia<br />
della gente anche, nonostante quell’indiscrezione di cui si lamentava<br />
e che però certe volte, secondo l’umore, non le pareva<br />
più indiscrezione ma partecipazione.<br />
A Milano, diceva, se cadi morto per la strada, ti girano<br />
semplicemente attorno per non inciampare, e ti lasciano lì<br />
senza provare a soccorrerti. Hanno troppa fretta per occuparsi<br />
degli altri. Con tutta la gente che vi abita, nei momenti di<br />
bisogno una città come questa è un deserto, diceva. Nell’Isola<br />
non si è mai soli con i propri lutti e le proprie disgrazie. I dolori<br />
dell’uno sono i dolori degli altri.<br />
Nell’Isola è ancora come ai tempi d’Omero, quando per<br />
paura della “critica” Nausicaa non volle entrare in città con<br />
Ulisse, lo straniero. Ma prima, Nausicaa, la figlia del re<br />
dei Feaci, l’aveva aiutato Ulisse, lo sconosciuto senza nome,<br />
il naufrago nudo e infelice, l’aveva curato, unto d’olio d’oliva<br />
e vestito di lino, e infine gli aveva indicato la strada<br />
perché si presentasse, ospite sacro, nella casa del padre.<br />
Nell’Isola è ancora così, diceva. Da una parte la malignità<br />
della critica che ti misura e ti fa misurare ogni gesto,<br />
e dall’altra la solidarietà e la generosità che ti sorreggono<br />
ogni volta che il destino ti colpisce e hai bisogno d’aiuto.<br />
Come ai tempi d’Omero, diceva.<br />
E in quel momento era fiera di quell’arcaicità che in altri<br />
momenti le sembrava motivo di vergogna. In entrambi i<br />
11
casi la madre di Lorenzo era sincera e, almeno in parte, nel<br />
giusto.<br />
Il padre invece non aveva mai sofferto e non aveva mai<br />
avuto motivo di soffrire di contraddittorie nostalgie, di<br />
quell’odio-amore che non si poteva spiegare razionalmente e<br />
che forse perciò non dava pace. Il padre non era nativo dell’Isola.<br />
Era fiorentino e il suo amore per Firenze, la città<br />
dove era nato, aveva studiato, aveva amici e famiglia e radici,<br />
non aveva bisogno di giustificazioni. Quell’amore era<br />
ovvio. Nessuna città al mondo è bella e gentile come Firenze.<br />
Nessun cittadino al mondo è civile e gentile come il toscano.<br />
Niente di negativo si può dire o provare per Firenze. Chi è<br />
nato e cresciuto a Firenze può amarla in pace e senza rimorsi.<br />
Per bellezza e civiltà Milano non poteva misurarsi con<br />
Firenze. Ma il lavoro è lavoro, e la carriera è carriera. E<br />
per la carriera, nessuna città in Italia, a parte Roma, poteva<br />
valere Milano. Firenze ormai per il padre di Lorenzo<br />
era pensabile solo come luogo di ritiro dopo la pensione. Un<br />
trasferimento d’ufficio da Milano a Firenze sarebbe stato un<br />
passo indietro. Per quanto assurdo ciò potesse sembrare, sarebbe<br />
equivalso a una punizione.<br />
Pensione, Punizione, Prima nomina, le tre P dell’esilio dei<br />
funzionari italiani nell’Isola.<br />
Quando lui, il padre, c’era arrivato, nell’Isola, giovanissimo<br />
e di prima nomina, ancora sotto il fascismo, quella storia<br />
delle tre P circolava come una specie di spiritosaggine o di<br />
constatazione, a seconda di chi la pronunziava. Tra i funzionari<br />
italiani che ci venivano mandati, e soprattutto fra<br />
12<br />
quelli che ci venivano mandati perché, pur avendolo tentato,<br />
non erano riusciti a evitarlo, correvano molte storie sulla durezza<br />
e spinosità dei luoghi e delle persone in quella “colonia<br />
penale”, come alcuni la chiamavano. <strong>Gli</strong> stessi Isolani, certe<br />
volte, le citavano quelle storie. Un po’ offesi, un po’ divertiti<br />
dell’immagine esotica che si dava di loro, ma anche un po’<br />
convinti e, tutto sommato, fieri se riuscivano a riconoscervisi.<br />
Per il padre di Lorenzo, l’Isola era stata ed era rimasta il<br />
luogo in cui si era fatto degli amici e aveva incontrato la ragazza<br />
che aveva sposato. Se non fosse stato per lei, diceva,<br />
forse avrei cercato di restarci meno a lungo. Pretore di prima<br />
nomina, poi giudice. Il tribunale. La Corte d’Appello. Quasi<br />
dieci anni. Ma erano passati in fretta. Una scuola. L’Isola,<br />
per un giovane magistrato, è la scuola per eccellenza, diceva.<br />
Niente potrà sorprenderti, nessuna prova, nessun alibi ti convinceranno<br />
del tutto. Nessun testimone potrà mai più ingannarti…<br />
se hai imparato a non lasciarti ingannare da un testimone<br />
isolano, magari analfabeta. Perché gli Isolani davanti<br />
al giudice mentono anche quando dicono la verità e dicono<br />
la verità anche quando mentono.<br />
“Mentire quando si dice la verità e dire la verità quando<br />
si mente…” Uno dei paradossi tipici del padre, pensò mentre<br />
l’aereo, avvicinandosi all’aeroporto, faceva un ampio giro attorno<br />
allo sperone biancoazzurro di Capo Malia e si preparava<br />
ad atterrare.<br />
13
Giosuè, la nave, la luna<br />
La lesina entra ed esce facilmente nei buchi logori e<br />
slargati dall’uso. La setola impeciata vi scivola dentro<br />
e ne esce raddrizzandosi in due rigidi baffi di gatto. Il<br />
difficile viene quando bisogna afferrare le setole, stringerle<br />
fra le dita e tirarle ben bene per rendere solido<br />
il punto, così che suola e tomaia combacino perfettamente.<br />
Per riuscirci, Giosuè ha dovuto avvolgersi le<br />
dita nelle due pezze umidicce che di solito gli servono<br />
per fasciarsi i piedi.<br />
Quello del calzolaio è un mestiere che dà soddisfazione.<br />
Punto dietro punto, chiodo dopo chiodo, è possibile<br />
misurare quanto il lavoro progredisce.<br />
La lesina è il timone di una barca che lentamente aggira<br />
un capo sconosciuto. Le setole sono i remi che<br />
s’immergono nell’acqua profonda e spingono avanti la<br />
chiglia. Capo di Buona Speranza, Capo Spartivento,<br />
Capo Carbonara, Capo Nord. Il libro di geografia. Il<br />
mare è azzurro come il cielo la mattina di Pasqua<br />
quando tutte le campane insieme si mettono a suonare<br />
e l’aria è piena di milioni d’uccelli invisibili.<br />
Sott’acqua nuotano senza rumore i pesci dalle code<br />
15
setose. Si posano palpitanti, il tondo occhio immobile,<br />
sui cespi di corallo e i nastri frementi delle alghe.<br />
La barca avanza lentamente nella grande pace del<br />
mare deserto e silenzioso. Cristoforo Colombo. Vasco<br />
da Gama. Amerigo Vespucci. Il libro di storia. I compagni.<br />
Ognuno per conto suo, ora. La maggior parte in<br />
campagna, come lui, Giosuè, per imparare a badare<br />
alle bestie. Un mestiere come un altro, quello del pastore.<br />
Ma forse quello del calzolaio dà più soddisfazione.<br />
Si vede subito come il lavoro cresce. Non così<br />
con le bestie. Ci vogliono mesi e mesi, anni, prima che<br />
una bestia dia frutto. Sempre soli, in campagna, con le<br />
bestie. Senza mai parlare con nessuno. Parlare col cane.<br />
Il cane capisce più di un uomo. Ma non parla.<br />
Il calzolaio solleva gli occhi dalla scarpa che sta riparando,<br />
e vede la strada. Le donne che passano avvolte<br />
nei loro scialli, con appena gli occhi che ne spuntano.<br />
Sempre rapide e affaccendate come se abbiano<br />
chissà che cosa da fare. E invece trascorrono il tempo a<br />
chiacchierare.<br />
E i bambini che giocano con la trottola. O a bottoni.<br />
Lui, Giosuè, con la trottola era un campione. Nessuno<br />
sapeva farla girare tanto a lungo come lui, e prenderla<br />
sul palmo della mano, e rimetterla per terra, e farla<br />
saltare, e riprenderla senza che smettesse di girare…<br />
Anche ora, se non ha altro da fare, mentre i porci pascolano<br />
o riposano, tira fuori di tasca la trottola, avvolge<br />
la cordicella e la lancia con quel colpo secco del-<br />
16<br />
l’avambraccio, e la trottola si mette a girare in mezzo<br />
alla polvere. Ma non c’è sugo, se intorno non ci sono i<br />
compagni a guardare, a commentare, a gridare… E se<br />
la trottola gira troppo a lungo senza cominciare a vacillare<br />
come un ubriaco, Giosuè finisce per annoiarsene<br />
e l’afferra con mala grazia, come se sia colpa della<br />
trottola che intorno non c’è nessuno ad ammirare la<br />
sua abilità. Intorno c’è solo la campagna, con quel suo<br />
colore di pane abbrustolito e quei pochi peri selvatici<br />
e olivastri piegati dal vento che non danno un frutto<br />
neppure a spararli.<br />
Fra sei anni Giosuè passerà di leva. <strong>Gli</strong> piacerebbe<br />
andare in marina. Vedere il mare. Il mare prova a immaginarselo.<br />
È come un fiume. Ma enorme, immenso.<br />
Così grande che se la sua riva fosse lì, ai piedi di<br />
Giosuè, coprirebbe tutta la campagna sino ai monti<br />
più lontani. Il mare è vivo e profondo e si muove avanti<br />
indietro da una sponda all’altra, come se respiri. Il mare<br />
è come un fiume enorme, immenso, ma ha la forma<br />
larga e placida di una pozzanghera nella quale il cielo<br />
si specchia azzurro e limpido come dopo un nubifragio.<br />
Il mare è lontano, ma esiste, da qualche parte, dietro<br />
le montagne. Il mare è azzurro, e pieno di pesci, e<br />
di barche, e di navi.<br />
Le navi sono grandi come case. Anche più grandi.<br />
Dipende da come sono grandi le case. La sua casa, la<br />
casa di Giosuè, è bella, ma è piccola. Ha solo il piano<br />
terreno e un cortiletto dove tengono la capra per il latte.<br />
La capra la munge la nonna. Con quelle sue mani<br />
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scure, magre, nodose come radici di lentisco. Quando<br />
sarà grande Giosuè avrà una casa a due piani, intonacata<br />
di bianco. Sopra, le camere da letto. Sotto, la cucina,<br />
il gabinetto e la stanza per ricevere le visite, con<br />
l’ottomana e la credenza. E, dietro, il magazzino per le<br />
provviste. Una casa come quella della maestra o del<br />
dottore.<br />
La nave è bianca. Tutti i marinai sono schierati sul<br />
ponte. Hanno dei bei vestiti di tela candida. Sembrano<br />
intonacati di calce. Il capitano, col braccio irrigidito<br />
nel saluto militare, accompagna il Re che passa<br />
in rivista i marinai della nave scuola.<br />
Quale Re? L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro.<br />
Il lavoro fra pochi punti sarà terminato. Dopo, la<br />
scarpa di Giosuè sarà come nuova. Si logorano rapidamente<br />
le scarpe, su quella terra arida e quei ciottoli<br />
maledetti. Un pastore perciò deve imparare a fare anche<br />
il calzolaio. Non si può tornare in paese ogni volta<br />
che le scarpe si bucano o si scuciono. I calzolai, quelli<br />
veri, fanno vita da donne. Seduti in bottega, come<br />
donne nelle loro cucine. Davanti a loro, il deschetto<br />
con la pece, i chiodi, le setole, la lesina… tutto in bell’ordine,<br />
per non perdere tempo a cercare. La gente entra<br />
ed esce, va e viene con le scarpe da riparare o riparate,<br />
e tutti raccontano storie e chiacchiere.<br />
I calzolai perciò ne sanno più del confessore. I calzolai<br />
dormono a letto. Non per terra come i pastori. I<br />
calzolai d’inverno non soffrono il freddo. Accanto al<br />
deschetto hanno sempre un braciere con carbonella ac-<br />
18<br />
cesa. E d’estate nelle loro botteghe piene d’ombra c’è<br />
fresco. Ma, per vedere un occhio di sole, i calzolai devono<br />
uscire a sgranchirsi le gambe sulla porta. Perciò<br />
sono pallidi come carcerati.<br />
I pastori, di sole ne prendono sino a cuocersi. Ma<br />
nelle ore più calde, quando la mandria riposa, anche il<br />
pastore può appisolarsi, e sotto una roccia o una macchia<br />
di lentisco un po’ d’ombra non manca mai.<br />
Certe volte i pastori trovano dei tesori. E allora diventano<br />
ricchi e possono vivere in paese e andare alla<br />
bettola quando vogliono, senza dover lavorare. Ma un<br />
calzolaio dove può trovarlo un tesoro nascosto? Dentro<br />
una vecchia scarpa, forse? E a chi salterebbe in mente<br />
di fare il calzolaio, se non a uno storpio o a un pigro?<br />
Però, se non fosse così, a Giosuè…<br />
No, meglio il marinaio! Il Re passa in rivista i marinai<br />
schierati sul ponte della nave. È la mattina di<br />
Pasqua e c’è un bel sole lucente e non troppo caldo. Si<br />
sentono gli schiocchi della bandiera che si tende nel<br />
vento. Come schiocchi di frusta. Le divise dei marinai<br />
sono candide, pulitissime. Senza una macchia. L’acqua<br />
del mare è azzurra. Le alghe sono come erba, ferule<br />
e alberi che crescono sotto l’acqua del mare. In<br />
mezzo alle alghe nuotano i pesci, vibrando le lunghe<br />
code setose. I cespi di corallo. La mamma ha degli orecchini<br />
di corallo. Ma li mette solo per le feste. Per Pasqua.<br />
Fra un mese e mezzo sarà Pasqua e Giosuè tornerà<br />
in paese.<br />
Fra poco la lesina e le setole avranno aggirato il capo.<br />
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Capo di Buona Speranza. La punta affamata della scarpa<br />
avrà chiusa la bocca. Cristoforo Colombo. Vasco da<br />
Gama. Amerigo Vespucci. Il mare io non l’ho mai visto.<br />
Ma me l’immagino. Il mare è un grande fiume.<br />
Molto, molto grande. Il mare l’ho visto fotografato. Anche<br />
a colori. Nella copertina del quaderno di aritmetica.<br />
Il mare è una pozzanghera immensa su un prato<br />
allagato dopo la pioggia. Era un bel quaderno con una<br />
copertina a colori.<br />
All’improvviso il cane abbaiò. L’interno della capanna<br />
dietro Giosuè era già al buio. Della luce del<br />
giorno non restava che un barlume violaceo sull’orizzonte.<br />
<strong>Gli</strong> occhi dolevano, affaticati da quella penombra<br />
che era calata senza che Giosuè se ne rendesse conto.<br />
Il cane abbaiava.<br />
Subito vide la polvere che si sollevava sul sentiero e<br />
udì i primi muggiti. Rimase, stordito, con la scarpa e<br />
la lesina in mano.<br />
Quando gli uomini che guidavano la mandria gli passarono<br />
accanto, si vergognò di quel suo piede nudo,<br />
bianco come un piede di donna.<br />
Fece per infilarsi la scarpa e per alzarsi, ma già i tre<br />
uomini e la mandria erano passati, e prendevano il<br />
sentiero che dal Passo della Croce portava giù sull’altro<br />
versante dell’altopiano. L’ultimo dei tre uomini,<br />
quello che spronava le ultime vacche della mandria, si<br />
voltò e ricambiò il suo sguardo. Fece ancora alcuni<br />
20<br />
passi, insieme agli altri, poi come per una decisione<br />
improvvisa diede uno strattone alla briglia, voltò il cavallo<br />
e ritornò al galoppo verso di lui. Frenò così bruscamente<br />
che il cavallo, curvando il collo sino a posare<br />
il muso sul pettorale, nitrì e si sollevò sulle zampe posteriori.<br />
L’uomo smontò. Era giovane e agile. Un pastore. Senza<br />
affrettarsi, appese le briglie al ramo nudo e forcuto<br />
piantato davanti alla porta, spinse Giosuè all’interno<br />
della capanna, gli tolse la lesina e con essa cominciò a<br />
punzecchiarsi i polpastrelli, mentre gli diceva pacatamente<br />
e quasi dolcemente:<br />
– Di chi sei figlio?<br />
– Sono Giosuè di zia Lucia Solinas.<br />
– Senti, Giosuè, tu oggi non hai visto nulla. Capisci?<br />
Tu stasera non eri qui. O forse eri qui, ma dormivi.<br />
E non hai visto nulla. Perché, capisci, se tu oggi<br />
hai visto qualcosa non ti resterà molto altro da vedere<br />
nella vita. Per il tuo bene lo dico, ragazzo, tu oggi<br />
non hai visto nulla.<br />
Con una violenza che contrastava con la dolcezza<br />
della sua voce, gettò la lesina che si conficcò con un<br />
colpo secco sul ceppo che nella capanna serviva da tavolo.<br />
La lesina oscillava ancora che già il suono degli<br />
zoccoli al galoppo si era affievolito sino a cancellarsi.<br />
Il cane accucciato sulla soglia guaiva dolcemente. Il<br />
suo pelo giallo secco era una macchia palpitante nell’ombra<br />
sempre più fitta. Giosuè fece un passo verso<br />
il ceppo e staccò la lesina.<br />
21
La tenne un momento fra le dita. La rimise sul ceppo.<br />
Le mani gli tremavano. Tu non hai visto nulla. Lo<br />
dico per il tuo bene. Fuggire, ora, subito. Tu non hai<br />
visto nulla. Non ti resterà molto altro da vedere. Fuggire,<br />
dove? Lasciarsi la mandria incustodita? E come<br />
giustificarsi, senza raccontare?<br />
Forse eri qui, ma dormivi. Un buco nella terra per<br />
nascondersi. Mamma, aiutami! È notte. Dove andare?<br />
Forse non accadrà niente. Forse non è accaduto niente.<br />
Forse era solo un sogno. <strong>Gli</strong> tremano le mani, le dita<br />
sono incerte. Fuggire. Dove? Un buco nella terra per<br />
nascondersi. Chiudersi, barricarsi dentro la capanna.<br />
Forse non accadrà niente. Che cosa può accadere? Non<br />
ti resterà molto altro da vedere. L’aveva sentito raccontare<br />
che queste cose accadevano. Che potevano accadere.<br />
Ma erano cose speciali che accadevano a persone<br />
speciali.<br />
Non a lui! Perché proprio a lui? Lui, Giosuè, un ragazzo<br />
qualunque. Non ha nulla di speciale, lui. Non<br />
può accadere proprio a lui. No, non a lui!<br />
Poterne parlare con qualcuno. Mamma! Enea! Oreste,<br />
fratellino mio! Vieni, Oreste, vieni subito. Me l’avevi<br />
promesso. Non startene lì a chiacchierare accanto<br />
al camino, come una donna. Mamma, Oreste… ho<br />
tanta paura, anche se un pastore non deve aver paura.<br />
Non voglio stare solo qui al buio. Mamma, mamma,<br />
Oreste!<br />
Ora anche il cane sembrava scomparso, divorato dal<br />
buio. In mezzo allo stormire lieve dei cespugli si sen-<br />
22<br />
tiva forte il coro delle rane, o della notte, e nei buchi<br />
fra le nuvole si affacciava ogni tanto una luna gialla e<br />
larga, con la sua faccia da teschio.<br />
Giosuè aveva srotolato la stuoia e vi si era disteso.<br />
Per capezzale una bisaccia di lana di capra.<br />
Vedeva la lesina fra le grosse mani dell’uomo, udiva<br />
il colpo secco di quando si conficcava nel legno e vi restava<br />
verticale, vibrando. L’uomo preferiva non vederlo.<br />
Voleva dimenticarne il viso, la statura, il vestito. Non<br />
sapeva neppure che colore avesse il suo cavallo. Non<br />
aveva visto nulla. Null’altro che una lesina che vibrava,<br />
conficcata nel ceppo. Non sapeva quante fossero le<br />
mucche che gli uomini conducevano. Non sapeva neppure<br />
se fossero molte o poche. Non aveva visto quale<br />
dei tre sentieri gli uomini e la mandria avessero preso.<br />
Se qualcuno gli avesse domandato, avrebbe risposto che<br />
non aveva visto né sentito niente. Che forse dormiva<br />
già. Lì, dentro la capanna. Che cosa poteva aver visto o<br />
sentito, se lui era lì, addormentato, dentro la capanna?<br />
Sì, forse aveva sentito il cane che abbaiava. Ma forse sognava,<br />
o credeva di sognare, e non si era svegliato del<br />
tutto. Perché avrebbe dovuto alzarsi a guardare? Il cane<br />
forse abbaiava alla luna. O ai fantasmi. Si sa che i cani<br />
sentono i fantasmi, e abbaiano. E lui non era obbligato<br />
ad alzarsi a guardare ogni fantasma che passava.<br />
Nessuno gli avrebbe creduto. O se gli avessero creduto,<br />
che razza di pastore avrebbero pensato che era?<br />
Un pastore che non si sveglia quando il suo cane abbaia,<br />
che non va e controlla la sua mandria? Sarebbe<br />
23
diventato la favola del paese. Dopo un’ammissione del<br />
genere, neppure un calzolaio avrebbe accettato d’averlo<br />
come apprendista. Forse neppure soldato l’avrebbero<br />
voluto. “Riformato per incapacità totale”.<br />
La luna infilava la sua spada lucente nella capanna.<br />
Una spada che era un serpente bianco e silenzioso.<br />
Strisciava nella polvere, gli lambiva i piedi, lo cercava,<br />
lo illuminava. Dove nascondersi? Dove fuggire?<br />
La campagna è bianca di luna. I nemici sono dappertutto.<br />
Ogni cespuglio nasconde un nemico. Dietro<br />
ogni cespuglio, dietro ogni albero, dietro ogni roccia.<br />
Se lo vedono uscire, partire verso il paese, verso un<br />
altro ovile, possono credere che vada a denunziarli.<br />
Non ti resterà molto altro da vedere. Io non ho visto<br />
niente, ti assicuro, ti giuro, come è vero… no, non si<br />
deve giurare, bestemmiare. Io ho solo visto la lesina<br />
che vibrava conficcata nel legno. Che cosa avrei dovuto<br />
vedere? Niente è accaduto. Che cosa doveva accadere?<br />
Il branco era raccolto nel chiuso. Quando resto solo<br />
nell’ovile ho tanto da fare. La sera son stanco, perché<br />
non dovrei andare a dormire con i miei animali? Cos’altro<br />
avrei da fare? C’è il cane a fare la guardia. Il<br />
cane non ha abbaiato. È un vecchio cane. Se è vero che<br />
è passato qualcuno, forse il cane non ha sentito, forse è<br />
un po’ sordo, è un vecchio cane, e non si è svegliato.<br />
Io non so niente. Non ho visto né sentito niente.<br />
Come è vero… Dio. Se qualcuno è passato io non ne so<br />
niente. Il cane non ha abbaiato. Io non ho visto niente.<br />
Forse dormivi, aveva detto l’uomo. Quale uomo? Lui<br />
24<br />
non aveva visto nessun uomo. Nessuno gli aveva detto<br />
niente.<br />
E poi perché temere? Appena farà giorno forse arriverà<br />
Oreste e Giosuè tornerà in paese e dirà a sua madre<br />
che per lui il mestiere di pastore è finito. Che gli<br />
trovino un altro mestiere e che lo tengano a casa, in<br />
paese. Lo dirà come lo direbbe un uomo, con autorità,<br />
senza dare spiegazioni.<br />
La madre vorrà sapere. Come convincerla senza raccontare?<br />
Ma se non c’è niente, proprio niente, da raccontare!<br />
Se non è accaduto niente, se non ha visto<br />
niente? E quelli che ha visto passare, chi dice che fossero<br />
ladri? Forse quell’uomo voleva fargli uno scherzo.<br />
Per metterlo alla prova, per vedere se aveva paura. Ma<br />
lui non aveva paura. Alla madre non avrebbe dato<br />
spiegazioni, avrebbe detto semplicemente così: non<br />
voglio più fare il pastore. E che la gente pensi quello<br />
che vuole.<br />
Il marinaio su una nave bianca, con una divisa bianca,<br />
e il Re o il Presidente della Repubblica passerà in rivista<br />
sul ponte. Io sarò sul ponte insieme ai miei compagni.<br />
Non sarò mai solo. Un compagno alla mia destra<br />
e uno alla mia sinistra. Ne avrò una schiera dietro<br />
e una schiera davanti, di compagni. Sarò in mezzo<br />
a loro, ai miei compagni, circondato da loro, come un<br />
filo d’erba sul prato. Nessuno potrà raggiungermi,<br />
nessuno potrà farmi del male. Se non Dio dall’alto,<br />
col suo piede immenso e terribile.<br />
Che cosa possono farmi? E perché dovrebbero farmi<br />
25
del male? Io non ho visto niente. Io non so niente. Io<br />
non ero qui. Io dormivo.<br />
Non ti resterà molto altro da vedere. “… Allora gli<br />
punsero gli occhi con la lesina, e gli occhi gli divennero<br />
bianchi come quelli di un agnello sgozzato. Poi<br />
lo lasciarono solo e cieco a vagare per la campagna…”<br />
No, non a lui! Non a lui! Sono cose speciali, queste,<br />
cose che capitano nelle storie che si raccontano la sera<br />
intorno al fuoco. Cose speciali che capitano a persone<br />
speciali. Ad altri, non a lui. Cose che si raccontano.<br />
Ma non bisogna credere a tutto ciò che si racconta. E<br />
lui non è una persona speciale. Lui è un ragazzo come<br />
tutti gli altri, e gli piacerebbe giocare con la trottola.<br />
Perché dovrebbe capitare proprio a lui una cosa speciale?<br />
“… lo presero e con setole di porco gli cucirono<br />
le labbra e gli occhi…” No, non a lui, non a lui!<br />
Mamma mia, Dio mio, aiutatemi! Un angolo buio<br />
per nascondermi. Oh, luna, fermati luna! Un fosso<br />
profondo nella terra. La tana della volpe. Il nido dell’aquila<br />
sulla roccia più alta. Fuggire. Fuggire coi<br />
passi lunghi e silenziosi del cerbiatto che non lascia<br />
traccia. Correre fuori dei sentieri battuti. Correre sino<br />
alla fine del mondo. Sino agli abissi del mare dove i<br />
pesci battono silenziosamente la coda, librati sui cespi<br />
di corallo.<br />
Cautamente e lentamente la spada bianca della luna<br />
si ritira. Le rane tacciono un istante, poi il coro riprende,<br />
a onde, come un’enorme ma debolissima ar-<br />
26<br />
monica dilatata sulla campagna. Cauta e lenta passa la<br />
notte sul mondo. La notte è come una donna immensa,<br />
vestita di bianco e di nero. Le sue intenzioni e<br />
le sue azioni sono spesso crudeli. La notte è vestita di<br />
fantasmi e la sua voce è l’ingannevole voce delle rane<br />
e quella delle tempeste. I passi leggeri della notte non<br />
svegliano il cane. La notte passa sul mondo con la sua<br />
corte di fantasmi e di assassini e di assassinati.<br />
Senza alzarsi, per non fare ombra, Giosuè si trascina<br />
sino a raggiungere il cane. Posa sul suo capo la palma<br />
della mano aperta. Ne sente il pelo liscio e arido come<br />
velluto. L’arcata delle orbite. Sente sotto il braccio e<br />
nella cavità del gomito il suo dolce calore amico, il<br />
battito profondo e calmo del suo cuore.<br />
Abbracciato al suo cane, Giosuè ha meno paura. Sta<br />
quasi per addormentarsi. Ma all’improvviso il cane ha<br />
un fremito. Solleva la testa, in ascolto. Giosuè lo abbraccia<br />
ancora più stretto. Steso accanto a lui sul fondo<br />
nudo della capanna. <strong>Gli</strong> posa la guancia sul ventre<br />
tiepido e tenero. Il mondo è vuoto e silenzioso.<br />
Il cane si svincola e abbaia.<br />
– Zitto, zitto, Ulisse. Son io. Stai buono. Nessuno<br />
ci farà del male. Dormi.<br />
Il cane si riaccuccia, ansando leggermente. Poi, con<br />
violenza, si libera dal peso di Giosuè che lo tiene abbracciato.<br />
Si alza sulle quattro zampe, proteso in avanti,<br />
e abbaia verso il buio della campagna.<br />
27
Il guerriero<br />
Dovetti fare uno sforzo, per non strangolarlo con le<br />
mie stesse mani, quel disgraziato che si era fatto sorprendere<br />
e, mansueto come un agnello, si era lasciato<br />
legare e aveva permesso che indisturbati si allontanassero<br />
con le nostre vacche. Indisturbati. Tranquilli<br />
come papi. Come se fosse roba loro. Tutte le nostre<br />
vacche. Senza far nulla per impedirlo. Dovevo sforzarmi,<br />
per non strangolarlo con le mie stesse mani,<br />
quell’imbecille che la sorte mi ha dato per figlio.<br />
– Ma babbo… – piagnucolava –, che cosa potevo<br />
fare? Tre contro uno! E loro armati e io disarmato…<br />
Si ripeteva, guardandomi supplichevole e proprio<br />
così aumentando la mia furia, come se non lo sapessi<br />
anch’io che era ingiusto prendermela con lui. Come se<br />
non sapessi che non lui, povero disgraziato, ma neppure<br />
il più valente degli uomini avrebbe potuto opporsi,<br />
senza lasciarci la vita e insieme alla vita anche i<br />
beni che voleva salvare.<br />
Ma proprio perché lo vedevo così fragile e miserabile<br />
che non tre uomini armati ma anche uno solo e disarmato<br />
sarebbe riuscito a sopraffarlo, l’ira continuava a<br />
29
dilagare dentro di me in onde che mi scuotevano il corpo<br />
e mi facevano tremare le dita nell’impeto di stringergliele<br />
attorno alla gola. A quel meschino di figlio<br />
che Dio mi ha dato in sorte.<br />
E l’ira non era solo per la perdita, che era enorme,<br />
totale, ma anche per l’offesa, l’offesa atroce che mi<br />
avevano fatto approfittando di quella mia disgrazia di<br />
un figlio così inetto. Una femmina.<br />
Era proprio pensando alla sua debolezza che, da pastore<br />
di pecore, mi ero trasformato in vaccaro. Ai suoi<br />
grilli di studiare, di farsi geometra o maestro, io non<br />
ci ho mai creduto. Per studiare ci vuole cervello, e lui<br />
di cervello non ha mai dimostrato di averne, disgraziato.<br />
E neanche in questa occasione, ha dimostrato<br />
d’averne di cervello. Né cervello né altro.<br />
Venti vacche di razza. Tutti i nostri beni. E ora la<br />
stalla era vuota e lui era lì, tremante e piagnucolante.<br />
E sembrava davvero credere che volessi strangolarlo.<br />
Ed era invece per lui, pensando al suo futuro, che mi<br />
era venuta l’idea di trasformarmi in vaccaro, io pastore<br />
di pecore.<br />
La somma, il risultato di una vita di lavoro senza riposo,<br />
quelle venti vacche nelle quali avevo investito e<br />
impegnato persino il letto sul quale dormiva quell’altra<br />
infelice di sua madre. Venti vacche per comprare<br />
le quali non era bastato che vendessi le duecento pecore<br />
che erano il frutto di quasi trent’anni di servitù,<br />
ma avevo dovuto inchinarmi a destra e sinistra per ottenere<br />
le firme di cauzione che la banca esigeva per<br />
30<br />
prestarmi la somma che mancava. Perché venti vacche<br />
selezionate significavano anche una stalla moderna,<br />
un medicaio e dei pozzi per l’acqua. Significavano<br />
un silos per il mangime e bidoni nuovi e tanti di quegli<br />
attrezzi che a nominarli sembrano nulla, ma che<br />
sommati costano più di quanto uno non riesca neppure<br />
a immaginarsi.<br />
Venti vacche di razza che erano il frutto del sudore<br />
e del sangue di tutta la mia vita e che dovevano essere<br />
il futuro di quel disgraziato di figlio che se le era lasciate<br />
portar via.<br />
La stalla vuota, così vuota e fredda che, se non fosse<br />
stato per quegli escrementi, avrei quasi potuto credere<br />
di essermele sognate le mie venti vacche di razza.<br />
Dovevano averci spiato bene, i delinquenti. Dovevano<br />
essere stati lì intorno a osservarci e appena si furono<br />
accertati che io mi ero allontanato nella strada verso<br />
il paese, si erano infilati quelle maschere infami ed<br />
erano entrati in azione. E se io per caso, o per miracolo<br />
come sostiene lei, io che non dimentico mai<br />
niente non avessi dimenticato la forma di ricotta fresca<br />
che avevo promesso al dottore e, a circa metà<br />
strada, non fossi tornato per prenderla, allora te lo saluto<br />
il futuro di mio figlio, te le saluto le mie venti<br />
vacche selezionate. Scomparse per sempre, e noi rovinati,<br />
e con vergogna.<br />
– Ma babbo, ascoltatemi, non vi arrabbiate troppo, –<br />
continuava a piagnucolare, – non vi arrabbiate. Che<br />
cosa potevo fare contro tre uomini armati? Tre mitra<br />
31
puntati sulle costole. Voi che cosa avreste fatto? Che<br />
cosa avreste fatto voi?<br />
Che cosa avrei fatto io? Io, io, io li avrei fatti a pezzetti<br />
con la sola forza del mio odio, loro e i loro maledetti<br />
mitra. Li avrei schiacciati col mio odio. Come<br />
scarafaggi. In polvere. In polvere li avrei ridotti.<br />
Ma sapevo che non era vero, nessuno avrebbe potuto<br />
opporsi. E a che cosa serviva umiliare il ragazzo?<br />
Serviva solo a farmi salire la pressione al punto che le<br />
vene delle tempie me le sentivo prossime a esplodere.<br />
Dopo avergli gridato, dopo averlo scosso come un<br />
fantoccio di stracci, artigliandolo per quelle spallucce<br />
magre che sotto la pressione delle mie dita rivelavano<br />
la loro gracilità femminea, il vento della mia ira cambiò<br />
direzione e la furia per l’insulto si trasformò in una<br />
più chiara consapevolezza della rovina che ci incombeva.<br />
E più forte divenne l’angoscia per la miseria di<br />
quel meschino di figlio che la sorte ci aveva dato. Quel<br />
figlio che avrebbe dovuto essere il nostro sostegno e<br />
che invece sarò io a dover aiutare e proteggere sino a<br />
che una goccia di sangue continuerà a scorrermi nelle<br />
vene. Quel figlio la cui debolezza mi aveva convinto a<br />
vendere il gregge per trasformarci, noi pastori di pecore<br />
brade, in vaccari moderni.<br />
Era per lui, per il suo futuro, che ora, subito, senza<br />
perdere un altro minuto, dovevo mettermi a inseguirli,<br />
i maledetti. Avevano già troppe ore di vantaggio<br />
su di noi e, se non volevo rinunziare a qualunque<br />
speranza, era ora, subito, che dovevo mettermi a inse-<br />
32<br />
guirli. Mandai il ragazzo a chiedere aiuto ai vicini, e<br />
mi avviai.<br />
La terra era dura come roccia, dopo tanto vento e siccità,<br />
ma venti vacche e tre cavalli fortunatamente non<br />
possono non lasciare tracce del loro passaggio.<br />
Era uno schifoso periodo di reumatismi. Uno di quei<br />
periodi in cui le mie ossa diventano un mucchio disordinato<br />
di carboni accesi, e non una goccia di sudore<br />
riesce a spremersi da questa pesante carcassa incendiata<br />
in cui si è trasformato il mio corpo.<br />
Dopo che a febbraio si erano sciolte le ultime nevi,<br />
non era caduta una goccia d’umidità sulla terra che<br />
era secca e bruciata dal vento come se anziché dall’inverno<br />
stessimo uscendo da una lunga estate. Le nuvole<br />
passavano alte sopra di noi, ma non davano pioggia<br />
né neve come se non contenessero altro che vento.<br />
Anche quella notte correvano per il cielo nascondendo<br />
e rivelando la luna, e facendo scricchiolare le mie<br />
vecchie ossa quando, per non perdere le tracce, ogni<br />
tanto dovevo smontare da cavallo e camminare a piedi<br />
sino a che non mi accertavo di essere ancora sulla<br />
strada giusta.<br />
Ma anche a costo di morire, a costo di spaccarmi il<br />
cuore, a costo di girare tutta l’isola, avrei dovuto raggiungerli<br />
quei maledetti e riprendermi ciò che era<br />
mio. Le mie venti vacche selezionate. Il frutto di tutta<br />
una vita di fatiche. Ma meglio spaccarlo a loro il cuore,<br />
a quei maledetti che avrei voluto vedere sbranati dai<br />
miei cani.<br />
33
E invece erano loro, i miei cani, che avevo visto giacere,<br />
rigidi di veleno, nell’aia davanti alla stalla. Anche<br />
questo dovevano pagare i delinquenti. I miei cani<br />
che quando arrivavo mi venivano incontro come bambini<br />
affettuosi e che ora giacevano lì, morti, gettati<br />
alle mosche e all’astore.<br />
Non mi ci volle molto per accertarmi di ciò che temevo:<br />
come del resto era logico e io stesso al loro posto<br />
avrei fatto, si erano avviati in direzione del Passo<br />
della Croce. Di lì si diramavano tre sentieri, uno dei<br />
quali sboccava nella strada provinciale dove sicuramente<br />
c’erano dei camion pronti a trasportare le mie<br />
bestie in qualche irraggiungibile luogo. Per venderle<br />
a qualche allevatore che le avrebbe mescolate e camuffate<br />
fra le sue bestie, o a qualche beccaio esperto in<br />
timbri falsi che le avrebbe macellate e imbarcate chissà<br />
dove in qualche approdo sulla costa dove i pescatori<br />
ponzesi son pronti a tutto, pur di trovare un pezzo<br />
di pane per togliersi la fame.<br />
Bisognava che li raggiungessi prima del Passo della<br />
Croce, se non volevo rischiare di perdere tempo prezioso<br />
esplorando i tre sentieri.<br />
Un po’ a cavallo, un po’ a piedi dove le tracce diventavano<br />
incerte, con quella luna che entrava e usciva<br />
dalle ventose montagne di nuvole che tempestavano<br />
in cielo, procedevo voltandomi ogni tanto, nella speranza<br />
di vederli arrivare, i vicini che dovevano aiutarmi,<br />
e mio figlio.<br />
Non vedendoli, senza fermare il cavallo, tiravo fuo-<br />
34<br />
ri l’orologio e constatavo che per la mia ansia il tempo<br />
correva più rapido delle lancette del mio Roskoff.<br />
35
Astianatte<br />
Come al solito, poco dopo l’ingresso la maestra l’aveva<br />
scacciato di classe. Fuori nell’andito. Per non disturbare<br />
le lezioni. Tanto lui dell’insegnamento non<br />
era in grado di profittarne neppure un poco, e con la<br />
sua presenza non avrebbe fatto che impedire ai compagni<br />
di stare attenti. I motivi per metterlo in castigo<br />
non occorreva cercarli. Bastava un’ispezione superficiale<br />
alle sue orecchie e alle sue unghie, sempre orlate<br />
di nero, coperte di croste, per avere ragioni più che<br />
sufficienti per isolarlo dagli altri. Una mela marcia<br />
nel canestro può corrompere tutte le altre. Meglio sacrificare<br />
uno per il bene degli altri.<br />
E Astianatte solo nell’andito s’annoiava. Astianatte<br />
aveva freddo. Astianatte non sapeva perché era stato<br />
scacciato, e non se lo domandava. Era così ogni mattina.<br />
I vetri della finestra dell’andito erano rotti. Nell’andito<br />
della scuola c’era più freddo che nella strada.<br />
E nell’andito era proibito giocare e fare chiasso. Astianatte<br />
s’annoiava e aveva freddo.<br />
Da sotto la porta delle latrine filtrava una grande<br />
37
pozzanghera d’acqua sporca. Per far passare il tempo,<br />
Astianatte si mise a camminare nell’acqua. L’acqua della<br />
pozzanghera era fredda.<br />
Astianatte cominciò a stampare le impronte dei<br />
propri piedi bagnati sulla polvere delle mattonelle tra<br />
la porta dell’aula di quarta e la porta dell’aula di prima.<br />
Tutte in fila, all’alluce destro attaccato il calcagno<br />
sinistro e all’alluce sinistro attaccato il calcagno destro.<br />
Una fila di orme sempre più indistinte perché frattanto<br />
i piedi s’asciugavano.<br />
Ma a lungo andare neanche questo era divertente. La<br />
noia aumentava l’impressione di freddo e Astianatte,<br />
appoggiato al davanzale della finestra, tremava e sbadigliava.<br />
Forse aveva fame. Astianatte provò a ricordarsi<br />
il sapore della patata arrosto che aveva trovato<br />
sotto la cenere calda quando si era svegliato. Ma riusciva<br />
soltanto a ricordare quanto era buona e questo gli<br />
aumentava la fame. Provò a pensare a sua madre, che<br />
prima di uscire per andare a lavorare aveva pensato a<br />
lui e aveva messo quella bella patata ad arrostire sotto<br />
la cenere. Certe mattine lo faceva, certe mattine se ne<br />
dimenticava. La mamma di Astianatte non aveva molto<br />
tempo per occuparsi di lui e certi giorni a casa da<br />
mangiare ce n’era, certi altri no. La mamma di Astianatte<br />
era fortunata. Lei non doveva andare a scuola.<br />
Andava in campagna quasi tutti i giorni. A raccogliere<br />
olive, a raccogliere ghiande, a raccogliere finocchietti<br />
selvatici, a raccogliere funghi, a raccogliere cicoria, a<br />
raccogliere fichi d’India… Astianatte si sentiva l’ac-<br />
38<br />
quolina in bocca, pensando a tutte quelle cose buone.<br />
Un ragnetto piccolissimo aveva costruito la sua tela<br />
in un angolo tra lo stipite della finestra e il davanzale.<br />
Astianatte lo catturò e si propose di staccargli le zampe<br />
a una a una. Era un’impresa difficile perché le zampette<br />
erano così sottili e piccine che non si riusciva ad<br />
afferrarle. Facendo molta attenzione e con grande sforzo,<br />
Astianatte riuscì a staccarne due. Poi si stancò, o si<br />
distrasse. Per un poco fu assorbito nella contemplazione<br />
di come il ragno provava ad allontanarsi zoppicando<br />
sulle zampe che gli erano rimaste.<br />
Come tutti i giorni, scacciandolo, la maestra gli aveva<br />
raccomandato di non allontanarsi dall’andito e gli aveva<br />
promesso, o minacciato - Astianatte non conosceva<br />
la differenza - che si sarebbe affacciata ogni tanto per<br />
tenerlo d’occhio. Invece non si mostrava. Ma forse non<br />
era passato tanto tempo. Tutte le porte di tutte le aule<br />
restavano chiuse. Anche il bidello, dopo aver suonato la<br />
campana e aver assistito all’ingresso delle classi, si era<br />
come al solito ritirato nel suo sgabuzzino, a bere dalla<br />
sua borraccia d’acquavite e a dormire. Non lo si rivedeva<br />
prima della campana della ricreazione.<br />
Astianatte s’annoiava e aveva freddo.<br />
Una donna imbacuccata in uno scialle nero passò<br />
nella stada dietro la cancellata della scuola. Il vento le<br />
muoveva le frange dello scialle. Il vento le sollevava<br />
l’orlo delle lunghe sottane scure. La donna camminava<br />
un po’ curva. Con una mano teneva strette le sottane,<br />
con l’altra lo scialle.<br />
39
Dopo che la donna fu passata, non accadde più<br />
niente. La mente di Astianatte era vuota. Forse Astianatte<br />
aveva persino smesso d’annoiarsi. Da un’aula si<br />
alzò un coro di scolari. “Nel bosco c’è un ometto, gentile<br />
e bel / di porpora il farsetto, ed il mantel”. Astianatte<br />
provò a cantare anche lui, ma si spaventò della<br />
propria voce. Si guardò attorno timoroso. L’andito era<br />
ancora deserto.<br />
Zio Battista, il bidello, si portava a scuola, per scaldarsi,<br />
un braciere di carbonella e una borraccia d’acquavite.<br />
Zio Battista era vecchio e il Comune lo teneva<br />
come bidello solo per pietà, come dicevano alcuni.<br />
Per non essere costretti a pagare la pensione a<br />
lui e lo stipendio di bidello ad un altro, come dicevano<br />
altri. Astianatte di questo non sapeva niente.<br />
Zio Battista c’era, e basta. Come tutte le cose e le persone<br />
c’erano, e basta. Non c’erano cause ed effetti nel<br />
mondo di Astianatte. Ma Astianatte immaginava che<br />
nello sgabuzzino di zio Battista, con quel braciere di<br />
carbonella e quel vago odore d’inchiostro e d’acquavite,<br />
si doveva stare bene. Senza rendersene conto, già<br />
stava percorrendo l’andito. Senza riflettere, stava spingendo<br />
la porta e stava entrando nello stanzino del bidello.<br />
Zio Battista stava sdraiato su una panca. Un po’ raggomitolato<br />
su un fianco. Un fascio di carte polverose<br />
gli faceva da guanciale e il suo berretto bisunto gli copriva<br />
il viso. Il suo respiro era impercettibile e Astianatte<br />
pensò che, se zio Battista era morto, la maestra<br />
40<br />
avrebbe accusato lui d’averlo ucciso e allora l’avrebbero<br />
messo in prigione, come suo padre, e l’avrebbero<br />
condannato a restare in prigione tutta la vita. Come<br />
suo padre. La sua certezza era così ferma e pura che<br />
neppure preoccupazione e rancore vi erano mescolati.<br />
Le cose accadevano chissà dove, chissà in quale buio,<br />
fuori dalla volontà umana. Ed erano inevitabili. Non<br />
si può avere rancore, né altro genere di sentimenti,<br />
verso le cose inevitabili.<br />
Zio Battista però non era morto, e il fruscio che i<br />
piedi scalzi di Astianatte fecero entrando lo destò dal<br />
suo sonno leggero di vecchio. Sollevò un momento il<br />
berretto, per vedere chi c’era. Poi, senza muoversi, domandò:<br />
– Che cosa vuoi?<br />
Astianatte non sapeva che cosa voleva - tepore? compagnia?<br />
distrazione? - e non rispose. Rimase lì, sollevando<br />
appena le spalle come in una muta risposta, la<br />
testa inclinata sull’omero, la bocca socchiusa e una<br />
lunga candela di moccio che gli scendeva dal naso.<br />
C’era odore d’inchiostro, di polvere, d’acquavite. Un<br />
buon odore. Molto meglio che nell’andito dove c’era<br />
odore di latrina.<br />
Zio Battista si rimise il berretto sugli occhi, senza<br />
insistere nella sua domanda. Astianatte s’accoccolò per<br />
terra, accanto al braciere. Fra le ceneri grigio-rosate<br />
s’accendevano minuscole scintille. Come stelline. O<br />
come, nelle notti d’estate, le luci dei paesi sparsi nelle<br />
valli e montagne lontane.<br />
41
Guardandole, Astianatte s’assopì e gli parve che fosse<br />
estate e che se ne stesse seduto sui gradini davanti<br />
al portone del municipio. E questo era tutto il suo sogno:<br />
era estate, e lui se ne stava seduto davanti al portone<br />
del municipio perché la scuola era chiusa.<br />
Una mosca gli sfiorò l’orecchio e Astianatte fece<br />
per schiacciarla, ma la mosca non era una mosca ma<br />
la mano di zio Battista che si era alzato e, chino su di<br />
lui, gli parlava.<br />
– Sei ancora qui?<br />
Astianatte s’alzò e, senza rispondere, trascinando i<br />
piedi s’avviò verso la porta. Era già sulla soglia quando<br />
zio Battista lo chiamò. Porgendogli la borraccia gli diceva:<br />
– Bevi anche tu, figliolino. È un sorso di sole. Bevine<br />
un po’. Fa molto freddo, oggi.<br />
Sentendosi chiamare “figliolino”, Astianatte scoppiò<br />
a piangere.<br />
42<br />
Maschera e maschere<br />
A babbo non lo dissi. Perché babbo lo temo. Lui è<br />
così forte e sicuro di sé, e niente di ciò che dico o faccio<br />
gli va bene. Ma non sono un idiota, come lui crede.<br />
E ho capito subito che quelli avevano cattive intenzioni<br />
e che se avessi cercato di oppormi mi avrebbero<br />
fatto la festa. E ho anche capito subito che se volevo<br />
salvarmi la vita dovevo far finta di non averli riconosciuti.<br />
E anche con babbo faccio finta di non sapere, a costo<br />
di farmi credere più stupido e buono a nulla di<br />
quanto sono.<br />
– Erano mascherati e quando sono entrati io dormivo.<br />
– Dormivi? Disgraziato… fannullone, idiota… che<br />
non so come faccia la terra a sopportarti… e non ti<br />
vergogni a dirlo, che a quell’ora dormivi?<br />
– Be’ forse non dormivo proprio… Ma mi ero coricato…<br />
perché… non sapevo che cosa fare… le vacche<br />
erano già nella stalla e ormai sino alla notte non sapevo<br />
come passarlo, il tempo. E sono entrati all’improvviso<br />
senza far rumore… O se ne hanno fatto, il<br />
43
umore che hanno fatto si sarà mescolato al rumore<br />
del vento… Io non li ho sentiti… I cani non hanno<br />
abbaiato…<br />
M’interrompeva continuamente, ma io continuavo,<br />
come una macchina, e più io parlavo, più lui si arrabbiava,<br />
gridando e stringendo i pugni come se volesse<br />
massacrarmi. E più lui gridava, più io avevo paura, e<br />
la perdita delle vacche mi pareva niente in confronto<br />
alla paura e alla vergogna che provavo davanti a lui.<br />
– E tu dormivi… come una donnicciola, tranquillo e<br />
pacifico, come l’imbecille che sei… e lasciavi che ti avvelenassero<br />
i cani, che valevano più loro di te, quei cani,<br />
che gli mancava solo la parola… e tu la parola ce<br />
l’hai e te ne servi solo per dire sciocchezze, come una<br />
donnetta. E come una donnetta ti lasciavi legare e imbavagliare<br />
e bendare senza reagire… che anche un<br />
agnello avrebbe tentato di opporsi… ma tu no… tu<br />
che diventerai la favola del paese e che non so che cosa<br />
mi trattiene dallo strangolarti con le mie stesse mani…<br />
Gridava e gridava e temevo che, arrabbiato com’era,<br />
davvero mi uccidesse. Ma all’improvviso cambiò, e quasi<br />
calmo mi diede l’ordine di andare ad avvertire i vicini<br />
e chiedere aiuto per la ricerca, mentre lui, senza perdere<br />
altro tempo, voleva mettersi sulle tracce dei ladri, prima<br />
che il temporale scoppiasse e cancellasse tutto.<br />
Io lo sapevo che “i vicini”, o almeno uno di loro, era<br />
inutile cercarli, perché era proprio di lì che era partito<br />
il colpo. Ma ci andai lo stesso, perché tanto stupido<br />
non sono e se non fossi andato anche lì a chiedere aiuto,<br />
44<br />
avrebbero capito che sapevo chi ci aveva derubati, che<br />
avevo solo fatto finta di dormire e che li avevo riconosciuti.<br />
E oggi non sarei qui a ricordarlo.<br />
In quell’ovile naturalmente non c’era nessuno, solo<br />
un ragazzino che disse che il padrone era a Pediada.<br />
Poi andai dagli altri vicini, e trovai due uomini anziani<br />
che ci sono parenti e che vennero insieme a me,<br />
nella direzione in cui era partito babbo. Le tracce erano<br />
ancora visibili e facili da seguire perché ogni tanto<br />
c’era la luna e fortunatamente il temporale non era<br />
ancora scoppiato, il terreno era asciutto e duro come<br />
d’estate, e venti vacche e tre cavalli lasciano un bel<br />
po’ di sterco sulla loro strada.<br />
Ma intanto erano passate diverse ore e babbo doveva<br />
aver camminato molto in fretta, perché lo incontrammo<br />
quando già aveva recuperato il bestiame e stava<br />
tornando, spingendole tutte e venti, le vacche, avanti<br />
a sé. E neppure una ne mancava, come se fossero appena<br />
uscite dalla stalla.<br />
Però non sembrava contento. E forse solo io capivo<br />
perché non poteva essere contento, anche se dovevo e<br />
devo far finta di non sapere niente. Ma sapevo chi<br />
erano i ladri e perciò sapevo che, anche se la roba era<br />
recuperata, l’offesa restava e resta. Ed è un’offesa grave.<br />
Io però facevo finta di niente, perché una volta che<br />
si comincia con una bugia meglio continuare a dirla,<br />
se no poi non ti credono neppure quando dici la verità.<br />
E io avevo detto di non aver riconosciuto nessuno<br />
e così continuerò a dire.<br />
45
In principio l’ho detto per paura di babbo, che se<br />
avesse saputo che li avevo sentiti e che non avevo neppure<br />
tentato di difendermi, si sarebbe infuriato ancora<br />
di più. Ora continuo a dirlo, anche se tutti ridono di<br />
me, perché dopo quello che hanno fatto a Giosuè, voglio<br />
che loro sul mio conto si sentano sicuri, e non facciano<br />
a me ciò che hanno fatto a lui, che una fine peggiore<br />
non potevano fargliela fare.<br />
Ma io so. E so, dalla faccia che aveva, che anche<br />
babbo sa chi erano. Anche se di questo non ha detto<br />
neanche una parola e anzi, quando gli hanno domandato,<br />
ha risposto che erano mascherati, che dovevano<br />
essere forestieri e che l’importante per lui era che le<br />
vacche erano di nuovo nella stalla e che di quel furto<br />
mancato non era neppure il caso di continuare a parlarne.<br />
Chi fossero o chi non fossero era senza importanza,<br />
ha risposto a chi gli domandava. Ma tutti sanno<br />
che ciò significa soltanto che per lui la faccenda è<br />
chiusa, e non necessariamente che non sa chi fossero i<br />
ladri. Tutti sanno che ognuno può avere i suoi buoni<br />
motivi per tacere, che i segreti bisogna rispettarli, e<br />
non bisogna forzare nessuno a dire ciò che non vuole<br />
dire.<br />
E io invece non desidero che di poterne parlare con<br />
qualcuno. Ma so che devo tener duro e continuare a<br />
tacere, in questo maledetto paese dove tutti abbiamo<br />
paura. Anche babbo, con tutto il suo orgoglio e il suo<br />
coraggio, perché non dovrebbe andare a denunziarli,<br />
se non perché ha paura?<br />
46<br />
Ma come si può vivere tutta la vita, sempre, con la<br />
bocca chiusa, perché se la apri la bocca, ti può capitare<br />
quello che è capitato a Giosuè? Io non sono adatto a<br />
questa vita. Ma babbo non lo vuol capire che non è perché<br />
sono stupido e vigliacco, come dice lui, è soltanto<br />
che io desidero una vita diversa da questa. Una vita che<br />
non so neppure io come, ma diversa. In un altro posto,<br />
con un’altra vita, sarei bravo anch’io. E un giorno o l’altro,<br />
che a babbo piaccia o non piaccia, me ne vado. Meglio<br />
in fondo a una miniera belga che in questo paese<br />
maledetto.<br />
47
Il messaggero<br />
L’aspetto confuso e le parole dell’uomo che venne ad<br />
annunciarci la nostra sventura.<br />
È un uomo senza volto nella mia memoria. Ne ricordo<br />
invece i gambali di cuoio impolverati e le mani<br />
pallide dalle grosse vene rilevate e ombreggiate di radi<br />
peli scuri. Forse perché il viso restava in ombra, o forse<br />
perché mi fissai a guardargli le mani, e i gambali, non<br />
vidi il suo volto.<br />
La sua massiccia figura invase a un tratto la porta<br />
dalla quale entravano le ultime luci del tramonto. La<br />
sua ombra scura corse per l’ineguale pavimento della<br />
cucina.<br />
Dietro di lui, come lo sfondo di un quadro, il muro<br />
del cortile ancora in luce. I passeri gridavano tutti insieme,<br />
nascosti tra le foglie dell’edera.<br />
L’uomo varcò la soglia e, con impaccio, per prendere<br />
tempo o per buona creanza, si dilungò nei convenevoli<br />
di saluto. Nonna restò seduta sulla sua seggiola impagliata,<br />
nel suo posto consueto, nell’angolo tra il muro<br />
e il camino. Le mani ossute abbandonate sulle ginocchia,<br />
rispondeva per tutti con le frasi di prammatica.<br />
49
Recitavano un dramma del quale ancora non si erano<br />
udite che le prime insignificanti battute. Eppure<br />
già si sentiva un’inquietudine che non sfuggì neppure<br />
a noi, le più giovani. Era come se, dal suo primo apparire,<br />
insieme a lui avessimo sentito entrare la morte.<br />
Mamma continuava a sbucciare le patate e guardava<br />
l’uomo, aspettando che dicesse, ma senza chiederglielo,<br />
il motivo della visita. Non si domanda all’ospite<br />
perché sia venuto, bisogna dargli tempo. L’uomo era<br />
ancora un ospite.<br />
L’ombra era diventata all’improvviso più fitta e il<br />
ticchettio della sveglia sul camino mi pareva particolarmente<br />
alto e fastidioso. L’uomo fece col capo un<br />
breve cenno verso me e Daniela che sedevamo accanto<br />
al tavolo, con i quaderni e i libri aperti. Io avevo finito<br />
la scuola già da quattro anni, ma mi preparavo<br />
per corrispondenza a questo diploma nel quale mettevo<br />
tutte le mie speranze.<br />
Mamma ci mandò in cortile per cogliere del basilico.<br />
Sapevamo che ciò significava che dovevamo restar fuori<br />
sino a che non ci avesse chiamato. L’uomo portava un<br />
messaggio che non voleva dare in nostra presenza.<br />
Ubbidimmo a malincuore. Chiudemmo libri e quaderni<br />
e uscimmo lentamente, tendendo l’orecchio. Ma<br />
l’uomo continuò a tacere sino a che non fummo nel<br />
cortile che ora era colmo del vocio dei passeri che si<br />
contendevano lo spazio tra le foglie dell’edera e nei<br />
vani sotto le tegole.<br />
Ma più alto del vocio di cento e cento passeri, più<br />
50<br />
penetrante del grido del vento quando la tempesta<br />
infuria sulla terra, più terrificante del fragore del<br />
tuono, ci colpì l’urlo di mamma. Un urlo di bestia<br />
ferita nel quale a mala pena riconoscemmo la sua voce.<br />
I passeri tacquero e l’aria ne tremò tutta.<br />
Ci ritrovammo in cucina. Mamma scuoteva l’uomo<br />
per le spalle. Era grande e terribile mamma in quel<br />
momento, e l’uomo pareva essersi rimpicciolito e indebolito.<br />
All’improvviso mi pareva un vecchio.<br />
– Dilla tutta la verità! Dillo che la nostra casa è caduta!<br />
Dillo che è morto, e che voi l’avete ucciso, il<br />
mio bambino, la mia palma d’oro! Voi che lo sapevate<br />
in pericolo e non l’avete difeso…<br />
– Calmati, Lucia. È la volontà di Dio. Dio ci dà le<br />
sventure ma ci dà anche la rassegnazione. Tu sei religiosa<br />
e Dio ti darà la rassegnazione.<br />
All’implicita conferma dell’uomo, mamma era crollata.<br />
Era ridiventata piccola e singhiozzava, con le spalle<br />
accasciate, mentre l’uomo ora era gigantesco e forte<br />
e cercava goffamente di calmarla.<br />
Anche nonna si era levata in piedi e l’abbracciava.<br />
Nella confusione che all’improvviso aveva sconvolto<br />
la casa, le parole di nonna, stranamente scandite, vibrarono<br />
nell’aria come uno schiocco di frusta.<br />
– Come è vero Dio, qualcuno cancellerà col sangue<br />
queste lacrime!<br />
Anche quella sera babbo tornò a casa barcollante d’ubriachezza.<br />
Ma nessuno badava a lui. Come un estraneo<br />
si mise a sedere in un angolo vicino al forno, guar-<br />
51
dandosi attorno con espressione colpevole e idiota. Dovevo<br />
non guardarlo, per non detestarlo troppo.<br />
La cucina si era riempita di gente. Era come se tutto<br />
il paese avesse atteso dietro il muro del cortile che il<br />
grido di mamma desse il segnale di quella cerimonia<br />
che era stato pronto a celebrare. Le voci si sommavano<br />
in un brusio di alveare. Quella di mamma sovrastava<br />
tutte le altre, ma era alta e stridula come la voce di<br />
un’invasata. Una voce che non le conoscevo. Tutti la<br />
ascoltavano, come si ascolta il prete quando celebra le<br />
sue funzioni davanti all’altare.<br />
Mamma ora, tra lamenti e pianti, raccontava un sogno<br />
che l’aveva torturata le ultime tre notti.<br />
Bianco come un giglio un agnello pascolava per una<br />
tanca fiorita. Ma a un tratto l’aria s’oscurava e un falco<br />
piombava fulmineo sull’agnello, e lo sgozzava. Il sangue<br />
scorreva nero e denso, coprendo l’erba e i fiori,<br />
inondando la campagna in un orrendo, vorticoso torrente<br />
di pece nel quale lei, che paralizzata dall’angoscia<br />
aveva assistito alla scena senza poter reagire, si<br />
sentiva soffocare.<br />
Per tre notti si era svegliata, madida di sudore e col<br />
cuore tremante di spasimo, sentendo una voce che la<br />
chiamava. Ma non aveva saputo interpretare il presagio.<br />
Giosuè, mio fratello, era stato sgozzato dai falchi che<br />
per sua sventura aveva visto passare davanti all’ovile<br />
del Passo della Croce, dove era stato mandato a custodire<br />
una mandria di porci.<br />
52<br />
A Cesare quel ch’è di Cesare<br />
Di peccati ne aveva altri sulla coscienza, e anche di<br />
questo l’unico vero responsabile fu lui. Noi eravamo<br />
presenti, inutile negarlo davanti a Dio anche se gli uomini<br />
da me non lo sapranno mai. Perché ormai il mio<br />
destino è legato al suo e il male che capiterà a lui sarà<br />
anche il mio male. Noi eravamo presenti, vero, ma<br />
come avremmo potuto impedire che ciò che accadde accadesse?<br />
Se Dio non l’aveva impedito, come potevano<br />
impedirlo noi? Dio sa tutto, anche ciò che ancora non è<br />
accaduto, noi invece non potevamo certo immaginare<br />
che stesse per accadere una simile mostruosità, che dovesse<br />
capitare una disgrazia come quella, e proprio sotto<br />
i nostri occhi. Tutto potevamo pensare, ma non quello.<br />
Per noi era stata un’impresa come un’altra: se eravamo<br />
valenti e fortunati bene, e se no pazienza. Se non<br />
diventavamo più ricchi non diventavamo neppure più<br />
poveri per averci provato. E neanche disonorati. Ma<br />
per lui era diverso. Era lui che aveva obblighi di vicinanza<br />
e di parentela con zio Antonio Flores, il proprietario<br />
delle vacche. Io no, neppure lo conoscevo, se non<br />
di vista e di nome, zio Antonio Flores. E rubare non è<br />
53
offesa, peggio per chi non la sa difendere la roba sua.<br />
Ma lui no. Lui aveva mangiato e bevuto in casa di<br />
zio Antonio Flores. Rubandogli il bestiame lui tradiva<br />
uno che lo aveva trattato da amico.<br />
Per me, quando zio Antonio Flores ci raggiunse, la<br />
partita poteva anche considerarsi chiusa, con o senza<br />
abbuono. L’impresa era fallita, e pazienza. Anzi io sentivo<br />
che era giusto così. Zio Antonio Flores aveva dimostrato<br />
di essere più bravo di noi. Un uomo. Bastava<br />
il coraggio che aveva dimostrato, presentandosi da solo<br />
a noi tre armati, per meritargli il massimo rispetto.<br />
Un uomo così, in guerra, l’avrebbero fatto generale e<br />
gli avrebbero coperto il petto di medaglie.<br />
Lui invece no. Lui sapeva di essere nel torto ed era<br />
diventato pazzo d’umiliazione e di vergogna. Zio Antonio<br />
Flores l’aveva riconosciuto, anche se sentendolo<br />
arrivare ci eravamo rimessi le maschere, e prima di ripartirsene<br />
con la sua roba, gli aveva sputato addosso.<br />
A lui, e non a noi. E noi avevamo visto che gli aveva<br />
sputato addosso.<br />
Forse fu anche per chiuderci la bocca, perché non potessimo<br />
raccontare in giro che zio Antonio Flores gli<br />
aveva sputato addosso, più che per vendicarsi di quel<br />
bambino, che ci portò a “regolare i conti col ragazzo<br />
del Passo della Croce”. Il quale, poveretto, magari non<br />
aveva neppure parlato. E non era necessario che parlasse<br />
perché un uomo, come zio Antonio Flores aveva<br />
dimostrato di essere, capisse che cosa volevamo fare<br />
delle sue vacche, e quale strada avevamo preso.<br />
54<br />
Sino all’ultimo però, come è vero Dio, non capii che<br />
cosa intendeva dire con “regolare i conti”. Forse non lo<br />
sapeva neppure lui. È stata una cosa che gli è saltata in<br />
mente mentre già la faceva, o che ha capito di aver<br />
fatto dopo che ormai era irrimediabile. Perché non<br />
sono nato ieri, ma una cosa così non era mai accaduta<br />
nel mondo, e non immaginavo che potesse accadere.<br />
Regolare i conti, pensavo una bastonata, uno spavento,<br />
uno sfregio. Non quella pazzia smisurata che quando<br />
tentammo di opporci, quasi travolse anche noi.<br />
– Ma compare, che fate? – gli gridammo quando<br />
vedemmo che già col coltello in mano gli apriva la<br />
bocca come a una bestia e gli tirava fuori la lingua.<br />
Tenendo fra le dita quel pezzo di lingua sanguinante<br />
si voltò verso di noi col coltello alzato, come minacciandoci.<br />
Era impazzito, completamente impazzito.<br />
Credo di aver chiuso gli occhi, perché intorno a me<br />
tutto divenne buio e rosso. Come quando ci si addormenta<br />
al sole. E c’era solo quell’urlo di bestia che non<br />
so se veniva da lui o dal ragazzo.<br />
Poi voleva andarsene, lasciandolo in quell’agonia senza<br />
speranza. Finirlo fu solo pietà. Perché terminasse<br />
di soffrire e perché la smettesse con quell’urlo che non<br />
pareva più umano.<br />
È vero, non fu lui a sparare. A dare il colpo di grazia.<br />
Ma la colpa di tutto era sua e solo sua, e il fatto<br />
che fosse così ubriaco non è una scusa sufficiente.<br />
Anche noi eravamo ubriachi. Tutta la notte e tutto il<br />
giorno che seguì, dopo che zio Antonio Flores se n’era<br />
55
andato con le sue bestie, lasciandoci a mani vuote e col<br />
cuore pieno d’umiliazione, li avevamo passati a bere. E<br />
più bevevamo, più sembrava aumentare il veleno dentro<br />
di lui. Io ero cotto, perché il vino non lo resisto, ma<br />
del suo veleno non potevo non accorgermene. E in un<br />
certo qual modo mi pareva anche giusto, che fosse così<br />
avvelenato.<br />
Quel temporale che minacciava da giorni e che avevamo<br />
sperato che scoppiasse e cancellasse le nostre<br />
tracce, girava ancora nell’aria senza dare una goccia<br />
d’acqua. Solo vento, e quella minaccia pesante nell’aria.<br />
Eravamo tornati al suo ovile, e così bevendo era passato<br />
il giorno ed era tornata la notte, senza portarci né<br />
sonno né pace. Quando lui cominciò a parlare di andare<br />
“a regolare i conti”, sellammo di nuovo i cavalli e<br />
partimmo. Io però, ubriaco com’ero, non capivo quali<br />
erano i conti che dovevamo regolare. Pensavo che forse<br />
voleva di nuovo tentare il colpo con le vacche di zio<br />
Antonio Flores o qualcosa di simile.<br />
Tutti eravamo ubriachi, ma io ero così ubriaco che<br />
non riesco a ricordare nulla di quel ritorno al Passo<br />
della Croce, che meglio sarebbe chiamarlo Passo dell’Inferno,<br />
dopo ciò che è successo. Perché doveva esserci<br />
il diavolo, lì ad aspettarci. A meno che non fosse<br />
stato con noi sin dal principio.<br />
Ricordo però che risi, perché in quel momento la<br />
cosa mi pareva molto divertente, quando sparò una<br />
raffica di mitra sul cane e cominciò a prendere a pedate<br />
il ragazzo che a ogni colpo veniva sollevato<br />
56<br />
mezzo metro da terra e poi ricadeva come un sacco di<br />
stracci. E gridava e supplicava, e anche quello mi pareva<br />
divertente, ubriaco com’ero.<br />
Ma quando gli vedemmo in mano il coltello e vedemmo<br />
che gli apriva la bocca e gli tirava fuori la lingua<br />
come a una bestia malata: – Ma compare, che fate?<br />
– gli gridammo. Ma già si voltava, tenendo nella destra<br />
il coltello levato su di noi e nella sinistra quel<br />
pezzo di carne sanguinante.<br />
Voleva abbandonarlo lì in quell’agonia senza speranza,<br />
voleva che ce ne andassimo lasciando che gettasse<br />
dalla bocca tutto il suo sangue, senza neppure<br />
potersi lamentare, solo quel grido soffocato e terribile<br />
da bestia. Ma anche se ubriachi, a noi la pietà non ci<br />
aveva abbandonato del tutto e chi gli sparò lo fece<br />
perché finisse quella sofferenza senza speranza. Ma<br />
con quell’atto di pietà ci eravamo per sempre legati a<br />
lui, alla sua malvagità, al suo destino.<br />
57
Una cosa grande e solenne<br />
Il suo corpo venne riportato in paese, già chiuso in<br />
una doppia bara, e non potemmo vederlo. Mamma<br />
sembrava pazza, con i capelli sciolti sotto il fazzoletto<br />
nero gridava e cantava, improvvisando, la bontà e l’innocenza<br />
di Giosuè, il nostro dolore, e la crudeltà di<br />
quelli che si erano macchiati del suo sangue. Si teneva<br />
abbracciata alla bara per impedire che la portassero<br />
via, e la baciava e carezzava come se sotto il legno sentisse<br />
il corpo sfregiato del suo bambino.<br />
Quando le campane cominciarono a suonare e don<br />
Marcellino entrò, accompagnato dal chierichetto e<br />
dagli uomini della confraternita nei loro atroci camici<br />
bianchi, la staccarono di forza e la ricondussero nell’angolo<br />
accanto al camino spento, dove era rimasta<br />
quasi senza muoversene dal momento in cui l’uomo ci<br />
aveva portato la notizia.<br />
Io non riuscivo a piangere. Tentavo d’immaginare<br />
Giosuè morto, ma non ci riuscivo. Tentavo allora di ricordarlo<br />
vivo, ma anche così la sua immagine risultava<br />
sbiadita e confusa. Ricordo persino che mi vergognavo<br />
di non piangere e mi distraevo a pensare che le vicine<br />
59
mi avrebbero criticato per la mia apatia e freddezza. Io<br />
stessa, molte volte, tornando dai funerali, avevo fatto<br />
commenti e misurato il dolore dei parenti del morto<br />
dall’altezza dei loro lamenti e dalla quantità delle loro<br />
lacrime.<br />
Del resto è inutile che finga con me stessa. In quel<br />
momento non “soffrivo”. Mi sforzavo di soffrire, di “capire”,<br />
ma non mi era possibile. Ero come in preda a<br />
una specie di distrazione, di stupore, e non riuscivo a<br />
immaginare che Giosuè, il mio fratellino mite, aveva<br />
conosciuto la morte, questa cosa grande e solenne.<br />
Per alcune settimane le visite di condoglianza si succedevano<br />
quasi ininterrottamente le une alle altre nella<br />
nostra cucina, e nessuna preoccupazione materiale ci<br />
distraeva dal lutto. I parenti e le vicine ci provvedevano<br />
di cibi caldi. I fornelli e il camino restavano spenti.<br />
Poi, quasi all’improvviso, ci ritrovammo soli con noi<br />
stessi e con la vita quotidiana. Non so degli altri, ma<br />
io cominciai solo allora a capire che cosa era successo e<br />
che cosa ancora poteva succedere.<br />
Per qualche giorno, a casa c’era stato un silenzio pieno<br />
di stanchezza, come un vuoto dopo tutto quel tempo<br />
in cui un fiume di gente era passato per la nostra<br />
cucina e mamma aveva continuato a piangere e a parlare<br />
come se quello fosse il suo dovere più importante,<br />
anzi il suo solo dovere. Come se, parlandone, allontanasse<br />
il momento in cui Giosuè avrebbe cessato d’essere<br />
“nostro” per diventare davvero irrecuperabile preda<br />
della morte.<br />
60<br />
Oreste invece, come me, a mala pena rispondeva, se<br />
qualcuno gli si rivolgeva direttamente con qualche<br />
frase di circostanza o qualche domanda più o meno<br />
rituale. E forse il suo silenzio poteva sembrare stupidità<br />
o indifferenza. Oreste e Giosuè erano gemelli e,<br />
sebbene diversi di carattere e di costituzione, erano<br />
stati così legati che anche a noi che lo conoscevamo e<br />
che avremmo dovuto capire, la sua apparente apatia<br />
ci era parsa strana e autentica.<br />
Ma una sera, in cui c’eravamo solo noi intorno al camino<br />
che da qualche giorno avevamo riacceso, Oreste<br />
disse, quasi più a se stesso che a noi:<br />
– È tutta colpa mia. Io lo sapevo che Giosuè nel<br />
Passo della Croce era in pericolo. Non era la prima<br />
volta che aveva visto passare dei ladri e che era stato<br />
minacciato.<br />
Mamma era saltata su come una furia:<br />
– Ma allora perché non l’hai detto? Chi l’ha minacciato?<br />
Chi?<br />
E lo scuoteva per le spalle, come se dalla sua risposta<br />
dipendesse, ora, il destino di Giosuè. Come se tutto<br />
potesse ricominciare da un certo momento in cui le<br />
cose ancora erano rimediabili. In cui ancora il destino<br />
poteva esser diverso.<br />
Ma Oreste si era messo a balbettare, guardandola con<br />
gli occhi spalancati, come terrorizzato, e dicendo cose<br />
confuse che il pianto represso rendeva ancora più incomprensibili.<br />
I singhiozzi gli si annodavano in gola,<br />
quasi soffocandolo, mentre con le manine aperte si na-<br />
61
scondeva il viso, come vergognandosi delle lacrime che<br />
finalmente si liberavano.<br />
Più tardi, spesso ho pensato a quel momento e ho<br />
capito che in quella frase e in quelle lacrime la nostra<br />
storia si era rimessa in moto verso altre tragedie.<br />
La volpe e gli uccelli<br />
Sfortunata come sono avevo scelto proprio quel giorno<br />
per andare al Passo della Croce. E per andarci così<br />
presto che fui la prima ad arrivarci, dopo la disgrazia.<br />
E toccò a me andare a chiamare gente e dire quello che<br />
avevo visto. Ma non tutto. Perché quello che avevo visto<br />
prima di arrivare sin lì non l’ho detto a nessuno, e<br />
dovrò riuscire a non dirlo. Mai. Perché non voglio fare<br />
la fine di quel povero bambino, buttato lì, davanti alla<br />
sua capanna, in un lago di sangue. Ma non riuscirò mai<br />
a dimenticarlo, quello che ho visto, anche se prego Dio<br />
che mi faccia perdere la memoria.<br />
Ma Dio a me non mi ascolta e non mi ha mai ascoltato,<br />
perché a me Dio a quanto pare non mi vuol<br />
bene, altrimenti non mi avrebbe fatto venire in mente<br />
di scegliere proprio quel giorno, o per meglio dire<br />
quella notte, per andare in quel luogo.<br />
Perché doveva essere in mezzo alla notte quando mi<br />
svegliai e, credendo che fosse vicina l’alba, mi misi per<br />
strada per andare al Passo della Croce a cogliere asfodeli<br />
freschi per i cestini, e finocchietti selvatici. Volevo<br />
arrivarci prima che ci arrivassero altri. L’ultima volta<br />
63
che c’ero stata avevo visto che di finocchietti ce n’erano<br />
moltissimi, e ormai dovevano essere da cogliere.<br />
Se ci arrivavo prima che altri li scoprissero, ed ero sola<br />
a coglierli, ce n’erano tanti che, vendendoli, potevo guadagnare<br />
abbastanza da potergli comprare un paio di<br />
pantaloncini nuovi ad Astianatte. Che ormai quelli che<br />
ha sono così stracciati che non si possono neppure aggiustare.<br />
Avevo acceso il fuoco e messo una patata ad arrostire<br />
nella cenere, in modo che Astianatte la trovasse<br />
quando si alzava per andare a scuola. Ed ero uscita che<br />
faceva ancora buio. Anzi dopo capii che doveva essere<br />
notte piena, molto lontana dall’alba.<br />
C’è chi dice che io non gli voglio bene, a mio figlio.<br />
E perciò, e perché il padre è come morto, lo chiamano<br />
Astianatte-Il-Disgraziato. E anch’io mi sono abituata<br />
a questo nome, perché è vero che è disgraziato. E se<br />
non è disgraziato lui, chi lo sarebbe? Sì, quel poverino<br />
in un lago di sangue… che Dio ci liberi. Ma anche<br />
Astianatte è disgraziato, col padre in prigione che forse<br />
non lo conoscerà mai, e io, la più povera e misera<br />
del paese. Dicono che io non gli voglio bene, perché<br />
lo lascio solo per giornate intere, e quando mi chiamano<br />
nelle case ricche ad aiutare a fare il pane, anche<br />
la notte… Ma che cosa posso fare? Se non lavoro io,<br />
chi lavora per noi? Chi ci dà da mangiare?<br />
Dicono che non gli voglio bene perché non lo vesto<br />
meglio, non lo tengo pulito, non gli dò da mangiare<br />
le cose buone che si comprano nella bottega, perché<br />
64<br />
lo faccio dormire per terra… La maestra mi ha chiamato<br />
per rimproverarmi, e ha minacciato che se “non<br />
cambio” sarà costretta a denunziarmi perché non faccio<br />
il mio “dovere di madre”. Ma anche io dormo per<br />
terra, e anche io sono vestita di stracci, e se sto fuori<br />
dalla mattina alla sera, e qualche volta anche la notte,<br />
è perché è necessario anche per lui. Anche per la stanza<br />
dove abitiamo, insieme alle blatte e ai topi, devo<br />
ogni mese pagare l’affitto, se non voglio che ci buttino<br />
fuori. E allora che cosa facciamo? Andiamo a dormire<br />
nelle grotte o dentro i cespugli, come gli uccelli?<br />
E anche l’avvocato devo pagarlo. Per quello che ha<br />
fatto e che fa. Cioè niente. Chi era in prigione c’è rimasto.<br />
Ma lui, l’avvocato, dice che quello che gli dò non basta<br />
neppure a pagare la carta da bollo. E quanti chili<br />
di cicoria e finocchietti selvatici, o di funghi devo raccogliere<br />
io per quella carta da bollo, e quante notti in<br />
bianco, impastando e infornando il pane degli altri,<br />
devo passare per dargli quello che gli dò e che a lui<br />
sembra così poco.<br />
Che la gente dica quello che vuole. Io lo so che a mio<br />
figlio gli voglio bene quanto le altre madri, e che non<br />
è colpa mia se sono la più misera e disprezzata del<br />
paese. E in più, ora, con quel ricordo sempre qui, davanti<br />
agli occhi, del bambino sgozzato, in un lago di<br />
sangue che non sapevo neppure che ce ne fosse tanto in<br />
un corpo così piccolo. E anche l’altro ricordo. Il ricordo<br />
dei loro passi e delle loro voci, e di quello che dicevano,<br />
65
che anche se erano ubriachi era abbastanza chiaro. E soprattutto<br />
divenne chiaro, dopo che vidi quel povero<br />
bambino, che Dio ci liberi!<br />
Quando sentii gli zoccoli dei loro cavalli che si avvicinavano,<br />
mi nascosi dietro una siepe. Lo so che cosa<br />
può capitare in campagna a una povera donna come<br />
me, se degli uomini la incontrano e non rischiano<br />
d’esser visti se le fanno del male. E a quell’ora chi poteva<br />
vederli, in quella solitudine che pareva d’essere<br />
fuori del mondo?<br />
Mi nascosi e rimasi lì ferma, sperando che passassero<br />
dritti senza scoprirmi. Pregavo Dio che non avessero<br />
dei cani che avrebbero sentito il mio odore e<br />
avrebbero cominciato ad abbaiare, stanandomi come<br />
una volpe. E per una volta Dio mi ascoltò, e passarono<br />
dritti senza vedermi, che se mi avessero visto non starei<br />
qui a ricordarmi di loro.<br />
Parlavano come se fossero ubriachi e proprio quando<br />
passavano vicino alla siepe dietro la quale mi ero<br />
nascosta, uno di loro diceva: – La colpa era sua. Io<br />
glielo avevo detto che gliel’avrei fatta pagare cara…<br />
se…<br />
Che Dio mi perdoni, era questo che diceva. E l’altro,<br />
che doveva anche lui essere ubriaco, provava a dire<br />
qualcosa, ma non si capiva bene. Perché il primo gli<br />
dava sulla voce e diceva di starsene zitto perché se no<br />
avrebbe fatto anche lui la stessa fine.<br />
Io capivo che doveva essere successo qualcosa di<br />
grave e pregavo Dio che non si accorgessero che ero lì.<br />
66<br />
Ma non immaginavo che ciò che era accaduto fosse<br />
una cosa atroce come quella che poco dopo i miei occhi<br />
dovevano vedere, perché credo che se l’avessi immaginato<br />
sarei morta di spavento lì dietro quella siepe<br />
dove me ne stavo accucciata come una bestia selvatica.<br />
Ancora non era del tutto giorno, ma il sole stava per<br />
spuntare e c’era già luce abbastanza da riconoscerli<br />
quei tre, che almeno uno di loro non me lo sarei mai<br />
immaginato capace di fare una cosa simile, e forse era<br />
lui quello che provava a dire qualcosa e l’altro, che<br />
quello sì che è un vero delinquente che nulla mi può<br />
sorprendere, lo minacciava di fargli fare anche a lui<br />
“la stessa fine”.<br />
E anche io potevo fare la “stessa fine”, se scoprivano<br />
che li avevo visti. E perciò avevo detto agli uomini che<br />
avevo chiamato dopo che trovai il bambino morto, che<br />
non dovevano dire a nessuno che ero stata io la prima<br />
ad arrivare. E me l’avevano promesso, ma quando zia<br />
Lucia Solinas mandò a chiamarmi capii che ciò poteva<br />
significare solo una cosa. E significava che lei sapeva<br />
che io sapevo. E allora Dio doveva aiutarmi a tenere la<br />
bocca chiusa. A negare, negare con quanta forza potevo.<br />
Ma Dio, nonostante le preghiere, non mi ha aiutato<br />
neppure quella volta. Zia Lucia Solinas mi guardava<br />
con quei suoi occhi verdi e un momento mi minacciava,<br />
un momento mi ricordava Astianatte, e anche<br />
quella era una minaccia. E io continuavo a dire che<br />
non sapevo niente, ma quando lei disse quel nome io<br />
67
dovetti chiudere gli occhi e lei capì, anche se io continuavo<br />
a non dire niente.<br />
Dopo, speravo che lo stesso non avesse capito e che<br />
a me mi lasciassero fuori da quella storia. Cercavo di<br />
pregare, ma i miei pensieri se ne andavano in tutte le<br />
direzioni come uccelli spaventati. Allora cominciai ad<br />
andare in chiesa tutte le sere, e restavo anche dopo che<br />
la funzione era terminata e tutte le candele erano<br />
spente e solo il lumino del tabernacolo era rimasto acceso.<br />
Perché quando tutti gli altri se ne erano andati<br />
e pensavano alla cena e ai fatti loro forse Dio aveva più<br />
tempo d’ascoltarmi.<br />
68<br />
Interno con mummie<br />
Solo più tardi conoscemmo tutta la verità, ricostruita<br />
pezzo a pezzo da mamma. Seguendo gli indizi<br />
che il suo istinto e le sue visioni notturne le suggerivano,<br />
servendosi di mezzi leciti e illeciti, con minacce,<br />
e certo anche ricatti, piano piano riuscì a sapere<br />
il come e il perché, e i nomi degli assassini.<br />
Se i carabinieri e la polizia avessero avuto l’interesse<br />
e la mancanza di scrupoli che aveva lei, anche loro sarebbero<br />
riusciti a sapere e si sarebbe fatta giustizia,<br />
quando era il momento di farla. E molti altri mali, a<br />
noi e ad altri, sarebbero stati risparmiati.<br />
Ciò che mamma non riuscì a ottenere dai suoi informatori<br />
fu la promessa di testimonianza, di aperti sostegni<br />
a una sua eventuale denunzia. Degli assassini ormai<br />
tutti conoscevano i nomi, ma soprattutto di lui, del<br />
loro capo, tutti avevano paura. Noi, invece, con babbo<br />
inebetito dall’alcool e Oreste ancora così giovane e così<br />
mite che don Marcellino diceva che avrebbe dovuto<br />
farsi prete, non potevamo far paura a nessuno.<br />
Nessuno voleva correre il rischio di appoggiarci in<br />
una lotta aperta, quando non si aveva neppure la cer-<br />
69
tezza che la polizia e i giudici avrebbero dato importanza<br />
alle nostre eventuali prove e testimonianze. Alle<br />
nostre prove e alle nostre testimonianze, loro, i nostri<br />
nemici, potevano opporre le loro prove e le loro testimonianze.<br />
False, certo. Ma non sempre giudici e polizia<br />
possono e sanno distinguere tra prove e testimonianze<br />
vere, e prove e testimonianze false.<br />
La paura di quelli che avrebbero potuto aiutarci a<br />
fare giustizia, e non osarono farlo, sembrò anche a noi<br />
così ragionevole, così giustificata che non ce ne offendemmo.<br />
Ma il nostro disonore incancellabile era così<br />
pesante e profondo che quasi faceva impallidire, rendendola<br />
più crudele, la sciagura che ci aveva colpito.<br />
Giosuè, il mio fratellino dolce, sgozzato come un<br />
agnello pasquale, babbo ubriaco dalla mattina alla<br />
sera, e Oreste qui, seduto insieme a noi donne accanto<br />
al camino, come una vecchia senza onore né speranza.<br />
Io non sapevo che cosa mamma e nonna stessero architettando,<br />
ma sentivo che preparavano qualcosa di<br />
terribile. Ancora più terribile forse di ciò che già era<br />
accaduto. Non parlavano molto tra loro, ma son certa<br />
che mamma non muoveva un passo senza il consenso<br />
o il suggerimento di nonna.<br />
Durante i primi dieci giorni dopo il funerale, c’era<br />
stato un fiume di visite di condoglianza. Nonna sedeva<br />
nel suo solito angolo accanto al camino, con la<br />
gonna che le copriva le ginocchia magre e le gambe<br />
sino alla punta delle scarpe. Nelle mani scheletrite abbandonate<br />
sul grembo teneva il rosario che lasciava<br />
70<br />
solo quando doveva porgere la destra per ricevere un<br />
saluto. Poi la mano ricadeva, senza vita, per ricongiungersi<br />
all’altra attorno ai grani neri delle avemarie.<br />
Se non fosse stato per quel dondolio continuo del<br />
corpo, da destra verso sinistra e da sinistra verso destra<br />
come un pendolo, senza interruzione, silenziosa e<br />
scheletrica com’era sarebbe sembrata una mummia o<br />
una statua.<br />
Mamma invece quando c’erano visite non stava<br />
zitta un momento. Stretta nello scialle nero che le copriva<br />
metà della faccia, mugolava, lamentandosi che<br />
“la casa era crollata / e noi eravamo dei morti / coperti<br />
di fango e macerie”, “che il giglio bello dell’orto / era<br />
stato strappato / e il sole non voleva più splendere”. Il<br />
suo lamento era in versi e qualche volta diventava<br />
canto. Giosuè era “la palma d’oro”, “l’agnello dal vello<br />
di seta”, “il figlio bello come il sole”. A seconda di<br />
chi c’era, le parole del suo canto erano velati anatemi<br />
e oscure minacce che il destinatario però non poteva<br />
mancare di capire e riferire a chi di dovere. Imprecava<br />
contro “il destino cieco e crudele / che colpisce i migliori<br />
/ e lascia i malvagi ad appestare la terra / sino a<br />
che il dio dormiente non si sveglia / in difesa dei deboli<br />
e dei giusti”. Qualche volta evocava “il fulmine<br />
che cade sulla pianta più tenera / ma nessuno può<br />
dirsi sicuro / perché le sue fiamme divoreranno il bosco”,<br />
e malediceva “il demonio che nelle notti di vento<br />
/ corre sulla terra col suo otre pieno d’odio / ma la<br />
mano di Dio un giorno scenderà / veloce come l’astore<br />
71
sulla preda / e getterà il demonio in un mare di zolfo<br />
ardente”.<br />
I versi li inventava sul momento come un’invasata.<br />
A me mi faceva paura e ribrezzo. E anche vergogna.<br />
Tutto quel mondo, dove si uccideva, si rubava, si cantava<br />
per i morti e contro i vivi, dove l’odio metteva<br />
radici che soffocavano ogni altra possibilità di vita,<br />
mi faceva paura e ribrezzo. E anche vergogna. Mi pareva<br />
terribile doverne far parte e sentirmene così<br />
estranea e nemica. Neppure la morte di Giosuè mi<br />
pareva terribile quanto quello che stava accadendo<br />
nella nostra cucina.<br />
Solo a babbo, che mamma ci ha sempre insegnato a<br />
disprezzare per la sua debolezza e il suo vizio, per la<br />
prima volta da quando ero diventata grande mi pareva<br />
di poter voler bene. Almeno un poco. Perché<br />
babbo era mite, e non odiava. Babbo sembrava estraneo<br />
a quella follia, che era peggiore del lutto. E a Oreste<br />
volevo bene, fragile e umiliato, come mi pareva.<br />
Avrei voluto aiutarlo, proteggerlo. Ma anche Oreste<br />
era irraggiungibile. Anche lui era come una mummia<br />
o una statua. Seduto di fronte a nonna, con le spalle<br />
curve e le ginocchia strette. Un vecchietto, vinto per<br />
sempre, e prima di aver cominciato a vivere.<br />
72<br />
<strong>Gli</strong> eremiti e il diavolo<br />
Don Marcellino si era appena spogliato dei paramenti<br />
che indossava per la funzione serale. Seguito<br />
dal chierichetto, ritornò in chiesa per spegnere le candele<br />
e ringraziare il Signore della giornata che si era<br />
compiuta. Furtivamente guardò fra i banchi e vide<br />
che lei era ancora lì, nel buio fra due archi, nella navata<br />
di destra, il viso nascosto fra le mani giunte.<br />
Fu solo una visione rapidissima. Don Marcellino<br />
non vi si soffermò. Non aveva bisogno di soffermarcisi.<br />
Era lì che da alcuni giorni lei prendeva posto,<br />
angelo o diavolo che fosse. Una donna che era quasi<br />
sicuro di non aver mai visto prima d’allora e che però<br />
vagamente gli pareva conosciuta. Quando gli altri se<br />
ne andavano, lei restava lì, come rapita in estasi. Inginocchiata,<br />
quasi prostrata sul banco. La sua figura<br />
era nascosta nello scialle e nelle lunghe sottane che le<br />
coprivano persino le scarpe, ma qualcosa nel suo portamento<br />
faceva pensare che fosse giovane. E piacente.<br />
Ogni volta che Don Marcellino s’accorgeva che questa<br />
parola, non cercata, gli attraversava la mente a proposito<br />
di quella figura scura nel buio fra due archi, la<br />
73
sua carne aveva un sussulto e Don Marcellino avrebbe<br />
voluto battersi il petto per la paura e il rimorso. E l’avrebbe<br />
fatto, se non avesse temuto che qualcuno lo vedesse<br />
e capisse.<br />
<strong>Gli</strong> eremiti nel deserto facevano una vita di privazioni,<br />
mentre lui, Dio sia ringraziato, delle sue condizioni<br />
materiali non poteva certo lamentarsi; ma gli<br />
eremiti in confronto a lui avevano il vantaggio di poterle<br />
combattere, le tentazioni; pungendosi la carne<br />
con le spine, camminando sulle bragi, avvolgendosi i<br />
lombi nel cilicio, fustigandosi a sangue, se necessario.<br />
Nessuno li vedeva, nessuno li sospettava e li giudicava.<br />
E per di più le loro tentazioni erano mere apparenze,<br />
sia pure bellissime, mentre questa, Don Marcellino<br />
non ne aveva alcun dubbio, era una donna in carne<br />
e ossa.<br />
Solo a pensare la parola “carne”, la sua stessa carne<br />
ebbe un sussulto. Don Marcellino temette che il chierichetto<br />
che lo stava aiutando a spegnere le candele e<br />
che gli stava molto vicino se ne accorgesse. “Oh, Dio,<br />
aiutami!” esclamò con tanto ardore, che il chierichetto<br />
lo guardò sorpreso.<br />
– Vai, vai pure, – gli disse allora con impazienza.<br />
Avrebbe voluto che se ne andasse. Aveva paura che capisse<br />
questa cosa terribile che gli stava accadendo.<br />
Che vedesse la ribellione della sua carne e s’accorgesse<br />
del rossore che gli saliva dal collo e quasi gli mozzava<br />
il respiro.<br />
Un ardore spaventoso si era impadronito delle sue<br />
74<br />
viscere e le rimescolava con una violenza che gl’indeboliva<br />
la schiena e gli appesantiva le braccia. Oh, poterla<br />
fustigare, strapparla, punirla, quella carne ribelle<br />
che gli paralizzava il corpo nello stesso momento in<br />
cui glielo faceva sentire così vivo e pulsante in ogni più<br />
piccola vena. Beati gli eremiti che quando c’era bisogno<br />
potevano fare ciò che era necessario per schiacciare<br />
il serpente e svuotarlo del suo veleno, senza dare<br />
cattivo esempio e senza che nessuno vedesse e si scandalizzasse.<br />
– Domine, libera nos a malo! – disse con voce rauca.<br />
Il chierichetto gli rispose, meccanicamente e con la<br />
solita voce acuta:<br />
– Amen!<br />
Don Marcellino ebbe un sussulto:<br />
– Sei ancora lì? Vai t’ho detto! – e quasi gridava.<br />
Il bambino lo guardò sorpreso, ma dopo un breve silenzio<br />
alzò le spalle e rispose con indifferenza:<br />
– E allora, Don Marcellì, a domani!<br />
Don Marcellino avrebbe voluto restare un momento<br />
a pregare, inginocchiato davanti all’altare. Mettere il<br />
rosario sotto le ginocchia, per sentire il tormento dei<br />
grani che bucano la pelle, per soffrire, per punirsi, per<br />
domare gli assalti del peccato. Ma temette che questo<br />
suo bisogno apparentemente pio fosse anch’esso una<br />
tentazione del Maligno che voleva farlo star solo con<br />
la donna sotto la volta del tempio. Nella casa del Signore.<br />
Era questo che il Maligno voleva da lui. La caduta,<br />
lì, nel tempio, nella casa del Signore. Non la<br />
75
preghiera, ma l’offesa alla casa di Dio. Don Marcellino<br />
fece una genuflessione lenta e faticosa, si segnò e<br />
poi, con passi impediti da quella cosa atroce che continuava,<br />
tornò in sagrestia.<br />
Lì restò in piedi, con la fronte appoggiata al vetro<br />
freddo dell’armadio degli arredi sacri. Nelle mani stringeva<br />
la grossa chiave di ferro, conficcandosene le estremità<br />
nelle palme, sino a quasi bucarle. Il dolore gli<br />
diede qualche sollievo, ma il serpente continuava a mordergli<br />
il ventre con mille lingue di fiamma palpitanti.<br />
Don Marcellino aprì le mani. La chiave gli cadde sulle<br />
scarpe, senza rumore. C’era un gran silenzio sotto<br />
quel fragore di cascata che Don Marcellino si sentiva<br />
nelle vene. Già le dita correvano, feroci, a strozzare il<br />
serpente, a maltrattarlo, batterlo, piegarlo.<br />
Le fiamme s’alzarono ancora più alte e trionfanti, e il<br />
mondo fu tutto un grande incendio di cui Don Marcellino<br />
era il centro gaudioso e palpitante come un<br />
cuore immenso.<br />
Nell’estasi, Don Marcellino non s’accorse di gridare:<br />
– Dio, Dio, Dio… Dio mio!<br />
Dopo essersi rinfrescato le mani e la faccia, e aver<br />
asciugato ciò che era possibile asciugare, Don Marcellino<br />
si sentì meglio, più presente, più vicino alla<br />
realtà, più combattivo. Si domandò se doveva parlarne<br />
col suo pastore, il Vescovo, o se doveva continuare<br />
a combattere da solo. Decise che per ora doveva<br />
continuare a combattere da solo.<br />
Anche questa poteva essere una tentazione del Mali-<br />
76<br />
gno. Ma per ora Don Marcellino sentiva di non poter<br />
decidere altrimenti. Per parlare col Vescovo sarebbe dovuto<br />
andare a Trezene, e con ciò che era accaduto nel<br />
paese non era proprio il momento d’allontanarsi, di lasciare<br />
sole le sue pecorelle.<br />
Per ora Don Marcellino doveva pregare, vincere la<br />
tentazione guardandola in faccia, senza fuggirla come<br />
un vigliacco, provare anche a capirla, e allo stesso<br />
tempo comportarsi normalmente, senza dare adito a<br />
sospetti.<br />
Forte di questi propositi, nonostante la grande stanchezza<br />
che, insieme a uno strano sentimento di pace<br />
giubilante era scesa su di lui, Don Marcellino s’affrettò<br />
verso la saletta da pranzo dove sua sorella aveva<br />
apparecchiato per la cena.<br />
– Sia lodato Gesù Cristo! – disse, entrando.<br />
Senza guardarlo, anzi sfuggendo il suo sguardo, così<br />
almeno gli parve, la sorella gli rispose fra i denti:<br />
– Sempre sia lodato!<br />
I due fratelli non avevano molto da dirsi, e di solito<br />
i loro pasti si svolgevano in silenzio. La sorella faceva<br />
malvolentieri quel suo servizio di Perpetua. Quand’era<br />
ragazzina si era innamorata d’un carabiniere che nel<br />
segreto la ricambiava e le aveva detto di volerla sposare.<br />
Ma la famiglia e Don Marcellino s’erano opposti<br />
perché, dicevano, quella era solo un’infatuazione giovanile<br />
e non bisognava “buttarsi” col primo venuto.<br />
Per vincere la sua ribellione, l’avevano chiusa in casa<br />
per mesi e, con l’aiuto del Vescovo, erano riusciti a far<br />
77
trasferire il carabiniere che così era totalmente scomparso<br />
dal loro orizzonte. Ma dopo il “primo” non era<br />
venuto più nessuno, gli anni erano passati, la bellezza<br />
se mai c’era stata era sfiorita, i genitori erano morti, e<br />
alla sorella di Don Marcellino per vivere non era rimasta<br />
altra scelta che fare la serva a suo fratello.<br />
Serva. Era così che, rabbiosa e disperata, vedeva la<br />
sua condizione. Il suo malumore quotidiano e l’astio<br />
col quale viveva la vita erano tali, che Don Marcellino<br />
temeva che addirittura non credesse più in Dio. Di<br />
solito pregava per lei e cercava di essere amorevole.<br />
Ma da qualche giorno era troppo turbato per potersi<br />
preoccupare e occupare d’altro che di questa nuova<br />
tentazione che il Maligno gli infliggeva.<br />
Perciò, immerso com’era nei suoi pensieri, Don<br />
Marcellino ebbe un soprassalto quando la sentì dire, e<br />
gli parve di cogliere nelle sue parole un tono d’accusa:<br />
– La gente dice che scorrerà altro sangue.<br />
– Sangue? – ripeté lui, per darsi tempo di pensare.<br />
78<br />
PARTE SECONDA<br />
La fossa dei fantasmi<br />
79
La legge dell’acqua<br />
Del padre, nei primi anni dopo il trasferimento a Milano,<br />
di ciò che allora diceva e pensava, Lorenzo conservava ricordi<br />
frammentari e forse confusi. Ricordava che la sera in casa bisognava<br />
fare silenzio e spegnere la radio “perché papà lavorava”.<br />
Ricordava un’escursione che aveva fatto con lui al<br />
Parco Lambro. E il padre aveva tanto parlato delle Cascine<br />
di Firenze, che nell’immaginazione di Lorenzo quel giorno il<br />
Parco Lambro e le Cascine si erano sovrapposti in una strana<br />
confusione. Ma le Cascine erano molto più belle, diceva il padre.<br />
Dunque, aveva pensato Lorenzo senza però dirlo, le Cascine<br />
dovevano essere nell’Isola.<br />
Ricordava un gelato che il padre gli aveva comprato un’altra<br />
domenica d’estate nei giardini pubblici, vicino alla grande<br />
fontana circolare. E, forse lo stesso giorno, l’impazienza del padre<br />
che cercava, allo zoo, di staccarlo dal recinto delle capre<br />
dove si era incantato.<br />
Delle caprette come quelle le aveva viste nell’Isola. Anche<br />
l’odore e la terra scura sotto le loro zampe erano gli stessi. Milano<br />
era scomparsa. Lorenzo si trovava in un posto in campagna,<br />
nell’ovile d’un ricco pastore parente di sua madre. C’era<br />
una grande festa e lui e i suoi genitori erano gli ospiti d’onore.<br />
81
La mensa per il banchetto, al quale partecipavano una<br />
trentina di persone, era stata apparecchiata su alcune lunghe<br />
assi, sotto gli elci in mezzo alle rocce. C’erano altri bambini<br />
dei quali uno, Pietro, aveva più o meno l’età di Lorenzo. Pietro<br />
era figlio d’un pastore che lavorava in quell’ovile, di cui<br />
perciò si considerava quasi proprietario. In principio aveva accolto<br />
Lorenzo con diffidenza, come un intruso, e non voleva<br />
parlargli. Poi avevano fatto la lotta ed erano diventati amici.<br />
Il pranzo non finiva mai, ma i bambini avevano il permesso,<br />
tra una pietanza e l’altra, di muoversi e di correre un<br />
po’ in giro purché stessero attenti a non sollevare polvere attorno<br />
alla mensa.<br />
Il banchetto era iniziato con del salame e del prosciutto di<br />
montagna, pane carasau, olive e sottaceti. Lorenzo doveva essersene<br />
ingozzato tanto che, quando erano arrivati i ravioli<br />
e poi gli arrosti allo spiedo e la carne bollita e i sanguinacci,<br />
che i pastori avevano preparato sotto la grande tettoia vicino<br />
alla stalla, lui non aveva più appetito. Ma le zie insistevano,<br />
perché volevano che assaggiasse tutto. “Almeno un<br />
poco”, dicevano quasi supplichevoli, e la madre e il padre gli<br />
facevano gli occhiacci perché si decidesse ad accontentarle.<br />
C’erano anche le sebade, servite caldissime con zucchero e<br />
miele, e molti altri dolci che di solito gli piacevano. Ma ora<br />
gli pareva di non avere più neppure un angolino vuoto nello<br />
stomaco, fatta eccezione per le lattughe fresche intinte nel miele<br />
appena tolto dalle arnie. Niente al mondo era più buono di<br />
una foglia di lattuga croccante e verde, intinta nel miele<br />
nuovo.<br />
Dopo pranzo, la mamma e le altre signore si erano ritirate<br />
82<br />
per riposare nelle fresche, grandi stanze al primo piano della<br />
vecchia casa, e gli uomini si erano sdraiati qua e là sotto le<br />
querce. Lui e Pietro avevano approfittato della libertà e della<br />
solitudine per fare un’escursione sino a una sorgente nascosta<br />
tra le rocce, vicino alle rovine di un nuraghe.<br />
Sull’acqua, dentro una grotticella inquadrata da quattro<br />
lastre di granito e velata di capelvenere, galleggiava una<br />
tazza di sughero. Pietro gli aveva insegnato che, dopo aver<br />
bevuto, si doveva gettare sull’erba il resto dell’acqua, dicendo:<br />
“Che sia per le anime del Purgatorio!”. Allora un’anima<br />
immersa nel fuoco avrebbe avuto un momento di sollievo nella<br />
sua pena.<br />
Il Purgatorio è come il carcere, e bisogna cercare d’aiutare le<br />
anime del Purgatorio, così come si devono aiutare i carcerati,<br />
perché “il carcere è fatto per gli uomini”, aveva citato Pietro<br />
che conosceva anche i proverbi, “e chi non c’è entrato può entrarci”.<br />
Pietro sapeva moltissime cose e parlava come un uomo.<br />
Senza però darsi delle arie. Per lui era naturale parlare così,<br />
e Lorenzo lo ascoltava con rispetto, come un maestro. Da lui<br />
aveva imparato che in una sorgente come quella si doveva<br />
sempre sciacquare la tazza prima di rimetterla al suo posto.<br />
Pietro gli aveva raccontato che la sorgente era opera dei maghi<br />
che più di cento anni prima abitavano in quel bosco e<br />
avevano costruito il nuraghe per il loro re che si chiamava<br />
Cristolu. Cristolu e i maghi adesso erano morti, ma i loro<br />
spiriti abitavano ancora quei luoghi ed erano molto potenti.<br />
Perciò bisognava rispettare loro e le loro leggi.<br />
Per esempio era molto importante rispettare la legge di non<br />
83
sporcare e non sprecare l’acqua, e quella di lasciare sempre la<br />
tazza di sughero al suo posto, in modo che chi arrivava dopo<br />
potesse dissetarsi senza essere obbligato a prendere l’acqua con<br />
le mani. Ma se si seguivano le loro leggi i maghi non facevano<br />
male a nessuno.<br />
Lavarsi dentro la sorgente era peccato mortale e i maghi una<br />
volta avevano fatto annegare un pastore ignorante che vi si era<br />
lavato la faccia e aveva sputato nell’acqua.<br />
Pensando al morto annegato e ai fantasmi dei maghi e del<br />
re Cristolu che erano lì, invisibili ma forse molto vicini, e<br />
che li stavano ascoltando e osservando, Lorenzo aveva avuto<br />
paura. Ma era riuscito a non farsene accorgere da Pietro che<br />
sembrava non aver paura di niente e che intanto aveva cominciato<br />
a dare la caccia a una biscia, che però, rapidissima<br />
e silenziosa, era scomparsa in mezzo alle pietre del nuraghe.<br />
Allora Pietro aveva detto che certe volte le bisce non sono bisce<br />
vere ma fantasmi di gente che in vita ha fatto tradimento<br />
e ha perduto l’onore, e perciò deve diventare serpente per poter<br />
scontare il suo peccato. Perché il tradimento è un peccato così<br />
brutto che gli altri dannati non sopportano d’aver vicino uno<br />
che lo abbia commesso. Se per errore un traditore viene assegnato<br />
all’inferno e gli altri dannati scoprono qual è stato il<br />
suo peccato, non ci mettono molto a fargli la festa. Perciò le<br />
bisce si nascondono e fuggono quando si sentono osservate.<br />
Perché si vergognano. Il tradimento è il peccato più grave di<br />
tutti, aveva concluso Pietro. Il peccato di Giuda che aveva<br />
tradito Gesù e che da allora aveva perduto l’onore e non aveva<br />
più avuto pace sino a che non si era impiccato.<br />
84<br />
Cassandra<br />
Quella sera nonna aveva appena concluso la novena<br />
e i quindici sabati che aveva dedicato al Santo, al quale<br />
in cambio aveva chiesto un segno. E il segno, ci disse<br />
appena entrata, mentre ancora si toglieva lo scialle,<br />
il segno le era stato mandato. La sua voce era commossa<br />
ed esultante e, sebbene a me il significato del<br />
suo racconto lì per lì fosse oscuro, ascoltandolo mi sentii<br />
agghiacciare d’angoscia.<br />
Durante la preghiera aveva avuto una visione. Era<br />
una calda giornata di primavera. Lei stava seduta accanto<br />
alla vasca dell’orto, intenta a sgranare dei piselli.<br />
Il cielo era azzurro e il sole splendeva nella grande pace<br />
di una campagna bellissima e verde. Ma a un tratto,<br />
un’immensa nuvola nera a forma di un grande uccello<br />
rapace era sorta all’orizzonte e rapidamente aveva guadagnato<br />
tutto il cielo, oscurando il sole. Una violentissima<br />
tempesta di vento si era sollevata e aveva strappato<br />
le giovani foglie dagli alberi, piegato le erbe,<br />
fatto tremare sino alle fondamenta la vecchia casa dell’orto.<br />
Sotto i colpi della bufera, nonna si era dovuta<br />
piegare e rattrappire, e aveva lottato per tenere sul cor-<br />
85
po martoriato gli abiti ormai ridotti a brandelli. All’improvviso<br />
però si era accorta d’avere ancora stretto<br />
in pugno un baccello intatto. L’aveva aperto, ma i chicchi<br />
che ne sgranava erano secchi e deformi come aborti.<br />
Solo uno era riuscito a raggiungere una grandezza<br />
normale, ma era nero, come bruciato dal fuoco o coperto<br />
di fuliggine. Nonna l’aveva stretto con rabbia fra<br />
il pollice e l’indice per schiacciarlo e gettarlo via. Così<br />
facendo però si era accorta che quel nero era solo una<br />
patina e che sotto quella patina il chicco era d’oro. Allora<br />
l’aveva scagliato contro la nuvola nera che copriva<br />
l’azzurro del cielo e lo splendore del sole, e lì dove aveva<br />
colpito era scaturita una goccia di sangue velenoso,<br />
nero come inchiostro. E fu come se in quella goccia di<br />
sangue si concentrasse tutta la malvagia potenza della<br />
nuvola e della tempesta. La goccia di sangue nero cadde<br />
sulla terra che si chiuse silenziosamente sopra di essa<br />
inghiottendola, e subito il sole di nuovo splendette<br />
e la primavera tornò sull’orto. In quello stesso momento<br />
l’organo e il coro dentro la chiesa iniziavano il Te Deum<br />
Laudamus. Uscendo di chiesa, accanto al falò che era<br />
stato appena acceso nella piazza, aveva visto il nostro<br />
nemico che già semiubriaco giocava alla morra con un<br />
gruppo di pari suoi.<br />
Nell’angoscia in cui la visione di nonna mi aveva<br />
gettato, mi riassalì il ricordo d’un incubo che avevo<br />
avuto quella notte e che, colmo come mi era parso di<br />
funesti presagi, mi aveva perseguitato tutto il giorno<br />
nonostante i miei sforzi per dimenticarlo. A fatica ero<br />
86<br />
riuscita a non raccontarlo a nessuno, neppure a Oreste<br />
che di solito ascoltava volentieri i miei sogni. E anche<br />
i miei incubi, che erano più frequenti dei sogni.<br />
Il cortile di casa era affollato d’uomini vestiti degli<br />
abiti di fustagno verde dei pastori e con i berretti a visiera<br />
calati sugli occhi. Delle donne sconosciute si<br />
muovevano in mezzo a loro, offrendo in giro del vino.<br />
Forse era una festa, ma nessuno cantava o giocava alla<br />
morra. <strong>Gli</strong> uomini, divisi in piccoli crocchi, parlavano<br />
a voce bassa, come fanno ai funerali. I crocchi si<br />
scioglievano continuamente e si riformavano in costellazioni<br />
diverse. Era un via vai silenzioso, come di<br />
formiche attorno a un cumulo di grano. Le donne, i<br />
cui visi non riuscivo a scorgere, si muovevano anch’esse<br />
come ombre. La luce era scarsa e gli occhi mi<br />
bruciavano per lo sforzo di voler distinguere le fisionomie<br />
e le espressioni. Un terrore grigio mi coprì. Sapevo<br />
che stava succedendo qualcosa d’ineluttabile e<br />
tremendo. Con le gambe pesanti come piombo cominciai<br />
a salire la scaletta esterna verso il fienile. Le<br />
gambe mi pesavano tanto che alla fine caddi in ginocchio<br />
e per poter avanzare dovetti aiutarmi con le<br />
braccia, tendendo i muscoli sino allo spasimo. Ma l’ascesa<br />
diventava sempre più difficile, perché ora anche<br />
le braccia erano come morte e non riuscivano a sostenere<br />
il peso del mio corpo. Quando mi accorsi che,<br />
per di più, nella scaletta a pioli sulla quale mi trovavo<br />
mancavano gli ultimi gradini, disperai di poter mai<br />
trovare un’uscita dalla situazione nella quale mi ero<br />
87
messa. Guardavo affascinata il vuoto sotto di me, e<br />
sentivo che fra poco vi sarei precipitata. Invece, con<br />
una faticosa tensione delle braccia e delle spalle, chiudendo<br />
gli occhi per non cedere alla vertigine, riuscii<br />
a sollevarmi sino alla soglia del fienile. Sentii il peso<br />
morto delle gambe oscillare nel vuoto e trascinarmi<br />
verso il basso. Feci un ultimo sforzo, e cercai di far<br />
presa con le dita e le palme delle mani aperte sul pavimento<br />
che era leggermente in pendio, poi con un<br />
colpo di reni e uno strappo faticoso delle spalle riuscii<br />
ad avanzare, superando l’abisso che mi calamitava. La<br />
stanza nella quale ero arrivata era grandissima e squallida.<br />
La polvere s’accumulava in gomitoli grigi sotto<br />
un letto di ferro sul cui materasso arrotolato s’allineavano<br />
delle pere marce. In un angolo c’era una sedia di<br />
paglia e un catino di ferrosmalto su un treppiedi di<br />
ferro. Il catino era pieno di carne, e carne c’era sulla sedia,<br />
e sul pavimento in mezzo alla polvere. Anche<br />
quelle che prima mi erano parse delle pere marce,<br />
m’accorsi adesso che erano dei pezzi violacei d’interiora.<br />
La stanza aveva l’aria d’essere stata disabitata da<br />
molti anni, e non mi sorpresi di trovare sul davanzale<br />
polveroso della finestrella il berretto di Giosuè. I vetri<br />
della finestra erano molto appannati. Coi polpastrelli<br />
inumiditi di saliva riuscii a lucidarne un circoletto<br />
attraverso il quale entrarono le note di una musica<br />
molto triste. Guardai giù nella strada e vidi che<br />
passava un funerale. Apriva il corteo Don Marcellino<br />
vestito da vescovo. Sotto la mitra, che teneva a sghim-<br />
88<br />
bescio e che ogni tanto minacciava di cadere, vidi<br />
però che il suo viso non era proprio il suo, ma quello<br />
di babbo. Don Marcellino sembrava ubriaco e inciampava<br />
continuamente sul bacolo che trascinava come se<br />
fosse troppo pesante per le sue forze. Dietro di lui veniva<br />
una fila interminabile di preti e di uomini delle<br />
confraternite con i camici bianchi e rossi. I loro visi<br />
erano coperti di maschere cornute di legno nero. Camminavano<br />
su due file un po’ distanti, saltellando su<br />
trampoli bianchi che sembravano ossa di morto e che<br />
battevano sul selciato, accompagnando in cadenza lugubre<br />
il rimbombo degli ottoni della banda municipale<br />
che marciava dietro di loro, suonando una musica<br />
triste e terribile. Seguivano gli orfani dell’ospizio<br />
che portavano corone di foglie secche. Poi cominciò la<br />
sfilata delle bare. Quando alla prima seguì la seconda,<br />
cominciai a contare. Alla settima non ne potei più e<br />
chiusi gli occhi. Ora sapevo qual era la provenienza di<br />
tutta quella carne sparsa nella stanza in cui mi trovavo.<br />
Sapevo perché quegli uomini si erano riuniti nel<br />
nostro cortile, sapevo di che cosa parlavano quando<br />
anziché cantare e giocare alla morra si raggruppavano<br />
a confabulare. Riapersi gli occhi e vidi che le bare continuavano<br />
a sfilare. Col berretto di Giosuè, provai a<br />
turare il foro della finestra. Le note della marcia funebre<br />
ora entravano velate e come più lontane. Non osai<br />
guardare di nuovo e mi ritirai verso la parete opposta<br />
a quella sulla quale appoggiavano il letto e il catino.<br />
Di lì potei guardare nel cortile che ora era deserto e<br />
89
immerso nel buio. Camminando pericolosamente su<br />
un asse da impalcatura che oscillava sotto i miei passi,<br />
ridiscesi dal fienile. Come riuscire a cancellare quelle<br />
tracce fresche di sangue nella mia casa? mi domandavo<br />
piena d’angoscia.<br />
C’era qualche rapporto tra la visione di nonna, il mio<br />
sogno, e l’improvvisa decisione di Oreste d’uscire di<br />
casa, lui che non usciva mai? E qual era il rapporto? E<br />
perché all’improvviso la sua urgenza di uscire era diventata<br />
così forte che non aveva neppure atteso che il<br />
guasto alla centrale elettrica venisse riparato e la luce<br />
tornasse? E perché, non appena lui era uscito, mamma<br />
e nonna avevano ordinato anche a Daniela e a me d’unirci<br />
alle loro preghiere, come se ciò in quel momento<br />
fosse più urgente dei compiti che stavamo facendo?<br />
Queste domande, insieme a un’altra che neppure<br />
mi permettevo di formulare ma che stava dietro tutte<br />
le altre come un’informe terribile ombra, mi turbinavano<br />
tra il cuore e il cervello in un moto vorticoso. Le<br />
fiamme nel camino danzavano la loro azzurra danza<br />
selvaggia, e solo per esse cercavano di essere svegli i<br />
miei sensi.<br />
90<br />
Il testimone<br />
Da quella notte maledetta non riuscivo più a staccarmi<br />
da lui. Quanto più volevo allontanarmene, tanto<br />
più lo cercavo, lo seguivo, come un cane segue il padrone.<br />
L’altro invece si teneva lontano da noi. Ma in<br />
modo che non desse nell’occhio, da furbo. E, se capitava,<br />
un bicchiere di vino insieme a noi lo beveva anche.<br />
Ma come una cosa indifferente, da vecchi compagni<br />
di leva, come eravamo. E poi ciao ciao e ognuno<br />
per conto suo.<br />
Io invece no, sempre lì, attaccato a lui, come un<br />
cane attaccato al padrone. E più le voci contro di lui<br />
diventavano insistenti, più io mi attaccavo a lui,<br />
come se ci tenessi a far mescolare la mia fama alla sua,<br />
come se fosse importantissimo che lui mi considerasse<br />
amico suo… E invece io dentro di me lo odiavo, come<br />
odiavo il ricordo di quella notte. Ma non riuscivo a<br />
staccarmi da lui, come non riuscivo a staccarmi dal ricordo<br />
di quello che avevamo fatto insieme.<br />
Perché lui non era solo, eravamo insieme quella<br />
notte maledetta, anche se l’altro fa finta d’essersene dimenticato<br />
e di non conoscermi.<br />
91
E io ero insieme a lui quella sera, quando quel lampo<br />
uscì dal buio e sfiorò prima i nostri visi come in una<br />
sventagliata di mitra, poi tornò a concentrarsi sul suo<br />
e quasi nello stesso momento ci fu l’esplosione.<br />
Eravamo stati insieme sin dal pomeriggio. Tra un<br />
bicchiere e l’altro, avevamo aiutato a preparare le cataste<br />
per i falò di S. Antonio. Poi gli altri che avevano<br />
moglie e figli se ne erano andati, e noi eravamo rimasti,<br />
tre o quattro, a continuare a bere.<br />
Io, nonostante il vino, avevo come una tristezza grande<br />
dentro di me, che mi faceva il cuore pesante. E ogni<br />
volta che mancava la corrente, lì dalla bettola dove ci<br />
trovavamo, con quella oscillante candelina da morti,<br />
mi pareva che i fuochi nella piazza fossero già i fuochi<br />
dell’inferno.<br />
Per sfogarmi, proposi una partita alla morra, ma<br />
quando cominciammo a diventare troppo chiassosi,<br />
la Milese ci mise alla porta. E così in qualche modo<br />
fui io, perché ero stato io che avevo proposto il gioco,<br />
che resi possibile la vendetta. Ma le altre cose che si<br />
dissero dopo sono calunnie. Io non sono un Giuda. Io<br />
non avevo parlato.<br />
Io non avevo e non ho parlato con nessuno. Neanche<br />
con lui ne ho mai parlato. E con gli altri neppure.<br />
Perché se non ne parlavamo era come se la cosa<br />
non fosse mai avvenuta. Perciò io non parlai, ne sono<br />
sicuro. Non parlai neppure da ubriaco, anche se persino<br />
nell’ubriachezza e nel sonno mi perseguitava il<br />
ricordo di quel pezzo di lingua sanguinante fra le sue<br />
92<br />
dita, e il suono di quel lamento più bestiale che umano.<br />
Certe volte gli guardavo le dita che stringevano il<br />
bicchiere e mi pareva impossibile che fossero quelle<br />
stesse dita che avevo visto coperte di sangue, mentre<br />
ci mostrava quella cosa atroce.<br />
Se questa visione mi assaliva mentre giocavamo alla<br />
morra, mi imbambolavo e non riuscivo più a contare.<br />
E lui mi insultava e diceva che ero alcoolizzato e che<br />
fra poco mi sarei fatto ridere dietro dai bambini del<br />
paese, come quell’altro disgraziato.<br />
Ma non gli dicevo che non era il vino che m’incantava,<br />
ma quelle sue mani e il segreto che io conoscevo<br />
e di cui non dovevo parlare. E più lo odiavo, più quelle<br />
sue dita mi facevano orrore, più avevo bisogno di vederlo,<br />
di stargli vicino. Come un cane col suo padrone.<br />
Ricordare, purtroppo, non riuscivo a non farlo perché,<br />
ho paura a pensarlo ma ne ho quasi la certezza, al<br />
momento di morire l’anima di quel bambino disgraziato<br />
si è impadronita della mia. Ed era lui, il morto,<br />
che mi ordinava di restare attaccato al suo nemico, per<br />
impedirmi di dimenticare ciò che gli era stato fatto.<br />
Ma io non avevo parlato. Questo è certo. Io non parlai.<br />
Come avrei potuto parlarne se tutto ciò che facevo<br />
non era che un tentativo per riuscire a dimenticare?<br />
Fu il vento o le anime dei senza pace che misero in<br />
giro la storia. Perché in un modo o nell’altro, dopo<br />
solo qualche giorno la storia la sapevano tutti. Me ne<br />
accorgevo quando passavo per la strada o entravo in<br />
93
qualche posto, e tutti mi guardavano facendo finta di<br />
niente. Ma proprio questa indifferenza mi dava la certezza<br />
che tutti sapevano e che, vedendomi, tutti pensavano<br />
a quel bambino che avevamo lasciato morto in<br />
mezzo a tutto quel sangue che non sapevo neppure<br />
che un corpo così piccolo potesse contenerne tanto.<br />
E se tutti la sapevano la storia, che cosa potevamo<br />
aspettarci d’altro se non ciò che accadde quella sera?<br />
Ero ubriaco, ma capii subito quando ci fu quella<br />
grande luce, poi quel colpo, e lui mi cadeva sui piedi.<br />
Questa volta, in quel momento, era lui ai miei piedi<br />
come un cane e io ero il padrone.<br />
E ora che lui è morto, l’anima del ragazzo dovrebbe<br />
trovare pace e lasciarmi. Perché il solo responsabile fu<br />
lui. Io e l’altro non fummo che testimoni, ecco, nient’altro<br />
che involontari testimoni. Quando capimmo<br />
che cosa voleva fare, che cosa aveva fatto, era già troppo<br />
tardi, quel pezzo di carne sanguinante pendeva già<br />
fra le sue dita e il ragazzo stava lì per terra, gettando<br />
sangue dalla bocca. Chi gli sparò lo fece solo per pietà.<br />
Perché la smettesse con quell’urlo che più che<br />
umano era di maiale agonizzante. Perché la testa non<br />
ce la faceva più a contenere quell’urlo di maiale scannato.<br />
Quando non si ha mano buona per sgozzare al primo<br />
o al secondo colpo, il maiale, già con la gola squarciata<br />
ma con una forza come se i diavoli si siano impadroniti<br />
di lui, si scuote di dosso gli uomini che lo tenevano<br />
fermo e, zigzagando come un ubriaco e vomi-<br />
94<br />
tando sangue, cerca di darsi alla fuga. Poi quasi di<br />
schianto crolla sulle ginocchia e, agitando la testa<br />
sbattendola sui ciottoli per terra, lancia quegli urli<br />
fortissimi d’agonia che pare che tutto l’inferno si sia<br />
rifugiato nel suo ventre e si rifiuti d’uscirne.<br />
“Questo è il grido di un maiale in agonia”, potevo<br />
dirmi prima di quella notte maledetta. Potevo ascoltarli<br />
i diavoli che si rifiutavano d’uscire dal ventre del<br />
maiale e mi dicevo: “Questo è il grido d’un maiale in<br />
agonia”. Invece oggi ancora penso: “Così gridava il<br />
ragazzo del Passo della Croce”, e ho paura che anche<br />
gli altri vedano ciò che vedo io e capiscano che non è<br />
il maiale che grida così, ma che è il ragazzo che sta<br />
morendo e che non vuole morire.<br />
Ma dovevo tenere la testa fredda. Nessuno sapeva<br />
che era così che gridava, nessuno può immaginarselo<br />
che era così che gridava, e noi che l’abbiamo sentito<br />
non ne abbiamo mai parlato con nessuno, e neppure<br />
tra noi. Quando ci è parso necessario metterci d’accordo<br />
su ciò che eventualmente dovevamo dire se i carabinieri<br />
o altri ci domandavano, non c’era stato bisogno<br />
di dire nomi, o di descrivere, o di rievocare. Dicevamo<br />
“il fatto”, e non era necessario dire altro, sapevamo<br />
di che cosa stavamo parlando.<br />
Se non si parla delle cose, se non si descrivono “i<br />
fatti”, se non si danno loro dei nomi, è come cancellarli,<br />
“i fatti”. Se non ne parliamo, se non hanno nome,<br />
non sono mai esistiti, sono nel buio, invisibili e muti.<br />
La luce spenta su di loro. Così si crede, così forse cre-<br />
95
devano gli altri due. Perciò non ne parlavamo mai, di<br />
quella cosa.<br />
E gli altri forse ci erano riusciti, a vivere tranquilli,<br />
come se la cosa non fosse mai accaduta. Io non ci sono<br />
riuscito. Anche dopo che lui mi è crollato ai piedi come<br />
un cane accucciato ai piedi del padrone, c’era una<br />
voce che continuava a dire dentro di me “il ragazzo del<br />
Passo della Croce”, “il pezzo di lingua sanguinante”,<br />
“il maiale mal scannato”.<br />
Forse l’anima del ragazzo era entrata dentro di me, e<br />
ancora ci resta e continua a tormentarmi per vendicarsi.<br />
No, queste son storie da donne, o da preti, e io sono<br />
un uomo. Io non posso crederci a queste storie. E poi,<br />
perché proprio dentro di me doveva entrare l’anima<br />
di quel bambino? Dentro di me e non, per esempio,<br />
dentro di lui. Perché era lui che gli aveva tagliato la<br />
lingua ed era lui che era il responsabile di tutto. Era<br />
lui che conosceva l’ovile di zio Antonio Flores, era lui<br />
che aveva organizzato il colpo. Io c’ero solo per aiutare<br />
a condurre la mandria. Io di armi sino a quel<br />
giorno non ne avevo toccato altre che quelle che mi<br />
avevano insegnato a usare quando facevamo il servizio<br />
militare. Un mitra, era la prima volta che l’imbracciavo<br />
ed era lui che mi aveva insegnato come funzionava.<br />
E anche a rubare, era la prima volta che ci andavo.<br />
Era la prima volta di tutto, quella.<br />
E se mi ero unito a loro era perché non volevo che<br />
lui dicesse che ero un codardo, e anche perché il colpo<br />
pareva così buono e sicuro che solo un idiota avrebbe<br />
96<br />
detto di no. Ma era lui che l’aveva ideato e organizzato.<br />
Era lui che aveva ricevuto lo sputo di zio Antonio<br />
Flores. Era lui che aveva detto che al ragazzo del<br />
Passo della Croce bisognava fargliela pagare. Era lui e<br />
lui solo che era responsabile di tutto. Ed è giusto che<br />
sia lui ad aver pagato.<br />
Noi lo seguivamo perché eravamo ubriachi, e io ero<br />
come al solito il più ubriaco di tutti perché io il vino<br />
non lo reggo. E allora, perché proprio dentro di me<br />
doveva entrare l’anima di quel disgraziato?<br />
Non ero io che l’avevo sollevato a calci dal pavimento.<br />
Io ridevo perché, ubriaco com’ero, mi pareva<br />
divertente il modo in cui cadeva, come un sacco di<br />
stracci. Ridevo perché ero ubriaco e non capivo che<br />
cosa succedeva. Non ridevo per malvagità, e non ero<br />
io, ma lui e solo lui che, senza avvertirci di ciò che<br />
stava per fare, gli aveva afferrato la lingua come a una<br />
bestia malata e gliela aveva mozzata con un solo colpo<br />
del suo coltello. Era lui, non io. E tutto era capitato<br />
così in fretta e io, con tutto quel vino che avevo in<br />
corpo, non avevo capito nulla di ciò che avveniva.<br />
Non mi ricordo neppure come ci arrivammo, lì, dentro<br />
quella maledetta capanna.<br />
Se davvero sei dentro di me, ti supplico, convinciti,<br />
la colpa era solo sua, e lui ora ha pagato. Perciò vattene.<br />
Lasciami in pace. Se io ho sparato, è stato perché<br />
in quel momento era l’unica cosa pietosa da fare, e perché<br />
io quell’urlo di maiale mal sgozzato non lo sopportavo<br />
più.<br />
97
Storia di donne e cow-boy<br />
Lo sparo noi non l’avevamo udito. Ma quando mia<br />
suocera, che per caso si era trovata a passare in piazza<br />
proprio poco dopo, arrivò trafelata a raccontarci ciò<br />
che era accaduto, fu come se lo stesso colpo già avesse<br />
attraversato il mio cuore.<br />
Guardai mia suocera in faccia, per capire se fosse la<br />
sua solita voglia di chiacchierare che l’aveva portata<br />
da noi con la notizia, o se ci fosse un’intenzione particolare.<br />
Se sapesse quanto da vicino quella notizia mi<br />
riguardasse. Perché, se lo sapeva lei, allora lo sapevano<br />
tutti.<br />
Ma la sua faccia non esprimeva altro che il piacere di<br />
aver “quasi” assistito a una cosa importante di cui tutti<br />
avrebbero parlato.<br />
Era accaduto, raccontava, e per l’eccitazione e il piacere<br />
la saliva le scorreva a rivoli dagli angoli delle labbra,<br />
durante una delle molte interruzioni di corrente<br />
che quella sera c’erano state, e nel buio non si distingueva<br />
un diavolo da un angelo.<br />
Il Falco era davanti alla bettola della Milese, insieme<br />
ad altri pari suoi con i quali aveva fatto bisboccia tutto<br />
99
il giorno. A quell’ora dovevano essere ubriachi fradici<br />
e stavano giocando alla morra, senza neanche accorgersi<br />
della pioggia, e gridavano come se volessero scannarsi.<br />
Col chiasso che facevano, anche al buio non era<br />
difficile trovarli, se qualcuno voleva trovarli. Anche le<br />
loro voci erano riconoscibili. Quella del Falco, come al<br />
solito, era la più alta e prepotente.<br />
E qualcuno che voleva trovarli c’era. All’improvviso,<br />
nel buio, una persona s’era avvicinata e aveva acceso<br />
una lampadina tascabile con la quale per un momento<br />
aveva illuminato i loro visi, abbagliandoli. Poi, probabilmente<br />
la stessa persona, aveva sparato a bruciapelo<br />
sul Falco proprio in mezzo al petto. Un colpo di pistola.<br />
Uno solo. Ma mortale.<br />
Nello scompiglio che era seguito, l’assassino era scomparso<br />
senza che nessuno cercasse di fermarlo. E nessuno,<br />
neppure quelli che erano col Falco, l’aveva visto in<br />
faccia e riconosciuto. Ma si diceva che la sagoma, che<br />
per un attimo avevano intravisto dietro il cerchio di luce<br />
della lampadina tascabile, fosse quella di una persona<br />
piccola di statura e magra. Forse una donna. Vestita<br />
da uomo.<br />
Mia suocera era propensa a credere che davvero si<br />
trattasse di una donna. Il Falco, di vergini, sulla coscienza<br />
ne aveva molte. Una volta o l’altra ci avrebbe<br />
lasciato le penne, e ben gli stava. Anche se il nostro è<br />
un paese che persino troppo è tollerante verso i mascalzoni<br />
che calpestano l’onore di ragazze per bene e<br />
così ingenue che non sanno neppure come nasce una<br />
100<br />
mela sull’albero e perciò ci cascano senza accorgersi di<br />
ciò che sta capitando, continuava a chiacchierare mia<br />
suocera che ha dovuto vivere tutta la vita con l’umiliazione<br />
di quella figlia bastarda che ora è mia moglie.<br />
E che perciò detesta tutti gli uomini che non abbiano<br />
fatto voto a San Luigi.<br />
Io l’ascoltavo con appena mezzo orecchio, sperando<br />
che non fosse sola a pensare ciò che pensava, ma dentro<br />
di me sicuro che non era per una storia di donne che il<br />
Falco era stato fatto fuori. Di peccati sulla coscienza il<br />
Falco ne aveva molti, ma le donne erano la cosa minore.<br />
Ed erano affare suo.<br />
Uno però, fra i peccati del Falco, era purtroppo anche<br />
affare mio. Quel peccato che avevo cercato di dimenticare,<br />
come si dimentica un brutto sogno. Ma dimenticare<br />
era difficile. E se anche ci fossi riuscito, ora purtroppo<br />
ero costretto a ricordarmene. Il colpo che aveva<br />
abbattuto il Falco poteva anche attraversare il mio<br />
cuore.<br />
Ma dovevo tenere la testa fredda, per evitare che ciò<br />
accadesse. Far finta di niente. Se necessario negare. Negare<br />
tutto. Come avevo fatto ogni volta che se ne era<br />
presentata l’occasione, da quella maledetta notte. Perché<br />
la voce, nell’ambiente dei pastori, aveva circolato e,<br />
anche se io l’ambiente dei pastori lo frequento meno<br />
che posso, qualcuno mi aveva fatto delle domande che<br />
mi avevano impensierito.<br />
Ma nessuno ci aveva visto, quella notte disgraziata, a<br />
parte zio Antonio Flores, e lui non aveva nessun inte-<br />
101
esse a parlare e far sapere che anche lui era mescolato,<br />
e non poco, a quella storia. Perché lui non doveva aver<br />
dubbi su come stessero le cose, e qualche responsabilità<br />
anche lui ce l’aveva.<br />
Le chiacchiere per fortuna non erano durate a lungo<br />
e, alla fin dei conti, chi poteva aver interesse a voler sapere?<br />
La famiglia offesa non faceva paura a nessuno.<br />
Dei buoni a niente. Il padre, un ubriacone che a mala<br />
pena era in grado di portarsi il bicchiere alle labbra. La<br />
sola cosa che avesse fatto dalla mattina alla notte, dopo<br />
la paura che quando era giovane si era preso in Africa,<br />
dove era andato per conquistare l’Impero e gli Abissini<br />
gli stavano facendo la festa. Se gli italiani non arrivavano<br />
a tempo a liberarlo, se lo stavano già cucinando<br />
per la cena. Un imbecille alcolizzato che stava bevendosi<br />
le ultime gocce del patrimonio. E il resto erano<br />
donne: la madre, la nonna, le sorelle e anche il gemello<br />
del morto, un rachitico tutto casa e chiesa, un bigottino<br />
che non era buono neppure a spegnere i moccoli<br />
dell’altare.<br />
Da quella parte sembrava che non ci fosse molto da<br />
temere. E da parte della giustizia neppure, in quanto<br />
a ciò. Il caso archiviato, che interesse potevano avere<br />
a riaprirlo? Di gatte da pelare ne avevano anche altre,<br />
non è un paese di stinchi di santo, il nostro.<br />
Ma quello che era accaduto, e che mia suocera continuava<br />
a raccontare con l’acquolina in bocca, poteva<br />
essere un brutto segno, un avvertimento anche per me.<br />
Dovevo stare attento, non fare errori. La prima volta<br />
102<br />
ero stato bravo, e anche fortunato. C’erano state delle<br />
chiacchiere.<br />
Le chiacchiere erano arrivate anche alle orecchie dei<br />
carabinieri e qualche indagine era stata fatta. Ma non<br />
era risultato niente a nostro carico. E meno che meno a<br />
carico mio, perché io non fui neppure interrogato.<br />
Io dall’ambiente dei pastori mi tengo fuori quanto<br />
posso, e in quella storia c’ero entrato solo per disgrazia.<br />
Io ero incensurato, non come il Falco. Per lui le cose<br />
erano diverse, sotto ogni aspetto.<br />
Il Falco era stato chiamato in caserma ed era stato<br />
interrogato, come del resto furono interrogati tutti i<br />
pastori che hanno l’ovile da quelle parti. Ma aveva un<br />
alibi di ferro. Dei pastori che svernavano in Padiada<br />
erano pronti a dichiarare che proprio in quei giorni il<br />
Falco si trovava nella loro zona, cercando un pascolo<br />
per il suo bestiame.<br />
La siccità e il vento li avevano rovinati tutti. Quelli<br />
che possedevano qualcosa e che non erano già rovinati<br />
dalla nascita, come me che non possiedo nient’altro<br />
che mia moglie…<br />
I pochi che si erano salvati, almeno in parte, erano i<br />
pastori che avevano avuto la fortuna di non passare<br />
l’inverno in queste pietraie. Non c’era niente di strano<br />
che il Falco cercasse un pascolo dove forse era possibile<br />
trovarlo. E per chi, come me, sapeva, non c’era niente<br />
di strano che fosse riuscito con le buone o con le cattive<br />
a convincere quei pastori a testimoniare per lui. I<br />
carabinieri presero il suo alibi per buono. E perché non<br />
103
avrebbero dovuto farlo? Contro di lui non c’erano state<br />
che chiacchiere, nessuna prova.<br />
E ancora meno ce n’erano e ce ne sono contro di me<br />
e contro l’altro. Neppure la più piccola. E continueranno<br />
a non essercene, se quell’imbecille che per disgrazia<br />
era con noi non perderà del tutto la testa. Il Falco beveva<br />
troppo, ma il vino lo reggeva bene e di lui mi fidavo.<br />
Lui era quello che aveva più interesse a tacere. E<br />
ora se ne aveva avuto la dimostrazione. Ma forse no, il<br />
Falco era una testa calda, e di nemici ne aveva molti,<br />
anche se molti fingevano il contrario. Non era detto<br />
che quel colpo di pistola non fosse il saldo di qualche<br />
altro conto che io non conoscevo.<br />
Io non ero della sua combutta. Era quasi per caso che<br />
mi ci ero trovato quella volta disgraziata. Ero stato invitato<br />
perché di vacche ho una certa esperienza sin da<br />
quando ero ragazzo e lavoravo con zio Giuseppe Delogu.<br />
Il nostro compito, dopo averle fatte uscire dalla<br />
stalla, era di condurle via il più rapidamente possibile<br />
sino alla strada provinciale, dove avevamo parcheggiato<br />
il camion che doveva portarle a destinazione.<br />
Ero appena tornato da militare e mi ero trovato con<br />
questa ragazza che bisognava sposare perché, quando<br />
si nasce disgraziati, l’unica volta che eravamo stati insieme<br />
era rimasta incinta. Era minorenne e sua madre<br />
minacciava mari e monti. E poi le voglio anche bene,<br />
poveraccia, ma sposarla, proprio in quel momento,<br />
senza arte né parte com’ero e come sono, era l’ultima<br />
cosa che avrei voluto fare.<br />
104<br />
Dopo il primo figlio, già aspettavamo il secondo e io<br />
più che qualche giornata al cantiere di lavoro non riuscivo<br />
a trovare. Se non fosse stato per mia suocera che<br />
un poco ci ha sempre aiutato, a casa ci sarebbe stata<br />
più fame che sete.<br />
Da militare, lì a Brescia, avevo visto come si può vivere:<br />
la gente pulita e allegra per le strade. I caffè e i<br />
cinema sempre pieni. Le ragazze che camminano a testa<br />
alta e rispondono spavalde ai sorrisi degli uomini.<br />
Avevo fatto la scuola guida e avevo imparato a condurre<br />
i camion. Quello del camionista era ed è un mestiere<br />
che mi piacerebbe fare. Il trasportatore guadagna<br />
più di un pastore ricco, e senza disturbarsi troppo. Al<br />
volante del camion, sulle strade asfaltate, da un paese<br />
all’altro, col finestrino un po’ aperto in modo che l’aria<br />
fresca entra e ti sfiora il viso come se fossi un uccello in<br />
volo.<br />
Tornando in paese, avevo deciso che non volevo ridiventare<br />
pastore. Servo pastore, per dieci-vent’anni agli<br />
ordini di qualcuno, dormendo come una bestia, all’addiaccio<br />
con le bestie o, nel migliore dei casi, sulla terra<br />
battuta della capanna, con gli occhi bruciati dal fumo<br />
e dal vento.<br />
Per dieci-vent’anni, vestiti di abiti puzzolenti di sego<br />
e di latte cagliato, non cambiati per settimane, sporchi<br />
da far ribrezzo alle volpi. Tornare in paese ogni quindici<br />
giorni, ubriacarsi e poi ricominciare da capo. Una volta<br />
o l’altra prendere moglie. Una di queste ragazze di paese<br />
che non ti sollevano gli occhi in faccia ma che una<br />
105
volta sposate si credono loro le padrone e diventano<br />
brutte e prepotenti, ti riempiono la casa di figli e di debiti<br />
e ti fanno maledire il momento che le hai incontrate<br />
la prima volta. Io mi ero trovato nella necessità di sposare<br />
questa che avevo sposato, e mi è andata bene perché,<br />
poveraccia, a parte quella pettegola intrigante della<br />
madre, è migliore di quanto credessi e qualche consolazione<br />
almeno la notte me la dà. Ma se avessi fatto il pastore,<br />
anche questa consolazione mi sarebbe mancata.<br />
Con la moglie il pastore non può dormire più di<br />
due volte al mese, perché le altri notti è con le bestie<br />
che deve dormire, o piuttosto vegliare. E quando è insieme<br />
alla donna forse non ne ha più neppure voglia,<br />
e quasi non si ricorda com’è che deve fare. E la cosa<br />
non è ancora ben cominciata che è già finita. E magari<br />
lei, in quel minuto che la cosa è durata, ci è rimasta<br />
con un altro figlio. E poi è lui, l’uomo, che deve<br />
trovare il modo di nutrirle, tutte quelle bocche a<br />
suo carico. Per un momento di piacere, o di sollievo,<br />
che appena terminato neppure ci si ricorda com’era.<br />
Queste cose le sanno tutti, e anch’io le sapevo, perciò<br />
avevo deciso che era meglio fare la fame in paese<br />
che essere un pastore sazio in campagna.<br />
Non volevo passare a quel modo la mia gioventù per<br />
procurarmi alla fine il magro piacere di potermi chiamare<br />
“pastore in proprio” anziché “servo-pastore”.<br />
Ma cambiato il nome non cambia la vita. Soprattutto<br />
se si è “pastore in proprio”, ma pastore povero e senza<br />
terra.<br />
106<br />
Io a Brescia l’avevo visto come si vive nel mondo al<br />
giorno d’oggi. Se avessi avuto un po’ di capitale per<br />
l’acconto avrei comprato un trattore o un camion e<br />
avrei messo a frutto ciò che avevo imparato da militare.<br />
Per servirmene utilmente, non come continuo<br />
rodimento di fegato.<br />
Lui, il Falco, tra i miei compagni di leva era quello<br />
che di denari ne aveva sempre maneggiato di più. Lui<br />
era figlio di proprietari e non gli era mai mancato né<br />
il pane né il formaggio. Se avessi chiesto il prestito, o<br />
la garanzia per il prestito in banca, a una persona anziana,<br />
ero sicuro che mi sarei soltanto fatto ridere dietro.<br />
Lui invece era giovane e avrebbe capito. Avrebbe<br />
anche capito che, se me l’avesse prestato, non avrebbe<br />
perduto il suo denaro.<br />
Invece, quando gliene parlai, anche lui si era messo<br />
a ridere, guardandomi con disprezzo da capo a piedi.<br />
– Ah, ah… il camion! …e magari anche la brillantina<br />
per i capelli! – si teneva i fianchi e fingeva di<br />
scoppiare dal ridere. Poi si era fatto serio, e mi aveva<br />
domandato:<br />
– Dimmi, prima di fare il militare, non facevi il<br />
vaccaro, tu?<br />
– Sì, sì, è vero! – mi affrettai a rispondergli. – Ma<br />
non ho nessuna intenzione di ricominciare quella vita<br />
miserabile. Piuttosto mi faccio fare le carte per l’emigrazione.<br />
– Non correre! – mi disse. – Ascolta, invece. Se io<br />
un camion te lo faccio prestare, tu saresti capace di<br />
107
guidarlo? Un camion grande… con rimorchio… per<br />
qualche centinaio di chilometri?<br />
– Anche mille, se necessario! – risposi, senza capire<br />
dove voleva andare a parare.<br />
Fu allora che mi propose l’“affare”. Io, prima di allora,<br />
non avevo mai partecipato a quel genere di imprese.<br />
E la mia ambizione non era mai stata di diventare<br />
abigeatario. Ma quando me lo descrisse, l’“affare”<br />
mi parve così sicuro che rifiutarlo sarebbe stato peccato<br />
mortale. Alla fin dei conti io ho una moglie e due<br />
bambini da mantenere.<br />
Si trattava di venti vacche selezionate, già vendute<br />
a scatola chiusa a un tale che ci avrebbe atteso in qualche<br />
approdo sulla costa orientale. Il posto preciso me<br />
l’avrebbe detto solo lungo la strada, perché così erano<br />
i patti con i compratori. Per l’impresa saremmo stati<br />
in tre ma il ricavato l’avremmo diviso in quattro parti:<br />
due a lui che era l’organizzatore e che aveva le spese<br />
del camion, una per ciascuno a noi altri. Ma a me, che<br />
oltre che aiutare a condurre le vacche avevo il compito<br />
di guidare il camion, avrebbe lui pagato di tasca<br />
sua per il valore di una vacca. Cioè nove a lui, sei a me<br />
e cinque all’altro.<br />
Le condizioni mi sembravano eque, e anche il piano<br />
pareva buono e sicuro.<br />
Ci saremmo appostati nell’ovile del Falco la cui<br />
tanca confinava con quella di zio Antonio Flores, e di<br />
lì avremmo visto quando zio Antonio sarebbe partito<br />
per tornare in paese come faceva tutti i sabati. Allora<br />
108<br />
quella femminuccia sciancata di suo figlio sarebbe rimasto<br />
solo con le vacche. Lui, il Falco, sarebbe andato<br />
avanti perché i cani lo conoscevano e non avrebbero<br />
abbaiato. Con della carne avvelenata li avrebbe fatti<br />
fuori per impedire che ci disturbassero nel nostro lavoro<br />
e che poi li aiutassero nell’inseguimento, quando<br />
si fossero accorti di ciò che era successo. Meglio avvelenarli<br />
che riempirli di piombo, disse, per evitare gli<br />
spari che si sentono lontano. Anche se quella zona è<br />
così deserta che, escluso il suo, prima dell’ovile più<br />
vicino, che poi era quello maledetto del Passo della<br />
Croce, ci volevano ore di strada.<br />
A tutto era stato pensato e tutto sembrava previsto.<br />
E sino a un certo punto tutto andò secondo i piani.<br />
Solo una cosa non andò come doveva, ma quella era<br />
imprevedibile e lì fu l’inizio del malanno che seguì.<br />
Proprio quella sera, a zio Antonio Flores doveva saltare<br />
in mente di fare dietro front a metà strada e tornare<br />
all’ovile, tre quattro ore dopo che ne era partito,<br />
perché aveva dimenticato qualcosa che aveva promesso<br />
al dottore o all’avvocato o al diavolo che lo portava.<br />
Col fegato che ha in corpo, quando trovò il figlio legato<br />
e imbavagliato e la stalla vuota, non si perse d’animo<br />
e si mise sulle nostre tracce. In quella notte maledetta<br />
della nostra disgrazia. E ci raggiunse prima che<br />
riuscissimo a mettere le bestie sul camion e a squagliarcela.<br />
Può anche essere che il ragazzo del Passo della Croce<br />
l’abbia aiutato a trovarci. Ma forse a zio Antonio Flores,<br />
109
con la sua esperienza, non gli era stato neppure necessario<br />
che qualcuno gli dicesse quale direzione avevamo<br />
preso dopo il passo. Il temporale non era scoppiato e<br />
non c’era stata la pioggia che avevamo sperato cancellasse<br />
le nostre tracce. Per un uomo come zio Antonio<br />
Flores doveva essere stato un gioco scoprire quale strada<br />
avevamo preso, e raggiungerci.<br />
Così andò in ogni caso. Ci raggiunse, e il peggio fu<br />
che ci riconobbe, nonostante le maschere che ci eravamo<br />
affrettati a rimettere quando lo sentimmo arrivare<br />
al galoppo, e non c’era alcun dubbio con la velocità<br />
che aveva, che doveva essere lui o qualche altro<br />
molto interessato a raggiungerci. Cioè non è certo che<br />
riconobbe noi due altri, che forse non ci aveva mai visto<br />
prima. Ma il Falco lo conosceva bene e lo riconobbe<br />
di sicuro, perché fu a lui che sputò addosso<br />
quando, cambiando la voce e l’accento, il Falco gli<br />
disse che potevamo discutere un abbuono e che lui poteva<br />
riprendersi una parte delle vacche.<br />
<strong>Gli</strong> sputò addosso e non disse neppure una parola di<br />
risposta, mentre cominciava a gridare per far voltare le<br />
vacche che gli ubbidivano come se lo riconoscessero. E<br />
quello sputo fu la causa della tragedia che seguì perché<br />
il tempo che aveva perduto e che ci aveva fatto perdere,<br />
il Falco poteva anche sopportarlo, sono gli incerti di<br />
queste imprese: se riescono riescono, se non riescono<br />
pazienza. Ma un’offesa, e per di più meritata, come<br />
quella, l’aveva fatto impazzire d’umiliazione. Purtroppo<br />
io non avevo capito sino a che punto, e perciò non<br />
110<br />
avevo provveduto a salutare la bella compagnia e a tornarmene<br />
a casa, senza correre altri rischi. E quello fu il<br />
mio errore.<br />
Ma ora dovevo stare attento a non fare altri errori.<br />
Dovevo tenere la testa fredda e non lasciarmi leggere<br />
da nessuno i pensieri che avevo in testa. L’importante<br />
era sapere da quale parte era arrivato il colpo che aveva<br />
abbattuto il Falco. Perché io alla storia della vergine<br />
vendicatrice non ci credevo. E non credevo neppure<br />
che all’improvviso zio Antonio Flores, che aveva riavute<br />
tutte e venti le sue belle vacche, avesse deciso di<br />
rischiare di finire in carcere i suoi giorni, per prendersi<br />
il gusto di fare la festa a un uomo al quale aveva sputato<br />
addosso di fronte a testimoni, e che perciò per lui<br />
non valeva più di un pidocchio.<br />
L’unico interesse che zio Antonio Flores poteva avere<br />
di far fuori il Falco era quello di eliminare uno che<br />
lui aveva offeso di fronte a testimoni e che perciò un<br />
giorno o l’altro poteva vendicarsi. E se era così, anche<br />
io e l’altro eravamo in pericolo, perché avevamo assistito<br />
all’offesa e dunque conoscevamo il movente.<br />
Ma zio Antonio Flores non si poteva proprio dire<br />
che fosse piccolo e magro come una ragazza… Chi allora?<br />
Suo figlio neppure, non poteva essere. Lui sì era<br />
piccolo, ma non si poteva certo dire che fosse magro<br />
ed era anche mezzo sciancato, e tutti l’avrebbero riconosciuto<br />
mentre si allontanava dopo aver sparato. Per<br />
non contare che era più pauroso di una donna - e chi<br />
meglio di me poteva saperlo? - e per fare quello che<br />
111
era stato fatto al Falco, di sangue freddo ce ne voleva,<br />
e molto.<br />
Mentre i pensieri mi mulinavano nella testa, attizzavo<br />
il fuoco nel camino per fingermi non troppo<br />
coinvolto nella storia. Non dovevo però neanche mostrarmi<br />
troppo indifferente. Perché anche l’indifferenza<br />
avrebbe dato nell’occhio. Dissi perciò: – Ora<br />
vado in piazza a sentire un poco… – Ma come avevo<br />
previsto, non mi lasciarono neppure terminare:<br />
– Tu non vai in nessun posto… a quest’ora! E che<br />
cosa vuoi sentire? Tutto quello che c’era da sentire<br />
l’hai già sentito da me! Meglio non mescolarsi in queste<br />
storie… Più lontani si è, meglio… Non si sa mai<br />
chi i carabinieri possono decidere di incolpare, tanto i<br />
veri colpevoli non li trovano mai…<br />
E continuavano, tutte e due insieme, mentre io facevo<br />
finta di voler davvero uscire, e le grida e il chiasso<br />
erano tali che i bambini si svegliarono e cominciarono<br />
anche loro a gridare e a piangere… Una baraonda che<br />
era proprio quello che ci voleva per me che di uscire<br />
non ne avevo proprio alcuna voglia.<br />
Alla fine, fingendomi vittima di quelle due furie<br />
scatenate, dissi che bastava, e che già che ci tenevano<br />
tanto potevo anche restare a casa, perché alla fin dei<br />
conti non era cosa che mi riguardasse se uno che aveva<br />
fatto il gallo con tutte le ragazze del paese ora ci aveva<br />
lasciato le penne.<br />
Dissi così, facendo finta di credere a quella storia<br />
della donna sedotta, perché volevo che mia suocera si<br />
112<br />
convincesse ancora di più che dietro la morte del Falco<br />
c’era una questione di sottane, e che tutto sommato<br />
quella faccenda non m’interessava più che tanto.<br />
Il passatempo preferito di mia suocera è andare in<br />
giro a fare ciarle, e a me faceva comodo che fosse quella<br />
versione che lei e le altre pettegole del paese ripetevano,<br />
sino a farne dimenticare qualunque altra che<br />
magari in un modo o nell’altro poteva far saltare fuori<br />
il mio nome.<br />
Ma qual era l’altra versione? La vera? Ormai anche<br />
per me era questione di vita o di morte venirne a capo.<br />
113
Polvere e sangue<br />
Quel giorno, come quasi ogni giorno dopo la morte<br />
di Giosuè, Oreste non si era mosso di casa. Rannicchiato<br />
sullo sgabello, come un vecchietto, con la sua<br />
solita espressione assente, indifferente si sarebbe detto,<br />
aveva ascoltato mamma che si era messa a tessere<br />
le lodi di compare Giua di Galatì che aveva promesso<br />
di assumerlo come apprendista nella sua bottega di<br />
falegname. Appena il posto si rendeva libero. Forse già<br />
fra qualche giorno. O settimana. O mese.<br />
Per compare Giua, mamma aveva un’ammirazione<br />
rabbiosa. Diversamente da noi, che siamo stati una delle<br />
famiglie più distinte e potenti del paese, e che la mancanza<br />
di carattere di babbo ha ridotto come ci ha ridotto,<br />
compare Giua si è fatto dal quasi nulla una posizione<br />
che tutti gli invidiano. Una bottega con diversi<br />
garzoni, che cresce ogni anno e che ormai fornisce banchi<br />
e mobili anche alle scuole e agli uffici del comune.<br />
“Un uomo e una famiglia che si sono fatti onore”,<br />
non mancava mai l’occasione di dire mamma, soprattutto<br />
se babbo era presente e, dicendo così, poteva<br />
aumentare la sua umiliazione.<br />
115
“Loro sì che si son fatti onore, non come noi che<br />
siamo coperti di miseria e di disonore dalla testa ai piedi<br />
e che ci teniamo dritti solo per l’immotivata superbia<br />
che ci resta”.<br />
Lo diceva per ferire babbo, ma in parte aveva ragione.<br />
Per noi ragazze, forse la vita sarebbe stata comunque<br />
una scatola chiusa che avremmo aperto a poco a poco,<br />
scoprendone il contenuto buono o cattivo che ci era stato<br />
destinato. Ma per Oreste e Giosuè la vita sarebbe<br />
stata sicuramente un’altra se, anziché in una famiglia<br />
di ex-falsi-ricchi, fossero nati in una famiglia di veri<br />
poveri.<br />
Anziché pastori di porci, in quell’unica maledetta<br />
tanca che ci era rimasta, sarebbero diventati artigiani,<br />
muratori, calzolai… E qualunque mestiere sarebbe<br />
stato migliore di quello che invece a lei, proprio a lei<br />
era sino ad allora sembrato l’unico degno per dei figli<br />
di prinzipales. “Pastori in proprio”… anche se quel<br />
“proprio” non erano che alcuni porci semiselvaggi, e<br />
la solitudine di quella campagna maledetta dove da<br />
un anno nessuno di noi aveva più messo piede.<br />
Solo da poco, quasi all’improvviso, come se anche<br />
per lei fosse finalmente diventato intollerabile vederlo,<br />
quel figlio di neppure tredici anni, ridotto come un<br />
vecchio che non si spostava dall’angolo del camino, si<br />
era decisa a rivolgersi a compare Giua perché gli trovasse<br />
un posto di apprendista. Magari nella sua bottega.<br />
Oreste falegname. Un mestiere che esercitato qui,<br />
nel nostro paese, le sembrava indegno della nostra fa-<br />
116<br />
miglia. Che assurdità e che ironia, nella stessa persona,<br />
nelle stesse persone perché anche gli altri non ne erano<br />
esenti, tutta quella somma di presunzione e di umiliazione…<br />
Non so se fu Oreste a chiederglielo, non so se erano<br />
d’accordo, in ogni caso non s’oppose, non uscì da quella<br />
passività in cui dolorosamente vegetava dopo la morte<br />
di Giosuè. Da allora non era più voluto tornare in campagna<br />
e a nessuno, se non a lui forse, ciò parve codardia.<br />
Per tutti quei mesi, per tutto quell’anno, per tutto<br />
quell’interminabile seguito di giorni se n’era rimasto<br />
lì, nell’angolo più buio della cucina, rimestando le<br />
bragi del camino, disegnando con l’attizzatoio montagne<br />
e valli sulla cenere facendo, sprizzare delle scintille<br />
con dei colpi precisi sui tizzoni.<br />
Il suo viso si era ingiallito e avvizzito, e le sue spalle<br />
erano curve e strette come quelle di un vecchio. Lui a<br />
una estremità del camino, nonna, col suo portamento e<br />
il suo viso da mummia orgogliosa, all’altra. E, quando<br />
non era alla bettola, babbo accasciato e perduto nei suoi<br />
deliri, la testa fra le mani e i gomiti appoggiati al piano<br />
del tavolo.<br />
La nostra cucina, la nostra casa, era una fossa di silenziosi,<br />
opprimenti fantasmi, che neppure la forte<br />
presenza di mamma e l’innocente vitalità di Daniela<br />
riuscivano a cancellare. Se qualcuno dei vecchi compagni<br />
veniva a cercarlo, per provare a farlo uscire, Oreste<br />
si limitava a fare spallucce e, quasi sgarbatamente, rispondeva:<br />
117
– Vai tu, se hai voglia. Io non ho dove andare.<br />
Il lutto non impone clausure agli uomini e ai bambini,<br />
come a noi donne. E quel suo voler continuare a<br />
vivere passivo e ritirato come una vecchia, quella sua<br />
stranezza, o follia, era un’umiliazione non necessaria e<br />
inaccettabile che si aggiungeva alle altre sventure che<br />
il destino aveva tenuto in serbo per la nostra famiglia.<br />
Era stato con sollievo perciò che avevo accolto l’idea<br />
della sua partenza e, sperando in un sintomo di guarigione,<br />
lo avevo guardato mentre, quella sera di S. Antonio,<br />
già sul tardi, s’infilava la giacca per uscire. Forse<br />
all’improvviso gli era venuta voglia di salutare i compagni,<br />
di dare un ultimo sguardo al paese prima di lasciarlo.<br />
Fra qualche giorno sarebbe partito e forse per<br />
molti anni, chissà, forse per sempre, sarebbe rimasto<br />
lontano da questi luoghi che, per quanto disgraziati,<br />
son tuttavia i luoghi nei quali siamo nati, e nei quali<br />
affondano le nostre radici.<br />
118<br />
La trave nell’occhio<br />
Solo chi non mi conosce può immaginare che io abbia<br />
avuto una parte sia pure minima e lontana in quel<br />
regolamento di conti. Perciò ancora di più mi offende,<br />
mi imbestialisce, che questa donna con la quale ho diviso<br />
e divido la vita abbia potuto, sia pure per un momento,<br />
in qualche modo collegarmi ad esso.<br />
Lei lo sapeva meglio di chiunque altro che io mi ero<br />
limitato a riprendermi la roba che era mia, e che l’unico<br />
gusto che mi sia preso fu quello di sputargli addosso,<br />
al traditore.<br />
E ormai, dopo tanto tempo, perché avrei dovuto<br />
darmi la briga di fargli la festa, io, a quel delinquente<br />
che, da quando mi aveva offeso e gli sputai addosso davanti<br />
a testimoni, per me aveva smesso d’essere uomo?<br />
Sapevo che ormai non avrebbe più tentato di nuocermi,<br />
nonostante la sua ferocia e la sua slealtà. Perché<br />
avrei dovuto rischiare la mia libertà insozzandomi le<br />
mani del suo sangue?<br />
Ma quando seppi della sua fine, la mia reazione più<br />
che naturale fu di tirare un respiro di soddisfazione, e<br />
non mi trattenni dal dire che la mano di Dio era fi-<br />
119
nalmente calata su di lui. E questo bastò perché lei,<br />
che con la vecchiaia sta diventando anche bigotta, cominciasse<br />
a rimproverarmi con quelle sue frasi stantie<br />
che, anche a causa della voce che l’età sta rendendo<br />
mascolina, mi fanno quasi credere d’essermi sposato<br />
con un prete e di averci impiegato trent’anni per accorgermene.<br />
– Ma è stato o non stato lui che ha cercato di metterci<br />
sul lastrico, noi, i suoi benefattori? Dimmi! È<br />
stato o non stato lui, a legare tuo figlio come una bestia<br />
da mandare al macello, a minacciarlo di morte, ad<br />
avvelenarci i cani e a svuotarci la stalla? Per non parlare<br />
di ciò che ha fatto ad altri.<br />
Dicevo. E lei naturalmente sapeva benissimo che avevo<br />
ragione. Ma prima di cedere e di ammettere il proprio<br />
torto crepa, la santa donna. Lei che parla di perdono,<br />
e delle sofferenze di Gesù sulla croce, dei nostri<br />
peccati, e dell’umiltà… E poi quella frase melensa che<br />
proprio mi fa montare in bestia: “Impara a vedere la<br />
trave nel tuo occhio, ecc. ecc.”<br />
Come se si possano fare confronti, tra uno che non ha<br />
rispettato mai niente e nessuno, una belva che, anche<br />
dimenticando ciò che fece a noi e a molti altri come<br />
noi, chiunque avrebbe condannato senza appello per<br />
quella vendetta bestiale che si prese su un innocente, e<br />
uno come me che ha sempre tirato avanti per la sua<br />
strada, cercando di non infastidire nessuno, logorandosi<br />
nel lavoro per riuscire a vivere senza vergogna.<br />
“Impara a vedere la trave nel tuo occhio…” come se<br />
120<br />
si possano fare confronti! Perché sì, anche se son cose<br />
di cui non posso parlare con lei o con nessun altro, io<br />
posso ammetterlo davanti a Dio: è vero che io il ragazzo<br />
lo calai nel pozzo e che feci la voce grossa con lui<br />
sino a che non si decise a parlare, ma dopo fui io stesso<br />
che, con queste mie mani, nonostante la fretta che<br />
avevo, gli attizzai il fuoco perché si asciugasse e non si<br />
prendesse una polmonite, con quel vento freddo che<br />
tirava e quella tempesta che stava per scoppiare da un<br />
momento all’altro. E forse sarebbe stato meglio che se<br />
la fosse presa una polmonite galoppante, e che fosse<br />
morto di morte naturale, non in quel modo atroce che<br />
neppure una bestia meriterebbe.<br />
Ma forse che io non avevo diritto, io, di costringerlo<br />
ad aiutarmi? Non era forse il mio, frutto del mio sudore<br />
e del mio sangue, quel bestiame che inseguivo e<br />
le cui tracce si confondevano e minacciavano di perdersi,<br />
proprio lì, davanti alla sua capanna? Era colpa<br />
mia, e non di quel poltrone ubriacone di suo padre, se<br />
quel bambino inesperto si trovava da solo in un posto<br />
così pericoloso ed esposto?<br />
Io in quella situazione ero la vittima e l’offeso e ho<br />
fatto solo ciò che era necessario per difendermi. Ma la<br />
baciapile bigotta cercava e cerca di convincermi che io<br />
ero e sono un peccatore alla stregua di quel traditore e<br />
assassino di bambini che quella sera finalmente il diavolo<br />
si era preso con sé. Anch’io ero in grado di dire:<br />
“che Dio gli perdoni”, ora che le sue mani erano legate<br />
per sempre e il suo fiato aveva finito d’appestare l’aria<br />
121
che respirava. Che Dio gli perdonasse pure, ma io non<br />
potevo perdonargli. Io, cieco, che mi ero allevato la serpe<br />
in seno. Derubato da quello al quale io stesso avevo<br />
insegnato il mestiere, da colui che un giorno mi aveva<br />
detto che se si fosse sposato, io avrei dovuto fare da padrino<br />
al suo primo figlio.<br />
Rubare è umano, gli uomini hanno sempre rubato e<br />
sempre ruberanno, peggio per chi è sciocco e si lascia<br />
derubare; ma tradire no, tradire chi ti crede amico e ti<br />
ha fatto del bene, mordere la mano dalla quale hai<br />
mangiato e bevuto, questo perdio non è da uomo, è da<br />
serpe. E la serpe merita di venire schiacciata sotto la<br />
suola della scarpa.<br />
Lei invece, la bigotta, mi parlava di trave nel mio<br />
occhio perché, siccome non è stupida, ha capito che la<br />
morte di quel ragazzo era collegata al furto e al ritrovamento<br />
delle nostre vacche.<br />
Forse è stato quell’imbecille di nostro figlio a raccontarle<br />
qualcosa che glielo ha fatto capire. Il ragazzo<br />
doveva essere ancora tremante di freddo e di paura,<br />
quando lui e i vicini che si erano uniti per le ricerche<br />
arrivarono al Passo della Croce. E proprio in quel momento<br />
anch’io ci tornavo, con tutte le mie vacche recuperate.<br />
I vicini sicuramente capirono che sono cose<br />
del mondo, e che se io quel ragazzo l’avevo fatto parlare,<br />
con le buone o con le cattive, avevo avuto tutto il<br />
diritto di farlo.<br />
Mio figlio, invece, quella femmina che mi vergogno<br />
persino d’ammettere che è figlio mio, sembrava non<br />
122<br />
aver capito niente e, come se fosse la cosa più importante<br />
in quel momento, voleva che restassimo in quel<br />
deserto maledetto per occuparci di quel bambino che<br />
gli “sembrava molto malato”.<br />
Quando ci arrivai la prima volta, da solo, al Passo<br />
della Croce, già cominciava a tuonare e il temporale<br />
sembrava sul punto di scoppiare. La pioggia, su quel<br />
terreno arido e asciutto avrebbe in un attimo cancellato<br />
le tracce, proprio lì dove i sentieri si dividevano e<br />
già esistevano delle possibilità d’errore e di perdite di<br />
tempo, e avrebbe forse reso vana ogni speranza di recuperare<br />
la mia roba.<br />
Era chiaro che il ragazzo, con le buone, non sarei mai<br />
riuscito a farlo parlare. Voleva fare il furbo, in principio,<br />
e cercava di dire che lui dormiva, che non aveva<br />
visto né udito niente, che il cane non aveva abbaiato o<br />
che se aveva abbaiato lui non l’aveva sentito. Ma se<br />
non avessi avuto altri motivi per dubitare, avrei capito<br />
che mentiva dal tremito che gli scuoteva le membra e<br />
che gli faceva battere i denti con un rumore che pareva<br />
di grandine.<br />
Quel sistema per far parlare chi non vuol parlare,<br />
non l’ho inventato io, e persino la polizia con l’approvazione<br />
dei giudici e del governo e di tutti ha i suoi<br />
metodi e li adopera. E i metodi della polizia, dei giudici<br />
e del governo non sono più umani dei nostri. Perché<br />
non dovevo tentare io, in una questione che per<br />
me era di vita o di morte? E in ogni caso, a sgozzarlo<br />
come un agnello e a crivellarlo di colpi, il ragazzo, non<br />
123
sono stato io. Io ho sempre pensato, e detto quando era<br />
il caso di dirlo, che era stata una cosa bestiale e immotivata.<br />
Ciò che io feci invece era legittimo. Una legittima<br />
difesa, era la mia: io ero l’offeso, il colpito, e<br />
mi stavo difendendo come potevo.<br />
Io dovevo, a ogni costo, sapere per quale di quelle tre<br />
maledette strade il mio bestiame, tutto il mio bestiame,<br />
la mia unica ricchezza, il pane mio e della mia<br />
famiglia, la mia unica garanzia per la nostra vecchiaia,<br />
era scomparso. E se lui, il ragazzo, il solo che potesse<br />
dirmi per quale di quelle tre maledette strade si erano<br />
allontanati, non voleva parlare, era nel mio diritto<br />
adoperare quei mezzi che chiunque, anche la polizia,<br />
al mio posto avrebbe adoperato per fargli muovere la<br />
lingua. La colpa, caso mai, era di chi aveva messo lui,<br />
l’agnello innocente, in quel posto di lupi. La colpa era<br />
di quell’ubriacone buono a nulla del padre e di quell’ambiziosa<br />
pazza della madre che i figli li voleva pastori<br />
e proprietari, perché pastori e proprietari erano<br />
stati i loro antenati.<br />
Bel ragionamento! Come se non se ne siano viste altre<br />
di famiglie andate in rovina, e di figli di pastori diventati<br />
calzolai o barbieri o altro… Ahi, la spina del<br />
mio cuore! Anche mio figlio… che ne sarà di lui<br />
quando la vecchia quercia sarà crollata?<br />
Prete lo voleva la madre, e lui si era messo in mente<br />
di emigrare, perché qui “in questo paese incivile”,<br />
come si permetteva di dire, non ci poteva vivere.<br />
Quando partì militare, speravo che, lontano dalla ma-<br />
124<br />
dre che l’ha sempre viziato come una bambina, sarebbe<br />
diventato un uomo. Mi ritornò invece sciancato<br />
e profumato come una femmina di malaffare, che ancora<br />
a ripensarci mi scoppiano le vene delle tempie per<br />
la vergogna. Quale peccato, Dio mio, quale peccato ho<br />
commesso per essere punito così duramente nel mio<br />
unico figlio? Questa sì che è una trave nel mio occhio<br />
e una spada rigirata nel mio cuore, non quella di cui<br />
parla la bigotta che pretende mandarmi da quell’uomo<br />
in sottana per parlargli di cose che non lo riguardano<br />
e che sono peccato solo nella fantasia di una<br />
vecchia donna.<br />
Si gira e rigira nel letto sospirando, da allora, e ha<br />
raddoppiato le sue novene e le sue messe perché, come<br />
dice, “il peccato è grande, e dura dev’essere l’espiazione”.<br />
Facile parlare di peccato, di umanità, di giustizia.<br />
Ma come avrebbe fatto lei, come avremmo fatto noi,<br />
se non fossi riuscito a raggiungere i ladri e a riportare<br />
il bestiame nella nostra stalla? Le banche non perdonano<br />
e non parlano d’umanità. Neppure chiedendo<br />
l’elemosina di porta in porta saremmo riusciti mai a<br />
sollevare la testa, dopo un colpo come quello.<br />
Dovevo forse rassegnarmi a non ricevere aiuto dal ragazzo<br />
e rischiare, mentre seguivo una pista sbagliata,<br />
che con la complicità di quelle nuvole che da giorni<br />
andavano ammucchiandosi nel cielo e che stavano per<br />
sciogliersi in cateratte d’acqua, le nostre venti vacche<br />
di razza venissero ingoiate da qualche camion appo-<br />
125
stato sulla provinciale e perdute per sempre sui marmi<br />
e nelle celle frigorifere di qualche macelleria cittadina?<br />
Era questo che dovevo fare? Rassegnarmi? E chi ce<br />
le avrebbe pagate, dopo, le tratte della banca? Chi ce<br />
l’avrebbe salvato quel pezzo di terra e questo tetto che<br />
ci copre la testa? Come avrei mai più potuto sollevare<br />
gli occhi di fronte ai cauzionisti, costretti a pagare il<br />
nostro debito? Tutto avremmo dovuto vendere, persino<br />
le scarpe che portiamo ai piedi e la camicia che ci<br />
copre il ventre, ma neppure così ci saremmo salvati<br />
dalla vergogna verso quelli che ci avevano aiutato con<br />
la loro firma e che avrebbero dovuto pentirsi amaramente<br />
della fiducia che mi avevano fatto.<br />
Perché quando ci ritornai quella sera la stalla era<br />
vuota come il palmo della mia mano, e di ciò che era<br />
stato il frutto del mio lavoro e che era la nostra assicurazione<br />
per la vecchiaia non restava che qualche traccia<br />
di sterco sul pavimento di cemento.<br />
Che cosa avrei raccontato alla banca che ci aveva<br />
concesso il mutuo, che cosa avrei detto? “Signori cari,<br />
per piacere cancellate il mio debito perché io non potrò<br />
mai pagarlo. I ladri mi hanno svuotato la stalla,<br />
mio figlio è una femmina, e il bambino del Passo della<br />
Croce era testardo e non mi ha voluto dire quale strada<br />
avevano preso e io, cercando e sbagliando, ho perduto<br />
tempo, il temporale ha cancellato le tracce e io, nel<br />
giro di poche ore, da proprietario, son diventato nullatenente.<br />
Avrei forse dovuto costringerlo con le male<br />
126<br />
maniere a parlare, il bambino del Passo della Croce che<br />
non voleva parlare? La legge non lo permette…”<br />
Questo avrei dovuto dirgli a quelli della banca che<br />
non sono pastori, che sono gente civile, come mia moglie.<br />
E loro, gentilmente, avrebbero strappato tutti i<br />
foglietti verdi che mi mandavano per ricordarmi di pagare,<br />
e noi saremmo rimasti poveri, sì poveri in canna,<br />
ma senza obblighi verso nessuno, senza vergogna.<br />
Così forse s’immaginava lei che sarebbe andata, se io<br />
quella notte non avessi fatto ciò che feci. E mi parlava<br />
di trave nel mio occhio, e del peccato che avevo commesso.<br />
Come se fosse stato un piacere farlo, come se<br />
ancora nel sonno e nella veglia non mi vedessi davanti<br />
quegli occhi supplichevoli e terrorizzati, e non mi sentissi<br />
nelle orecchie quel rumore di grandine che facevano<br />
i suoi denti.<br />
Lo scuotevo per le spalle, come qualche ora prima<br />
avevo fatto con mio figlio, e come allora mi pareva che,<br />
stringendo solo un altro poco, avrei potuto stritolare<br />
fra le dita quelle clavicole la cui fragilità, intenerendomi,<br />
ancora di più accendeva la mia ira.<br />
La testa gli sbatteva avanti indietro, come se fosse legata<br />
al corpo da uno straccio molle, senza ossa. Il suo<br />
cane abbaiava e ringhiava ma, dopo il primo calcio che<br />
gli sferrai, si teneva a distanza senza avere il coraggio<br />
d’aggredirmi. Un vecchio cane. Neppure un buon cane<br />
avevano procurato a quell’innocente, abbandonato<br />
in un luogo dove a mala pena un adulto con altre cartucce<br />
al suo fucile avrebbe potuto resisterci.<br />
127
Ai miei scossoni lasciava penzolare il capo senza reagire,<br />
come privo di vita, fissandomi con quegli occhi<br />
rovesciati al bianco che sembravano sul punto di schizzargli<br />
dalle orbite. Avrei potuto schiaffeggiarlo, ma capii<br />
che sarebbe servito solo a eccitare ancora di più la<br />
mia ira, senza farmi ottenere da lui ciò che mi occorreva<br />
sapere, e subito.<br />
Sapevo dove si trovava il loro pozzo perché non era<br />
la prima volta che passavo da quelle parti, ma glielo<br />
domandai, sperando che ciò l’avvertisse delle mie intenzioni<br />
e bastasse per fargli paura. Invece sembrò non<br />
capire e continuò a guardarmi con quegli occhi di bestia<br />
moribonda, senza rispondermi. Ce lo trascinai, e la<br />
sua mancanza di resistenza di nuovo eccitava le mie<br />
manifestazioni d’ira, mentre l’ira stessa si sgonfiava<br />
dentro di me, come del latte in ebollizione quando un<br />
soffio ne sfiora la superficie.<br />
Ma non c’era niente da fare, non era per sfogare la<br />
mia ira che facevo ciò facevo. Dopo quella lunga stagione<br />
di siccità, pensavo che il pozzo dovesse essere<br />
quasi asciutto e, per un momento, la paura del ridicolo<br />
di calarlo in un pozzo senz’acqua si mescolò alle altre<br />
preoccupazioni.<br />
Avevo chiuso il cane nella capanna, perché il suo abbaiare<br />
mi stava dando sui nervi e ora, mentre lo legavo,<br />
il ragazzo mi domandava, in una specie di lamento<br />
mescolato a quell’irritante rumore di grandine dei<br />
suoi denti che non avevano smesso di battere:<br />
– Che cosa mi fate, zio Antonio, che cosa mi fate?<br />
128<br />
– Dimmi dove sono andati e ti slego, altrimenti aspetta<br />
e sentirai che cosa ti faccio! – gli risposi, e attesi<br />
un momento.<br />
– Non so nulla, vi giuro sull’anima mia! – gridò. E<br />
se non avessi avuto la certezza che mentiva, avrei quasi<br />
potuto credergli.<br />
Quando già lo sollevavo per calarlo nel pozzo, si udì<br />
un tuono che rotolava nel cielo dove la luna continuava<br />
a mostrarsi e a nascondersi in mezzo alle nuvole,<br />
e capii che non c’era tempo da perdere. Non potevo<br />
avere pietà, anche se non averne era impossibile.<br />
Lo calai nel pozzo con precauzione, per evitare che<br />
sbattesse contro le rocce che sporgevano dalle pareti. E<br />
lui: – Che cosa mi fate? – gridava, e sembrava davvero<br />
non aver capito che cosa gli stavo facendo. Come se<br />
mai nessuno gli avesse raccontato che così si faceva a<br />
quelli che sapevano e non volevano parlare.<br />
Quando udii il tonfo dei suoi piedi che raggiungevano<br />
l’acqua, fermai la fune e, affacciato a quel cerchio<br />
buio, gli gridai:<br />
– Racconta dove sono andati, disgraziato, senza farmi<br />
perdere altro tempo. Altrimenti taglio la fune e<br />
non sarai ripescato che quando il fetore della tua carogna<br />
avrà chiamato tutti i corvi e gli avvoltoi dell’isola.<br />
Non rispose neppure allora, e io cedetti un tratto di<br />
fune sino a che l’acqua stava per coprirlo e la sua voce,<br />
debole, agitata e come lontanissima, non disse quasi in<br />
un singhiozzo: – Il sentiero di Salaghìa!<br />
Lo tirai su e, prima di rimettermi al galoppo nella<br />
129
direzione che aveva indicato, soffiai sui tizzoni del focolare<br />
e aggiunsi una fascina per ravvivargli la fiamma.<br />
E non mi allontanai sino a che non fui certo che il<br />
fuoco aveva ben preso e che già il vapore s’alzava dai<br />
suoi panni bagnati.<br />
E che cosa di più avrei potuto fare? Restare a fargli<br />
la guardia? A proteggerlo? Ciò spettava a quell’ubriacone<br />
del padre e a quell’intrigante della madre. Avrebbero<br />
potuto pensarci loro a non lasciarlo solo e senza<br />
controllo in un posto come quello. Avrebbero dovuto<br />
tenerselo a casa, come il bambino che era. Quello non<br />
era e non era mai stato un posto per bambini ingenui<br />
e indifesi.<br />
Certo ciò che capitò appresso fu peggio e più di<br />
quanto chiunque, neppure con la fantasia di una belva,<br />
avrebbe potuto immaginare. E non sarebbe capitato se<br />
il ladro, cosa che io non potevo prevedere, non fosse<br />
stato uno dei miei amici e vicini che allo scorno di dover<br />
restituire il mal tolto doveva aggiungere l’incancellabile<br />
vergogna d’essere stato scoperto a tradire un<br />
amico.<br />
Ma ero forse io il padre o il custode di quel bambino?<br />
Toccava a me proteggerlo e prevedere il peggio?<br />
In quel momento avevo ben altro per la testa. Che<br />
ognuno badi a sé. Così è la vita.<br />
130<br />
Il dolore e la macchia<br />
– Mamma, il falco è abbattuto! La macchia è lavata!<br />
– disse a voce bassa e chiara. Io e Daniela alzammo il<br />
capo, guardandolo senza voler capire, senza voler accettare<br />
l’unica possibile interpretazione di quella frase.<br />
Mamma ebbe come un sussulto, lì dove stava, in piedi<br />
davanti ai fornelli. Raddrizzò le reni e rimase un attimo<br />
immobile, senza voltare il capo. Poi lo guardò e,<br />
senza pronunziare parola, senza affrettare il passo ma<br />
ugualmente affrettandosi, si ritirò insieme a lui nella<br />
stanza accanto.<br />
Nonna rimase con noi vicino al camino, continuando<br />
a sgranare il suo rosario. Solo per un suo scatto breve<br />
e forse involontario del mento capimmo che aveva<br />
udito.<br />
Di nuovo si era interrotta l’energia elettrica e, col lavoro<br />
a maglia sulle ginocchia, stemmo ad ascoltare i<br />
loro bisbigli nel buio della stanza accanto.<br />
Era la sera di S. Antonio. Tornando dalla messa, quella<br />
mattina, avevamo visto i carri che scaricavano i tronchi e<br />
le frasche per i falò della festa. Più tardi, quando già le<br />
cataste dovevano essere pronte, aveva cominciato a pio-<br />
131
vere, così forte che ormai la legna doveva essere zuppa.<br />
Non doveva essere stato facile accendere i fuochi e tenerli<br />
accesi.<br />
A causa del lutto, noi ragazze quell’anno non potevamo<br />
mostrarci attorno ai falò. Le nostre compagne sarebbero<br />
andate senza di noi ad arrostire le castagne e<br />
le patate fra le ceneri calde, a guardare e a farsi guardare,<br />
a ricevere, forse, e a rispondere a qualche dichiarazione<br />
d’amore. Noi non potevamo essere lì ad esprimere<br />
voti quando S. Antonio avrebbe conficcato il suo<br />
tizzone ardente nella terra indurita dall’inverno per<br />
scaldarla, fecondarla e farla rivivere. Altre ragazze e altri<br />
giovani, senza di noi, avrebbero annunziato la primavera,<br />
saltando il fuoco mentre si tenevano per mano<br />
e si promettevano amicizia.<br />
Noi, quell’anno e forse per molti anni ancora, avevamo<br />
diritto di passare solo per le strade secondarie,<br />
rasentando i muri e con lo sguardo basso. I soli luoghi<br />
nei quali potevamo recarci senza scandalo erano il cimitero<br />
e la chiesa. Ma non per le funzioni festive e solenni.<br />
E anche lì, in chiesa, avevamo ritirato i nostri<br />
inginocchiatoi nella navata più buia, dietro una colonna<br />
che ci nascondeva, noi, il nostro lutto e la nostra<br />
vergogna.<br />
Da un anno, da quando Giosuè era stato ucciso e i<br />
suoi assassini circolavano impuniti per il paese, la nostra<br />
famiglia era appestata di lutto e di disonore. Così<br />
era, e così era sempre stato nel mondo per chi, come<br />
noi, nasceva sotto una stella cattiva.<br />
132<br />
Della morte di Giosuè in casa nostra non se ne parlava.<br />
Ma essa era sempre lì, presente in mezzo a noi,<br />
come un’enorme macchia oscura che non poteva né<br />
doveva asciugarsi, una macchia che non dovevamo<br />
stancarci di guardare, che non dovevamo dimenticare<br />
neppure un momento. Era presente per impedirci di<br />
parlare con la nostra voce normale. Era lì e ci ripeteva<br />
continuamente che, sino a quando quella macchia che<br />
non potevamo cancellare non fosse stata cancellata, le<br />
nostre vite sarebbero rimaste paralizzate nel gesto del<br />
dolore e della vergogna. Così era e non poteva essere<br />
che così.<br />
“Il falco è abbattuto! La macchia è lavata”. Se Oreste<br />
non era diventato pazzo, ciò significava una cosa sola,<br />
e quella cosa ci faceva tremare le mani abbandonate<br />
sul grembo.<br />
Guardai Daniela e vidi nell’espressione di tutto il<br />
suo corpo rattrappito la stessa angoscia che, come uno<br />
sciame d’api aggressive, sentivo rombare nel mio sangue.<br />
Il viso di nonna, più alto sopra i bagliori del camino,<br />
era illuminato solo a sprazzi, quando le fiamme<br />
s’alzavano.<br />
“Il segno del Santo!” disse a un tratto. Nelle labbra<br />
sottili, succhiate tra le vuote gengive, nelle occhiaie<br />
profondissime e tonde come quelle di un teschio, in<br />
tutte le immobili rughe del suo volto di mummia,<br />
non esprimeva che una pace finalmente ritrovata, una<br />
pace sazia e crudele.<br />
Così era e così forse avrebbe dovuto essere anche per<br />
133
me. Invece quell’avvenimento che Oreste ci aveva annunziato<br />
e che - per mano di chi? - aveva cancellato<br />
la nostra onta, ma non il nostro dolore, a me mi aveva<br />
solo colmato di nuova, scurissima angoscia.<br />
Il loro bisbiglio lì dentro. Il sobbalzare delle fiamme<br />
nel camino, il tremito delle nostre mani, di tutto il<br />
nostro corpo sin nelle più intime fibre. L’avanzare lentissimo<br />
della sveglia che troneggiava sul camino. Il<br />
suo tic-tac solenne che sottolineava l’enorme silenzio<br />
che era calato su tutta la terra.<br />
Poi la corrente elettrica tornò, la cucina fu smisurata<br />
e nemica nell’improvvisa luce abbagliante. I barbagli<br />
rossi del rame sulle pareti si spensero. Nel pallore del<br />
viso di Daniela specchiai il mio pallore.<br />
Udii che di lì smuovevano qualcosa. Rumori che<br />
non riuscii ad identificare. Altri bisbigli. La corrente<br />
elettrica arrivava a onde che facevano alzare e abbassare<br />
l’intensità della luce. Così era stato tutta la sera. Così<br />
era quasi sempre nei giorni di tempesta o di pioggia<br />
forte.<br />
C’era un silenzio strano, ora, di là. La luce mancò di<br />
nuovo e udimmo la porta sul cortile posteriore che si<br />
apriva, e i passi di Oreste che s’allontanavano.<br />
Il lugubre ticchettio della sveglia. Il silenzio. Il doloroso<br />
battito del cuore contro le sorde pareti del torace.<br />
“Il falco abbattuto! La macchia lavata!” Sapevo, ma<br />
non volevo sapere, che cosa significava. “Il segno del<br />
Santo!” La macchia era cancellata. Da chi? La domanda<br />
con la sua risposta, possibile anche se apparen-<br />
134<br />
temente pazzesca, era lì ma io ostinatamente me ne distoglievo.<br />
La macchia era cancellata e le nostre vite sarebbero<br />
potute uscire dalla fissità in cui un anno prima<br />
erano cadute. I nuovi gesti però non sarebbero stati<br />
meno dolorosi degli antichi.<br />
Sentivo, ma non volevo acconsentire a quel sentimento,<br />
che avevamo salito la china, che avevamo passato<br />
il valico. L’orizzonte però che si apriva per noi<br />
dopo il valico, non mi appariva come la valle dei verdi<br />
pascoli della terra promessa, ma come un nuovo e più<br />
terribile abisso.<br />
Compresi perciò, e rifiutai di capire, l’eccitato<br />
trionfo di mamma quando ci guardò affacciandosi all’uscio.<br />
Il suo sguardo, più che quello mio e di Daniela<br />
cercava quello di nonna che lo ricambiò e, con gli occhi<br />
immobili nei suoi - assenti sembravano - ripetutamente<br />
chinò sul petto il mento aguzzo.<br />
Io non seppi sostenere quello sconosciuto sfavillare<br />
dei suoi occhi, e non rialzai i miei neppure quando la<br />
udii pronunziare quelle parole che non mi aspettavo<br />
d’udire ma che, sebbene apparentemente insensate,<br />
non discussi né mi feci spiegare. D’altronde, sotto la<br />
loro apparente insensatezza, mi riuscirono più che<br />
chiare.<br />
– Oreste è partito stamani all’alba per Trezene, dove<br />
la dottoressa Rudas lo prenderà a servizio in attesa che<br />
trovi un posto di apprendista da qualche parte. Forse da<br />
compare Giua che mi ha promesso di prenderlo a bottega.<br />
Appena può. È partito stamattina all’alba, perché<br />
135
non voleva stare qui il giorno della festa. È partito a<br />
piedi, per risparmiare i soldi della corriera. Io ora devo<br />
uscire un momento per una commissione. Ma se venisse<br />
qualcuno, dite che sono andata a letto perché<br />
avevo mal di testa.<br />
C’era nella sua voce un’esultanza che mi faceva paura<br />
più dell’apparente stoltezza delle sue parole. Non erano<br />
passati molti minuti da quando Oreste era lì davanti ai<br />
nostri occhi, e per tutta la giornata l’avevamo visto seduto<br />
nel suo solito angolo accanto al camino. E ora, all’improvviso,<br />
partiva a piedi, in mezzo alla notte, e non<br />
per Galatì ma per Trezene. Come se ci fosse urgenza<br />
d’allontanarsi, e di fingere che s’era allontanato, che era<br />
partito prima dell’inizio di quella tempestosa giornata.<br />
Prima di… La spiegazione, la verità era già tutta dentro<br />
di me, ma non osavo vestirla di parole.<br />
136<br />
Una donna, un uomo, una donna<br />
Mia suocera se n’era appena andata quando qualcuno<br />
bussò al portoncino del cortile.<br />
Non era così tardi che un visitatore inatteso dovesse<br />
spaventarmi. Però, dopo ciò che era avvenuto, quel<br />
colpo secco di battaglio mi fece trasalire come un rintocco<br />
funebre.<br />
– Forse mamma ha dimenticato qualcosa… – disse<br />
lei, alzandosi per andare ad aprire. La trattenni, quasi<br />
con violenza, posandole la mano sulla spalla. Ma come<br />
spiegarle che non volevo che aprisse? Quale giustificazione<br />
potevo darle, senza compromettermi e senza degradarmi<br />
ai suoi occhi?<br />
I colpi, insistenti e più forti, si ripeterono e lei mi<br />
guardò aspettando che mi movessi o che le permettessi<br />
d’andare.<br />
– Vado io, – le dissi, non riuscendo a trovare una scusa.<br />
Con la sua solita docilità, tornò a sedersi accanto alla<br />
culla e mi guardò, aspettando che facessi o dicessi qualcosa.<br />
Di nuovo due tocchi, questa volta più forti, autorevoli<br />
e come impazienti. E non mi restò che ubbidire.<br />
137
Quando la vidi, la testa e le spalle avvolte in quello<br />
scialle nero come quella stessa maledettissima notte,<br />
solo gli occhi e la radice del naso scoperti, credetti che,<br />
non soddisfatta di ciò che un’ora prima era avvenuto<br />
in piazza, o forse da questo incoraggiata, fosse venuta<br />
per regolare anche con me quel conto sospeso.<br />
– Non fate pazzie, zia Lucia! – mi sfuggì.<br />
– Pazzie non ne ho mai fatte, e non ne farò. Sta tranquillo!<br />
– Mi rispose. E sembrava così calma che mi vergognai<br />
della sua forza e della mia paura. Che cosa voleva<br />
da me? Non volevo morire schiacciato come uno<br />
scarafaggio sotto la scarpa di quella donna.<br />
– Che cosa volete da me, zia Lucia? Voi lo sapete<br />
quanto me che quello che ha pagato stasera era solo,<br />
quando l’offesa vi è stata fatta.<br />
– Io so quello che so. Fammi entrare! – Mi rispose e<br />
quasi mi spinse da un lato, sciogliendo dallo scialle le<br />
mani che, vidi con sollievo, non erano armate.<br />
Non volevo che mia moglie la vedesse ed esitai, domandandomi<br />
se farla entrare nel magazzino o nella<br />
tettoia della legnaia. Parve indovinare il mio dubbio e,<br />
chiudendo dietro di sé il portoncino del cortile, sussurrò:<br />
– Ciò che ho da dirti è presto detto. E non occorre<br />
che lei sappia che sono qui. Ciò che ti volevo dire, e che<br />
non devi dimenticare se vuoi bene a quell’innocente<br />
che hai nella culla, è che mio figlio, Oreste, – lo disse<br />
con una strana voce che mi fece rabbrividire, – l’hai incontrato<br />
stamattina sulla strada per Trezene. Stamat-<br />
138<br />
tina, intendimi bene e ricordati: vi siete salutati e lui ti<br />
ha detto che andava a Trezene e che ci andava a piedi<br />
per risparmiare il biglietto della corriera. E, se qualcuno<br />
ti domanda, dirai che ti risulta che ha passato la notte<br />
nell’ovile dei tuoi cugini, alla Serra. Provvedi perché<br />
lo stesso dicano loro, se qualcuno domandasse. Ma se<br />
nessuno vi domanda non occorre parlarne. Hai capito?<br />
Ricordartelo e non sbagliare, se qualcuno ti chiede. Non<br />
lo devi dimenticare, e anche i tuoi cugini non devono<br />
dimenticarsene, se ti è cara la vita di quella creatura che<br />
hai nella culla! – Ripeté, e non attese neppure che replicassi<br />
o promettessi.<br />
Si tirò di nuovo lo scialle sulla testa e tornò al portone.<br />
Lì si fermò e, con gli occhi che scintillavano nel<br />
buio come gli occhi di un demonio, o di una bestia,<br />
aggiunse:<br />
– E naturalmente tu stasera non mi hai visto. Anzi<br />
tu non mi hai mai visto, e non mi vedrai, da quando<br />
il lupo ha sbranato l’agnello, e il falco ha massacrato la<br />
sua preda.<br />
– Un forestiero che si era sbagliato, – dissi a mia moglie,<br />
e lei mi credette o finse di credere.<br />
Aveva preso in grembo il bambino e scherzava con<br />
lui, solleticandogli le labbra con la punta del capezzolo<br />
turgido. La blusa era sbottonata. Entrambi i seni, bianchi,<br />
vivi e grandi, erano scoperti e splendevano come<br />
perle. Li guardavo senza riuscire a staccarne gli occhi, e<br />
desiderai rimettere il bambino nella culla, per affondare<br />
io in quella carne morbida e ospitale. Nascondere<br />
139
il viso in quel solco tiepido e riposare gli occhi su quella<br />
pelle di seta.<br />
Vederla così bella e impudica e innocente, mi metteva<br />
il sangue in tumulto, e la paura che ancora mi batteva<br />
nelle vene diventava bisogno di consolazione e di<br />
piacere. Il desiderio era una sofferenza violenta che faceva<br />
sprofondare la conversazione di poc’anzi in un<br />
vorticoso buio lontano.<br />
Avrei dovuto trovare la forza di non guardarla, o di<br />
toglierle il bambino di braccio per prenderla lì, subito,<br />
sul pavimento davanti al focolare. Ma dopo le<br />
minacce della vecchia, lì fuori, un timore superstizioso<br />
m’impediva di staccare il bambino dalla madre, e fu<br />
con una violenza di cui io stesso ebbi paura che le gridai:<br />
– Copriti il petto! Spudorata! – E quanto più forte<br />
era il desiderio di sentire la mia carne affondare nella<br />
sua, di rifugiarmi e nascondermi nel tepore morbido<br />
del suo corpo, tanto maggiore era la violenza, l’odio<br />
col quale le parlai.<br />
Sembrava una bambina spaventata, mentre con dita<br />
incerte e tremanti, guardandomi fisso, tirava sul seno<br />
sinistro il lembo della blusa. Accanto alla bocca delle<br />
piccolo, che ora dormiva, restava scoperto l’altro seno,<br />
col capezzolo roseo, eretto come un bocciolo di rosa.<br />
Quella notte, per la prima volta, non riuscii a essere<br />
uomo con lei. La vecchia, lì, sul portone, mi aveva stregato.<br />
Il ricordo, quel ricordo che ero riuscito a tenere a<br />
bada, a spegnere, quasi, di nuovo era lì e mi dominava<br />
140<br />
anche nel momento in cui ogni fibra del mio corpo, e<br />
anche il corpo di lei che sentivo fermentare sotto il<br />
mio, non erano disposti che al piacere, all’oblio.<br />
Non so che cosa mi accadde, ma quando, ormai al<br />
colmo dell’ebbrezza stavo per abbandonarmi e riposare<br />
in lei, e il suo ventre già palpitava all’unisono col<br />
mio, il ricordo di quel sangue che zampillava dalla<br />
bocca del ragazzo, di tutto quel sangue, mi invase la<br />
mente scacciandone ogni altra presenza e possibilità.<br />
Ma io non avevo fatto nulla, io non avevo colpa di<br />
niente, io gli avevo persino detto a lui, al Falco: “Lasciate<br />
perdere, compare, son cose del mondo! Questa<br />
volta non ci è riuscito, ci riuscirà un’altra volta!”<br />
Facevo finta di non capire che il grave non era quello.<br />
Che non era per quello che lui aveva il dente avvelenato.<br />
Di non capire che non era il fallimento dell’impresa<br />
che non sopportava, ma l’idea d’essere stato<br />
scoperto a rubare in un ovile nel quale era stato ricevuto<br />
da ospite e amico, a rubare da un vicino, a rubare<br />
da uno che molti consideravano un suo benefattore.<br />
Che non sopportava l’idea di essere ormai un uomo<br />
senza onore.<br />
Per me e per l’altro era diverso. Noi in quell’ovile<br />
non ci avevamo mai messo piede prima di quella sera.<br />
Non avevamo nessun obbligo di rispettarlo e, se riusciva,<br />
il colpo era buono e lecito. Per noi, non per lui<br />
però. Ma questo riguardava lui, non noi. Io avevo bisogno<br />
di soldi. Sono un uomo sposato, io, e con figli<br />
e moglie non potevo certo pensare a emigrare, come<br />
141
stanno facendo tanti per tentare la fortuna. L’affare<br />
sembrava buono e perciò acconsentii. Ma non acconsentii<br />
neppure un momento a quella follia che accadde<br />
dopo.<br />
Perché, allora, il ricordo di quel sangue mi perseguita,<br />
anche ora che so che nessuno in cambio di esso<br />
vorrà avere il mio?<br />
142<br />
L’innocente<br />
Di nuovo la luce elettrica si riaccese, e nel suo crudo<br />
e bianco sfavillare sentii che il terrore, anziché abbandonarmi,<br />
m’aggrediva da ogni angolo. In quel momento<br />
mamma tornò. Quando abbassò lo scialle nero<br />
che le avvolgeva la testa e le spalle, guardandole gli occhi<br />
accesi di trionfo e i pomelli rossi come per febbre,<br />
ebbi la ormai inevitabile risposta alle mie domande.<br />
Nonna aveva iniziato un nuovo rosario, questa<br />
volta a voce alta, e mamma le rispondeva senza smettere<br />
neppure nella preghiera quell’accento d’orgoglio<br />
trionfante che aveva in ogni sua parola e in ogni suo<br />
gesto dopo l’annunzio datoci da Oreste.<br />
Ma tacquero entrambe, e ristettero come pietrificate,<br />
quando s’udì uno scalpiccio di passi e delle voci<br />
che s’avvicinavano nel vicolo davanti a casa. La freccia<br />
dei minuti nella sveglia sul camino dava le sue sciabolate<br />
nel silenzio rappreso della cucina. Le voci e i passi<br />
s’erano arrestati dietro il portoncino del nostro cortile.<br />
S’udì un forte colpo di batacchio. Poi, senza attendere<br />
risposta, il portoncino, venne spalancato con violenza<br />
e dei passi strascicati e confusi, come d’una pic-<br />
143
cola folla, invasero il cortile. Il mio terrore s’accrebbe<br />
alla vista dell’irresolutezza di mamma che era rimasta<br />
seduta, le mani abbandonate sul grembo, con uno<br />
sguardo all’improvviso opaco e smarrito. Poi però vidi<br />
che s’alzava, quasi d’un balzo, e aggressiva si faceva<br />
sulla soglia.<br />
Poco dopo si scostava, per far passare babbo, ubriaco,<br />
sostenuto sotto le ascelle da due sconosciuti.<br />
144<br />
La lunga strada<br />
Era una notte senza luna, così nera che potevo immaginare<br />
d’essere cieco. Il buio era come un muro<br />
compatto che mi si sbatteva sugli occhi. Ma i sentieri<br />
intorno al paese io li conoscevo così bene che riuscivo<br />
a camminare in fretta, senza cadere e senza urtare da<br />
nessuna parte. O quasi. Camminavo rapidamente, ma<br />
senza correre, per non destare sospetti, nel caso che<br />
avessi incontrato qualcuno. Ma non incontrai nessuno.<br />
Tutti erano in piazza o già a casa loro, a quell’ora e<br />
dopo quello che era successo.<br />
Quello che era successo poco prima, nella piazza, mi<br />
pareva già lontanissimo e irreale. Come qualcosa che<br />
avevo sognato. O qualcosa che avevo sentito raccontare.<br />
Che mamma mi aveva raccontato.<br />
Mamma aveva previsto e preparato tutto. E tutto era<br />
andato come lei aveva previsto. La pistola e la torcia<br />
elettrica erano già pronte nel primo cassetto del comò,<br />
sotto le lenzuola. Mamma era certa che la corrente sarebbe<br />
mancata molte volte, quella sera, perché pioveva<br />
molto. Le interruzioni potevano durare pochi minuti e<br />
potevano durare tutta la sera. Si trattava di scegliere il<br />
145
momento giusto. Mamma è come una maga, si ricorda<br />
tutto e sa tutto. Non ha paura di niente e sa scoprire<br />
le verità più nascoste. Sa anche leggere i pensieri e<br />
quando si ha paura sa fare coraggio.<br />
Stavamo seduti attorno al camino. Nonna diceva la<br />
prima metà dell’Avemaria e del Padrenostro e noi dicevamo<br />
in coro la seconda metà. I Gloriapatris li dicevamo<br />
tutti insieme. Per le litanie era mamma che diceva<br />
la prima parte e noi, insieme a nonna, che rispondevamo,<br />
orapronobis. Era come tutte le sere. Babbo<br />
non era ancora tornato, ed era bene, perché così qualcuno<br />
avrebbe potuto testimoniare per lui, se per disgrazia<br />
veniva accusato di aver fatto quello che io dovevo<br />
fare. Alle feste la gente diventa più generosa e l’avrebbero<br />
riempito di vino sino a renderlo idiota. Mamma<br />
non sopporta che riceva senza ricambiare, come un<br />
mendicante, e perciò quando esce gli dà sempre un po’<br />
di denaro.<br />
In mezzo a un’Avemaria, mamma mi toccò il ginocchio<br />
e mi guardò. Capii che era quello il momento. Mi<br />
alzai e senza dare spiegazioni andai nell’altra stanza. Il<br />
cuore mi batteva così forte che ne ero quasi assordato.<br />
Mi fermai un momento, nel buio, perché le mani e le<br />
gambe mi tremavano. Poi, cercando di non far rumore,<br />
aprii il cassetto del comò. La pistola e la torcia elettrica<br />
erano dove dovevano essere. Misi la torcia nella<br />
tasca sinistra della giacca e la pistola nella tasca destra.<br />
Le sentivo dure e ingombranti contro i fianchi. Uscii,<br />
stando attento a non sbattere la porta. L’aria fredda e<br />
146<br />
la pioggia mi si scagliarono addosso. Da quel momento<br />
ricordo solo di quando arrivai sulla piazza.<br />
L’elettricità non era ancora tornata e il falò di S. Antonio<br />
si era quasi spento. Le braci velate di cenere mandavano<br />
una luminosità rossastra che rendeva ancora<br />
più fitto il buio intorno. C’erano dei gruppi d’uomini<br />
e qualche bambino. Di donne non ne vidi, dovevano<br />
essere già tornate alle loro case per dire il rosario e preparare<br />
al cena. Non so perché fui contento di vedere<br />
che non c’erano donne.<br />
Davanti alla bettola della Milese c’era un gruppo di<br />
giocatori di morra. Vicino alla porta, la Milese aveva<br />
appeso una lampada a petrolio che ai giocatori serviva<br />
per vedere le dita da contare. Mi fermai nel buio e<br />
ascoltai. Fra quelle dei giocatori di morra mi era parso<br />
di riconoscere la sua voce. Mi avvicinai e ascoltai di<br />
nuovo.<br />
Ora ero quasi certo. Sempre tenendomi fuori del cerchio<br />
di luce della lampada a petrolio, mi avvicinai ancora<br />
di qualche passo e, quando fui alla distanza giusta,<br />
accesi la lampada e illuminai i loro visi. Mi accorsi<br />
che la mano mi tremava un po’ e perciò m’avvicinai<br />
ancora di qualche passo. Quando fui certo d’averlo<br />
identificato, misi la torcia in tasca ed estrassi la pistola.<br />
Tenendola con entrambe le mani, feci fuoco.<br />
Lo vidi cadere e già mi allontanavo. Non mi sfiorò<br />
neppure il pensiero che forse era solo ferito. Camminavo<br />
in fretta, senza correre. Corre chi è colpevole. Corre<br />
chi ha paura. Le persone oneste, gli uomini di ri-<br />
147
spetto, non corrono. In quel momento la sola cosa che<br />
mi importasse era di comportarmi da uomo.<br />
Poco dopo ero di nuovo a casa. La luce non era ancora<br />
tornata. Loro stavano ancora attorno al camino.<br />
Dalle giaculatorie capii che il rosario era finito e che<br />
anche le litanie erano state recitate. Sulla porta dissi<br />
qualcosa. Non mi ricordo che cosa. Mamma capì e mi<br />
venne incontro. Mi condusse di là, nell’altra stanza.<br />
Mi tolse di tasca l’arma e la torcia e le nascose subito<br />
sotto un mattone del pavimento, dove aveva scavato<br />
un fosso. Poi mi diede il fagottino con la mia roba e<br />
il pane e il formaggio per il viaggio, e mi accompagnò<br />
sino alla porta dell’orto, senza passare in cucina.<br />
Lì mi avvolse per un momento nell’ala del suo scialle,<br />
abbracciandomi, e mi disse: “Che Dio ti benedica e ti<br />
ricompensi!” e già ero nella viottola che porta alla valle<br />
dove comincia la strada che sale al valico della Serra. La<br />
viottola è molto in pendio e coperta di sassi. Quella<br />
sera, con tanta pioggia, era come un torrente. Ma io la<br />
conosco bene e camminavo spedito. I piedi mi conducevano<br />
senza che mi fosse necessario pensare. La mia testa<br />
era come vuota, era come se non mi appartenesse.<br />
Non pensavo a niente. Ciò che era accaduto poco prima<br />
nella piazza era già lontanissimo e irreale. Quella cosa<br />
non era durata più che qualche minuto. Ora si trattava<br />
di camminare. La strada per Trezene era lunga.<br />
148<br />
PARTE TERZA<br />
Paradiso con serpente<br />
149
Numeri e foglie<br />
Dopo la morte della nonna materna, che coincise con l’acquisto<br />
della piccola tenuta in Toscana, abbandonarono l’abitudine<br />
della visita annuale nell’Isola. La madre ci tornava<br />
da sola, qualche volta, per funerali di parenti o per sbrigare<br />
faccende d’eredità e di vendite. Ci restava solo pochi<br />
giorni e di solito preferiva che né il padre né lui l’accompagnassero.<br />
L’Isola per Lorenzo s’allontanava, si spegneva. Riviveva<br />
solo, all’improvviso straziante come un’età dell’oro perduta<br />
per sempre e insostituibile, quando in qualche momento di<br />
sconforto di nuovo le strade della città gli parevano troppo<br />
grigie, e troppo grigie gli parevano le persone che rapidamente<br />
vi camminavano mormorando tra sé, gli sembrava, insensate<br />
cantilene di numeri.<br />
Tremilionisettecentomila, ottocentosessantacinque miliardi,<br />
quattrocentoottantanovemilaseicentonovantuno… Sui tram,<br />
per le strade, attorno ai tavolini di ferro e plastica dei caffè,<br />
dietro le siepi di cemento, che lungo i marciapiedi dei quartieri<br />
popolari tentavano la patetica finzione d’essere rami e<br />
foglie, i numeri erano un ronzio d’insetti che riempiva l’aria,<br />
una litania che la gente pronunziava tra sé e sé come uno<br />
151
scongiuro o, insieme ad altri, per illudersi di non essere soli.<br />
In quei momenti l’Isola, la sua natura essenziale e arcaica,<br />
la sua magnificenza e anche la sua povertà ricominciavano a<br />
vibrare dentro di lui come un grido.<br />
152<br />
L’ospite<br />
Il ragazzo arrivò da noi una mattina di sole, dopo<br />
giorni e notti di temporali che avevano lavato il cielo<br />
delle nuvole che per settimane vi si erano accumulate<br />
e combattute. Una di quelle mattine d’inverno in cui<br />
anche i vecchi muri e i consunti acciottolati dei vicoli<br />
mandano luce, e il fumo che sale dritto dai comignoli<br />
si disegna azzurro nell’aria trasparente.<br />
Ricordo che avevo spalancato la finestra della camera<br />
da letto e mi ero affacciata con un’impressione di benessere<br />
e d’allegria in cui la gioia per il ritorno del sole<br />
e del bel tempo si mescolava alla gioia per il ritorno di<br />
Lorenzo, la sera precedente. Benché le sue assenze fossero<br />
brevi, ogni suo ritorno era una festa che, ora che<br />
ci eravamo sposati, celebravamo senza remore o risparmi.<br />
Una festa e, per me, anche un sollievo, come<br />
se la mia vecchia angoscia che ogni nostra separazione<br />
fosse definitiva avesse ancora, se mai la aveva avuta,<br />
qualche ragione d’essere. Nonostante i miei tentativi<br />
di tenerlo nascosto, Lorenzo intuiva il mio sollievo e<br />
dunque la mia paura, e ci scherzava, diagnosticandomi<br />
un “acuto complesso di Penelope”, tanto più grave e<br />
153
patologico quanto più era immotivato. Le sue affinità<br />
con l’astuto avventuriero omerico e le mie con Penelope,<br />
diceva, erano infatti non particolarmente appariscenti.<br />
Quell’allegria e quei presagi di primavera vibravano<br />
ancora dentro di me quando aprii la porta dell’ambulatorio<br />
per far entrare la piccola folla che già attendeva<br />
nel viottolo.<br />
Sin dall’inizio della mia professione avevo cercato di<br />
dare ai miei pazienti l’abitudine al rispetto dei turni.<br />
Un’abitudine nuova, nei nostri paesi, ma che per la<br />
verità non mi pare abbia incontrato molte resistenze.<br />
La sola persona che si dimostrò nelle parole e nei<br />
fatti ribelle a questa “novità”, fu mia madre.<br />
“I parenti son parenti e gli amici sono amici, e i parenti<br />
degli amici e gli amici dei parenti sono a loro<br />
volta amici e parenti - mi ripeteva - ed è assurdo e contro<br />
natura pretendere che le regole siano uguali per<br />
tutti. Anche per tuo padre è sempre stato così, e nessuno<br />
ha mai detto di lui che non fosse un uomo giusto<br />
e saggio!”<br />
Lei continuava a credere nella bontà delle vecchie<br />
tradizioni e nella necessità di difenderle, se non vogliamo,<br />
come diceva, “cancellarci totalmente dalla faccia<br />
della terra”. E io continuavo a dire che ogni organismo<br />
vivente deve evolversi e trasformarsi e che anche<br />
piccole cose, come per esempio il rispetto della<br />
precedenza in una sala d’attesa, possono migliorare la<br />
qualità della vita e dei rapporti tra gli uomini.<br />
154<br />
Ma era un braccio di ferro che continuava e del quale<br />
non speravo e in fondo neanche tentavo di venire a<br />
capo.<br />
I problemi sarebbero stati minori, se non altro per<br />
quanto riguardava il mio lavoro e il modo in cui volevo<br />
organizzarmelo, se, anziché continuare a usare il<br />
vecchio ambulatorio di babbo e continuare ad abitare<br />
con mamma, dopo le mie nozze avessi preso la decisione,<br />
in quel momento forse più accettabile per lei, di<br />
trasferirmi con Lorenzo in una casa nuova, e possibilmente<br />
in un altro quartiere. Ma il mio desiderio di<br />
riforme e d’indipendenza non fu neppure in quel momento<br />
abbastanza forte da darmi il coraggio d’infliggerle<br />
un tale colpo.<br />
Quando babbo all’improvviso morì, io frequentavo a<br />
Milano il primo anno d’università. Da quel momento<br />
lei non smise di sognare il giorno in cui, terminati gli<br />
studi, fossi tornata per prendere il posto di babbo nella<br />
professione. Per dare concretezza al suo sogno, aveva<br />
continuato a pagare gli abbonamenti alle riviste mediche,<br />
a far pulizia nell’ambulatorio, a tenere asciutti<br />
e in ordine i suoi strumenti, come quando era in vita,<br />
e come se ogni mese o settimana o giorno il mio ritorno,<br />
in sostituzione del suo, e la mia laurea fossero<br />
imminenti.<br />
Tutto questo mi pesava. Lo sentivo come un’esasperante<br />
limitazione della mia libertà, come un’ipoteca<br />
sul mio avvenire, sulle mie scelte. Ma il pensiero di separare<br />
la mia vita dalla sua, mi era impossibile, per la<br />
155
delusione atroce che le avrei dato. E perciò ero costretta<br />
a sopportare le sue intromissioni, a litigare, e<br />
anche ad avere pazienza, per il bene che le volevo, e<br />
che mi voleva.<br />
Lorenzo per fortuna non aveva difficoltà a capire e<br />
quasi mi pareva che certe volte stesse più dalla sua<br />
parte che dalla mia.<br />
Stavo finendo di visitare il mio terzo paziente della<br />
giornata, quando mamma bussò alla porta interna dell’ambulatorio<br />
e, senza neppure darmi il tempo di dire<br />
avanti, la socchiuse, s’affacciò e, in un tono che non<br />
ammetteva repliche, disse che aveva urgenza di parlarmi.<br />
Capii che aveva qualche parente o amico di famiglia<br />
che voleva essere visitato ma che “non aveva tempo di<br />
far la fila”. Solo la presenza d’estranei m’impedì di risponderle<br />
con insolenza, come avevo voglia di fare, che<br />
c’era un turno da rispettare.<br />
D’altronde sapevo che quando voleva qualcosa non<br />
demordeva, e il suo tono era stato proprio quello dei<br />
momenti in cui non ammetteva repliche. Perciò, congedato<br />
il paziente, prima di farne entrare un altro m’affrettai<br />
a chiederle che cosa voleva.<br />
Stava ancora nell’andito, dietro la porta, in piedi accanto<br />
a un ragazzino smilzo, quasi un bambino, infagottato<br />
in un maglione troppo grande per lui e che<br />
subito riconobbi come uno dei vecchi indumenti di<br />
babbo. Mamma teneva il ragazzo per la spalla e, senza<br />
156<br />
neppure domandarmi il permesso, lo spinse nell’ambulatorio<br />
e quasi lo fece crollare sulla sedia di smalto<br />
bianco riservata ai pazienti.<br />
– È Oreste, – disse. – Il figlio di comare Solinas di<br />
Dolomè. Ricordi, l’anno scorso hanno perduto un figlio,<br />
Giosuè, il fratellino gemello di Oreste. Oreste ha<br />
fatto a piedi tutta la strada. Era bagnato come un pulcino,<br />
l’ho fatto cambiare, ma mi pare che abbia la febbre.<br />
Visitalo!<br />
Il ragazzo teneva la testa abbassata, col mento quasi<br />
appoggiato sul petto. Sotto il ciuffo biondiccio e stopposo<br />
che gli cadeva sulla fronte, vedevo spuntare solo<br />
la punta arrossata del suo naso. Mi accorsi che tremava<br />
e gli presi il polso, cercando di comportarmi in modo<br />
freddamente professionale e senza lasciarmi coinvolgere<br />
da una tenerezza che quell’esserino dalle scapole<br />
alate stava già suscitando in me.<br />
Il polso era irregolare e rapidissimo. <strong>Gli</strong> toccai la<br />
fronte e mi accorsi che scottava.<br />
– Hai male da qualche parte? – gli domandai, tanto<br />
per cominciare.<br />
Sollevò le spalle, con un gesto di rassegnazione che<br />
mi irritò.<br />
– C’è un mare di gente che aspetta, lì fuori. Dimmi<br />
che cosa ti senti, e non farmi perdere tempo.<br />
Sentivo su di me lo sguardo disapprovante di mamma,<br />
ma non mi costrinsi a moderare la mia rudezza:<br />
– Apri la bocca, fammi vedere la gola, dì “aaa”.<br />
La gola era molto infiammata, ma anche il respiro era<br />
157
irregolare. Lo auscultai e non ebbi dubbi. Una bronchite,<br />
una faringite e una rinite probabilmente cronica<br />
e in quel momento acuta, erano motivi più che sufficienti<br />
a giustificare la febbre. Ma quando il ragazzo<br />
s’alzò, m’accorsi che barcollava e gli chiesi di togliersi<br />
le scarpe e di mostrarmi i piedi.<br />
Ubbidì malvolentieri, mormorando delle frasi incomprensibili<br />
delle quali capii solo che “aveva camminato<br />
tanto”, “che forse non erano puliti”, che si vergognava<br />
di mostrarli.<br />
– La strada è lunga a farla a piedi, povero disgraziato…<br />
e con quel tempaccio! – Disse mia madre,<br />
come se parlasse d’un assente o d’un oggetto inanimato.<br />
Poi, rivolgendosi direttamente a lui, con la<br />
malagrazia che anche lei sfoderava quando temeva di<br />
commuoversi, continuò:<br />
– Non far perdere tempo alla dottoressa. Togliti le<br />
scarpe e ubbidisci!<br />
Il ragazzo sembrava abituato a ubbidire e s’affrettò<br />
quanto poteva con le dita tremanti attorno alle stringhe<br />
degli scarponi da campagna.<br />
La pianta dei suoi piedi e le dita erano tutta una piaga<br />
sanguinante che, per il momento, ripulii con dell’acqua<br />
ossigenata e avvolsi in pezze di garza.<br />
– Dammi una mano! – Ordinai a mia madre, e insieme<br />
lo trasportammo sino al letto nella cameretta<br />
degli ospiti. Ma non pesava molto. Era quasi un bambino.<br />
<strong>Gli</strong> diedi dei medicinali e chiesi a mia madre di<br />
fargli, o fargli fare da Euriclea, un pediluvio d’acqua<br />
158<br />
tiepida saponata. Dopo la chiusura dell’ambulatorio,<br />
sarei tornata a vederlo. Per ora non doveva muoversi.<br />
Mia madre mi seguì nell’andito e disse:<br />
– Comare Solinas mi chiede di tenerlo qui. A Dolomè<br />
per ora non deve tornare. Quando sarà guarito,<br />
Lorenzo potrà prenderlo a lavorare con sé. I Solinas sono<br />
intelligenti e onesti… e disgraziati. Bisogna aiutarli!<br />
Senza darmi tempo di rispondere, s’avviò a passi rapidi<br />
verso la cucina. Illa dixit, pensai fremendo di ribellione.<br />
Era lei che decideva che cosa si doveva fare o<br />
non fare. E ora anche Lorenzo doveva mettersi a suoi<br />
ordini. Lorenzo che sino a non molti mesi prima era<br />
un estraneo, e che per di più non era neanche del tutto<br />
isolano, doveva inchinarsi alla sua autorità di matriarca,<br />
prendere quel miserabile bambino al suo servizio,<br />
che ne avesse o non ne avesse bisogno, perché<br />
mia madre aveva decretato che “i Solinas sono disgraziati<br />
e perciò bisogna aiutarli”!<br />
Il mio buonumore di appena un’ora prima stava sparendo<br />
come se una nebbia avesse cominciato a velare la<br />
lucentezza del sole, e il mio malumore incipiente cresceva<br />
con la certezza che anche questa volta mamma<br />
l’avrebbe avuta vinta e che, ciò che era quasi peggio,<br />
almeno in parte aveva ragione.<br />
159
L’abbraccio del falco<br />
Fu solo dopo che la dottoressa mi ordinò di togliermi<br />
le scarpe che mi accorsi che i piedi mi erano marciti<br />
e che sentii il dolore. Anche i dolori al petto e alla<br />
gola sino a quel momento non li avevo quasi sentiti.<br />
Del mal di gola mi ero accorto, senza però farci molto<br />
caso, quando la donna di servizio aveva aperto la porta<br />
e le avevo detto chi ero e che dovevo parlare con la vedova<br />
del dottor Rudas. Le parole mi graffiavano la gola<br />
e la mia voce era strana. Non avevo parlato dalla sera<br />
prima, quando ero tornato a casa dopo il fatto.<br />
– La porta dell’ambulatorio è l’altra. – Mi rispose,<br />
come se non avesse capito che cosa avevo detto.<br />
– Ma io non sono malato, io devo parlare con la vedova<br />
del dottor Rudas! – insistetti.<br />
– Sì, sì bravo tu. Non sei il primo a dirlo. Ma meglio<br />
che ti metta in fila e attenda il tuo turno, senza<br />
farmi perdere altro tempo. – Non capivo che cosa voleva<br />
dire e ora mi sentivo come un incendio nel petto,<br />
e la testa cominciò a girarmi. Ero in un vortice che mi<br />
tirava giù, e il cuore mi batteva sino a soffocarmi.<br />
Mi ritrovai sdraiato su una panca, in una bella cu-<br />
161
cina illuminata da una grande finestra dietro la quale<br />
si vedevano degli alberi. In piedi vicino a me c’era la<br />
donna di poco prima e una bella signora anziana, alta<br />
e robusta e con una grande faccia rotonda di cui da<br />
dove mi trovavo vedevo il doppio mento dove spuntavano<br />
dei peluzzi dorati.<br />
Mi guardava senza dirmi niente e mi affrettai ad alzarmi<br />
e a spiegarle chi ero, prima che mi scacciasse.<br />
Non le dissi perché venivo. La donna di servizio era<br />
ancora presente e mamma mi aveva raccomandato di<br />
raccontare il fatto solo alla vedova Rudas, che però non<br />
sembrava essere impaziente di sapere perché ero venuto.<br />
I suoi occhi erano gentili, e di lei non ebbi mai<br />
paura.<br />
La dottoressa invece, quando ci fece entrare, era molto<br />
arrabbiata, anche con la mamma, e mi dispiaceva<br />
che fosse arrabbiata per colpa mia e che perdesse tempo<br />
a visitarmi e a guardare i miei piedi, che oltretutto<br />
non erano neppure puliti. Ma qualunque cosa cercassi<br />
di fare o di dire, sembrava arrabbiarsi ancora di più.<br />
Non mi ricordo d’essermi addormentato e non mi<br />
ricordo neppure chi mi mise a letto. Ma mi svegliai in<br />
mezzo a delle lenzuola pulite, in una cameretta dove<br />
c’era un profumo che dopo un poco riconobbi. Profumo<br />
di mele cotogne. <strong>Gli</strong> scuri della finestra erano accostati<br />
e quasi non ci si vedeva. Ma quando li aprirono<br />
vidi delle file di mele cotogne gialle sulle cornici della<br />
porta e sopra l’armadio.<br />
C’era Euriclea, la donna di servizio, che mi stava<br />
162<br />
mettendo degli impacchi intorno ai piedi e sentivo<br />
dolori in tutto il corpo. Ma Euriclea era diventata gentile<br />
e quando mi disse: “Povero bambino!” mi parve<br />
che stesse parlando di un altro, o di me ma molto tempo<br />
prima, quando ancora ero bambino. E stringevo gli<br />
occhi perché non vedesse che mi era venuto da piangere.<br />
Poi lei se ne andava e mi pareva di camminare ancora,<br />
inciampando e urtando contro le rocce e gli alberi.<br />
E mamma mi spingeva per le spalle e diceva: “Cammina<br />
e non lamentarti come una donnicciola. Pensa a<br />
tuo fratello innocente e scannato come una bestia, che<br />
non trova pace nella sua tomba, pensa all’onore della<br />
tua famiglia. Tocca a te difenderlo. E se no, a chi altri?”<br />
A un tratto mi sentivo molto bene ed ero arrivato al<br />
valico. Il sole stava spuntando dietro i monti e vedevo<br />
che in mezzo all’erba crescevano dei grandi fiori rossi<br />
e carnosi che parevano delle mani scorticate o delle orecchie<br />
insanguinate. C’era anche una donna che raccoglieva<br />
degli asfodeli e che cercava di nascondersi dietro<br />
una roccia. Mamma però la tirava fuori dal suo nascondiglio<br />
e la scuoteva per le spalle, gridando: “Anche<br />
tu hai un figlio! Anche tu hai un figlio! Se non stai<br />
attenta Astianatte farà la stessa fine di Giosuè! Ricordati<br />
che ti ho avvertita! Pensa a tuo figlio, come io<br />
penso al mio!” E mamma faceva paura perché sembrava<br />
impazzita.<br />
Poi di nuovo c’era buio e io ero in mezzo alla piazza.<br />
163
Ma al momento di sparare m’accorgevo che quella che<br />
aveva in mano era una pistola di gomma, da bambino.<br />
Un giocattolo che quando premevo il grilletto mi si<br />
sgonfiava tra le dita e diventava come uno straccetto<br />
sformato e meschino. E allora vedevo che ero scalzo e<br />
che tutti mi guardavano i piedi e ridevano, indicandoseli<br />
l’un l’altro e tenendosi la pancia per le risate. Io<br />
mi vergognavo terribilmente ma pensavo che era meglio<br />
far finta che non m’importasse e mi mettevo a fare<br />
il pagliaccio per farli ridere anche di più. Ma allora arrivava<br />
nonna, nera e veloce come un falco, con lo<br />
scialle aperto e svolazzante come due ali e mi portava<br />
via, volando, e gridando:<br />
“L’agnello! Lasciatelo stare, l’agnello! Non vi basta<br />
quello che avete fatto all’altro?” E io mi sentivo sicuro,<br />
perché nonna mi difendeva e dimostrava di volermi<br />
bene. Sotto le ali del suo scialle non avevo nulla da temere.<br />
Poi però mi svegliavo, e ripensavo a com’era andata<br />
quella sera. Tutto era stato punto per punto come mamma<br />
aveva previsto, e ricordavo quella grande luce e il<br />
nemico che cadeva. Ma non mi pareva possibile che<br />
davvero fossi stato io a farlo, e subito mi venivano in<br />
mente altre cose, meno importanti, e spesso mi riaddormentavo.<br />
Quando di nuovo mi svegliavo, dopo tanti sogni confusi<br />
che si svolgevano in un paese che era Dolomè e<br />
però non era del tutto Dolomè e dove c’era sempre buio<br />
e tanta gente che andava e veniva bisbigliando delle<br />
164<br />
cose che non capivo, mi era difficile ricordare perché<br />
ero lì coricato, in quella bella camera profumata di mele<br />
cotogne, e allora pensavo alla mia casa, al cortile, all’orto,<br />
e alla cucina con Daniela e Cassandra e nonna e,<br />
qualche volta, pensavo anche a Giosuè e a babbo.<br />
Mamma aveva già pronto il fagotto con un cambio<br />
di vestiti e del pane e formaggio per il viaggio. Me lo<br />
metteva in mano e m’accompagnava al portoncino<br />
dell’orto, quello che dà direttamente sulla campagna.<br />
Lì mi abbracciava. Sentivo il suo odore, e per un momento<br />
mi sembrava che il suo scialle nero si trasformasse<br />
in due grandi ali d’uccello. “Il falco!” pensavo.<br />
Ma non era a quella persona che pensavo, pensavo proprio<br />
all’uccello, al falco. Mamma mi abbracciava e io,<br />
stupido, anziché pensare a lei che mi stava abbracciando,<br />
mi distraevo a pensare ad altro.<br />
Chissà da quando, certo da quando ero piccolissimo,<br />
perché non me ne ricordavo neppure, mamma non mi<br />
aveva abbracciato. Forse l’ultima volta era stato prima<br />
che Daniela nascesse, quando mamma era stata molto<br />
malata e poi, dopo la nascita della bambina, non aveva<br />
più avuto tempo per quelle cose. Avevo dimenticato il<br />
calore e la forza del suo corpo. E altri corpi non ne conoscevo.<br />
A parte quello di Giosuè. Ma anche il corpo<br />
di Giosuè non riuscivo più a ricordarmelo, per quanto<br />
mi sforzassi. Riuscivo a pensarlo, ma non a ricordarlo.<br />
Come se mi stessi raccontando una storia. Una storia<br />
vera, ma una storia.<br />
Con Giosuè la notte, in campagna, quando avevamo<br />
165
paura, ci tenevamo abbracciati. Poi di giorno facevamo<br />
finta di niente, come se non avessimo avuto paura e<br />
non ci fossimo abbracciati. Perché avevamo vergogna<br />
d’aver avuto paura e di esserci tenuti abbracciati come<br />
due bambini. <strong>Gli</strong> uomini non hanno paura, e noi volevamo<br />
essere uomini.<br />
Paura di che cosa poi? Dei rumori del vento nei cespugli,<br />
delle erbe che si muovevano per il passaggio di<br />
un topo o di una volpe, di qualche uccello che si scuoteva<br />
nel sonno… Mamma ci aveva detto che non c’era<br />
nulla da temere, che nessuno era interessato a rubare i<br />
nostri maiali, che la nostra famiglia non aveva mai<br />
fatto male a nessuno e che perciò nessuno voleva farci<br />
del male. Così aveva detto mamma. E non era colpa<br />
sua se si sbagliava, lei credeva così.<br />
Ma noi la notte, quando ci tenevamo abbracciati, non<br />
era degli uomini che avevamo paura, avevamo paura di<br />
quelle cose che quasi non hanno nome, o che sono innominabili.<br />
Avevamo paura della luna e dei fantasmi<br />
che si vestivano dei lenzuoli bianchi della sua luce,<br />
avevamo paura del vento e dei morti che si muovevano<br />
e gridavano dentro il vento, avevamo paura del buio e<br />
dei diavoli che come serpenti e scorpioni si nascondono<br />
nel buio e di altre cose ancora avevamo paura, cose<br />
peggiori, se possibile…<br />
Di giorno con Giosuè di queste cose ce ne ridevamo,<br />
ma la notte avevamo paura anche a nominarle e perciò<br />
ci tenevamo abbracciati, perché questo ci dava coraggio.<br />
166<br />
Ma Giosuè, e il suo corpo e le cose che ci dicevamo,<br />
e i giochi che avevamo fatto insieme, erano diventati<br />
come un sogno che io avevo sognato da solo. Una cosa<br />
che mi ero inventato e che più ci pensavo più mi sembrava<br />
pallida e lontana.<br />
“Che Dio ti benedica e ti ricompensi”, aveva detto<br />
mamma. “Prendi per le viottole e le scorciatoie e cerca<br />
di non farti vedere da nessuno. Ma una volta arrivato<br />
alla zona della Serra, dopo il valico, sarà verso l’alba,<br />
sarebbe addirittura meglio che qualcuno ti veda. Allora,<br />
se incontri qualcuno, fa finta di esserti appena<br />
svegliato da un lungo sonno e che stai per rimetterti<br />
in marcia verso Trezene. Dobbiamo far credere che sei<br />
partito stamattina. Devi perciò camminare molto in<br />
fretta, correre anche, se puoi, almeno nelle discese e<br />
quando sei sicuro che nessuno ti vede, per non attirare<br />
l’attenzione”.<br />
Mamma sapeva tutto e aveva pensato a tutto:<br />
“Quando arrivi a Trezene vai subito dalla dottoressa<br />
Rudas. A casa sua ci sei stato insieme a me quando eri<br />
piccolo e quando la buon’anima del dottor Rudas, suo<br />
padre, che Dio l’abbia accolto nella gloria del suo<br />
cielo, era ancora vivo. Ma non te ne puoi ricordare. Tu<br />
e Giosuè eravate ancora piccoli. Daniela non era ancora<br />
nata.<br />
“La casa del dottor Rudas è una casa grande, circondata<br />
su tre lati da un giardino bellissimo in cima alla<br />
valle di Isperósile, all’ingresso della città se si viene da<br />
Oroslè, cioè dalla parte opposta a quella da dove tu ar-<br />
167
iverai. Tu entrerai in città dalla parte di Udulì, dove<br />
stanno costruendo il nuovo ospedale. Lo vedrai da lontano<br />
e non c’è da sbagliare: altissimo e dritto sulla cresta<br />
della collina. I Trezenesi che hanno la lingua lunga,<br />
lo chiamano ‘la scatola da scarpe’. Lo riconoscerai da<br />
lontano. Dietro quella collina con l’ospedale in cima,<br />
c’è Trezene. Tu sorpassi l’ospedale e scendi verso la<br />
parte vecchia della città. Non puoi sbagliare”.<br />
Quando mamma me la descriveva, mi pareva di vederla<br />
e di conoscerla già, la città:<br />
“La Trezene vecchia è divisa in due metà, come le<br />
due metà di una pesca. In mezzo alle due metà, come<br />
il letto asciutto di un torrente, c’è il Corso. Il Corso comincia,<br />
o termina, quasi in un fosso dove s’incontrano<br />
delle strade larghe con delle case nuove, alcune neppure<br />
terminate. È un posto che i Trezenesi chiamano<br />
‘Ponte di Ferro’, ma non aspettarti di vedere un ponte.<br />
È difficile capire i Trezenesi e gli strani nomi che<br />
danno alle loro strade. Lì, al Ponte di Ferro, non troverai<br />
un ponte ma solo delle strade larghe e in discesa<br />
che s’incrociano. Ma, fra queste, il Corso lo riconoscerai<br />
facilmente perché è lastricato di granito ed è circondato<br />
di case alte e antiche, con molti negozi e caffè<br />
al piano terreno. Tu sali per tutto il Corso senza fermarti<br />
e senza domandare niente a nessuno, perché la<br />
maggior parte di quelli che s’incontrano al Corso sono<br />
o sfaccendati, dei quali non c’è da fidarsi, o forestieri<br />
che forse non saprebbero neppure risponderti. Ma in<br />
ogni caso non c’è niente da domandare. La dottoressa<br />
168<br />
Rudas abita in una piazzetta, vicino a un vicolo, poco<br />
dopo la fine del Corso. Nella parte alta. Lì, se hai difficoltà<br />
a trovare la casa, puoi domandare. Lì tutti la conoscono,<br />
la dottoressa Rudas, come conoscevano suo<br />
padre. E la gente lì è abituata a rispondere ai bisognosi<br />
che arrivano dai paesi per consultarla. Perché è molto<br />
brava. Quasi quanto suo padre, che faceva miracoli<br />
come un santo. Ma se devi chiedere informazioni ricordati<br />
di non rivolgerti a ragazzi della tua età e neanche<br />
a uomini giovani. Preferisci le donne o i vecchi. Le<br />
donne di Trezene sono pietose, gli uomini invece si divertono<br />
a farsi beffe dei deboli”.<br />
Mamma sapeva tutto, e mi aveva spiegato tutto in<br />
un modo che mi pareva di vedere le strade e le persone<br />
che descriveva.<br />
“Quando sarai davanti alla casa, vedrai che ci sono<br />
due ingressi. Uno sul vicolo, ed è quello dell’ambulatorio.<br />
L’altro sulla piazzetta, ed è lì che devi presentarti<br />
e chiedere di parlare con la mamma della dottoressa<br />
Rudas. Le dirai chi sei e le dirai che sono io che<br />
ti mando. A lei puoi raccontare che cosa è successo.<br />
Ma solo a lei. Altrimenti, ricordati, non devi mai parlarne<br />
con nessuno. Assolutamente con nessuno”.<br />
Io avevo cominciato a protestare, che naturalmente<br />
non ne parlavo, e che non ero uno stupido… Però mamma<br />
aveva tagliato corto, e aveva continuato:<br />
“Se lungo la strada o a Trezene, qualcuno ti domanda<br />
da dove vieni, devi dire che vieni da Osuna e<br />
che sei arrivato a piedi, perché non avevi i soldi per la<br />
169
corriera. Che sei partito all’alba e che hai passato la notte<br />
in un ovile. L’ovile dei Carrus, se ti è necessario precisare.<br />
Sì, proprio così, hai sentito bene, dei Carrus.<br />
Non temere, ci penserò io a convincerli a dire che eri<br />
lì, e a trovare altri testimoni, se sarà necessario. E non<br />
temere. Non temere niente. Dio vuole la giustizia e<br />
perciò Dio ci aiuterà”.<br />
Tutte queste cose mamma me le aveva dette prima,<br />
perché dopo era meglio non perdere tempo e tutto doveva<br />
essere pronto. Me le spiegava la mattina, mentre<br />
nonna e Cassandra erano in chiesa e Daniela era a<br />
scuola. Ne parlavamo tutti i giorni, seduti davanti al<br />
camino, e aspettavamo il momento buono. A lei non lo<br />
dicevo, ma io non ero sicuro che ci sarei riuscito. Mamma<br />
però anche a questo aveva pensato… Aveva pensato<br />
che poteva capitare che non colpivo giusto, o che all’ultimo<br />
momento mi mancava il coraggio, o che mi<br />
prendevano con l’arma… Ma mi aveva detto di non temere,<br />
se eravamo così disgraziati e le cose non andavano<br />
come era giusto che andassero, e mi prendevano,<br />
allora avrei dovuto dire che l’idea era stata mia, che la<br />
pistola l’avevo trovata in un nascondiglio di campagna,<br />
che io volevo vendicare il mio fratellino gemello… E<br />
siccome ho solo tredici anni neppure compiuti, al massimo<br />
mi avrebbero mandato in casa di correzione. Mamma<br />
mi aveva detto che un signore importante di cui<br />
babbo, durante la guerra, era stato attendente non avrebbe<br />
rifiutato di aiutarmi. E se mi aiutava lui, non c’era<br />
dubbio che mi avrebbero assolto.<br />
170<br />
I sogni e i ricordi, il sonno e la veglia si mescolavano<br />
e mi era difficile distinguere tra le cose che immaginavo<br />
e ricordavo e quelle che davvero stavano capitando<br />
intorno a me. Così, tra un sogno e l’altro, deve essere<br />
passato molto tempo, non so quanto. La signora<br />
Rudas ed Euriclea mi portavano da bere e da mangiare,<br />
mi lavavano e mi aiutavano quando dovevo andare<br />
alla toeletta. La dottoressa veniva ogni tanto e mi faceva<br />
delle iniezioni. Ormai non sembrava più tanto arrabbiata.<br />
Un giorno venne anche il dottor Lorenzo. Era giovane<br />
e bello e mi parve molto gentile. Credo che fosse<br />
l’uomo più bello e più gentile che io abbia mia visto.<br />
Era anche il primo uomo che mi parlava da moltissimo<br />
tempo.<br />
171
Idillio<br />
L’idea di pubblicare gli appunti di babbo, in maniera<br />
molto modesta, in una qualunque tipografia qui<br />
in città, mi era venuta in principio come un’opportunità<br />
di rendere omaggio alla sua memoria, con un’opera<br />
nella quale i suoi molti amici avrebbero potuto<br />
ritrovare una parte di lui. Un’opera semplice, e forse<br />
solo per persone semplici, come erano stati la maggior<br />
parte dei suoi amici.<br />
Come titolo avevo pensato Indice ragionato delle<br />
Piante Medicinali comuni e tradizionalmente usate nella<br />
provincia di Trezene, raccolte e classificate dal dott. Pietro<br />
Ottavio Rudas. E il volume, o fascicolo, non doveva essere<br />
che una stampa, con qualche illustrazione fotografica<br />
o qualche disegno, delle informazioni che babbo<br />
nel corso di decenni aveva raccolto su quest’argomento<br />
che l’aveva appassionato e che io avevo creduto<br />
fosse la parte più importante del materiale che aveva<br />
lasciato.<br />
Mano mano però che andavo avanti nella lettura,<br />
m’accorgevo che le “erbe medicinali” e particolarmente<br />
l’uso che tradizionalmente se ne è fatto nella nostra<br />
173
zona, non erano che un dettaglio del quadro antroposociologico<br />
che nel corso degli anni, osservazione su osservazione,<br />
linea su linea, babbo aveva tracciato della<br />
regione nella quale aveva operato.<br />
Sapevo che aveva sempre tenuto un ordine puntiglioso<br />
nelle sue cartelle cliniche, dedicando ad esse<br />
molte ore che, nonostante le proteste di mamma, rubava<br />
al riposo. Ma non avevo immaginato che quelle<br />
carte fossero non solo uno strumento per il suo lavoro<br />
quotidiano, ma anche il prezioso materiale d’una ricerca<br />
che, quando la morte disgraziatamente l’aveva<br />
interrotta, stava già dando risultati affascinanti.<br />
Le osservazioni e i dati, che in silenzio e con tutta discrezione<br />
babbo aveva raccolto, potevano gettare luce<br />
su certi fattori ereditari e sullo stretto rapporto tra<br />
l’ambiente fisico e socio-culturale e il quadro generale<br />
della salute, la morbilità e la mortalità, particolarmente<br />
infantile, nella nostra provincia. Ma fra le sue<br />
note, quelle che avevano subito attirato la mia attenzione,<br />
con un misto di malessere e di curiosità, erano<br />
quelle riguardanti le guarigioni dal punto di vista medico<br />
incomprensibili - ma da lui personalmente constatate<br />
- e che la vox populi definiva “miracolose”.<br />
Babbo era per costituzione e convinzione un razionalista,<br />
come io lo sono. Quelle “guarigioni ancora inspiegabili”,<br />
descritte con una ricchezza e precisione di<br />
particolari clinici che, più di qualunque commento,<br />
testimoniavano del suo bisogno di un’interpretazione<br />
scientificamente ammissibile, mi avevano rimesso di<br />
174<br />
fronte a tutta una problematica che avevo sempre visceralmente<br />
rifiutato di prendere in considerazione, e<br />
sulla quale avevo preferito chiudere gli occhi.<br />
Le ipotesi psicosomatiche, la cui validità entro certi<br />
limiti ero stata costretta ad accettare, le tesi freudiane<br />
di sintomatologie d’origine psichica che babbo ben<br />
conosceva e riteneva accertate, non erano sufficienti<br />
per dare quella spiegazione che lui aveva cercato e che<br />
io adesso mi sentivo costretta a continuare a cercare.<br />
Come uno stato d’animo, un rimorso, una convinzione,<br />
una paura, una disperazione, una fede, una forte<br />
speranza possono agire sulle nostre cellule interferendo<br />
nella loro chimica?<br />
Dove, in quale neurone, o complesso di neuroni, iniziava<br />
quel processo psico-chimico-biologico che trasformava<br />
delle cellule malate in cellule sane e viceversa?<br />
Dopo la descrizione del caso della guarigione clinicamente<br />
inspiegabile di un giovane affetto da una forma<br />
gravissima e ben documentata di tubercolosi ossea,<br />
babbo ricordava Spinoza, la cui Etica era uno dei pochi<br />
libri non di medicina che tenesse nel suo studio, e scriveva:<br />
“Spinoza ci parla delle due modalità ‘Pensiero’ ed<br />
‘Estensione’ (cioè per dirla con parole d’oggi: Mente e<br />
Corpo) nelle quali l’individuo esiste come un’unità inscindibile.<br />
Se accettiamo l’individuo come unità inscindibile<br />
che esiste e si manifesta nelle sue due modalità,<br />
mente e corpo, e teniamo nella dovuta conside-<br />
175
azione l’interdipendenza e continua circolazione di<br />
cause-effetti che deve esserci tra di esse, forse abbiamo<br />
fatto il primo passo verso la comprensione e la spiegazione<br />
razionale di questi fenomeni che ci turbano, e<br />
dunque anche verso nuove possibilità terapeutiche.<br />
“Ciò che rasenta l’assurdo è che, per una pretesa fedeltà<br />
al razionalismo (che da metodo abbiamo trasformato<br />
in ‘fede’!), e forse soprattutto per chiudere gli occhi<br />
sui nostri antichi, ereditari terrori, rifiutiamo così<br />
energicamente il concetto di anima come entità metafisica<br />
che in pratica finiamo anche per rifiutare l’importanza<br />
della ‘modalità’ mente (e cioè proprio dello<br />
strumento sine qua non della ragione e della razionalità!)<br />
nel funzionamento complessivo, e quindi anche<br />
fisiologico dell’individuo nella sua unità inscindibile.<br />
“È così facendo, trascuriamo nella nostra terapia di<br />
prendere nella dovuta considerazione i possibili effetti<br />
dell’attività delle cellule nervose sul funzionamento e<br />
quindi sulla salute o la malattia delle altre cellule del<br />
corpo”.<br />
In uno dei suoi appunti babbo scriveva:<br />
“Molte leggi e possibilità del mondo fisico, nonché<br />
delle interferenze tra questo e quello più propriamente<br />
psichico, ci sono ancora sconosciute, ma ciò non significa<br />
che forse, anche in un futuro vicinissimo, non ci<br />
saranno note e spiegate. Spiegate, secondo i metodi e<br />
i canoni scientifici, e non più proposte come materia<br />
di fede o superstizione”.<br />
E continuava:<br />
176<br />
“Dobbiamo sempre tenere presente che la nostra<br />
ignoranza è superiore alla nostra sapienza, e che le zone<br />
che ci sono buie e ignote sono enormemente più<br />
estese di quelle che ci sono note e illuminate”.<br />
Le sue parole mi colpivano direttamente, ed erano<br />
come una sfida alla mia quasi fanatica speranza di un<br />
mondo già tutto, o quasi, decifrato alla luce di quella<br />
che allora per me era ancora l’unica razionalità possibile.<br />
Mi colpivano in un modo dal quale sapevo che<br />
non avrei trovato scampo, se non facendo passare attraverso<br />
il vaglio del dubbio anche le mie avversioni e<br />
le mie speranze. Era questa l’eredità che babbo mi aveva<br />
lasciato.<br />
Raccoglierla non fu facile. Per me fu come una strana,<br />
sconvolgente e talvolta dolorosa gravidanza, iniziata,<br />
come la maggior parte delle gravidanze iniziano,<br />
nella quasi totale incoscienza. Ma se riuscii a portarla<br />
a termine con un parto e non con un aborto, se questo<br />
che in principio avevo temuto potesse diventare un cedimento<br />
all’irrazionale divenne per me una conquista<br />
di maggiori spazi e di maggiore libertà nell’ambito del<br />
razionale, lo devo, come tante altre cose, a Lorenzo.<br />
Parlavo con lui come se pensassi a voce alta, e mentre<br />
parlavo, per il solo fatto che lui mi ascoltava, i<br />
pensieri si precisavano e i dubbi, meglio definiti, diventavano<br />
razionalizzabili e forse eliminabili. La sua<br />
attenzione critica mi aiutava a uscire da certe strade<br />
senza sbocco nelle quali mi capitava d’entrare. Ma la<br />
sua mancanza di pregiudizi, spesso su fenomeni che io<br />
177
sbrigativamente ancora definivo superstizione, qualche<br />
volta mi sorprendeva sino allo scandalo.<br />
Ancora però non avevo capito lo spessore del muro<br />
che avrebbe potuto dividerci. E ancora meno avevo capito<br />
da quale parte e perché questo muro avrebbe potuto<br />
sorgere. Forse non lo capivo perché quasi sempre,<br />
o sempre, le nostre discussioni e conversazioni, i nostri<br />
incontri e scontri intellettuali, si concludevano quasi<br />
bruscamente in quegli incontri e scontri insaziabili<br />
dei nostri corpi, dove il suo mi si rivelava come una<br />
parte per me prima sconosciuta del mio stesso corpo.<br />
La parte migliore, più viva, più amata e amabile e però,<br />
anche nei momenti della fusione più estatica, non<br />
del tutto raggiunta e raggiungibile.<br />
Mamma si teneva distante e credo che si sforzasse di<br />
moderare il suo solito bisogno d’invadere i miei spazi<br />
e di polemizzare con me su ogni cosa.<br />
In principio, riguardo a lei, l’arrivo del ragazzo mi<br />
era stato utile. Se non altro, aveva dirottato la sua attenzione<br />
dal suo oggetto preferito che, sin da quando<br />
ero nata, ero sempre stata io.<br />
178<br />
L’oasi<br />
Nei giorni subito dopo la malattia, mi sedevo in cucina,<br />
davanti alla grande finestra che dà sul giardino,<br />
e aiutavo a sgranare i piselli, a mondare i carciofi, a<br />
sbucciare le patate e a fare altri lavori che a Dolomè<br />
son considerati lavori da donna. Ma questo dove mi<br />
trovavo era un mondo diverso da quello di Dolomè,<br />
diverso come lo è il giorno dalla notte.<br />
Tutto era diverso. A cominciare dalla luce e dall’aria<br />
dentro la casa dove sembrava che non ci fosse posto per<br />
l’ombra. Le finestre erano enormi, grandi almeno come<br />
quelle del caseggiato scolastico a Dolomè. Ma pulite,<br />
non opache e sporche come quelle della nostra<br />
scuola. E dietro i vetri scintillanti si vedevano gli alberi<br />
del giardino.<br />
Proprio sotto la finestra di cucina cresceva un melograno<br />
carico di fiori rossi che parevano piccole trombe<br />
di corallo. E più lontano c’era un filare di cipressi, o di<br />
ginepri, che serviva da frangivento dalla parte della<br />
valle. Dietro quegli alberi che mi facevano pensare a<br />
persone che si tenevano per mano, si vedevano le cime<br />
dei monti che cambiavano colore col passare delle ore.<br />
179
Ma anche la sera la casa era piena di luce. Subito<br />
dopo il tramonto si accendevano delle lampade elettriche<br />
che restavano accese, dappertutto, senza risparmio.<br />
E tutte le stanze e gli anditi erano illuminati<br />
come per una festa. E tutti, a parte la dottoressa, mi<br />
parlavano gentilmente e mi sorridevano.<br />
Non che fosse proprio sgarbata, la dottoressa, ma<br />
aveva sempre troppo da fare e perciò non aveva tempo<br />
da perdere per parlare con me. E i suoi modi erano<br />
bruschi. Non solo con me, ma qualche volta anche con<br />
la madre. Col dottor Lorenzo invece era sempre allegra<br />
e gentile. Euriclea diceva che erano ancora “in luna di<br />
miele” e che c’era da sperare che durasse perché “alla<br />
dottoressa faceva bene”.<br />
Io non sapevo che cosa volesse dire, ma non volevo<br />
chiedere perché forse era una cosa che tutti sapevano e<br />
che probabilmente anch’io avrei dovuto sapere, ma<br />
che a Dolomè non si usava e io non volevo che Euriclea<br />
si burlasse di noi e della nostra ignoranza.<br />
Certe volte me ne stavo imbambolato pensando alla<br />
dottoressa e al dottor Lorenzo e alla luna di miele, e<br />
immaginavo una grande vasca rotonda come la luna,<br />
piena di miele nuovo e dorato. E la dottoressa e il dottor<br />
Lorenzo ogni tanto ne prendevano una ditata e la<br />
leccavano, mentre si tenevano per mano e si guardavano<br />
sorridendo e senza pensare.<br />
180<br />
Il serpente<br />
Nonostante la sua fragilità fisica il ragazzo, Oreste,<br />
reagì bene alle cure e si rimise rapidamente. Sembrava<br />
ansioso di guarire per non esserci di peso, per poter<br />
rendersi utile.<br />
Quando ebbe il permesso d’alzarsi, s’offrì subito d’aiutare<br />
Euriclea nelle faccende. Era ancora debolissimo e<br />
mamma, per accontentarlo e dargli pace, più che per<br />
l’utilità pratica dei suoi servizi, cercava di dargli qualche<br />
incombenza che non lo affaticasse e che potesse eseguire<br />
stando seduto. Più tardi scoprì che gli piaceva<br />
leggere e cominciò a riesumare per lui tutti i miei vecchi<br />
libri d’infanzia che aveva conservato in bell’ordine<br />
in uno scaffale.<br />
Le piaghe dei piedi stavano rimarginandosi e l’infezione<br />
era stata evitata. Ma, sebbene lui non se ne lamentasse,<br />
sapevamo che dovevano essere ancora molto<br />
dolorose. <strong>Gli</strong> davo intanto dei ricostituenti, cercando<br />
di combattere quel rachitismo che gl’ingobbiva le spalle<br />
e al quale probabilmente era dovuto il suo ritardato<br />
e deficiente sviluppo corporeo.<br />
Anche Lorenzo l’aveva preso a benvolere. Cominciò<br />
181
a dargli dei piccoli incarichi nel suo ambulatorio e, quando<br />
gli sembrò abbastanza forte da sopportare un’uscita,<br />
cominciò a portarselo dietro anche in campagna,<br />
per le vaccinazioni e le visite. Ma non ci volle molto a<br />
capire che Oreste lo seguiva solo per ubbidienza, malvolentieri,<br />
e che era soprattutto a casa, nelle faccende<br />
domestiche, che preferiva rendersi utile.<br />
Silenzioso, sempre disponibile, puntualissimo e puntiglioso,<br />
imparava tutto rapidamente. In breve tempo<br />
fu capace d’aiutare in cucina, d’apparecchiare e servire<br />
a tavola, di riordinare e fare pulizie come una domestica<br />
finita.<br />
Era sorprendentemente libero da pregiudizi su quelli<br />
che sarebbero i compiti “femminili” e i compiti “maschili”<br />
così rigidamente distinti in questa nostra società<br />
dove un uomo preferirebbe reggersi i pantaloni<br />
con dei chiodi piuttosto che “umiliarsi” a prendere in<br />
mano ago e filo per cucirsi un bottone. Era come se, nonostante<br />
la sua modestia e mansuetudine, avesse una<br />
certezza nascosta ma incrollabile della propria valentia<br />
e virilità.<br />
Ancora non sapevo, o fingevo con me stessa di non<br />
sapere, dove questa certezza orgogliosa affondava le<br />
sue radici. Quando più tardi fui costretta a saperlo, il<br />
danno fu irrimediabile.<br />
182<br />
Un cielo pieno di rondini<br />
La dottoressa era stata così, non proprio sgarbata ma<br />
come infastidita, sin dal primo momento che mi aveva<br />
visto, il giorno del mio arrivo. E questo si poteva spiegarlo<br />
col fatto che era sempre tanto affaccendata, con<br />
l’ambulatorio e anche con un libro che, secondo quanto<br />
Euriclea in gran segreto mi aveva detto, stava scrivendo.<br />
Ma dopo la visita di mamma tutto era diventato<br />
peggio, come se non avesse più nemmeno tempo, o<br />
voglia, di guardarmi.<br />
Appena entrata, ancora prima di cominciare a bere il<br />
caffè, mamma subito si era messa a raccontare quello<br />
che avevo fatto, vantandomi per come ero riuscito a<br />
condurre tutto a termine senza farmi riconoscere.<br />
Ma più lei raccontava, più la dottoressa Rudas diventava<br />
rigida, con la faccia chiusa che pareva una statua. Io<br />
la guardavo angosciato e speravo che mamma la smettesse<br />
di vantarmi così, perché capivo che alla dottoressa<br />
Rudas non piaceva. Infatti, senza ascoltare la fine del discorso<br />
di mamma, e senza dir niente, se n’era uscita dalla<br />
stanza e aveva chiuso la porta dietro di sé.<br />
183
Forse, anche se era tanto intelligente, la dottoressa<br />
non aveva capito che non era per vantarci, che mamma<br />
ne parlava, ma perché sarebbe stato tradimento non<br />
parlarne con quelli che ci stavano aiutando e che dovevano<br />
sapere che quello che avevamo fatto era stato<br />
necessario farlo.<br />
Se io non lo avessi vendicato, Giosuè non avrebbe<br />
mai trovato pace nella sua tomba. Anzi sarebbe stato<br />
come se non gli avessimo neppure dato sepoltura, e<br />
avrebbe continuato a credere che di lui e della sua<br />
morte barbara non ce ne importava niente. E non trovando<br />
pace non poteva perdonare né a noi né ai suoi<br />
assassini e perciò non poteva entrare in paradiso.<br />
Certe volte m’immaginavo che per caso mi trovavo<br />
solo con la dottoressa, in cucina per esempio. Stavamo<br />
seduti, calmi e silenziosi, guardando fuori dalla finestra.<br />
Il cielo era azzurro e pieno di rondini. Lei sembrava<br />
non avere fretta d’andarsene e allora io, senza<br />
voltarmi, cominciavo a parlare e le spiegavo tutto. E<br />
lei finalmente capiva che quello che avevo fatto era<br />
stato necessario farlo.<br />
Le parlavo con calma, come un uomo, e lei mi ascoltava<br />
attenta e senza interrompermi. Poi si voltava e mi<br />
guardava dritto negli occhi e forse anche mi metteva<br />
una mano sulla spalla o sulla testa. Poi mi diceva, sempre<br />
guardandomi negli occhi: “È giusto, Oreste. Era<br />
necessario farlo. Era il tuo dovere. Hai fatto bene”.<br />
184<br />
Una partita contabile<br />
Certo non avevo potuto evitarmi d’immaginare che<br />
nel suo improvviso arrivo e nella sua prolungata permanenza,<br />
anche quando la salute almeno in parte era<br />
riacquistata e avrebbe potuto andarsene, c’era un segreto<br />
drammatico, forse una minaccia, che in qualche<br />
modo doveva essere collegata alla morte del fratellino.<br />
Immaginavo, e forse sapevo, ma non volevo sapere.<br />
Forse, senza volerlo ammettere di fronte a me stessa,<br />
avevo capito tutto sin dal primo momento, ma ciò che<br />
avevo capito non avevo voluto saperlo.<br />
Anche di quell’infanticidio estremamente barbaro,<br />
avevo a suo tempo cercato di non sapere troppo, e ai<br />
tentativi di mamma di parlarmene e di coinvolgermi<br />
sentimentalmente, avevo opposto frontiere di silenzio.<br />
Intuivo che anche di Oreste mamma sapesse più di<br />
quanto non avesse detto a me e a Lorenzo. Lorenzo non<br />
è cresciuto qui, e nonostante la sua professione, è quasi<br />
estraneo al nostro ambiente, Lorenzo poteva e doveva<br />
essere tenuto all’oscuro. In quanto a me, io non volevo<br />
sapere. Io non avevo scelto di vivere nella barbarie, io<br />
non volevo sapere.<br />
185
Purtroppo, con l’arrivo della madre di Oreste, questa<br />
mia precaria permanenza nel Limbo si concluse, e<br />
m’invase il terrore che l’amore e il rispetto di Lorenzo<br />
per me e per la mia famiglia da quel momento rischiasse<br />
di diventare impossibile.<br />
La paura che quella storia fosca mi costasse la sua<br />
stima e il suo amore, fu dentro di me molto più violenta<br />
e più reale dell’orrore per ciò che quel bambino,<br />
che tenevamo in casa e che quasi avevamo adottato,<br />
aveva fatto o piuttosto era stato costretto a fare. Lorenzo,<br />
non isolano, cresciuto a Milano, lontano da questa<br />
nostra disgraziata regione di faide e di omertà, figlio<br />
d’un magistrato, non poteva che condannare e rifiutare<br />
ciò che io dalle circostanze venivo costretta almeno<br />
formalmente ad accettare.<br />
Nel mio terrore d’aver perduto il diritto alla stima e<br />
all’amore del mio uomo, nei primi giorni dopo la rivelazione<br />
mi ero chiusa nel mutismo, cercando rifugio<br />
nel ricordo di babbo e del rispetto che ancora circondava<br />
la sua memoria. Rispetto sul quale mi pareva d’avere<br />
una specie d’indiscutibile diritto ereditario che<br />
quella violenta intrusione minacciava.<br />
Il lavoro per il libro, in quel periodo d’apprensione<br />
aggressiva e di cupa infelicità, fu anche un alibi e un<br />
surrogato. E forse l’aumentato impegno col quale mi<br />
ci dedicai, fu anche un tentativo di riconquistare per<br />
me stessa la rispettabilità di babbo e di riverstirmene,<br />
ora che mi pareva d’esser stata spogliata della mia. Mi<br />
sentivo come un grumo spinoso di paura e di rancore.<br />
186<br />
Paura di perdere Lorenzo e rancore verso mamma che<br />
non aveva saputo risparmiarmi l’incontro con quella<br />
donna. E rancore anche verso Oreste, o piuttosto verso<br />
una strana immagine di lui che si sovrapponeva a<br />
quella reale. Perché quella reale, concreta, era ancora<br />
quella di un ragazzino servizievole e fragilissimo, eternamente<br />
in guardia, i cui occhi timidi e ansiosi sentivo<br />
spesso su di me, ma che mi sfuggivano come impauriti<br />
ogni volta che io, fingendo indifferenza, posavo<br />
deliberatamente i miei su di lui.<br />
Ma qualche volta m’accorgevo d’essermi incantata a<br />
guardargli le mani. Quelle manine nodose e aspre di<br />
bambino povero, deturpate da piccole verruche piatte,<br />
che inutilmente stavo cercando di curargli. Eliminata<br />
una, subito se ne manifestava un’altra, e mentre gliele<br />
bruciavo con nitrato d’argento non potevo fare a meno<br />
di domandarmi se davvero la causa di quelle piccole e<br />
sgradevoli escrescenze non fosse altrove, e se la cura<br />
che io tentavo non fosse pura perdita di tempo.<br />
– Se fossi a Dolomè, nonna mi farebbe la cura dei<br />
nodi nei giunchi. Per ogni verruca un nodo. E mentre<br />
fa i nodi dice delle preghiere. La gente crede che dica<br />
parole magiche, ma nonna non è una strega. Quelle<br />
che dice sono preghiere normali, cristiane. Poi un pastore<br />
prende i giunchi con i nodi e li getta in un posto<br />
dove la persona che ha le verruche non deve mai<br />
passare. Quando i giunchi marciscono anche le verruche<br />
scompaiono. Forse lei non ci crede, dottoressa, ma<br />
è vero.<br />
187
E invece ci credevo, più di quanto io stessa non fossi<br />
contenta di poterci credere, perché ancora mi sarebbe<br />
piaciuto pensare che il mondo fisico, e dunque anche<br />
le nostre cellule nella loro salute e nella loro malattia,<br />
abbiano delle leggi e delle regole che non si lasciano<br />
influenzare dai nostri umori e dai nostri rimorsi, dalle<br />
nostre speranze e dalla nostra disperazione.<br />
Oreste, con le sue manine verrucose e la sua storia,<br />
era un esempio concreto di quel tipo di fenomeni a cui<br />
gli appunti di babbo mi avevano costretto a pensare e<br />
dei quali cercavo d’occuparmi in quei giorni.<br />
La “medicina dei nodi” di cui parlava non mi era<br />
sconosciuta. Ma io per curarlo delle sue verruche non<br />
potevo fare i nodi nei giunchi, io dovevo limitarmi ai<br />
mezzi chimici etichettati e riconosciuti dalle autorità<br />
sanitarie.<br />
E l’altra cura, quella della mia comprensione e assoluzione,<br />
che forse avrebbe potuto surrogare i nodi nel<br />
giunco, neanche quella mi era possibile dargliela.<br />
C’era tra me e quel bambino una barriera di millenni<br />
che neppure la tenerezza che, quasi mio malgrado, suscitava<br />
in me poteva superare.<br />
<strong>Gli</strong> guardavo le mani e le dita, mentre senza far rumore<br />
apparecchiava o sparecchiava, mentre serviva a<br />
tavola o, nei momenti di riposo e di distensione, quando<br />
giocava coi gatti o carezzava Diana che uggiolava<br />
in estasi rotolandosi sul dorso e dimenando le zampe<br />
come in una corsa immaginaria.<br />
Quelle manine infantili mi affascinavano e, quando<br />
188<br />
mi accorgevo di guardarle, cercavo di distorglierne<br />
gli occhi. Perché, contro la mia volontà, ogni volta, le<br />
immaginavo strette contro il metallo scuro dell’arma.<br />
“Il falco è abbattuto. La macchia è lavata!”, aveva<br />
detto, entrando nella cucina dalla quale non si era assentato<br />
per più che una decina di minuti. Lui, quel<br />
bambino innocente, che in veste di vendicatore, come<br />
un cow-boy di un cattivo film western aveva appena<br />
spento una vita umana. La madre, la nonna e le sorelle<br />
sedevano ancora attorno al camino, come le aveva lasciate<br />
poco prima, e recitavano le loro solite preghiere<br />
serali.<br />
“Il falco è abbattuto. La macchia è lavata”. Probabilmente<br />
anche le bambine e la nonna sapevano e avevano<br />
capito, ma solo la madre si era alzata e l’aveva condotto<br />
nella stanza adiacente. Avevano confabulato per un<br />
momento, poi lei era tornata in cucina, sola, e aveva<br />
pronunziato quelle parole insensate che nessuno aveva<br />
discusso o commentato: “Oreste è partito stamattina<br />
per Trezene. A piedi. Per risparmiare i soldi della corriera”.<br />
Le sue parole dovevano aver suonato come un ordine,<br />
non un’informazione.<br />
Poi si era gettata lo scialle sul capo ed era uscita,<br />
senza dire dove andava. Le figlie e la madre forse non si<br />
erano neppure mosse dal cerchio di luce attorno al camino<br />
acceso e avevano continuato a recitare le loro preghiere.<br />
Formule magiche, non preghiere! mi dicevo<br />
con rabbia, ogni volta che arrivavo a questo punto della<br />
mia fantasticheria in cui tutto, a parte Oreste che non<br />
189
iuscivo a vedere in quel ruolo macabro d’eroe vendicatore,<br />
mi passava davanti agli occhi in una serie d’immagini,<br />
come un film o il ricordo di un’azione orrenda<br />
alla quale anch’io contro la mia volontà ero costretta a<br />
prendere parte.<br />
Comare Solinas non aveva detto esplicitamente d’essere<br />
stata lei ad armare la mano del ragazzo. E non lo<br />
disse, immagino, perché doveva sembrarle una vanteria<br />
superflua, un’ingiusta diminuzione dei meriti di<br />
Oreste. Ma non aveva mancato di descrivere l’astuzia,<br />
la segretezza e la tenacia con la quale lei, da sola, aveva<br />
condotto le indagini, ancora prima che, come aveva<br />
previsto sin da principio, la polizia e i carabinieri archiviassero<br />
il caso come “delitto d’ignoti”, e che col<br />
passare del tempo gli indizi e le prove venissero cancellati.<br />
Non aveva risparmiato mezzi né minacce sino a che<br />
non aveva avuto l’assoluta certezza sull’identità degli<br />
assassini. Ma la sua certezza e le sue prove non sarebbero<br />
bastate a “quelli che son pagati per fare giustizia<br />
e non la fanno”. Perciò le aveva tenute per sé ed era<br />
solo grazie al coraggio di Oreste che l’equilibrio, rotto<br />
dalla morte di Giosuè, era stato ristabilito.<br />
“Non siamo dei sanguinari, noi, e per noi adesso la<br />
partita è chiusa. Nessuno e niente potrà mai restituirci<br />
il nostro bambino, ma la sua anima non avrebbe potuto<br />
trovar pace se non avessimo fatto giustizia, se a<br />
causa della sua morte avessimo anche perduto l’onore.<br />
<strong>Gli</strong> assassini erano tre e due di loro sono vivi e, per<br />
190<br />
quanto mi riguarda, possono campare sino a cent’anni.<br />
Sono due miserabili che la vita sta già punendo più di<br />
quanto la morte non potrebbe fare. Uno è ubriaco dalla<br />
mattina alla sera e nessuno gli dà più un soldo di valore.<br />
L’altro è un povero cornuto che in quella combutta<br />
c’era entrato per sbaglio e che se la fa addosso dalla<br />
paura ogni volta che qualcuno bussa alla sua porta.<br />
Pur di essere lasciato in vita è disposto a fare per me<br />
qualunque cosa gli chieda. Ma la partita per quanto mi<br />
riguarda ora è chiusa”.<br />
Comare Solinas aveva parlato, in presenza di Oreste,<br />
con la certezza della nostra approvazione e omertà. Io<br />
avrei voluto essere lontana, dall’altra parte del mondo.<br />
Ovunque, ma non lì, in quel pozzo d’orrore che<br />
mi si era spalancato davanti, minacciandomi.<br />
Mi sentivo addosso le occhiate ansiose di mamma e<br />
di Oreste, come se volessero capire come reagivo e cercassero<br />
di prevenire qualche mia esplosione. Ma non ci<br />
fu alcuna esplosione. Mi sentivo annientata e tradita,<br />
anche se ero stata io a voler chiudere gli occhi, perché<br />
altrimenti avrei capito tutto sin da principio, e senza<br />
che nessuno dovesse dirmelo così esplicitamente.<br />
“Non siamo dei sanguinari, noi, e per noi ora la partita<br />
è chiusa” aveva detto comare Solinas di Dolomè,<br />
quasi come un ragioniere che, dopo averlo ripercorso,<br />
chiuda il suo registro di contabilità con la gradevole<br />
consapevolezza d’aver condotto bene a termine un lavoro<br />
difficile e onesto.<br />
Era quella sua certezza incrollabile e trionfante,<br />
191
quella sua imperturbabile coscienza d’aver agito nel<br />
modo giusto, che mi facevano più orrore. Più dello<br />
stesso omicidio di cui il ragazzo per colpa sua s’era incaricato.<br />
Ero uscita quasi a precipizio, per la paura di mettermi<br />
a gridare e anche perché non riuscivo più a sopportare<br />
di vederla e di ascoltarla.<br />
192<br />
La statua della libertà<br />
Una volta, ma era molto tempo prima, quando ancora<br />
dovevo stare a letto e avevo la febbre, e prima che<br />
mamma venisse e raccontasse quello che era successo,<br />
la dottoressa Rudas, dopo avermi fatto l’iniezione, si<br />
era fermata un momento a guardarmi e poi mi aveva<br />
ravviato i capelli sulla fronte. Io avevo sentito il calore<br />
delle sue dita leggere, e avevo dovuto chiudere gli occhi,<br />
perché il cuore mi batteva così forte che temevo<br />
che lei lo sentisse. I muscoli della faccia mi tiravano,<br />
rigidi e pesanti come pietra e le labbra erano tanto<br />
aride che mi si erano incollate ai denti.<br />
Quando lei era uscita, mi ero toccato lì, sui capelli,<br />
dove avevo sentito le sue dita che mi sfioravano, e mi<br />
pareva che lei fosse ancora vicino a me. Ed era come se<br />
la Madonna in persona mi avesse visitato e mi avesse<br />
sfiorato i capelli e la fronte per dirmi che mi voleva<br />
bene e che aveva capito che quello che avevo fatto era<br />
stato necessario farlo.<br />
Giosuè era mio fratello gemello. Spettava a me liberarlo<br />
dalla tomba e permettergli di entrare in paradiso.<br />
E anche mia madre e le mie sorelle non dovevano es-<br />
193
sere condannate a vivere nella vergogna, da donne disonorate<br />
che tutti dopo potevano continuare a offendere.<br />
Era mio dovere lavare la macchia e difenderle da altre<br />
offese. Ero sicuro che un giorno la dottoressa Rudas<br />
l’avrebbe capito e avrebbe smesso di far finta di<br />
non vedermi.<br />
Il dottor Lorenzo, invece, credo che l’abbia capito<br />
subito e che lui non mi abbia mai voluto male. Lui era<br />
veterinario e frequentava la gente di campagna, perciò<br />
anche se era un mezzo continentale sapeva come sono<br />
le regole. Il dottor Lorenzo era sempre allegro e sorridente<br />
e gli piaceva scherzare. Anche con me.<br />
Babbo con me non aveva mai scherzato, neppure<br />
quando era ubriaco e aveva vino buono. La gente a Dolomè<br />
di solito non scherzava, se non per prendere in giro<br />
chi non sapeva difendersi. E più ci pensavo più Dolomè<br />
mi pareva un paese dove non avrei mai voluto tornare.<br />
Quando cominciai a stare meglio e a essere forte, il<br />
dottor Lorenzo mi propose d’andare con lui in campagna<br />
per fargli da assistente. Mi piaceva stare nel suo ufficio<br />
e avevo imparato a tenere in ordine i suoi strumenti.<br />
Mi aveva insegnato a bollirli sul fornelletto elettrico,<br />
a toglierli con le pinze dall’acqua bollente e metterli<br />
ad asciugare in mezzo alle garze asettiche, e poi,<br />
ben asciutti, conservarli dentro le scatole metalliche.<br />
Facevo tutto quello che m’insegnava e, quando ero insieme<br />
a lui, mi sentivo come in paradiso. Ma andare in<br />
campagna non mi piaceva, e cercavo di nasconderglielo,<br />
per non deluderlo.<br />
194<br />
Poi però ci fu quella volta in cui mi sentii male, e fu<br />
l’ultima volta che mi chiese d’accompagnarlo. Eravamo<br />
partiti presto per andare in un ovile dove c’era un<br />
cavallo malato. Ed era anche una bella giornata all’inizio<br />
dell’estate. Il proprietario ci ricevette bene e ci mostrò<br />
la bestia malata. Il dottor Lorenzo la guardò e la<br />
toccò nella pancia che era gonfia. Soprattutto vicino<br />
all’inguine. E disse che bisognava operare subito. Prima<br />
la lavò con acqua saponata, poi cominciò a tagliare<br />
col bisturi.<br />
Siccome io conoscevo i nomi degli strumenti, era a<br />
me che si rivolgeva, quando doveva cambiare dall’uno<br />
all’altro. Ma a un certo punto, quando il sangue e il<br />
pus cominciarono a venire fuori in grande quantità,<br />
senza che me l’aspettassi fui assalito dalla nausea e in<br />
gran fretta dovetti allontanarmi per vomitare. Quando<br />
fui in grado di tenermi in piedi e tornai, l’operazione<br />
era finita e poco dopo ripartimmo. Io avevo vergogna<br />
di quello che era capitato e provai a dire che<br />
forse avevo mangiato qualche erba velenosa. Allora il<br />
dottor Lorenzo era scoppiato a ridere e guardandomi<br />
con la coda dell’occhio aveva detto:<br />
– Va là che la chirurgia non è per te. Sei più bravo a<br />
tenerli puliti gli strumenti che a vedere come li si<br />
sporcano. – Ma non c’era cattiveria anche se sembrava<br />
divertirsi alle mie spalle.<br />
E quella fu l’ultima volta che mi portò in campagna.<br />
Ma io da allora raddoppiai i miei sforzi per rendermi<br />
utile in casa. Imparavo a cucinare e a servire a tavola e<br />
195
immaginavo che un giorno sarei emigrato e avrei trovato<br />
lavoro da cuoco o da cameriere in un ristorante di<br />
una grande città o in qualcuna di quelle navi che attraversano<br />
gli oceani.<br />
Con Giosuè desideravamo entrare in marina per poter<br />
viaggiare e vedere il mare. Pensavamo che, finito il<br />
servizio militare, avremmo trovato un ingaggio su qualche<br />
nave da trasporto e avremmo continuato a viaggiare<br />
per vedere anche l’Africa e l’Asia e l’America che<br />
ci immaginavamo bellissime. Soprattutto l’America.<br />
In quei mesi, mentre lavoravo a casa della dottoressa<br />
Rudas, speravo di poter restare lì molti anni, in quella<br />
bella casa, insieme a quelle persone buone, e che dopo,<br />
forse, si sarebbero realizzati anche i progetti che avevo<br />
fatto insieme a Giosuè. Avevo sentito dire che i morti<br />
vivono nel ricordo e nelle speranze dei vivi e, se era<br />
vero, così avrei aiutato Giosuè a vivere di nuovo, almeno<br />
un poco, dentro di me.<br />
Spesso cercavo d’immaginarmi l’America e mi pareva<br />
impossibile che non avrei mai più potuto parlarne<br />
con Giosuè. Anzi mi pareva che Giosuè forse in America<br />
c’era già arrivato e che mi aspettava, lì, in qualche<br />
posto bellissimo. Chissà se l’avrei riconosciuto. Forse<br />
lui sarebbe stato così ricco ed elegante che mi sarebbe<br />
stato difficile capire chi era, se lui, vedendomi, non mi<br />
avesse detto: – Ehi, compare, ne avete messo di tempo<br />
per venire! Sono anni che vi aspetto. Ma ora venite,<br />
che vi voglio mostrare l’America!<br />
Mi immaginavo i fiumi grandissimi e le città piene<br />
196<br />
di gente ricca e allegra, e desideravo poterli vedere almeno<br />
una volta nella vita. Ma quello che soprattutto<br />
desideravo vedere era la statua della libertà.<br />
Euriclea aveva una cartolina che le aveva mandato<br />
un nipote che lavorava a Nuova York. La cartolina era<br />
a colori e rappresentava la statua della libertà come<br />
una bellissima donna, alta e vestita come un’antica romana.<br />
In testa questa donna aveva una corona scintillante<br />
e in mano teneva una fiaccola.<br />
Quando me l’aveva mostrata, Euriclea aveva detto<br />
che la statua della libertà stava su un’isola in mezzo al<br />
porto di Nuova York, per dare il benvenuto agli emigranti<br />
che arrivavano. Diceva anche che era più alta<br />
dell’ospedale di Trezene e che la corona che le cingeva<br />
la testa era così grande che i visitatori vi salivano per<br />
ammirare il panorama come da un balcone. Dalla fotografia<br />
era difficile immaginare che davvero fosse così<br />
grande.<br />
L’inverno e la primavera erano finiti ed era arrivata<br />
l’estate. <strong>Gli</strong> alberi del giardino erano pieni di cicale, e<br />
i pomeriggi erano caldi e lunghissimi. Quando tutti<br />
dormivano io m’arrampicavo su una quercia nel giardino.<br />
Lì mi ero fatto un nido con delle frasche e mi<br />
portavo dei libri da leggere. Il libro che mi piaceva di<br />
più e che non mi stancavo di rileggere era intitolato La<br />
capanna dello zio Tom. Si svolgeva in America quando<br />
ancora c’era la schiavitù. Oggi in America tutti sono<br />
liberi e ricchi.<br />
A parte lo zio Tom, che era uno schiavo vecchio e<br />
197
molto buono, c’era la signorina Evelina, che era la figlia<br />
dei padroni. E io me l’immaginavo come doveva<br />
essere la dottoressa Rudas quando era bambina e ancora<br />
non aveva tanto da fare e perciò aveva tempo d’essere<br />
gentile anche con i suoi servi. Il Mississippi e l’Ohio<br />
dovevano essere bellissimi.<br />
Quel libro mi faceva piangere ogni volta che lo leggevo<br />
e perciò dovevo nascondermi perché nessuno se<br />
ne accorgesse.<br />
A quella sera di pioggia e di tuoni a Dolomè non<br />
pensavo quasi mai. Solo qualche volta la sognavo, ma<br />
nel sogno c’era molto buio e capitavano cose strane, e<br />
tutto andava diversamente.<br />
198<br />
La cacciata dall’Eden<br />
Quando quella mattina i due carabinieri in uniforme<br />
bussarono alla nostra porta e vennero a prenderlo con<br />
un mandato di cattura, avevamo quasi dimenticato che<br />
ciò avrebbe potuto accadere.<br />
Io mi ero abituata alla sua presenza e, dopo il primo<br />
periodo in cui ero stata così inquieta, riuscivo a non<br />
pensare a ciò che aveva fatto e mi ero convinta che Lorenzo<br />
non sapesse niente e che perciò il suo amore e rispetto<br />
per me e per mamma sarebbe rimasto immutato.<br />
Non sapevo come era stato possibile, ma in tutti quei<br />
mesi eravamo riusciti a evitare qualunque discorso che<br />
avrebbe potuto condurci a una spiegazione riguardo a<br />
Oreste. Così avevo finito per illudermi che Lorenzo non<br />
sapeva e non avrebbe mai saputo niente di quell’orribile<br />
storia.<br />
Quel giorno però, alla vista dei carabinieri e del mandato<br />
di cattura, capii che anche per me il momento<br />
della verità e della grande prova era arrivato. Lorenzo<br />
era a Milano, ma al suo ritorno sarei stata costretta a<br />
dirgli che Oreste era stato arrestato e di che cosa era accusato.<br />
E allo stesso tempo avrei dovuto confessargli<br />
199
d’averlo sempre saputo e d’essermi a malincuore ma coscientemente<br />
piegata alla vecchia e odiosa legge dell’omertà.<br />
E, di fatto, a mentirgli.<br />
Il dolore per la sorte del ragazzo, che pure sentii, era<br />
annebbiato dalla preoccupazione affannosa ed egoistica<br />
per la mia stessa sorte e la sorte del mio amore e del mio<br />
matrimonio che ne erano minacciati. In un modo strano<br />
e che mi pareva estremamente ingiusto, dal momento<br />
in cui quel ragazzo aveva messo piede in casa mia, aveva<br />
legato il mio destino al suo, la sua colpa era diventata la<br />
mia colpa, la sua responsabilità era diventata la mia, e<br />
la sua condanna sarebbe stata la mia condanna. Mentre<br />
io me ne stavo lì, ammutolita, mamma mostrò subito<br />
le unghie e provò a dire ai carabinieri che doveva esserci<br />
un errore, che quell’Oreste che noi tenevamo a casa non<br />
poteva essere la stessa persona che loro cercavano.<br />
Non so che cosa si proponesse con questo tentativo<br />
di dilazione. Probabilmente, se le fosse riuscito, non<br />
avrebbe esitato a nascondere il ragazzo, a favorirgli<br />
una fuga e forse a procurargli la possibilità di rifugiarsi<br />
in campagna per sottrarsi alla prigione e alla<br />
condanna inevitabile.<br />
Ma Oreste la trattenne, con una fermezza che sorprendeva<br />
in quel corpicino gracile e quasi infantile:<br />
“Madrina, lasciate stare e non preoccupatevi. Dio non<br />
vuole l’ingiustizia e mi aiuterà. Per piacere, avvertite<br />
mamma. E grazie, grazie di tutto quello che avete fatto<br />
per me. Non lo dimenticherò mai”.<br />
Inquadrato nel portone verso la strada, in mezzo ai<br />
200<br />
due militari, massicci e anonimi, mi parve ancora più<br />
mingherlino e vulnerabile. Un bambino da proteggere.<br />
Mi accorsi che lo stavo abbracciando, prima d’aver<br />
deciso di volerlo fare. Non so che cosa gli dissi, ricordo<br />
invece le sue scapole alate sotto le mie dita e la sensazione<br />
che ebbi che tutto il suo fragile corpo, anziché<br />
abbandonarsi all’abbraccio, s’irrigidisse e quasi mi respingesse.<br />
“Salutate il dottor Lorenzo per me. E perdonatemi<br />
per quello che sta capitando…” Mi disse con voce bassa<br />
e soffocata dall’emozione.<br />
Poco dopo era scomparso, e io fui colta dal panico di<br />
restare sola con mamma. Stavo per dire che avevo da<br />
fare in ambulatorio, ma mi precedette, come se anche<br />
lei avesse paura di restare sola con me e, col cipiglio<br />
d’un generale che ha fatto i suoi piani di battaglia, annunziò<br />
che voleva subito telefonare a Don Marcellino,<br />
il parroco di Dolomè, per incaricarlo d’informare comare<br />
Solinas dell’arresto di Oreste, e per chiedergli di<br />
fare qualcosa per difenderlo.<br />
– Quell’imbecille di Don Marcellino! – disse, quasi<br />
che le fosse necessario insultare qualcuno per trovare<br />
uno sfogo al proprio malumore.<br />
Poco dopo la sentii che gridava al telefono, come se<br />
volesse raggiungere la sua vittima con la sola forza<br />
della propria voce. Non capii che qualche frammento<br />
di frase, ma mi bastò per immaginare che non doveva<br />
essere quello il tono col quale il parroco di Dolomè era<br />
abituato a essere trattato.<br />
201
Ma era quello il tono che mamma era abituata ad<br />
avere, con chiunque, quando qualcosa le andava per<br />
traverso.<br />
– Se si può essere più idioti e vigliacchi! – commentò<br />
dopo aver sbattuto con violenza il telefono sulla forcella<br />
come se con quel gesto volesse schiacciare un esercito<br />
intero di preti, di carabinieri e di pusillanimi.<br />
– Mi ha detto che “preferiva esser tenuto fuori” e,<br />
solo quando ho minacciato di telefonare al vescovo, si è<br />
deciso a promettere che avrebbe mandato la sorella ad<br />
avvisare comare Solinas e che avrebbe “pregato per quel<br />
povero ragazzo”. Pezzo d’imbecille! Figurarsi, l’impressione<br />
che faranno ai giudici le sue preghiere!<br />
Mamma fremeva d’indignazione e di disprezzo. La<br />
sua solidarietà con Oreste e con comare Solinas di Dolomè<br />
era scontata. Ma Lorenzo, come avrebbe reagito<br />
Lorenzo? E che cosa avrebbe pensato di noi il padre di<br />
Lorenzo, il giudice, il rappresentante di quella legge e<br />
legalità secondo la quale Oreste era un delinquente,<br />
colpevole di uno dei delitti più orrendi, e noi che l’avevamo<br />
aiutato eravamo dei correi? Come, dopo di questo,<br />
avrei mai più potuto guardarlo negli occhi? Era<br />
questa la fine del mio matrimonio e del mio amore?<br />
Il ritorno di Lorenzo, che attendevo sempre con impazienza,<br />
questa volta avrei voluto rimandarlo, come<br />
altre volte avrei voluto rimandare certi esami difficili e<br />
inevitabili nei quali poi invece avevo sempre finito per<br />
gettarmi, con la precipitazione e la cecità con la quale<br />
ci si getta in un abisso ormai inevitabile.<br />
202<br />
PARTE QUARTA<br />
L’Isola e gli <strong>arcipelaghi</strong><br />
203
Il ritorno<br />
Milano era diventata la sua città. Nell’Isola però continuava<br />
a collocarsi la sua mitologia e fu forse quell’ormai inconsapevole<br />
nostalgia del mondo della sua infanzia che gli fece<br />
decidere d’intraprendere gli studi di veterinaria, deludendo il<br />
padre che aveva sperato che lo seguisse nella carriera giuridica.<br />
E fu il caso, o forse il suo inconscio, che, poco dopo la laurea,<br />
lo mise sulle tracce d’una condotta vacante proprio nella<br />
zona magica della sua infanzia.<br />
Per visitarla, la prima volta, fece la linea marittima da<br />
Civitavecchia. La stessa che faceva con i genitori quando tornavano<br />
nell’Isola per le vacanze. Erano passati tanti anni da<br />
allora, eppure gli pareva di riconoscere tutto: gli odori della<br />
nave, il timbro delle voci e, prima, quel chiamarsi, quei sudori<br />
e quelle lacrime delle donne nerovestite alla stazione di<br />
Roma, nel binario n. 12, davanti al treno per Civitavecchia.<br />
Quei pianti che tracciavano rivoli oleosi nei visi segnati<br />
dalla peluria scura e dalle impurità della pelle. Quelle valigie<br />
stragonfie, tenute insieme da cordicelle e cinture d’impermeabile.<br />
Quel correre confuso e affannato lungo il treno, su e<br />
giù per il marciapiede, come in attesa e alla ricerca di qualcuno<br />
che sembrava sempre essere in ritardo.<br />
205
Le valigie e i fagotti venivano ogni pochi passi posati sul cemento<br />
polveroso del marciapiede, per dar tregua alle braccia<br />
affaticate e per dar modo al portatore di guardarsi attorno,<br />
asciugandosi il sudore, in quella ricerca che sembrava destinata<br />
a restare delusa e come fine a se stessa.<br />
Le donne coi ciuffi grigiastri sfuggenti dai fazzoletti legati<br />
sotto il mento, agitate e goffe come galline spaventate. <strong>Gli</strong> uomini,<br />
inconfondibilmente isolani per gli abiti di fustagno e il<br />
berretto a visiera che l’affanno ora aveva fatto scivolare un po’<br />
di traverso, e per la figura tozza, la bassa statura e la camminata<br />
a gambe divaricate di chi sia abituato a cavalcare o<br />
a camminare su terreni scoscesi.<br />
Lì, sul cemento sporco del marciapiede, confusi e sommersi da<br />
una folla sconosciuta, in mezzo a quelle mostruose macchine<br />
sbuffanti, quegli uomini e quelle donne, così nobili e così composti<br />
nelle loro case e sulle loro montagne, sembravano una parodia<br />
di se stessi, mentre agitavano a ventola le mani larghe<br />
e scure come per guidare, o almeno fingere di guidare, un immenso<br />
gregge sconosciuto e ribelle che continuava a sfuggire e<br />
dilagare intorno a loro come in un incubo.<br />
Dove erano stati, in quale alberguccio o in quale affollato<br />
appartamento di parenti avevano abitato in quei giorni? Che<br />
cosa, quale speranza o quale paura, aveva portato quelle donne<br />
e quegli uomini nella Capitale?<br />
Durante la sua infanzia, per Lorenzo non erano stati che<br />
uno spettacolo, un preludio anzi alle lunghe giornate di sole e<br />
di libertà, alle gite in campagna negli ovili dei parenti benestanti<br />
che si sarebbero occupati di lui e dei suoi genitori come di<br />
una famiglia principesca che si sentivano onorati di ricevere.<br />
206<br />
In campagna Lorenzo avrebbe avuto il permesso di montare<br />
a cavallo. Degli uomini uguali a quelli che già vedeva alla<br />
stazione di Roma, ma da loro così diversi per la sicurezza e<br />
nobilità dei modi, avrebbero scelto per lui il cavallo più mansueto<br />
che poi avrebbero devotamente tenuto per la cavezza, guidandolo<br />
per i sentieri più belli e più sicuri.<br />
Quegli uomini, quelle donne, le loro valigie sgangherate e i<br />
loro pianti e sudori, per lui bambino erano stati solo spettacolo.<br />
Spettacolo come i chiassosi e servizievoli portabagagli nel<br />
porto di Civitavecchia e come all’alba, all’arrivo, la vista<br />
delle coste e, nello sfondo, dei monti colorati di rosa che cominciavano<br />
a sorgere dal mare.<br />
Mentre si stringevano sul ponte, un po’ infreddoliti, in<br />
mezzo alla folla, la mamma non mancava mai di dire: – Lo<br />
senti, il profumo del mirto e del rosmarino? – E allora era<br />
quasi un obbligo respirare profondamente. E, insieme all’odore<br />
di salsedine davvero già si sentiva il profumo della macchia.<br />
Il profumo dell’Isola.<br />
La nave continuava il suo corso nel lunghissimo fiordo, e<br />
mano mano che vi s’addentrava, si scopriva che quella che era<br />
sembrata una costa frastagliata ma compatta era tutta una<br />
serie d’<strong>arcipelaghi</strong> le cui isole e isolette, quando ci si avvicinava<br />
e cambiava la prospettiva, cambiavano aspetto e dimensioni<br />
e insieme alle loro diversità rivelavano le insospettate distanze<br />
che le separavano.<br />
207
Performance<br />
Son passati anni da allora, e non val la pena di provare<br />
a contarli. Il tempo procede a balzi e qualche<br />
volta si ferma del tutto, o forse impercettibilmente<br />
scivola e solo dopo, quando troppe cose sono irrimediabilmente<br />
accadute, ci accorgiamo che gli anni sono<br />
passati e che noi e gli altri, quelli ai quali volevamo<br />
bene, o male, siamo cambiati e le ragioni dell’amore e<br />
dell’odio non esistono più se non come una polvere sul<br />
vecchio mobilio del tempo.<br />
Altre volte il balzo del tempo è così inatteso e fulmineo<br />
che tutto ciò che è avvenuto prima di quell’attimo<br />
impallidisce e si confonde.<br />
Così è per me il tempo, se provo a ripensarlo, a riassumerlo,<br />
a sistemarlo in cronologie più o meno esatte.<br />
Tutto ciò che riesco a ottenere è un arcipelago di ricordi<br />
che affiorano ad altezze e con superfici diverse in<br />
un’acqua liscia, uniforme, orizzontale. Più che una<br />
successione d’eventi in un fiume che scorre, una contemporaneità<br />
anche spaziale.<br />
Così fu ed è il mio tempo, quando provo a pensarlo.<br />
Come il tempo sia e sia stato in una prigione, non rie-<br />
209
sco a immaginarlo. Mi fermo al primo tentativo di<br />
dargli una struttura nelle sue dimensioni di quotidianità<br />
e nelle sue differenziazioni, se ci sono e se ci furono,<br />
tra giorni feriali e festivi, nei mesi, nelle stagioni,<br />
negli anni. Perché fu un tempo fatto di anni quello<br />
che lui, il ragazzo Oreste, dovette vivere in una lunghezza<br />
e monotonia interrotte solo dai processi e, ogni<br />
volta, dalle rinnovate speranze e delusioni. Ma subito,<br />
a questo punto, il mio sforzo d’immaginazione si scontra<br />
con un ostacolo che non so né aggirare né superare.<br />
La mia fantasia si rifiuta e dirotta.<br />
E lui, il ragazzo Oreste, riesco a vederlo soltanto come<br />
i due segni di una parentesi. Il primo segno, quello<br />
d’apertura, quando tra i due carabinieri che vicino<br />
a lui sembrano enormi e onnipotenti s’inquadra di<br />
spalle nel portoncino della mia casa di Trezene; il secondo,<br />
quello di chiusura - ma è solo un’immagine<br />
rapidissima dalla quale subito i miei occhi si ritraggono<br />
per non più posarcisi - quando lo rividi, nella<br />
gabbia smisurata e solitaria degli imputati, nel Palazzo<br />
di Giustizia a Roma.<br />
Piccolo, fragilissimo, ma composto. Uno scheletrino<br />
tenuto insieme da una ferrea volontà di decoro. Un passero,<br />
nella gabbia assurda dei ferini.<br />
Questi i due segni della parentesi. Ciò che la parentesi<br />
contenne non riesco a rappresentarmelo, oggi. Come<br />
allora, quando il tempo ancora era al presente, mi<br />
rifiutavo di conoscerlo.<br />
Anche quel giorno distolsi subito gli occhi e non li<br />
210<br />
posai più su di lui. Non so se i suoi fossero fissi su di<br />
me durante la mia deposizione. Io, dopo quello sguardo<br />
fugace e involontario che gli gettai, entrando nella<br />
vasta sala illuminata, posai i miei occhi, calmi, diretti,<br />
sui giudici, sugli avvocati, e sul mio e cioè il suo avvocato.<br />
E da quel momento fui un’attrice, sola sulla scena<br />
ma sicura di poter dominare, convincere il suo pubblico.<br />
Sicura d’avere il ruolo più accattivante del dramma.<br />
Quasi commedia, mi parve, mentre lo recitavo.<br />
I giudici, gli avvocati, il mio avvocato, le altre persone<br />
presenti allineate negli scanni, erano il “pubblico”<br />
che dentro di me freddamente valutavo per scegliere<br />
la chiave della mia recitazione mentre il mio viso,<br />
il mio corpo, la mia voce, le mie parole talvolta calcolatamente<br />
esitanti, esprimevano quell’onestà e nobiltà,<br />
quella timidezza, che erano del mio ruolo. Sapevo<br />
d’essere carina, e se non lo avessi saputo lo avrei<br />
letto negli sguardi incollati sulla mia persona, e nei<br />
corpi dei giudici e degli avvocati che impercettibilmente<br />
e progressivamente s’inclinavano, obliqui, verso<br />
di me, mentre rispondevo alle loro domande. Non<br />
mentivo, naturalmente, ma in rapporto alla “causa”<br />
tutto ciò che dissi, il mio stesso essere lì, il mio modo<br />
d’esserci, non fu che un dirottamento dalla verità sostanziale,<br />
mentre irreprensibilmente mi muovevo sui<br />
binari della verità formale. O forse era esattamente il<br />
contrario. Ci metterò forse ancora degli anni, prima di<br />
saperlo.<br />
Era estate e indossavo un abito di seta verde acqua,<br />
211
sobrio, elegante, molto femminile ma non direttamente<br />
provocante. Sobrio, elegante e fresco, un po’ ingenuo<br />
e molto onesto, era anche il profumo di colonia<br />
che la mia persona e i miei indumenti emanavano. Sapevo<br />
d’essere la perfetta immagine di ciò che dovevo<br />
essere: una giovane, stimata professionista, prodotto e<br />
rappresentante di quella piccola aristocrazia provinciale<br />
e borghesia intellettuale di cui anche i giudici e<br />
gli avvocati erano rappresentanti e prodotto. Alla solidarietà<br />
di classe e di sfondo culturale, che subito s’era<br />
fatta palese tra loro e me, s’aggiungeva l’aureola di<br />
simpatia e d’interesse che ancora mi circondava a causa<br />
del libro e, forse ancora di più, di quella mia azione di<br />
salvataggio, fortunata nel suo esito ma quasi pazzesca<br />
e irresponsabile dal punto di vista professionale, alla<br />
quale giornali e rotocalchi avevano dato più spazio di<br />
quanto meritasse.<br />
Era quella donna giovane e carina, toccata dalla magia<br />
di una sia pure effimera celebrità, che giudici e avvocati<br />
- tutti maschi - si bevevano con gli occhi. Forse<br />
neppure ascoltavano le piccole e insulse storie di vita<br />
quotidiana che stava raccontando. Storie nelle quali<br />
l’accusato, il presunto omicida, appariva come un ragazzino<br />
mite e quasi bigotto nella sua scrupolosa religiosità,<br />
meticoloso nel suo lavoro, avido di quella stessa<br />
letteratura giovanile cha a suo tempo giudici e avvocati<br />
dovevano aver gustato. Simile dunque a loro, e perciò<br />
difficilmente colpevole del delitto di cui lo si accusava.<br />
In uno stato di lucidissima, autoconsapevole trance,<br />
212<br />
parlavo calma, a voce quasi bassa, sapendo di recitare<br />
- di recitare bene - un’assoluta verità formale e una sostanziale<br />
menzogna. Ma in quel momento non si trattava<br />
più del ragazzo Oreste, lì nella gabbia, colpevole<br />
o innocente che fosse, della sua assoluzione o della sua<br />
condanna. Per me in quel momento si trattava di condurre<br />
il più brillantemente possibile a termine un compito<br />
che, sia pure contro voglia, avevo accettato d’assumermi.<br />
Non si trattava di lui e di un suo eventuale<br />
salvataggio, si trattava di me, del ruolo che mi ero trovata<br />
a recitare e che, col puntiglio che ho sempre<br />
messo nell’assolvere bene i miei compiti, cercavo di recitare<br />
meglio che potevo.<br />
Appena pochi minuti prima, nella saletta angusta e<br />
semibuia dei testimoni, ero in preda al panico e alla<br />
nausea. Dopo i corridoi e le scale enormi, fatti per impressionare<br />
e per smarrircisi, quello stambugio mi era<br />
parso ancora più tenebroso e incomodo.<br />
Nelle panche lungo le pareti stavano seduti degli uomini<br />
vestiti del fustagno verdastro dei pastori, il berretto<br />
a visiera calato sulla fronte, i gambali e gli scarponi<br />
informi di cuoio grasso. Silenziosi e immobili come<br />
statue. Alcuni sedevano per terra, i gomiti appoggiati<br />
alle ginocchia, il mento nel cavo delle mani. Una<br />
donna giovane ma precocemente sciupata, avvolta in<br />
uno scialle scuro che la copriva dalla testa ai piedi, se<br />
ne stava accoccolata, solitaria e spaurita, nell’angolo tra<br />
la porta e la finestra.<br />
Una zaffata di cattivo odore mi aveva accolto. Odore<br />
213
di sego, e di corpi e d’indumenti chissà da quando non<br />
lavati. Odore di sudore e odore d’ansia.<br />
Ero rimasta in piedi guardandomi attorno con disagio,<br />
in preda alla nausea e al capogiro. Poi, l’usciere<br />
che poco prima mi aveva accompagnato, era tornato<br />
con una sedia. Appena seduta, avevo estratto dalla<br />
borsa il fazzolettino profumato e vi avevo respirato<br />
profondamente, filtrando l’aria e il suo cattivo odore.<br />
Subito, ma troppo tardi, me n’ero vergognata. Mentre<br />
rimettevo il fazzolettino nella borsa, mi ero guardata<br />
attorno per controllare se qualcuno mi aveva osservato<br />
e condannato. <strong>Gli</strong> uomini erano immobili e silenziosi,<br />
gli sguardi abbassati sulle loro mani spesse dalle vene<br />
affioranti, come isolati in una segreta, necessaria meditazione<br />
prima della battaglia. Per un momento mi<br />
parvero dei prigionieri. Prigionieri di guerra negli<br />
sconosciuti e infidi territori del nemico.<br />
La donna invece guardava dritto davanti a sé, in<br />
qualche punto impreciso alle mie spalle. <strong>Gli</strong> occhi<br />
verdi e larghi erano spalancati e nudi nel viso pallidissimo,<br />
la sola parte di lei che, insieme ad alcune dita di<br />
una mano, emergesse dai drappeggi dello scialle. Le<br />
sue labbra si muovevano quasi impercettibilmente.<br />
Forse pregava. Forse parlava con qualcuno che l’accompagnava<br />
nei suoi pensieri. Forse si preparava mentalmente<br />
le risposte che voleva dare o che le era stato<br />
ordinato di dare.<br />
Anche lei, come gli altri, aveva una sua verità e una<br />
sua menzogna da recitare, parti e aspetti della verità e<br />
214<br />
menzogna complessiva. Forse qualcuno di quegli uomini<br />
aveva visto e riconosciuto il ragazzo Oreste quella<br />
sera di pioggia e di tuoni. E allora la loro verità - o<br />
menzogna - era in rapporto alla “causa” più verità e<br />
meno menzogna della mia menzogna-verità.<br />
Ma io ero vestita di seta e loro erano vestiti di rozzo<br />
fustagno; io ero profumata di lavanda e loro puzzavano<br />
di sego e di sudore; io ero stata portata alle stelle<br />
per il mio libro ed esaltata per il mio cosiddetto “atto<br />
eroico”, loro forse non avevano neppure una fedina<br />
penale immacolata; io parlavo bene l’italiano e loro<br />
parlavano quella loro lingua arcaica che i giudici non<br />
erano obbligati a conoscere e non conoscevano.<br />
Costretti a parlare in italiano si sarebbero espressi<br />
male, la loro lingua sarebbe stata imprecisa e rozza, fastidiosa<br />
per chi li ascoltava. Io, insieme ai giudici e<br />
agli avvocati, ero fra la mia gente, fra i miei pari, loro<br />
sarebbero stati in territorio nemico.<br />
Mentre in quella stanzetta mal illuminata e greve<br />
d’odori e d’ansia aspettavo d’essere chiamata a deporre,<br />
sentivo la mia situazione di privilegio come un’ingiustizia<br />
odiosa, alla quale però, per quanto odiosa mi apparisse,<br />
sapevo che né in quell’occasione né in altra<br />
avrei mai voluto rinunziare.<br />
Questo è un ricordo. Una delle sparse e numerose isole<br />
e isolette coesistenti nell’arcipelago della memoria.<br />
Ma nell’acqua di quel tempo che durò anni emerge,<br />
come un’isola più vasta di tutte le altre, soleggiata e<br />
215
piana, quasi senza ombre, il ricordo della mia vita, allora,<br />
con Lorenzo. L’isola estesa e solitaria alla quale<br />
nessuno aveva il permesso d’accedere. Lo spazio che difendevo<br />
contro ogni minaccia vera o immaginaria, contro<br />
ogni intrusione, e nel quale neppure mamma per<br />
molto tempo aveva osato tentare irruzioni.<br />
Più che spazio però, forse era stato un alibi. Una<br />
fuga, forse, da quel mondo che era anche mio ma che<br />
così testardamente rifiutavo.<br />
L’ostinazione stessa del rifiuto era la prova della<br />
mia debolezza e dipendenza.<br />
Se solo fossi stata in grado di capire. E di abbandonarmi<br />
senza lottare.<br />
216<br />
Lo schiaffo<br />
Forse comare Solinas di Dolomè era fra i presenti. In<br />
quel gruppo indistinto di persone che i miei occhi<br />
percepivano senza veramente vederle. Certo, doveva<br />
esserci. Era il giorno in cui tutto si sarebbe deciso, non<br />
solo per Oreste ma anche e soprattutto per lei. A costo<br />
di vendersi lo scialle per pagarsi il biglietto di viaggio,<br />
non avrebbe rinunziato a essere lì.<br />
Io, da quando con quella rivelazione di cui sembrava<br />
così fiera mi aveva irrimediabilmente mescolato alla<br />
sua storia, non l’avevo più incontrata. O più precisamente,<br />
mi ero rifiutata di incontrarla.<br />
Avvertita da Don Marcellino, era arrivata a Trezene<br />
con la prima corriera del mattino il giorno dopo l’arresto<br />
di Oreste. Io avevo appena finito di vestirmi e mi<br />
preparavo a scendere in ambulatorio quando, da dietro<br />
i vetri della finestra, la vidi mentre attraversava la<br />
piazza. Avvolta da capo a piedi nel suo scialle nero, mi<br />
parve un grande uccello di malaugurio. Sentii di nuovo<br />
tutta la mia avversione che montava in superficie e<br />
stava per traboccare come la schiuma di un latte in<br />
ebollizione.<br />
217
Mi ritirai rapidamente dalla finestra e mi misi a sedere<br />
davanti allo specchio, fingendo di pettinarmi. Poco<br />
dopo mamma venne a chiamarmi, ma non le diedi<br />
tempo di parlare. Le dissi, quasi gridando, che comare<br />
Solinas non volevo vederla, che non avevo nulla da<br />
dirle e che non volevo sentire che cosa voleva dire, che<br />
le raccontasse che ero morta, se voleva, o che ero fuggita<br />
con uno zingaro, o qualunque altra cosa, purché<br />
mi risparmiasse l’incontro con quella donna che avrebbe,<br />
lei, dovuto marcire sino alla fine dei suoi giorni in<br />
una prigione…<br />
Più parlavo e più mi eccitavo, incapace ormai di dominarmi,<br />
in preda a un raptus. Non ricordo se mamma<br />
provò ad argomentare. Ricordo soltanto che fece<br />
qualche passo nella stanza e che all’improvviso mi sovrastò<br />
di tutta la sua statura e mi diede uno schiaffo.<br />
Poi, senza guardarmi e senza dire una sola parola, tornò<br />
verso la porta, uscì e la chiuse dietro di sé badando<br />
a non sbatterla.<br />
Rimasi a sfregarmi la guancia, incapace di reagire.<br />
Era il primo, e il solo schiaffo della mia vita. Ciò che<br />
provavo era più che altro stupore. Come se quello<br />
schiaffo mi avesse bruscamente svegliato da un sogno<br />
o da un incubo le cui nebbie però ancora velavano la<br />
mia capacità di pensare.<br />
Fu un episodio di cui non parlai mai con nessuno, e<br />
tanto meno con Lorenzo. Non ne parlai mai neppure<br />
con mamma. Potrei quasi credere d’averlo immaginato.<br />
In ogni modo mamma rispettò la mia volontà.<br />
218<br />
Non so come mi giustificò con comare Solinas, e se fu<br />
necessario giustificarmi in qualche modo. Ma da quella<br />
volta non mi parlò mai più direttamente di lei o di<br />
Oreste. Sino al giorno in cui l’avvocato Strofio chiese<br />
di incontrarmi.<br />
219
Lorenzo<br />
Qualche giorno dopo l’arresto di Oreste, Lorenzo era<br />
tornato da Milano, dove si trovava per una delle solite<br />
visite ai genitori. Io l’avevo atteso con ansia crescente.<br />
Ormai il segreto che credevo di essere riuscita a nascondergli<br />
per tutto quel tempo, non era più possibile<br />
tenerlo.<br />
Benché lo condividessi, temevo il giudizio che avrebbe<br />
dato di mamma e di me. Della nostra famiglia che<br />
si era lasciata mescolare a una storia così tetra, così terribile,<br />
così primitiva.<br />
Omertà, questa era la parola che temevo di sentirgli<br />
pronunziare. Una parola e un giudizio che mi parevano<br />
meritati e giusti. E infamanti.<br />
E invece, avevo appena cominciato a raccontargli<br />
dell’arresto, che già diceva di voler telefonare al padre<br />
per chiedergli consiglio. Il padre forse poteva anche<br />
darci il nome di qualche avvocato capace e onesto che<br />
potesse difendere Oreste con efficacia e senza dissanguare<br />
la famiglia, diceva. Oreste non doveva passare<br />
un giorno di più nel carcere di Trezene, dove magari<br />
l’avevano messo insieme a delinquenti comuni che lo<br />
221
maltrattavano o approfittavano di lui e della sua innocenza.<br />
Lo guardai sorpresa, domandandomi se, nonostante<br />
ciò che sia pure con qualche reticenza gli avevo detto,<br />
non avesse ancora capito che Oreste non era accusato<br />
ingiustamente di un delitto che non aveva commesso.<br />
Mi sfiorò anche il pensiero, così ridicolo, grottesco a<br />
ricordarlo oggi, che quella sua reazione fosse un omaggio,<br />
che stava facendo a me personalmente per confermarmi<br />
la sua devozione e dirmi che per amor mio era<br />
disposto ad accettare anche il mio ambiente e chiudere<br />
gli occhi su quel tetro medioevo che ne emergeva.<br />
Sentivo il dovere d’informarlo, ma avevo paura. Se<br />
nella sua ingenuità “continentale” non era ancora riuscito<br />
ad afferrare che Oreste era colpevole del delitto<br />
di cui lo si accusava, quando lo avesse capito non<br />
avrebbe potuto che condannarci e rinnegarci. E io non<br />
potevo rinunziare a lui. Senza di lui la vita sarebbe<br />
stata per me un buio continuo e insopportabile.<br />
Ma quando ci trovammo soli nella nostra camera e<br />
ripeté il suo proposito di chiedere aiuto al padre in favore<br />
di Oreste, mi sentii costretta a dirgli con fermezza<br />
che il padre era meglio lasciarlo fuori da quella storia.<br />
– Perché? – mi rispose. E pareva sorpreso. – Perché<br />
non dovrei chiedergli di aiutarci a salvare una vita umana?<br />
Non è forse quello che tu cerchi di fare ogni giorno<br />
col tuo lavoro?<br />
– Ma se Oreste fosse colpevole? – azzardai, incerta.<br />
222<br />
– Si tratta di sapere che cosa s’intende per colpevole,<br />
– rispose.<br />
– Colpevole… di ciò di cui lo accusano… Ti sembrerebbe<br />
giusto aiutarlo?<br />
– E perché no? A chi credi che gioverebbe tenere un<br />
ragazzo come lui in carcere? Non penserai che se lo rimettono<br />
in libertà, rifarà ciò che ha fatto!<br />
– Fatto? – ripetei come un’ebete, per darmi tempo<br />
di riprendere fiato e pensare.<br />
– Sì! fatto! Ma a prescindere da ciò, ti pare che Oreste<br />
sia una persona pericolosa che occorre isolare? Perché,<br />
naturalmente, l’unica giustificazione per privare<br />
un essere umano della sua libertà è quella di impedirgli<br />
di continuare a essere pericoloso e nocivo a sé e<br />
agli altri.<br />
Si volse per trasportare la valigia che era rimasta vicino<br />
alla porta, e sembrava quasi che considerasse chiusa<br />
la discussione.<br />
– Ma, Oreste… – cominciai a dire, all’improvviso<br />
tentata di provare a fargli credere che Oreste non aveva<br />
ucciso. Per fortuna non mi lasciò terminare.<br />
– Oreste ha ucciso un uomo, e ha fatto male, e soprattutto<br />
ha fatto molto male chi gli ha chiesto di uccidere.<br />
Ma a che cosa e a chi servirebbe tenerlo in carcere?<br />
– Dunque lo sapevi… – non mi trattenni dal dire.<br />
– Certo che lo sapevo. Perché non avrei dovuto saperlo?<br />
Non riuscivo a capire, non riuscivo a credere:<br />
223
– Sapevi e… lo vuoi aiutare… Non ti pare che sia<br />
giusto che… paghi.<br />
Lorenzo mi gettò un’occhiata di sbieco, mentre si<br />
chinava per aprire la valigia che aveva posato sul letto.<br />
– Giusto che paghi?… Ma di che cosa stai parlando?<br />
Che cosa credi che la società o l’umanità ci guadagnerebbero<br />
a farlo marcire in carcere, e corromperlo…<br />
uno come Oreste?<br />
Era davvero “farlo marcire in carcere” ciò che io volevo?<br />
O che cosa volevo? e che cosa voleva Lorenzo,<br />
l’uomo di un’altra civiltà?<br />
– Ma allora, secondo te, se uno ha ucciso… ma in<br />
fondo non è cattivo… uno non merita di essere punito?<br />
– Punito? – sembrava sorpreso di quella parola. Senza<br />
smettere di armeggiare con la roba che estraeva dalla<br />
valigia, si volse di nuovo a guardarmi. Dopo una<br />
pausa piuttosto lunga, disse:<br />
– Credi davvero che la paura della punizione possa<br />
trattenerci dal commettere un delitto, se non ci sono<br />
altri motivi per impedirci di commetterlo? E credi che<br />
tutti noi che proviamo a comportarci bene lo facciamo<br />
perché abbiamo paura delle punizioni? Son sicuro che<br />
non è questo che pensi…<br />
Qualcosa mi si stava sbriciolando dentro, e nel panico<br />
diventavo aggressiva, illogica.<br />
– La legge… la giustizia, perché ci sarebbero? Non<br />
contano nulla, allora? Secondo te son cose elastiche, da<br />
prendere o lasciare a seconda dell’umore?<br />
224<br />
– Questo non l’ho mai detto! – mi rispose vivacemente,<br />
ma senza alzare la voce.<br />
– Purché non ci si prenda l’abitudine, e non lo si faccia<br />
per cattiveria dunque secondo te si avrebbe anche<br />
il diritto d’uccidere…<br />
Tentavo l’ironia, e sentivo con disperazione la falsità<br />
delle mie parole. Ma la consapevolezza della mia stessa<br />
insincerità aumentava la mia violenza.<br />
– Bravi, bravi, uccidete pure… ma non più di una<br />
volta!<br />
Lorenzo continuava a riordinare la sua roba, mettendo<br />
nei cassetti e nell’armadio gli indumenti puliti,<br />
nella sacca della lavanderia la biancheria usata. Senza<br />
guardarmi, senza rispondere. Come se neppure mi<br />
ascoltasse.<br />
Il suo silenzio mi rendeva impotente e aumentava la<br />
mia esasperazione.<br />
– E questa sarebbe giustizia secondo te? Davvero<br />
una bella giustizia, ti assicuro!<br />
C’era in tutto ciò che dicevo una veemenza e un’aggressività<br />
che non avevo premeditato e che mi confondevano.<br />
– La legge è scritta dagli uomini e per gli uomini, e<br />
la giustizia ha molti aspetti.<br />
Rispose finalmente, quasi sottovoce, con tono neutro<br />
e come se non avesse colto la mia aggressività.<br />
Stava mettendo la valigia nello scomparto più alto<br />
dell’armadio e lo vedevo di spalle, con le braccia tese e<br />
alzate. Il suo dorso lungo e muscoloso nella camicia di<br />
225
cotone chiaro mi dava voglia d’abbracciarlo, di sentire<br />
la sua forza e il suo tepore. Ma anche il desiderio si trasformava<br />
in aggressività disperata.<br />
– Sei tu che lo dici! La giustizia non ha molti aspetti,<br />
la giustizia è molto semplice, la giustizia è che chi<br />
rompe paga!<br />
La mia voce era stridula e di alcuni toni troppo alta.<br />
Me ne vergognai, e mi vergognai della banalità di ciò<br />
che stavo dicendo.<br />
Lorenzo si volse e mi guardò direttamente in viso,<br />
come sorpreso della mia agitazione.<br />
– Questo tuo concetto della giustizia non è diverso<br />
da quello che ha armato la mano di Oreste. Anche Oreste,<br />
e soprattutto la madre e tutta la tradizione dietro<br />
di lei, ritengono che ‘chi ha rotto deve pagare’. E quando<br />
polizia, carabinieri e magistrati non sono in grado<br />
di ‘far pagare’, son loro, i colpiti, che devono ristabilire<br />
questa famosa ‘giustizia’, quest’equilibrio pseudodivino<br />
tra le cosiddette colpe e le pene. La civilissima<br />
legge del taglione: occhio per occhio, dente per dente.<br />
A me, francamente, quest’equilibrio sublime, questa<br />
giustizia, mi fanno orrore.<br />
Il suo tono non era aggressivo, e la voce continuava<br />
a essere bassa e calma. Ma le sue parole mi colpirono<br />
come una gragnuola di schiaffi. Lo guardavo terrorizzata,<br />
senza riuscire a parlare. Era la prima volta che litigavamo,<br />
se era quello che stavamo facendo, e mi<br />
parve che un enorme abisso si stesse spalancando tra<br />
noi. E questo per colpa di Oreste, e di sua madre, e di<br />
226<br />
mia madre, e di tutto quello sporco mondo che anche<br />
io dunque, secondo Lorenzo, mi portavo dentro e rappresentavo<br />
proprio nel momento in cui credevo di<br />
combatterlo.<br />
Ero atterrita, ma non riuscivo a fermarmi:<br />
– Spiegami allora quale sarebbe il tuo concetto di<br />
giustizia. Sarebbe che nessuno è responsabile di niente<br />
e che chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato…<br />
Mi sarei presa a schiaffi per la banalità delle parole<br />
che mi stavano uscendo di bocca, e per la rozzezza del<br />
pensiero che esprimevano. Se c’era un pensiero.<br />
Ma continuai senza riuscire a frenarmi, come se corressi<br />
giù per una discesa che mi portava direttamente<br />
nel fondo di un burrone dal quale non sarei mai più<br />
potuta risalire e nel quale fra un attimo mi sarei sfracellata.<br />
– Che ognuno faccia quello che gli sembra giusto<br />
fare, tanto tutto è indifferente. La giustizia non esiste,<br />
la legge è fatta dagli uomini e per gli uomini e perciò<br />
ognuno se la può aggiustare a modo suo. Chiudiamo i<br />
tribunali, mandiamo in pensione tutti i giudici e i poliziotti<br />
e apriamo le carceri, per fare un mondo più<br />
bello e più giusto… per i delinquenti. È questo che<br />
vuoi?<br />
Mi ero messa a gridare, ma rifiutavo dentro di me<br />
ognuna delle parole che mi sentivo pronunziare. Sapevo<br />
di essere ingiusta e volgare, ma mentre la disperazione<br />
e l’impotenza crescevano, soffocandomi e annebbiandomi,<br />
non riuscivo a cambiare tono. Sapevo di<br />
227
accusarlo di cose insensate, ma continuavo come se<br />
un’altra persona parlasse per bocca mia.<br />
Se Lorenzo in quel momento non fosse venuto ad abbracciarmi,<br />
forse mi sarei buttata per terra, o forse<br />
avrei cominciato a scagliare oggetti, o forse sarei scoppiata<br />
a piangere. O forse avrei fatto tutte queste cose<br />
insieme e altre più o meno folli e disperate. Ma quando<br />
mi posò le mani sulle spalle e mi guardò direttamente<br />
negli occhi, tornai in me. Per un momento il<br />
mio orgoglio mi costrinse a irrigidirmi, a rifiutarmi.<br />
Subito dopo però il mio corpo non poteva far a meno<br />
di abbandonarsi al suo con la devota docilità di sempre.<br />
– Sì, perché no?… Un mondo più bello e più giusto<br />
anche per i delinquenti, che sono i più disgraziati<br />
di tutti!<br />
– Sarebbe bello chiudere le carceri e rendere superflui<br />
i giudici e i poliziotti… – continuava a dire, tenendomi<br />
fra le braccia e parlandomi all’orecchio, come<br />
se mi stesse confidando un segreto. – Renderli superflui<br />
col creare una società più giusta e più civile, più<br />
allegra e costruttiva, non vendicativa ma soccorrevole…<br />
Non ti pare che la nostra casa, la nostra famiglia,<br />
fossero un luogo ben migliore di un carcere per recuperare<br />
Oreste alla felicità?<br />
Aveva detto “la nostra casa”, “la nostra famiglia”, e in<br />
quel momento ciò mi parve la cosa più importante di<br />
tutto il suo discorso.<br />
– Non capisci che per tutti noi, e anche per quel po-<br />
228<br />
vero ragazzo, è della felicità che si tratta? Che la giustizia<br />
senza la felicità è tetra e morta?<br />
Tenendoci abbracciati eravamo finiti sul letto e continuava<br />
a dirmi quelle strane cose, senza smettere di<br />
carezzarmi. Anch’io, con dita impazienti e annaspanti<br />
lottavo con la fibbia della sua cintura, impedita dal<br />
mio stesso bisogno di far presto. Ciò che diceva avevo<br />
rinunziato a capirlo.<br />
229
L’avvocato Strofio<br />
L’avvocato Strofio era stato compagno di liceo e amico<br />
di babbo tutta la vita. Durante la mia infanzia l’avevo<br />
visto spesso, quando veniva a Trezene in occasione<br />
di qualche processo in Corte d’Assise, e babbo<br />
insisteva perché fosse nostro ospite. Babbo era di poche<br />
parole e non gli piaceva ripetere le cose risapute,<br />
ma quando l’avvocato Strofio ripartiva, mamma non<br />
finiva di tesserne le lodi: per la signorilità dei modi,<br />
per l’eloquenza, l’abilità, ma anche per l’onestà e l’impegno<br />
civile e politico.<br />
Non c’era tra lui e noi una vera e propria parentela,<br />
ma sin da bambina mi ero abituata a considerarlo come<br />
una specie di zio.<br />
Per la sua elezione a senatore aveva avuto anche il<br />
mio voto e quello di Lorenzo. E naturalmente quello<br />
di mamma che, nel suo entusiasmo poco c’era mancato<br />
che non si mettesse in giro a fargli la campagna elettorale.<br />
Seppi solo all’ultimo momento, il giorno prima del<br />
suo arrivo, e quando un colloquio con lui era inevita-<br />
231
ile, che mamma l’aveva convinto a prendere le difese<br />
di Oreste e che lui aveva chiesto di parlarmi per chiedermi<br />
di deporre in suo favore.<br />
Il mio libro era uscito da qualche mese e il ricordo<br />
di quel mio cosiddetto eroismo professionale era ancora<br />
fresco. Ero sicura che erano queste circostanze che<br />
l’avvocato Strofio voleva sfruttare in favore del suo patrocinato.<br />
Ma io ero decisa a rifiutarmi di deporre.<br />
Avevo degli ottimi ricordi di Oreste, come persona.<br />
Ricordavo anche la tenerezza che mi faceva e ripensavo<br />
qualche volta alle sue manine deturpate da quelle escrescenze<br />
che probabilmente erano il solo cedimento che<br />
il suo essere si permettesse verso un sentimento di colpa.<br />
Ma io disgraziatamente lo sapevo colpevole del delitto<br />
di cui lo si accusava. Io non volevo prestarmi a<br />
nuove ingiustizie.<br />
Dal giorno in cui, fra due carabinieri in uniforme,<br />
era uscito dalla mia casa e, almeno relativamente, dalla<br />
mia vita, erano passati anni. Oreste doveva ormai<br />
avere una quindicina d’anni o forse più, ma non riuscivo<br />
a immaginarmelo cresciuto.<br />
Dopo il primo periodo nel carcere di Trezene, era<br />
stato inviato a un carcere minorile. Probabilmente a<br />
C. o a S., se a C., o a S. c’è un carcere minorile. Ho ricordi<br />
e conoscenze confusi di ciò che realmente avvenne.<br />
Forse riuscii veramente a filtrare le informazioni,<br />
come mi ero proposta di fare per non lasciarmi<br />
coinvolgere. O forse qualche meccanismo psichico di<br />
232<br />
censura che allora si mise in moto, ancora non ha<br />
smesso di funzionare e di offuscare la mia memoria.<br />
So che ci furono due processi. L’ultima condanna era<br />
stata a venticinque anni di carcere, per omicidio premeditato.<br />
Non so se gli erano state concesse delle attenuanti o<br />
se poteva sperare in speciali condoni per la giovane<br />
età. La sola cosa che sapevo e so con certezza è che era<br />
stato irremovibile nel dichiararsi innocente. Certe volte,<br />
ascoltando di sfuggita i racconti e i commenti che<br />
mamma, Euriclea e talvolta anche Lorenzo ne facevano,<br />
mi domandavo se magari io non avessi frainteso<br />
tutto sin da principio e Oreste davvero non avesse<br />
commesso quel delitto.<br />
Ma cercavo d’estraniarmi quanto potevo, e i miei ricordi,<br />
o non ricordi, di quanto gli accadde in quegli<br />
anni sono più che altro supposizioni a posteriori. Una<br />
volta per tutte avevo deciso di continuare a vivere a<br />
Trezene, per non lasciare mamma sola e anche perché<br />
Lorenzo era contento di starci. Ma non volevo, a nessun<br />
costo, lasciarmi coinvolgere emotivamente da<br />
quella società alla quale mi sentivo estranea e in mezzo<br />
alla quale, non per mia scelta, ero nata e le circostanze<br />
m’obbligavano a vivere.<br />
Avevo deciso di continuare a viverci, ma mi ero proposta<br />
di viverci a modo mio. Mi ero proposta di seguire<br />
le orme di babbo esercitando meglio che potevo<br />
la mia professione, continuando le sue ricerche e organizzandole<br />
in un libro che m’auguravo avesse qualche<br />
233
validità scientifica e fosse un dovuto omaggio alla sua<br />
memoria. E mi ero proposta di vivere meglio che potevo<br />
la mia felicità privata con Lorenzo, di proteggerla<br />
dalle troppe minacce che anche il problema Oreste conteneva<br />
per la nostra armonia. Questo era tutto. Non<br />
c’era posto in questo mio spazio personale per il mondo<br />
fosco e anacronistico di cui Dolomè e comare Solinas<br />
e Oreste e tutti loro erano dei sopravvissuti, atroci<br />
campioni.<br />
Ma l’iniziativa di mamma di chiedere all’avvocato<br />
Strofio di patrocinare la causa di Oreste, e il colloquio<br />
che lui aveva chiesto d’avere con me, mi avevano di<br />
nuovo gettato nel dilemma e nell’angoscia. Mi pareva<br />
che una mia deposizione, naturalmente a favore del<br />
ragazzo, perché altro non era pensabile, avrebbe inevitabilmente<br />
coinvolto oltre che la mia coscienza anche<br />
Lorenzo e la sua famiglia. E questo non mi pareva<br />
giusto.<br />
Non era giusto! Qualunque cosa lui stesso ne pensasse,<br />
non mi pareva giusto che anche lui venisse catturato<br />
in questa rete di barbarie e di omertà nella<br />
quale tutti evidentemente, volenti o nolenti, prima o<br />
poi, in questo nostro arretrato paese siamo costretti a<br />
cadere. Ma lui era solo in piccola parte dei nostri, e<br />
perciò ancora di più la cosa mi pareva inaccettabile.<br />
Ma per la fusione dei nostri esseri, che a quei tempi<br />
ancora mi pareva realizzabile, tutte quelle cose taciute<br />
o tenute allo scarto, erano state la grande menzogna, il<br />
234<br />
grande ostacolo. Il lavoro al libro, l’aiuto che gli avevo<br />
chiesto e che mi aveva dato per risolvere i miei dubbi,<br />
i nostri scambi d’idee a quel proposito, erano forse<br />
stati solo dei surrogati di un’altra sincerità impossibile.<br />
Alibi.<br />
Perciò mi ero proposta di rifiutare la mia collaborazione<br />
all’avvocato Strofio.<br />
Quando arrivò, doveva già essere stato informato da<br />
mamma delle mie intenzioni e dei miei sentimenti riguardo<br />
a Oreste e al delitto di cui era accusato e di cui<br />
io lo sapevo colpevole.<br />
I suoi argomenti per convincermi a deporre in suo<br />
favore non furono sostanzialmente diversi da quelli<br />
che anni prima Lorenzo aveva usato, quando mi aveva<br />
accusato d’essermi fermata anch’io alla barbarica legge<br />
del taglione.<br />
– C’interessa una giustizia astratta a cui a ogni<br />
‘colpa’ corrisponde una ‘pena’, distribuita ciecamente,<br />
con una benda sugli occhi e una fredda bilancia in<br />
una mano e una spada vendicativa nell’altra, – mi domandava,<br />
– o ci interessa creare un mondo in cui le<br />
risorse, anche e soprattutto le umane, non vengano<br />
sprecate e distrutte in omaggio a ‘princípi’ che abbiamo<br />
stabilito una volta per tutte ma che non sempre<br />
sono validi?<br />
– Ma se si comincia a fare delle eccezioni… – avevo<br />
provato a replicare.<br />
– Non parlo di eccezioni, – mi aveva interrotto. –<br />
235
Parlo della necessità di avere gli occhi aperti e di<br />
guardare davvero nella bilancia, senza troppa fretta di<br />
usare la spada! Tu sai quanto e forse meglio di me che<br />
persona sia Oreste, tu sai che non è un sanguinario,<br />
che è un mite. Tu sai che Oreste è un ragazzo onesto<br />
e capace di vivere onestamente. Se non ci mettiamo<br />
noi a guastarlo. Tu sai anche che Oreste sino ad ora è<br />
stato una vittima, anche nel delitto di cui lo si accusa<br />
e di cui lo si fa responsabile, e che ha diritto a non esserlo<br />
più. Che ha diritto come tutti a una vita creativa<br />
e normale dove le sue buone qualità possano dar<br />
frutto. Credi che il carcere potrebbe dargliela, questa<br />
vita di cui ha bisogno e a cui ha diritto?<br />
Avevo difficoltà a trovare una risposta valida. Quella<br />
della giustizia superiore, del concetto socratico della<br />
legge, mi pareva in confronto alle argomentazioni che<br />
lui portava, altisonante e vuota. E ciò che cominciavo<br />
a vedere dentro di me era un caos in cui assiomatiche<br />
speranze e totalitari, retorici e astratti ideali si mescolavano<br />
tetramente a un mascherato, egoistico bisogno<br />
di quieto vivere. Capivo perché Pilato si era lavato<br />
le mani, quella volta. La legge del taglione forse<br />
gli repugnava, perché era un uomo relativamente civile.<br />
Ma accettava che altri l’applicasse, forse perché<br />
provare a impedirlo gli sarebbe costato una decisione<br />
rischiosa e perciò difficile da prendere. O forse perché<br />
neanche lui era riuscito a vedere chiaro dentro di sé.<br />
– Naturalmente non ti chiedo di deporre il falso, né<br />
di dire qualcosa che sia contro la tua coscienza. Nes-<br />
236<br />
suno, né i giudici né gli altri avvocati, ti chiederà se<br />
Oreste ha ucciso o non ha ucciso. Ciò che tu sai o non<br />
sai, a quel riguardo, non può in alcun modo costituire<br />
prova della sua colpevolezza o innocenza, e nessuno ti<br />
farà domande a questo proposito. Ciò che io ti chiedo<br />
di raccontare è solo ciò che tu personalmente hai avuto<br />
modo di osservare di lui. Non dovrai dire niente che<br />
tu non abbia visto con i tuoi occhi o sentito con le tue<br />
orecchie. Ciò che ti chiedo è di descrivere il ragazzo<br />
che per quasi un anno ha abitato a casa tua. Non ti<br />
chiedo neppure, e nessuno ti chiederà dei giudizi su di<br />
lui. Ma se qualcuno contro le mie previsioni ti chiedesse,<br />
puoi rifiutare di rispondere. Devi solo provare a<br />
ricordare com’era, quali mansioni aveva qui da voi e<br />
come le esplicava. Non voglio sapere che cosa sceglierai<br />
di dire e non ti sto chiedendo di voler essere convincente<br />
in favore del ragazzo. Ti chiedo solo di dire la<br />
verità: com’era, come si comportava nella vita quotidiana<br />
quel ragazzo, Oreste, che anni fa era al vostro<br />
servizio? Questo è tutto quello che ti chiedo per salvare<br />
una vita umana.<br />
Quali argomenti avrei potuto portare per rifiutarmi?<br />
Quello del rispetto socratico della legge o quello del<br />
mio egoismo? Del mio desiderio d’essere tenuta fuori<br />
dalla preistoria che ancora ci era contemporanea? Una<br />
preistoria che forse anch’io mi portavo dentro più di<br />
quanto non mi fosse gradito pensare e che perciò così<br />
appassionatamente respingevo?<br />
237
Giudicati e pregiudicati<br />
Lorenzo mi era stato vicino, durante il viaggio, e<br />
prima, e sino al momento della deposizione, quando<br />
ero stata isolata nella saletta dei testimoni dove lui non<br />
aveva il permesso d’entrare. E dopo.<br />
Ora mi teneva per l’omero, sorreggendomi un poco,<br />
mentre scendevamo le scale monumentali e tetre del<br />
Palazzo di Giustizia.<br />
Quando uscimmo sulla piazza ci avvolse una vampata<br />
di caldo. Ormai era quasi l’una. La luce era accecante.<br />
Nell’aria, mescolato al gas dei motori, mi parve<br />
di sentire un profumo. Un profumo dolce di acacie,<br />
forse, o di tigli. Mi sentivo vuota, o per meglio dire<br />
svuotata. Come dopo una consistente donazione di sangue.<br />
L’immagine mi colse alla sprovvista e cercai di scacciarla.<br />
Avevo capogiro, e un nuovo assalto di nausea mi<br />
fece incollare la lingua al palato, e mi costrinse a chiudere<br />
spasmodicamente la gola.<br />
Non avevo osato fare diagnosi. Da settimane avevo<br />
cercato di non pensarci. Mi ero sforzata d’isolare i sintomi<br />
e i malesseri dalla totalità della mia persona.<br />
239
Quando avevo capogiro ero “una che aveva capogiro”,<br />
quando avevo nausea ero “una che aveva nausea”, che il<br />
mio peso calasse significava solo che ero “una il cui<br />
peso calava”…<br />
Il malessere era cominciato una decina di giorni<br />
prima, forse due settimane… Aveva più o meno coinciso<br />
col mio consenso a deporre. E c’era anche l’altro<br />
sintomo, quello dell’amenorrea, molto giustificato<br />
dallo stato miserando dei miei nervi di fronte alla prova<br />
che mi attendeva. Ma ogni sintomo poteva essere una<br />
somatizzazione del mio malessere verso quella deposizione<br />
che una parte di me aveva cominciato a ritenere<br />
giusta, o giustificabile, e un’altra rifiutava violentemente.<br />
E la violenza quasi scomposta del rifiuto era<br />
solo segno della debolezza della mia parte legalitaria.<br />
L’autodiagnosi psicosomatica era il massimo che mi<br />
fossi concessa. Ma il mio male poteva essere un’ulcera…<br />
o quel che è peggio. E né l’ulcera, né l’altro, il<br />
cancro - perché questa paura superstiziosa di dare un<br />
nome alle cose che ci minacciano? - contraddicevano<br />
l’ipotesi psicosomatica. Ora che ero a Roma e che la<br />
deposizione era stata fatta, dovevo in ogni caso consultare<br />
il professor Giusti, che era stato mio maestro<br />
a Milano, e che non mi avrebbe nascosto la verità.<br />
Quel profumo di fiori diventava più forte ora che<br />
avevamo attraversato la strada che circonda le aiuole<br />
alberate e ci trovavamo nell’ombra caldo-umida degli<br />
alberi al centro della piazza. Forse non era profumo di<br />
acacie, né di tigli, né di gelsomini, né di altra pianta<br />
240<br />
da me conosciuta. Forse era il profumo delle siepi attorno<br />
al monumento. La testa mi girava, avevo nausea.<br />
Voglia di vomitare. Respirai profondamente. Lorenzo<br />
mi circondava le spalle col braccio e mi sorreggeva.<br />
– Ti senti male? Sediamoci un momento. C’è un<br />
caffè, lì, dietro l’angolo… possiamo prendere qualcosa…<br />
Ce la fai?<br />
Le sue parole mi arrivavano come da un’enorme distanza.<br />
L’aria era spessa, irrespirabile. Vibrava in larghe<br />
onde concentriche. E quel profumo intenso, nauseante.<br />
Nella saletta dei testimoni, l’odore di cuoio grezzo<br />
unto di sego, l’odore di capra, l’odore selvatico dei pastori,<br />
mozzava il fiato. Sedevano quasi a contatto di<br />
gomito, tutti sulla stessa panca, sulla parete lunga a<br />
destra della porta. Due di loro sedevano per terra, con<br />
i gomiti sulle ginocchia piegate e il berretto a visiera<br />
calato sugli occhi. Sembravano non aver dormito da<br />
molto. Chissà quando si erano spogliati e lavati l’ultima<br />
volta. Io avevo avuto una sedia, e perciò sedevo<br />
più in alto, come su un trono.<br />
La saletta dei testimoni così piccola e miserabile.<br />
Ancora più piccola e miserabile in confronto alla spaziosità<br />
schiacciante degli androni, delle scale, e poi<br />
dell’aula dove il processo si svolgeva e dove a uno a<br />
uno venivamo chiamati a testimoniare. Io ero l’unica<br />
donna. A parte una poveretta che tremava in tutto il<br />
corpo, stringendosi in uno scialle nero scolorito.<br />
L’aria dello stambugio dei testimoni era densa del<br />
241
loro odore d’ovile. Difficile respirare. La nausea era ritornata<br />
in quel momento, o forse poco prima, quando<br />
ero rimasta sola con l’usciere che mi aveva accompagnato.<br />
Anche l’usciere aveva odore di sudore, di sporco,<br />
un altro sporco, di sudore rancido, un odore diverso<br />
da quello dei pastori, ma non meno nauseante.<br />
Lorenzo mi aveva abbracciato, prima di lasciarmi nella<br />
zona dove a lui non era permesso entrare. “Ingresso<br />
vietato agli estranei”. Lui era l’estraneo, e io ero la testimone,<br />
la coinvolta. Ma era solo una scelta dell’avvocato,<br />
o del caso che, con la pubblicazione del libro di babbo e<br />
quella storia della mia cosiddetta azione eroica, proprio<br />
in quei mesi aveva dato a me e non a Lorenzo, una certa<br />
notorietà. Altrimenti, per ciò che ero chiamata a dire,<br />
lui poteva testimoniare anche meglio di me. Io non ero<br />
lì per dire ciò che sapevo, ero lì tanto per esserci, per tacere<br />
ciò che sapevo e per parlare d’altro.<br />
Non bugie, naturalmente, la verità. L’avvocato Strofio,<br />
nobilissima persona, non avrebbe chiesto a me, altra<br />
nobilissima persona, di testimoniare il falso. Solo di<br />
tacere la verità e di parlare d’altro. Anche quegli uomini<br />
dall’odore di sego e di capra erano lì per dire la verità.<br />
Alcuni di loro una verità diversa dalla mia, contraria a<br />
quella che io ero chiamata a recitare, ma verità. Anche<br />
loro però avrebbero, come me, recitato solo una parte di<br />
essa, e ne avrebbero taciuto l’altra. La differenza era che<br />
la loro parte di verità era pertinente alla causa, la mia era<br />
pertinente alla persona. E i giudici, dovevano giudicare<br />
della causa o della persona?<br />
242<br />
La testa mi girava. Attraverso la seta del vestito, sentivo<br />
il freddo della panchina sulla quale ci eravamo seduti.<br />
Lorenzo continuava a parlarmi, tenendomi quasi<br />
abbracciata e carezzandomi. Non so che cosa diceva.<br />
C’era uno strato di nebbia attorno a me che mi isolava.<br />
In certi momenti ero di nuovo nella saletta dei testimoni.<br />
In altri ero ancora davanti ai giudici che si sporgevano<br />
dai loro scranni per osservarmi e ascoltarmi.<br />
Forse la mia voce era troppo bassa. Ma non potevo<br />
mettermi a gridare. Lo sforzo era stato soprattutto<br />
quello di non vomitare, nell’aria chiusa e maleodorante<br />
della saletta dei testimoni. Non riuscivo a concentrarmi,<br />
a pensare a ciò che mi avrebbero chiesto, a<br />
prepararmi le risposte. L’avvocato mi aveva spiegato.<br />
Mi aveva detto che non dovevo essere nervosa, che<br />
tutti sarebbero stati gentili con me, che nessuno mi<br />
avrebbe domandato niente d’imbarazzante.<br />
Davanti ai giudici, in quell’aria più pulita, con la<br />
luce che entrava dalle finestre ampie, mi sentii rinfrancata,<br />
di nuovo padrona di me. Avevo dimenticato<br />
la nausea, e il capogiro era passato.<br />
Ciò che dicevo era vero. Ciò che mi domandavano<br />
non aveva niente a che fare con le altre cose che pure<br />
sapevo, ma che nessuno sembrava interessato a sentirmi<br />
dire. Non era nel mio ruolo metterle sul tappeto.<br />
Io avevo le mie battute, i giudici e gli avvocati<br />
avevano le loro. Fisse, come in un dramma teatrale.<br />
Eravamo attori che recitavano le battute che il regista<br />
ci aveva assegnato. Ognuno aveva la sua parte, e<br />
243
una parte non più veritiera o nobile di un’altra. Ogni<br />
parte è ugualmente nobile e necessaria e ogni battuta,<br />
in quanto necessaria allo svolgimento del dramma,<br />
ugualmente vera.<br />
Jago, Otello, Desdemona… se non come persone,<br />
come personaggi tutti sono ugualmente nobili e necessari,<br />
nessuno di loro sarebbe qualcosa senza l’altro,<br />
e nessun attore mente quando pronunzia le battute<br />
che gli sono state assegnate perché necessarie allo svolgimento<br />
del dramma. La battuta che lo scrittore ha<br />
messo loro in bocca è la sola verità che conti e l’attore<br />
deve pronunziarla con convinzione e per convincere,<br />
come la verità che è. La verità che lo scrittore ha scelto.<br />
Una delle molte possibili, certo. Ma quella. Qualunque<br />
esitazione o trasgressione rovinerebbe il delicato e<br />
magico meccanismo del dramma.<br />
L’avvocato difensore mi aveva presentato dicendo,<br />
con una retorica che in quel momento mi lusingò, che<br />
“ogni presentazione era superflua, perché ormai tutti<br />
in Italia conoscevano la giovane e brillante ricercatrice,<br />
la donna generosa, la dottoressa che…” etc. etc.<br />
Nessun regista mi aveva preparato ma d’istinto<br />
scelsi di non abbassare gli occhi per fingere modestia.<br />
Guardai nel vuoto, cercando di non cambiare espressione,<br />
di non sorridere, per esempio. Di fare come se le<br />
parole dell’avvocato non mi riguardassero. Come se le<br />
lodi che continuava a tessermi e la rievocazione di<br />
quell’operazione azzardata o disperata, che lui definiva<br />
“brillante”, “eroica sino al totale sacrifizio di sé” - ma<br />
244<br />
che io sapevo che solo per la bontà del destino non si<br />
era conclusa in una doppia tragedia - non mi riguardassero<br />
neanche un poco.<br />
Quell’operazione che avevo fatto quasi senza pensare<br />
a ciò che stavo facendo, come se fosse inevitabile e indipendente<br />
dalla mia volontà, io la consideravo eticamente<br />
indifferente e professionalmente forse sbagliata,<br />
ma in quel momento la rivivevo nella descrizione che<br />
l’avvocato ne stava facendo come se fosse stata il risultato<br />
di una razionale e generosa volontà di sacrifizio,<br />
un atto eroico nella mia professione.<br />
Mi permisi però un calcolatamente breve battito di<br />
ciglia e strinsi un po’ le labbra, come per frenare una<br />
piena di sentimenti che in quel momento non provavo<br />
ma sapevo di “dover” provare, quando l’avvocato passò<br />
a tessere le lodi di babbo, “il medico dei poveri”, “il<br />
santo laico”, “lo scienziato”, “il francescano”…<br />
Io ero lì, con un bel ruolo e con la sensazione di poterlo<br />
recitare bene. Fredda e intelligente, elegante nel<br />
mio bell’abito di seta verde. Intorno a me l’aria era leggermente<br />
profumata di colonia. Io non emanavo l’odore<br />
acre e sgradevole degli altri testimoni. Immancabilmente<br />
la mia persona doveva dare un’impressione<br />
di pulizia. Di pulizia fisica e morale.<br />
Quando si passò all’interrogatorio, la mia voce era bassa<br />
ma sicura. Continuavo a recitare e a sentirmi recitare.<br />
Sì, conoscevo l’imputato. Era stato al nostro servizio,<br />
dal febbraio del 1968 all’ottobre dello stesso anno,<br />
quando era stato arrestato… aggiunsi abbassando an-<br />
245
cora di più la voce, come per nascondere l’emozione che<br />
quella parola mi dava.<br />
Era un ragazzo molto diligente, rispettosissimo e<br />
molto religioso. Raccontando l’episodio del cavallo che<br />
gli era stato proibito di montare e del suo rifiuto al<br />
giuramento perché “Dio ci vieta di giurare”, ero fiera<br />
del mio talento d’attrice. Sapevo anche d’essere carina<br />
e che il vestito mi donava. Giudici e avvocati, tutti<br />
maschi, non mi staccavano gli occhi di dosso. Non so<br />
neppure se stavano ascoltando le sciocchezze con le<br />
quali li stavo intrattenendo. Probabilmente stavano solo<br />
ascoltando la mia voce. Voce di donna giovane e beneducata,<br />
una signora della loro stessa classe sociale. E<br />
guardavano con malcelata curiosità e desiderio il viso<br />
e il corpo di quella giovane donna così delicata, forse<br />
anche ingenua, ma così coraggiosa e generosa, etc. etc.<br />
Mi parevano piuttosto miserandi.<br />
Mi specchiavo nel loro sguardo fisso, e senza alcuno<br />
sforzo recitavo il personaggio che l’avvocato con la<br />
sua presentazione mi aveva praticamente chiesto di<br />
recitare. L’avvocato mi lasciava parlare quasi a ruota<br />
libera, poi faceva altre domande e nelle mie risposte,<br />
tutte veritiere, naturalmente, la descrizione del ragazzo<br />
e del suo comportamento nei mesi che era stato al<br />
nostro servizio, era soprattutto la descrizione, ad usum<br />
delphini, di una buona, solida, onesta, rispettabile famiglia<br />
borghese di provincia. Mamma, la vedova del<br />
medico adorato dai suoi pazienti, Lorenzo, il giovane<br />
veterinario quasi milanese (non parlai del padre ma-<br />
246<br />
gistrato perché sarebbe stata una nota falsa e perché<br />
tutti nell’aula erano già informati) e io, la dottoressa<br />
che umilmente seguiva le orme del padre…<br />
Ma noi eravamo lo sfondo, solo lo sfondo, sul quale<br />
si stagliavano le virtù del ragazzo.<br />
– Era diventato una specie di piccolo factotum. Non<br />
aveva pregiudizi, ci aiutava ugualmente bene nelle<br />
faccende domestiche, nei lavori di cucina per esempio,<br />
come nell’ambulatorio e nel lavoro veterinario di mio<br />
marito. Imparava facilmente e in poco tempo era diventato<br />
un domestico finito. Sapeva apparecchiare con<br />
grazia e serviva a tavola con discrezione e precisione.<br />
Aiutava mia madre nei lavori di giardinaggio e teneva<br />
in ordine il mio ambulatorio medico e quello di mio<br />
marito. Nelle sue ore libere leggeva molto. Leggeva i<br />
quotidiani e i libri adatti alla sua età che mia madre<br />
gli metteva a disposizione. Libri che erano stati miei e<br />
che io stessa avevo letto quando avevo la sua età. La capanna<br />
dello zio Tom, i romanzi di Dickens, di Mark<br />
Twain, di Jules Verne, di Salgari… Si esercitava anche<br />
a scrivere. Poesie… credo. Ma era molto riservato e…<br />
umile.<br />
Prima di pronunziare la parola “umile” avevo fatto<br />
una breve pausa calcolata, come se fossi incerta della<br />
sua giustezza. Recitavo, ed ero conscia di recitare bene.<br />
La nausea e i capogiri erano passati e dimenticati,<br />
quello era il momento del mio trionfo. Il ragazzo<br />
chiuso nella grande gabbia degli accusati non lo guardavo<br />
e non lo pensavo, quello di cui parlavo era un al-<br />
247
tro, un’astrazione, un’invenzione, quasi. Lui, il processo<br />
e, forse, la sua assoluzione erano la causa e lo scopo<br />
ufficiale della mia performance, ma in quel momento,<br />
mentre poteva sembrare che di nuovo generosamente<br />
mi adoperassi per salvare una vita umana, per la giustizia,<br />
per la verità, io ero solo concentrata a “fare bene”<br />
ciò che mi era stato chiesto di fare, a recitare bene<br />
il mio ruolo che consisteva fra l’altro nell’affascinare<br />
quegli uomini che pendevano dalle mie labbra.<br />
Non so che cosa venne chiesto agli uomini in fustagno<br />
verde e puzzolenti di sego e di capra. Nessuno di<br />
loro era figlio di un distinto professionista, nessuno di<br />
loro era apparentato con un giudice, nessuno di loro<br />
aveva pubblicato un libro, nessuno di loro aveva un titolo<br />
di studio, nessuno di loro aveva fatto un’operazione<br />
azzardata e quasi criminale che, per il buon risultato<br />
che aveva dato, ora veniva definita eroica, nessuno<br />
di loro era una giovane signora carina ed elegante,<br />
nessuno di loro parlava l’italiano correttamente.<br />
La lingua che provavano a parlare era una lingua bastarda<br />
che non poteva che suonare sgradevole e forse<br />
comica alle orecchie italiane dei magistrati, la loro verità<br />
riguardo al delitto di cui il ragazzo era accusato<br />
avrebbe avuto difficoltà a farsi strada in quell’aula. Ma<br />
cos’è la verità? Una verità che puzza di sego e di capra?<br />
Mi svegliai su un lettino nel pronto soccorso dell’ospedale<br />
San Giacomo. Lorenzo era ancora accanto a me<br />
e mi stringeva le mani.<br />
248<br />
– Cos’è stato? – gli chiesi.<br />
– C’è stato che sei svenuta e che ora devi pensare a<br />
star bene e riposarti… Perché non me l’avevi detto?<br />
– Detto… che cosa?<br />
– Come… che cosa? Del bambino!<br />
Pensai a Oreste dentro la gabbia, la rapida occhiata<br />
che gli avevo gettato, e non capivo perché Lorenzo lo<br />
chiamava “bambino”, e che cosa avrei dovuto dirgli di<br />
lui che già non sapesse.<br />
Mi aveva posato una mano sul ventre e, attraverso le<br />
coperte, sentivo la tenerezza lieve della sua mano. All’improvviso<br />
capii e mi venne quasi da ridere. A tutto,<br />
io, la grande dottoressa, avevo pensato: ulcera, cancro,<br />
altro… ma a una gravidanza… una gravidanza non mi<br />
era venuta in mente. E sarebbe stata la prima cosa alla<br />
quale avrei pensato se una delle mie pazienti, della<br />
mia età, fosse venuta da me con gli stessi sintomi.<br />
Dal grande orologio sulla parete bianca e spoglia di<br />
fronte a me capii che dovevano essere passate molte ore.<br />
– E il processo, hai notizie? Com’è andato?<br />
– Assolto. Fortunatamente. E anche per merito tuo.<br />
– Assolto? – domandai, più per darmi tempo di prender<br />
coscienza di tutti quei cambiamenti che sembravano<br />
essere avvenuti nel mondo dentro di me e fuori di<br />
me, che per avere una conferma e una spiegazione.<br />
– Assolto per non aver commesso il fatto.<br />
– Credi che non abbiano capito, o che anche per i<br />
giudici la verità abbia molti aspetti, ma che anche loro<br />
249
non dispongano che di una sola menzogna, per dirla?<br />
– stavo per domandare.<br />
Ma pensai a tempo che non era una discussione di<br />
quel genere che Lorenzo s’aspettava da me in quel momento.<br />
Era un momento in cui una giovane donna che<br />
aveva appena saputo che stava per diventare madre doveva<br />
sorridere teneramente, graziosamente, al suo<br />
uomo. E fu ciò che feci.<br />
250<br />
PARTE PRIMA<br />
Voci e silenzi<br />
INDICE<br />
Esilio 9<br />
Giosuè, la nave, la luna 15<br />
Il guerriero 29<br />
Astianatte 37<br />
Maschera e maschere 43<br />
Il messaggero 49<br />
A Cesare quel ch’è di Cesare 53<br />
Una cosa grande e solenne 59<br />
La volpe e gli uccelli 63<br />
Interno con mummie 69<br />
<strong>Gli</strong> eremiti e il diavolo 73<br />
PARTE SECONDA<br />
La fossa dei fantasmi<br />
La legge dell’acqua 81<br />
Cassandra 85<br />
Il testimone 91<br />
Storia di donne e cow-boy 99
Polvere e sangue 115<br />
La trave nell’occhio 119<br />
Il dolore e la macchia 131<br />
Una donna, un uomo, una donna 137<br />
L’innocente 143<br />
La lunga strada 145<br />
PARTE TERZA<br />
Paradiso con serpente<br />
Numeri e foglie 151<br />
L’ospite 153<br />
L’abbraccio del falco 161<br />
Idillio 173<br />
L’oasi 179<br />
Il serpente 181<br />
Un cielo pieno di rondini 183<br />
Una partita contabile 185<br />
La statua della libertà 193<br />
La cacciata dall’Eden 199<br />
PARTE QUARTA<br />
L’Isola e gli <strong>arcipelaghi</strong><br />
Il ritorno 205<br />
Performance 209<br />
Lo schiaffo 217<br />
Lorenzo 221<br />
L’avvocato Strofio 231<br />
Giudicati e pregiudicati 239<br />
Volumi pubblicati:<br />
Tascabili . Narrativa<br />
Grazia Deledda, Chiaroscuro<br />
Grazia Deledda, Il fanciullo nascosto<br />
Grazia Deledda, Ferro e fuoco<br />
Francesco Masala, Quelli dalle labbra bianche<br />
Emilio Lussu, Il cinghiale del Diavolo (2 a ristampa)<br />
Maria Giacobbe, Il mare (ristampa)<br />
Sergio Atzeni, Il quinto passo è l’addio<br />
Sergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri<br />
Giulio Angioni, L’oro di Fraus<br />
Antonio Cossu, Il riscatto<br />
Bachisio Zizi, Greggi d’ira<br />
Ernst Jünger, Terra sarda<br />
Salvatore Niffoi, Il viaggio degli inganni (2 a edizione)<br />
Luciano Marrocu, Fáulas (2 a edizione)<br />
Gianluca Floris, I maestri cantori<br />
D.H. Lawrence, Mare e <strong>Sardegna</strong><br />
Salvatore Niffoi, Il postino di Piracherfa<br />
Flavio Soriga, Diavoli di Nuraiò<br />
Giorgio Todde, Lo stato delle anime<br />
Francesco Masala, Il parroco di Arasolè<br />
Maria Giacobbe, <strong>Gli</strong> <strong>arcipelaghi</strong> (ristampa)<br />
Salvatore Niffoi, Cristolu<br />
Giulio Angioni, Millant’anni
Luciano Marrocu, Debrà Libanòs<br />
Giorgio Todde, La matta bestialità<br />
Sergio Atzeni, Racconti con colonna sonora e altri «in giallo»<br />
Marcello Fois, Materiali<br />
Maria Giacobbe, Diario di una maestrina<br />
Francesco Abate, Il cattivo cronista<br />
Narrativa<br />
Salvatore Cambosu, Lo sposo pentito<br />
Marcello Fois, Nulla (2 a edizione)<br />
Francesco Cucca, Muni rosa del Suf<br />
Paolo Maccioni, Insonnie newyorkesi<br />
Bachisio Zizi, Lettere da Orune<br />
Maria Giacobbe, Maschere e angeli nudi: ritratto d’un’infanzia<br />
Giulio Angioni, Il gioco del mondo<br />
Aldo Tanchis, Pesi leggeri<br />
Maria Giacobbe, Scenari d’esilio. Quindici parabole<br />
Poesia<br />
Giovanni Dettori, Amarante<br />
Sergio Atzeni, Due colori esistono al mondo. Il verde è il secondo<br />
Gigi Dessì, Il disegno<br />
Roberto Concu Serra, Esercizi di salvezza<br />
Serge Pey, Nierika o le memorie del quinto sole<br />
Saggistica<br />
Bruno Rombi, Salvatore Cambosu, cantore solitario<br />
Giancarlo Porcu, La parola ritrovata. Poetica e linguaggio in Pascale<br />
Dessanai<br />
FuoriCollana<br />
Salvatore Cambosu, I racconti