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Gli arcipelaghi - Sardegna Cultura

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Maria Giacobbe<br />

<strong>Gli</strong> <strong>arcipelaghi</strong><br />

Il Maestrale


Tascabili . Narrativa


Della stessa autrice con Il Maestrale:<br />

Il mare, 1997<br />

Maschere e angeli nudi: ritratto d’un’infanzia, 1999<br />

Scenari d’esilio, 2003<br />

Diario di una maestrina, 2003<br />

Editing<br />

Giancarlo Porcu<br />

Grafica<br />

Nino Mele<br />

© 2001, Edizioni Il Maestrale<br />

Redazione: via Monsignor Melas 15 - 08100 Nuoro<br />

Telefono e Fax 0784.31830<br />

E-mail: redazione@edizionimaestrale.com<br />

Internet: www.edizionimaestrale.com<br />

ISBN 88-86109-56-3<br />

Maria Giacobbe<br />

<strong>Gli</strong> <strong>arcipelaghi</strong><br />

Il Maestrale


PARTE PRIMA<br />

Voci e silenzi


Esilio<br />

Dopo tanto spazio di mare, così azzurro che le creste circolari<br />

delle onde vi spiccavano con la ferma grazia di atolli,<br />

apparvero i contorni dell’isola, rosei come una cicatrice recente,<br />

bordati d’una frangia di spuma. Deserti, sembravano<br />

vergini, inviolati.<br />

Di nuovo, come ogni volta, lo colpì il carattere animale -<br />

non vegetale, non minerale - di quelle coste, che continuava<br />

nella solida, terrosa groppa d’elefante, che s’ingrandiva<br />

sotto l’aereo, mentre l’azzurro del mare diventava una lama<br />

sempre più sottile, lontana.<br />

Lasciando Milano, avevano sorvolato città, fiumi, campi<br />

coltivati, boschi, strade vive di traffico. Un paesaggio europeo.<br />

Una terra abitata da uomini. Uomini d’oggi. L’isola sulla<br />

quale ora volavano era la groppa terrosa d’un mastodonte<br />

morto da millenni. Setole rade e aride orlavano le screpolature<br />

e i graffi incisi sul fango asciutto.<br />

Come altre volte, vedendola dall’alto, si sorprese a ricordare<br />

quasi incredulo che quella terra, quel grumo di fango rappreso,<br />

aveva per tanti anni rappresentato il suo paradiso perduto.<br />

Il luogo segreto nel quale il suo pensiero e il suo ricordo<br />

sempre meno precisi, sempre più magici, si erano rifugiati ogni<br />

9


volta che da bambino e da ragazzo la paura e la malinconia<br />

l’assalivano, in quella città dove si era sentito ingiustamente<br />

esiliato.<br />

È difficile abituarsi a Milano, dicevano i genitori, forse<br />

per far sentire che lo capivano. Poi però la si scopre e non la<br />

si scambierebbe con nessun’altra città al mondo, soggiungevano.<br />

Ma che cosa gliene importava, allora, a lui delle “altre<br />

città” del mondo? Non era con “altre città” che avrebbe<br />

voluto scambiarla!<br />

Già qualche mese dopo il trasferimento, sua madre sembrava<br />

davvero essersi abituata. Le piaceva andare per negozi,<br />

o meglio per vetrine, dato che le possibilità d’acquisto,<br />

con i prezzi delle cose che erano di suo gusto, non erano tante.<br />

Godeva di sentirsi libera. Di camminare per le strade<br />

senza essere osservata. Criticata, forse. Nell’Isola tutti sanno<br />

tutto di te, diceva. Sanno che cosa fai, chi vedi, chi e che cosa<br />

ti piace o non ti piace, che cosa pensi. Sanno persino quanto<br />

hai in tasca. Le tasche son trasparenti nell’Isola, diceva. La<br />

gente ti giudica e ti pesa per ciò che possiedi e per il potere che<br />

puoi dimostrare d’avere. Conta molto il potere, in un mondo<br />

di senza potere, ma ancora più che la ricchezza e il potere<br />

conta l’“onore”… Non chiedermi che cosa sia l’onore… L’onore<br />

è un mostro, al quale ancora si fanno sacrifizi umani…<br />

A Milano nessuno sa niente di te, nessuno s’occupa di te.<br />

Né del tuo onore. Puoi essere povero o ricco, ma non è cosa che<br />

riguardi gli altri. Riguarda solo te. L’onore è qualcosa che<br />

hai dentro di te, che riguarda te, non gli altri… Che non<br />

chiede sacrifizi umani come conferma…<br />

Questo diceva, e sembrava esserne convinta. Ed essere con-<br />

10<br />

vinta della praticità e bontà di questa solitudine e anonimità.<br />

Ma, almeno in parte, per quanto sincera, questa lode della<br />

grande città dove viveva era anche una manovra per non cedere<br />

alla sua quasi costante nostalgia dei profumi, dei colori<br />

e anche delle voci e dei silenzi della sua terra. Nostalgia<br />

della gente anche, nonostante quell’indiscrezione di cui si lamentava<br />

e che però certe volte, secondo l’umore, non le pareva<br />

più indiscrezione ma partecipazione.<br />

A Milano, diceva, se cadi morto per la strada, ti girano<br />

semplicemente attorno per non inciampare, e ti lasciano lì<br />

senza provare a soccorrerti. Hanno troppa fretta per occuparsi<br />

degli altri. Con tutta la gente che vi abita, nei momenti di<br />

bisogno una città come questa è un deserto, diceva. Nell’Isola<br />

non si è mai soli con i propri lutti e le proprie disgrazie. I dolori<br />

dell’uno sono i dolori degli altri.<br />

Nell’Isola è ancora come ai tempi d’Omero, quando per<br />

paura della “critica” Nausicaa non volle entrare in città con<br />

Ulisse, lo straniero. Ma prima, Nausicaa, la figlia del re<br />

dei Feaci, l’aveva aiutato Ulisse, lo sconosciuto senza nome,<br />

il naufrago nudo e infelice, l’aveva curato, unto d’olio d’oliva<br />

e vestito di lino, e infine gli aveva indicato la strada<br />

perché si presentasse, ospite sacro, nella casa del padre.<br />

Nell’Isola è ancora così, diceva. Da una parte la malignità<br />

della critica che ti misura e ti fa misurare ogni gesto,<br />

e dall’altra la solidarietà e la generosità che ti sorreggono<br />

ogni volta che il destino ti colpisce e hai bisogno d’aiuto.<br />

Come ai tempi d’Omero, diceva.<br />

E in quel momento era fiera di quell’arcaicità che in altri<br />

momenti le sembrava motivo di vergogna. In entrambi i<br />

11


casi la madre di Lorenzo era sincera e, almeno in parte, nel<br />

giusto.<br />

Il padre invece non aveva mai sofferto e non aveva mai<br />

avuto motivo di soffrire di contraddittorie nostalgie, di<br />

quell’odio-amore che non si poteva spiegare razionalmente e<br />

che forse perciò non dava pace. Il padre non era nativo dell’Isola.<br />

Era fiorentino e il suo amore per Firenze, la città<br />

dove era nato, aveva studiato, aveva amici e famiglia e radici,<br />

non aveva bisogno di giustificazioni. Quell’amore era<br />

ovvio. Nessuna città al mondo è bella e gentile come Firenze.<br />

Nessun cittadino al mondo è civile e gentile come il toscano.<br />

Niente di negativo si può dire o provare per Firenze. Chi è<br />

nato e cresciuto a Firenze può amarla in pace e senza rimorsi.<br />

Per bellezza e civiltà Milano non poteva misurarsi con<br />

Firenze. Ma il lavoro è lavoro, e la carriera è carriera. E<br />

per la carriera, nessuna città in Italia, a parte Roma, poteva<br />

valere Milano. Firenze ormai per il padre di Lorenzo<br />

era pensabile solo come luogo di ritiro dopo la pensione. Un<br />

trasferimento d’ufficio da Milano a Firenze sarebbe stato un<br />

passo indietro. Per quanto assurdo ciò potesse sembrare, sarebbe<br />

equivalso a una punizione.<br />

Pensione, Punizione, Prima nomina, le tre P dell’esilio dei<br />

funzionari italiani nell’Isola.<br />

Quando lui, il padre, c’era arrivato, nell’Isola, giovanissimo<br />

e di prima nomina, ancora sotto il fascismo, quella storia<br />

delle tre P circolava come una specie di spiritosaggine o di<br />

constatazione, a seconda di chi la pronunziava. Tra i funzionari<br />

italiani che ci venivano mandati, e soprattutto fra<br />

12<br />

quelli che ci venivano mandati perché, pur avendolo tentato,<br />

non erano riusciti a evitarlo, correvano molte storie sulla durezza<br />

e spinosità dei luoghi e delle persone in quella “colonia<br />

penale”, come alcuni la chiamavano. <strong>Gli</strong> stessi Isolani, certe<br />

volte, le citavano quelle storie. Un po’ offesi, un po’ divertiti<br />

dell’immagine esotica che si dava di loro, ma anche un po’<br />

convinti e, tutto sommato, fieri se riuscivano a riconoscervisi.<br />

Per il padre di Lorenzo, l’Isola era stata ed era rimasta il<br />

luogo in cui si era fatto degli amici e aveva incontrato la ragazza<br />

che aveva sposato. Se non fosse stato per lei, diceva,<br />

forse avrei cercato di restarci meno a lungo. Pretore di prima<br />

nomina, poi giudice. Il tribunale. La Corte d’Appello. Quasi<br />

dieci anni. Ma erano passati in fretta. Una scuola. L’Isola,<br />

per un giovane magistrato, è la scuola per eccellenza, diceva.<br />

Niente potrà sorprenderti, nessuna prova, nessun alibi ti convinceranno<br />

del tutto. Nessun testimone potrà mai più ingannarti…<br />

se hai imparato a non lasciarti ingannare da un testimone<br />

isolano, magari analfabeta. Perché gli Isolani davanti<br />

al giudice mentono anche quando dicono la verità e dicono<br />

la verità anche quando mentono.<br />

“Mentire quando si dice la verità e dire la verità quando<br />

si mente…” Uno dei paradossi tipici del padre, pensò mentre<br />

l’aereo, avvicinandosi all’aeroporto, faceva un ampio giro attorno<br />

allo sperone biancoazzurro di Capo Malia e si preparava<br />

ad atterrare.<br />

13


Giosuè, la nave, la luna<br />

La lesina entra ed esce facilmente nei buchi logori e<br />

slargati dall’uso. La setola impeciata vi scivola dentro<br />

e ne esce raddrizzandosi in due rigidi baffi di gatto. Il<br />

difficile viene quando bisogna afferrare le setole, stringerle<br />

fra le dita e tirarle ben bene per rendere solido<br />

il punto, così che suola e tomaia combacino perfettamente.<br />

Per riuscirci, Giosuè ha dovuto avvolgersi le<br />

dita nelle due pezze umidicce che di solito gli servono<br />

per fasciarsi i piedi.<br />

Quello del calzolaio è un mestiere che dà soddisfazione.<br />

Punto dietro punto, chiodo dopo chiodo, è possibile<br />

misurare quanto il lavoro progredisce.<br />

La lesina è il timone di una barca che lentamente aggira<br />

un capo sconosciuto. Le setole sono i remi che<br />

s’immergono nell’acqua profonda e spingono avanti la<br />

chiglia. Capo di Buona Speranza, Capo Spartivento,<br />

Capo Carbonara, Capo Nord. Il libro di geografia. Il<br />

mare è azzurro come il cielo la mattina di Pasqua<br />

quando tutte le campane insieme si mettono a suonare<br />

e l’aria è piena di milioni d’uccelli invisibili.<br />

Sott’acqua nuotano senza rumore i pesci dalle code<br />

15


setose. Si posano palpitanti, il tondo occhio immobile,<br />

sui cespi di corallo e i nastri frementi delle alghe.<br />

La barca avanza lentamente nella grande pace del<br />

mare deserto e silenzioso. Cristoforo Colombo. Vasco<br />

da Gama. Amerigo Vespucci. Il libro di storia. I compagni.<br />

Ognuno per conto suo, ora. La maggior parte in<br />

campagna, come lui, Giosuè, per imparare a badare<br />

alle bestie. Un mestiere come un altro, quello del pastore.<br />

Ma forse quello del calzolaio dà più soddisfazione.<br />

Si vede subito come il lavoro cresce. Non così<br />

con le bestie. Ci vogliono mesi e mesi, anni, prima che<br />

una bestia dia frutto. Sempre soli, in campagna, con le<br />

bestie. Senza mai parlare con nessuno. Parlare col cane.<br />

Il cane capisce più di un uomo. Ma non parla.<br />

Il calzolaio solleva gli occhi dalla scarpa che sta riparando,<br />

e vede la strada. Le donne che passano avvolte<br />

nei loro scialli, con appena gli occhi che ne spuntano.<br />

Sempre rapide e affaccendate come se abbiano<br />

chissà che cosa da fare. E invece trascorrono il tempo a<br />

chiacchierare.<br />

E i bambini che giocano con la trottola. O a bottoni.<br />

Lui, Giosuè, con la trottola era un campione. Nessuno<br />

sapeva farla girare tanto a lungo come lui, e prenderla<br />

sul palmo della mano, e rimetterla per terra, e farla<br />

saltare, e riprenderla senza che smettesse di girare…<br />

Anche ora, se non ha altro da fare, mentre i porci pascolano<br />

o riposano, tira fuori di tasca la trottola, avvolge<br />

la cordicella e la lancia con quel colpo secco del-<br />

16<br />

l’avambraccio, e la trottola si mette a girare in mezzo<br />

alla polvere. Ma non c’è sugo, se intorno non ci sono i<br />

compagni a guardare, a commentare, a gridare… E se<br />

la trottola gira troppo a lungo senza cominciare a vacillare<br />

come un ubriaco, Giosuè finisce per annoiarsene<br />

e l’afferra con mala grazia, come se sia colpa della<br />

trottola che intorno non c’è nessuno ad ammirare la<br />

sua abilità. Intorno c’è solo la campagna, con quel suo<br />

colore di pane abbrustolito e quei pochi peri selvatici<br />

e olivastri piegati dal vento che non danno un frutto<br />

neppure a spararli.<br />

Fra sei anni Giosuè passerà di leva. <strong>Gli</strong> piacerebbe<br />

andare in marina. Vedere il mare. Il mare prova a immaginarselo.<br />

È come un fiume. Ma enorme, immenso.<br />

Così grande che se la sua riva fosse lì, ai piedi di<br />

Giosuè, coprirebbe tutta la campagna sino ai monti<br />

più lontani. Il mare è vivo e profondo e si muove avanti<br />

indietro da una sponda all’altra, come se respiri. Il mare<br />

è come un fiume enorme, immenso, ma ha la forma<br />

larga e placida di una pozzanghera nella quale il cielo<br />

si specchia azzurro e limpido come dopo un nubifragio.<br />

Il mare è lontano, ma esiste, da qualche parte, dietro<br />

le montagne. Il mare è azzurro, e pieno di pesci, e<br />

di barche, e di navi.<br />

Le navi sono grandi come case. Anche più grandi.<br />

Dipende da come sono grandi le case. La sua casa, la<br />

casa di Giosuè, è bella, ma è piccola. Ha solo il piano<br />

terreno e un cortiletto dove tengono la capra per il latte.<br />

La capra la munge la nonna. Con quelle sue mani<br />

17


scure, magre, nodose come radici di lentisco. Quando<br />

sarà grande Giosuè avrà una casa a due piani, intonacata<br />

di bianco. Sopra, le camere da letto. Sotto, la cucina,<br />

il gabinetto e la stanza per ricevere le visite, con<br />

l’ottomana e la credenza. E, dietro, il magazzino per le<br />

provviste. Una casa come quella della maestra o del<br />

dottore.<br />

La nave è bianca. Tutti i marinai sono schierati sul<br />

ponte. Hanno dei bei vestiti di tela candida. Sembrano<br />

intonacati di calce. Il capitano, col braccio irrigidito<br />

nel saluto militare, accompagna il Re che passa<br />

in rivista i marinai della nave scuola.<br />

Quale Re? L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro.<br />

Il lavoro fra pochi punti sarà terminato. Dopo, la<br />

scarpa di Giosuè sarà come nuova. Si logorano rapidamente<br />

le scarpe, su quella terra arida e quei ciottoli<br />

maledetti. Un pastore perciò deve imparare a fare anche<br />

il calzolaio. Non si può tornare in paese ogni volta<br />

che le scarpe si bucano o si scuciono. I calzolai, quelli<br />

veri, fanno vita da donne. Seduti in bottega, come<br />

donne nelle loro cucine. Davanti a loro, il deschetto<br />

con la pece, i chiodi, le setole, la lesina… tutto in bell’ordine,<br />

per non perdere tempo a cercare. La gente entra<br />

ed esce, va e viene con le scarpe da riparare o riparate,<br />

e tutti raccontano storie e chiacchiere.<br />

I calzolai perciò ne sanno più del confessore. I calzolai<br />

dormono a letto. Non per terra come i pastori. I<br />

calzolai d’inverno non soffrono il freddo. Accanto al<br />

deschetto hanno sempre un braciere con carbonella ac-<br />

18<br />

cesa. E d’estate nelle loro botteghe piene d’ombra c’è<br />

fresco. Ma, per vedere un occhio di sole, i calzolai devono<br />

uscire a sgranchirsi le gambe sulla porta. Perciò<br />

sono pallidi come carcerati.<br />

I pastori, di sole ne prendono sino a cuocersi. Ma<br />

nelle ore più calde, quando la mandria riposa, anche il<br />

pastore può appisolarsi, e sotto una roccia o una macchia<br />

di lentisco un po’ d’ombra non manca mai.<br />

Certe volte i pastori trovano dei tesori. E allora diventano<br />

ricchi e possono vivere in paese e andare alla<br />

bettola quando vogliono, senza dover lavorare. Ma un<br />

calzolaio dove può trovarlo un tesoro nascosto? Dentro<br />

una vecchia scarpa, forse? E a chi salterebbe in mente<br />

di fare il calzolaio, se non a uno storpio o a un pigro?<br />

Però, se non fosse così, a Giosuè…<br />

No, meglio il marinaio! Il Re passa in rivista i marinai<br />

schierati sul ponte della nave. È la mattina di<br />

Pasqua e c’è un bel sole lucente e non troppo caldo. Si<br />

sentono gli schiocchi della bandiera che si tende nel<br />

vento. Come schiocchi di frusta. Le divise dei marinai<br />

sono candide, pulitissime. Senza una macchia. L’acqua<br />

del mare è azzurra. Le alghe sono come erba, ferule<br />

e alberi che crescono sotto l’acqua del mare. In<br />

mezzo alle alghe nuotano i pesci, vibrando le lunghe<br />

code setose. I cespi di corallo. La mamma ha degli orecchini<br />

di corallo. Ma li mette solo per le feste. Per Pasqua.<br />

Fra un mese e mezzo sarà Pasqua e Giosuè tornerà<br />

in paese.<br />

Fra poco la lesina e le setole avranno aggirato il capo.<br />

19


Capo di Buona Speranza. La punta affamata della scarpa<br />

avrà chiusa la bocca. Cristoforo Colombo. Vasco da<br />

Gama. Amerigo Vespucci. Il mare io non l’ho mai visto.<br />

Ma me l’immagino. Il mare è un grande fiume.<br />

Molto, molto grande. Il mare l’ho visto fotografato. Anche<br />

a colori. Nella copertina del quaderno di aritmetica.<br />

Il mare è una pozzanghera immensa su un prato<br />

allagato dopo la pioggia. Era un bel quaderno con una<br />

copertina a colori.<br />

All’improvviso il cane abbaiò. L’interno della capanna<br />

dietro Giosuè era già al buio. Della luce del<br />

giorno non restava che un barlume violaceo sull’orizzonte.<br />

<strong>Gli</strong> occhi dolevano, affaticati da quella penombra<br />

che era calata senza che Giosuè se ne rendesse conto.<br />

Il cane abbaiava.<br />

Subito vide la polvere che si sollevava sul sentiero e<br />

udì i primi muggiti. Rimase, stordito, con la scarpa e<br />

la lesina in mano.<br />

Quando gli uomini che guidavano la mandria gli passarono<br />

accanto, si vergognò di quel suo piede nudo,<br />

bianco come un piede di donna.<br />

Fece per infilarsi la scarpa e per alzarsi, ma già i tre<br />

uomini e la mandria erano passati, e prendevano il<br />

sentiero che dal Passo della Croce portava giù sull’altro<br />

versante dell’altopiano. L’ultimo dei tre uomini,<br />

quello che spronava le ultime vacche della mandria, si<br />

voltò e ricambiò il suo sguardo. Fece ancora alcuni<br />

20<br />

passi, insieme agli altri, poi come per una decisione<br />

improvvisa diede uno strattone alla briglia, voltò il cavallo<br />

e ritornò al galoppo verso di lui. Frenò così bruscamente<br />

che il cavallo, curvando il collo sino a posare<br />

il muso sul pettorale, nitrì e si sollevò sulle zampe posteriori.<br />

L’uomo smontò. Era giovane e agile. Un pastore. Senza<br />

affrettarsi, appese le briglie al ramo nudo e forcuto<br />

piantato davanti alla porta, spinse Giosuè all’interno<br />

della capanna, gli tolse la lesina e con essa cominciò a<br />

punzecchiarsi i polpastrelli, mentre gli diceva pacatamente<br />

e quasi dolcemente:<br />

– Di chi sei figlio?<br />

– Sono Giosuè di zia Lucia Solinas.<br />

– Senti, Giosuè, tu oggi non hai visto nulla. Capisci?<br />

Tu stasera non eri qui. O forse eri qui, ma dormivi.<br />

E non hai visto nulla. Perché, capisci, se tu oggi<br />

hai visto qualcosa non ti resterà molto altro da vedere<br />

nella vita. Per il tuo bene lo dico, ragazzo, tu oggi<br />

non hai visto nulla.<br />

Con una violenza che contrastava con la dolcezza<br />

della sua voce, gettò la lesina che si conficcò con un<br />

colpo secco sul ceppo che nella capanna serviva da tavolo.<br />

La lesina oscillava ancora che già il suono degli<br />

zoccoli al galoppo si era affievolito sino a cancellarsi.<br />

Il cane accucciato sulla soglia guaiva dolcemente. Il<br />

suo pelo giallo secco era una macchia palpitante nell’ombra<br />

sempre più fitta. Giosuè fece un passo verso<br />

il ceppo e staccò la lesina.<br />

21


La tenne un momento fra le dita. La rimise sul ceppo.<br />

Le mani gli tremavano. Tu non hai visto nulla. Lo<br />

dico per il tuo bene. Fuggire, ora, subito. Tu non hai<br />

visto nulla. Non ti resterà molto altro da vedere. Fuggire,<br />

dove? Lasciarsi la mandria incustodita? E come<br />

giustificarsi, senza raccontare?<br />

Forse eri qui, ma dormivi. Un buco nella terra per<br />

nascondersi. Mamma, aiutami! È notte. Dove andare?<br />

Forse non accadrà niente. Forse non è accaduto niente.<br />

Forse era solo un sogno. <strong>Gli</strong> tremano le mani, le dita<br />

sono incerte. Fuggire. Dove? Un buco nella terra per<br />

nascondersi. Chiudersi, barricarsi dentro la capanna.<br />

Forse non accadrà niente. Che cosa può accadere? Non<br />

ti resterà molto altro da vedere. L’aveva sentito raccontare<br />

che queste cose accadevano. Che potevano accadere.<br />

Ma erano cose speciali che accadevano a persone<br />

speciali.<br />

Non a lui! Perché proprio a lui? Lui, Giosuè, un ragazzo<br />

qualunque. Non ha nulla di speciale, lui. Non<br />

può accadere proprio a lui. No, non a lui!<br />

Poterne parlare con qualcuno. Mamma! Enea! Oreste,<br />

fratellino mio! Vieni, Oreste, vieni subito. Me l’avevi<br />

promesso. Non startene lì a chiacchierare accanto<br />

al camino, come una donna. Mamma, Oreste… ho<br />

tanta paura, anche se un pastore non deve aver paura.<br />

Non voglio stare solo qui al buio. Mamma, mamma,<br />

Oreste!<br />

Ora anche il cane sembrava scomparso, divorato dal<br />

buio. In mezzo allo stormire lieve dei cespugli si sen-<br />

22<br />

tiva forte il coro delle rane, o della notte, e nei buchi<br />

fra le nuvole si affacciava ogni tanto una luna gialla e<br />

larga, con la sua faccia da teschio.<br />

Giosuè aveva srotolato la stuoia e vi si era disteso.<br />

Per capezzale una bisaccia di lana di capra.<br />

Vedeva la lesina fra le grosse mani dell’uomo, udiva<br />

il colpo secco di quando si conficcava nel legno e vi restava<br />

verticale, vibrando. L’uomo preferiva non vederlo.<br />

Voleva dimenticarne il viso, la statura, il vestito. Non<br />

sapeva neppure che colore avesse il suo cavallo. Non<br />

aveva visto nulla. Null’altro che una lesina che vibrava,<br />

conficcata nel ceppo. Non sapeva quante fossero le<br />

mucche che gli uomini conducevano. Non sapeva neppure<br />

se fossero molte o poche. Non aveva visto quale<br />

dei tre sentieri gli uomini e la mandria avessero preso.<br />

Se qualcuno gli avesse domandato, avrebbe risposto che<br />

non aveva visto né sentito niente. Che forse dormiva<br />

già. Lì, dentro la capanna. Che cosa poteva aver visto o<br />

sentito, se lui era lì, addormentato, dentro la capanna?<br />

Sì, forse aveva sentito il cane che abbaiava. Ma forse sognava,<br />

o credeva di sognare, e non si era svegliato del<br />

tutto. Perché avrebbe dovuto alzarsi a guardare? Il cane<br />

forse abbaiava alla luna. O ai fantasmi. Si sa che i cani<br />

sentono i fantasmi, e abbaiano. E lui non era obbligato<br />

ad alzarsi a guardare ogni fantasma che passava.<br />

Nessuno gli avrebbe creduto. O se gli avessero creduto,<br />

che razza di pastore avrebbero pensato che era?<br />

Un pastore che non si sveglia quando il suo cane abbaia,<br />

che non va e controlla la sua mandria? Sarebbe<br />

23


diventato la favola del paese. Dopo un’ammissione del<br />

genere, neppure un calzolaio avrebbe accettato d’averlo<br />

come apprendista. Forse neppure soldato l’avrebbero<br />

voluto. “Riformato per incapacità totale”.<br />

La luna infilava la sua spada lucente nella capanna.<br />

Una spada che era un serpente bianco e silenzioso.<br />

Strisciava nella polvere, gli lambiva i piedi, lo cercava,<br />

lo illuminava. Dove nascondersi? Dove fuggire?<br />

La campagna è bianca di luna. I nemici sono dappertutto.<br />

Ogni cespuglio nasconde un nemico. Dietro<br />

ogni cespuglio, dietro ogni albero, dietro ogni roccia.<br />

Se lo vedono uscire, partire verso il paese, verso un<br />

altro ovile, possono credere che vada a denunziarli.<br />

Non ti resterà molto altro da vedere. Io non ho visto<br />

niente, ti assicuro, ti giuro, come è vero… no, non si<br />

deve giurare, bestemmiare. Io ho solo visto la lesina<br />

che vibrava conficcata nel legno. Che cosa avrei dovuto<br />

vedere? Niente è accaduto. Che cosa doveva accadere?<br />

Il branco era raccolto nel chiuso. Quando resto solo<br />

nell’ovile ho tanto da fare. La sera son stanco, perché<br />

non dovrei andare a dormire con i miei animali? Cos’altro<br />

avrei da fare? C’è il cane a fare la guardia. Il<br />

cane non ha abbaiato. È un vecchio cane. Se è vero che<br />

è passato qualcuno, forse il cane non ha sentito, forse è<br />

un po’ sordo, è un vecchio cane, e non si è svegliato.<br />

Io non so niente. Non ho visto né sentito niente.<br />

Come è vero… Dio. Se qualcuno è passato io non ne so<br />

niente. Il cane non ha abbaiato. Io non ho visto niente.<br />

Forse dormivi, aveva detto l’uomo. Quale uomo? Lui<br />

24<br />

non aveva visto nessun uomo. Nessuno gli aveva detto<br />

niente.<br />

E poi perché temere? Appena farà giorno forse arriverà<br />

Oreste e Giosuè tornerà in paese e dirà a sua madre<br />

che per lui il mestiere di pastore è finito. Che gli<br />

trovino un altro mestiere e che lo tengano a casa, in<br />

paese. Lo dirà come lo direbbe un uomo, con autorità,<br />

senza dare spiegazioni.<br />

La madre vorrà sapere. Come convincerla senza raccontare?<br />

Ma se non c’è niente, proprio niente, da raccontare!<br />

Se non è accaduto niente, se non ha visto<br />

niente? E quelli che ha visto passare, chi dice che fossero<br />

ladri? Forse quell’uomo voleva fargli uno scherzo.<br />

Per metterlo alla prova, per vedere se aveva paura. Ma<br />

lui non aveva paura. Alla madre non avrebbe dato<br />

spiegazioni, avrebbe detto semplicemente così: non<br />

voglio più fare il pastore. E che la gente pensi quello<br />

che vuole.<br />

Il marinaio su una nave bianca, con una divisa bianca,<br />

e il Re o il Presidente della Repubblica passerà in rivista<br />

sul ponte. Io sarò sul ponte insieme ai miei compagni.<br />

Non sarò mai solo. Un compagno alla mia destra<br />

e uno alla mia sinistra. Ne avrò una schiera dietro<br />

e una schiera davanti, di compagni. Sarò in mezzo<br />

a loro, ai miei compagni, circondato da loro, come un<br />

filo d’erba sul prato. Nessuno potrà raggiungermi,<br />

nessuno potrà farmi del male. Se non Dio dall’alto,<br />

col suo piede immenso e terribile.<br />

Che cosa possono farmi? E perché dovrebbero farmi<br />

25


del male? Io non ho visto niente. Io non so niente. Io<br />

non ero qui. Io dormivo.<br />

Non ti resterà molto altro da vedere. “… Allora gli<br />

punsero gli occhi con la lesina, e gli occhi gli divennero<br />

bianchi come quelli di un agnello sgozzato. Poi<br />

lo lasciarono solo e cieco a vagare per la campagna…”<br />

No, non a lui! Non a lui! Sono cose speciali, queste,<br />

cose che capitano nelle storie che si raccontano la sera<br />

intorno al fuoco. Cose speciali che capitano a persone<br />

speciali. Ad altri, non a lui. Cose che si raccontano.<br />

Ma non bisogna credere a tutto ciò che si racconta. E<br />

lui non è una persona speciale. Lui è un ragazzo come<br />

tutti gli altri, e gli piacerebbe giocare con la trottola.<br />

Perché dovrebbe capitare proprio a lui una cosa speciale?<br />

“… lo presero e con setole di porco gli cucirono<br />

le labbra e gli occhi…” No, non a lui, non a lui!<br />

Mamma mia, Dio mio, aiutatemi! Un angolo buio<br />

per nascondermi. Oh, luna, fermati luna! Un fosso<br />

profondo nella terra. La tana della volpe. Il nido dell’aquila<br />

sulla roccia più alta. Fuggire. Fuggire coi<br />

passi lunghi e silenziosi del cerbiatto che non lascia<br />

traccia. Correre fuori dei sentieri battuti. Correre sino<br />

alla fine del mondo. Sino agli abissi del mare dove i<br />

pesci battono silenziosamente la coda, librati sui cespi<br />

di corallo.<br />

Cautamente e lentamente la spada bianca della luna<br />

si ritira. Le rane tacciono un istante, poi il coro riprende,<br />

a onde, come un’enorme ma debolissima ar-<br />

26<br />

monica dilatata sulla campagna. Cauta e lenta passa la<br />

notte sul mondo. La notte è come una donna immensa,<br />

vestita di bianco e di nero. Le sue intenzioni e<br />

le sue azioni sono spesso crudeli. La notte è vestita di<br />

fantasmi e la sua voce è l’ingannevole voce delle rane<br />

e quella delle tempeste. I passi leggeri della notte non<br />

svegliano il cane. La notte passa sul mondo con la sua<br />

corte di fantasmi e di assassini e di assassinati.<br />

Senza alzarsi, per non fare ombra, Giosuè si trascina<br />

sino a raggiungere il cane. Posa sul suo capo la palma<br />

della mano aperta. Ne sente il pelo liscio e arido come<br />

velluto. L’arcata delle orbite. Sente sotto il braccio e<br />

nella cavità del gomito il suo dolce calore amico, il<br />

battito profondo e calmo del suo cuore.<br />

Abbracciato al suo cane, Giosuè ha meno paura. Sta<br />

quasi per addormentarsi. Ma all’improvviso il cane ha<br />

un fremito. Solleva la testa, in ascolto. Giosuè lo abbraccia<br />

ancora più stretto. Steso accanto a lui sul fondo<br />

nudo della capanna. <strong>Gli</strong> posa la guancia sul ventre<br />

tiepido e tenero. Il mondo è vuoto e silenzioso.<br />

Il cane si svincola e abbaia.<br />

– Zitto, zitto, Ulisse. Son io. Stai buono. Nessuno<br />

ci farà del male. Dormi.<br />

Il cane si riaccuccia, ansando leggermente. Poi, con<br />

violenza, si libera dal peso di Giosuè che lo tiene abbracciato.<br />

Si alza sulle quattro zampe, proteso in avanti,<br />

e abbaia verso il buio della campagna.<br />

27


Il guerriero<br />

Dovetti fare uno sforzo, per non strangolarlo con le<br />

mie stesse mani, quel disgraziato che si era fatto sorprendere<br />

e, mansueto come un agnello, si era lasciato<br />

legare e aveva permesso che indisturbati si allontanassero<br />

con le nostre vacche. Indisturbati. Tranquilli<br />

come papi. Come se fosse roba loro. Tutte le nostre<br />

vacche. Senza far nulla per impedirlo. Dovevo sforzarmi,<br />

per non strangolarlo con le mie stesse mani,<br />

quell’imbecille che la sorte mi ha dato per figlio.<br />

– Ma babbo… – piagnucolava –, che cosa potevo<br />

fare? Tre contro uno! E loro armati e io disarmato…<br />

Si ripeteva, guardandomi supplichevole e proprio<br />

così aumentando la mia furia, come se non lo sapessi<br />

anch’io che era ingiusto prendermela con lui. Come se<br />

non sapessi che non lui, povero disgraziato, ma neppure<br />

il più valente degli uomini avrebbe potuto opporsi,<br />

senza lasciarci la vita e insieme alla vita anche i<br />

beni che voleva salvare.<br />

Ma proprio perché lo vedevo così fragile e miserabile<br />

che non tre uomini armati ma anche uno solo e disarmato<br />

sarebbe riuscito a sopraffarlo, l’ira continuava a<br />

29


dilagare dentro di me in onde che mi scuotevano il corpo<br />

e mi facevano tremare le dita nell’impeto di stringergliele<br />

attorno alla gola. A quel meschino di figlio<br />

che Dio mi ha dato in sorte.<br />

E l’ira non era solo per la perdita, che era enorme,<br />

totale, ma anche per l’offesa, l’offesa atroce che mi<br />

avevano fatto approfittando di quella mia disgrazia di<br />

un figlio così inetto. Una femmina.<br />

Era proprio pensando alla sua debolezza che, da pastore<br />

di pecore, mi ero trasformato in vaccaro. Ai suoi<br />

grilli di studiare, di farsi geometra o maestro, io non<br />

ci ho mai creduto. Per studiare ci vuole cervello, e lui<br />

di cervello non ha mai dimostrato di averne, disgraziato.<br />

E neanche in questa occasione, ha dimostrato<br />

d’averne di cervello. Né cervello né altro.<br />

Venti vacche di razza. Tutti i nostri beni. E ora la<br />

stalla era vuota e lui era lì, tremante e piagnucolante.<br />

E sembrava davvero credere che volessi strangolarlo.<br />

Ed era invece per lui, pensando al suo futuro, che mi<br />

era venuta l’idea di trasformarmi in vaccaro, io pastore<br />

di pecore.<br />

La somma, il risultato di una vita di lavoro senza riposo,<br />

quelle venti vacche nelle quali avevo investito e<br />

impegnato persino il letto sul quale dormiva quell’altra<br />

infelice di sua madre. Venti vacche per comprare<br />

le quali non era bastato che vendessi le duecento pecore<br />

che erano il frutto di quasi trent’anni di servitù,<br />

ma avevo dovuto inchinarmi a destra e sinistra per ottenere<br />

le firme di cauzione che la banca esigeva per<br />

30<br />

prestarmi la somma che mancava. Perché venti vacche<br />

selezionate significavano anche una stalla moderna,<br />

un medicaio e dei pozzi per l’acqua. Significavano<br />

un silos per il mangime e bidoni nuovi e tanti di quegli<br />

attrezzi che a nominarli sembrano nulla, ma che<br />

sommati costano più di quanto uno non riesca neppure<br />

a immaginarsi.<br />

Venti vacche di razza che erano il frutto del sudore<br />

e del sangue di tutta la mia vita e che dovevano essere<br />

il futuro di quel disgraziato di figlio che se le era lasciate<br />

portar via.<br />

La stalla vuota, così vuota e fredda che, se non fosse<br />

stato per quegli escrementi, avrei quasi potuto credere<br />

di essermele sognate le mie venti vacche di razza.<br />

Dovevano averci spiato bene, i delinquenti. Dovevano<br />

essere stati lì intorno a osservarci e appena si furono<br />

accertati che io mi ero allontanato nella strada verso<br />

il paese, si erano infilati quelle maschere infami ed<br />

erano entrati in azione. E se io per caso, o per miracolo<br />

come sostiene lei, io che non dimentico mai<br />

niente non avessi dimenticato la forma di ricotta fresca<br />

che avevo promesso al dottore e, a circa metà<br />

strada, non fossi tornato per prenderla, allora te lo saluto<br />

il futuro di mio figlio, te le saluto le mie venti<br />

vacche selezionate. Scomparse per sempre, e noi rovinati,<br />

e con vergogna.<br />

– Ma babbo, ascoltatemi, non vi arrabbiate troppo, –<br />

continuava a piagnucolare, – non vi arrabbiate. Che<br />

cosa potevo fare contro tre uomini armati? Tre mitra<br />

31


puntati sulle costole. Voi che cosa avreste fatto? Che<br />

cosa avreste fatto voi?<br />

Che cosa avrei fatto io? Io, io, io li avrei fatti a pezzetti<br />

con la sola forza del mio odio, loro e i loro maledetti<br />

mitra. Li avrei schiacciati col mio odio. Come<br />

scarafaggi. In polvere. In polvere li avrei ridotti.<br />

Ma sapevo che non era vero, nessuno avrebbe potuto<br />

opporsi. E a che cosa serviva umiliare il ragazzo?<br />

Serviva solo a farmi salire la pressione al punto che le<br />

vene delle tempie me le sentivo prossime a esplodere.<br />

Dopo avergli gridato, dopo averlo scosso come un<br />

fantoccio di stracci, artigliandolo per quelle spallucce<br />

magre che sotto la pressione delle mie dita rivelavano<br />

la loro gracilità femminea, il vento della mia ira cambiò<br />

direzione e la furia per l’insulto si trasformò in una<br />

più chiara consapevolezza della rovina che ci incombeva.<br />

E più forte divenne l’angoscia per la miseria di<br />

quel meschino di figlio che la sorte ci aveva dato. Quel<br />

figlio che avrebbe dovuto essere il nostro sostegno e<br />

che invece sarò io a dover aiutare e proteggere sino a<br />

che una goccia di sangue continuerà a scorrermi nelle<br />

vene. Quel figlio la cui debolezza mi aveva convinto a<br />

vendere il gregge per trasformarci, noi pastori di pecore<br />

brade, in vaccari moderni.<br />

Era per lui, per il suo futuro, che ora, subito, senza<br />

perdere un altro minuto, dovevo mettermi a inseguirli,<br />

i maledetti. Avevano già troppe ore di vantaggio<br />

su di noi e, se non volevo rinunziare a qualunque<br />

speranza, era ora, subito, che dovevo mettermi a inse-<br />

32<br />

guirli. Mandai il ragazzo a chiedere aiuto ai vicini, e<br />

mi avviai.<br />

La terra era dura come roccia, dopo tanto vento e siccità,<br />

ma venti vacche e tre cavalli fortunatamente non<br />

possono non lasciare tracce del loro passaggio.<br />

Era uno schifoso periodo di reumatismi. Uno di quei<br />

periodi in cui le mie ossa diventano un mucchio disordinato<br />

di carboni accesi, e non una goccia di sudore<br />

riesce a spremersi da questa pesante carcassa incendiata<br />

in cui si è trasformato il mio corpo.<br />

Dopo che a febbraio si erano sciolte le ultime nevi,<br />

non era caduta una goccia d’umidità sulla terra che<br />

era secca e bruciata dal vento come se anziché dall’inverno<br />

stessimo uscendo da una lunga estate. Le nuvole<br />

passavano alte sopra di noi, ma non davano pioggia<br />

né neve come se non contenessero altro che vento.<br />

Anche quella notte correvano per il cielo nascondendo<br />

e rivelando la luna, e facendo scricchiolare le mie<br />

vecchie ossa quando, per non perdere le tracce, ogni<br />

tanto dovevo smontare da cavallo e camminare a piedi<br />

sino a che non mi accertavo di essere ancora sulla<br />

strada giusta.<br />

Ma anche a costo di morire, a costo di spaccarmi il<br />

cuore, a costo di girare tutta l’isola, avrei dovuto raggiungerli<br />

quei maledetti e riprendermi ciò che era<br />

mio. Le mie venti vacche selezionate. Il frutto di tutta<br />

una vita di fatiche. Ma meglio spaccarlo a loro il cuore,<br />

a quei maledetti che avrei voluto vedere sbranati dai<br />

miei cani.<br />

33


E invece erano loro, i miei cani, che avevo visto giacere,<br />

rigidi di veleno, nell’aia davanti alla stalla. Anche<br />

questo dovevano pagare i delinquenti. I miei cani<br />

che quando arrivavo mi venivano incontro come bambini<br />

affettuosi e che ora giacevano lì, morti, gettati<br />

alle mosche e all’astore.<br />

Non mi ci volle molto per accertarmi di ciò che temevo:<br />

come del resto era logico e io stesso al loro posto<br />

avrei fatto, si erano avviati in direzione del Passo<br />

della Croce. Di lì si diramavano tre sentieri, uno dei<br />

quali sboccava nella strada provinciale dove sicuramente<br />

c’erano dei camion pronti a trasportare le mie<br />

bestie in qualche irraggiungibile luogo. Per venderle<br />

a qualche allevatore che le avrebbe mescolate e camuffate<br />

fra le sue bestie, o a qualche beccaio esperto in<br />

timbri falsi che le avrebbe macellate e imbarcate chissà<br />

dove in qualche approdo sulla costa dove i pescatori<br />

ponzesi son pronti a tutto, pur di trovare un pezzo<br />

di pane per togliersi la fame.<br />

Bisognava che li raggiungessi prima del Passo della<br />

Croce, se non volevo rischiare di perdere tempo prezioso<br />

esplorando i tre sentieri.<br />

Un po’ a cavallo, un po’ a piedi dove le tracce diventavano<br />

incerte, con quella luna che entrava e usciva<br />

dalle ventose montagne di nuvole che tempestavano<br />

in cielo, procedevo voltandomi ogni tanto, nella speranza<br />

di vederli arrivare, i vicini che dovevano aiutarmi,<br />

e mio figlio.<br />

Non vedendoli, senza fermare il cavallo, tiravo fuo-<br />

34<br />

ri l’orologio e constatavo che per la mia ansia il tempo<br />

correva più rapido delle lancette del mio Roskoff.<br />

35


Astianatte<br />

Come al solito, poco dopo l’ingresso la maestra l’aveva<br />

scacciato di classe. Fuori nell’andito. Per non disturbare<br />

le lezioni. Tanto lui dell’insegnamento non<br />

era in grado di profittarne neppure un poco, e con la<br />

sua presenza non avrebbe fatto che impedire ai compagni<br />

di stare attenti. I motivi per metterlo in castigo<br />

non occorreva cercarli. Bastava un’ispezione superficiale<br />

alle sue orecchie e alle sue unghie, sempre orlate<br />

di nero, coperte di croste, per avere ragioni più che<br />

sufficienti per isolarlo dagli altri. Una mela marcia<br />

nel canestro può corrompere tutte le altre. Meglio sacrificare<br />

uno per il bene degli altri.<br />

E Astianatte solo nell’andito s’annoiava. Astianatte<br />

aveva freddo. Astianatte non sapeva perché era stato<br />

scacciato, e non se lo domandava. Era così ogni mattina.<br />

I vetri della finestra dell’andito erano rotti. Nell’andito<br />

della scuola c’era più freddo che nella strada.<br />

E nell’andito era proibito giocare e fare chiasso. Astianatte<br />

s’annoiava e aveva freddo.<br />

Da sotto la porta delle latrine filtrava una grande<br />

37


pozzanghera d’acqua sporca. Per far passare il tempo,<br />

Astianatte si mise a camminare nell’acqua. L’acqua della<br />

pozzanghera era fredda.<br />

Astianatte cominciò a stampare le impronte dei<br />

propri piedi bagnati sulla polvere delle mattonelle tra<br />

la porta dell’aula di quarta e la porta dell’aula di prima.<br />

Tutte in fila, all’alluce destro attaccato il calcagno<br />

sinistro e all’alluce sinistro attaccato il calcagno destro.<br />

Una fila di orme sempre più indistinte perché frattanto<br />

i piedi s’asciugavano.<br />

Ma a lungo andare neanche questo era divertente. La<br />

noia aumentava l’impressione di freddo e Astianatte,<br />

appoggiato al davanzale della finestra, tremava e sbadigliava.<br />

Forse aveva fame. Astianatte provò a ricordarsi<br />

il sapore della patata arrosto che aveva trovato<br />

sotto la cenere calda quando si era svegliato. Ma riusciva<br />

soltanto a ricordare quanto era buona e questo gli<br />

aumentava la fame. Provò a pensare a sua madre, che<br />

prima di uscire per andare a lavorare aveva pensato a<br />

lui e aveva messo quella bella patata ad arrostire sotto<br />

la cenere. Certe mattine lo faceva, certe mattine se ne<br />

dimenticava. La mamma di Astianatte non aveva molto<br />

tempo per occuparsi di lui e certi giorni a casa da<br />

mangiare ce n’era, certi altri no. La mamma di Astianatte<br />

era fortunata. Lei non doveva andare a scuola.<br />

Andava in campagna quasi tutti i giorni. A raccogliere<br />

olive, a raccogliere ghiande, a raccogliere finocchietti<br />

selvatici, a raccogliere funghi, a raccogliere cicoria, a<br />

raccogliere fichi d’India… Astianatte si sentiva l’ac-<br />

38<br />

quolina in bocca, pensando a tutte quelle cose buone.<br />

Un ragnetto piccolissimo aveva costruito la sua tela<br />

in un angolo tra lo stipite della finestra e il davanzale.<br />

Astianatte lo catturò e si propose di staccargli le zampe<br />

a una a una. Era un’impresa difficile perché le zampette<br />

erano così sottili e piccine che non si riusciva ad<br />

afferrarle. Facendo molta attenzione e con grande sforzo,<br />

Astianatte riuscì a staccarne due. Poi si stancò, o si<br />

distrasse. Per un poco fu assorbito nella contemplazione<br />

di come il ragno provava ad allontanarsi zoppicando<br />

sulle zampe che gli erano rimaste.<br />

Come tutti i giorni, scacciandolo, la maestra gli aveva<br />

raccomandato di non allontanarsi dall’andito e gli aveva<br />

promesso, o minacciato - Astianatte non conosceva<br />

la differenza - che si sarebbe affacciata ogni tanto per<br />

tenerlo d’occhio. Invece non si mostrava. Ma forse non<br />

era passato tanto tempo. Tutte le porte di tutte le aule<br />

restavano chiuse. Anche il bidello, dopo aver suonato la<br />

campana e aver assistito all’ingresso delle classi, si era<br />

come al solito ritirato nel suo sgabuzzino, a bere dalla<br />

sua borraccia d’acquavite e a dormire. Non lo si rivedeva<br />

prima della campana della ricreazione.<br />

Astianatte s’annoiava e aveva freddo.<br />

Una donna imbacuccata in uno scialle nero passò<br />

nella stada dietro la cancellata della scuola. Il vento le<br />

muoveva le frange dello scialle. Il vento le sollevava<br />

l’orlo delle lunghe sottane scure. La donna camminava<br />

un po’ curva. Con una mano teneva strette le sottane,<br />

con l’altra lo scialle.<br />

39


Dopo che la donna fu passata, non accadde più<br />

niente. La mente di Astianatte era vuota. Forse Astianatte<br />

aveva persino smesso d’annoiarsi. Da un’aula si<br />

alzò un coro di scolari. “Nel bosco c’è un ometto, gentile<br />

e bel / di porpora il farsetto, ed il mantel”. Astianatte<br />

provò a cantare anche lui, ma si spaventò della<br />

propria voce. Si guardò attorno timoroso. L’andito era<br />

ancora deserto.<br />

Zio Battista, il bidello, si portava a scuola, per scaldarsi,<br />

un braciere di carbonella e una borraccia d’acquavite.<br />

Zio Battista era vecchio e il Comune lo teneva<br />

come bidello solo per pietà, come dicevano alcuni.<br />

Per non essere costretti a pagare la pensione a<br />

lui e lo stipendio di bidello ad un altro, come dicevano<br />

altri. Astianatte di questo non sapeva niente.<br />

Zio Battista c’era, e basta. Come tutte le cose e le persone<br />

c’erano, e basta. Non c’erano cause ed effetti nel<br />

mondo di Astianatte. Ma Astianatte immaginava che<br />

nello sgabuzzino di zio Battista, con quel braciere di<br />

carbonella e quel vago odore d’inchiostro e d’acquavite,<br />

si doveva stare bene. Senza rendersene conto, già<br />

stava percorrendo l’andito. Senza riflettere, stava spingendo<br />

la porta e stava entrando nello stanzino del bidello.<br />

Zio Battista stava sdraiato su una panca. Un po’ raggomitolato<br />

su un fianco. Un fascio di carte polverose<br />

gli faceva da guanciale e il suo berretto bisunto gli copriva<br />

il viso. Il suo respiro era impercettibile e Astianatte<br />

pensò che, se zio Battista era morto, la maestra<br />

40<br />

avrebbe accusato lui d’averlo ucciso e allora l’avrebbero<br />

messo in prigione, come suo padre, e l’avrebbero<br />

condannato a restare in prigione tutta la vita. Come<br />

suo padre. La sua certezza era così ferma e pura che<br />

neppure preoccupazione e rancore vi erano mescolati.<br />

Le cose accadevano chissà dove, chissà in quale buio,<br />

fuori dalla volontà umana. Ed erano inevitabili. Non<br />

si può avere rancore, né altro genere di sentimenti,<br />

verso le cose inevitabili.<br />

Zio Battista però non era morto, e il fruscio che i<br />

piedi scalzi di Astianatte fecero entrando lo destò dal<br />

suo sonno leggero di vecchio. Sollevò un momento il<br />

berretto, per vedere chi c’era. Poi, senza muoversi, domandò:<br />

– Che cosa vuoi?<br />

Astianatte non sapeva che cosa voleva - tepore? compagnia?<br />

distrazione? - e non rispose. Rimase lì, sollevando<br />

appena le spalle come in una muta risposta, la<br />

testa inclinata sull’omero, la bocca socchiusa e una<br />

lunga candela di moccio che gli scendeva dal naso.<br />

C’era odore d’inchiostro, di polvere, d’acquavite. Un<br />

buon odore. Molto meglio che nell’andito dove c’era<br />

odore di latrina.<br />

Zio Battista si rimise il berretto sugli occhi, senza<br />

insistere nella sua domanda. Astianatte s’accoccolò per<br />

terra, accanto al braciere. Fra le ceneri grigio-rosate<br />

s’accendevano minuscole scintille. Come stelline. O<br />

come, nelle notti d’estate, le luci dei paesi sparsi nelle<br />

valli e montagne lontane.<br />

41


Guardandole, Astianatte s’assopì e gli parve che fosse<br />

estate e che se ne stesse seduto sui gradini davanti<br />

al portone del municipio. E questo era tutto il suo sogno:<br />

era estate, e lui se ne stava seduto davanti al portone<br />

del municipio perché la scuola era chiusa.<br />

Una mosca gli sfiorò l’orecchio e Astianatte fece<br />

per schiacciarla, ma la mosca non era una mosca ma<br />

la mano di zio Battista che si era alzato e, chino su di<br />

lui, gli parlava.<br />

– Sei ancora qui?<br />

Astianatte s’alzò e, senza rispondere, trascinando i<br />

piedi s’avviò verso la porta. Era già sulla soglia quando<br />

zio Battista lo chiamò. Porgendogli la borraccia gli diceva:<br />

– Bevi anche tu, figliolino. È un sorso di sole. Bevine<br />

un po’. Fa molto freddo, oggi.<br />

Sentendosi chiamare “figliolino”, Astianatte scoppiò<br />

a piangere.<br />

42<br />

Maschera e maschere<br />

A babbo non lo dissi. Perché babbo lo temo. Lui è<br />

così forte e sicuro di sé, e niente di ciò che dico o faccio<br />

gli va bene. Ma non sono un idiota, come lui crede.<br />

E ho capito subito che quelli avevano cattive intenzioni<br />

e che se avessi cercato di oppormi mi avrebbero<br />

fatto la festa. E ho anche capito subito che se volevo<br />

salvarmi la vita dovevo far finta di non averli riconosciuti.<br />

E anche con babbo faccio finta di non sapere, a costo<br />

di farmi credere più stupido e buono a nulla di<br />

quanto sono.<br />

– Erano mascherati e quando sono entrati io dormivo.<br />

– Dormivi? Disgraziato… fannullone, idiota… che<br />

non so come faccia la terra a sopportarti… e non ti<br />

vergogni a dirlo, che a quell’ora dormivi?<br />

– Be’ forse non dormivo proprio… Ma mi ero coricato…<br />

perché… non sapevo che cosa fare… le vacche<br />

erano già nella stalla e ormai sino alla notte non sapevo<br />

come passarlo, il tempo. E sono entrati all’improvviso<br />

senza far rumore… O se ne hanno fatto, il<br />

43


umore che hanno fatto si sarà mescolato al rumore<br />

del vento… Io non li ho sentiti… I cani non hanno<br />

abbaiato…<br />

M’interrompeva continuamente, ma io continuavo,<br />

come una macchina, e più io parlavo, più lui si arrabbiava,<br />

gridando e stringendo i pugni come se volesse<br />

massacrarmi. E più lui gridava, più io avevo paura, e<br />

la perdita delle vacche mi pareva niente in confronto<br />

alla paura e alla vergogna che provavo davanti a lui.<br />

– E tu dormivi… come una donnicciola, tranquillo e<br />

pacifico, come l’imbecille che sei… e lasciavi che ti avvelenassero<br />

i cani, che valevano più loro di te, quei cani,<br />

che gli mancava solo la parola… e tu la parola ce<br />

l’hai e te ne servi solo per dire sciocchezze, come una<br />

donnetta. E come una donnetta ti lasciavi legare e imbavagliare<br />

e bendare senza reagire… che anche un<br />

agnello avrebbe tentato di opporsi… ma tu no… tu<br />

che diventerai la favola del paese e che non so che cosa<br />

mi trattiene dallo strangolarti con le mie stesse mani…<br />

Gridava e gridava e temevo che, arrabbiato com’era,<br />

davvero mi uccidesse. Ma all’improvviso cambiò, e quasi<br />

calmo mi diede l’ordine di andare ad avvertire i vicini<br />

e chiedere aiuto per la ricerca, mentre lui, senza perdere<br />

altro tempo, voleva mettersi sulle tracce dei ladri, prima<br />

che il temporale scoppiasse e cancellasse tutto.<br />

Io lo sapevo che “i vicini”, o almeno uno di loro, era<br />

inutile cercarli, perché era proprio di lì che era partito<br />

il colpo. Ma ci andai lo stesso, perché tanto stupido<br />

non sono e se non fossi andato anche lì a chiedere aiuto,<br />

44<br />

avrebbero capito che sapevo chi ci aveva derubati, che<br />

avevo solo fatto finta di dormire e che li avevo riconosciuti.<br />

E oggi non sarei qui a ricordarlo.<br />

In quell’ovile naturalmente non c’era nessuno, solo<br />

un ragazzino che disse che il padrone era a Pediada.<br />

Poi andai dagli altri vicini, e trovai due uomini anziani<br />

che ci sono parenti e che vennero insieme a me,<br />

nella direzione in cui era partito babbo. Le tracce erano<br />

ancora visibili e facili da seguire perché ogni tanto<br />

c’era la luna e fortunatamente il temporale non era<br />

ancora scoppiato, il terreno era asciutto e duro come<br />

d’estate, e venti vacche e tre cavalli lasciano un bel<br />

po’ di sterco sulla loro strada.<br />

Ma intanto erano passate diverse ore e babbo doveva<br />

aver camminato molto in fretta, perché lo incontrammo<br />

quando già aveva recuperato il bestiame e stava<br />

tornando, spingendole tutte e venti, le vacche, avanti<br />

a sé. E neppure una ne mancava, come se fossero appena<br />

uscite dalla stalla.<br />

Però non sembrava contento. E forse solo io capivo<br />

perché non poteva essere contento, anche se dovevo e<br />

devo far finta di non sapere niente. Ma sapevo chi<br />

erano i ladri e perciò sapevo che, anche se la roba era<br />

recuperata, l’offesa restava e resta. Ed è un’offesa grave.<br />

Io però facevo finta di niente, perché una volta che<br />

si comincia con una bugia meglio continuare a dirla,<br />

se no poi non ti credono neppure quando dici la verità.<br />

E io avevo detto di non aver riconosciuto nessuno<br />

e così continuerò a dire.<br />

45


In principio l’ho detto per paura di babbo, che se<br />

avesse saputo che li avevo sentiti e che non avevo neppure<br />

tentato di difendermi, si sarebbe infuriato ancora<br />

di più. Ora continuo a dirlo, anche se tutti ridono di<br />

me, perché dopo quello che hanno fatto a Giosuè, voglio<br />

che loro sul mio conto si sentano sicuri, e non facciano<br />

a me ciò che hanno fatto a lui, che una fine peggiore<br />

non potevano fargliela fare.<br />

Ma io so. E so, dalla faccia che aveva, che anche<br />

babbo sa chi erano. Anche se di questo non ha detto<br />

neanche una parola e anzi, quando gli hanno domandato,<br />

ha risposto che erano mascherati, che dovevano<br />

essere forestieri e che l’importante per lui era che le<br />

vacche erano di nuovo nella stalla e che di quel furto<br />

mancato non era neppure il caso di continuare a parlarne.<br />

Chi fossero o chi non fossero era senza importanza,<br />

ha risposto a chi gli domandava. Ma tutti sanno<br />

che ciò significa soltanto che per lui la faccenda è<br />

chiusa, e non necessariamente che non sa chi fossero i<br />

ladri. Tutti sanno che ognuno può avere i suoi buoni<br />

motivi per tacere, che i segreti bisogna rispettarli, e<br />

non bisogna forzare nessuno a dire ciò che non vuole<br />

dire.<br />

E io invece non desidero che di poterne parlare con<br />

qualcuno. Ma so che devo tener duro e continuare a<br />

tacere, in questo maledetto paese dove tutti abbiamo<br />

paura. Anche babbo, con tutto il suo orgoglio e il suo<br />

coraggio, perché non dovrebbe andare a denunziarli,<br />

se non perché ha paura?<br />

46<br />

Ma come si può vivere tutta la vita, sempre, con la<br />

bocca chiusa, perché se la apri la bocca, ti può capitare<br />

quello che è capitato a Giosuè? Io non sono adatto a<br />

questa vita. Ma babbo non lo vuol capire che non è perché<br />

sono stupido e vigliacco, come dice lui, è soltanto<br />

che io desidero una vita diversa da questa. Una vita che<br />

non so neppure io come, ma diversa. In un altro posto,<br />

con un’altra vita, sarei bravo anch’io. E un giorno o l’altro,<br />

che a babbo piaccia o non piaccia, me ne vado. Meglio<br />

in fondo a una miniera belga che in questo paese<br />

maledetto.<br />

47


Il messaggero<br />

L’aspetto confuso e le parole dell’uomo che venne ad<br />

annunciarci la nostra sventura.<br />

È un uomo senza volto nella mia memoria. Ne ricordo<br />

invece i gambali di cuoio impolverati e le mani<br />

pallide dalle grosse vene rilevate e ombreggiate di radi<br />

peli scuri. Forse perché il viso restava in ombra, o forse<br />

perché mi fissai a guardargli le mani, e i gambali, non<br />

vidi il suo volto.<br />

La sua massiccia figura invase a un tratto la porta<br />

dalla quale entravano le ultime luci del tramonto. La<br />

sua ombra scura corse per l’ineguale pavimento della<br />

cucina.<br />

Dietro di lui, come lo sfondo di un quadro, il muro<br />

del cortile ancora in luce. I passeri gridavano tutti insieme,<br />

nascosti tra le foglie dell’edera.<br />

L’uomo varcò la soglia e, con impaccio, per prendere<br />

tempo o per buona creanza, si dilungò nei convenevoli<br />

di saluto. Nonna restò seduta sulla sua seggiola impagliata,<br />

nel suo posto consueto, nell’angolo tra il muro<br />

e il camino. Le mani ossute abbandonate sulle ginocchia,<br />

rispondeva per tutti con le frasi di prammatica.<br />

49


Recitavano un dramma del quale ancora non si erano<br />

udite che le prime insignificanti battute. Eppure<br />

già si sentiva un’inquietudine che non sfuggì neppure<br />

a noi, le più giovani. Era come se, dal suo primo apparire,<br />

insieme a lui avessimo sentito entrare la morte.<br />

Mamma continuava a sbucciare le patate e guardava<br />

l’uomo, aspettando che dicesse, ma senza chiederglielo,<br />

il motivo della visita. Non si domanda all’ospite<br />

perché sia venuto, bisogna dargli tempo. L’uomo era<br />

ancora un ospite.<br />

L’ombra era diventata all’improvviso più fitta e il<br />

ticchettio della sveglia sul camino mi pareva particolarmente<br />

alto e fastidioso. L’uomo fece col capo un<br />

breve cenno verso me e Daniela che sedevamo accanto<br />

al tavolo, con i quaderni e i libri aperti. Io avevo finito<br />

la scuola già da quattro anni, ma mi preparavo<br />

per corrispondenza a questo diploma nel quale mettevo<br />

tutte le mie speranze.<br />

Mamma ci mandò in cortile per cogliere del basilico.<br />

Sapevamo che ciò significava che dovevamo restar fuori<br />

sino a che non ci avesse chiamato. L’uomo portava un<br />

messaggio che non voleva dare in nostra presenza.<br />

Ubbidimmo a malincuore. Chiudemmo libri e quaderni<br />

e uscimmo lentamente, tendendo l’orecchio. Ma<br />

l’uomo continuò a tacere sino a che non fummo nel<br />

cortile che ora era colmo del vocio dei passeri che si<br />

contendevano lo spazio tra le foglie dell’edera e nei<br />

vani sotto le tegole.<br />

Ma più alto del vocio di cento e cento passeri, più<br />

50<br />

penetrante del grido del vento quando la tempesta<br />

infuria sulla terra, più terrificante del fragore del<br />

tuono, ci colpì l’urlo di mamma. Un urlo di bestia<br />

ferita nel quale a mala pena riconoscemmo la sua voce.<br />

I passeri tacquero e l’aria ne tremò tutta.<br />

Ci ritrovammo in cucina. Mamma scuoteva l’uomo<br />

per le spalle. Era grande e terribile mamma in quel<br />

momento, e l’uomo pareva essersi rimpicciolito e indebolito.<br />

All’improvviso mi pareva un vecchio.<br />

– Dilla tutta la verità! Dillo che la nostra casa è caduta!<br />

Dillo che è morto, e che voi l’avete ucciso, il<br />

mio bambino, la mia palma d’oro! Voi che lo sapevate<br />

in pericolo e non l’avete difeso…<br />

– Calmati, Lucia. È la volontà di Dio. Dio ci dà le<br />

sventure ma ci dà anche la rassegnazione. Tu sei religiosa<br />

e Dio ti darà la rassegnazione.<br />

All’implicita conferma dell’uomo, mamma era crollata.<br />

Era ridiventata piccola e singhiozzava, con le spalle<br />

accasciate, mentre l’uomo ora era gigantesco e forte<br />

e cercava goffamente di calmarla.<br />

Anche nonna si era levata in piedi e l’abbracciava.<br />

Nella confusione che all’improvviso aveva sconvolto<br />

la casa, le parole di nonna, stranamente scandite, vibrarono<br />

nell’aria come uno schiocco di frusta.<br />

– Come è vero Dio, qualcuno cancellerà col sangue<br />

queste lacrime!<br />

Anche quella sera babbo tornò a casa barcollante d’ubriachezza.<br />

Ma nessuno badava a lui. Come un estraneo<br />

si mise a sedere in un angolo vicino al forno, guar-<br />

51


dandosi attorno con espressione colpevole e idiota. Dovevo<br />

non guardarlo, per non detestarlo troppo.<br />

La cucina si era riempita di gente. Era come se tutto<br />

il paese avesse atteso dietro il muro del cortile che il<br />

grido di mamma desse il segnale di quella cerimonia<br />

che era stato pronto a celebrare. Le voci si sommavano<br />

in un brusio di alveare. Quella di mamma sovrastava<br />

tutte le altre, ma era alta e stridula come la voce di<br />

un’invasata. Una voce che non le conoscevo. Tutti la<br />

ascoltavano, come si ascolta il prete quando celebra le<br />

sue funzioni davanti all’altare.<br />

Mamma ora, tra lamenti e pianti, raccontava un sogno<br />

che l’aveva torturata le ultime tre notti.<br />

Bianco come un giglio un agnello pascolava per una<br />

tanca fiorita. Ma a un tratto l’aria s’oscurava e un falco<br />

piombava fulmineo sull’agnello, e lo sgozzava. Il sangue<br />

scorreva nero e denso, coprendo l’erba e i fiori,<br />

inondando la campagna in un orrendo, vorticoso torrente<br />

di pece nel quale lei, che paralizzata dall’angoscia<br />

aveva assistito alla scena senza poter reagire, si<br />

sentiva soffocare.<br />

Per tre notti si era svegliata, madida di sudore e col<br />

cuore tremante di spasimo, sentendo una voce che la<br />

chiamava. Ma non aveva saputo interpretare il presagio.<br />

Giosuè, mio fratello, era stato sgozzato dai falchi che<br />

per sua sventura aveva visto passare davanti all’ovile<br />

del Passo della Croce, dove era stato mandato a custodire<br />

una mandria di porci.<br />

52<br />

A Cesare quel ch’è di Cesare<br />

Di peccati ne aveva altri sulla coscienza, e anche di<br />

questo l’unico vero responsabile fu lui. Noi eravamo<br />

presenti, inutile negarlo davanti a Dio anche se gli uomini<br />

da me non lo sapranno mai. Perché ormai il mio<br />

destino è legato al suo e il male che capiterà a lui sarà<br />

anche il mio male. Noi eravamo presenti, vero, ma<br />

come avremmo potuto impedire che ciò che accadde accadesse?<br />

Se Dio non l’aveva impedito, come potevano<br />

impedirlo noi? Dio sa tutto, anche ciò che ancora non è<br />

accaduto, noi invece non potevamo certo immaginare<br />

che stesse per accadere una simile mostruosità, che dovesse<br />

capitare una disgrazia come quella, e proprio sotto<br />

i nostri occhi. Tutto potevamo pensare, ma non quello.<br />

Per noi era stata un’impresa come un’altra: se eravamo<br />

valenti e fortunati bene, e se no pazienza. Se non<br />

diventavamo più ricchi non diventavamo neppure più<br />

poveri per averci provato. E neanche disonorati. Ma<br />

per lui era diverso. Era lui che aveva obblighi di vicinanza<br />

e di parentela con zio Antonio Flores, il proprietario<br />

delle vacche. Io no, neppure lo conoscevo, se non<br />

di vista e di nome, zio Antonio Flores. E rubare non è<br />

53


offesa, peggio per chi non la sa difendere la roba sua.<br />

Ma lui no. Lui aveva mangiato e bevuto in casa di<br />

zio Antonio Flores. Rubandogli il bestiame lui tradiva<br />

uno che lo aveva trattato da amico.<br />

Per me, quando zio Antonio Flores ci raggiunse, la<br />

partita poteva anche considerarsi chiusa, con o senza<br />

abbuono. L’impresa era fallita, e pazienza. Anzi io sentivo<br />

che era giusto così. Zio Antonio Flores aveva dimostrato<br />

di essere più bravo di noi. Un uomo. Bastava<br />

il coraggio che aveva dimostrato, presentandosi da solo<br />

a noi tre armati, per meritargli il massimo rispetto.<br />

Un uomo così, in guerra, l’avrebbero fatto generale e<br />

gli avrebbero coperto il petto di medaglie.<br />

Lui invece no. Lui sapeva di essere nel torto ed era<br />

diventato pazzo d’umiliazione e di vergogna. Zio Antonio<br />

Flores l’aveva riconosciuto, anche se sentendolo<br />

arrivare ci eravamo rimessi le maschere, e prima di ripartirsene<br />

con la sua roba, gli aveva sputato addosso.<br />

A lui, e non a noi. E noi avevamo visto che gli aveva<br />

sputato addosso.<br />

Forse fu anche per chiuderci la bocca, perché non potessimo<br />

raccontare in giro che zio Antonio Flores gli<br />

aveva sputato addosso, più che per vendicarsi di quel<br />

bambino, che ci portò a “regolare i conti col ragazzo<br />

del Passo della Croce”. Il quale, poveretto, magari non<br />

aveva neppure parlato. E non era necessario che parlasse<br />

perché un uomo, come zio Antonio Flores aveva<br />

dimostrato di essere, capisse che cosa volevamo fare<br />

delle sue vacche, e quale strada avevamo preso.<br />

54<br />

Sino all’ultimo però, come è vero Dio, non capii che<br />

cosa intendeva dire con “regolare i conti”. Forse non lo<br />

sapeva neppure lui. È stata una cosa che gli è saltata in<br />

mente mentre già la faceva, o che ha capito di aver<br />

fatto dopo che ormai era irrimediabile. Perché non<br />

sono nato ieri, ma una cosa così non era mai accaduta<br />

nel mondo, e non immaginavo che potesse accadere.<br />

Regolare i conti, pensavo una bastonata, uno spavento,<br />

uno sfregio. Non quella pazzia smisurata che quando<br />

tentammo di opporci, quasi travolse anche noi.<br />

– Ma compare, che fate? – gli gridammo quando<br />

vedemmo che già col coltello in mano gli apriva la<br />

bocca come a una bestia e gli tirava fuori la lingua.<br />

Tenendo fra le dita quel pezzo di lingua sanguinante<br />

si voltò verso di noi col coltello alzato, come minacciandoci.<br />

Era impazzito, completamente impazzito.<br />

Credo di aver chiuso gli occhi, perché intorno a me<br />

tutto divenne buio e rosso. Come quando ci si addormenta<br />

al sole. E c’era solo quell’urlo di bestia che non<br />

so se veniva da lui o dal ragazzo.<br />

Poi voleva andarsene, lasciandolo in quell’agonia senza<br />

speranza. Finirlo fu solo pietà. Perché terminasse<br />

di soffrire e perché la smettesse con quell’urlo che non<br />

pareva più umano.<br />

È vero, non fu lui a sparare. A dare il colpo di grazia.<br />

Ma la colpa di tutto era sua e solo sua, e il fatto<br />

che fosse così ubriaco non è una scusa sufficiente.<br />

Anche noi eravamo ubriachi. Tutta la notte e tutto il<br />

giorno che seguì, dopo che zio Antonio Flores se n’era<br />

55


andato con le sue bestie, lasciandoci a mani vuote e col<br />

cuore pieno d’umiliazione, li avevamo passati a bere. E<br />

più bevevamo, più sembrava aumentare il veleno dentro<br />

di lui. Io ero cotto, perché il vino non lo resisto, ma<br />

del suo veleno non potevo non accorgermene. E in un<br />

certo qual modo mi pareva anche giusto, che fosse così<br />

avvelenato.<br />

Quel temporale che minacciava da giorni e che avevamo<br />

sperato che scoppiasse e cancellasse le nostre<br />

tracce, girava ancora nell’aria senza dare una goccia<br />

d’acqua. Solo vento, e quella minaccia pesante nell’aria.<br />

Eravamo tornati al suo ovile, e così bevendo era passato<br />

il giorno ed era tornata la notte, senza portarci né<br />

sonno né pace. Quando lui cominciò a parlare di andare<br />

“a regolare i conti”, sellammo di nuovo i cavalli e<br />

partimmo. Io però, ubriaco com’ero, non capivo quali<br />

erano i conti che dovevamo regolare. Pensavo che forse<br />

voleva di nuovo tentare il colpo con le vacche di zio<br />

Antonio Flores o qualcosa di simile.<br />

Tutti eravamo ubriachi, ma io ero così ubriaco che<br />

non riesco a ricordare nulla di quel ritorno al Passo<br />

della Croce, che meglio sarebbe chiamarlo Passo dell’Inferno,<br />

dopo ciò che è successo. Perché doveva esserci<br />

il diavolo, lì ad aspettarci. A meno che non fosse<br />

stato con noi sin dal principio.<br />

Ricordo però che risi, perché in quel momento la<br />

cosa mi pareva molto divertente, quando sparò una<br />

raffica di mitra sul cane e cominciò a prendere a pedate<br />

il ragazzo che a ogni colpo veniva sollevato<br />

56<br />

mezzo metro da terra e poi ricadeva come un sacco di<br />

stracci. E gridava e supplicava, e anche quello mi pareva<br />

divertente, ubriaco com’ero.<br />

Ma quando gli vedemmo in mano il coltello e vedemmo<br />

che gli apriva la bocca e gli tirava fuori la lingua<br />

come a una bestia malata: – Ma compare, che fate?<br />

– gli gridammo. Ma già si voltava, tenendo nella destra<br />

il coltello levato su di noi e nella sinistra quel<br />

pezzo di carne sanguinante.<br />

Voleva abbandonarlo lì in quell’agonia senza speranza,<br />

voleva che ce ne andassimo lasciando che gettasse<br />

dalla bocca tutto il suo sangue, senza neppure<br />

potersi lamentare, solo quel grido soffocato e terribile<br />

da bestia. Ma anche se ubriachi, a noi la pietà non ci<br />

aveva abbandonato del tutto e chi gli sparò lo fece<br />

perché finisse quella sofferenza senza speranza. Ma<br />

con quell’atto di pietà ci eravamo per sempre legati a<br />

lui, alla sua malvagità, al suo destino.<br />

57


Una cosa grande e solenne<br />

Il suo corpo venne riportato in paese, già chiuso in<br />

una doppia bara, e non potemmo vederlo. Mamma<br />

sembrava pazza, con i capelli sciolti sotto il fazzoletto<br />

nero gridava e cantava, improvvisando, la bontà e l’innocenza<br />

di Giosuè, il nostro dolore, e la crudeltà di<br />

quelli che si erano macchiati del suo sangue. Si teneva<br />

abbracciata alla bara per impedire che la portassero<br />

via, e la baciava e carezzava come se sotto il legno sentisse<br />

il corpo sfregiato del suo bambino.<br />

Quando le campane cominciarono a suonare e don<br />

Marcellino entrò, accompagnato dal chierichetto e<br />

dagli uomini della confraternita nei loro atroci camici<br />

bianchi, la staccarono di forza e la ricondussero nell’angolo<br />

accanto al camino spento, dove era rimasta<br />

quasi senza muoversene dal momento in cui l’uomo ci<br />

aveva portato la notizia.<br />

Io non riuscivo a piangere. Tentavo d’immaginare<br />

Giosuè morto, ma non ci riuscivo. Tentavo allora di ricordarlo<br />

vivo, ma anche così la sua immagine risultava<br />

sbiadita e confusa. Ricordo persino che mi vergognavo<br />

di non piangere e mi distraevo a pensare che le vicine<br />

59


mi avrebbero criticato per la mia apatia e freddezza. Io<br />

stessa, molte volte, tornando dai funerali, avevo fatto<br />

commenti e misurato il dolore dei parenti del morto<br />

dall’altezza dei loro lamenti e dalla quantità delle loro<br />

lacrime.<br />

Del resto è inutile che finga con me stessa. In quel<br />

momento non “soffrivo”. Mi sforzavo di soffrire, di “capire”,<br />

ma non mi era possibile. Ero come in preda a<br />

una specie di distrazione, di stupore, e non riuscivo a<br />

immaginare che Giosuè, il mio fratellino mite, aveva<br />

conosciuto la morte, questa cosa grande e solenne.<br />

Per alcune settimane le visite di condoglianza si succedevano<br />

quasi ininterrottamente le une alle altre nella<br />

nostra cucina, e nessuna preoccupazione materiale ci<br />

distraeva dal lutto. I parenti e le vicine ci provvedevano<br />

di cibi caldi. I fornelli e il camino restavano spenti.<br />

Poi, quasi all’improvviso, ci ritrovammo soli con noi<br />

stessi e con la vita quotidiana. Non so degli altri, ma<br />

io cominciai solo allora a capire che cosa era successo e<br />

che cosa ancora poteva succedere.<br />

Per qualche giorno, a casa c’era stato un silenzio pieno<br />

di stanchezza, come un vuoto dopo tutto quel tempo<br />

in cui un fiume di gente era passato per la nostra<br />

cucina e mamma aveva continuato a piangere e a parlare<br />

come se quello fosse il suo dovere più importante,<br />

anzi il suo solo dovere. Come se, parlandone, allontanasse<br />

il momento in cui Giosuè avrebbe cessato d’essere<br />

“nostro” per diventare davvero irrecuperabile preda<br />

della morte.<br />

60<br />

Oreste invece, come me, a mala pena rispondeva, se<br />

qualcuno gli si rivolgeva direttamente con qualche<br />

frase di circostanza o qualche domanda più o meno<br />

rituale. E forse il suo silenzio poteva sembrare stupidità<br />

o indifferenza. Oreste e Giosuè erano gemelli e,<br />

sebbene diversi di carattere e di costituzione, erano<br />

stati così legati che anche a noi che lo conoscevamo e<br />

che avremmo dovuto capire, la sua apparente apatia<br />

ci era parsa strana e autentica.<br />

Ma una sera, in cui c’eravamo solo noi intorno al camino<br />

che da qualche giorno avevamo riacceso, Oreste<br />

disse, quasi più a se stesso che a noi:<br />

– È tutta colpa mia. Io lo sapevo che Giosuè nel<br />

Passo della Croce era in pericolo. Non era la prima<br />

volta che aveva visto passare dei ladri e che era stato<br />

minacciato.<br />

Mamma era saltata su come una furia:<br />

– Ma allora perché non l’hai detto? Chi l’ha minacciato?<br />

Chi?<br />

E lo scuoteva per le spalle, come se dalla sua risposta<br />

dipendesse, ora, il destino di Giosuè. Come se tutto<br />

potesse ricominciare da un certo momento in cui le<br />

cose ancora erano rimediabili. In cui ancora il destino<br />

poteva esser diverso.<br />

Ma Oreste si era messo a balbettare, guardandola con<br />

gli occhi spalancati, come terrorizzato, e dicendo cose<br />

confuse che il pianto represso rendeva ancora più incomprensibili.<br />

I singhiozzi gli si annodavano in gola,<br />

quasi soffocandolo, mentre con le manine aperte si na-<br />

61


scondeva il viso, come vergognandosi delle lacrime che<br />

finalmente si liberavano.<br />

Più tardi, spesso ho pensato a quel momento e ho<br />

capito che in quella frase e in quelle lacrime la nostra<br />

storia si era rimessa in moto verso altre tragedie.<br />

La volpe e gli uccelli<br />

Sfortunata come sono avevo scelto proprio quel giorno<br />

per andare al Passo della Croce. E per andarci così<br />

presto che fui la prima ad arrivarci, dopo la disgrazia.<br />

E toccò a me andare a chiamare gente e dire quello che<br />

avevo visto. Ma non tutto. Perché quello che avevo visto<br />

prima di arrivare sin lì non l’ho detto a nessuno, e<br />

dovrò riuscire a non dirlo. Mai. Perché non voglio fare<br />

la fine di quel povero bambino, buttato lì, davanti alla<br />

sua capanna, in un lago di sangue. Ma non riuscirò mai<br />

a dimenticarlo, quello che ho visto, anche se prego Dio<br />

che mi faccia perdere la memoria.<br />

Ma Dio a me non mi ascolta e non mi ha mai ascoltato,<br />

perché a me Dio a quanto pare non mi vuol<br />

bene, altrimenti non mi avrebbe fatto venire in mente<br />

di scegliere proprio quel giorno, o per meglio dire<br />

quella notte, per andare in quel luogo.<br />

Perché doveva essere in mezzo alla notte quando mi<br />

svegliai e, credendo che fosse vicina l’alba, mi misi per<br />

strada per andare al Passo della Croce a cogliere asfodeli<br />

freschi per i cestini, e finocchietti selvatici. Volevo<br />

arrivarci prima che ci arrivassero altri. L’ultima volta<br />

63


che c’ero stata avevo visto che di finocchietti ce n’erano<br />

moltissimi, e ormai dovevano essere da cogliere.<br />

Se ci arrivavo prima che altri li scoprissero, ed ero sola<br />

a coglierli, ce n’erano tanti che, vendendoli, potevo guadagnare<br />

abbastanza da potergli comprare un paio di<br />

pantaloncini nuovi ad Astianatte. Che ormai quelli che<br />

ha sono così stracciati che non si possono neppure aggiustare.<br />

Avevo acceso il fuoco e messo una patata ad arrostire<br />

nella cenere, in modo che Astianatte la trovasse<br />

quando si alzava per andare a scuola. Ed ero uscita che<br />

faceva ancora buio. Anzi dopo capii che doveva essere<br />

notte piena, molto lontana dall’alba.<br />

C’è chi dice che io non gli voglio bene, a mio figlio.<br />

E perciò, e perché il padre è come morto, lo chiamano<br />

Astianatte-Il-Disgraziato. E anch’io mi sono abituata<br />

a questo nome, perché è vero che è disgraziato. E se<br />

non è disgraziato lui, chi lo sarebbe? Sì, quel poverino<br />

in un lago di sangue… che Dio ci liberi. Ma anche<br />

Astianatte è disgraziato, col padre in prigione che forse<br />

non lo conoscerà mai, e io, la più povera e misera<br />

del paese. Dicono che io non gli voglio bene, perché<br />

lo lascio solo per giornate intere, e quando mi chiamano<br />

nelle case ricche ad aiutare a fare il pane, anche<br />

la notte… Ma che cosa posso fare? Se non lavoro io,<br />

chi lavora per noi? Chi ci dà da mangiare?<br />

Dicono che non gli voglio bene perché non lo vesto<br />

meglio, non lo tengo pulito, non gli dò da mangiare<br />

le cose buone che si comprano nella bottega, perché<br />

64<br />

lo faccio dormire per terra… La maestra mi ha chiamato<br />

per rimproverarmi, e ha minacciato che se “non<br />

cambio” sarà costretta a denunziarmi perché non faccio<br />

il mio “dovere di madre”. Ma anche io dormo per<br />

terra, e anche io sono vestita di stracci, e se sto fuori<br />

dalla mattina alla sera, e qualche volta anche la notte,<br />

è perché è necessario anche per lui. Anche per la stanza<br />

dove abitiamo, insieme alle blatte e ai topi, devo<br />

ogni mese pagare l’affitto, se non voglio che ci buttino<br />

fuori. E allora che cosa facciamo? Andiamo a dormire<br />

nelle grotte o dentro i cespugli, come gli uccelli?<br />

E anche l’avvocato devo pagarlo. Per quello che ha<br />

fatto e che fa. Cioè niente. Chi era in prigione c’è rimasto.<br />

Ma lui, l’avvocato, dice che quello che gli dò non basta<br />

neppure a pagare la carta da bollo. E quanti chili<br />

di cicoria e finocchietti selvatici, o di funghi devo raccogliere<br />

io per quella carta da bollo, e quante notti in<br />

bianco, impastando e infornando il pane degli altri,<br />

devo passare per dargli quello che gli dò e che a lui<br />

sembra così poco.<br />

Che la gente dica quello che vuole. Io lo so che a mio<br />

figlio gli voglio bene quanto le altre madri, e che non<br />

è colpa mia se sono la più misera e disprezzata del<br />

paese. E in più, ora, con quel ricordo sempre qui, davanti<br />

agli occhi, del bambino sgozzato, in un lago di<br />

sangue che non sapevo neppure che ce ne fosse tanto in<br />

un corpo così piccolo. E anche l’altro ricordo. Il ricordo<br />

dei loro passi e delle loro voci, e di quello che dicevano,<br />

65


che anche se erano ubriachi era abbastanza chiaro. E soprattutto<br />

divenne chiaro, dopo che vidi quel povero<br />

bambino, che Dio ci liberi!<br />

Quando sentii gli zoccoli dei loro cavalli che si avvicinavano,<br />

mi nascosi dietro una siepe. Lo so che cosa<br />

può capitare in campagna a una povera donna come<br />

me, se degli uomini la incontrano e non rischiano<br />

d’esser visti se le fanno del male. E a quell’ora chi poteva<br />

vederli, in quella solitudine che pareva d’essere<br />

fuori del mondo?<br />

Mi nascosi e rimasi lì ferma, sperando che passassero<br />

dritti senza scoprirmi. Pregavo Dio che non avessero<br />

dei cani che avrebbero sentito il mio odore e<br />

avrebbero cominciato ad abbaiare, stanandomi come<br />

una volpe. E per una volta Dio mi ascoltò, e passarono<br />

dritti senza vedermi, che se mi avessero visto non starei<br />

qui a ricordarmi di loro.<br />

Parlavano come se fossero ubriachi e proprio quando<br />

passavano vicino alla siepe dietro la quale mi ero<br />

nascosta, uno di loro diceva: – La colpa era sua. Io<br />

glielo avevo detto che gliel’avrei fatta pagare cara…<br />

se…<br />

Che Dio mi perdoni, era questo che diceva. E l’altro,<br />

che doveva anche lui essere ubriaco, provava a dire<br />

qualcosa, ma non si capiva bene. Perché il primo gli<br />

dava sulla voce e diceva di starsene zitto perché se no<br />

avrebbe fatto anche lui la stessa fine.<br />

Io capivo che doveva essere successo qualcosa di<br />

grave e pregavo Dio che non si accorgessero che ero lì.<br />

66<br />

Ma non immaginavo che ciò che era accaduto fosse<br />

una cosa atroce come quella che poco dopo i miei occhi<br />

dovevano vedere, perché credo che se l’avessi immaginato<br />

sarei morta di spavento lì dietro quella siepe<br />

dove me ne stavo accucciata come una bestia selvatica.<br />

Ancora non era del tutto giorno, ma il sole stava per<br />

spuntare e c’era già luce abbastanza da riconoscerli<br />

quei tre, che almeno uno di loro non me lo sarei mai<br />

immaginato capace di fare una cosa simile, e forse era<br />

lui quello che provava a dire qualcosa e l’altro, che<br />

quello sì che è un vero delinquente che nulla mi può<br />

sorprendere, lo minacciava di fargli fare anche a lui<br />

“la stessa fine”.<br />

E anche io potevo fare la “stessa fine”, se scoprivano<br />

che li avevo visti. E perciò avevo detto agli uomini che<br />

avevo chiamato dopo che trovai il bambino morto, che<br />

non dovevano dire a nessuno che ero stata io la prima<br />

ad arrivare. E me l’avevano promesso, ma quando zia<br />

Lucia Solinas mandò a chiamarmi capii che ciò poteva<br />

significare solo una cosa. E significava che lei sapeva<br />

che io sapevo. E allora Dio doveva aiutarmi a tenere la<br />

bocca chiusa. A negare, negare con quanta forza potevo.<br />

Ma Dio, nonostante le preghiere, non mi ha aiutato<br />

neppure quella volta. Zia Lucia Solinas mi guardava<br />

con quei suoi occhi verdi e un momento mi minacciava,<br />

un momento mi ricordava Astianatte, e anche<br />

quella era una minaccia. E io continuavo a dire che<br />

non sapevo niente, ma quando lei disse quel nome io<br />

67


dovetti chiudere gli occhi e lei capì, anche se io continuavo<br />

a non dire niente.<br />

Dopo, speravo che lo stesso non avesse capito e che<br />

a me mi lasciassero fuori da quella storia. Cercavo di<br />

pregare, ma i miei pensieri se ne andavano in tutte le<br />

direzioni come uccelli spaventati. Allora cominciai ad<br />

andare in chiesa tutte le sere, e restavo anche dopo che<br />

la funzione era terminata e tutte le candele erano<br />

spente e solo il lumino del tabernacolo era rimasto acceso.<br />

Perché quando tutti gli altri se ne erano andati<br />

e pensavano alla cena e ai fatti loro forse Dio aveva più<br />

tempo d’ascoltarmi.<br />

68<br />

Interno con mummie<br />

Solo più tardi conoscemmo tutta la verità, ricostruita<br />

pezzo a pezzo da mamma. Seguendo gli indizi<br />

che il suo istinto e le sue visioni notturne le suggerivano,<br />

servendosi di mezzi leciti e illeciti, con minacce,<br />

e certo anche ricatti, piano piano riuscì a sapere<br />

il come e il perché, e i nomi degli assassini.<br />

Se i carabinieri e la polizia avessero avuto l’interesse<br />

e la mancanza di scrupoli che aveva lei, anche loro sarebbero<br />

riusciti a sapere e si sarebbe fatta giustizia,<br />

quando era il momento di farla. E molti altri mali, a<br />

noi e ad altri, sarebbero stati risparmiati.<br />

Ciò che mamma non riuscì a ottenere dai suoi informatori<br />

fu la promessa di testimonianza, di aperti sostegni<br />

a una sua eventuale denunzia. Degli assassini ormai<br />

tutti conoscevano i nomi, ma soprattutto di lui, del<br />

loro capo, tutti avevano paura. Noi, invece, con babbo<br />

inebetito dall’alcool e Oreste ancora così giovane e così<br />

mite che don Marcellino diceva che avrebbe dovuto<br />

farsi prete, non potevamo far paura a nessuno.<br />

Nessuno voleva correre il rischio di appoggiarci in<br />

una lotta aperta, quando non si aveva neppure la cer-<br />

69


tezza che la polizia e i giudici avrebbero dato importanza<br />

alle nostre eventuali prove e testimonianze. Alle<br />

nostre prove e alle nostre testimonianze, loro, i nostri<br />

nemici, potevano opporre le loro prove e le loro testimonianze.<br />

False, certo. Ma non sempre giudici e polizia<br />

possono e sanno distinguere tra prove e testimonianze<br />

vere, e prove e testimonianze false.<br />

La paura di quelli che avrebbero potuto aiutarci a<br />

fare giustizia, e non osarono farlo, sembrò anche a noi<br />

così ragionevole, così giustificata che non ce ne offendemmo.<br />

Ma il nostro disonore incancellabile era così<br />

pesante e profondo che quasi faceva impallidire, rendendola<br />

più crudele, la sciagura che ci aveva colpito.<br />

Giosuè, il mio fratellino dolce, sgozzato come un<br />

agnello pasquale, babbo ubriaco dalla mattina alla<br />

sera, e Oreste qui, seduto insieme a noi donne accanto<br />

al camino, come una vecchia senza onore né speranza.<br />

Io non sapevo che cosa mamma e nonna stessero architettando,<br />

ma sentivo che preparavano qualcosa di<br />

terribile. Ancora più terribile forse di ciò che già era<br />

accaduto. Non parlavano molto tra loro, ma son certa<br />

che mamma non muoveva un passo senza il consenso<br />

o il suggerimento di nonna.<br />

Durante i primi dieci giorni dopo il funerale, c’era<br />

stato un fiume di visite di condoglianza. Nonna sedeva<br />

nel suo solito angolo accanto al camino, con la<br />

gonna che le copriva le ginocchia magre e le gambe<br />

sino alla punta delle scarpe. Nelle mani scheletrite abbandonate<br />

sul grembo teneva il rosario che lasciava<br />

70<br />

solo quando doveva porgere la destra per ricevere un<br />

saluto. Poi la mano ricadeva, senza vita, per ricongiungersi<br />

all’altra attorno ai grani neri delle avemarie.<br />

Se non fosse stato per quel dondolio continuo del<br />

corpo, da destra verso sinistra e da sinistra verso destra<br />

come un pendolo, senza interruzione, silenziosa e<br />

scheletrica com’era sarebbe sembrata una mummia o<br />

una statua.<br />

Mamma invece quando c’erano visite non stava<br />

zitta un momento. Stretta nello scialle nero che le copriva<br />

metà della faccia, mugolava, lamentandosi che<br />

“la casa era crollata / e noi eravamo dei morti / coperti<br />

di fango e macerie”, “che il giglio bello dell’orto / era<br />

stato strappato / e il sole non voleva più splendere”. Il<br />

suo lamento era in versi e qualche volta diventava<br />

canto. Giosuè era “la palma d’oro”, “l’agnello dal vello<br />

di seta”, “il figlio bello come il sole”. A seconda di<br />

chi c’era, le parole del suo canto erano velati anatemi<br />

e oscure minacce che il destinatario però non poteva<br />

mancare di capire e riferire a chi di dovere. Imprecava<br />

contro “il destino cieco e crudele / che colpisce i migliori<br />

/ e lascia i malvagi ad appestare la terra / sino a<br />

che il dio dormiente non si sveglia / in difesa dei deboli<br />

e dei giusti”. Qualche volta evocava “il fulmine<br />

che cade sulla pianta più tenera / ma nessuno può<br />

dirsi sicuro / perché le sue fiamme divoreranno il bosco”,<br />

e malediceva “il demonio che nelle notti di vento<br />

/ corre sulla terra col suo otre pieno d’odio / ma la<br />

mano di Dio un giorno scenderà / veloce come l’astore<br />

71


sulla preda / e getterà il demonio in un mare di zolfo<br />

ardente”.<br />

I versi li inventava sul momento come un’invasata.<br />

A me mi faceva paura e ribrezzo. E anche vergogna.<br />

Tutto quel mondo, dove si uccideva, si rubava, si cantava<br />

per i morti e contro i vivi, dove l’odio metteva<br />

radici che soffocavano ogni altra possibilità di vita,<br />

mi faceva paura e ribrezzo. E anche vergogna. Mi pareva<br />

terribile doverne far parte e sentirmene così<br />

estranea e nemica. Neppure la morte di Giosuè mi<br />

pareva terribile quanto quello che stava accadendo<br />

nella nostra cucina.<br />

Solo a babbo, che mamma ci ha sempre insegnato a<br />

disprezzare per la sua debolezza e il suo vizio, per la<br />

prima volta da quando ero diventata grande mi pareva<br />

di poter voler bene. Almeno un poco. Perché<br />

babbo era mite, e non odiava. Babbo sembrava estraneo<br />

a quella follia, che era peggiore del lutto. E a Oreste<br />

volevo bene, fragile e umiliato, come mi pareva.<br />

Avrei voluto aiutarlo, proteggerlo. Ma anche Oreste<br />

era irraggiungibile. Anche lui era come una mummia<br />

o una statua. Seduto di fronte a nonna, con le spalle<br />

curve e le ginocchia strette. Un vecchietto, vinto per<br />

sempre, e prima di aver cominciato a vivere.<br />

72<br />

<strong>Gli</strong> eremiti e il diavolo<br />

Don Marcellino si era appena spogliato dei paramenti<br />

che indossava per la funzione serale. Seguito<br />

dal chierichetto, ritornò in chiesa per spegnere le candele<br />

e ringraziare il Signore della giornata che si era<br />

compiuta. Furtivamente guardò fra i banchi e vide<br />

che lei era ancora lì, nel buio fra due archi, nella navata<br />

di destra, il viso nascosto fra le mani giunte.<br />

Fu solo una visione rapidissima. Don Marcellino<br />

non vi si soffermò. Non aveva bisogno di soffermarcisi.<br />

Era lì che da alcuni giorni lei prendeva posto,<br />

angelo o diavolo che fosse. Una donna che era quasi<br />

sicuro di non aver mai visto prima d’allora e che però<br />

vagamente gli pareva conosciuta. Quando gli altri se<br />

ne andavano, lei restava lì, come rapita in estasi. Inginocchiata,<br />

quasi prostrata sul banco. La sua figura<br />

era nascosta nello scialle e nelle lunghe sottane che le<br />

coprivano persino le scarpe, ma qualcosa nel suo portamento<br />

faceva pensare che fosse giovane. E piacente.<br />

Ogni volta che Don Marcellino s’accorgeva che questa<br />

parola, non cercata, gli attraversava la mente a proposito<br />

di quella figura scura nel buio fra due archi, la<br />

73


sua carne aveva un sussulto e Don Marcellino avrebbe<br />

voluto battersi il petto per la paura e il rimorso. E l’avrebbe<br />

fatto, se non avesse temuto che qualcuno lo vedesse<br />

e capisse.<br />

<strong>Gli</strong> eremiti nel deserto facevano una vita di privazioni,<br />

mentre lui, Dio sia ringraziato, delle sue condizioni<br />

materiali non poteva certo lamentarsi; ma gli<br />

eremiti in confronto a lui avevano il vantaggio di poterle<br />

combattere, le tentazioni; pungendosi la carne<br />

con le spine, camminando sulle bragi, avvolgendosi i<br />

lombi nel cilicio, fustigandosi a sangue, se necessario.<br />

Nessuno li vedeva, nessuno li sospettava e li giudicava.<br />

E per di più le loro tentazioni erano mere apparenze,<br />

sia pure bellissime, mentre questa, Don Marcellino<br />

non ne aveva alcun dubbio, era una donna in carne<br />

e ossa.<br />

Solo a pensare la parola “carne”, la sua stessa carne<br />

ebbe un sussulto. Don Marcellino temette che il chierichetto<br />

che lo stava aiutando a spegnere le candele e<br />

che gli stava molto vicino se ne accorgesse. “Oh, Dio,<br />

aiutami!” esclamò con tanto ardore, che il chierichetto<br />

lo guardò sorpreso.<br />

– Vai, vai pure, – gli disse allora con impazienza.<br />

Avrebbe voluto che se ne andasse. Aveva paura che capisse<br />

questa cosa terribile che gli stava accadendo.<br />

Che vedesse la ribellione della sua carne e s’accorgesse<br />

del rossore che gli saliva dal collo e quasi gli mozzava<br />

il respiro.<br />

Un ardore spaventoso si era impadronito delle sue<br />

74<br />

viscere e le rimescolava con una violenza che gl’indeboliva<br />

la schiena e gli appesantiva le braccia. Oh, poterla<br />

fustigare, strapparla, punirla, quella carne ribelle<br />

che gli paralizzava il corpo nello stesso momento in<br />

cui glielo faceva sentire così vivo e pulsante in ogni più<br />

piccola vena. Beati gli eremiti che quando c’era bisogno<br />

potevano fare ciò che era necessario per schiacciare<br />

il serpente e svuotarlo del suo veleno, senza dare<br />

cattivo esempio e senza che nessuno vedesse e si scandalizzasse.<br />

– Domine, libera nos a malo! – disse con voce rauca.<br />

Il chierichetto gli rispose, meccanicamente e con la<br />

solita voce acuta:<br />

– Amen!<br />

Don Marcellino ebbe un sussulto:<br />

– Sei ancora lì? Vai t’ho detto! – e quasi gridava.<br />

Il bambino lo guardò sorpreso, ma dopo un breve silenzio<br />

alzò le spalle e rispose con indifferenza:<br />

– E allora, Don Marcellì, a domani!<br />

Don Marcellino avrebbe voluto restare un momento<br />

a pregare, inginocchiato davanti all’altare. Mettere il<br />

rosario sotto le ginocchia, per sentire il tormento dei<br />

grani che bucano la pelle, per soffrire, per punirsi, per<br />

domare gli assalti del peccato. Ma temette che questo<br />

suo bisogno apparentemente pio fosse anch’esso una<br />

tentazione del Maligno che voleva farlo star solo con<br />

la donna sotto la volta del tempio. Nella casa del Signore.<br />

Era questo che il Maligno voleva da lui. La caduta,<br />

lì, nel tempio, nella casa del Signore. Non la<br />

75


preghiera, ma l’offesa alla casa di Dio. Don Marcellino<br />

fece una genuflessione lenta e faticosa, si segnò e<br />

poi, con passi impediti da quella cosa atroce che continuava,<br />

tornò in sagrestia.<br />

Lì restò in piedi, con la fronte appoggiata al vetro<br />

freddo dell’armadio degli arredi sacri. Nelle mani stringeva<br />

la grossa chiave di ferro, conficcandosene le estremità<br />

nelle palme, sino a quasi bucarle. Il dolore gli<br />

diede qualche sollievo, ma il serpente continuava a mordergli<br />

il ventre con mille lingue di fiamma palpitanti.<br />

Don Marcellino aprì le mani. La chiave gli cadde sulle<br />

scarpe, senza rumore. C’era un gran silenzio sotto<br />

quel fragore di cascata che Don Marcellino si sentiva<br />

nelle vene. Già le dita correvano, feroci, a strozzare il<br />

serpente, a maltrattarlo, batterlo, piegarlo.<br />

Le fiamme s’alzarono ancora più alte e trionfanti, e il<br />

mondo fu tutto un grande incendio di cui Don Marcellino<br />

era il centro gaudioso e palpitante come un<br />

cuore immenso.<br />

Nell’estasi, Don Marcellino non s’accorse di gridare:<br />

– Dio, Dio, Dio… Dio mio!<br />

Dopo essersi rinfrescato le mani e la faccia, e aver<br />

asciugato ciò che era possibile asciugare, Don Marcellino<br />

si sentì meglio, più presente, più vicino alla<br />

realtà, più combattivo. Si domandò se doveva parlarne<br />

col suo pastore, il Vescovo, o se doveva continuare<br />

a combattere da solo. Decise che per ora doveva<br />

continuare a combattere da solo.<br />

Anche questa poteva essere una tentazione del Mali-<br />

76<br />

gno. Ma per ora Don Marcellino sentiva di non poter<br />

decidere altrimenti. Per parlare col Vescovo sarebbe dovuto<br />

andare a Trezene, e con ciò che era accaduto nel<br />

paese non era proprio il momento d’allontanarsi, di lasciare<br />

sole le sue pecorelle.<br />

Per ora Don Marcellino doveva pregare, vincere la<br />

tentazione guardandola in faccia, senza fuggirla come<br />

un vigliacco, provare anche a capirla, e allo stesso<br />

tempo comportarsi normalmente, senza dare adito a<br />

sospetti.<br />

Forte di questi propositi, nonostante la grande stanchezza<br />

che, insieme a uno strano sentimento di pace<br />

giubilante era scesa su di lui, Don Marcellino s’affrettò<br />

verso la saletta da pranzo dove sua sorella aveva<br />

apparecchiato per la cena.<br />

– Sia lodato Gesù Cristo! – disse, entrando.<br />

Senza guardarlo, anzi sfuggendo il suo sguardo, così<br />

almeno gli parve, la sorella gli rispose fra i denti:<br />

– Sempre sia lodato!<br />

I due fratelli non avevano molto da dirsi, e di solito<br />

i loro pasti si svolgevano in silenzio. La sorella faceva<br />

malvolentieri quel suo servizio di Perpetua. Quand’era<br />

ragazzina si era innamorata d’un carabiniere che nel<br />

segreto la ricambiava e le aveva detto di volerla sposare.<br />

Ma la famiglia e Don Marcellino s’erano opposti<br />

perché, dicevano, quella era solo un’infatuazione giovanile<br />

e non bisognava “buttarsi” col primo venuto.<br />

Per vincere la sua ribellione, l’avevano chiusa in casa<br />

per mesi e, con l’aiuto del Vescovo, erano riusciti a far<br />

77


trasferire il carabiniere che così era totalmente scomparso<br />

dal loro orizzonte. Ma dopo il “primo” non era<br />

venuto più nessuno, gli anni erano passati, la bellezza<br />

se mai c’era stata era sfiorita, i genitori erano morti, e<br />

alla sorella di Don Marcellino per vivere non era rimasta<br />

altra scelta che fare la serva a suo fratello.<br />

Serva. Era così che, rabbiosa e disperata, vedeva la<br />

sua condizione. Il suo malumore quotidiano e l’astio<br />

col quale viveva la vita erano tali, che Don Marcellino<br />

temeva che addirittura non credesse più in Dio. Di<br />

solito pregava per lei e cercava di essere amorevole.<br />

Ma da qualche giorno era troppo turbato per potersi<br />

preoccupare e occupare d’altro che di questa nuova<br />

tentazione che il Maligno gli infliggeva.<br />

Perciò, immerso com’era nei suoi pensieri, Don<br />

Marcellino ebbe un soprassalto quando la sentì dire, e<br />

gli parve di cogliere nelle sue parole un tono d’accusa:<br />

– La gente dice che scorrerà altro sangue.<br />

– Sangue? – ripeté lui, per darsi tempo di pensare.<br />

78<br />

PARTE SECONDA<br />

La fossa dei fantasmi<br />

79


La legge dell’acqua<br />

Del padre, nei primi anni dopo il trasferimento a Milano,<br />

di ciò che allora diceva e pensava, Lorenzo conservava ricordi<br />

frammentari e forse confusi. Ricordava che la sera in casa bisognava<br />

fare silenzio e spegnere la radio “perché papà lavorava”.<br />

Ricordava un’escursione che aveva fatto con lui al<br />

Parco Lambro. E il padre aveva tanto parlato delle Cascine<br />

di Firenze, che nell’immaginazione di Lorenzo quel giorno il<br />

Parco Lambro e le Cascine si erano sovrapposti in una strana<br />

confusione. Ma le Cascine erano molto più belle, diceva il padre.<br />

Dunque, aveva pensato Lorenzo senza però dirlo, le Cascine<br />

dovevano essere nell’Isola.<br />

Ricordava un gelato che il padre gli aveva comprato un’altra<br />

domenica d’estate nei giardini pubblici, vicino alla grande<br />

fontana circolare. E, forse lo stesso giorno, l’impazienza del padre<br />

che cercava, allo zoo, di staccarlo dal recinto delle capre<br />

dove si era incantato.<br />

Delle caprette come quelle le aveva viste nell’Isola. Anche<br />

l’odore e la terra scura sotto le loro zampe erano gli stessi. Milano<br />

era scomparsa. Lorenzo si trovava in un posto in campagna,<br />

nell’ovile d’un ricco pastore parente di sua madre. C’era<br />

una grande festa e lui e i suoi genitori erano gli ospiti d’onore.<br />

81


La mensa per il banchetto, al quale partecipavano una<br />

trentina di persone, era stata apparecchiata su alcune lunghe<br />

assi, sotto gli elci in mezzo alle rocce. C’erano altri bambini<br />

dei quali uno, Pietro, aveva più o meno l’età di Lorenzo. Pietro<br />

era figlio d’un pastore che lavorava in quell’ovile, di cui<br />

perciò si considerava quasi proprietario. In principio aveva accolto<br />

Lorenzo con diffidenza, come un intruso, e non voleva<br />

parlargli. Poi avevano fatto la lotta ed erano diventati amici.<br />

Il pranzo non finiva mai, ma i bambini avevano il permesso,<br />

tra una pietanza e l’altra, di muoversi e di correre un<br />

po’ in giro purché stessero attenti a non sollevare polvere attorno<br />

alla mensa.<br />

Il banchetto era iniziato con del salame e del prosciutto di<br />

montagna, pane carasau, olive e sottaceti. Lorenzo doveva essersene<br />

ingozzato tanto che, quando erano arrivati i ravioli<br />

e poi gli arrosti allo spiedo e la carne bollita e i sanguinacci,<br />

che i pastori avevano preparato sotto la grande tettoia vicino<br />

alla stalla, lui non aveva più appetito. Ma le zie insistevano,<br />

perché volevano che assaggiasse tutto. “Almeno un<br />

poco”, dicevano quasi supplichevoli, e la madre e il padre gli<br />

facevano gli occhiacci perché si decidesse ad accontentarle.<br />

C’erano anche le sebade, servite caldissime con zucchero e<br />

miele, e molti altri dolci che di solito gli piacevano. Ma ora<br />

gli pareva di non avere più neppure un angolino vuoto nello<br />

stomaco, fatta eccezione per le lattughe fresche intinte nel miele<br />

appena tolto dalle arnie. Niente al mondo era più buono di<br />

una foglia di lattuga croccante e verde, intinta nel miele<br />

nuovo.<br />

Dopo pranzo, la mamma e le altre signore si erano ritirate<br />

82<br />

per riposare nelle fresche, grandi stanze al primo piano della<br />

vecchia casa, e gli uomini si erano sdraiati qua e là sotto le<br />

querce. Lui e Pietro avevano approfittato della libertà e della<br />

solitudine per fare un’escursione sino a una sorgente nascosta<br />

tra le rocce, vicino alle rovine di un nuraghe.<br />

Sull’acqua, dentro una grotticella inquadrata da quattro<br />

lastre di granito e velata di capelvenere, galleggiava una<br />

tazza di sughero. Pietro gli aveva insegnato che, dopo aver<br />

bevuto, si doveva gettare sull’erba il resto dell’acqua, dicendo:<br />

“Che sia per le anime del Purgatorio!”. Allora un’anima<br />

immersa nel fuoco avrebbe avuto un momento di sollievo nella<br />

sua pena.<br />

Il Purgatorio è come il carcere, e bisogna cercare d’aiutare le<br />

anime del Purgatorio, così come si devono aiutare i carcerati,<br />

perché “il carcere è fatto per gli uomini”, aveva citato Pietro<br />

che conosceva anche i proverbi, “e chi non c’è entrato può entrarci”.<br />

Pietro sapeva moltissime cose e parlava come un uomo.<br />

Senza però darsi delle arie. Per lui era naturale parlare così,<br />

e Lorenzo lo ascoltava con rispetto, come un maestro. Da lui<br />

aveva imparato che in una sorgente come quella si doveva<br />

sempre sciacquare la tazza prima di rimetterla al suo posto.<br />

Pietro gli aveva raccontato che la sorgente era opera dei maghi<br />

che più di cento anni prima abitavano in quel bosco e<br />

avevano costruito il nuraghe per il loro re che si chiamava<br />

Cristolu. Cristolu e i maghi adesso erano morti, ma i loro<br />

spiriti abitavano ancora quei luoghi ed erano molto potenti.<br />

Perciò bisognava rispettare loro e le loro leggi.<br />

Per esempio era molto importante rispettare la legge di non<br />

83


sporcare e non sprecare l’acqua, e quella di lasciare sempre la<br />

tazza di sughero al suo posto, in modo che chi arrivava dopo<br />

potesse dissetarsi senza essere obbligato a prendere l’acqua con<br />

le mani. Ma se si seguivano le loro leggi i maghi non facevano<br />

male a nessuno.<br />

Lavarsi dentro la sorgente era peccato mortale e i maghi una<br />

volta avevano fatto annegare un pastore ignorante che vi si era<br />

lavato la faccia e aveva sputato nell’acqua.<br />

Pensando al morto annegato e ai fantasmi dei maghi e del<br />

re Cristolu che erano lì, invisibili ma forse molto vicini, e<br />

che li stavano ascoltando e osservando, Lorenzo aveva avuto<br />

paura. Ma era riuscito a non farsene accorgere da Pietro che<br />

sembrava non aver paura di niente e che intanto aveva cominciato<br />

a dare la caccia a una biscia, che però, rapidissima<br />

e silenziosa, era scomparsa in mezzo alle pietre del nuraghe.<br />

Allora Pietro aveva detto che certe volte le bisce non sono bisce<br />

vere ma fantasmi di gente che in vita ha fatto tradimento<br />

e ha perduto l’onore, e perciò deve diventare serpente per poter<br />

scontare il suo peccato. Perché il tradimento è un peccato così<br />

brutto che gli altri dannati non sopportano d’aver vicino uno<br />

che lo abbia commesso. Se per errore un traditore viene assegnato<br />

all’inferno e gli altri dannati scoprono qual è stato il<br />

suo peccato, non ci mettono molto a fargli la festa. Perciò le<br />

bisce si nascondono e fuggono quando si sentono osservate.<br />

Perché si vergognano. Il tradimento è il peccato più grave di<br />

tutti, aveva concluso Pietro. Il peccato di Giuda che aveva<br />

tradito Gesù e che da allora aveva perduto l’onore e non aveva<br />

più avuto pace sino a che non si era impiccato.<br />

84<br />

Cassandra<br />

Quella sera nonna aveva appena concluso la novena<br />

e i quindici sabati che aveva dedicato al Santo, al quale<br />

in cambio aveva chiesto un segno. E il segno, ci disse<br />

appena entrata, mentre ancora si toglieva lo scialle,<br />

il segno le era stato mandato. La sua voce era commossa<br />

ed esultante e, sebbene a me il significato del<br />

suo racconto lì per lì fosse oscuro, ascoltandolo mi sentii<br />

agghiacciare d’angoscia.<br />

Durante la preghiera aveva avuto una visione. Era<br />

una calda giornata di primavera. Lei stava seduta accanto<br />

alla vasca dell’orto, intenta a sgranare dei piselli.<br />

Il cielo era azzurro e il sole splendeva nella grande pace<br />

di una campagna bellissima e verde. Ma a un tratto,<br />

un’immensa nuvola nera a forma di un grande uccello<br />

rapace era sorta all’orizzonte e rapidamente aveva guadagnato<br />

tutto il cielo, oscurando il sole. Una violentissima<br />

tempesta di vento si era sollevata e aveva strappato<br />

le giovani foglie dagli alberi, piegato le erbe,<br />

fatto tremare sino alle fondamenta la vecchia casa dell’orto.<br />

Sotto i colpi della bufera, nonna si era dovuta<br />

piegare e rattrappire, e aveva lottato per tenere sul cor-<br />

85


po martoriato gli abiti ormai ridotti a brandelli. All’improvviso<br />

però si era accorta d’avere ancora stretto<br />

in pugno un baccello intatto. L’aveva aperto, ma i chicchi<br />

che ne sgranava erano secchi e deformi come aborti.<br />

Solo uno era riuscito a raggiungere una grandezza<br />

normale, ma era nero, come bruciato dal fuoco o coperto<br />

di fuliggine. Nonna l’aveva stretto con rabbia fra<br />

il pollice e l’indice per schiacciarlo e gettarlo via. Così<br />

facendo però si era accorta che quel nero era solo una<br />

patina e che sotto quella patina il chicco era d’oro. Allora<br />

l’aveva scagliato contro la nuvola nera che copriva<br />

l’azzurro del cielo e lo splendore del sole, e lì dove aveva<br />

colpito era scaturita una goccia di sangue velenoso,<br />

nero come inchiostro. E fu come se in quella goccia di<br />

sangue si concentrasse tutta la malvagia potenza della<br />

nuvola e della tempesta. La goccia di sangue nero cadde<br />

sulla terra che si chiuse silenziosamente sopra di essa<br />

inghiottendola, e subito il sole di nuovo splendette<br />

e la primavera tornò sull’orto. In quello stesso momento<br />

l’organo e il coro dentro la chiesa iniziavano il Te Deum<br />

Laudamus. Uscendo di chiesa, accanto al falò che era<br />

stato appena acceso nella piazza, aveva visto il nostro<br />

nemico che già semiubriaco giocava alla morra con un<br />

gruppo di pari suoi.<br />

Nell’angoscia in cui la visione di nonna mi aveva<br />

gettato, mi riassalì il ricordo d’un incubo che avevo<br />

avuto quella notte e che, colmo come mi era parso di<br />

funesti presagi, mi aveva perseguitato tutto il giorno<br />

nonostante i miei sforzi per dimenticarlo. A fatica ero<br />

86<br />

riuscita a non raccontarlo a nessuno, neppure a Oreste<br />

che di solito ascoltava volentieri i miei sogni. E anche<br />

i miei incubi, che erano più frequenti dei sogni.<br />

Il cortile di casa era affollato d’uomini vestiti degli<br />

abiti di fustagno verde dei pastori e con i berretti a visiera<br />

calati sugli occhi. Delle donne sconosciute si<br />

muovevano in mezzo a loro, offrendo in giro del vino.<br />

Forse era una festa, ma nessuno cantava o giocava alla<br />

morra. <strong>Gli</strong> uomini, divisi in piccoli crocchi, parlavano<br />

a voce bassa, come fanno ai funerali. I crocchi si<br />

scioglievano continuamente e si riformavano in costellazioni<br />

diverse. Era un via vai silenzioso, come di<br />

formiche attorno a un cumulo di grano. Le donne, i<br />

cui visi non riuscivo a scorgere, si muovevano anch’esse<br />

come ombre. La luce era scarsa e gli occhi mi<br />

bruciavano per lo sforzo di voler distinguere le fisionomie<br />

e le espressioni. Un terrore grigio mi coprì. Sapevo<br />

che stava succedendo qualcosa d’ineluttabile e<br />

tremendo. Con le gambe pesanti come piombo cominciai<br />

a salire la scaletta esterna verso il fienile. Le<br />

gambe mi pesavano tanto che alla fine caddi in ginocchio<br />

e per poter avanzare dovetti aiutarmi con le<br />

braccia, tendendo i muscoli sino allo spasimo. Ma l’ascesa<br />

diventava sempre più difficile, perché ora anche<br />

le braccia erano come morte e non riuscivano a sostenere<br />

il peso del mio corpo. Quando mi accorsi che,<br />

per di più, nella scaletta a pioli sulla quale mi trovavo<br />

mancavano gli ultimi gradini, disperai di poter mai<br />

trovare un’uscita dalla situazione nella quale mi ero<br />

87


messa. Guardavo affascinata il vuoto sotto di me, e<br />

sentivo che fra poco vi sarei precipitata. Invece, con<br />

una faticosa tensione delle braccia e delle spalle, chiudendo<br />

gli occhi per non cedere alla vertigine, riuscii<br />

a sollevarmi sino alla soglia del fienile. Sentii il peso<br />

morto delle gambe oscillare nel vuoto e trascinarmi<br />

verso il basso. Feci un ultimo sforzo, e cercai di far<br />

presa con le dita e le palme delle mani aperte sul pavimento<br />

che era leggermente in pendio, poi con un<br />

colpo di reni e uno strappo faticoso delle spalle riuscii<br />

ad avanzare, superando l’abisso che mi calamitava. La<br />

stanza nella quale ero arrivata era grandissima e squallida.<br />

La polvere s’accumulava in gomitoli grigi sotto<br />

un letto di ferro sul cui materasso arrotolato s’allineavano<br />

delle pere marce. In un angolo c’era una sedia di<br />

paglia e un catino di ferrosmalto su un treppiedi di<br />

ferro. Il catino era pieno di carne, e carne c’era sulla sedia,<br />

e sul pavimento in mezzo alla polvere. Anche<br />

quelle che prima mi erano parse delle pere marce,<br />

m’accorsi adesso che erano dei pezzi violacei d’interiora.<br />

La stanza aveva l’aria d’essere stata disabitata da<br />

molti anni, e non mi sorpresi di trovare sul davanzale<br />

polveroso della finestrella il berretto di Giosuè. I vetri<br />

della finestra erano molto appannati. Coi polpastrelli<br />

inumiditi di saliva riuscii a lucidarne un circoletto<br />

attraverso il quale entrarono le note di una musica<br />

molto triste. Guardai giù nella strada e vidi che<br />

passava un funerale. Apriva il corteo Don Marcellino<br />

vestito da vescovo. Sotto la mitra, che teneva a sghim-<br />

88<br />

bescio e che ogni tanto minacciava di cadere, vidi<br />

però che il suo viso non era proprio il suo, ma quello<br />

di babbo. Don Marcellino sembrava ubriaco e inciampava<br />

continuamente sul bacolo che trascinava come se<br />

fosse troppo pesante per le sue forze. Dietro di lui veniva<br />

una fila interminabile di preti e di uomini delle<br />

confraternite con i camici bianchi e rossi. I loro visi<br />

erano coperti di maschere cornute di legno nero. Camminavano<br />

su due file un po’ distanti, saltellando su<br />

trampoli bianchi che sembravano ossa di morto e che<br />

battevano sul selciato, accompagnando in cadenza lugubre<br />

il rimbombo degli ottoni della banda municipale<br />

che marciava dietro di loro, suonando una musica<br />

triste e terribile. Seguivano gli orfani dell’ospizio<br />

che portavano corone di foglie secche. Poi cominciò la<br />

sfilata delle bare. Quando alla prima seguì la seconda,<br />

cominciai a contare. Alla settima non ne potei più e<br />

chiusi gli occhi. Ora sapevo qual era la provenienza di<br />

tutta quella carne sparsa nella stanza in cui mi trovavo.<br />

Sapevo perché quegli uomini si erano riuniti nel<br />

nostro cortile, sapevo di che cosa parlavano quando<br />

anziché cantare e giocare alla morra si raggruppavano<br />

a confabulare. Riapersi gli occhi e vidi che le bare continuavano<br />

a sfilare. Col berretto di Giosuè, provai a<br />

turare il foro della finestra. Le note della marcia funebre<br />

ora entravano velate e come più lontane. Non osai<br />

guardare di nuovo e mi ritirai verso la parete opposta<br />

a quella sulla quale appoggiavano il letto e il catino.<br />

Di lì potei guardare nel cortile che ora era deserto e<br />

89


immerso nel buio. Camminando pericolosamente su<br />

un asse da impalcatura che oscillava sotto i miei passi,<br />

ridiscesi dal fienile. Come riuscire a cancellare quelle<br />

tracce fresche di sangue nella mia casa? mi domandavo<br />

piena d’angoscia.<br />

C’era qualche rapporto tra la visione di nonna, il mio<br />

sogno, e l’improvvisa decisione di Oreste d’uscire di<br />

casa, lui che non usciva mai? E qual era il rapporto? E<br />

perché all’improvviso la sua urgenza di uscire era diventata<br />

così forte che non aveva neppure atteso che il<br />

guasto alla centrale elettrica venisse riparato e la luce<br />

tornasse? E perché, non appena lui era uscito, mamma<br />

e nonna avevano ordinato anche a Daniela e a me d’unirci<br />

alle loro preghiere, come se ciò in quel momento<br />

fosse più urgente dei compiti che stavamo facendo?<br />

Queste domande, insieme a un’altra che neppure<br />

mi permettevo di formulare ma che stava dietro tutte<br />

le altre come un’informe terribile ombra, mi turbinavano<br />

tra il cuore e il cervello in un moto vorticoso. Le<br />

fiamme nel camino danzavano la loro azzurra danza<br />

selvaggia, e solo per esse cercavano di essere svegli i<br />

miei sensi.<br />

90<br />

Il testimone<br />

Da quella notte maledetta non riuscivo più a staccarmi<br />

da lui. Quanto più volevo allontanarmene, tanto<br />

più lo cercavo, lo seguivo, come un cane segue il padrone.<br />

L’altro invece si teneva lontano da noi. Ma in<br />

modo che non desse nell’occhio, da furbo. E, se capitava,<br />

un bicchiere di vino insieme a noi lo beveva anche.<br />

Ma come una cosa indifferente, da vecchi compagni<br />

di leva, come eravamo. E poi ciao ciao e ognuno<br />

per conto suo.<br />

Io invece no, sempre lì, attaccato a lui, come un<br />

cane attaccato al padrone. E più le voci contro di lui<br />

diventavano insistenti, più io mi attaccavo a lui,<br />

come se ci tenessi a far mescolare la mia fama alla sua,<br />

come se fosse importantissimo che lui mi considerasse<br />

amico suo… E invece io dentro di me lo odiavo, come<br />

odiavo il ricordo di quella notte. Ma non riuscivo a<br />

staccarmi da lui, come non riuscivo a staccarmi dal ricordo<br />

di quello che avevamo fatto insieme.<br />

Perché lui non era solo, eravamo insieme quella<br />

notte maledetta, anche se l’altro fa finta d’essersene dimenticato<br />

e di non conoscermi.<br />

91


E io ero insieme a lui quella sera, quando quel lampo<br />

uscì dal buio e sfiorò prima i nostri visi come in una<br />

sventagliata di mitra, poi tornò a concentrarsi sul suo<br />

e quasi nello stesso momento ci fu l’esplosione.<br />

Eravamo stati insieme sin dal pomeriggio. Tra un<br />

bicchiere e l’altro, avevamo aiutato a preparare le cataste<br />

per i falò di S. Antonio. Poi gli altri che avevano<br />

moglie e figli se ne erano andati, e noi eravamo rimasti,<br />

tre o quattro, a continuare a bere.<br />

Io, nonostante il vino, avevo come una tristezza grande<br />

dentro di me, che mi faceva il cuore pesante. E ogni<br />

volta che mancava la corrente, lì dalla bettola dove ci<br />

trovavamo, con quella oscillante candelina da morti,<br />

mi pareva che i fuochi nella piazza fossero già i fuochi<br />

dell’inferno.<br />

Per sfogarmi, proposi una partita alla morra, ma<br />

quando cominciammo a diventare troppo chiassosi,<br />

la Milese ci mise alla porta. E così in qualche modo<br />

fui io, perché ero stato io che avevo proposto il gioco,<br />

che resi possibile la vendetta. Ma le altre cose che si<br />

dissero dopo sono calunnie. Io non sono un Giuda. Io<br />

non avevo parlato.<br />

Io non avevo e non ho parlato con nessuno. Neanche<br />

con lui ne ho mai parlato. E con gli altri neppure.<br />

Perché se non ne parlavamo era come se la cosa<br />

non fosse mai avvenuta. Perciò io non parlai, ne sono<br />

sicuro. Non parlai neppure da ubriaco, anche se persino<br />

nell’ubriachezza e nel sonno mi perseguitava il<br />

ricordo di quel pezzo di lingua sanguinante fra le sue<br />

92<br />

dita, e il suono di quel lamento più bestiale che umano.<br />

Certe volte gli guardavo le dita che stringevano il<br />

bicchiere e mi pareva impossibile che fossero quelle<br />

stesse dita che avevo visto coperte di sangue, mentre<br />

ci mostrava quella cosa atroce.<br />

Se questa visione mi assaliva mentre giocavamo alla<br />

morra, mi imbambolavo e non riuscivo più a contare.<br />

E lui mi insultava e diceva che ero alcoolizzato e che<br />

fra poco mi sarei fatto ridere dietro dai bambini del<br />

paese, come quell’altro disgraziato.<br />

Ma non gli dicevo che non era il vino che m’incantava,<br />

ma quelle sue mani e il segreto che io conoscevo<br />

e di cui non dovevo parlare. E più lo odiavo, più quelle<br />

sue dita mi facevano orrore, più avevo bisogno di vederlo,<br />

di stargli vicino. Come un cane col suo padrone.<br />

Ricordare, purtroppo, non riuscivo a non farlo perché,<br />

ho paura a pensarlo ma ne ho quasi la certezza, al<br />

momento di morire l’anima di quel bambino disgraziato<br />

si è impadronita della mia. Ed era lui, il morto,<br />

che mi ordinava di restare attaccato al suo nemico, per<br />

impedirmi di dimenticare ciò che gli era stato fatto.<br />

Ma io non avevo parlato. Questo è certo. Io non parlai.<br />

Come avrei potuto parlarne se tutto ciò che facevo<br />

non era che un tentativo per riuscire a dimenticare?<br />

Fu il vento o le anime dei senza pace che misero in<br />

giro la storia. Perché in un modo o nell’altro, dopo<br />

solo qualche giorno la storia la sapevano tutti. Me ne<br />

accorgevo quando passavo per la strada o entravo in<br />

93


qualche posto, e tutti mi guardavano facendo finta di<br />

niente. Ma proprio questa indifferenza mi dava la certezza<br />

che tutti sapevano e che, vedendomi, tutti pensavano<br />

a quel bambino che avevamo lasciato morto in<br />

mezzo a tutto quel sangue che non sapevo neppure<br />

che un corpo così piccolo potesse contenerne tanto.<br />

E se tutti la sapevano la storia, che cosa potevamo<br />

aspettarci d’altro se non ciò che accadde quella sera?<br />

Ero ubriaco, ma capii subito quando ci fu quella<br />

grande luce, poi quel colpo, e lui mi cadeva sui piedi.<br />

Questa volta, in quel momento, era lui ai miei piedi<br />

come un cane e io ero il padrone.<br />

E ora che lui è morto, l’anima del ragazzo dovrebbe<br />

trovare pace e lasciarmi. Perché il solo responsabile fu<br />

lui. Io e l’altro non fummo che testimoni, ecco, nient’altro<br />

che involontari testimoni. Quando capimmo<br />

che cosa voleva fare, che cosa aveva fatto, era già troppo<br />

tardi, quel pezzo di carne sanguinante pendeva già<br />

fra le sue dita e il ragazzo stava lì per terra, gettando<br />

sangue dalla bocca. Chi gli sparò lo fece solo per pietà.<br />

Perché la smettesse con quell’urlo che più che<br />

umano era di maiale agonizzante. Perché la testa non<br />

ce la faceva più a contenere quell’urlo di maiale scannato.<br />

Quando non si ha mano buona per sgozzare al primo<br />

o al secondo colpo, il maiale, già con la gola squarciata<br />

ma con una forza come se i diavoli si siano impadroniti<br />

di lui, si scuote di dosso gli uomini che lo tenevano<br />

fermo e, zigzagando come un ubriaco e vomi-<br />

94<br />

tando sangue, cerca di darsi alla fuga. Poi quasi di<br />

schianto crolla sulle ginocchia e, agitando la testa<br />

sbattendola sui ciottoli per terra, lancia quegli urli<br />

fortissimi d’agonia che pare che tutto l’inferno si sia<br />

rifugiato nel suo ventre e si rifiuti d’uscirne.<br />

“Questo è il grido di un maiale in agonia”, potevo<br />

dirmi prima di quella notte maledetta. Potevo ascoltarli<br />

i diavoli che si rifiutavano d’uscire dal ventre del<br />

maiale e mi dicevo: “Questo è il grido d’un maiale in<br />

agonia”. Invece oggi ancora penso: “Così gridava il<br />

ragazzo del Passo della Croce”, e ho paura che anche<br />

gli altri vedano ciò che vedo io e capiscano che non è<br />

il maiale che grida così, ma che è il ragazzo che sta<br />

morendo e che non vuole morire.<br />

Ma dovevo tenere la testa fredda. Nessuno sapeva<br />

che era così che gridava, nessuno può immaginarselo<br />

che era così che gridava, e noi che l’abbiamo sentito<br />

non ne abbiamo mai parlato con nessuno, e neppure<br />

tra noi. Quando ci è parso necessario metterci d’accordo<br />

su ciò che eventualmente dovevamo dire se i carabinieri<br />

o altri ci domandavano, non c’era stato bisogno<br />

di dire nomi, o di descrivere, o di rievocare. Dicevamo<br />

“il fatto”, e non era necessario dire altro, sapevamo<br />

di che cosa stavamo parlando.<br />

Se non si parla delle cose, se non si descrivono “i<br />

fatti”, se non si danno loro dei nomi, è come cancellarli,<br />

“i fatti”. Se non ne parliamo, se non hanno nome,<br />

non sono mai esistiti, sono nel buio, invisibili e muti.<br />

La luce spenta su di loro. Così si crede, così forse cre-<br />

95


devano gli altri due. Perciò non ne parlavamo mai, di<br />

quella cosa.<br />

E gli altri forse ci erano riusciti, a vivere tranquilli,<br />

come se la cosa non fosse mai accaduta. Io non ci sono<br />

riuscito. Anche dopo che lui mi è crollato ai piedi come<br />

un cane accucciato ai piedi del padrone, c’era una<br />

voce che continuava a dire dentro di me “il ragazzo del<br />

Passo della Croce”, “il pezzo di lingua sanguinante”,<br />

“il maiale mal scannato”.<br />

Forse l’anima del ragazzo era entrata dentro di me, e<br />

ancora ci resta e continua a tormentarmi per vendicarsi.<br />

No, queste son storie da donne, o da preti, e io sono<br />

un uomo. Io non posso crederci a queste storie. E poi,<br />

perché proprio dentro di me doveva entrare l’anima<br />

di quel bambino? Dentro di me e non, per esempio,<br />

dentro di lui. Perché era lui che gli aveva tagliato la<br />

lingua ed era lui che era il responsabile di tutto. Era<br />

lui che conosceva l’ovile di zio Antonio Flores, era lui<br />

che aveva organizzato il colpo. Io c’ero solo per aiutare<br />

a condurre la mandria. Io di armi sino a quel<br />

giorno non ne avevo toccato altre che quelle che mi<br />

avevano insegnato a usare quando facevamo il servizio<br />

militare. Un mitra, era la prima volta che l’imbracciavo<br />

ed era lui che mi aveva insegnato come funzionava.<br />

E anche a rubare, era la prima volta che ci andavo.<br />

Era la prima volta di tutto, quella.<br />

E se mi ero unito a loro era perché non volevo che<br />

lui dicesse che ero un codardo, e anche perché il colpo<br />

pareva così buono e sicuro che solo un idiota avrebbe<br />

96<br />

detto di no. Ma era lui che l’aveva ideato e organizzato.<br />

Era lui che aveva ricevuto lo sputo di zio Antonio<br />

Flores. Era lui che aveva detto che al ragazzo del<br />

Passo della Croce bisognava fargliela pagare. Era lui e<br />

lui solo che era responsabile di tutto. Ed è giusto che<br />

sia lui ad aver pagato.<br />

Noi lo seguivamo perché eravamo ubriachi, e io ero<br />

come al solito il più ubriaco di tutti perché io il vino<br />

non lo reggo. E allora, perché proprio dentro di me<br />

doveva entrare l’anima di quel disgraziato?<br />

Non ero io che l’avevo sollevato a calci dal pavimento.<br />

Io ridevo perché, ubriaco com’ero, mi pareva<br />

divertente il modo in cui cadeva, come un sacco di<br />

stracci. Ridevo perché ero ubriaco e non capivo che<br />

cosa succedeva. Non ridevo per malvagità, e non ero<br />

io, ma lui e solo lui che, senza avvertirci di ciò che<br />

stava per fare, gli aveva afferrato la lingua come a una<br />

bestia malata e gliela aveva mozzata con un solo colpo<br />

del suo coltello. Era lui, non io. E tutto era capitato<br />

così in fretta e io, con tutto quel vino che avevo in<br />

corpo, non avevo capito nulla di ciò che avveniva.<br />

Non mi ricordo neppure come ci arrivammo, lì, dentro<br />

quella maledetta capanna.<br />

Se davvero sei dentro di me, ti supplico, convinciti,<br />

la colpa era solo sua, e lui ora ha pagato. Perciò vattene.<br />

Lasciami in pace. Se io ho sparato, è stato perché<br />

in quel momento era l’unica cosa pietosa da fare, e perché<br />

io quell’urlo di maiale mal sgozzato non lo sopportavo<br />

più.<br />

97


Storia di donne e cow-boy<br />

Lo sparo noi non l’avevamo udito. Ma quando mia<br />

suocera, che per caso si era trovata a passare in piazza<br />

proprio poco dopo, arrivò trafelata a raccontarci ciò<br />

che era accaduto, fu come se lo stesso colpo già avesse<br />

attraversato il mio cuore.<br />

Guardai mia suocera in faccia, per capire se fosse la<br />

sua solita voglia di chiacchierare che l’aveva portata<br />

da noi con la notizia, o se ci fosse un’intenzione particolare.<br />

Se sapesse quanto da vicino quella notizia mi<br />

riguardasse. Perché, se lo sapeva lei, allora lo sapevano<br />

tutti.<br />

Ma la sua faccia non esprimeva altro che il piacere di<br />

aver “quasi” assistito a una cosa importante di cui tutti<br />

avrebbero parlato.<br />

Era accaduto, raccontava, e per l’eccitazione e il piacere<br />

la saliva le scorreva a rivoli dagli angoli delle labbra,<br />

durante una delle molte interruzioni di corrente<br />

che quella sera c’erano state, e nel buio non si distingueva<br />

un diavolo da un angelo.<br />

Il Falco era davanti alla bettola della Milese, insieme<br />

ad altri pari suoi con i quali aveva fatto bisboccia tutto<br />

99


il giorno. A quell’ora dovevano essere ubriachi fradici<br />

e stavano giocando alla morra, senza neanche accorgersi<br />

della pioggia, e gridavano come se volessero scannarsi.<br />

Col chiasso che facevano, anche al buio non era<br />

difficile trovarli, se qualcuno voleva trovarli. Anche le<br />

loro voci erano riconoscibili. Quella del Falco, come al<br />

solito, era la più alta e prepotente.<br />

E qualcuno che voleva trovarli c’era. All’improvviso,<br />

nel buio, una persona s’era avvicinata e aveva acceso<br />

una lampadina tascabile con la quale per un momento<br />

aveva illuminato i loro visi, abbagliandoli. Poi, probabilmente<br />

la stessa persona, aveva sparato a bruciapelo<br />

sul Falco proprio in mezzo al petto. Un colpo di pistola.<br />

Uno solo. Ma mortale.<br />

Nello scompiglio che era seguito, l’assassino era scomparso<br />

senza che nessuno cercasse di fermarlo. E nessuno,<br />

neppure quelli che erano col Falco, l’aveva visto in<br />

faccia e riconosciuto. Ma si diceva che la sagoma, che<br />

per un attimo avevano intravisto dietro il cerchio di luce<br />

della lampadina tascabile, fosse quella di una persona<br />

piccola di statura e magra. Forse una donna. Vestita<br />

da uomo.<br />

Mia suocera era propensa a credere che davvero si<br />

trattasse di una donna. Il Falco, di vergini, sulla coscienza<br />

ne aveva molte. Una volta o l’altra ci avrebbe<br />

lasciato le penne, e ben gli stava. Anche se il nostro è<br />

un paese che persino troppo è tollerante verso i mascalzoni<br />

che calpestano l’onore di ragazze per bene e<br />

così ingenue che non sanno neppure come nasce una<br />

100<br />

mela sull’albero e perciò ci cascano senza accorgersi di<br />

ciò che sta capitando, continuava a chiacchierare mia<br />

suocera che ha dovuto vivere tutta la vita con l’umiliazione<br />

di quella figlia bastarda che ora è mia moglie.<br />

E che perciò detesta tutti gli uomini che non abbiano<br />

fatto voto a San Luigi.<br />

Io l’ascoltavo con appena mezzo orecchio, sperando<br />

che non fosse sola a pensare ciò che pensava, ma dentro<br />

di me sicuro che non era per una storia di donne che il<br />

Falco era stato fatto fuori. Di peccati sulla coscienza il<br />

Falco ne aveva molti, ma le donne erano la cosa minore.<br />

Ed erano affare suo.<br />

Uno però, fra i peccati del Falco, era purtroppo anche<br />

affare mio. Quel peccato che avevo cercato di dimenticare,<br />

come si dimentica un brutto sogno. Ma dimenticare<br />

era difficile. E se anche ci fossi riuscito, ora purtroppo<br />

ero costretto a ricordarmene. Il colpo che aveva<br />

abbattuto il Falco poteva anche attraversare il mio<br />

cuore.<br />

Ma dovevo tenere la testa fredda, per evitare che ciò<br />

accadesse. Far finta di niente. Se necessario negare. Negare<br />

tutto. Come avevo fatto ogni volta che se ne era<br />

presentata l’occasione, da quella maledetta notte. Perché<br />

la voce, nell’ambiente dei pastori, aveva circolato e,<br />

anche se io l’ambiente dei pastori lo frequento meno<br />

che posso, qualcuno mi aveva fatto delle domande che<br />

mi avevano impensierito.<br />

Ma nessuno ci aveva visto, quella notte disgraziata, a<br />

parte zio Antonio Flores, e lui non aveva nessun inte-<br />

101


esse a parlare e far sapere che anche lui era mescolato,<br />

e non poco, a quella storia. Perché lui non doveva aver<br />

dubbi su come stessero le cose, e qualche responsabilità<br />

anche lui ce l’aveva.<br />

Le chiacchiere per fortuna non erano durate a lungo<br />

e, alla fin dei conti, chi poteva aver interesse a voler sapere?<br />

La famiglia offesa non faceva paura a nessuno.<br />

Dei buoni a niente. Il padre, un ubriacone che a mala<br />

pena era in grado di portarsi il bicchiere alle labbra. La<br />

sola cosa che avesse fatto dalla mattina alla notte, dopo<br />

la paura che quando era giovane si era preso in Africa,<br />

dove era andato per conquistare l’Impero e gli Abissini<br />

gli stavano facendo la festa. Se gli italiani non arrivavano<br />

a tempo a liberarlo, se lo stavano già cucinando<br />

per la cena. Un imbecille alcolizzato che stava bevendosi<br />

le ultime gocce del patrimonio. E il resto erano<br />

donne: la madre, la nonna, le sorelle e anche il gemello<br />

del morto, un rachitico tutto casa e chiesa, un bigottino<br />

che non era buono neppure a spegnere i moccoli<br />

dell’altare.<br />

Da quella parte sembrava che non ci fosse molto da<br />

temere. E da parte della giustizia neppure, in quanto<br />

a ciò. Il caso archiviato, che interesse potevano avere<br />

a riaprirlo? Di gatte da pelare ne avevano anche altre,<br />

non è un paese di stinchi di santo, il nostro.<br />

Ma quello che era accaduto, e che mia suocera continuava<br />

a raccontare con l’acquolina in bocca, poteva<br />

essere un brutto segno, un avvertimento anche per me.<br />

Dovevo stare attento, non fare errori. La prima volta<br />

102<br />

ero stato bravo, e anche fortunato. C’erano state delle<br />

chiacchiere.<br />

Le chiacchiere erano arrivate anche alle orecchie dei<br />

carabinieri e qualche indagine era stata fatta. Ma non<br />

era risultato niente a nostro carico. E meno che meno a<br />

carico mio, perché io non fui neppure interrogato.<br />

Io dall’ambiente dei pastori mi tengo fuori quanto<br />

posso, e in quella storia c’ero entrato solo per disgrazia.<br />

Io ero incensurato, non come il Falco. Per lui le cose<br />

erano diverse, sotto ogni aspetto.<br />

Il Falco era stato chiamato in caserma ed era stato<br />

interrogato, come del resto furono interrogati tutti i<br />

pastori che hanno l’ovile da quelle parti. Ma aveva un<br />

alibi di ferro. Dei pastori che svernavano in Padiada<br />

erano pronti a dichiarare che proprio in quei giorni il<br />

Falco si trovava nella loro zona, cercando un pascolo<br />

per il suo bestiame.<br />

La siccità e il vento li avevano rovinati tutti. Quelli<br />

che possedevano qualcosa e che non erano già rovinati<br />

dalla nascita, come me che non possiedo nient’altro<br />

che mia moglie…<br />

I pochi che si erano salvati, almeno in parte, erano i<br />

pastori che avevano avuto la fortuna di non passare<br />

l’inverno in queste pietraie. Non c’era niente di strano<br />

che il Falco cercasse un pascolo dove forse era possibile<br />

trovarlo. E per chi, come me, sapeva, non c’era niente<br />

di strano che fosse riuscito con le buone o con le cattive<br />

a convincere quei pastori a testimoniare per lui. I<br />

carabinieri presero il suo alibi per buono. E perché non<br />

103


avrebbero dovuto farlo? Contro di lui non c’erano state<br />

che chiacchiere, nessuna prova.<br />

E ancora meno ce n’erano e ce ne sono contro di me<br />

e contro l’altro. Neppure la più piccola. E continueranno<br />

a non essercene, se quell’imbecille che per disgrazia<br />

era con noi non perderà del tutto la testa. Il Falco beveva<br />

troppo, ma il vino lo reggeva bene e di lui mi fidavo.<br />

Lui era quello che aveva più interesse a tacere. E<br />

ora se ne aveva avuto la dimostrazione. Ma forse no, il<br />

Falco era una testa calda, e di nemici ne aveva molti,<br />

anche se molti fingevano il contrario. Non era detto<br />

che quel colpo di pistola non fosse il saldo di qualche<br />

altro conto che io non conoscevo.<br />

Io non ero della sua combutta. Era quasi per caso che<br />

mi ci ero trovato quella volta disgraziata. Ero stato invitato<br />

perché di vacche ho una certa esperienza sin da<br />

quando ero ragazzo e lavoravo con zio Giuseppe Delogu.<br />

Il nostro compito, dopo averle fatte uscire dalla<br />

stalla, era di condurle via il più rapidamente possibile<br />

sino alla strada provinciale, dove avevamo parcheggiato<br />

il camion che doveva portarle a destinazione.<br />

Ero appena tornato da militare e mi ero trovato con<br />

questa ragazza che bisognava sposare perché, quando<br />

si nasce disgraziati, l’unica volta che eravamo stati insieme<br />

era rimasta incinta. Era minorenne e sua madre<br />

minacciava mari e monti. E poi le voglio anche bene,<br />

poveraccia, ma sposarla, proprio in quel momento,<br />

senza arte né parte com’ero e come sono, era l’ultima<br />

cosa che avrei voluto fare.<br />

104<br />

Dopo il primo figlio, già aspettavamo il secondo e io<br />

più che qualche giornata al cantiere di lavoro non riuscivo<br />

a trovare. Se non fosse stato per mia suocera che<br />

un poco ci ha sempre aiutato, a casa ci sarebbe stata<br />

più fame che sete.<br />

Da militare, lì a Brescia, avevo visto come si può vivere:<br />

la gente pulita e allegra per le strade. I caffè e i<br />

cinema sempre pieni. Le ragazze che camminano a testa<br />

alta e rispondono spavalde ai sorrisi degli uomini.<br />

Avevo fatto la scuola guida e avevo imparato a condurre<br />

i camion. Quello del camionista era ed è un mestiere<br />

che mi piacerebbe fare. Il trasportatore guadagna<br />

più di un pastore ricco, e senza disturbarsi troppo. Al<br />

volante del camion, sulle strade asfaltate, da un paese<br />

all’altro, col finestrino un po’ aperto in modo che l’aria<br />

fresca entra e ti sfiora il viso come se fossi un uccello in<br />

volo.<br />

Tornando in paese, avevo deciso che non volevo ridiventare<br />

pastore. Servo pastore, per dieci-vent’anni agli<br />

ordini di qualcuno, dormendo come una bestia, all’addiaccio<br />

con le bestie o, nel migliore dei casi, sulla terra<br />

battuta della capanna, con gli occhi bruciati dal fumo<br />

e dal vento.<br />

Per dieci-vent’anni, vestiti di abiti puzzolenti di sego<br />

e di latte cagliato, non cambiati per settimane, sporchi<br />

da far ribrezzo alle volpi. Tornare in paese ogni quindici<br />

giorni, ubriacarsi e poi ricominciare da capo. Una volta<br />

o l’altra prendere moglie. Una di queste ragazze di paese<br />

che non ti sollevano gli occhi in faccia ma che una<br />

105


volta sposate si credono loro le padrone e diventano<br />

brutte e prepotenti, ti riempiono la casa di figli e di debiti<br />

e ti fanno maledire il momento che le hai incontrate<br />

la prima volta. Io mi ero trovato nella necessità di sposare<br />

questa che avevo sposato, e mi è andata bene perché,<br />

poveraccia, a parte quella pettegola intrigante della<br />

madre, è migliore di quanto credessi e qualche consolazione<br />

almeno la notte me la dà. Ma se avessi fatto il pastore,<br />

anche questa consolazione mi sarebbe mancata.<br />

Con la moglie il pastore non può dormire più di<br />

due volte al mese, perché le altri notti è con le bestie<br />

che deve dormire, o piuttosto vegliare. E quando è insieme<br />

alla donna forse non ne ha più neppure voglia,<br />

e quasi non si ricorda com’è che deve fare. E la cosa<br />

non è ancora ben cominciata che è già finita. E magari<br />

lei, in quel minuto che la cosa è durata, ci è rimasta<br />

con un altro figlio. E poi è lui, l’uomo, che deve<br />

trovare il modo di nutrirle, tutte quelle bocche a<br />

suo carico. Per un momento di piacere, o di sollievo,<br />

che appena terminato neppure ci si ricorda com’era.<br />

Queste cose le sanno tutti, e anch’io le sapevo, perciò<br />

avevo deciso che era meglio fare la fame in paese<br />

che essere un pastore sazio in campagna.<br />

Non volevo passare a quel modo la mia gioventù per<br />

procurarmi alla fine il magro piacere di potermi chiamare<br />

“pastore in proprio” anziché “servo-pastore”.<br />

Ma cambiato il nome non cambia la vita. Soprattutto<br />

se si è “pastore in proprio”, ma pastore povero e senza<br />

terra.<br />

106<br />

Io a Brescia l’avevo visto come si vive nel mondo al<br />

giorno d’oggi. Se avessi avuto un po’ di capitale per<br />

l’acconto avrei comprato un trattore o un camion e<br />

avrei messo a frutto ciò che avevo imparato da militare.<br />

Per servirmene utilmente, non come continuo<br />

rodimento di fegato.<br />

Lui, il Falco, tra i miei compagni di leva era quello<br />

che di denari ne aveva sempre maneggiato di più. Lui<br />

era figlio di proprietari e non gli era mai mancato né<br />

il pane né il formaggio. Se avessi chiesto il prestito, o<br />

la garanzia per il prestito in banca, a una persona anziana,<br />

ero sicuro che mi sarei soltanto fatto ridere dietro.<br />

Lui invece era giovane e avrebbe capito. Avrebbe<br />

anche capito che, se me l’avesse prestato, non avrebbe<br />

perduto il suo denaro.<br />

Invece, quando gliene parlai, anche lui si era messo<br />

a ridere, guardandomi con disprezzo da capo a piedi.<br />

– Ah, ah… il camion! …e magari anche la brillantina<br />

per i capelli! – si teneva i fianchi e fingeva di<br />

scoppiare dal ridere. Poi si era fatto serio, e mi aveva<br />

domandato:<br />

– Dimmi, prima di fare il militare, non facevi il<br />

vaccaro, tu?<br />

– Sì, sì, è vero! – mi affrettai a rispondergli. – Ma<br />

non ho nessuna intenzione di ricominciare quella vita<br />

miserabile. Piuttosto mi faccio fare le carte per l’emigrazione.<br />

– Non correre! – mi disse. – Ascolta, invece. Se io<br />

un camion te lo faccio prestare, tu saresti capace di<br />

107


guidarlo? Un camion grande… con rimorchio… per<br />

qualche centinaio di chilometri?<br />

– Anche mille, se necessario! – risposi, senza capire<br />

dove voleva andare a parare.<br />

Fu allora che mi propose l’“affare”. Io, prima di allora,<br />

non avevo mai partecipato a quel genere di imprese.<br />

E la mia ambizione non era mai stata di diventare<br />

abigeatario. Ma quando me lo descrisse, l’“affare”<br />

mi parve così sicuro che rifiutarlo sarebbe stato peccato<br />

mortale. Alla fin dei conti io ho una moglie e due<br />

bambini da mantenere.<br />

Si trattava di venti vacche selezionate, già vendute<br />

a scatola chiusa a un tale che ci avrebbe atteso in qualche<br />

approdo sulla costa orientale. Il posto preciso me<br />

l’avrebbe detto solo lungo la strada, perché così erano<br />

i patti con i compratori. Per l’impresa saremmo stati<br />

in tre ma il ricavato l’avremmo diviso in quattro parti:<br />

due a lui che era l’organizzatore e che aveva le spese<br />

del camion, una per ciascuno a noi altri. Ma a me, che<br />

oltre che aiutare a condurre le vacche avevo il compito<br />

di guidare il camion, avrebbe lui pagato di tasca<br />

sua per il valore di una vacca. Cioè nove a lui, sei a me<br />

e cinque all’altro.<br />

Le condizioni mi sembravano eque, e anche il piano<br />

pareva buono e sicuro.<br />

Ci saremmo appostati nell’ovile del Falco la cui<br />

tanca confinava con quella di zio Antonio Flores, e di<br />

lì avremmo visto quando zio Antonio sarebbe partito<br />

per tornare in paese come faceva tutti i sabati. Allora<br />

108<br />

quella femminuccia sciancata di suo figlio sarebbe rimasto<br />

solo con le vacche. Lui, il Falco, sarebbe andato<br />

avanti perché i cani lo conoscevano e non avrebbero<br />

abbaiato. Con della carne avvelenata li avrebbe fatti<br />

fuori per impedire che ci disturbassero nel nostro lavoro<br />

e che poi li aiutassero nell’inseguimento, quando<br />

si fossero accorti di ciò che era successo. Meglio avvelenarli<br />

che riempirli di piombo, disse, per evitare gli<br />

spari che si sentono lontano. Anche se quella zona è<br />

così deserta che, escluso il suo, prima dell’ovile più<br />

vicino, che poi era quello maledetto del Passo della<br />

Croce, ci volevano ore di strada.<br />

A tutto era stato pensato e tutto sembrava previsto.<br />

E sino a un certo punto tutto andò secondo i piani.<br />

Solo una cosa non andò come doveva, ma quella era<br />

imprevedibile e lì fu l’inizio del malanno che seguì.<br />

Proprio quella sera, a zio Antonio Flores doveva saltare<br />

in mente di fare dietro front a metà strada e tornare<br />

all’ovile, tre quattro ore dopo che ne era partito,<br />

perché aveva dimenticato qualcosa che aveva promesso<br />

al dottore o all’avvocato o al diavolo che lo portava.<br />

Col fegato che ha in corpo, quando trovò il figlio legato<br />

e imbavagliato e la stalla vuota, non si perse d’animo<br />

e si mise sulle nostre tracce. In quella notte maledetta<br />

della nostra disgrazia. E ci raggiunse prima che<br />

riuscissimo a mettere le bestie sul camion e a squagliarcela.<br />

Può anche essere che il ragazzo del Passo della Croce<br />

l’abbia aiutato a trovarci. Ma forse a zio Antonio Flores,<br />

109


con la sua esperienza, non gli era stato neppure necessario<br />

che qualcuno gli dicesse quale direzione avevamo<br />

preso dopo il passo. Il temporale non era scoppiato e<br />

non c’era stata la pioggia che avevamo sperato cancellasse<br />

le nostre tracce. Per un uomo come zio Antonio<br />

Flores doveva essere stato un gioco scoprire quale strada<br />

avevamo preso, e raggiungerci.<br />

Così andò in ogni caso. Ci raggiunse, e il peggio fu<br />

che ci riconobbe, nonostante le maschere che ci eravamo<br />

affrettati a rimettere quando lo sentimmo arrivare<br />

al galoppo, e non c’era alcun dubbio con la velocità<br />

che aveva, che doveva essere lui o qualche altro<br />

molto interessato a raggiungerci. Cioè non è certo che<br />

riconobbe noi due altri, che forse non ci aveva mai visto<br />

prima. Ma il Falco lo conosceva bene e lo riconobbe<br />

di sicuro, perché fu a lui che sputò addosso<br />

quando, cambiando la voce e l’accento, il Falco gli<br />

disse che potevamo discutere un abbuono e che lui poteva<br />

riprendersi una parte delle vacche.<br />

<strong>Gli</strong> sputò addosso e non disse neppure una parola di<br />

risposta, mentre cominciava a gridare per far voltare le<br />

vacche che gli ubbidivano come se lo riconoscessero. E<br />

quello sputo fu la causa della tragedia che seguì perché<br />

il tempo che aveva perduto e che ci aveva fatto perdere,<br />

il Falco poteva anche sopportarlo, sono gli incerti di<br />

queste imprese: se riescono riescono, se non riescono<br />

pazienza. Ma un’offesa, e per di più meritata, come<br />

quella, l’aveva fatto impazzire d’umiliazione. Purtroppo<br />

io non avevo capito sino a che punto, e perciò non<br />

110<br />

avevo provveduto a salutare la bella compagnia e a tornarmene<br />

a casa, senza correre altri rischi. E quello fu il<br />

mio errore.<br />

Ma ora dovevo stare attento a non fare altri errori.<br />

Dovevo tenere la testa fredda e non lasciarmi leggere<br />

da nessuno i pensieri che avevo in testa. L’importante<br />

era sapere da quale parte era arrivato il colpo che aveva<br />

abbattuto il Falco. Perché io alla storia della vergine<br />

vendicatrice non ci credevo. E non credevo neppure<br />

che all’improvviso zio Antonio Flores, che aveva riavute<br />

tutte e venti le sue belle vacche, avesse deciso di<br />

rischiare di finire in carcere i suoi giorni, per prendersi<br />

il gusto di fare la festa a un uomo al quale aveva sputato<br />

addosso di fronte a testimoni, e che perciò per lui<br />

non valeva più di un pidocchio.<br />

L’unico interesse che zio Antonio Flores poteva avere<br />

di far fuori il Falco era quello di eliminare uno che<br />

lui aveva offeso di fronte a testimoni e che perciò un<br />

giorno o l’altro poteva vendicarsi. E se era così, anche<br />

io e l’altro eravamo in pericolo, perché avevamo assistito<br />

all’offesa e dunque conoscevamo il movente.<br />

Ma zio Antonio Flores non si poteva proprio dire<br />

che fosse piccolo e magro come una ragazza… Chi allora?<br />

Suo figlio neppure, non poteva essere. Lui sì era<br />

piccolo, ma non si poteva certo dire che fosse magro<br />

ed era anche mezzo sciancato, e tutti l’avrebbero riconosciuto<br />

mentre si allontanava dopo aver sparato. Per<br />

non contare che era più pauroso di una donna - e chi<br />

meglio di me poteva saperlo? - e per fare quello che<br />

111


era stato fatto al Falco, di sangue freddo ce ne voleva,<br />

e molto.<br />

Mentre i pensieri mi mulinavano nella testa, attizzavo<br />

il fuoco nel camino per fingermi non troppo<br />

coinvolto nella storia. Non dovevo però neanche mostrarmi<br />

troppo indifferente. Perché anche l’indifferenza<br />

avrebbe dato nell’occhio. Dissi perciò: – Ora<br />

vado in piazza a sentire un poco… – Ma come avevo<br />

previsto, non mi lasciarono neppure terminare:<br />

– Tu non vai in nessun posto… a quest’ora! E che<br />

cosa vuoi sentire? Tutto quello che c’era da sentire<br />

l’hai già sentito da me! Meglio non mescolarsi in queste<br />

storie… Più lontani si è, meglio… Non si sa mai<br />

chi i carabinieri possono decidere di incolpare, tanto i<br />

veri colpevoli non li trovano mai…<br />

E continuavano, tutte e due insieme, mentre io facevo<br />

finta di voler davvero uscire, e le grida e il chiasso<br />

erano tali che i bambini si svegliarono e cominciarono<br />

anche loro a gridare e a piangere… Una baraonda che<br />

era proprio quello che ci voleva per me che di uscire<br />

non ne avevo proprio alcuna voglia.<br />

Alla fine, fingendomi vittima di quelle due furie<br />

scatenate, dissi che bastava, e che già che ci tenevano<br />

tanto potevo anche restare a casa, perché alla fin dei<br />

conti non era cosa che mi riguardasse se uno che aveva<br />

fatto il gallo con tutte le ragazze del paese ora ci aveva<br />

lasciato le penne.<br />

Dissi così, facendo finta di credere a quella storia<br />

della donna sedotta, perché volevo che mia suocera si<br />

112<br />

convincesse ancora di più che dietro la morte del Falco<br />

c’era una questione di sottane, e che tutto sommato<br />

quella faccenda non m’interessava più che tanto.<br />

Il passatempo preferito di mia suocera è andare in<br />

giro a fare ciarle, e a me faceva comodo che fosse quella<br />

versione che lei e le altre pettegole del paese ripetevano,<br />

sino a farne dimenticare qualunque altra che<br />

magari in un modo o nell’altro poteva far saltare fuori<br />

il mio nome.<br />

Ma qual era l’altra versione? La vera? Ormai anche<br />

per me era questione di vita o di morte venirne a capo.<br />

113


Polvere e sangue<br />

Quel giorno, come quasi ogni giorno dopo la morte<br />

di Giosuè, Oreste non si era mosso di casa. Rannicchiato<br />

sullo sgabello, come un vecchietto, con la sua<br />

solita espressione assente, indifferente si sarebbe detto,<br />

aveva ascoltato mamma che si era messa a tessere<br />

le lodi di compare Giua di Galatì che aveva promesso<br />

di assumerlo come apprendista nella sua bottega di<br />

falegname. Appena il posto si rendeva libero. Forse già<br />

fra qualche giorno. O settimana. O mese.<br />

Per compare Giua, mamma aveva un’ammirazione<br />

rabbiosa. Diversamente da noi, che siamo stati una delle<br />

famiglie più distinte e potenti del paese, e che la mancanza<br />

di carattere di babbo ha ridotto come ci ha ridotto,<br />

compare Giua si è fatto dal quasi nulla una posizione<br />

che tutti gli invidiano. Una bottega con diversi<br />

garzoni, che cresce ogni anno e che ormai fornisce banchi<br />

e mobili anche alle scuole e agli uffici del comune.<br />

“Un uomo e una famiglia che si sono fatti onore”,<br />

non mancava mai l’occasione di dire mamma, soprattutto<br />

se babbo era presente e, dicendo così, poteva<br />

aumentare la sua umiliazione.<br />

115


“Loro sì che si son fatti onore, non come noi che<br />

siamo coperti di miseria e di disonore dalla testa ai piedi<br />

e che ci teniamo dritti solo per l’immotivata superbia<br />

che ci resta”.<br />

Lo diceva per ferire babbo, ma in parte aveva ragione.<br />

Per noi ragazze, forse la vita sarebbe stata comunque<br />

una scatola chiusa che avremmo aperto a poco a poco,<br />

scoprendone il contenuto buono o cattivo che ci era stato<br />

destinato. Ma per Oreste e Giosuè la vita sarebbe<br />

stata sicuramente un’altra se, anziché in una famiglia<br />

di ex-falsi-ricchi, fossero nati in una famiglia di veri<br />

poveri.<br />

Anziché pastori di porci, in quell’unica maledetta<br />

tanca che ci era rimasta, sarebbero diventati artigiani,<br />

muratori, calzolai… E qualunque mestiere sarebbe<br />

stato migliore di quello che invece a lei, proprio a lei<br />

era sino ad allora sembrato l’unico degno per dei figli<br />

di prinzipales. “Pastori in proprio”… anche se quel<br />

“proprio” non erano che alcuni porci semiselvaggi, e<br />

la solitudine di quella campagna maledetta dove da<br />

un anno nessuno di noi aveva più messo piede.<br />

Solo da poco, quasi all’improvviso, come se anche<br />

per lei fosse finalmente diventato intollerabile vederlo,<br />

quel figlio di neppure tredici anni, ridotto come un<br />

vecchio che non si spostava dall’angolo del camino, si<br />

era decisa a rivolgersi a compare Giua perché gli trovasse<br />

un posto di apprendista. Magari nella sua bottega.<br />

Oreste falegname. Un mestiere che esercitato qui,<br />

nel nostro paese, le sembrava indegno della nostra fa-<br />

116<br />

miglia. Che assurdità e che ironia, nella stessa persona,<br />

nelle stesse persone perché anche gli altri non ne erano<br />

esenti, tutta quella somma di presunzione e di umiliazione…<br />

Non so se fu Oreste a chiederglielo, non so se erano<br />

d’accordo, in ogni caso non s’oppose, non uscì da quella<br />

passività in cui dolorosamente vegetava dopo la morte<br />

di Giosuè. Da allora non era più voluto tornare in campagna<br />

e a nessuno, se non a lui forse, ciò parve codardia.<br />

Per tutti quei mesi, per tutto quell’anno, per tutto<br />

quell’interminabile seguito di giorni se n’era rimasto<br />

lì, nell’angolo più buio della cucina, rimestando le<br />

bragi del camino, disegnando con l’attizzatoio montagne<br />

e valli sulla cenere facendo, sprizzare delle scintille<br />

con dei colpi precisi sui tizzoni.<br />

Il suo viso si era ingiallito e avvizzito, e le sue spalle<br />

erano curve e strette come quelle di un vecchio. Lui a<br />

una estremità del camino, nonna, col suo portamento e<br />

il suo viso da mummia orgogliosa, all’altra. E, quando<br />

non era alla bettola, babbo accasciato e perduto nei suoi<br />

deliri, la testa fra le mani e i gomiti appoggiati al piano<br />

del tavolo.<br />

La nostra cucina, la nostra casa, era una fossa di silenziosi,<br />

opprimenti fantasmi, che neppure la forte<br />

presenza di mamma e l’innocente vitalità di Daniela<br />

riuscivano a cancellare. Se qualcuno dei vecchi compagni<br />

veniva a cercarlo, per provare a farlo uscire, Oreste<br />

si limitava a fare spallucce e, quasi sgarbatamente, rispondeva:<br />

117


– Vai tu, se hai voglia. Io non ho dove andare.<br />

Il lutto non impone clausure agli uomini e ai bambini,<br />

come a noi donne. E quel suo voler continuare a<br />

vivere passivo e ritirato come una vecchia, quella sua<br />

stranezza, o follia, era un’umiliazione non necessaria e<br />

inaccettabile che si aggiungeva alle altre sventure che<br />

il destino aveva tenuto in serbo per la nostra famiglia.<br />

Era stato con sollievo perciò che avevo accolto l’idea<br />

della sua partenza e, sperando in un sintomo di guarigione,<br />

lo avevo guardato mentre, quella sera di S. Antonio,<br />

già sul tardi, s’infilava la giacca per uscire. Forse<br />

all’improvviso gli era venuta voglia di salutare i compagni,<br />

di dare un ultimo sguardo al paese prima di lasciarlo.<br />

Fra qualche giorno sarebbe partito e forse per<br />

molti anni, chissà, forse per sempre, sarebbe rimasto<br />

lontano da questi luoghi che, per quanto disgraziati,<br />

son tuttavia i luoghi nei quali siamo nati, e nei quali<br />

affondano le nostre radici.<br />

118<br />

La trave nell’occhio<br />

Solo chi non mi conosce può immaginare che io abbia<br />

avuto una parte sia pure minima e lontana in quel<br />

regolamento di conti. Perciò ancora di più mi offende,<br />

mi imbestialisce, che questa donna con la quale ho diviso<br />

e divido la vita abbia potuto, sia pure per un momento,<br />

in qualche modo collegarmi ad esso.<br />

Lei lo sapeva meglio di chiunque altro che io mi ero<br />

limitato a riprendermi la roba che era mia, e che l’unico<br />

gusto che mi sia preso fu quello di sputargli addosso,<br />

al traditore.<br />

E ormai, dopo tanto tempo, perché avrei dovuto<br />

darmi la briga di fargli la festa, io, a quel delinquente<br />

che, da quando mi aveva offeso e gli sputai addosso davanti<br />

a testimoni, per me aveva smesso d’essere uomo?<br />

Sapevo che ormai non avrebbe più tentato di nuocermi,<br />

nonostante la sua ferocia e la sua slealtà. Perché<br />

avrei dovuto rischiare la mia libertà insozzandomi le<br />

mani del suo sangue?<br />

Ma quando seppi della sua fine, la mia reazione più<br />

che naturale fu di tirare un respiro di soddisfazione, e<br />

non mi trattenni dal dire che la mano di Dio era fi-<br />

119


nalmente calata su di lui. E questo bastò perché lei,<br />

che con la vecchiaia sta diventando anche bigotta, cominciasse<br />

a rimproverarmi con quelle sue frasi stantie<br />

che, anche a causa della voce che l’età sta rendendo<br />

mascolina, mi fanno quasi credere d’essermi sposato<br />

con un prete e di averci impiegato trent’anni per accorgermene.<br />

– Ma è stato o non stato lui che ha cercato di metterci<br />

sul lastrico, noi, i suoi benefattori? Dimmi! È<br />

stato o non stato lui, a legare tuo figlio come una bestia<br />

da mandare al macello, a minacciarlo di morte, ad<br />

avvelenarci i cani e a svuotarci la stalla? Per non parlare<br />

di ciò che ha fatto ad altri.<br />

Dicevo. E lei naturalmente sapeva benissimo che avevo<br />

ragione. Ma prima di cedere e di ammettere il proprio<br />

torto crepa, la santa donna. Lei che parla di perdono,<br />

e delle sofferenze di Gesù sulla croce, dei nostri<br />

peccati, e dell’umiltà… E poi quella frase melensa che<br />

proprio mi fa montare in bestia: “Impara a vedere la<br />

trave nel tuo occhio, ecc. ecc.”<br />

Come se si possano fare confronti, tra uno che non ha<br />

rispettato mai niente e nessuno, una belva che, anche<br />

dimenticando ciò che fece a noi e a molti altri come<br />

noi, chiunque avrebbe condannato senza appello per<br />

quella vendetta bestiale che si prese su un innocente, e<br />

uno come me che ha sempre tirato avanti per la sua<br />

strada, cercando di non infastidire nessuno, logorandosi<br />

nel lavoro per riuscire a vivere senza vergogna.<br />

“Impara a vedere la trave nel tuo occhio…” come se<br />

120<br />

si possano fare confronti! Perché sì, anche se son cose<br />

di cui non posso parlare con lei o con nessun altro, io<br />

posso ammetterlo davanti a Dio: è vero che io il ragazzo<br />

lo calai nel pozzo e che feci la voce grossa con lui<br />

sino a che non si decise a parlare, ma dopo fui io stesso<br />

che, con queste mie mani, nonostante la fretta che<br />

avevo, gli attizzai il fuoco perché si asciugasse e non si<br />

prendesse una polmonite, con quel vento freddo che<br />

tirava e quella tempesta che stava per scoppiare da un<br />

momento all’altro. E forse sarebbe stato meglio che se<br />

la fosse presa una polmonite galoppante, e che fosse<br />

morto di morte naturale, non in quel modo atroce che<br />

neppure una bestia meriterebbe.<br />

Ma forse che io non avevo diritto, io, di costringerlo<br />

ad aiutarmi? Non era forse il mio, frutto del mio sudore<br />

e del mio sangue, quel bestiame che inseguivo e<br />

le cui tracce si confondevano e minacciavano di perdersi,<br />

proprio lì, davanti alla sua capanna? Era colpa<br />

mia, e non di quel poltrone ubriacone di suo padre, se<br />

quel bambino inesperto si trovava da solo in un posto<br />

così pericoloso ed esposto?<br />

Io in quella situazione ero la vittima e l’offeso e ho<br />

fatto solo ciò che era necessario per difendermi. Ma la<br />

baciapile bigotta cercava e cerca di convincermi che io<br />

ero e sono un peccatore alla stregua di quel traditore e<br />

assassino di bambini che quella sera finalmente il diavolo<br />

si era preso con sé. Anch’io ero in grado di dire:<br />

“che Dio gli perdoni”, ora che le sue mani erano legate<br />

per sempre e il suo fiato aveva finito d’appestare l’aria<br />

121


che respirava. Che Dio gli perdonasse pure, ma io non<br />

potevo perdonargli. Io, cieco, che mi ero allevato la serpe<br />

in seno. Derubato da quello al quale io stesso avevo<br />

insegnato il mestiere, da colui che un giorno mi aveva<br />

detto che se si fosse sposato, io avrei dovuto fare da padrino<br />

al suo primo figlio.<br />

Rubare è umano, gli uomini hanno sempre rubato e<br />

sempre ruberanno, peggio per chi è sciocco e si lascia<br />

derubare; ma tradire no, tradire chi ti crede amico e ti<br />

ha fatto del bene, mordere la mano dalla quale hai<br />

mangiato e bevuto, questo perdio non è da uomo, è da<br />

serpe. E la serpe merita di venire schiacciata sotto la<br />

suola della scarpa.<br />

Lei invece, la bigotta, mi parlava di trave nel mio<br />

occhio perché, siccome non è stupida, ha capito che la<br />

morte di quel ragazzo era collegata al furto e al ritrovamento<br />

delle nostre vacche.<br />

Forse è stato quell’imbecille di nostro figlio a raccontarle<br />

qualcosa che glielo ha fatto capire. Il ragazzo<br />

doveva essere ancora tremante di freddo e di paura,<br />

quando lui e i vicini che si erano uniti per le ricerche<br />

arrivarono al Passo della Croce. E proprio in quel momento<br />

anch’io ci tornavo, con tutte le mie vacche recuperate.<br />

I vicini sicuramente capirono che sono cose<br />

del mondo, e che se io quel ragazzo l’avevo fatto parlare,<br />

con le buone o con le cattive, avevo avuto tutto il<br />

diritto di farlo.<br />

Mio figlio, invece, quella femmina che mi vergogno<br />

persino d’ammettere che è figlio mio, sembrava non<br />

122<br />

aver capito niente e, come se fosse la cosa più importante<br />

in quel momento, voleva che restassimo in quel<br />

deserto maledetto per occuparci di quel bambino che<br />

gli “sembrava molto malato”.<br />

Quando ci arrivai la prima volta, da solo, al Passo<br />

della Croce, già cominciava a tuonare e il temporale<br />

sembrava sul punto di scoppiare. La pioggia, su quel<br />

terreno arido e asciutto avrebbe in un attimo cancellato<br />

le tracce, proprio lì dove i sentieri si dividevano e<br />

già esistevano delle possibilità d’errore e di perdite di<br />

tempo, e avrebbe forse reso vana ogni speranza di recuperare<br />

la mia roba.<br />

Era chiaro che il ragazzo, con le buone, non sarei mai<br />

riuscito a farlo parlare. Voleva fare il furbo, in principio,<br />

e cercava di dire che lui dormiva, che non aveva<br />

visto né udito niente, che il cane non aveva abbaiato o<br />

che se aveva abbaiato lui non l’aveva sentito. Ma se<br />

non avessi avuto altri motivi per dubitare, avrei capito<br />

che mentiva dal tremito che gli scuoteva le membra e<br />

che gli faceva battere i denti con un rumore che pareva<br />

di grandine.<br />

Quel sistema per far parlare chi non vuol parlare,<br />

non l’ho inventato io, e persino la polizia con l’approvazione<br />

dei giudici e del governo e di tutti ha i suoi<br />

metodi e li adopera. E i metodi della polizia, dei giudici<br />

e del governo non sono più umani dei nostri. Perché<br />

non dovevo tentare io, in una questione che per<br />

me era di vita o di morte? E in ogni caso, a sgozzarlo<br />

come un agnello e a crivellarlo di colpi, il ragazzo, non<br />

123


sono stato io. Io ho sempre pensato, e detto quando era<br />

il caso di dirlo, che era stata una cosa bestiale e immotivata.<br />

Ciò che io feci invece era legittimo. Una legittima<br />

difesa, era la mia: io ero l’offeso, il colpito, e<br />

mi stavo difendendo come potevo.<br />

Io dovevo, a ogni costo, sapere per quale di quelle tre<br />

maledette strade il mio bestiame, tutto il mio bestiame,<br />

la mia unica ricchezza, il pane mio e della mia<br />

famiglia, la mia unica garanzia per la nostra vecchiaia,<br />

era scomparso. E se lui, il ragazzo, il solo che potesse<br />

dirmi per quale di quelle tre maledette strade si erano<br />

allontanati, non voleva parlare, era nel mio diritto<br />

adoperare quei mezzi che chiunque, anche la polizia,<br />

al mio posto avrebbe adoperato per fargli muovere la<br />

lingua. La colpa, caso mai, era di chi aveva messo lui,<br />

l’agnello innocente, in quel posto di lupi. La colpa era<br />

di quell’ubriacone buono a nulla del padre e di quell’ambiziosa<br />

pazza della madre che i figli li voleva pastori<br />

e proprietari, perché pastori e proprietari erano<br />

stati i loro antenati.<br />

Bel ragionamento! Come se non se ne siano viste altre<br />

di famiglie andate in rovina, e di figli di pastori diventati<br />

calzolai o barbieri o altro… Ahi, la spina del<br />

mio cuore! Anche mio figlio… che ne sarà di lui<br />

quando la vecchia quercia sarà crollata?<br />

Prete lo voleva la madre, e lui si era messo in mente<br />

di emigrare, perché qui “in questo paese incivile”,<br />

come si permetteva di dire, non ci poteva vivere.<br />

Quando partì militare, speravo che, lontano dalla ma-<br />

124<br />

dre che l’ha sempre viziato come una bambina, sarebbe<br />

diventato un uomo. Mi ritornò invece sciancato<br />

e profumato come una femmina di malaffare, che ancora<br />

a ripensarci mi scoppiano le vene delle tempie per<br />

la vergogna. Quale peccato, Dio mio, quale peccato ho<br />

commesso per essere punito così duramente nel mio<br />

unico figlio? Questa sì che è una trave nel mio occhio<br />

e una spada rigirata nel mio cuore, non quella di cui<br />

parla la bigotta che pretende mandarmi da quell’uomo<br />

in sottana per parlargli di cose che non lo riguardano<br />

e che sono peccato solo nella fantasia di una<br />

vecchia donna.<br />

Si gira e rigira nel letto sospirando, da allora, e ha<br />

raddoppiato le sue novene e le sue messe perché, come<br />

dice, “il peccato è grande, e dura dev’essere l’espiazione”.<br />

Facile parlare di peccato, di umanità, di giustizia.<br />

Ma come avrebbe fatto lei, come avremmo fatto noi,<br />

se non fossi riuscito a raggiungere i ladri e a riportare<br />

il bestiame nella nostra stalla? Le banche non perdonano<br />

e non parlano d’umanità. Neppure chiedendo<br />

l’elemosina di porta in porta saremmo riusciti mai a<br />

sollevare la testa, dopo un colpo come quello.<br />

Dovevo forse rassegnarmi a non ricevere aiuto dal ragazzo<br />

e rischiare, mentre seguivo una pista sbagliata,<br />

che con la complicità di quelle nuvole che da giorni<br />

andavano ammucchiandosi nel cielo e che stavano per<br />

sciogliersi in cateratte d’acqua, le nostre venti vacche<br />

di razza venissero ingoiate da qualche camion appo-<br />

125


stato sulla provinciale e perdute per sempre sui marmi<br />

e nelle celle frigorifere di qualche macelleria cittadina?<br />

Era questo che dovevo fare? Rassegnarmi? E chi ce<br />

le avrebbe pagate, dopo, le tratte della banca? Chi ce<br />

l’avrebbe salvato quel pezzo di terra e questo tetto che<br />

ci copre la testa? Come avrei mai più potuto sollevare<br />

gli occhi di fronte ai cauzionisti, costretti a pagare il<br />

nostro debito? Tutto avremmo dovuto vendere, persino<br />

le scarpe che portiamo ai piedi e la camicia che ci<br />

copre il ventre, ma neppure così ci saremmo salvati<br />

dalla vergogna verso quelli che ci avevano aiutato con<br />

la loro firma e che avrebbero dovuto pentirsi amaramente<br />

della fiducia che mi avevano fatto.<br />

Perché quando ci ritornai quella sera la stalla era<br />

vuota come il palmo della mia mano, e di ciò che era<br />

stato il frutto del mio lavoro e che era la nostra assicurazione<br />

per la vecchiaia non restava che qualche traccia<br />

di sterco sul pavimento di cemento.<br />

Che cosa avrei raccontato alla banca che ci aveva<br />

concesso il mutuo, che cosa avrei detto? “Signori cari,<br />

per piacere cancellate il mio debito perché io non potrò<br />

mai pagarlo. I ladri mi hanno svuotato la stalla,<br />

mio figlio è una femmina, e il bambino del Passo della<br />

Croce era testardo e non mi ha voluto dire quale strada<br />

avevano preso e io, cercando e sbagliando, ho perduto<br />

tempo, il temporale ha cancellato le tracce e io, nel<br />

giro di poche ore, da proprietario, son diventato nullatenente.<br />

Avrei forse dovuto costringerlo con le male<br />

126<br />

maniere a parlare, il bambino del Passo della Croce che<br />

non voleva parlare? La legge non lo permette…”<br />

Questo avrei dovuto dirgli a quelli della banca che<br />

non sono pastori, che sono gente civile, come mia moglie.<br />

E loro, gentilmente, avrebbero strappato tutti i<br />

foglietti verdi che mi mandavano per ricordarmi di pagare,<br />

e noi saremmo rimasti poveri, sì poveri in canna,<br />

ma senza obblighi verso nessuno, senza vergogna.<br />

Così forse s’immaginava lei che sarebbe andata, se io<br />

quella notte non avessi fatto ciò che feci. E mi parlava<br />

di trave nel mio occhio, e del peccato che avevo commesso.<br />

Come se fosse stato un piacere farlo, come se<br />

ancora nel sonno e nella veglia non mi vedessi davanti<br />

quegli occhi supplichevoli e terrorizzati, e non mi sentissi<br />

nelle orecchie quel rumore di grandine che facevano<br />

i suoi denti.<br />

Lo scuotevo per le spalle, come qualche ora prima<br />

avevo fatto con mio figlio, e come allora mi pareva che,<br />

stringendo solo un altro poco, avrei potuto stritolare<br />

fra le dita quelle clavicole la cui fragilità, intenerendomi,<br />

ancora di più accendeva la mia ira.<br />

La testa gli sbatteva avanti indietro, come se fosse legata<br />

al corpo da uno straccio molle, senza ossa. Il suo<br />

cane abbaiava e ringhiava ma, dopo il primo calcio che<br />

gli sferrai, si teneva a distanza senza avere il coraggio<br />

d’aggredirmi. Un vecchio cane. Neppure un buon cane<br />

avevano procurato a quell’innocente, abbandonato<br />

in un luogo dove a mala pena un adulto con altre cartucce<br />

al suo fucile avrebbe potuto resisterci.<br />

127


Ai miei scossoni lasciava penzolare il capo senza reagire,<br />

come privo di vita, fissandomi con quegli occhi<br />

rovesciati al bianco che sembravano sul punto di schizzargli<br />

dalle orbite. Avrei potuto schiaffeggiarlo, ma capii<br />

che sarebbe servito solo a eccitare ancora di più la<br />

mia ira, senza farmi ottenere da lui ciò che mi occorreva<br />

sapere, e subito.<br />

Sapevo dove si trovava il loro pozzo perché non era<br />

la prima volta che passavo da quelle parti, ma glielo<br />

domandai, sperando che ciò l’avvertisse delle mie intenzioni<br />

e bastasse per fargli paura. Invece sembrò non<br />

capire e continuò a guardarmi con quegli occhi di bestia<br />

moribonda, senza rispondermi. Ce lo trascinai, e la<br />

sua mancanza di resistenza di nuovo eccitava le mie<br />

manifestazioni d’ira, mentre l’ira stessa si sgonfiava<br />

dentro di me, come del latte in ebollizione quando un<br />

soffio ne sfiora la superficie.<br />

Ma non c’era niente da fare, non era per sfogare la<br />

mia ira che facevo ciò facevo. Dopo quella lunga stagione<br />

di siccità, pensavo che il pozzo dovesse essere<br />

quasi asciutto e, per un momento, la paura del ridicolo<br />

di calarlo in un pozzo senz’acqua si mescolò alle altre<br />

preoccupazioni.<br />

Avevo chiuso il cane nella capanna, perché il suo abbaiare<br />

mi stava dando sui nervi e ora, mentre lo legavo,<br />

il ragazzo mi domandava, in una specie di lamento<br />

mescolato a quell’irritante rumore di grandine dei<br />

suoi denti che non avevano smesso di battere:<br />

– Che cosa mi fate, zio Antonio, che cosa mi fate?<br />

128<br />

– Dimmi dove sono andati e ti slego, altrimenti aspetta<br />

e sentirai che cosa ti faccio! – gli risposi, e attesi<br />

un momento.<br />

– Non so nulla, vi giuro sull’anima mia! – gridò. E<br />

se non avessi avuto la certezza che mentiva, avrei quasi<br />

potuto credergli.<br />

Quando già lo sollevavo per calarlo nel pozzo, si udì<br />

un tuono che rotolava nel cielo dove la luna continuava<br />

a mostrarsi e a nascondersi in mezzo alle nuvole,<br />

e capii che non c’era tempo da perdere. Non potevo<br />

avere pietà, anche se non averne era impossibile.<br />

Lo calai nel pozzo con precauzione, per evitare che<br />

sbattesse contro le rocce che sporgevano dalle pareti. E<br />

lui: – Che cosa mi fate? – gridava, e sembrava davvero<br />

non aver capito che cosa gli stavo facendo. Come se<br />

mai nessuno gli avesse raccontato che così si faceva a<br />

quelli che sapevano e non volevano parlare.<br />

Quando udii il tonfo dei suoi piedi che raggiungevano<br />

l’acqua, fermai la fune e, affacciato a quel cerchio<br />

buio, gli gridai:<br />

– Racconta dove sono andati, disgraziato, senza farmi<br />

perdere altro tempo. Altrimenti taglio la fune e<br />

non sarai ripescato che quando il fetore della tua carogna<br />

avrà chiamato tutti i corvi e gli avvoltoi dell’isola.<br />

Non rispose neppure allora, e io cedetti un tratto di<br />

fune sino a che l’acqua stava per coprirlo e la sua voce,<br />

debole, agitata e come lontanissima, non disse quasi in<br />

un singhiozzo: – Il sentiero di Salaghìa!<br />

Lo tirai su e, prima di rimettermi al galoppo nella<br />

129


direzione che aveva indicato, soffiai sui tizzoni del focolare<br />

e aggiunsi una fascina per ravvivargli la fiamma.<br />

E non mi allontanai sino a che non fui certo che il<br />

fuoco aveva ben preso e che già il vapore s’alzava dai<br />

suoi panni bagnati.<br />

E che cosa di più avrei potuto fare? Restare a fargli<br />

la guardia? A proteggerlo? Ciò spettava a quell’ubriacone<br />

del padre e a quell’intrigante della madre. Avrebbero<br />

potuto pensarci loro a non lasciarlo solo e senza<br />

controllo in un posto come quello. Avrebbero dovuto<br />

tenerselo a casa, come il bambino che era. Quello non<br />

era e non era mai stato un posto per bambini ingenui<br />

e indifesi.<br />

Certo ciò che capitò appresso fu peggio e più di<br />

quanto chiunque, neppure con la fantasia di una belva,<br />

avrebbe potuto immaginare. E non sarebbe capitato se<br />

il ladro, cosa che io non potevo prevedere, non fosse<br />

stato uno dei miei amici e vicini che allo scorno di dover<br />

restituire il mal tolto doveva aggiungere l’incancellabile<br />

vergogna d’essere stato scoperto a tradire un<br />

amico.<br />

Ma ero forse io il padre o il custode di quel bambino?<br />

Toccava a me proteggerlo e prevedere il peggio?<br />

In quel momento avevo ben altro per la testa. Che<br />

ognuno badi a sé. Così è la vita.<br />

130<br />

Il dolore e la macchia<br />

– Mamma, il falco è abbattuto! La macchia è lavata!<br />

– disse a voce bassa e chiara. Io e Daniela alzammo il<br />

capo, guardandolo senza voler capire, senza voler accettare<br />

l’unica possibile interpretazione di quella frase.<br />

Mamma ebbe come un sussulto, lì dove stava, in piedi<br />

davanti ai fornelli. Raddrizzò le reni e rimase un attimo<br />

immobile, senza voltare il capo. Poi lo guardò e,<br />

senza pronunziare parola, senza affrettare il passo ma<br />

ugualmente affrettandosi, si ritirò insieme a lui nella<br />

stanza accanto.<br />

Nonna rimase con noi vicino al camino, continuando<br />

a sgranare il suo rosario. Solo per un suo scatto breve<br />

e forse involontario del mento capimmo che aveva<br />

udito.<br />

Di nuovo si era interrotta l’energia elettrica e, col lavoro<br />

a maglia sulle ginocchia, stemmo ad ascoltare i<br />

loro bisbigli nel buio della stanza accanto.<br />

Era la sera di S. Antonio. Tornando dalla messa, quella<br />

mattina, avevamo visto i carri che scaricavano i tronchi e<br />

le frasche per i falò della festa. Più tardi, quando già le<br />

cataste dovevano essere pronte, aveva cominciato a pio-<br />

131


vere, così forte che ormai la legna doveva essere zuppa.<br />

Non doveva essere stato facile accendere i fuochi e tenerli<br />

accesi.<br />

A causa del lutto, noi ragazze quell’anno non potevamo<br />

mostrarci attorno ai falò. Le nostre compagne sarebbero<br />

andate senza di noi ad arrostire le castagne e<br />

le patate fra le ceneri calde, a guardare e a farsi guardare,<br />

a ricevere, forse, e a rispondere a qualche dichiarazione<br />

d’amore. Noi non potevamo essere lì ad esprimere<br />

voti quando S. Antonio avrebbe conficcato il suo<br />

tizzone ardente nella terra indurita dall’inverno per<br />

scaldarla, fecondarla e farla rivivere. Altre ragazze e altri<br />

giovani, senza di noi, avrebbero annunziato la primavera,<br />

saltando il fuoco mentre si tenevano per mano<br />

e si promettevano amicizia.<br />

Noi, quell’anno e forse per molti anni ancora, avevamo<br />

diritto di passare solo per le strade secondarie,<br />

rasentando i muri e con lo sguardo basso. I soli luoghi<br />

nei quali potevamo recarci senza scandalo erano il cimitero<br />

e la chiesa. Ma non per le funzioni festive e solenni.<br />

E anche lì, in chiesa, avevamo ritirato i nostri<br />

inginocchiatoi nella navata più buia, dietro una colonna<br />

che ci nascondeva, noi, il nostro lutto e la nostra<br />

vergogna.<br />

Da un anno, da quando Giosuè era stato ucciso e i<br />

suoi assassini circolavano impuniti per il paese, la nostra<br />

famiglia era appestata di lutto e di disonore. Così<br />

era, e così era sempre stato nel mondo per chi, come<br />

noi, nasceva sotto una stella cattiva.<br />

132<br />

Della morte di Giosuè in casa nostra non se ne parlava.<br />

Ma essa era sempre lì, presente in mezzo a noi,<br />

come un’enorme macchia oscura che non poteva né<br />

doveva asciugarsi, una macchia che non dovevamo<br />

stancarci di guardare, che non dovevamo dimenticare<br />

neppure un momento. Era presente per impedirci di<br />

parlare con la nostra voce normale. Era lì e ci ripeteva<br />

continuamente che, sino a quando quella macchia che<br />

non potevamo cancellare non fosse stata cancellata, le<br />

nostre vite sarebbero rimaste paralizzate nel gesto del<br />

dolore e della vergogna. Così era e non poteva essere<br />

che così.<br />

“Il falco è abbattuto! La macchia è lavata”. Se Oreste<br />

non era diventato pazzo, ciò significava una cosa sola,<br />

e quella cosa ci faceva tremare le mani abbandonate<br />

sul grembo.<br />

Guardai Daniela e vidi nell’espressione di tutto il<br />

suo corpo rattrappito la stessa angoscia che, come uno<br />

sciame d’api aggressive, sentivo rombare nel mio sangue.<br />

Il viso di nonna, più alto sopra i bagliori del camino,<br />

era illuminato solo a sprazzi, quando le fiamme<br />

s’alzavano.<br />

“Il segno del Santo!” disse a un tratto. Nelle labbra<br />

sottili, succhiate tra le vuote gengive, nelle occhiaie<br />

profondissime e tonde come quelle di un teschio, in<br />

tutte le immobili rughe del suo volto di mummia,<br />

non esprimeva che una pace finalmente ritrovata, una<br />

pace sazia e crudele.<br />

Così era e così forse avrebbe dovuto essere anche per<br />

133


me. Invece quell’avvenimento che Oreste ci aveva annunziato<br />

e che - per mano di chi? - aveva cancellato<br />

la nostra onta, ma non il nostro dolore, a me mi aveva<br />

solo colmato di nuova, scurissima angoscia.<br />

Il loro bisbiglio lì dentro. Il sobbalzare delle fiamme<br />

nel camino, il tremito delle nostre mani, di tutto il<br />

nostro corpo sin nelle più intime fibre. L’avanzare lentissimo<br />

della sveglia che troneggiava sul camino. Il<br />

suo tic-tac solenne che sottolineava l’enorme silenzio<br />

che era calato su tutta la terra.<br />

Poi la corrente elettrica tornò, la cucina fu smisurata<br />

e nemica nell’improvvisa luce abbagliante. I barbagli<br />

rossi del rame sulle pareti si spensero. Nel pallore del<br />

viso di Daniela specchiai il mio pallore.<br />

Udii che di lì smuovevano qualcosa. Rumori che<br />

non riuscii ad identificare. Altri bisbigli. La corrente<br />

elettrica arrivava a onde che facevano alzare e abbassare<br />

l’intensità della luce. Così era stato tutta la sera. Così<br />

era quasi sempre nei giorni di tempesta o di pioggia<br />

forte.<br />

C’era un silenzio strano, ora, di là. La luce mancò di<br />

nuovo e udimmo la porta sul cortile posteriore che si<br />

apriva, e i passi di Oreste che s’allontanavano.<br />

Il lugubre ticchettio della sveglia. Il silenzio. Il doloroso<br />

battito del cuore contro le sorde pareti del torace.<br />

“Il falco abbattuto! La macchia lavata!” Sapevo, ma<br />

non volevo sapere, che cosa significava. “Il segno del<br />

Santo!” La macchia era cancellata. Da chi? La domanda<br />

con la sua risposta, possibile anche se apparen-<br />

134<br />

temente pazzesca, era lì ma io ostinatamente me ne distoglievo.<br />

La macchia era cancellata e le nostre vite sarebbero<br />

potute uscire dalla fissità in cui un anno prima<br />

erano cadute. I nuovi gesti però non sarebbero stati<br />

meno dolorosi degli antichi.<br />

Sentivo, ma non volevo acconsentire a quel sentimento,<br />

che avevamo salito la china, che avevamo passato<br />

il valico. L’orizzonte però che si apriva per noi<br />

dopo il valico, non mi appariva come la valle dei verdi<br />

pascoli della terra promessa, ma come un nuovo e più<br />

terribile abisso.<br />

Compresi perciò, e rifiutai di capire, l’eccitato<br />

trionfo di mamma quando ci guardò affacciandosi all’uscio.<br />

Il suo sguardo, più che quello mio e di Daniela<br />

cercava quello di nonna che lo ricambiò e, con gli occhi<br />

immobili nei suoi - assenti sembravano - ripetutamente<br />

chinò sul petto il mento aguzzo.<br />

Io non seppi sostenere quello sconosciuto sfavillare<br />

dei suoi occhi, e non rialzai i miei neppure quando la<br />

udii pronunziare quelle parole che non mi aspettavo<br />

d’udire ma che, sebbene apparentemente insensate,<br />

non discussi né mi feci spiegare. D’altronde, sotto la<br />

loro apparente insensatezza, mi riuscirono più che<br />

chiare.<br />

– Oreste è partito stamani all’alba per Trezene, dove<br />

la dottoressa Rudas lo prenderà a servizio in attesa che<br />

trovi un posto di apprendista da qualche parte. Forse da<br />

compare Giua che mi ha promesso di prenderlo a bottega.<br />

Appena può. È partito stamattina all’alba, perché<br />

135


non voleva stare qui il giorno della festa. È partito a<br />

piedi, per risparmiare i soldi della corriera. Io ora devo<br />

uscire un momento per una commissione. Ma se venisse<br />

qualcuno, dite che sono andata a letto perché<br />

avevo mal di testa.<br />

C’era nella sua voce un’esultanza che mi faceva paura<br />

più dell’apparente stoltezza delle sue parole. Non erano<br />

passati molti minuti da quando Oreste era lì davanti ai<br />

nostri occhi, e per tutta la giornata l’avevamo visto seduto<br />

nel suo solito angolo accanto al camino. E ora, all’improvviso,<br />

partiva a piedi, in mezzo alla notte, e non<br />

per Galatì ma per Trezene. Come se ci fosse urgenza<br />

d’allontanarsi, e di fingere che s’era allontanato, che era<br />

partito prima dell’inizio di quella tempestosa giornata.<br />

Prima di… La spiegazione, la verità era già tutta dentro<br />

di me, ma non osavo vestirla di parole.<br />

136<br />

Una donna, un uomo, una donna<br />

Mia suocera se n’era appena andata quando qualcuno<br />

bussò al portoncino del cortile.<br />

Non era così tardi che un visitatore inatteso dovesse<br />

spaventarmi. Però, dopo ciò che era avvenuto, quel<br />

colpo secco di battaglio mi fece trasalire come un rintocco<br />

funebre.<br />

– Forse mamma ha dimenticato qualcosa… – disse<br />

lei, alzandosi per andare ad aprire. La trattenni, quasi<br />

con violenza, posandole la mano sulla spalla. Ma come<br />

spiegarle che non volevo che aprisse? Quale giustificazione<br />

potevo darle, senza compromettermi e senza degradarmi<br />

ai suoi occhi?<br />

I colpi, insistenti e più forti, si ripeterono e lei mi<br />

guardò aspettando che mi movessi o che le permettessi<br />

d’andare.<br />

– Vado io, – le dissi, non riuscendo a trovare una scusa.<br />

Con la sua solita docilità, tornò a sedersi accanto alla<br />

culla e mi guardò, aspettando che facessi o dicessi qualcosa.<br />

Di nuovo due tocchi, questa volta più forti, autorevoli<br />

e come impazienti. E non mi restò che ubbidire.<br />

137


Quando la vidi, la testa e le spalle avvolte in quello<br />

scialle nero come quella stessa maledettissima notte,<br />

solo gli occhi e la radice del naso scoperti, credetti che,<br />

non soddisfatta di ciò che un’ora prima era avvenuto<br />

in piazza, o forse da questo incoraggiata, fosse venuta<br />

per regolare anche con me quel conto sospeso.<br />

– Non fate pazzie, zia Lucia! – mi sfuggì.<br />

– Pazzie non ne ho mai fatte, e non ne farò. Sta tranquillo!<br />

– Mi rispose. E sembrava così calma che mi vergognai<br />

della sua forza e della mia paura. Che cosa voleva<br />

da me? Non volevo morire schiacciato come uno<br />

scarafaggio sotto la scarpa di quella donna.<br />

– Che cosa volete da me, zia Lucia? Voi lo sapete<br />

quanto me che quello che ha pagato stasera era solo,<br />

quando l’offesa vi è stata fatta.<br />

– Io so quello che so. Fammi entrare! – Mi rispose e<br />

quasi mi spinse da un lato, sciogliendo dallo scialle le<br />

mani che, vidi con sollievo, non erano armate.<br />

Non volevo che mia moglie la vedesse ed esitai, domandandomi<br />

se farla entrare nel magazzino o nella<br />

tettoia della legnaia. Parve indovinare il mio dubbio e,<br />

chiudendo dietro di sé il portoncino del cortile, sussurrò:<br />

– Ciò che ho da dirti è presto detto. E non occorre<br />

che lei sappia che sono qui. Ciò che ti volevo dire, e che<br />

non devi dimenticare se vuoi bene a quell’innocente<br />

che hai nella culla, è che mio figlio, Oreste, – lo disse<br />

con una strana voce che mi fece rabbrividire, – l’hai incontrato<br />

stamattina sulla strada per Trezene. Stamat-<br />

138<br />

tina, intendimi bene e ricordati: vi siete salutati e lui ti<br />

ha detto che andava a Trezene e che ci andava a piedi<br />

per risparmiare il biglietto della corriera. E, se qualcuno<br />

ti domanda, dirai che ti risulta che ha passato la notte<br />

nell’ovile dei tuoi cugini, alla Serra. Provvedi perché<br />

lo stesso dicano loro, se qualcuno domandasse. Ma se<br />

nessuno vi domanda non occorre parlarne. Hai capito?<br />

Ricordartelo e non sbagliare, se qualcuno ti chiede. Non<br />

lo devi dimenticare, e anche i tuoi cugini non devono<br />

dimenticarsene, se ti è cara la vita di quella creatura che<br />

hai nella culla! – Ripeté, e non attese neppure che replicassi<br />

o promettessi.<br />

Si tirò di nuovo lo scialle sulla testa e tornò al portone.<br />

Lì si fermò e, con gli occhi che scintillavano nel<br />

buio come gli occhi di un demonio, o di una bestia,<br />

aggiunse:<br />

– E naturalmente tu stasera non mi hai visto. Anzi<br />

tu non mi hai mai visto, e non mi vedrai, da quando<br />

il lupo ha sbranato l’agnello, e il falco ha massacrato la<br />

sua preda.<br />

– Un forestiero che si era sbagliato, – dissi a mia moglie,<br />

e lei mi credette o finse di credere.<br />

Aveva preso in grembo il bambino e scherzava con<br />

lui, solleticandogli le labbra con la punta del capezzolo<br />

turgido. La blusa era sbottonata. Entrambi i seni, bianchi,<br />

vivi e grandi, erano scoperti e splendevano come<br />

perle. Li guardavo senza riuscire a staccarne gli occhi, e<br />

desiderai rimettere il bambino nella culla, per affondare<br />

io in quella carne morbida e ospitale. Nascondere<br />

139


il viso in quel solco tiepido e riposare gli occhi su quella<br />

pelle di seta.<br />

Vederla così bella e impudica e innocente, mi metteva<br />

il sangue in tumulto, e la paura che ancora mi batteva<br />

nelle vene diventava bisogno di consolazione e di<br />

piacere. Il desiderio era una sofferenza violenta che faceva<br />

sprofondare la conversazione di poc’anzi in un<br />

vorticoso buio lontano.<br />

Avrei dovuto trovare la forza di non guardarla, o di<br />

toglierle il bambino di braccio per prenderla lì, subito,<br />

sul pavimento davanti al focolare. Ma dopo le<br />

minacce della vecchia, lì fuori, un timore superstizioso<br />

m’impediva di staccare il bambino dalla madre, e fu<br />

con una violenza di cui io stesso ebbi paura che le gridai:<br />

– Copriti il petto! Spudorata! – E quanto più forte<br />

era il desiderio di sentire la mia carne affondare nella<br />

sua, di rifugiarmi e nascondermi nel tepore morbido<br />

del suo corpo, tanto maggiore era la violenza, l’odio<br />

col quale le parlai.<br />

Sembrava una bambina spaventata, mentre con dita<br />

incerte e tremanti, guardandomi fisso, tirava sul seno<br />

sinistro il lembo della blusa. Accanto alla bocca delle<br />

piccolo, che ora dormiva, restava scoperto l’altro seno,<br />

col capezzolo roseo, eretto come un bocciolo di rosa.<br />

Quella notte, per la prima volta, non riuscii a essere<br />

uomo con lei. La vecchia, lì, sul portone, mi aveva stregato.<br />

Il ricordo, quel ricordo che ero riuscito a tenere a<br />

bada, a spegnere, quasi, di nuovo era lì e mi dominava<br />

140<br />

anche nel momento in cui ogni fibra del mio corpo, e<br />

anche il corpo di lei che sentivo fermentare sotto il<br />

mio, non erano disposti che al piacere, all’oblio.<br />

Non so che cosa mi accadde, ma quando, ormai al<br />

colmo dell’ebbrezza stavo per abbandonarmi e riposare<br />

in lei, e il suo ventre già palpitava all’unisono col<br />

mio, il ricordo di quel sangue che zampillava dalla<br />

bocca del ragazzo, di tutto quel sangue, mi invase la<br />

mente scacciandone ogni altra presenza e possibilità.<br />

Ma io non avevo fatto nulla, io non avevo colpa di<br />

niente, io gli avevo persino detto a lui, al Falco: “Lasciate<br />

perdere, compare, son cose del mondo! Questa<br />

volta non ci è riuscito, ci riuscirà un’altra volta!”<br />

Facevo finta di non capire che il grave non era quello.<br />

Che non era per quello che lui aveva il dente avvelenato.<br />

Di non capire che non era il fallimento dell’impresa<br />

che non sopportava, ma l’idea d’essere stato<br />

scoperto a rubare in un ovile nel quale era stato ricevuto<br />

da ospite e amico, a rubare da un vicino, a rubare<br />

da uno che molti consideravano un suo benefattore.<br />

Che non sopportava l’idea di essere ormai un uomo<br />

senza onore.<br />

Per me e per l’altro era diverso. Noi in quell’ovile<br />

non ci avevamo mai messo piede prima di quella sera.<br />

Non avevamo nessun obbligo di rispettarlo e, se riusciva,<br />

il colpo era buono e lecito. Per noi, non per lui<br />

però. Ma questo riguardava lui, non noi. Io avevo bisogno<br />

di soldi. Sono un uomo sposato, io, e con figli<br />

e moglie non potevo certo pensare a emigrare, come<br />

141


stanno facendo tanti per tentare la fortuna. L’affare<br />

sembrava buono e perciò acconsentii. Ma non acconsentii<br />

neppure un momento a quella follia che accadde<br />

dopo.<br />

Perché, allora, il ricordo di quel sangue mi perseguita,<br />

anche ora che so che nessuno in cambio di esso<br />

vorrà avere il mio?<br />

142<br />

L’innocente<br />

Di nuovo la luce elettrica si riaccese, e nel suo crudo<br />

e bianco sfavillare sentii che il terrore, anziché abbandonarmi,<br />

m’aggrediva da ogni angolo. In quel momento<br />

mamma tornò. Quando abbassò lo scialle nero<br />

che le avvolgeva la testa e le spalle, guardandole gli occhi<br />

accesi di trionfo e i pomelli rossi come per febbre,<br />

ebbi la ormai inevitabile risposta alle mie domande.<br />

Nonna aveva iniziato un nuovo rosario, questa<br />

volta a voce alta, e mamma le rispondeva senza smettere<br />

neppure nella preghiera quell’accento d’orgoglio<br />

trionfante che aveva in ogni sua parola e in ogni suo<br />

gesto dopo l’annunzio datoci da Oreste.<br />

Ma tacquero entrambe, e ristettero come pietrificate,<br />

quando s’udì uno scalpiccio di passi e delle voci<br />

che s’avvicinavano nel vicolo davanti a casa. La freccia<br />

dei minuti nella sveglia sul camino dava le sue sciabolate<br />

nel silenzio rappreso della cucina. Le voci e i passi<br />

s’erano arrestati dietro il portoncino del nostro cortile.<br />

S’udì un forte colpo di batacchio. Poi, senza attendere<br />

risposta, il portoncino, venne spalancato con violenza<br />

e dei passi strascicati e confusi, come d’una pic-<br />

143


cola folla, invasero il cortile. Il mio terrore s’accrebbe<br />

alla vista dell’irresolutezza di mamma che era rimasta<br />

seduta, le mani abbandonate sul grembo, con uno<br />

sguardo all’improvviso opaco e smarrito. Poi però vidi<br />

che s’alzava, quasi d’un balzo, e aggressiva si faceva<br />

sulla soglia.<br />

Poco dopo si scostava, per far passare babbo, ubriaco,<br />

sostenuto sotto le ascelle da due sconosciuti.<br />

144<br />

La lunga strada<br />

Era una notte senza luna, così nera che potevo immaginare<br />

d’essere cieco. Il buio era come un muro<br />

compatto che mi si sbatteva sugli occhi. Ma i sentieri<br />

intorno al paese io li conoscevo così bene che riuscivo<br />

a camminare in fretta, senza cadere e senza urtare da<br />

nessuna parte. O quasi. Camminavo rapidamente, ma<br />

senza correre, per non destare sospetti, nel caso che<br />

avessi incontrato qualcuno. Ma non incontrai nessuno.<br />

Tutti erano in piazza o già a casa loro, a quell’ora e<br />

dopo quello che era successo.<br />

Quello che era successo poco prima, nella piazza, mi<br />

pareva già lontanissimo e irreale. Come qualcosa che<br />

avevo sognato. O qualcosa che avevo sentito raccontare.<br />

Che mamma mi aveva raccontato.<br />

Mamma aveva previsto e preparato tutto. E tutto era<br />

andato come lei aveva previsto. La pistola e la torcia<br />

elettrica erano già pronte nel primo cassetto del comò,<br />

sotto le lenzuola. Mamma era certa che la corrente sarebbe<br />

mancata molte volte, quella sera, perché pioveva<br />

molto. Le interruzioni potevano durare pochi minuti e<br />

potevano durare tutta la sera. Si trattava di scegliere il<br />

145


momento giusto. Mamma è come una maga, si ricorda<br />

tutto e sa tutto. Non ha paura di niente e sa scoprire<br />

le verità più nascoste. Sa anche leggere i pensieri e<br />

quando si ha paura sa fare coraggio.<br />

Stavamo seduti attorno al camino. Nonna diceva la<br />

prima metà dell’Avemaria e del Padrenostro e noi dicevamo<br />

in coro la seconda metà. I Gloriapatris li dicevamo<br />

tutti insieme. Per le litanie era mamma che diceva<br />

la prima parte e noi, insieme a nonna, che rispondevamo,<br />

orapronobis. Era come tutte le sere. Babbo<br />

non era ancora tornato, ed era bene, perché così qualcuno<br />

avrebbe potuto testimoniare per lui, se per disgrazia<br />

veniva accusato di aver fatto quello che io dovevo<br />

fare. Alle feste la gente diventa più generosa e l’avrebbero<br />

riempito di vino sino a renderlo idiota. Mamma<br />

non sopporta che riceva senza ricambiare, come un<br />

mendicante, e perciò quando esce gli dà sempre un po’<br />

di denaro.<br />

In mezzo a un’Avemaria, mamma mi toccò il ginocchio<br />

e mi guardò. Capii che era quello il momento. Mi<br />

alzai e senza dare spiegazioni andai nell’altra stanza. Il<br />

cuore mi batteva così forte che ne ero quasi assordato.<br />

Mi fermai un momento, nel buio, perché le mani e le<br />

gambe mi tremavano. Poi, cercando di non far rumore,<br />

aprii il cassetto del comò. La pistola e la torcia elettrica<br />

erano dove dovevano essere. Misi la torcia nella<br />

tasca sinistra della giacca e la pistola nella tasca destra.<br />

Le sentivo dure e ingombranti contro i fianchi. Uscii,<br />

stando attento a non sbattere la porta. L’aria fredda e<br />

146<br />

la pioggia mi si scagliarono addosso. Da quel momento<br />

ricordo solo di quando arrivai sulla piazza.<br />

L’elettricità non era ancora tornata e il falò di S. Antonio<br />

si era quasi spento. Le braci velate di cenere mandavano<br />

una luminosità rossastra che rendeva ancora<br />

più fitto il buio intorno. C’erano dei gruppi d’uomini<br />

e qualche bambino. Di donne non ne vidi, dovevano<br />

essere già tornate alle loro case per dire il rosario e preparare<br />

al cena. Non so perché fui contento di vedere<br />

che non c’erano donne.<br />

Davanti alla bettola della Milese c’era un gruppo di<br />

giocatori di morra. Vicino alla porta, la Milese aveva<br />

appeso una lampada a petrolio che ai giocatori serviva<br />

per vedere le dita da contare. Mi fermai nel buio e<br />

ascoltai. Fra quelle dei giocatori di morra mi era parso<br />

di riconoscere la sua voce. Mi avvicinai e ascoltai di<br />

nuovo.<br />

Ora ero quasi certo. Sempre tenendomi fuori del cerchio<br />

di luce della lampada a petrolio, mi avvicinai ancora<br />

di qualche passo e, quando fui alla distanza giusta,<br />

accesi la lampada e illuminai i loro visi. Mi accorsi<br />

che la mano mi tremava un po’ e perciò m’avvicinai<br />

ancora di qualche passo. Quando fui certo d’averlo<br />

identificato, misi la torcia in tasca ed estrassi la pistola.<br />

Tenendola con entrambe le mani, feci fuoco.<br />

Lo vidi cadere e già mi allontanavo. Non mi sfiorò<br />

neppure il pensiero che forse era solo ferito. Camminavo<br />

in fretta, senza correre. Corre chi è colpevole. Corre<br />

chi ha paura. Le persone oneste, gli uomini di ri-<br />

147


spetto, non corrono. In quel momento la sola cosa che<br />

mi importasse era di comportarmi da uomo.<br />

Poco dopo ero di nuovo a casa. La luce non era ancora<br />

tornata. Loro stavano ancora attorno al camino.<br />

Dalle giaculatorie capii che il rosario era finito e che<br />

anche le litanie erano state recitate. Sulla porta dissi<br />

qualcosa. Non mi ricordo che cosa. Mamma capì e mi<br />

venne incontro. Mi condusse di là, nell’altra stanza.<br />

Mi tolse di tasca l’arma e la torcia e le nascose subito<br />

sotto un mattone del pavimento, dove aveva scavato<br />

un fosso. Poi mi diede il fagottino con la mia roba e<br />

il pane e il formaggio per il viaggio, e mi accompagnò<br />

sino alla porta dell’orto, senza passare in cucina.<br />

Lì mi avvolse per un momento nell’ala del suo scialle,<br />

abbracciandomi, e mi disse: “Che Dio ti benedica e ti<br />

ricompensi!” e già ero nella viottola che porta alla valle<br />

dove comincia la strada che sale al valico della Serra. La<br />

viottola è molto in pendio e coperta di sassi. Quella<br />

sera, con tanta pioggia, era come un torrente. Ma io la<br />

conosco bene e camminavo spedito. I piedi mi conducevano<br />

senza che mi fosse necessario pensare. La mia testa<br />

era come vuota, era come se non mi appartenesse.<br />

Non pensavo a niente. Ciò che era accaduto poco prima<br />

nella piazza era già lontanissimo e irreale. Quella cosa<br />

non era durata più che qualche minuto. Ora si trattava<br />

di camminare. La strada per Trezene era lunga.<br />

148<br />

PARTE TERZA<br />

Paradiso con serpente<br />

149


Numeri e foglie<br />

Dopo la morte della nonna materna, che coincise con l’acquisto<br />

della piccola tenuta in Toscana, abbandonarono l’abitudine<br />

della visita annuale nell’Isola. La madre ci tornava<br />

da sola, qualche volta, per funerali di parenti o per sbrigare<br />

faccende d’eredità e di vendite. Ci restava solo pochi<br />

giorni e di solito preferiva che né il padre né lui l’accompagnassero.<br />

L’Isola per Lorenzo s’allontanava, si spegneva. Riviveva<br />

solo, all’improvviso straziante come un’età dell’oro perduta<br />

per sempre e insostituibile, quando in qualche momento di<br />

sconforto di nuovo le strade della città gli parevano troppo<br />

grigie, e troppo grigie gli parevano le persone che rapidamente<br />

vi camminavano mormorando tra sé, gli sembrava, insensate<br />

cantilene di numeri.<br />

Tremilionisettecentomila, ottocentosessantacinque miliardi,<br />

quattrocentoottantanovemilaseicentonovantuno… Sui tram,<br />

per le strade, attorno ai tavolini di ferro e plastica dei caffè,<br />

dietro le siepi di cemento, che lungo i marciapiedi dei quartieri<br />

popolari tentavano la patetica finzione d’essere rami e<br />

foglie, i numeri erano un ronzio d’insetti che riempiva l’aria,<br />

una litania che la gente pronunziava tra sé e sé come uno<br />

151


scongiuro o, insieme ad altri, per illudersi di non essere soli.<br />

In quei momenti l’Isola, la sua natura essenziale e arcaica,<br />

la sua magnificenza e anche la sua povertà ricominciavano a<br />

vibrare dentro di lui come un grido.<br />

152<br />

L’ospite<br />

Il ragazzo arrivò da noi una mattina di sole, dopo<br />

giorni e notti di temporali che avevano lavato il cielo<br />

delle nuvole che per settimane vi si erano accumulate<br />

e combattute. Una di quelle mattine d’inverno in cui<br />

anche i vecchi muri e i consunti acciottolati dei vicoli<br />

mandano luce, e il fumo che sale dritto dai comignoli<br />

si disegna azzurro nell’aria trasparente.<br />

Ricordo che avevo spalancato la finestra della camera<br />

da letto e mi ero affacciata con un’impressione di benessere<br />

e d’allegria in cui la gioia per il ritorno del sole<br />

e del bel tempo si mescolava alla gioia per il ritorno di<br />

Lorenzo, la sera precedente. Benché le sue assenze fossero<br />

brevi, ogni suo ritorno era una festa che, ora che<br />

ci eravamo sposati, celebravamo senza remore o risparmi.<br />

Una festa e, per me, anche un sollievo, come<br />

se la mia vecchia angoscia che ogni nostra separazione<br />

fosse definitiva avesse ancora, se mai la aveva avuta,<br />

qualche ragione d’essere. Nonostante i miei tentativi<br />

di tenerlo nascosto, Lorenzo intuiva il mio sollievo e<br />

dunque la mia paura, e ci scherzava, diagnosticandomi<br />

un “acuto complesso di Penelope”, tanto più grave e<br />

153


patologico quanto più era immotivato. Le sue affinità<br />

con l’astuto avventuriero omerico e le mie con Penelope,<br />

diceva, erano infatti non particolarmente appariscenti.<br />

Quell’allegria e quei presagi di primavera vibravano<br />

ancora dentro di me quando aprii la porta dell’ambulatorio<br />

per far entrare la piccola folla che già attendeva<br />

nel viottolo.<br />

Sin dall’inizio della mia professione avevo cercato di<br />

dare ai miei pazienti l’abitudine al rispetto dei turni.<br />

Un’abitudine nuova, nei nostri paesi, ma che per la<br />

verità non mi pare abbia incontrato molte resistenze.<br />

La sola persona che si dimostrò nelle parole e nei<br />

fatti ribelle a questa “novità”, fu mia madre.<br />

“I parenti son parenti e gli amici sono amici, e i parenti<br />

degli amici e gli amici dei parenti sono a loro<br />

volta amici e parenti - mi ripeteva - ed è assurdo e contro<br />

natura pretendere che le regole siano uguali per<br />

tutti. Anche per tuo padre è sempre stato così, e nessuno<br />

ha mai detto di lui che non fosse un uomo giusto<br />

e saggio!”<br />

Lei continuava a credere nella bontà delle vecchie<br />

tradizioni e nella necessità di difenderle, se non vogliamo,<br />

come diceva, “cancellarci totalmente dalla faccia<br />

della terra”. E io continuavo a dire che ogni organismo<br />

vivente deve evolversi e trasformarsi e che anche<br />

piccole cose, come per esempio il rispetto della<br />

precedenza in una sala d’attesa, possono migliorare la<br />

qualità della vita e dei rapporti tra gli uomini.<br />

154<br />

Ma era un braccio di ferro che continuava e del quale<br />

non speravo e in fondo neanche tentavo di venire a<br />

capo.<br />

I problemi sarebbero stati minori, se non altro per<br />

quanto riguardava il mio lavoro e il modo in cui volevo<br />

organizzarmelo, se, anziché continuare a usare il<br />

vecchio ambulatorio di babbo e continuare ad abitare<br />

con mamma, dopo le mie nozze avessi preso la decisione,<br />

in quel momento forse più accettabile per lei, di<br />

trasferirmi con Lorenzo in una casa nuova, e possibilmente<br />

in un altro quartiere. Ma il mio desiderio di<br />

riforme e d’indipendenza non fu neppure in quel momento<br />

abbastanza forte da darmi il coraggio d’infliggerle<br />

un tale colpo.<br />

Quando babbo all’improvviso morì, io frequentavo a<br />

Milano il primo anno d’università. Da quel momento<br />

lei non smise di sognare il giorno in cui, terminati gli<br />

studi, fossi tornata per prendere il posto di babbo nella<br />

professione. Per dare concretezza al suo sogno, aveva<br />

continuato a pagare gli abbonamenti alle riviste mediche,<br />

a far pulizia nell’ambulatorio, a tenere asciutti<br />

e in ordine i suoi strumenti, come quando era in vita,<br />

e come se ogni mese o settimana o giorno il mio ritorno,<br />

in sostituzione del suo, e la mia laurea fossero<br />

imminenti.<br />

Tutto questo mi pesava. Lo sentivo come un’esasperante<br />

limitazione della mia libertà, come un’ipoteca<br />

sul mio avvenire, sulle mie scelte. Ma il pensiero di separare<br />

la mia vita dalla sua, mi era impossibile, per la<br />

155


delusione atroce che le avrei dato. E perciò ero costretta<br />

a sopportare le sue intromissioni, a litigare, e<br />

anche ad avere pazienza, per il bene che le volevo, e<br />

che mi voleva.<br />

Lorenzo per fortuna non aveva difficoltà a capire e<br />

quasi mi pareva che certe volte stesse più dalla sua<br />

parte che dalla mia.<br />

Stavo finendo di visitare il mio terzo paziente della<br />

giornata, quando mamma bussò alla porta interna dell’ambulatorio<br />

e, senza neppure darmi il tempo di dire<br />

avanti, la socchiuse, s’affacciò e, in un tono che non<br />

ammetteva repliche, disse che aveva urgenza di parlarmi.<br />

Capii che aveva qualche parente o amico di famiglia<br />

che voleva essere visitato ma che “non aveva tempo di<br />

far la fila”. Solo la presenza d’estranei m’impedì di risponderle<br />

con insolenza, come avevo voglia di fare, che<br />

c’era un turno da rispettare.<br />

D’altronde sapevo che quando voleva qualcosa non<br />

demordeva, e il suo tono era stato proprio quello dei<br />

momenti in cui non ammetteva repliche. Perciò, congedato<br />

il paziente, prima di farne entrare un altro m’affrettai<br />

a chiederle che cosa voleva.<br />

Stava ancora nell’andito, dietro la porta, in piedi accanto<br />

a un ragazzino smilzo, quasi un bambino, infagottato<br />

in un maglione troppo grande per lui e che<br />

subito riconobbi come uno dei vecchi indumenti di<br />

babbo. Mamma teneva il ragazzo per la spalla e, senza<br />

156<br />

neppure domandarmi il permesso, lo spinse nell’ambulatorio<br />

e quasi lo fece crollare sulla sedia di smalto<br />

bianco riservata ai pazienti.<br />

– È Oreste, – disse. – Il figlio di comare Solinas di<br />

Dolomè. Ricordi, l’anno scorso hanno perduto un figlio,<br />

Giosuè, il fratellino gemello di Oreste. Oreste ha<br />

fatto a piedi tutta la strada. Era bagnato come un pulcino,<br />

l’ho fatto cambiare, ma mi pare che abbia la febbre.<br />

Visitalo!<br />

Il ragazzo teneva la testa abbassata, col mento quasi<br />

appoggiato sul petto. Sotto il ciuffo biondiccio e stopposo<br />

che gli cadeva sulla fronte, vedevo spuntare solo<br />

la punta arrossata del suo naso. Mi accorsi che tremava<br />

e gli presi il polso, cercando di comportarmi in modo<br />

freddamente professionale e senza lasciarmi coinvolgere<br />

da una tenerezza che quell’esserino dalle scapole<br />

alate stava già suscitando in me.<br />

Il polso era irregolare e rapidissimo. <strong>Gli</strong> toccai la<br />

fronte e mi accorsi che scottava.<br />

– Hai male da qualche parte? – gli domandai, tanto<br />

per cominciare.<br />

Sollevò le spalle, con un gesto di rassegnazione che<br />

mi irritò.<br />

– C’è un mare di gente che aspetta, lì fuori. Dimmi<br />

che cosa ti senti, e non farmi perdere tempo.<br />

Sentivo su di me lo sguardo disapprovante di mamma,<br />

ma non mi costrinsi a moderare la mia rudezza:<br />

– Apri la bocca, fammi vedere la gola, dì “aaa”.<br />

La gola era molto infiammata, ma anche il respiro era<br />

157


irregolare. Lo auscultai e non ebbi dubbi. Una bronchite,<br />

una faringite e una rinite probabilmente cronica<br />

e in quel momento acuta, erano motivi più che sufficienti<br />

a giustificare la febbre. Ma quando il ragazzo<br />

s’alzò, m’accorsi che barcollava e gli chiesi di togliersi<br />

le scarpe e di mostrarmi i piedi.<br />

Ubbidì malvolentieri, mormorando delle frasi incomprensibili<br />

delle quali capii solo che “aveva camminato<br />

tanto”, “che forse non erano puliti”, che si vergognava<br />

di mostrarli.<br />

– La strada è lunga a farla a piedi, povero disgraziato…<br />

e con quel tempaccio! – Disse mia madre,<br />

come se parlasse d’un assente o d’un oggetto inanimato.<br />

Poi, rivolgendosi direttamente a lui, con la<br />

malagrazia che anche lei sfoderava quando temeva di<br />

commuoversi, continuò:<br />

– Non far perdere tempo alla dottoressa. Togliti le<br />

scarpe e ubbidisci!<br />

Il ragazzo sembrava abituato a ubbidire e s’affrettò<br />

quanto poteva con le dita tremanti attorno alle stringhe<br />

degli scarponi da campagna.<br />

La pianta dei suoi piedi e le dita erano tutta una piaga<br />

sanguinante che, per il momento, ripulii con dell’acqua<br />

ossigenata e avvolsi in pezze di garza.<br />

– Dammi una mano! – Ordinai a mia madre, e insieme<br />

lo trasportammo sino al letto nella cameretta<br />

degli ospiti. Ma non pesava molto. Era quasi un bambino.<br />

<strong>Gli</strong> diedi dei medicinali e chiesi a mia madre di<br />

fargli, o fargli fare da Euriclea, un pediluvio d’acqua<br />

158<br />

tiepida saponata. Dopo la chiusura dell’ambulatorio,<br />

sarei tornata a vederlo. Per ora non doveva muoversi.<br />

Mia madre mi seguì nell’andito e disse:<br />

– Comare Solinas mi chiede di tenerlo qui. A Dolomè<br />

per ora non deve tornare. Quando sarà guarito,<br />

Lorenzo potrà prenderlo a lavorare con sé. I Solinas sono<br />

intelligenti e onesti… e disgraziati. Bisogna aiutarli!<br />

Senza darmi tempo di rispondere, s’avviò a passi rapidi<br />

verso la cucina. Illa dixit, pensai fremendo di ribellione.<br />

Era lei che decideva che cosa si doveva fare o<br />

non fare. E ora anche Lorenzo doveva mettersi a suoi<br />

ordini. Lorenzo che sino a non molti mesi prima era<br />

un estraneo, e che per di più non era neanche del tutto<br />

isolano, doveva inchinarsi alla sua autorità di matriarca,<br />

prendere quel miserabile bambino al suo servizio,<br />

che ne avesse o non ne avesse bisogno, perché<br />

mia madre aveva decretato che “i Solinas sono disgraziati<br />

e perciò bisogna aiutarli”!<br />

Il mio buonumore di appena un’ora prima stava sparendo<br />

come se una nebbia avesse cominciato a velare la<br />

lucentezza del sole, e il mio malumore incipiente cresceva<br />

con la certezza che anche questa volta mamma<br />

l’avrebbe avuta vinta e che, ciò che era quasi peggio,<br />

almeno in parte aveva ragione.<br />

159


L’abbraccio del falco<br />

Fu solo dopo che la dottoressa mi ordinò di togliermi<br />

le scarpe che mi accorsi che i piedi mi erano marciti<br />

e che sentii il dolore. Anche i dolori al petto e alla<br />

gola sino a quel momento non li avevo quasi sentiti.<br />

Del mal di gola mi ero accorto, senza però farci molto<br />

caso, quando la donna di servizio aveva aperto la porta<br />

e le avevo detto chi ero e che dovevo parlare con la vedova<br />

del dottor Rudas. Le parole mi graffiavano la gola<br />

e la mia voce era strana. Non avevo parlato dalla sera<br />

prima, quando ero tornato a casa dopo il fatto.<br />

– La porta dell’ambulatorio è l’altra. – Mi rispose,<br />

come se non avesse capito che cosa avevo detto.<br />

– Ma io non sono malato, io devo parlare con la vedova<br />

del dottor Rudas! – insistetti.<br />

– Sì, sì bravo tu. Non sei il primo a dirlo. Ma meglio<br />

che ti metta in fila e attenda il tuo turno, senza<br />

farmi perdere altro tempo. – Non capivo che cosa voleva<br />

dire e ora mi sentivo come un incendio nel petto,<br />

e la testa cominciò a girarmi. Ero in un vortice che mi<br />

tirava giù, e il cuore mi batteva sino a soffocarmi.<br />

Mi ritrovai sdraiato su una panca, in una bella cu-<br />

161


cina illuminata da una grande finestra dietro la quale<br />

si vedevano degli alberi. In piedi vicino a me c’era la<br />

donna di poco prima e una bella signora anziana, alta<br />

e robusta e con una grande faccia rotonda di cui da<br />

dove mi trovavo vedevo il doppio mento dove spuntavano<br />

dei peluzzi dorati.<br />

Mi guardava senza dirmi niente e mi affrettai ad alzarmi<br />

e a spiegarle chi ero, prima che mi scacciasse.<br />

Non le dissi perché venivo. La donna di servizio era<br />

ancora presente e mamma mi aveva raccomandato di<br />

raccontare il fatto solo alla vedova Rudas, che però non<br />

sembrava essere impaziente di sapere perché ero venuto.<br />

I suoi occhi erano gentili, e di lei non ebbi mai<br />

paura.<br />

La dottoressa invece, quando ci fece entrare, era molto<br />

arrabbiata, anche con la mamma, e mi dispiaceva<br />

che fosse arrabbiata per colpa mia e che perdesse tempo<br />

a visitarmi e a guardare i miei piedi, che oltretutto<br />

non erano neppure puliti. Ma qualunque cosa cercassi<br />

di fare o di dire, sembrava arrabbiarsi ancora di più.<br />

Non mi ricordo d’essermi addormentato e non mi<br />

ricordo neppure chi mi mise a letto. Ma mi svegliai in<br />

mezzo a delle lenzuola pulite, in una cameretta dove<br />

c’era un profumo che dopo un poco riconobbi. Profumo<br />

di mele cotogne. <strong>Gli</strong> scuri della finestra erano accostati<br />

e quasi non ci si vedeva. Ma quando li aprirono<br />

vidi delle file di mele cotogne gialle sulle cornici della<br />

porta e sopra l’armadio.<br />

C’era Euriclea, la donna di servizio, che mi stava<br />

162<br />

mettendo degli impacchi intorno ai piedi e sentivo<br />

dolori in tutto il corpo. Ma Euriclea era diventata gentile<br />

e quando mi disse: “Povero bambino!” mi parve<br />

che stesse parlando di un altro, o di me ma molto tempo<br />

prima, quando ancora ero bambino. E stringevo gli<br />

occhi perché non vedesse che mi era venuto da piangere.<br />

Poi lei se ne andava e mi pareva di camminare ancora,<br />

inciampando e urtando contro le rocce e gli alberi.<br />

E mamma mi spingeva per le spalle e diceva: “Cammina<br />

e non lamentarti come una donnicciola. Pensa a<br />

tuo fratello innocente e scannato come una bestia, che<br />

non trova pace nella sua tomba, pensa all’onore della<br />

tua famiglia. Tocca a te difenderlo. E se no, a chi altri?”<br />

A un tratto mi sentivo molto bene ed ero arrivato al<br />

valico. Il sole stava spuntando dietro i monti e vedevo<br />

che in mezzo all’erba crescevano dei grandi fiori rossi<br />

e carnosi che parevano delle mani scorticate o delle orecchie<br />

insanguinate. C’era anche una donna che raccoglieva<br />

degli asfodeli e che cercava di nascondersi dietro<br />

una roccia. Mamma però la tirava fuori dal suo nascondiglio<br />

e la scuoteva per le spalle, gridando: “Anche<br />

tu hai un figlio! Anche tu hai un figlio! Se non stai<br />

attenta Astianatte farà la stessa fine di Giosuè! Ricordati<br />

che ti ho avvertita! Pensa a tuo figlio, come io<br />

penso al mio!” E mamma faceva paura perché sembrava<br />

impazzita.<br />

Poi di nuovo c’era buio e io ero in mezzo alla piazza.<br />

163


Ma al momento di sparare m’accorgevo che quella che<br />

aveva in mano era una pistola di gomma, da bambino.<br />

Un giocattolo che quando premevo il grilletto mi si<br />

sgonfiava tra le dita e diventava come uno straccetto<br />

sformato e meschino. E allora vedevo che ero scalzo e<br />

che tutti mi guardavano i piedi e ridevano, indicandoseli<br />

l’un l’altro e tenendosi la pancia per le risate. Io<br />

mi vergognavo terribilmente ma pensavo che era meglio<br />

far finta che non m’importasse e mi mettevo a fare<br />

il pagliaccio per farli ridere anche di più. Ma allora arrivava<br />

nonna, nera e veloce come un falco, con lo<br />

scialle aperto e svolazzante come due ali e mi portava<br />

via, volando, e gridando:<br />

“L’agnello! Lasciatelo stare, l’agnello! Non vi basta<br />

quello che avete fatto all’altro?” E io mi sentivo sicuro,<br />

perché nonna mi difendeva e dimostrava di volermi<br />

bene. Sotto le ali del suo scialle non avevo nulla da temere.<br />

Poi però mi svegliavo, e ripensavo a com’era andata<br />

quella sera. Tutto era stato punto per punto come mamma<br />

aveva previsto, e ricordavo quella grande luce e il<br />

nemico che cadeva. Ma non mi pareva possibile che<br />

davvero fossi stato io a farlo, e subito mi venivano in<br />

mente altre cose, meno importanti, e spesso mi riaddormentavo.<br />

Quando di nuovo mi svegliavo, dopo tanti sogni confusi<br />

che si svolgevano in un paese che era Dolomè e<br />

però non era del tutto Dolomè e dove c’era sempre buio<br />

e tanta gente che andava e veniva bisbigliando delle<br />

164<br />

cose che non capivo, mi era difficile ricordare perché<br />

ero lì coricato, in quella bella camera profumata di mele<br />

cotogne, e allora pensavo alla mia casa, al cortile, all’orto,<br />

e alla cucina con Daniela e Cassandra e nonna e,<br />

qualche volta, pensavo anche a Giosuè e a babbo.<br />

Mamma aveva già pronto il fagotto con un cambio<br />

di vestiti e del pane e formaggio per il viaggio. Me lo<br />

metteva in mano e m’accompagnava al portoncino<br />

dell’orto, quello che dà direttamente sulla campagna.<br />

Lì mi abbracciava. Sentivo il suo odore, e per un momento<br />

mi sembrava che il suo scialle nero si trasformasse<br />

in due grandi ali d’uccello. “Il falco!” pensavo.<br />

Ma non era a quella persona che pensavo, pensavo proprio<br />

all’uccello, al falco. Mamma mi abbracciava e io,<br />

stupido, anziché pensare a lei che mi stava abbracciando,<br />

mi distraevo a pensare ad altro.<br />

Chissà da quando, certo da quando ero piccolissimo,<br />

perché non me ne ricordavo neppure, mamma non mi<br />

aveva abbracciato. Forse l’ultima volta era stato prima<br />

che Daniela nascesse, quando mamma era stata molto<br />

malata e poi, dopo la nascita della bambina, non aveva<br />

più avuto tempo per quelle cose. Avevo dimenticato il<br />

calore e la forza del suo corpo. E altri corpi non ne conoscevo.<br />

A parte quello di Giosuè. Ma anche il corpo<br />

di Giosuè non riuscivo più a ricordarmelo, per quanto<br />

mi sforzassi. Riuscivo a pensarlo, ma non a ricordarlo.<br />

Come se mi stessi raccontando una storia. Una storia<br />

vera, ma una storia.<br />

Con Giosuè la notte, in campagna, quando avevamo<br />

165


paura, ci tenevamo abbracciati. Poi di giorno facevamo<br />

finta di niente, come se non avessimo avuto paura e<br />

non ci fossimo abbracciati. Perché avevamo vergogna<br />

d’aver avuto paura e di esserci tenuti abbracciati come<br />

due bambini. <strong>Gli</strong> uomini non hanno paura, e noi volevamo<br />

essere uomini.<br />

Paura di che cosa poi? Dei rumori del vento nei cespugli,<br />

delle erbe che si muovevano per il passaggio di<br />

un topo o di una volpe, di qualche uccello che si scuoteva<br />

nel sonno… Mamma ci aveva detto che non c’era<br />

nulla da temere, che nessuno era interessato a rubare i<br />

nostri maiali, che la nostra famiglia non aveva mai<br />

fatto male a nessuno e che perciò nessuno voleva farci<br />

del male. Così aveva detto mamma. E non era colpa<br />

sua se si sbagliava, lei credeva così.<br />

Ma noi la notte, quando ci tenevamo abbracciati, non<br />

era degli uomini che avevamo paura, avevamo paura di<br />

quelle cose che quasi non hanno nome, o che sono innominabili.<br />

Avevamo paura della luna e dei fantasmi<br />

che si vestivano dei lenzuoli bianchi della sua luce,<br />

avevamo paura del vento e dei morti che si muovevano<br />

e gridavano dentro il vento, avevamo paura del buio e<br />

dei diavoli che come serpenti e scorpioni si nascondono<br />

nel buio e di altre cose ancora avevamo paura, cose<br />

peggiori, se possibile…<br />

Di giorno con Giosuè di queste cose ce ne ridevamo,<br />

ma la notte avevamo paura anche a nominarle e perciò<br />

ci tenevamo abbracciati, perché questo ci dava coraggio.<br />

166<br />

Ma Giosuè, e il suo corpo e le cose che ci dicevamo,<br />

e i giochi che avevamo fatto insieme, erano diventati<br />

come un sogno che io avevo sognato da solo. Una cosa<br />

che mi ero inventato e che più ci pensavo più mi sembrava<br />

pallida e lontana.<br />

“Che Dio ti benedica e ti ricompensi”, aveva detto<br />

mamma. “Prendi per le viottole e le scorciatoie e cerca<br />

di non farti vedere da nessuno. Ma una volta arrivato<br />

alla zona della Serra, dopo il valico, sarà verso l’alba,<br />

sarebbe addirittura meglio che qualcuno ti veda. Allora,<br />

se incontri qualcuno, fa finta di esserti appena<br />

svegliato da un lungo sonno e che stai per rimetterti<br />

in marcia verso Trezene. Dobbiamo far credere che sei<br />

partito stamattina. Devi perciò camminare molto in<br />

fretta, correre anche, se puoi, almeno nelle discese e<br />

quando sei sicuro che nessuno ti vede, per non attirare<br />

l’attenzione”.<br />

Mamma sapeva tutto e aveva pensato a tutto:<br />

“Quando arrivi a Trezene vai subito dalla dottoressa<br />

Rudas. A casa sua ci sei stato insieme a me quando eri<br />

piccolo e quando la buon’anima del dottor Rudas, suo<br />

padre, che Dio l’abbia accolto nella gloria del suo<br />

cielo, era ancora vivo. Ma non te ne puoi ricordare. Tu<br />

e Giosuè eravate ancora piccoli. Daniela non era ancora<br />

nata.<br />

“La casa del dottor Rudas è una casa grande, circondata<br />

su tre lati da un giardino bellissimo in cima alla<br />

valle di Isperósile, all’ingresso della città se si viene da<br />

Oroslè, cioè dalla parte opposta a quella da dove tu ar-<br />

167


iverai. Tu entrerai in città dalla parte di Udulì, dove<br />

stanno costruendo il nuovo ospedale. Lo vedrai da lontano<br />

e non c’è da sbagliare: altissimo e dritto sulla cresta<br />

della collina. I Trezenesi che hanno la lingua lunga,<br />

lo chiamano ‘la scatola da scarpe’. Lo riconoscerai da<br />

lontano. Dietro quella collina con l’ospedale in cima,<br />

c’è Trezene. Tu sorpassi l’ospedale e scendi verso la<br />

parte vecchia della città. Non puoi sbagliare”.<br />

Quando mamma me la descriveva, mi pareva di vederla<br />

e di conoscerla già, la città:<br />

“La Trezene vecchia è divisa in due metà, come le<br />

due metà di una pesca. In mezzo alle due metà, come<br />

il letto asciutto di un torrente, c’è il Corso. Il Corso comincia,<br />

o termina, quasi in un fosso dove s’incontrano<br />

delle strade larghe con delle case nuove, alcune neppure<br />

terminate. È un posto che i Trezenesi chiamano<br />

‘Ponte di Ferro’, ma non aspettarti di vedere un ponte.<br />

È difficile capire i Trezenesi e gli strani nomi che<br />

danno alle loro strade. Lì, al Ponte di Ferro, non troverai<br />

un ponte ma solo delle strade larghe e in discesa<br />

che s’incrociano. Ma, fra queste, il Corso lo riconoscerai<br />

facilmente perché è lastricato di granito ed è circondato<br />

di case alte e antiche, con molti negozi e caffè<br />

al piano terreno. Tu sali per tutto il Corso senza fermarti<br />

e senza domandare niente a nessuno, perché la<br />

maggior parte di quelli che s’incontrano al Corso sono<br />

o sfaccendati, dei quali non c’è da fidarsi, o forestieri<br />

che forse non saprebbero neppure risponderti. Ma in<br />

ogni caso non c’è niente da domandare. La dottoressa<br />

168<br />

Rudas abita in una piazzetta, vicino a un vicolo, poco<br />

dopo la fine del Corso. Nella parte alta. Lì, se hai difficoltà<br />

a trovare la casa, puoi domandare. Lì tutti la conoscono,<br />

la dottoressa Rudas, come conoscevano suo<br />

padre. E la gente lì è abituata a rispondere ai bisognosi<br />

che arrivano dai paesi per consultarla. Perché è molto<br />

brava. Quasi quanto suo padre, che faceva miracoli<br />

come un santo. Ma se devi chiedere informazioni ricordati<br />

di non rivolgerti a ragazzi della tua età e neanche<br />

a uomini giovani. Preferisci le donne o i vecchi. Le<br />

donne di Trezene sono pietose, gli uomini invece si divertono<br />

a farsi beffe dei deboli”.<br />

Mamma sapeva tutto, e mi aveva spiegato tutto in<br />

un modo che mi pareva di vedere le strade e le persone<br />

che descriveva.<br />

“Quando sarai davanti alla casa, vedrai che ci sono<br />

due ingressi. Uno sul vicolo, ed è quello dell’ambulatorio.<br />

L’altro sulla piazzetta, ed è lì che devi presentarti<br />

e chiedere di parlare con la mamma della dottoressa<br />

Rudas. Le dirai chi sei e le dirai che sono io che<br />

ti mando. A lei puoi raccontare che cosa è successo.<br />

Ma solo a lei. Altrimenti, ricordati, non devi mai parlarne<br />

con nessuno. Assolutamente con nessuno”.<br />

Io avevo cominciato a protestare, che naturalmente<br />

non ne parlavo, e che non ero uno stupido… Però mamma<br />

aveva tagliato corto, e aveva continuato:<br />

“Se lungo la strada o a Trezene, qualcuno ti domanda<br />

da dove vieni, devi dire che vieni da Osuna e<br />

che sei arrivato a piedi, perché non avevi i soldi per la<br />

169


corriera. Che sei partito all’alba e che hai passato la notte<br />

in un ovile. L’ovile dei Carrus, se ti è necessario precisare.<br />

Sì, proprio così, hai sentito bene, dei Carrus.<br />

Non temere, ci penserò io a convincerli a dire che eri<br />

lì, e a trovare altri testimoni, se sarà necessario. E non<br />

temere. Non temere niente. Dio vuole la giustizia e<br />

perciò Dio ci aiuterà”.<br />

Tutte queste cose mamma me le aveva dette prima,<br />

perché dopo era meglio non perdere tempo e tutto doveva<br />

essere pronto. Me le spiegava la mattina, mentre<br />

nonna e Cassandra erano in chiesa e Daniela era a<br />

scuola. Ne parlavamo tutti i giorni, seduti davanti al<br />

camino, e aspettavamo il momento buono. A lei non lo<br />

dicevo, ma io non ero sicuro che ci sarei riuscito. Mamma<br />

però anche a questo aveva pensato… Aveva pensato<br />

che poteva capitare che non colpivo giusto, o che all’ultimo<br />

momento mi mancava il coraggio, o che mi<br />

prendevano con l’arma… Ma mi aveva detto di non temere,<br />

se eravamo così disgraziati e le cose non andavano<br />

come era giusto che andassero, e mi prendevano,<br />

allora avrei dovuto dire che l’idea era stata mia, che la<br />

pistola l’avevo trovata in un nascondiglio di campagna,<br />

che io volevo vendicare il mio fratellino gemello… E<br />

siccome ho solo tredici anni neppure compiuti, al massimo<br />

mi avrebbero mandato in casa di correzione. Mamma<br />

mi aveva detto che un signore importante di cui<br />

babbo, durante la guerra, era stato attendente non avrebbe<br />

rifiutato di aiutarmi. E se mi aiutava lui, non c’era<br />

dubbio che mi avrebbero assolto.<br />

170<br />

I sogni e i ricordi, il sonno e la veglia si mescolavano<br />

e mi era difficile distinguere tra le cose che immaginavo<br />

e ricordavo e quelle che davvero stavano capitando<br />

intorno a me. Così, tra un sogno e l’altro, deve essere<br />

passato molto tempo, non so quanto. La signora<br />

Rudas ed Euriclea mi portavano da bere e da mangiare,<br />

mi lavavano e mi aiutavano quando dovevo andare<br />

alla toeletta. La dottoressa veniva ogni tanto e mi faceva<br />

delle iniezioni. Ormai non sembrava più tanto arrabbiata.<br />

Un giorno venne anche il dottor Lorenzo. Era giovane<br />

e bello e mi parve molto gentile. Credo che fosse<br />

l’uomo più bello e più gentile che io abbia mia visto.<br />

Era anche il primo uomo che mi parlava da moltissimo<br />

tempo.<br />

171


Idillio<br />

L’idea di pubblicare gli appunti di babbo, in maniera<br />

molto modesta, in una qualunque tipografia qui<br />

in città, mi era venuta in principio come un’opportunità<br />

di rendere omaggio alla sua memoria, con un’opera<br />

nella quale i suoi molti amici avrebbero potuto<br />

ritrovare una parte di lui. Un’opera semplice, e forse<br />

solo per persone semplici, come erano stati la maggior<br />

parte dei suoi amici.<br />

Come titolo avevo pensato Indice ragionato delle<br />

Piante Medicinali comuni e tradizionalmente usate nella<br />

provincia di Trezene, raccolte e classificate dal dott. Pietro<br />

Ottavio Rudas. E il volume, o fascicolo, non doveva essere<br />

che una stampa, con qualche illustrazione fotografica<br />

o qualche disegno, delle informazioni che babbo<br />

nel corso di decenni aveva raccolto su quest’argomento<br />

che l’aveva appassionato e che io avevo creduto<br />

fosse la parte più importante del materiale che aveva<br />

lasciato.<br />

Mano mano però che andavo avanti nella lettura,<br />

m’accorgevo che le “erbe medicinali” e particolarmente<br />

l’uso che tradizionalmente se ne è fatto nella nostra<br />

173


zona, non erano che un dettaglio del quadro antroposociologico<br />

che nel corso degli anni, osservazione su osservazione,<br />

linea su linea, babbo aveva tracciato della<br />

regione nella quale aveva operato.<br />

Sapevo che aveva sempre tenuto un ordine puntiglioso<br />

nelle sue cartelle cliniche, dedicando ad esse<br />

molte ore che, nonostante le proteste di mamma, rubava<br />

al riposo. Ma non avevo immaginato che quelle<br />

carte fossero non solo uno strumento per il suo lavoro<br />

quotidiano, ma anche il prezioso materiale d’una ricerca<br />

che, quando la morte disgraziatamente l’aveva<br />

interrotta, stava già dando risultati affascinanti.<br />

Le osservazioni e i dati, che in silenzio e con tutta discrezione<br />

babbo aveva raccolto, potevano gettare luce<br />

su certi fattori ereditari e sullo stretto rapporto tra<br />

l’ambiente fisico e socio-culturale e il quadro generale<br />

della salute, la morbilità e la mortalità, particolarmente<br />

infantile, nella nostra provincia. Ma fra le sue<br />

note, quelle che avevano subito attirato la mia attenzione,<br />

con un misto di malessere e di curiosità, erano<br />

quelle riguardanti le guarigioni dal punto di vista medico<br />

incomprensibili - ma da lui personalmente constatate<br />

- e che la vox populi definiva “miracolose”.<br />

Babbo era per costituzione e convinzione un razionalista,<br />

come io lo sono. Quelle “guarigioni ancora inspiegabili”,<br />

descritte con una ricchezza e precisione di<br />

particolari clinici che, più di qualunque commento,<br />

testimoniavano del suo bisogno di un’interpretazione<br />

scientificamente ammissibile, mi avevano rimesso di<br />

174<br />

fronte a tutta una problematica che avevo sempre visceralmente<br />

rifiutato di prendere in considerazione, e<br />

sulla quale avevo preferito chiudere gli occhi.<br />

Le ipotesi psicosomatiche, la cui validità entro certi<br />

limiti ero stata costretta ad accettare, le tesi freudiane<br />

di sintomatologie d’origine psichica che babbo ben<br />

conosceva e riteneva accertate, non erano sufficienti<br />

per dare quella spiegazione che lui aveva cercato e che<br />

io adesso mi sentivo costretta a continuare a cercare.<br />

Come uno stato d’animo, un rimorso, una convinzione,<br />

una paura, una disperazione, una fede, una forte<br />

speranza possono agire sulle nostre cellule interferendo<br />

nella loro chimica?<br />

Dove, in quale neurone, o complesso di neuroni, iniziava<br />

quel processo psico-chimico-biologico che trasformava<br />

delle cellule malate in cellule sane e viceversa?<br />

Dopo la descrizione del caso della guarigione clinicamente<br />

inspiegabile di un giovane affetto da una forma<br />

gravissima e ben documentata di tubercolosi ossea,<br />

babbo ricordava Spinoza, la cui Etica era uno dei pochi<br />

libri non di medicina che tenesse nel suo studio, e scriveva:<br />

“Spinoza ci parla delle due modalità ‘Pensiero’ ed<br />

‘Estensione’ (cioè per dirla con parole d’oggi: Mente e<br />

Corpo) nelle quali l’individuo esiste come un’unità inscindibile.<br />

Se accettiamo l’individuo come unità inscindibile<br />

che esiste e si manifesta nelle sue due modalità,<br />

mente e corpo, e teniamo nella dovuta conside-<br />

175


azione l’interdipendenza e continua circolazione di<br />

cause-effetti che deve esserci tra di esse, forse abbiamo<br />

fatto il primo passo verso la comprensione e la spiegazione<br />

razionale di questi fenomeni che ci turbano, e<br />

dunque anche verso nuove possibilità terapeutiche.<br />

“Ciò che rasenta l’assurdo è che, per una pretesa fedeltà<br />

al razionalismo (che da metodo abbiamo trasformato<br />

in ‘fede’!), e forse soprattutto per chiudere gli occhi<br />

sui nostri antichi, ereditari terrori, rifiutiamo così<br />

energicamente il concetto di anima come entità metafisica<br />

che in pratica finiamo anche per rifiutare l’importanza<br />

della ‘modalità’ mente (e cioè proprio dello<br />

strumento sine qua non della ragione e della razionalità!)<br />

nel funzionamento complessivo, e quindi anche<br />

fisiologico dell’individuo nella sua unità inscindibile.<br />

“È così facendo, trascuriamo nella nostra terapia di<br />

prendere nella dovuta considerazione i possibili effetti<br />

dell’attività delle cellule nervose sul funzionamento e<br />

quindi sulla salute o la malattia delle altre cellule del<br />

corpo”.<br />

In uno dei suoi appunti babbo scriveva:<br />

“Molte leggi e possibilità del mondo fisico, nonché<br />

delle interferenze tra questo e quello più propriamente<br />

psichico, ci sono ancora sconosciute, ma ciò non significa<br />

che forse, anche in un futuro vicinissimo, non ci<br />

saranno note e spiegate. Spiegate, secondo i metodi e<br />

i canoni scientifici, e non più proposte come materia<br />

di fede o superstizione”.<br />

E continuava:<br />

176<br />

“Dobbiamo sempre tenere presente che la nostra<br />

ignoranza è superiore alla nostra sapienza, e che le zone<br />

che ci sono buie e ignote sono enormemente più<br />

estese di quelle che ci sono note e illuminate”.<br />

Le sue parole mi colpivano direttamente, ed erano<br />

come una sfida alla mia quasi fanatica speranza di un<br />

mondo già tutto, o quasi, decifrato alla luce di quella<br />

che allora per me era ancora l’unica razionalità possibile.<br />

Mi colpivano in un modo dal quale sapevo che<br />

non avrei trovato scampo, se non facendo passare attraverso<br />

il vaglio del dubbio anche le mie avversioni e<br />

le mie speranze. Era questa l’eredità che babbo mi aveva<br />

lasciato.<br />

Raccoglierla non fu facile. Per me fu come una strana,<br />

sconvolgente e talvolta dolorosa gravidanza, iniziata,<br />

come la maggior parte delle gravidanze iniziano,<br />

nella quasi totale incoscienza. Ma se riuscii a portarla<br />

a termine con un parto e non con un aborto, se questo<br />

che in principio avevo temuto potesse diventare un cedimento<br />

all’irrazionale divenne per me una conquista<br />

di maggiori spazi e di maggiore libertà nell’ambito del<br />

razionale, lo devo, come tante altre cose, a Lorenzo.<br />

Parlavo con lui come se pensassi a voce alta, e mentre<br />

parlavo, per il solo fatto che lui mi ascoltava, i<br />

pensieri si precisavano e i dubbi, meglio definiti, diventavano<br />

razionalizzabili e forse eliminabili. La sua<br />

attenzione critica mi aiutava a uscire da certe strade<br />

senza sbocco nelle quali mi capitava d’entrare. Ma la<br />

sua mancanza di pregiudizi, spesso su fenomeni che io<br />

177


sbrigativamente ancora definivo superstizione, qualche<br />

volta mi sorprendeva sino allo scandalo.<br />

Ancora però non avevo capito lo spessore del muro<br />

che avrebbe potuto dividerci. E ancora meno avevo capito<br />

da quale parte e perché questo muro avrebbe potuto<br />

sorgere. Forse non lo capivo perché quasi sempre,<br />

o sempre, le nostre discussioni e conversazioni, i nostri<br />

incontri e scontri intellettuali, si concludevano quasi<br />

bruscamente in quegli incontri e scontri insaziabili<br />

dei nostri corpi, dove il suo mi si rivelava come una<br />

parte per me prima sconosciuta del mio stesso corpo.<br />

La parte migliore, più viva, più amata e amabile e però,<br />

anche nei momenti della fusione più estatica, non<br />

del tutto raggiunta e raggiungibile.<br />

Mamma si teneva distante e credo che si sforzasse di<br />

moderare il suo solito bisogno d’invadere i miei spazi<br />

e di polemizzare con me su ogni cosa.<br />

In principio, riguardo a lei, l’arrivo del ragazzo mi<br />

era stato utile. Se non altro, aveva dirottato la sua attenzione<br />

dal suo oggetto preferito che, sin da quando<br />

ero nata, ero sempre stata io.<br />

178<br />

L’oasi<br />

Nei giorni subito dopo la malattia, mi sedevo in cucina,<br />

davanti alla grande finestra che dà sul giardino,<br />

e aiutavo a sgranare i piselli, a mondare i carciofi, a<br />

sbucciare le patate e a fare altri lavori che a Dolomè<br />

son considerati lavori da donna. Ma questo dove mi<br />

trovavo era un mondo diverso da quello di Dolomè,<br />

diverso come lo è il giorno dalla notte.<br />

Tutto era diverso. A cominciare dalla luce e dall’aria<br />

dentro la casa dove sembrava che non ci fosse posto per<br />

l’ombra. Le finestre erano enormi, grandi almeno come<br />

quelle del caseggiato scolastico a Dolomè. Ma pulite,<br />

non opache e sporche come quelle della nostra<br />

scuola. E dietro i vetri scintillanti si vedevano gli alberi<br />

del giardino.<br />

Proprio sotto la finestra di cucina cresceva un melograno<br />

carico di fiori rossi che parevano piccole trombe<br />

di corallo. E più lontano c’era un filare di cipressi, o di<br />

ginepri, che serviva da frangivento dalla parte della<br />

valle. Dietro quegli alberi che mi facevano pensare a<br />

persone che si tenevano per mano, si vedevano le cime<br />

dei monti che cambiavano colore col passare delle ore.<br />

179


Ma anche la sera la casa era piena di luce. Subito<br />

dopo il tramonto si accendevano delle lampade elettriche<br />

che restavano accese, dappertutto, senza risparmio.<br />

E tutte le stanze e gli anditi erano illuminati<br />

come per una festa. E tutti, a parte la dottoressa, mi<br />

parlavano gentilmente e mi sorridevano.<br />

Non che fosse proprio sgarbata, la dottoressa, ma<br />

aveva sempre troppo da fare e perciò non aveva tempo<br />

da perdere per parlare con me. E i suoi modi erano<br />

bruschi. Non solo con me, ma qualche volta anche con<br />

la madre. Col dottor Lorenzo invece era sempre allegra<br />

e gentile. Euriclea diceva che erano ancora “in luna di<br />

miele” e che c’era da sperare che durasse perché “alla<br />

dottoressa faceva bene”.<br />

Io non sapevo che cosa volesse dire, ma non volevo<br />

chiedere perché forse era una cosa che tutti sapevano e<br />

che probabilmente anch’io avrei dovuto sapere, ma<br />

che a Dolomè non si usava e io non volevo che Euriclea<br />

si burlasse di noi e della nostra ignoranza.<br />

Certe volte me ne stavo imbambolato pensando alla<br />

dottoressa e al dottor Lorenzo e alla luna di miele, e<br />

immaginavo una grande vasca rotonda come la luna,<br />

piena di miele nuovo e dorato. E la dottoressa e il dottor<br />

Lorenzo ogni tanto ne prendevano una ditata e la<br />

leccavano, mentre si tenevano per mano e si guardavano<br />

sorridendo e senza pensare.<br />

180<br />

Il serpente<br />

Nonostante la sua fragilità fisica il ragazzo, Oreste,<br />

reagì bene alle cure e si rimise rapidamente. Sembrava<br />

ansioso di guarire per non esserci di peso, per poter<br />

rendersi utile.<br />

Quando ebbe il permesso d’alzarsi, s’offrì subito d’aiutare<br />

Euriclea nelle faccende. Era ancora debolissimo e<br />

mamma, per accontentarlo e dargli pace, più che per<br />

l’utilità pratica dei suoi servizi, cercava di dargli qualche<br />

incombenza che non lo affaticasse e che potesse eseguire<br />

stando seduto. Più tardi scoprì che gli piaceva<br />

leggere e cominciò a riesumare per lui tutti i miei vecchi<br />

libri d’infanzia che aveva conservato in bell’ordine<br />

in uno scaffale.<br />

Le piaghe dei piedi stavano rimarginandosi e l’infezione<br />

era stata evitata. Ma, sebbene lui non se ne lamentasse,<br />

sapevamo che dovevano essere ancora molto<br />

dolorose. <strong>Gli</strong> davo intanto dei ricostituenti, cercando<br />

di combattere quel rachitismo che gl’ingobbiva le spalle<br />

e al quale probabilmente era dovuto il suo ritardato<br />

e deficiente sviluppo corporeo.<br />

Anche Lorenzo l’aveva preso a benvolere. Cominciò<br />

181


a dargli dei piccoli incarichi nel suo ambulatorio e, quando<br />

gli sembrò abbastanza forte da sopportare un’uscita,<br />

cominciò a portarselo dietro anche in campagna,<br />

per le vaccinazioni e le visite. Ma non ci volle molto a<br />

capire che Oreste lo seguiva solo per ubbidienza, malvolentieri,<br />

e che era soprattutto a casa, nelle faccende<br />

domestiche, che preferiva rendersi utile.<br />

Silenzioso, sempre disponibile, puntualissimo e puntiglioso,<br />

imparava tutto rapidamente. In breve tempo<br />

fu capace d’aiutare in cucina, d’apparecchiare e servire<br />

a tavola, di riordinare e fare pulizie come una domestica<br />

finita.<br />

Era sorprendentemente libero da pregiudizi su quelli<br />

che sarebbero i compiti “femminili” e i compiti “maschili”<br />

così rigidamente distinti in questa nostra società<br />

dove un uomo preferirebbe reggersi i pantaloni<br />

con dei chiodi piuttosto che “umiliarsi” a prendere in<br />

mano ago e filo per cucirsi un bottone. Era come se, nonostante<br />

la sua modestia e mansuetudine, avesse una<br />

certezza nascosta ma incrollabile della propria valentia<br />

e virilità.<br />

Ancora non sapevo, o fingevo con me stessa di non<br />

sapere, dove questa certezza orgogliosa affondava le<br />

sue radici. Quando più tardi fui costretta a saperlo, il<br />

danno fu irrimediabile.<br />

182<br />

Un cielo pieno di rondini<br />

La dottoressa era stata così, non proprio sgarbata ma<br />

come infastidita, sin dal primo momento che mi aveva<br />

visto, il giorno del mio arrivo. E questo si poteva spiegarlo<br />

col fatto che era sempre tanto affaccendata, con<br />

l’ambulatorio e anche con un libro che, secondo quanto<br />

Euriclea in gran segreto mi aveva detto, stava scrivendo.<br />

Ma dopo la visita di mamma tutto era diventato<br />

peggio, come se non avesse più nemmeno tempo, o<br />

voglia, di guardarmi.<br />

Appena entrata, ancora prima di cominciare a bere il<br />

caffè, mamma subito si era messa a raccontare quello<br />

che avevo fatto, vantandomi per come ero riuscito a<br />

condurre tutto a termine senza farmi riconoscere.<br />

Ma più lei raccontava, più la dottoressa Rudas diventava<br />

rigida, con la faccia chiusa che pareva una statua. Io<br />

la guardavo angosciato e speravo che mamma la smettesse<br />

di vantarmi così, perché capivo che alla dottoressa<br />

Rudas non piaceva. Infatti, senza ascoltare la fine del discorso<br />

di mamma, e senza dir niente, se n’era uscita dalla<br />

stanza e aveva chiuso la porta dietro di sé.<br />

183


Forse, anche se era tanto intelligente, la dottoressa<br />

non aveva capito che non era per vantarci, che mamma<br />

ne parlava, ma perché sarebbe stato tradimento non<br />

parlarne con quelli che ci stavano aiutando e che dovevano<br />

sapere che quello che avevamo fatto era stato<br />

necessario farlo.<br />

Se io non lo avessi vendicato, Giosuè non avrebbe<br />

mai trovato pace nella sua tomba. Anzi sarebbe stato<br />

come se non gli avessimo neppure dato sepoltura, e<br />

avrebbe continuato a credere che di lui e della sua<br />

morte barbara non ce ne importava niente. E non trovando<br />

pace non poteva perdonare né a noi né ai suoi<br />

assassini e perciò non poteva entrare in paradiso.<br />

Certe volte m’immaginavo che per caso mi trovavo<br />

solo con la dottoressa, in cucina per esempio. Stavamo<br />

seduti, calmi e silenziosi, guardando fuori dalla finestra.<br />

Il cielo era azzurro e pieno di rondini. Lei sembrava<br />

non avere fretta d’andarsene e allora io, senza<br />

voltarmi, cominciavo a parlare e le spiegavo tutto. E<br />

lei finalmente capiva che quello che avevo fatto era<br />

stato necessario farlo.<br />

Le parlavo con calma, come un uomo, e lei mi ascoltava<br />

attenta e senza interrompermi. Poi si voltava e mi<br />

guardava dritto negli occhi e forse anche mi metteva<br />

una mano sulla spalla o sulla testa. Poi mi diceva, sempre<br />

guardandomi negli occhi: “È giusto, Oreste. Era<br />

necessario farlo. Era il tuo dovere. Hai fatto bene”.<br />

184<br />

Una partita contabile<br />

Certo non avevo potuto evitarmi d’immaginare che<br />

nel suo improvviso arrivo e nella sua prolungata permanenza,<br />

anche quando la salute almeno in parte era<br />

riacquistata e avrebbe potuto andarsene, c’era un segreto<br />

drammatico, forse una minaccia, che in qualche<br />

modo doveva essere collegata alla morte del fratellino.<br />

Immaginavo, e forse sapevo, ma non volevo sapere.<br />

Forse, senza volerlo ammettere di fronte a me stessa,<br />

avevo capito tutto sin dal primo momento, ma ciò che<br />

avevo capito non avevo voluto saperlo.<br />

Anche di quell’infanticidio estremamente barbaro,<br />

avevo a suo tempo cercato di non sapere troppo, e ai<br />

tentativi di mamma di parlarmene e di coinvolgermi<br />

sentimentalmente, avevo opposto frontiere di silenzio.<br />

Intuivo che anche di Oreste mamma sapesse più di<br />

quanto non avesse detto a me e a Lorenzo. Lorenzo non<br />

è cresciuto qui, e nonostante la sua professione, è quasi<br />

estraneo al nostro ambiente, Lorenzo poteva e doveva<br />

essere tenuto all’oscuro. In quanto a me, io non volevo<br />

sapere. Io non avevo scelto di vivere nella barbarie, io<br />

non volevo sapere.<br />

185


Purtroppo, con l’arrivo della madre di Oreste, questa<br />

mia precaria permanenza nel Limbo si concluse, e<br />

m’invase il terrore che l’amore e il rispetto di Lorenzo<br />

per me e per la mia famiglia da quel momento rischiasse<br />

di diventare impossibile.<br />

La paura che quella storia fosca mi costasse la sua<br />

stima e il suo amore, fu dentro di me molto più violenta<br />

e più reale dell’orrore per ciò che quel bambino,<br />

che tenevamo in casa e che quasi avevamo adottato,<br />

aveva fatto o piuttosto era stato costretto a fare. Lorenzo,<br />

non isolano, cresciuto a Milano, lontano da questa<br />

nostra disgraziata regione di faide e di omertà, figlio<br />

d’un magistrato, non poteva che condannare e rifiutare<br />

ciò che io dalle circostanze venivo costretta almeno<br />

formalmente ad accettare.<br />

Nel mio terrore d’aver perduto il diritto alla stima e<br />

all’amore del mio uomo, nei primi giorni dopo la rivelazione<br />

mi ero chiusa nel mutismo, cercando rifugio<br />

nel ricordo di babbo e del rispetto che ancora circondava<br />

la sua memoria. Rispetto sul quale mi pareva d’avere<br />

una specie d’indiscutibile diritto ereditario che<br />

quella violenta intrusione minacciava.<br />

Il lavoro per il libro, in quel periodo d’apprensione<br />

aggressiva e di cupa infelicità, fu anche un alibi e un<br />

surrogato. E forse l’aumentato impegno col quale mi<br />

ci dedicai, fu anche un tentativo di riconquistare per<br />

me stessa la rispettabilità di babbo e di riverstirmene,<br />

ora che mi pareva d’esser stata spogliata della mia. Mi<br />

sentivo come un grumo spinoso di paura e di rancore.<br />

186<br />

Paura di perdere Lorenzo e rancore verso mamma che<br />

non aveva saputo risparmiarmi l’incontro con quella<br />

donna. E rancore anche verso Oreste, o piuttosto verso<br />

una strana immagine di lui che si sovrapponeva a<br />

quella reale. Perché quella reale, concreta, era ancora<br />

quella di un ragazzino servizievole e fragilissimo, eternamente<br />

in guardia, i cui occhi timidi e ansiosi sentivo<br />

spesso su di me, ma che mi sfuggivano come impauriti<br />

ogni volta che io, fingendo indifferenza, posavo<br />

deliberatamente i miei su di lui.<br />

Ma qualche volta m’accorgevo d’essermi incantata a<br />

guardargli le mani. Quelle manine nodose e aspre di<br />

bambino povero, deturpate da piccole verruche piatte,<br />

che inutilmente stavo cercando di curargli. Eliminata<br />

una, subito se ne manifestava un’altra, e mentre gliele<br />

bruciavo con nitrato d’argento non potevo fare a meno<br />

di domandarmi se davvero la causa di quelle piccole e<br />

sgradevoli escrescenze non fosse altrove, e se la cura<br />

che io tentavo non fosse pura perdita di tempo.<br />

– Se fossi a Dolomè, nonna mi farebbe la cura dei<br />

nodi nei giunchi. Per ogni verruca un nodo. E mentre<br />

fa i nodi dice delle preghiere. La gente crede che dica<br />

parole magiche, ma nonna non è una strega. Quelle<br />

che dice sono preghiere normali, cristiane. Poi un pastore<br />

prende i giunchi con i nodi e li getta in un posto<br />

dove la persona che ha le verruche non deve mai<br />

passare. Quando i giunchi marciscono anche le verruche<br />

scompaiono. Forse lei non ci crede, dottoressa, ma<br />

è vero.<br />

187


E invece ci credevo, più di quanto io stessa non fossi<br />

contenta di poterci credere, perché ancora mi sarebbe<br />

piaciuto pensare che il mondo fisico, e dunque anche<br />

le nostre cellule nella loro salute e nella loro malattia,<br />

abbiano delle leggi e delle regole che non si lasciano<br />

influenzare dai nostri umori e dai nostri rimorsi, dalle<br />

nostre speranze e dalla nostra disperazione.<br />

Oreste, con le sue manine verrucose e la sua storia,<br />

era un esempio concreto di quel tipo di fenomeni a cui<br />

gli appunti di babbo mi avevano costretto a pensare e<br />

dei quali cercavo d’occuparmi in quei giorni.<br />

La “medicina dei nodi” di cui parlava non mi era<br />

sconosciuta. Ma io per curarlo delle sue verruche non<br />

potevo fare i nodi nei giunchi, io dovevo limitarmi ai<br />

mezzi chimici etichettati e riconosciuti dalle autorità<br />

sanitarie.<br />

E l’altra cura, quella della mia comprensione e assoluzione,<br />

che forse avrebbe potuto surrogare i nodi nel<br />

giunco, neanche quella mi era possibile dargliela.<br />

C’era tra me e quel bambino una barriera di millenni<br />

che neppure la tenerezza che, quasi mio malgrado, suscitava<br />

in me poteva superare.<br />

<strong>Gli</strong> guardavo le mani e le dita, mentre senza far rumore<br />

apparecchiava o sparecchiava, mentre serviva a<br />

tavola o, nei momenti di riposo e di distensione, quando<br />

giocava coi gatti o carezzava Diana che uggiolava<br />

in estasi rotolandosi sul dorso e dimenando le zampe<br />

come in una corsa immaginaria.<br />

Quelle manine infantili mi affascinavano e, quando<br />

188<br />

mi accorgevo di guardarle, cercavo di distorglierne<br />

gli occhi. Perché, contro la mia volontà, ogni volta, le<br />

immaginavo strette contro il metallo scuro dell’arma.<br />

“Il falco è abbattuto. La macchia è lavata!”, aveva<br />

detto, entrando nella cucina dalla quale non si era assentato<br />

per più che una decina di minuti. Lui, quel<br />

bambino innocente, che in veste di vendicatore, come<br />

un cow-boy di un cattivo film western aveva appena<br />

spento una vita umana. La madre, la nonna e le sorelle<br />

sedevano ancora attorno al camino, come le aveva lasciate<br />

poco prima, e recitavano le loro solite preghiere<br />

serali.<br />

“Il falco è abbattuto. La macchia è lavata”. Probabilmente<br />

anche le bambine e la nonna sapevano e avevano<br />

capito, ma solo la madre si era alzata e l’aveva condotto<br />

nella stanza adiacente. Avevano confabulato per un<br />

momento, poi lei era tornata in cucina, sola, e aveva<br />

pronunziato quelle parole insensate che nessuno aveva<br />

discusso o commentato: “Oreste è partito stamattina<br />

per Trezene. A piedi. Per risparmiare i soldi della corriera”.<br />

Le sue parole dovevano aver suonato come un ordine,<br />

non un’informazione.<br />

Poi si era gettata lo scialle sul capo ed era uscita,<br />

senza dire dove andava. Le figlie e la madre forse non si<br />

erano neppure mosse dal cerchio di luce attorno al camino<br />

acceso e avevano continuato a recitare le loro preghiere.<br />

Formule magiche, non preghiere! mi dicevo<br />

con rabbia, ogni volta che arrivavo a questo punto della<br />

mia fantasticheria in cui tutto, a parte Oreste che non<br />

189


iuscivo a vedere in quel ruolo macabro d’eroe vendicatore,<br />

mi passava davanti agli occhi in una serie d’immagini,<br />

come un film o il ricordo di un’azione orrenda<br />

alla quale anch’io contro la mia volontà ero costretta a<br />

prendere parte.<br />

Comare Solinas non aveva detto esplicitamente d’essere<br />

stata lei ad armare la mano del ragazzo. E non lo<br />

disse, immagino, perché doveva sembrarle una vanteria<br />

superflua, un’ingiusta diminuzione dei meriti di<br />

Oreste. Ma non aveva mancato di descrivere l’astuzia,<br />

la segretezza e la tenacia con la quale lei, da sola, aveva<br />

condotto le indagini, ancora prima che, come aveva<br />

previsto sin da principio, la polizia e i carabinieri archiviassero<br />

il caso come “delitto d’ignoti”, e che col<br />

passare del tempo gli indizi e le prove venissero cancellati.<br />

Non aveva risparmiato mezzi né minacce sino a che<br />

non aveva avuto l’assoluta certezza sull’identità degli<br />

assassini. Ma la sua certezza e le sue prove non sarebbero<br />

bastate a “quelli che son pagati per fare giustizia<br />

e non la fanno”. Perciò le aveva tenute per sé ed era<br />

solo grazie al coraggio di Oreste che l’equilibrio, rotto<br />

dalla morte di Giosuè, era stato ristabilito.<br />

“Non siamo dei sanguinari, noi, e per noi adesso la<br />

partita è chiusa. Nessuno e niente potrà mai restituirci<br />

il nostro bambino, ma la sua anima non avrebbe potuto<br />

trovar pace se non avessimo fatto giustizia, se a<br />

causa della sua morte avessimo anche perduto l’onore.<br />

<strong>Gli</strong> assassini erano tre e due di loro sono vivi e, per<br />

190<br />

quanto mi riguarda, possono campare sino a cent’anni.<br />

Sono due miserabili che la vita sta già punendo più di<br />

quanto la morte non potrebbe fare. Uno è ubriaco dalla<br />

mattina alla sera e nessuno gli dà più un soldo di valore.<br />

L’altro è un povero cornuto che in quella combutta<br />

c’era entrato per sbaglio e che se la fa addosso dalla<br />

paura ogni volta che qualcuno bussa alla sua porta.<br />

Pur di essere lasciato in vita è disposto a fare per me<br />

qualunque cosa gli chieda. Ma la partita per quanto mi<br />

riguarda ora è chiusa”.<br />

Comare Solinas aveva parlato, in presenza di Oreste,<br />

con la certezza della nostra approvazione e omertà. Io<br />

avrei voluto essere lontana, dall’altra parte del mondo.<br />

Ovunque, ma non lì, in quel pozzo d’orrore che<br />

mi si era spalancato davanti, minacciandomi.<br />

Mi sentivo addosso le occhiate ansiose di mamma e<br />

di Oreste, come se volessero capire come reagivo e cercassero<br />

di prevenire qualche mia esplosione. Ma non ci<br />

fu alcuna esplosione. Mi sentivo annientata e tradita,<br />

anche se ero stata io a voler chiudere gli occhi, perché<br />

altrimenti avrei capito tutto sin da principio, e senza<br />

che nessuno dovesse dirmelo così esplicitamente.<br />

“Non siamo dei sanguinari, noi, e per noi ora la partita<br />

è chiusa” aveva detto comare Solinas di Dolomè,<br />

quasi come un ragioniere che, dopo averlo ripercorso,<br />

chiuda il suo registro di contabilità con la gradevole<br />

consapevolezza d’aver condotto bene a termine un lavoro<br />

difficile e onesto.<br />

Era quella sua certezza incrollabile e trionfante,<br />

191


quella sua imperturbabile coscienza d’aver agito nel<br />

modo giusto, che mi facevano più orrore. Più dello<br />

stesso omicidio di cui il ragazzo per colpa sua s’era incaricato.<br />

Ero uscita quasi a precipizio, per la paura di mettermi<br />

a gridare e anche perché non riuscivo più a sopportare<br />

di vederla e di ascoltarla.<br />

192<br />

La statua della libertà<br />

Una volta, ma era molto tempo prima, quando ancora<br />

dovevo stare a letto e avevo la febbre, e prima che<br />

mamma venisse e raccontasse quello che era successo,<br />

la dottoressa Rudas, dopo avermi fatto l’iniezione, si<br />

era fermata un momento a guardarmi e poi mi aveva<br />

ravviato i capelli sulla fronte. Io avevo sentito il calore<br />

delle sue dita leggere, e avevo dovuto chiudere gli occhi,<br />

perché il cuore mi batteva così forte che temevo<br />

che lei lo sentisse. I muscoli della faccia mi tiravano,<br />

rigidi e pesanti come pietra e le labbra erano tanto<br />

aride che mi si erano incollate ai denti.<br />

Quando lei era uscita, mi ero toccato lì, sui capelli,<br />

dove avevo sentito le sue dita che mi sfioravano, e mi<br />

pareva che lei fosse ancora vicino a me. Ed era come se<br />

la Madonna in persona mi avesse visitato e mi avesse<br />

sfiorato i capelli e la fronte per dirmi che mi voleva<br />

bene e che aveva capito che quello che avevo fatto era<br />

stato necessario farlo.<br />

Giosuè era mio fratello gemello. Spettava a me liberarlo<br />

dalla tomba e permettergli di entrare in paradiso.<br />

E anche mia madre e le mie sorelle non dovevano es-<br />

193


sere condannate a vivere nella vergogna, da donne disonorate<br />

che tutti dopo potevano continuare a offendere.<br />

Era mio dovere lavare la macchia e difenderle da altre<br />

offese. Ero sicuro che un giorno la dottoressa Rudas<br />

l’avrebbe capito e avrebbe smesso di far finta di<br />

non vedermi.<br />

Il dottor Lorenzo, invece, credo che l’abbia capito<br />

subito e che lui non mi abbia mai voluto male. Lui era<br />

veterinario e frequentava la gente di campagna, perciò<br />

anche se era un mezzo continentale sapeva come sono<br />

le regole. Il dottor Lorenzo era sempre allegro e sorridente<br />

e gli piaceva scherzare. Anche con me.<br />

Babbo con me non aveva mai scherzato, neppure<br />

quando era ubriaco e aveva vino buono. La gente a Dolomè<br />

di solito non scherzava, se non per prendere in giro<br />

chi non sapeva difendersi. E più ci pensavo più Dolomè<br />

mi pareva un paese dove non avrei mai voluto tornare.<br />

Quando cominciai a stare meglio e a essere forte, il<br />

dottor Lorenzo mi propose d’andare con lui in campagna<br />

per fargli da assistente. Mi piaceva stare nel suo ufficio<br />

e avevo imparato a tenere in ordine i suoi strumenti.<br />

Mi aveva insegnato a bollirli sul fornelletto elettrico,<br />

a toglierli con le pinze dall’acqua bollente e metterli<br />

ad asciugare in mezzo alle garze asettiche, e poi,<br />

ben asciutti, conservarli dentro le scatole metalliche.<br />

Facevo tutto quello che m’insegnava e, quando ero insieme<br />

a lui, mi sentivo come in paradiso. Ma andare in<br />

campagna non mi piaceva, e cercavo di nasconderglielo,<br />

per non deluderlo.<br />

194<br />

Poi però ci fu quella volta in cui mi sentii male, e fu<br />

l’ultima volta che mi chiese d’accompagnarlo. Eravamo<br />

partiti presto per andare in un ovile dove c’era un<br />

cavallo malato. Ed era anche una bella giornata all’inizio<br />

dell’estate. Il proprietario ci ricevette bene e ci mostrò<br />

la bestia malata. Il dottor Lorenzo la guardò e la<br />

toccò nella pancia che era gonfia. Soprattutto vicino<br />

all’inguine. E disse che bisognava operare subito. Prima<br />

la lavò con acqua saponata, poi cominciò a tagliare<br />

col bisturi.<br />

Siccome io conoscevo i nomi degli strumenti, era a<br />

me che si rivolgeva, quando doveva cambiare dall’uno<br />

all’altro. Ma a un certo punto, quando il sangue e il<br />

pus cominciarono a venire fuori in grande quantità,<br />

senza che me l’aspettassi fui assalito dalla nausea e in<br />

gran fretta dovetti allontanarmi per vomitare. Quando<br />

fui in grado di tenermi in piedi e tornai, l’operazione<br />

era finita e poco dopo ripartimmo. Io avevo vergogna<br />

di quello che era capitato e provai a dire che<br />

forse avevo mangiato qualche erba velenosa. Allora il<br />

dottor Lorenzo era scoppiato a ridere e guardandomi<br />

con la coda dell’occhio aveva detto:<br />

– Va là che la chirurgia non è per te. Sei più bravo a<br />

tenerli puliti gli strumenti che a vedere come li si<br />

sporcano. – Ma non c’era cattiveria anche se sembrava<br />

divertirsi alle mie spalle.<br />

E quella fu l’ultima volta che mi portò in campagna.<br />

Ma io da allora raddoppiai i miei sforzi per rendermi<br />

utile in casa. Imparavo a cucinare e a servire a tavola e<br />

195


immaginavo che un giorno sarei emigrato e avrei trovato<br />

lavoro da cuoco o da cameriere in un ristorante di<br />

una grande città o in qualcuna di quelle navi che attraversano<br />

gli oceani.<br />

Con Giosuè desideravamo entrare in marina per poter<br />

viaggiare e vedere il mare. Pensavamo che, finito il<br />

servizio militare, avremmo trovato un ingaggio su qualche<br />

nave da trasporto e avremmo continuato a viaggiare<br />

per vedere anche l’Africa e l’Asia e l’America che<br />

ci immaginavamo bellissime. Soprattutto l’America.<br />

In quei mesi, mentre lavoravo a casa della dottoressa<br />

Rudas, speravo di poter restare lì molti anni, in quella<br />

bella casa, insieme a quelle persone buone, e che dopo,<br />

forse, si sarebbero realizzati anche i progetti che avevo<br />

fatto insieme a Giosuè. Avevo sentito dire che i morti<br />

vivono nel ricordo e nelle speranze dei vivi e, se era<br />

vero, così avrei aiutato Giosuè a vivere di nuovo, almeno<br />

un poco, dentro di me.<br />

Spesso cercavo d’immaginarmi l’America e mi pareva<br />

impossibile che non avrei mai più potuto parlarne<br />

con Giosuè. Anzi mi pareva che Giosuè forse in America<br />

c’era già arrivato e che mi aspettava, lì, in qualche<br />

posto bellissimo. Chissà se l’avrei riconosciuto. Forse<br />

lui sarebbe stato così ricco ed elegante che mi sarebbe<br />

stato difficile capire chi era, se lui, vedendomi, non mi<br />

avesse detto: – Ehi, compare, ne avete messo di tempo<br />

per venire! Sono anni che vi aspetto. Ma ora venite,<br />

che vi voglio mostrare l’America!<br />

Mi immaginavo i fiumi grandissimi e le città piene<br />

196<br />

di gente ricca e allegra, e desideravo poterli vedere almeno<br />

una volta nella vita. Ma quello che soprattutto<br />

desideravo vedere era la statua della libertà.<br />

Euriclea aveva una cartolina che le aveva mandato<br />

un nipote che lavorava a Nuova York. La cartolina era<br />

a colori e rappresentava la statua della libertà come<br />

una bellissima donna, alta e vestita come un’antica romana.<br />

In testa questa donna aveva una corona scintillante<br />

e in mano teneva una fiaccola.<br />

Quando me l’aveva mostrata, Euriclea aveva detto<br />

che la statua della libertà stava su un’isola in mezzo al<br />

porto di Nuova York, per dare il benvenuto agli emigranti<br />

che arrivavano. Diceva anche che era più alta<br />

dell’ospedale di Trezene e che la corona che le cingeva<br />

la testa era così grande che i visitatori vi salivano per<br />

ammirare il panorama come da un balcone. Dalla fotografia<br />

era difficile immaginare che davvero fosse così<br />

grande.<br />

L’inverno e la primavera erano finiti ed era arrivata<br />

l’estate. <strong>Gli</strong> alberi del giardino erano pieni di cicale, e<br />

i pomeriggi erano caldi e lunghissimi. Quando tutti<br />

dormivano io m’arrampicavo su una quercia nel giardino.<br />

Lì mi ero fatto un nido con delle frasche e mi<br />

portavo dei libri da leggere. Il libro che mi piaceva di<br />

più e che non mi stancavo di rileggere era intitolato La<br />

capanna dello zio Tom. Si svolgeva in America quando<br />

ancora c’era la schiavitù. Oggi in America tutti sono<br />

liberi e ricchi.<br />

A parte lo zio Tom, che era uno schiavo vecchio e<br />

197


molto buono, c’era la signorina Evelina, che era la figlia<br />

dei padroni. E io me l’immaginavo come doveva<br />

essere la dottoressa Rudas quando era bambina e ancora<br />

non aveva tanto da fare e perciò aveva tempo d’essere<br />

gentile anche con i suoi servi. Il Mississippi e l’Ohio<br />

dovevano essere bellissimi.<br />

Quel libro mi faceva piangere ogni volta che lo leggevo<br />

e perciò dovevo nascondermi perché nessuno se<br />

ne accorgesse.<br />

A quella sera di pioggia e di tuoni a Dolomè non<br />

pensavo quasi mai. Solo qualche volta la sognavo, ma<br />

nel sogno c’era molto buio e capitavano cose strane, e<br />

tutto andava diversamente.<br />

198<br />

La cacciata dall’Eden<br />

Quando quella mattina i due carabinieri in uniforme<br />

bussarono alla nostra porta e vennero a prenderlo con<br />

un mandato di cattura, avevamo quasi dimenticato che<br />

ciò avrebbe potuto accadere.<br />

Io mi ero abituata alla sua presenza e, dopo il primo<br />

periodo in cui ero stata così inquieta, riuscivo a non<br />

pensare a ciò che aveva fatto e mi ero convinta che Lorenzo<br />

non sapesse niente e che perciò il suo amore e rispetto<br />

per me e per mamma sarebbe rimasto immutato.<br />

Non sapevo come era stato possibile, ma in tutti quei<br />

mesi eravamo riusciti a evitare qualunque discorso che<br />

avrebbe potuto condurci a una spiegazione riguardo a<br />

Oreste. Così avevo finito per illudermi che Lorenzo non<br />

sapeva e non avrebbe mai saputo niente di quell’orribile<br />

storia.<br />

Quel giorno però, alla vista dei carabinieri e del mandato<br />

di cattura, capii che anche per me il momento<br />

della verità e della grande prova era arrivato. Lorenzo<br />

era a Milano, ma al suo ritorno sarei stata costretta a<br />

dirgli che Oreste era stato arrestato e di che cosa era accusato.<br />

E allo stesso tempo avrei dovuto confessargli<br />

199


d’averlo sempre saputo e d’essermi a malincuore ma coscientemente<br />

piegata alla vecchia e odiosa legge dell’omertà.<br />

E, di fatto, a mentirgli.<br />

Il dolore per la sorte del ragazzo, che pure sentii, era<br />

annebbiato dalla preoccupazione affannosa ed egoistica<br />

per la mia stessa sorte e la sorte del mio amore e del mio<br />

matrimonio che ne erano minacciati. In un modo strano<br />

e che mi pareva estremamente ingiusto, dal momento<br />

in cui quel ragazzo aveva messo piede in casa mia, aveva<br />

legato il mio destino al suo, la sua colpa era diventata la<br />

mia colpa, la sua responsabilità era diventata la mia, e<br />

la sua condanna sarebbe stata la mia condanna. Mentre<br />

io me ne stavo lì, ammutolita, mamma mostrò subito<br />

le unghie e provò a dire ai carabinieri che doveva esserci<br />

un errore, che quell’Oreste che noi tenevamo a casa non<br />

poteva essere la stessa persona che loro cercavano.<br />

Non so che cosa si proponesse con questo tentativo<br />

di dilazione. Probabilmente, se le fosse riuscito, non<br />

avrebbe esitato a nascondere il ragazzo, a favorirgli<br />

una fuga e forse a procurargli la possibilità di rifugiarsi<br />

in campagna per sottrarsi alla prigione e alla<br />

condanna inevitabile.<br />

Ma Oreste la trattenne, con una fermezza che sorprendeva<br />

in quel corpicino gracile e quasi infantile:<br />

“Madrina, lasciate stare e non preoccupatevi. Dio non<br />

vuole l’ingiustizia e mi aiuterà. Per piacere, avvertite<br />

mamma. E grazie, grazie di tutto quello che avete fatto<br />

per me. Non lo dimenticherò mai”.<br />

Inquadrato nel portone verso la strada, in mezzo ai<br />

200<br />

due militari, massicci e anonimi, mi parve ancora più<br />

mingherlino e vulnerabile. Un bambino da proteggere.<br />

Mi accorsi che lo stavo abbracciando, prima d’aver<br />

deciso di volerlo fare. Non so che cosa gli dissi, ricordo<br />

invece le sue scapole alate sotto le mie dita e la sensazione<br />

che ebbi che tutto il suo fragile corpo, anziché<br />

abbandonarsi all’abbraccio, s’irrigidisse e quasi mi respingesse.<br />

“Salutate il dottor Lorenzo per me. E perdonatemi<br />

per quello che sta capitando…” Mi disse con voce bassa<br />

e soffocata dall’emozione.<br />

Poco dopo era scomparso, e io fui colta dal panico di<br />

restare sola con mamma. Stavo per dire che avevo da<br />

fare in ambulatorio, ma mi precedette, come se anche<br />

lei avesse paura di restare sola con me e, col cipiglio<br />

d’un generale che ha fatto i suoi piani di battaglia, annunziò<br />

che voleva subito telefonare a Don Marcellino,<br />

il parroco di Dolomè, per incaricarlo d’informare comare<br />

Solinas dell’arresto di Oreste, e per chiedergli di<br />

fare qualcosa per difenderlo.<br />

– Quell’imbecille di Don Marcellino! – disse, quasi<br />

che le fosse necessario insultare qualcuno per trovare<br />

uno sfogo al proprio malumore.<br />

Poco dopo la sentii che gridava al telefono, come se<br />

volesse raggiungere la sua vittima con la sola forza<br />

della propria voce. Non capii che qualche frammento<br />

di frase, ma mi bastò per immaginare che non doveva<br />

essere quello il tono col quale il parroco di Dolomè era<br />

abituato a essere trattato.<br />

201


Ma era quello il tono che mamma era abituata ad<br />

avere, con chiunque, quando qualcosa le andava per<br />

traverso.<br />

– Se si può essere più idioti e vigliacchi! – commentò<br />

dopo aver sbattuto con violenza il telefono sulla forcella<br />

come se con quel gesto volesse schiacciare un esercito<br />

intero di preti, di carabinieri e di pusillanimi.<br />

– Mi ha detto che “preferiva esser tenuto fuori” e,<br />

solo quando ho minacciato di telefonare al vescovo, si è<br />

deciso a promettere che avrebbe mandato la sorella ad<br />

avvisare comare Solinas e che avrebbe “pregato per quel<br />

povero ragazzo”. Pezzo d’imbecille! Figurarsi, l’impressione<br />

che faranno ai giudici le sue preghiere!<br />

Mamma fremeva d’indignazione e di disprezzo. La<br />

sua solidarietà con Oreste e con comare Solinas di Dolomè<br />

era scontata. Ma Lorenzo, come avrebbe reagito<br />

Lorenzo? E che cosa avrebbe pensato di noi il padre di<br />

Lorenzo, il giudice, il rappresentante di quella legge e<br />

legalità secondo la quale Oreste era un delinquente,<br />

colpevole di uno dei delitti più orrendi, e noi che l’avevamo<br />

aiutato eravamo dei correi? Come, dopo di questo,<br />

avrei mai più potuto guardarlo negli occhi? Era<br />

questa la fine del mio matrimonio e del mio amore?<br />

Il ritorno di Lorenzo, che attendevo sempre con impazienza,<br />

questa volta avrei voluto rimandarlo, come<br />

altre volte avrei voluto rimandare certi esami difficili e<br />

inevitabili nei quali poi invece avevo sempre finito per<br />

gettarmi, con la precipitazione e la cecità con la quale<br />

ci si getta in un abisso ormai inevitabile.<br />

202<br />

PARTE QUARTA<br />

L’Isola e gli <strong>arcipelaghi</strong><br />

203


Il ritorno<br />

Milano era diventata la sua città. Nell’Isola però continuava<br />

a collocarsi la sua mitologia e fu forse quell’ormai inconsapevole<br />

nostalgia del mondo della sua infanzia che gli fece<br />

decidere d’intraprendere gli studi di veterinaria, deludendo il<br />

padre che aveva sperato che lo seguisse nella carriera giuridica.<br />

E fu il caso, o forse il suo inconscio, che, poco dopo la laurea,<br />

lo mise sulle tracce d’una condotta vacante proprio nella<br />

zona magica della sua infanzia.<br />

Per visitarla, la prima volta, fece la linea marittima da<br />

Civitavecchia. La stessa che faceva con i genitori quando tornavano<br />

nell’Isola per le vacanze. Erano passati tanti anni da<br />

allora, eppure gli pareva di riconoscere tutto: gli odori della<br />

nave, il timbro delle voci e, prima, quel chiamarsi, quei sudori<br />

e quelle lacrime delle donne nerovestite alla stazione di<br />

Roma, nel binario n. 12, davanti al treno per Civitavecchia.<br />

Quei pianti che tracciavano rivoli oleosi nei visi segnati<br />

dalla peluria scura e dalle impurità della pelle. Quelle valigie<br />

stragonfie, tenute insieme da cordicelle e cinture d’impermeabile.<br />

Quel correre confuso e affannato lungo il treno, su e<br />

giù per il marciapiede, come in attesa e alla ricerca di qualcuno<br />

che sembrava sempre essere in ritardo.<br />

205


Le valigie e i fagotti venivano ogni pochi passi posati sul cemento<br />

polveroso del marciapiede, per dar tregua alle braccia<br />

affaticate e per dar modo al portatore di guardarsi attorno,<br />

asciugandosi il sudore, in quella ricerca che sembrava destinata<br />

a restare delusa e come fine a se stessa.<br />

Le donne coi ciuffi grigiastri sfuggenti dai fazzoletti legati<br />

sotto il mento, agitate e goffe come galline spaventate. <strong>Gli</strong> uomini,<br />

inconfondibilmente isolani per gli abiti di fustagno e il<br />

berretto a visiera che l’affanno ora aveva fatto scivolare un po’<br />

di traverso, e per la figura tozza, la bassa statura e la camminata<br />

a gambe divaricate di chi sia abituato a cavalcare o<br />

a camminare su terreni scoscesi.<br />

Lì, sul cemento sporco del marciapiede, confusi e sommersi da<br />

una folla sconosciuta, in mezzo a quelle mostruose macchine<br />

sbuffanti, quegli uomini e quelle donne, così nobili e così composti<br />

nelle loro case e sulle loro montagne, sembravano una parodia<br />

di se stessi, mentre agitavano a ventola le mani larghe<br />

e scure come per guidare, o almeno fingere di guidare, un immenso<br />

gregge sconosciuto e ribelle che continuava a sfuggire e<br />

dilagare intorno a loro come in un incubo.<br />

Dove erano stati, in quale alberguccio o in quale affollato<br />

appartamento di parenti avevano abitato in quei giorni? Che<br />

cosa, quale speranza o quale paura, aveva portato quelle donne<br />

e quegli uomini nella Capitale?<br />

Durante la sua infanzia, per Lorenzo non erano stati che<br />

uno spettacolo, un preludio anzi alle lunghe giornate di sole e<br />

di libertà, alle gite in campagna negli ovili dei parenti benestanti<br />

che si sarebbero occupati di lui e dei suoi genitori come di<br />

una famiglia principesca che si sentivano onorati di ricevere.<br />

206<br />

In campagna Lorenzo avrebbe avuto il permesso di montare<br />

a cavallo. Degli uomini uguali a quelli che già vedeva alla<br />

stazione di Roma, ma da loro così diversi per la sicurezza e<br />

nobilità dei modi, avrebbero scelto per lui il cavallo più mansueto<br />

che poi avrebbero devotamente tenuto per la cavezza, guidandolo<br />

per i sentieri più belli e più sicuri.<br />

Quegli uomini, quelle donne, le loro valigie sgangherate e i<br />

loro pianti e sudori, per lui bambino erano stati solo spettacolo.<br />

Spettacolo come i chiassosi e servizievoli portabagagli nel<br />

porto di Civitavecchia e come all’alba, all’arrivo, la vista<br />

delle coste e, nello sfondo, dei monti colorati di rosa che cominciavano<br />

a sorgere dal mare.<br />

Mentre si stringevano sul ponte, un po’ infreddoliti, in<br />

mezzo alla folla, la mamma non mancava mai di dire: – Lo<br />

senti, il profumo del mirto e del rosmarino? – E allora era<br />

quasi un obbligo respirare profondamente. E, insieme all’odore<br />

di salsedine davvero già si sentiva il profumo della macchia.<br />

Il profumo dell’Isola.<br />

La nave continuava il suo corso nel lunghissimo fiordo, e<br />

mano mano che vi s’addentrava, si scopriva che quella che era<br />

sembrata una costa frastagliata ma compatta era tutta una<br />

serie d’<strong>arcipelaghi</strong> le cui isole e isolette, quando ci si avvicinava<br />

e cambiava la prospettiva, cambiavano aspetto e dimensioni<br />

e insieme alle loro diversità rivelavano le insospettate distanze<br />

che le separavano.<br />

207


Performance<br />

Son passati anni da allora, e non val la pena di provare<br />

a contarli. Il tempo procede a balzi e qualche<br />

volta si ferma del tutto, o forse impercettibilmente<br />

scivola e solo dopo, quando troppe cose sono irrimediabilmente<br />

accadute, ci accorgiamo che gli anni sono<br />

passati e che noi e gli altri, quelli ai quali volevamo<br />

bene, o male, siamo cambiati e le ragioni dell’amore e<br />

dell’odio non esistono più se non come una polvere sul<br />

vecchio mobilio del tempo.<br />

Altre volte il balzo del tempo è così inatteso e fulmineo<br />

che tutto ciò che è avvenuto prima di quell’attimo<br />

impallidisce e si confonde.<br />

Così è per me il tempo, se provo a ripensarlo, a riassumerlo,<br />

a sistemarlo in cronologie più o meno esatte.<br />

Tutto ciò che riesco a ottenere è un arcipelago di ricordi<br />

che affiorano ad altezze e con superfici diverse in<br />

un’acqua liscia, uniforme, orizzontale. Più che una<br />

successione d’eventi in un fiume che scorre, una contemporaneità<br />

anche spaziale.<br />

Così fu ed è il mio tempo, quando provo a pensarlo.<br />

Come il tempo sia e sia stato in una prigione, non rie-<br />

209


sco a immaginarlo. Mi fermo al primo tentativo di<br />

dargli una struttura nelle sue dimensioni di quotidianità<br />

e nelle sue differenziazioni, se ci sono e se ci furono,<br />

tra giorni feriali e festivi, nei mesi, nelle stagioni,<br />

negli anni. Perché fu un tempo fatto di anni quello<br />

che lui, il ragazzo Oreste, dovette vivere in una lunghezza<br />

e monotonia interrotte solo dai processi e, ogni<br />

volta, dalle rinnovate speranze e delusioni. Ma subito,<br />

a questo punto, il mio sforzo d’immaginazione si scontra<br />

con un ostacolo che non so né aggirare né superare.<br />

La mia fantasia si rifiuta e dirotta.<br />

E lui, il ragazzo Oreste, riesco a vederlo soltanto come<br />

i due segni di una parentesi. Il primo segno, quello<br />

d’apertura, quando tra i due carabinieri che vicino<br />

a lui sembrano enormi e onnipotenti s’inquadra di<br />

spalle nel portoncino della mia casa di Trezene; il secondo,<br />

quello di chiusura - ma è solo un’immagine<br />

rapidissima dalla quale subito i miei occhi si ritraggono<br />

per non più posarcisi - quando lo rividi, nella<br />

gabbia smisurata e solitaria degli imputati, nel Palazzo<br />

di Giustizia a Roma.<br />

Piccolo, fragilissimo, ma composto. Uno scheletrino<br />

tenuto insieme da una ferrea volontà di decoro. Un passero,<br />

nella gabbia assurda dei ferini.<br />

Questi i due segni della parentesi. Ciò che la parentesi<br />

contenne non riesco a rappresentarmelo, oggi. Come<br />

allora, quando il tempo ancora era al presente, mi<br />

rifiutavo di conoscerlo.<br />

Anche quel giorno distolsi subito gli occhi e non li<br />

210<br />

posai più su di lui. Non so se i suoi fossero fissi su di<br />

me durante la mia deposizione. Io, dopo quello sguardo<br />

fugace e involontario che gli gettai, entrando nella<br />

vasta sala illuminata, posai i miei occhi, calmi, diretti,<br />

sui giudici, sugli avvocati, e sul mio e cioè il suo avvocato.<br />

E da quel momento fui un’attrice, sola sulla scena<br />

ma sicura di poter dominare, convincere il suo pubblico.<br />

Sicura d’avere il ruolo più accattivante del dramma.<br />

Quasi commedia, mi parve, mentre lo recitavo.<br />

I giudici, gli avvocati, il mio avvocato, le altre persone<br />

presenti allineate negli scanni, erano il “pubblico”<br />

che dentro di me freddamente valutavo per scegliere<br />

la chiave della mia recitazione mentre il mio viso,<br />

il mio corpo, la mia voce, le mie parole talvolta calcolatamente<br />

esitanti, esprimevano quell’onestà e nobiltà,<br />

quella timidezza, che erano del mio ruolo. Sapevo<br />

d’essere carina, e se non lo avessi saputo lo avrei<br />

letto negli sguardi incollati sulla mia persona, e nei<br />

corpi dei giudici e degli avvocati che impercettibilmente<br />

e progressivamente s’inclinavano, obliqui, verso<br />

di me, mentre rispondevo alle loro domande. Non<br />

mentivo, naturalmente, ma in rapporto alla “causa”<br />

tutto ciò che dissi, il mio stesso essere lì, il mio modo<br />

d’esserci, non fu che un dirottamento dalla verità sostanziale,<br />

mentre irreprensibilmente mi muovevo sui<br />

binari della verità formale. O forse era esattamente il<br />

contrario. Ci metterò forse ancora degli anni, prima di<br />

saperlo.<br />

Era estate e indossavo un abito di seta verde acqua,<br />

211


sobrio, elegante, molto femminile ma non direttamente<br />

provocante. Sobrio, elegante e fresco, un po’ ingenuo<br />

e molto onesto, era anche il profumo di colonia<br />

che la mia persona e i miei indumenti emanavano. Sapevo<br />

d’essere la perfetta immagine di ciò che dovevo<br />

essere: una giovane, stimata professionista, prodotto e<br />

rappresentante di quella piccola aristocrazia provinciale<br />

e borghesia intellettuale di cui anche i giudici e<br />

gli avvocati erano rappresentanti e prodotto. Alla solidarietà<br />

di classe e di sfondo culturale, che subito s’era<br />

fatta palese tra loro e me, s’aggiungeva l’aureola di<br />

simpatia e d’interesse che ancora mi circondava a causa<br />

del libro e, forse ancora di più, di quella mia azione di<br />

salvataggio, fortunata nel suo esito ma quasi pazzesca<br />

e irresponsabile dal punto di vista professionale, alla<br />

quale giornali e rotocalchi avevano dato più spazio di<br />

quanto meritasse.<br />

Era quella donna giovane e carina, toccata dalla magia<br />

di una sia pure effimera celebrità, che giudici e avvocati<br />

- tutti maschi - si bevevano con gli occhi. Forse<br />

neppure ascoltavano le piccole e insulse storie di vita<br />

quotidiana che stava raccontando. Storie nelle quali<br />

l’accusato, il presunto omicida, appariva come un ragazzino<br />

mite e quasi bigotto nella sua scrupolosa religiosità,<br />

meticoloso nel suo lavoro, avido di quella stessa<br />

letteratura giovanile cha a suo tempo giudici e avvocati<br />

dovevano aver gustato. Simile dunque a loro, e perciò<br />

difficilmente colpevole del delitto di cui lo si accusava.<br />

In uno stato di lucidissima, autoconsapevole trance,<br />

212<br />

parlavo calma, a voce quasi bassa, sapendo di recitare<br />

- di recitare bene - un’assoluta verità formale e una sostanziale<br />

menzogna. Ma in quel momento non si trattava<br />

più del ragazzo Oreste, lì nella gabbia, colpevole<br />

o innocente che fosse, della sua assoluzione o della sua<br />

condanna. Per me in quel momento si trattava di condurre<br />

il più brillantemente possibile a termine un compito<br />

che, sia pure contro voglia, avevo accettato d’assumermi.<br />

Non si trattava di lui e di un suo eventuale<br />

salvataggio, si trattava di me, del ruolo che mi ero trovata<br />

a recitare e che, col puntiglio che ho sempre<br />

messo nell’assolvere bene i miei compiti, cercavo di recitare<br />

meglio che potevo.<br />

Appena pochi minuti prima, nella saletta angusta e<br />

semibuia dei testimoni, ero in preda al panico e alla<br />

nausea. Dopo i corridoi e le scale enormi, fatti per impressionare<br />

e per smarrircisi, quello stambugio mi era<br />

parso ancora più tenebroso e incomodo.<br />

Nelle panche lungo le pareti stavano seduti degli uomini<br />

vestiti del fustagno verdastro dei pastori, il berretto<br />

a visiera calato sulla fronte, i gambali e gli scarponi<br />

informi di cuoio grasso. Silenziosi e immobili come<br />

statue. Alcuni sedevano per terra, i gomiti appoggiati<br />

alle ginocchia, il mento nel cavo delle mani. Una<br />

donna giovane ma precocemente sciupata, avvolta in<br />

uno scialle scuro che la copriva dalla testa ai piedi, se<br />

ne stava accoccolata, solitaria e spaurita, nell’angolo tra<br />

la porta e la finestra.<br />

Una zaffata di cattivo odore mi aveva accolto. Odore<br />

213


di sego, e di corpi e d’indumenti chissà da quando non<br />

lavati. Odore di sudore e odore d’ansia.<br />

Ero rimasta in piedi guardandomi attorno con disagio,<br />

in preda alla nausea e al capogiro. Poi, l’usciere<br />

che poco prima mi aveva accompagnato, era tornato<br />

con una sedia. Appena seduta, avevo estratto dalla<br />

borsa il fazzolettino profumato e vi avevo respirato<br />

profondamente, filtrando l’aria e il suo cattivo odore.<br />

Subito, ma troppo tardi, me n’ero vergognata. Mentre<br />

rimettevo il fazzolettino nella borsa, mi ero guardata<br />

attorno per controllare se qualcuno mi aveva osservato<br />

e condannato. <strong>Gli</strong> uomini erano immobili e silenziosi,<br />

gli sguardi abbassati sulle loro mani spesse dalle vene<br />

affioranti, come isolati in una segreta, necessaria meditazione<br />

prima della battaglia. Per un momento mi<br />

parvero dei prigionieri. Prigionieri di guerra negli<br />

sconosciuti e infidi territori del nemico.<br />

La donna invece guardava dritto davanti a sé, in<br />

qualche punto impreciso alle mie spalle. <strong>Gli</strong> occhi<br />

verdi e larghi erano spalancati e nudi nel viso pallidissimo,<br />

la sola parte di lei che, insieme ad alcune dita di<br />

una mano, emergesse dai drappeggi dello scialle. Le<br />

sue labbra si muovevano quasi impercettibilmente.<br />

Forse pregava. Forse parlava con qualcuno che l’accompagnava<br />

nei suoi pensieri. Forse si preparava mentalmente<br />

le risposte che voleva dare o che le era stato<br />

ordinato di dare.<br />

Anche lei, come gli altri, aveva una sua verità e una<br />

sua menzogna da recitare, parti e aspetti della verità e<br />

214<br />

menzogna complessiva. Forse qualcuno di quegli uomini<br />

aveva visto e riconosciuto il ragazzo Oreste quella<br />

sera di pioggia e di tuoni. E allora la loro verità - o<br />

menzogna - era in rapporto alla “causa” più verità e<br />

meno menzogna della mia menzogna-verità.<br />

Ma io ero vestita di seta e loro erano vestiti di rozzo<br />

fustagno; io ero profumata di lavanda e loro puzzavano<br />

di sego e di sudore; io ero stata portata alle stelle<br />

per il mio libro ed esaltata per il mio cosiddetto “atto<br />

eroico”, loro forse non avevano neppure una fedina<br />

penale immacolata; io parlavo bene l’italiano e loro<br />

parlavano quella loro lingua arcaica che i giudici non<br />

erano obbligati a conoscere e non conoscevano.<br />

Costretti a parlare in italiano si sarebbero espressi<br />

male, la loro lingua sarebbe stata imprecisa e rozza, fastidiosa<br />

per chi li ascoltava. Io, insieme ai giudici e<br />

agli avvocati, ero fra la mia gente, fra i miei pari, loro<br />

sarebbero stati in territorio nemico.<br />

Mentre in quella stanzetta mal illuminata e greve<br />

d’odori e d’ansia aspettavo d’essere chiamata a deporre,<br />

sentivo la mia situazione di privilegio come un’ingiustizia<br />

odiosa, alla quale però, per quanto odiosa mi apparisse,<br />

sapevo che né in quell’occasione né in altra<br />

avrei mai voluto rinunziare.<br />

Questo è un ricordo. Una delle sparse e numerose isole<br />

e isolette coesistenti nell’arcipelago della memoria.<br />

Ma nell’acqua di quel tempo che durò anni emerge,<br />

come un’isola più vasta di tutte le altre, soleggiata e<br />

215


piana, quasi senza ombre, il ricordo della mia vita, allora,<br />

con Lorenzo. L’isola estesa e solitaria alla quale<br />

nessuno aveva il permesso d’accedere. Lo spazio che difendevo<br />

contro ogni minaccia vera o immaginaria, contro<br />

ogni intrusione, e nel quale neppure mamma per<br />

molto tempo aveva osato tentare irruzioni.<br />

Più che spazio però, forse era stato un alibi. Una<br />

fuga, forse, da quel mondo che era anche mio ma che<br />

così testardamente rifiutavo.<br />

L’ostinazione stessa del rifiuto era la prova della<br />

mia debolezza e dipendenza.<br />

Se solo fossi stata in grado di capire. E di abbandonarmi<br />

senza lottare.<br />

216<br />

Lo schiaffo<br />

Forse comare Solinas di Dolomè era fra i presenti. In<br />

quel gruppo indistinto di persone che i miei occhi<br />

percepivano senza veramente vederle. Certo, doveva<br />

esserci. Era il giorno in cui tutto si sarebbe deciso, non<br />

solo per Oreste ma anche e soprattutto per lei. A costo<br />

di vendersi lo scialle per pagarsi il biglietto di viaggio,<br />

non avrebbe rinunziato a essere lì.<br />

Io, da quando con quella rivelazione di cui sembrava<br />

così fiera mi aveva irrimediabilmente mescolato alla<br />

sua storia, non l’avevo più incontrata. O più precisamente,<br />

mi ero rifiutata di incontrarla.<br />

Avvertita da Don Marcellino, era arrivata a Trezene<br />

con la prima corriera del mattino il giorno dopo l’arresto<br />

di Oreste. Io avevo appena finito di vestirmi e mi<br />

preparavo a scendere in ambulatorio quando, da dietro<br />

i vetri della finestra, la vidi mentre attraversava la<br />

piazza. Avvolta da capo a piedi nel suo scialle nero, mi<br />

parve un grande uccello di malaugurio. Sentii di nuovo<br />

tutta la mia avversione che montava in superficie e<br />

stava per traboccare come la schiuma di un latte in<br />

ebollizione.<br />

217


Mi ritirai rapidamente dalla finestra e mi misi a sedere<br />

davanti allo specchio, fingendo di pettinarmi. Poco<br />

dopo mamma venne a chiamarmi, ma non le diedi<br />

tempo di parlare. Le dissi, quasi gridando, che comare<br />

Solinas non volevo vederla, che non avevo nulla da<br />

dirle e che non volevo sentire che cosa voleva dire, che<br />

le raccontasse che ero morta, se voleva, o che ero fuggita<br />

con uno zingaro, o qualunque altra cosa, purché<br />

mi risparmiasse l’incontro con quella donna che avrebbe,<br />

lei, dovuto marcire sino alla fine dei suoi giorni in<br />

una prigione…<br />

Più parlavo e più mi eccitavo, incapace ormai di dominarmi,<br />

in preda a un raptus. Non ricordo se mamma<br />

provò ad argomentare. Ricordo soltanto che fece<br />

qualche passo nella stanza e che all’improvviso mi sovrastò<br />

di tutta la sua statura e mi diede uno schiaffo.<br />

Poi, senza guardarmi e senza dire una sola parola, tornò<br />

verso la porta, uscì e la chiuse dietro di sé badando<br />

a non sbatterla.<br />

Rimasi a sfregarmi la guancia, incapace di reagire.<br />

Era il primo, e il solo schiaffo della mia vita. Ciò che<br />

provavo era più che altro stupore. Come se quello<br />

schiaffo mi avesse bruscamente svegliato da un sogno<br />

o da un incubo le cui nebbie però ancora velavano la<br />

mia capacità di pensare.<br />

Fu un episodio di cui non parlai mai con nessuno, e<br />

tanto meno con Lorenzo. Non ne parlai mai neppure<br />

con mamma. Potrei quasi credere d’averlo immaginato.<br />

In ogni modo mamma rispettò la mia volontà.<br />

218<br />

Non so come mi giustificò con comare Solinas, e se fu<br />

necessario giustificarmi in qualche modo. Ma da quella<br />

volta non mi parlò mai più direttamente di lei o di<br />

Oreste. Sino al giorno in cui l’avvocato Strofio chiese<br />

di incontrarmi.<br />

219


Lorenzo<br />

Qualche giorno dopo l’arresto di Oreste, Lorenzo era<br />

tornato da Milano, dove si trovava per una delle solite<br />

visite ai genitori. Io l’avevo atteso con ansia crescente.<br />

Ormai il segreto che credevo di essere riuscita a nascondergli<br />

per tutto quel tempo, non era più possibile<br />

tenerlo.<br />

Benché lo condividessi, temevo il giudizio che avrebbe<br />

dato di mamma e di me. Della nostra famiglia che<br />

si era lasciata mescolare a una storia così tetra, così terribile,<br />

così primitiva.<br />

Omertà, questa era la parola che temevo di sentirgli<br />

pronunziare. Una parola e un giudizio che mi parevano<br />

meritati e giusti. E infamanti.<br />

E invece, avevo appena cominciato a raccontargli<br />

dell’arresto, che già diceva di voler telefonare al padre<br />

per chiedergli consiglio. Il padre forse poteva anche<br />

darci il nome di qualche avvocato capace e onesto che<br />

potesse difendere Oreste con efficacia e senza dissanguare<br />

la famiglia, diceva. Oreste non doveva passare<br />

un giorno di più nel carcere di Trezene, dove magari<br />

l’avevano messo insieme a delinquenti comuni che lo<br />

221


maltrattavano o approfittavano di lui e della sua innocenza.<br />

Lo guardai sorpresa, domandandomi se, nonostante<br />

ciò che sia pure con qualche reticenza gli avevo detto,<br />

non avesse ancora capito che Oreste non era accusato<br />

ingiustamente di un delitto che non aveva commesso.<br />

Mi sfiorò anche il pensiero, così ridicolo, grottesco a<br />

ricordarlo oggi, che quella sua reazione fosse un omaggio,<br />

che stava facendo a me personalmente per confermarmi<br />

la sua devozione e dirmi che per amor mio era<br />

disposto ad accettare anche il mio ambiente e chiudere<br />

gli occhi su quel tetro medioevo che ne emergeva.<br />

Sentivo il dovere d’informarlo, ma avevo paura. Se<br />

nella sua ingenuità “continentale” non era ancora riuscito<br />

ad afferrare che Oreste era colpevole del delitto<br />

di cui lo si accusava, quando lo avesse capito non<br />

avrebbe potuto che condannarci e rinnegarci. E io non<br />

potevo rinunziare a lui. Senza di lui la vita sarebbe<br />

stata per me un buio continuo e insopportabile.<br />

Ma quando ci trovammo soli nella nostra camera e<br />

ripeté il suo proposito di chiedere aiuto al padre in favore<br />

di Oreste, mi sentii costretta a dirgli con fermezza<br />

che il padre era meglio lasciarlo fuori da quella storia.<br />

– Perché? – mi rispose. E pareva sorpreso. – Perché<br />

non dovrei chiedergli di aiutarci a salvare una vita umana?<br />

Non è forse quello che tu cerchi di fare ogni giorno<br />

col tuo lavoro?<br />

– Ma se Oreste fosse colpevole? – azzardai, incerta.<br />

222<br />

– Si tratta di sapere che cosa s’intende per colpevole,<br />

– rispose.<br />

– Colpevole… di ciò di cui lo accusano… Ti sembrerebbe<br />

giusto aiutarlo?<br />

– E perché no? A chi credi che gioverebbe tenere un<br />

ragazzo come lui in carcere? Non penserai che se lo rimettono<br />

in libertà, rifarà ciò che ha fatto!<br />

– Fatto? – ripetei come un’ebete, per darmi tempo<br />

di riprendere fiato e pensare.<br />

– Sì! fatto! Ma a prescindere da ciò, ti pare che Oreste<br />

sia una persona pericolosa che occorre isolare? Perché,<br />

naturalmente, l’unica giustificazione per privare<br />

un essere umano della sua libertà è quella di impedirgli<br />

di continuare a essere pericoloso e nocivo a sé e<br />

agli altri.<br />

Si volse per trasportare la valigia che era rimasta vicino<br />

alla porta, e sembrava quasi che considerasse chiusa<br />

la discussione.<br />

– Ma, Oreste… – cominciai a dire, all’improvviso<br />

tentata di provare a fargli credere che Oreste non aveva<br />

ucciso. Per fortuna non mi lasciò terminare.<br />

– Oreste ha ucciso un uomo, e ha fatto male, e soprattutto<br />

ha fatto molto male chi gli ha chiesto di uccidere.<br />

Ma a che cosa e a chi servirebbe tenerlo in carcere?<br />

– Dunque lo sapevi… – non mi trattenni dal dire.<br />

– Certo che lo sapevo. Perché non avrei dovuto saperlo?<br />

Non riuscivo a capire, non riuscivo a credere:<br />

223


– Sapevi e… lo vuoi aiutare… Non ti pare che sia<br />

giusto che… paghi.<br />

Lorenzo mi gettò un’occhiata di sbieco, mentre si<br />

chinava per aprire la valigia che aveva posato sul letto.<br />

– Giusto che paghi?… Ma di che cosa stai parlando?<br />

Che cosa credi che la società o l’umanità ci guadagnerebbero<br />

a farlo marcire in carcere, e corromperlo…<br />

uno come Oreste?<br />

Era davvero “farlo marcire in carcere” ciò che io volevo?<br />

O che cosa volevo? e che cosa voleva Lorenzo,<br />

l’uomo di un’altra civiltà?<br />

– Ma allora, secondo te, se uno ha ucciso… ma in<br />

fondo non è cattivo… uno non merita di essere punito?<br />

– Punito? – sembrava sorpreso di quella parola. Senza<br />

smettere di armeggiare con la roba che estraeva dalla<br />

valigia, si volse di nuovo a guardarmi. Dopo una<br />

pausa piuttosto lunga, disse:<br />

– Credi davvero che la paura della punizione possa<br />

trattenerci dal commettere un delitto, se non ci sono<br />

altri motivi per impedirci di commetterlo? E credi che<br />

tutti noi che proviamo a comportarci bene lo facciamo<br />

perché abbiamo paura delle punizioni? Son sicuro che<br />

non è questo che pensi…<br />

Qualcosa mi si stava sbriciolando dentro, e nel panico<br />

diventavo aggressiva, illogica.<br />

– La legge… la giustizia, perché ci sarebbero? Non<br />

contano nulla, allora? Secondo te son cose elastiche, da<br />

prendere o lasciare a seconda dell’umore?<br />

224<br />

– Questo non l’ho mai detto! – mi rispose vivacemente,<br />

ma senza alzare la voce.<br />

– Purché non ci si prenda l’abitudine, e non lo si faccia<br />

per cattiveria dunque secondo te si avrebbe anche<br />

il diritto d’uccidere…<br />

Tentavo l’ironia, e sentivo con disperazione la falsità<br />

delle mie parole. Ma la consapevolezza della mia stessa<br />

insincerità aumentava la mia violenza.<br />

– Bravi, bravi, uccidete pure… ma non più di una<br />

volta!<br />

Lorenzo continuava a riordinare la sua roba, mettendo<br />

nei cassetti e nell’armadio gli indumenti puliti,<br />

nella sacca della lavanderia la biancheria usata. Senza<br />

guardarmi, senza rispondere. Come se neppure mi<br />

ascoltasse.<br />

Il suo silenzio mi rendeva impotente e aumentava la<br />

mia esasperazione.<br />

– E questa sarebbe giustizia secondo te? Davvero<br />

una bella giustizia, ti assicuro!<br />

C’era in tutto ciò che dicevo una veemenza e un’aggressività<br />

che non avevo premeditato e che mi confondevano.<br />

– La legge è scritta dagli uomini e per gli uomini, e<br />

la giustizia ha molti aspetti.<br />

Rispose finalmente, quasi sottovoce, con tono neutro<br />

e come se non avesse colto la mia aggressività.<br />

Stava mettendo la valigia nello scomparto più alto<br />

dell’armadio e lo vedevo di spalle, con le braccia tese e<br />

alzate. Il suo dorso lungo e muscoloso nella camicia di<br />

225


cotone chiaro mi dava voglia d’abbracciarlo, di sentire<br />

la sua forza e il suo tepore. Ma anche il desiderio si trasformava<br />

in aggressività disperata.<br />

– Sei tu che lo dici! La giustizia non ha molti aspetti,<br />

la giustizia è molto semplice, la giustizia è che chi<br />

rompe paga!<br />

La mia voce era stridula e di alcuni toni troppo alta.<br />

Me ne vergognai, e mi vergognai della banalità di ciò<br />

che stavo dicendo.<br />

Lorenzo si volse e mi guardò direttamente in viso,<br />

come sorpreso della mia agitazione.<br />

– Questo tuo concetto della giustizia non è diverso<br />

da quello che ha armato la mano di Oreste. Anche Oreste,<br />

e soprattutto la madre e tutta la tradizione dietro<br />

di lei, ritengono che ‘chi ha rotto deve pagare’. E quando<br />

polizia, carabinieri e magistrati non sono in grado<br />

di ‘far pagare’, son loro, i colpiti, che devono ristabilire<br />

questa famosa ‘giustizia’, quest’equilibrio pseudodivino<br />

tra le cosiddette colpe e le pene. La civilissima<br />

legge del taglione: occhio per occhio, dente per dente.<br />

A me, francamente, quest’equilibrio sublime, questa<br />

giustizia, mi fanno orrore.<br />

Il suo tono non era aggressivo, e la voce continuava<br />

a essere bassa e calma. Ma le sue parole mi colpirono<br />

come una gragnuola di schiaffi. Lo guardavo terrorizzata,<br />

senza riuscire a parlare. Era la prima volta che litigavamo,<br />

se era quello che stavamo facendo, e mi<br />

parve che un enorme abisso si stesse spalancando tra<br />

noi. E questo per colpa di Oreste, e di sua madre, e di<br />

226<br />

mia madre, e di tutto quello sporco mondo che anche<br />

io dunque, secondo Lorenzo, mi portavo dentro e rappresentavo<br />

proprio nel momento in cui credevo di<br />

combatterlo.<br />

Ero atterrita, ma non riuscivo a fermarmi:<br />

– Spiegami allora quale sarebbe il tuo concetto di<br />

giustizia. Sarebbe che nessuno è responsabile di niente<br />

e che chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato…<br />

Mi sarei presa a schiaffi per la banalità delle parole<br />

che mi stavano uscendo di bocca, e per la rozzezza del<br />

pensiero che esprimevano. Se c’era un pensiero.<br />

Ma continuai senza riuscire a frenarmi, come se corressi<br />

giù per una discesa che mi portava direttamente<br />

nel fondo di un burrone dal quale non sarei mai più<br />

potuta risalire e nel quale fra un attimo mi sarei sfracellata.<br />

– Che ognuno faccia quello che gli sembra giusto<br />

fare, tanto tutto è indifferente. La giustizia non esiste,<br />

la legge è fatta dagli uomini e per gli uomini e perciò<br />

ognuno se la può aggiustare a modo suo. Chiudiamo i<br />

tribunali, mandiamo in pensione tutti i giudici e i poliziotti<br />

e apriamo le carceri, per fare un mondo più<br />

bello e più giusto… per i delinquenti. È questo che<br />

vuoi?<br />

Mi ero messa a gridare, ma rifiutavo dentro di me<br />

ognuna delle parole che mi sentivo pronunziare. Sapevo<br />

di essere ingiusta e volgare, ma mentre la disperazione<br />

e l’impotenza crescevano, soffocandomi e annebbiandomi,<br />

non riuscivo a cambiare tono. Sapevo di<br />

227


accusarlo di cose insensate, ma continuavo come se<br />

un’altra persona parlasse per bocca mia.<br />

Se Lorenzo in quel momento non fosse venuto ad abbracciarmi,<br />

forse mi sarei buttata per terra, o forse<br />

avrei cominciato a scagliare oggetti, o forse sarei scoppiata<br />

a piangere. O forse avrei fatto tutte queste cose<br />

insieme e altre più o meno folli e disperate. Ma quando<br />

mi posò le mani sulle spalle e mi guardò direttamente<br />

negli occhi, tornai in me. Per un momento il<br />

mio orgoglio mi costrinse a irrigidirmi, a rifiutarmi.<br />

Subito dopo però il mio corpo non poteva far a meno<br />

di abbandonarsi al suo con la devota docilità di sempre.<br />

– Sì, perché no?… Un mondo più bello e più giusto<br />

anche per i delinquenti, che sono i più disgraziati<br />

di tutti!<br />

– Sarebbe bello chiudere le carceri e rendere superflui<br />

i giudici e i poliziotti… – continuava a dire, tenendomi<br />

fra le braccia e parlandomi all’orecchio, come<br />

se mi stesse confidando un segreto. – Renderli superflui<br />

col creare una società più giusta e più civile, più<br />

allegra e costruttiva, non vendicativa ma soccorrevole…<br />

Non ti pare che la nostra casa, la nostra famiglia,<br />

fossero un luogo ben migliore di un carcere per recuperare<br />

Oreste alla felicità?<br />

Aveva detto “la nostra casa”, “la nostra famiglia”, e in<br />

quel momento ciò mi parve la cosa più importante di<br />

tutto il suo discorso.<br />

– Non capisci che per tutti noi, e anche per quel po-<br />

228<br />

vero ragazzo, è della felicità che si tratta? Che la giustizia<br />

senza la felicità è tetra e morta?<br />

Tenendoci abbracciati eravamo finiti sul letto e continuava<br />

a dirmi quelle strane cose, senza smettere di<br />

carezzarmi. Anch’io, con dita impazienti e annaspanti<br />

lottavo con la fibbia della sua cintura, impedita dal<br />

mio stesso bisogno di far presto. Ciò che diceva avevo<br />

rinunziato a capirlo.<br />

229


L’avvocato Strofio<br />

L’avvocato Strofio era stato compagno di liceo e amico<br />

di babbo tutta la vita. Durante la mia infanzia l’avevo<br />

visto spesso, quando veniva a Trezene in occasione<br />

di qualche processo in Corte d’Assise, e babbo<br />

insisteva perché fosse nostro ospite. Babbo era di poche<br />

parole e non gli piaceva ripetere le cose risapute,<br />

ma quando l’avvocato Strofio ripartiva, mamma non<br />

finiva di tesserne le lodi: per la signorilità dei modi,<br />

per l’eloquenza, l’abilità, ma anche per l’onestà e l’impegno<br />

civile e politico.<br />

Non c’era tra lui e noi una vera e propria parentela,<br />

ma sin da bambina mi ero abituata a considerarlo come<br />

una specie di zio.<br />

Per la sua elezione a senatore aveva avuto anche il<br />

mio voto e quello di Lorenzo. E naturalmente quello<br />

di mamma che, nel suo entusiasmo poco c’era mancato<br />

che non si mettesse in giro a fargli la campagna elettorale.<br />

Seppi solo all’ultimo momento, il giorno prima del<br />

suo arrivo, e quando un colloquio con lui era inevita-<br />

231


ile, che mamma l’aveva convinto a prendere le difese<br />

di Oreste e che lui aveva chiesto di parlarmi per chiedermi<br />

di deporre in suo favore.<br />

Il mio libro era uscito da qualche mese e il ricordo<br />

di quel mio cosiddetto eroismo professionale era ancora<br />

fresco. Ero sicura che erano queste circostanze che<br />

l’avvocato Strofio voleva sfruttare in favore del suo patrocinato.<br />

Ma io ero decisa a rifiutarmi di deporre.<br />

Avevo degli ottimi ricordi di Oreste, come persona.<br />

Ricordavo anche la tenerezza che mi faceva e ripensavo<br />

qualche volta alle sue manine deturpate da quelle escrescenze<br />

che probabilmente erano il solo cedimento che<br />

il suo essere si permettesse verso un sentimento di colpa.<br />

Ma io disgraziatamente lo sapevo colpevole del delitto<br />

di cui lo si accusava. Io non volevo prestarmi a<br />

nuove ingiustizie.<br />

Dal giorno in cui, fra due carabinieri in uniforme,<br />

era uscito dalla mia casa e, almeno relativamente, dalla<br />

mia vita, erano passati anni. Oreste doveva ormai<br />

avere una quindicina d’anni o forse più, ma non riuscivo<br />

a immaginarmelo cresciuto.<br />

Dopo il primo periodo nel carcere di Trezene, era<br />

stato inviato a un carcere minorile. Probabilmente a<br />

C. o a S., se a C., o a S. c’è un carcere minorile. Ho ricordi<br />

e conoscenze confusi di ciò che realmente avvenne.<br />

Forse riuscii veramente a filtrare le informazioni,<br />

come mi ero proposta di fare per non lasciarmi<br />

coinvolgere. O forse qualche meccanismo psichico di<br />

232<br />

censura che allora si mise in moto, ancora non ha<br />

smesso di funzionare e di offuscare la mia memoria.<br />

So che ci furono due processi. L’ultima condanna era<br />

stata a venticinque anni di carcere, per omicidio premeditato.<br />

Non so se gli erano state concesse delle attenuanti o<br />

se poteva sperare in speciali condoni per la giovane<br />

età. La sola cosa che sapevo e so con certezza è che era<br />

stato irremovibile nel dichiararsi innocente. Certe volte,<br />

ascoltando di sfuggita i racconti e i commenti che<br />

mamma, Euriclea e talvolta anche Lorenzo ne facevano,<br />

mi domandavo se magari io non avessi frainteso<br />

tutto sin da principio e Oreste davvero non avesse<br />

commesso quel delitto.<br />

Ma cercavo d’estraniarmi quanto potevo, e i miei ricordi,<br />

o non ricordi, di quanto gli accadde in quegli<br />

anni sono più che altro supposizioni a posteriori. Una<br />

volta per tutte avevo deciso di continuare a vivere a<br />

Trezene, per non lasciare mamma sola e anche perché<br />

Lorenzo era contento di starci. Ma non volevo, a nessun<br />

costo, lasciarmi coinvolgere emotivamente da<br />

quella società alla quale mi sentivo estranea e in mezzo<br />

alla quale, non per mia scelta, ero nata e le circostanze<br />

m’obbligavano a vivere.<br />

Avevo deciso di continuare a viverci, ma mi ero proposta<br />

di viverci a modo mio. Mi ero proposta di seguire<br />

le orme di babbo esercitando meglio che potevo<br />

la mia professione, continuando le sue ricerche e organizzandole<br />

in un libro che m’auguravo avesse qualche<br />

233


validità scientifica e fosse un dovuto omaggio alla sua<br />

memoria. E mi ero proposta di vivere meglio che potevo<br />

la mia felicità privata con Lorenzo, di proteggerla<br />

dalle troppe minacce che anche il problema Oreste conteneva<br />

per la nostra armonia. Questo era tutto. Non<br />

c’era posto in questo mio spazio personale per il mondo<br />

fosco e anacronistico di cui Dolomè e comare Solinas<br />

e Oreste e tutti loro erano dei sopravvissuti, atroci<br />

campioni.<br />

Ma l’iniziativa di mamma di chiedere all’avvocato<br />

Strofio di patrocinare la causa di Oreste, e il colloquio<br />

che lui aveva chiesto d’avere con me, mi avevano di<br />

nuovo gettato nel dilemma e nell’angoscia. Mi pareva<br />

che una mia deposizione, naturalmente a favore del<br />

ragazzo, perché altro non era pensabile, avrebbe inevitabilmente<br />

coinvolto oltre che la mia coscienza anche<br />

Lorenzo e la sua famiglia. E questo non mi pareva<br />

giusto.<br />

Non era giusto! Qualunque cosa lui stesso ne pensasse,<br />

non mi pareva giusto che anche lui venisse catturato<br />

in questa rete di barbarie e di omertà nella<br />

quale tutti evidentemente, volenti o nolenti, prima o<br />

poi, in questo nostro arretrato paese siamo costretti a<br />

cadere. Ma lui era solo in piccola parte dei nostri, e<br />

perciò ancora di più la cosa mi pareva inaccettabile.<br />

Ma per la fusione dei nostri esseri, che a quei tempi<br />

ancora mi pareva realizzabile, tutte quelle cose taciute<br />

o tenute allo scarto, erano state la grande menzogna, il<br />

234<br />

grande ostacolo. Il lavoro al libro, l’aiuto che gli avevo<br />

chiesto e che mi aveva dato per risolvere i miei dubbi,<br />

i nostri scambi d’idee a quel proposito, erano forse<br />

stati solo dei surrogati di un’altra sincerità impossibile.<br />

Alibi.<br />

Perciò mi ero proposta di rifiutare la mia collaborazione<br />

all’avvocato Strofio.<br />

Quando arrivò, doveva già essere stato informato da<br />

mamma delle mie intenzioni e dei miei sentimenti riguardo<br />

a Oreste e al delitto di cui era accusato e di cui<br />

io lo sapevo colpevole.<br />

I suoi argomenti per convincermi a deporre in suo<br />

favore non furono sostanzialmente diversi da quelli<br />

che anni prima Lorenzo aveva usato, quando mi aveva<br />

accusato d’essermi fermata anch’io alla barbarica legge<br />

del taglione.<br />

– C’interessa una giustizia astratta a cui a ogni<br />

‘colpa’ corrisponde una ‘pena’, distribuita ciecamente,<br />

con una benda sugli occhi e una fredda bilancia in<br />

una mano e una spada vendicativa nell’altra, – mi domandava,<br />

– o ci interessa creare un mondo in cui le<br />

risorse, anche e soprattutto le umane, non vengano<br />

sprecate e distrutte in omaggio a ‘princípi’ che abbiamo<br />

stabilito una volta per tutte ma che non sempre<br />

sono validi?<br />

– Ma se si comincia a fare delle eccezioni… – avevo<br />

provato a replicare.<br />

– Non parlo di eccezioni, – mi aveva interrotto. –<br />

235


Parlo della necessità di avere gli occhi aperti e di<br />

guardare davvero nella bilancia, senza troppa fretta di<br />

usare la spada! Tu sai quanto e forse meglio di me che<br />

persona sia Oreste, tu sai che non è un sanguinario,<br />

che è un mite. Tu sai che Oreste è un ragazzo onesto<br />

e capace di vivere onestamente. Se non ci mettiamo<br />

noi a guastarlo. Tu sai anche che Oreste sino ad ora è<br />

stato una vittima, anche nel delitto di cui lo si accusa<br />

e di cui lo si fa responsabile, e che ha diritto a non esserlo<br />

più. Che ha diritto come tutti a una vita creativa<br />

e normale dove le sue buone qualità possano dar<br />

frutto. Credi che il carcere potrebbe dargliela, questa<br />

vita di cui ha bisogno e a cui ha diritto?<br />

Avevo difficoltà a trovare una risposta valida. Quella<br />

della giustizia superiore, del concetto socratico della<br />

legge, mi pareva in confronto alle argomentazioni che<br />

lui portava, altisonante e vuota. E ciò che cominciavo<br />

a vedere dentro di me era un caos in cui assiomatiche<br />

speranze e totalitari, retorici e astratti ideali si mescolavano<br />

tetramente a un mascherato, egoistico bisogno<br />

di quieto vivere. Capivo perché Pilato si era lavato<br />

le mani, quella volta. La legge del taglione forse<br />

gli repugnava, perché era un uomo relativamente civile.<br />

Ma accettava che altri l’applicasse, forse perché<br />

provare a impedirlo gli sarebbe costato una decisione<br />

rischiosa e perciò difficile da prendere. O forse perché<br />

neanche lui era riuscito a vedere chiaro dentro di sé.<br />

– Naturalmente non ti chiedo di deporre il falso, né<br />

di dire qualcosa che sia contro la tua coscienza. Nes-<br />

236<br />

suno, né i giudici né gli altri avvocati, ti chiederà se<br />

Oreste ha ucciso o non ha ucciso. Ciò che tu sai o non<br />

sai, a quel riguardo, non può in alcun modo costituire<br />

prova della sua colpevolezza o innocenza, e nessuno ti<br />

farà domande a questo proposito. Ciò che io ti chiedo<br />

di raccontare è solo ciò che tu personalmente hai avuto<br />

modo di osservare di lui. Non dovrai dire niente che<br />

tu non abbia visto con i tuoi occhi o sentito con le tue<br />

orecchie. Ciò che ti chiedo è di descrivere il ragazzo<br />

che per quasi un anno ha abitato a casa tua. Non ti<br />

chiedo neppure, e nessuno ti chiederà dei giudizi su di<br />

lui. Ma se qualcuno contro le mie previsioni ti chiedesse,<br />

puoi rifiutare di rispondere. Devi solo provare a<br />

ricordare com’era, quali mansioni aveva qui da voi e<br />

come le esplicava. Non voglio sapere che cosa sceglierai<br />

di dire e non ti sto chiedendo di voler essere convincente<br />

in favore del ragazzo. Ti chiedo solo di dire la<br />

verità: com’era, come si comportava nella vita quotidiana<br />

quel ragazzo, Oreste, che anni fa era al vostro<br />

servizio? Questo è tutto quello che ti chiedo per salvare<br />

una vita umana.<br />

Quali argomenti avrei potuto portare per rifiutarmi?<br />

Quello del rispetto socratico della legge o quello del<br />

mio egoismo? Del mio desiderio d’essere tenuta fuori<br />

dalla preistoria che ancora ci era contemporanea? Una<br />

preistoria che forse anch’io mi portavo dentro più di<br />

quanto non mi fosse gradito pensare e che perciò così<br />

appassionatamente respingevo?<br />

237


Giudicati e pregiudicati<br />

Lorenzo mi era stato vicino, durante il viaggio, e<br />

prima, e sino al momento della deposizione, quando<br />

ero stata isolata nella saletta dei testimoni dove lui non<br />

aveva il permesso d’entrare. E dopo.<br />

Ora mi teneva per l’omero, sorreggendomi un poco,<br />

mentre scendevamo le scale monumentali e tetre del<br />

Palazzo di Giustizia.<br />

Quando uscimmo sulla piazza ci avvolse una vampata<br />

di caldo. Ormai era quasi l’una. La luce era accecante.<br />

Nell’aria, mescolato al gas dei motori, mi parve<br />

di sentire un profumo. Un profumo dolce di acacie,<br />

forse, o di tigli. Mi sentivo vuota, o per meglio dire<br />

svuotata. Come dopo una consistente donazione di sangue.<br />

L’immagine mi colse alla sprovvista e cercai di scacciarla.<br />

Avevo capogiro, e un nuovo assalto di nausea mi<br />

fece incollare la lingua al palato, e mi costrinse a chiudere<br />

spasmodicamente la gola.<br />

Non avevo osato fare diagnosi. Da settimane avevo<br />

cercato di non pensarci. Mi ero sforzata d’isolare i sintomi<br />

e i malesseri dalla totalità della mia persona.<br />

239


Quando avevo capogiro ero “una che aveva capogiro”,<br />

quando avevo nausea ero “una che aveva nausea”, che il<br />

mio peso calasse significava solo che ero “una il cui<br />

peso calava”…<br />

Il malessere era cominciato una decina di giorni<br />

prima, forse due settimane… Aveva più o meno coinciso<br />

col mio consenso a deporre. E c’era anche l’altro<br />

sintomo, quello dell’amenorrea, molto giustificato<br />

dallo stato miserando dei miei nervi di fronte alla prova<br />

che mi attendeva. Ma ogni sintomo poteva essere una<br />

somatizzazione del mio malessere verso quella deposizione<br />

che una parte di me aveva cominciato a ritenere<br />

giusta, o giustificabile, e un’altra rifiutava violentemente.<br />

E la violenza quasi scomposta del rifiuto era<br />

solo segno della debolezza della mia parte legalitaria.<br />

L’autodiagnosi psicosomatica era il massimo che mi<br />

fossi concessa. Ma il mio male poteva essere un’ulcera…<br />

o quel che è peggio. E né l’ulcera, né l’altro, il<br />

cancro - perché questa paura superstiziosa di dare un<br />

nome alle cose che ci minacciano? - contraddicevano<br />

l’ipotesi psicosomatica. Ora che ero a Roma e che la<br />

deposizione era stata fatta, dovevo in ogni caso consultare<br />

il professor Giusti, che era stato mio maestro<br />

a Milano, e che non mi avrebbe nascosto la verità.<br />

Quel profumo di fiori diventava più forte ora che<br />

avevamo attraversato la strada che circonda le aiuole<br />

alberate e ci trovavamo nell’ombra caldo-umida degli<br />

alberi al centro della piazza. Forse non era profumo di<br />

acacie, né di tigli, né di gelsomini, né di altra pianta<br />

240<br />

da me conosciuta. Forse era il profumo delle siepi attorno<br />

al monumento. La testa mi girava, avevo nausea.<br />

Voglia di vomitare. Respirai profondamente. Lorenzo<br />

mi circondava le spalle col braccio e mi sorreggeva.<br />

– Ti senti male? Sediamoci un momento. C’è un<br />

caffè, lì, dietro l’angolo… possiamo prendere qualcosa…<br />

Ce la fai?<br />

Le sue parole mi arrivavano come da un’enorme distanza.<br />

L’aria era spessa, irrespirabile. Vibrava in larghe<br />

onde concentriche. E quel profumo intenso, nauseante.<br />

Nella saletta dei testimoni, l’odore di cuoio grezzo<br />

unto di sego, l’odore di capra, l’odore selvatico dei pastori,<br />

mozzava il fiato. Sedevano quasi a contatto di<br />

gomito, tutti sulla stessa panca, sulla parete lunga a<br />

destra della porta. Due di loro sedevano per terra, con<br />

i gomiti sulle ginocchia piegate e il berretto a visiera<br />

calato sugli occhi. Sembravano non aver dormito da<br />

molto. Chissà quando si erano spogliati e lavati l’ultima<br />

volta. Io avevo avuto una sedia, e perciò sedevo<br />

più in alto, come su un trono.<br />

La saletta dei testimoni così piccola e miserabile.<br />

Ancora più piccola e miserabile in confronto alla spaziosità<br />

schiacciante degli androni, delle scale, e poi<br />

dell’aula dove il processo si svolgeva e dove a uno a<br />

uno venivamo chiamati a testimoniare. Io ero l’unica<br />

donna. A parte una poveretta che tremava in tutto il<br />

corpo, stringendosi in uno scialle nero scolorito.<br />

L’aria dello stambugio dei testimoni era densa del<br />

241


loro odore d’ovile. Difficile respirare. La nausea era ritornata<br />

in quel momento, o forse poco prima, quando<br />

ero rimasta sola con l’usciere che mi aveva accompagnato.<br />

Anche l’usciere aveva odore di sudore, di sporco,<br />

un altro sporco, di sudore rancido, un odore diverso<br />

da quello dei pastori, ma non meno nauseante.<br />

Lorenzo mi aveva abbracciato, prima di lasciarmi nella<br />

zona dove a lui non era permesso entrare. “Ingresso<br />

vietato agli estranei”. Lui era l’estraneo, e io ero la testimone,<br />

la coinvolta. Ma era solo una scelta dell’avvocato,<br />

o del caso che, con la pubblicazione del libro di babbo e<br />

quella storia della mia cosiddetta azione eroica, proprio<br />

in quei mesi aveva dato a me e non a Lorenzo, una certa<br />

notorietà. Altrimenti, per ciò che ero chiamata a dire,<br />

lui poteva testimoniare anche meglio di me. Io non ero<br />

lì per dire ciò che sapevo, ero lì tanto per esserci, per tacere<br />

ciò che sapevo e per parlare d’altro.<br />

Non bugie, naturalmente, la verità. L’avvocato Strofio,<br />

nobilissima persona, non avrebbe chiesto a me, altra<br />

nobilissima persona, di testimoniare il falso. Solo di<br />

tacere la verità e di parlare d’altro. Anche quegli uomini<br />

dall’odore di sego e di capra erano lì per dire la verità.<br />

Alcuni di loro una verità diversa dalla mia, contraria a<br />

quella che io ero chiamata a recitare, ma verità. Anche<br />

loro però avrebbero, come me, recitato solo una parte di<br />

essa, e ne avrebbero taciuto l’altra. La differenza era che<br />

la loro parte di verità era pertinente alla causa, la mia era<br />

pertinente alla persona. E i giudici, dovevano giudicare<br />

della causa o della persona?<br />

242<br />

La testa mi girava. Attraverso la seta del vestito, sentivo<br />

il freddo della panchina sulla quale ci eravamo seduti.<br />

Lorenzo continuava a parlarmi, tenendomi quasi<br />

abbracciata e carezzandomi. Non so che cosa diceva.<br />

C’era uno strato di nebbia attorno a me che mi isolava.<br />

In certi momenti ero di nuovo nella saletta dei testimoni.<br />

In altri ero ancora davanti ai giudici che si sporgevano<br />

dai loro scranni per osservarmi e ascoltarmi.<br />

Forse la mia voce era troppo bassa. Ma non potevo<br />

mettermi a gridare. Lo sforzo era stato soprattutto<br />

quello di non vomitare, nell’aria chiusa e maleodorante<br />

della saletta dei testimoni. Non riuscivo a concentrarmi,<br />

a pensare a ciò che mi avrebbero chiesto, a<br />

prepararmi le risposte. L’avvocato mi aveva spiegato.<br />

Mi aveva detto che non dovevo essere nervosa, che<br />

tutti sarebbero stati gentili con me, che nessuno mi<br />

avrebbe domandato niente d’imbarazzante.<br />

Davanti ai giudici, in quell’aria più pulita, con la<br />

luce che entrava dalle finestre ampie, mi sentii rinfrancata,<br />

di nuovo padrona di me. Avevo dimenticato<br />

la nausea, e il capogiro era passato.<br />

Ciò che dicevo era vero. Ciò che mi domandavano<br />

non aveva niente a che fare con le altre cose che pure<br />

sapevo, ma che nessuno sembrava interessato a sentirmi<br />

dire. Non era nel mio ruolo metterle sul tappeto.<br />

Io avevo le mie battute, i giudici e gli avvocati<br />

avevano le loro. Fisse, come in un dramma teatrale.<br />

Eravamo attori che recitavano le battute che il regista<br />

ci aveva assegnato. Ognuno aveva la sua parte, e<br />

243


una parte non più veritiera o nobile di un’altra. Ogni<br />

parte è ugualmente nobile e necessaria e ogni battuta,<br />

in quanto necessaria allo svolgimento del dramma,<br />

ugualmente vera.<br />

Jago, Otello, Desdemona… se non come persone,<br />

come personaggi tutti sono ugualmente nobili e necessari,<br />

nessuno di loro sarebbe qualcosa senza l’altro,<br />

e nessun attore mente quando pronunzia le battute<br />

che gli sono state assegnate perché necessarie allo svolgimento<br />

del dramma. La battuta che lo scrittore ha<br />

messo loro in bocca è la sola verità che conti e l’attore<br />

deve pronunziarla con convinzione e per convincere,<br />

come la verità che è. La verità che lo scrittore ha scelto.<br />

Una delle molte possibili, certo. Ma quella. Qualunque<br />

esitazione o trasgressione rovinerebbe il delicato e<br />

magico meccanismo del dramma.<br />

L’avvocato difensore mi aveva presentato dicendo,<br />

con una retorica che in quel momento mi lusingò, che<br />

“ogni presentazione era superflua, perché ormai tutti<br />

in Italia conoscevano la giovane e brillante ricercatrice,<br />

la donna generosa, la dottoressa che…” etc. etc.<br />

Nessun regista mi aveva preparato ma d’istinto<br />

scelsi di non abbassare gli occhi per fingere modestia.<br />

Guardai nel vuoto, cercando di non cambiare espressione,<br />

di non sorridere, per esempio. Di fare come se le<br />

parole dell’avvocato non mi riguardassero. Come se le<br />

lodi che continuava a tessermi e la rievocazione di<br />

quell’operazione azzardata o disperata, che lui definiva<br />

“brillante”, “eroica sino al totale sacrifizio di sé” - ma<br />

244<br />

che io sapevo che solo per la bontà del destino non si<br />

era conclusa in una doppia tragedia - non mi riguardassero<br />

neanche un poco.<br />

Quell’operazione che avevo fatto quasi senza pensare<br />

a ciò che stavo facendo, come se fosse inevitabile e indipendente<br />

dalla mia volontà, io la consideravo eticamente<br />

indifferente e professionalmente forse sbagliata,<br />

ma in quel momento la rivivevo nella descrizione che<br />

l’avvocato ne stava facendo come se fosse stata il risultato<br />

di una razionale e generosa volontà di sacrifizio,<br />

un atto eroico nella mia professione.<br />

Mi permisi però un calcolatamente breve battito di<br />

ciglia e strinsi un po’ le labbra, come per frenare una<br />

piena di sentimenti che in quel momento non provavo<br />

ma sapevo di “dover” provare, quando l’avvocato passò<br />

a tessere le lodi di babbo, “il medico dei poveri”, “il<br />

santo laico”, “lo scienziato”, “il francescano”…<br />

Io ero lì, con un bel ruolo e con la sensazione di poterlo<br />

recitare bene. Fredda e intelligente, elegante nel<br />

mio bell’abito di seta verde. Intorno a me l’aria era leggermente<br />

profumata di colonia. Io non emanavo l’odore<br />

acre e sgradevole degli altri testimoni. Immancabilmente<br />

la mia persona doveva dare un’impressione<br />

di pulizia. Di pulizia fisica e morale.<br />

Quando si passò all’interrogatorio, la mia voce era bassa<br />

ma sicura. Continuavo a recitare e a sentirmi recitare.<br />

Sì, conoscevo l’imputato. Era stato al nostro servizio,<br />

dal febbraio del 1968 all’ottobre dello stesso anno,<br />

quando era stato arrestato… aggiunsi abbassando an-<br />

245


cora di più la voce, come per nascondere l’emozione che<br />

quella parola mi dava.<br />

Era un ragazzo molto diligente, rispettosissimo e<br />

molto religioso. Raccontando l’episodio del cavallo che<br />

gli era stato proibito di montare e del suo rifiuto al<br />

giuramento perché “Dio ci vieta di giurare”, ero fiera<br />

del mio talento d’attrice. Sapevo anche d’essere carina<br />

e che il vestito mi donava. Giudici e avvocati, tutti<br />

maschi, non mi staccavano gli occhi di dosso. Non so<br />

neppure se stavano ascoltando le sciocchezze con le<br />

quali li stavo intrattenendo. Probabilmente stavano solo<br />

ascoltando la mia voce. Voce di donna giovane e beneducata,<br />

una signora della loro stessa classe sociale. E<br />

guardavano con malcelata curiosità e desiderio il viso<br />

e il corpo di quella giovane donna così delicata, forse<br />

anche ingenua, ma così coraggiosa e generosa, etc. etc.<br />

Mi parevano piuttosto miserandi.<br />

Mi specchiavo nel loro sguardo fisso, e senza alcuno<br />

sforzo recitavo il personaggio che l’avvocato con la<br />

sua presentazione mi aveva praticamente chiesto di<br />

recitare. L’avvocato mi lasciava parlare quasi a ruota<br />

libera, poi faceva altre domande e nelle mie risposte,<br />

tutte veritiere, naturalmente, la descrizione del ragazzo<br />

e del suo comportamento nei mesi che era stato al<br />

nostro servizio, era soprattutto la descrizione, ad usum<br />

delphini, di una buona, solida, onesta, rispettabile famiglia<br />

borghese di provincia. Mamma, la vedova del<br />

medico adorato dai suoi pazienti, Lorenzo, il giovane<br />

veterinario quasi milanese (non parlai del padre ma-<br />

246<br />

gistrato perché sarebbe stata una nota falsa e perché<br />

tutti nell’aula erano già informati) e io, la dottoressa<br />

che umilmente seguiva le orme del padre…<br />

Ma noi eravamo lo sfondo, solo lo sfondo, sul quale<br />

si stagliavano le virtù del ragazzo.<br />

– Era diventato una specie di piccolo factotum. Non<br />

aveva pregiudizi, ci aiutava ugualmente bene nelle<br />

faccende domestiche, nei lavori di cucina per esempio,<br />

come nell’ambulatorio e nel lavoro veterinario di mio<br />

marito. Imparava facilmente e in poco tempo era diventato<br />

un domestico finito. Sapeva apparecchiare con<br />

grazia e serviva a tavola con discrezione e precisione.<br />

Aiutava mia madre nei lavori di giardinaggio e teneva<br />

in ordine il mio ambulatorio medico e quello di mio<br />

marito. Nelle sue ore libere leggeva molto. Leggeva i<br />

quotidiani e i libri adatti alla sua età che mia madre<br />

gli metteva a disposizione. Libri che erano stati miei e<br />

che io stessa avevo letto quando avevo la sua età. La capanna<br />

dello zio Tom, i romanzi di Dickens, di Mark<br />

Twain, di Jules Verne, di Salgari… Si esercitava anche<br />

a scrivere. Poesie… credo. Ma era molto riservato e…<br />

umile.<br />

Prima di pronunziare la parola “umile” avevo fatto<br />

una breve pausa calcolata, come se fossi incerta della<br />

sua giustezza. Recitavo, ed ero conscia di recitare bene.<br />

La nausea e i capogiri erano passati e dimenticati,<br />

quello era il momento del mio trionfo. Il ragazzo<br />

chiuso nella grande gabbia degli accusati non lo guardavo<br />

e non lo pensavo, quello di cui parlavo era un al-<br />

247


tro, un’astrazione, un’invenzione, quasi. Lui, il processo<br />

e, forse, la sua assoluzione erano la causa e lo scopo<br />

ufficiale della mia performance, ma in quel momento,<br />

mentre poteva sembrare che di nuovo generosamente<br />

mi adoperassi per salvare una vita umana, per la giustizia,<br />

per la verità, io ero solo concentrata a “fare bene”<br />

ciò che mi era stato chiesto di fare, a recitare bene<br />

il mio ruolo che consisteva fra l’altro nell’affascinare<br />

quegli uomini che pendevano dalle mie labbra.<br />

Non so che cosa venne chiesto agli uomini in fustagno<br />

verde e puzzolenti di sego e di capra. Nessuno di<br />

loro era figlio di un distinto professionista, nessuno di<br />

loro era apparentato con un giudice, nessuno di loro<br />

aveva pubblicato un libro, nessuno di loro aveva un titolo<br />

di studio, nessuno di loro aveva fatto un’operazione<br />

azzardata e quasi criminale che, per il buon risultato<br />

che aveva dato, ora veniva definita eroica, nessuno<br />

di loro era una giovane signora carina ed elegante,<br />

nessuno di loro parlava l’italiano correttamente.<br />

La lingua che provavano a parlare era una lingua bastarda<br />

che non poteva che suonare sgradevole e forse<br />

comica alle orecchie italiane dei magistrati, la loro verità<br />

riguardo al delitto di cui il ragazzo era accusato<br />

avrebbe avuto difficoltà a farsi strada in quell’aula. Ma<br />

cos’è la verità? Una verità che puzza di sego e di capra?<br />

Mi svegliai su un lettino nel pronto soccorso dell’ospedale<br />

San Giacomo. Lorenzo era ancora accanto a me<br />

e mi stringeva le mani.<br />

248<br />

– Cos’è stato? – gli chiesi.<br />

– C’è stato che sei svenuta e che ora devi pensare a<br />

star bene e riposarti… Perché non me l’avevi detto?<br />

– Detto… che cosa?<br />

– Come… che cosa? Del bambino!<br />

Pensai a Oreste dentro la gabbia, la rapida occhiata<br />

che gli avevo gettato, e non capivo perché Lorenzo lo<br />

chiamava “bambino”, e che cosa avrei dovuto dirgli di<br />

lui che già non sapesse.<br />

Mi aveva posato una mano sul ventre e, attraverso le<br />

coperte, sentivo la tenerezza lieve della sua mano. All’improvviso<br />

capii e mi venne quasi da ridere. A tutto,<br />

io, la grande dottoressa, avevo pensato: ulcera, cancro,<br />

altro… ma a una gravidanza… una gravidanza non mi<br />

era venuta in mente. E sarebbe stata la prima cosa alla<br />

quale avrei pensato se una delle mie pazienti, della<br />

mia età, fosse venuta da me con gli stessi sintomi.<br />

Dal grande orologio sulla parete bianca e spoglia di<br />

fronte a me capii che dovevano essere passate molte ore.<br />

– E il processo, hai notizie? Com’è andato?<br />

– Assolto. Fortunatamente. E anche per merito tuo.<br />

– Assolto? – domandai, più per darmi tempo di prender<br />

coscienza di tutti quei cambiamenti che sembravano<br />

essere avvenuti nel mondo dentro di me e fuori di<br />

me, che per avere una conferma e una spiegazione.<br />

– Assolto per non aver commesso il fatto.<br />

– Credi che non abbiano capito, o che anche per i<br />

giudici la verità abbia molti aspetti, ma che anche loro<br />

249


non dispongano che di una sola menzogna, per dirla?<br />

– stavo per domandare.<br />

Ma pensai a tempo che non era una discussione di<br />

quel genere che Lorenzo s’aspettava da me in quel momento.<br />

Era un momento in cui una giovane donna che<br />

aveva appena saputo che stava per diventare madre doveva<br />

sorridere teneramente, graziosamente, al suo<br />

uomo. E fu ciò che feci.<br />

250<br />

PARTE PRIMA<br />

Voci e silenzi<br />

INDICE<br />

Esilio 9<br />

Giosuè, la nave, la luna 15<br />

Il guerriero 29<br />

Astianatte 37<br />

Maschera e maschere 43<br />

Il messaggero 49<br />

A Cesare quel ch’è di Cesare 53<br />

Una cosa grande e solenne 59<br />

La volpe e gli uccelli 63<br />

Interno con mummie 69<br />

<strong>Gli</strong> eremiti e il diavolo 73<br />

PARTE SECONDA<br />

La fossa dei fantasmi<br />

La legge dell’acqua 81<br />

Cassandra 85<br />

Il testimone 91<br />

Storia di donne e cow-boy 99


Polvere e sangue 115<br />

La trave nell’occhio 119<br />

Il dolore e la macchia 131<br />

Una donna, un uomo, una donna 137<br />

L’innocente 143<br />

La lunga strada 145<br />

PARTE TERZA<br />

Paradiso con serpente<br />

Numeri e foglie 151<br />

L’ospite 153<br />

L’abbraccio del falco 161<br />

Idillio 173<br />

L’oasi 179<br />

Il serpente 181<br />

Un cielo pieno di rondini 183<br />

Una partita contabile 185<br />

La statua della libertà 193<br />

La cacciata dall’Eden 199<br />

PARTE QUARTA<br />

L’Isola e gli <strong>arcipelaghi</strong><br />

Il ritorno 205<br />

Performance 209<br />

Lo schiaffo 217<br />

Lorenzo 221<br />

L’avvocato Strofio 231<br />

Giudicati e pregiudicati 239<br />

Volumi pubblicati:<br />

Tascabili . Narrativa<br />

Grazia Deledda, Chiaroscuro<br />

Grazia Deledda, Il fanciullo nascosto<br />

Grazia Deledda, Ferro e fuoco<br />

Francesco Masala, Quelli dalle labbra bianche<br />

Emilio Lussu, Il cinghiale del Diavolo (2 a ristampa)<br />

Maria Giacobbe, Il mare (ristampa)<br />

Sergio Atzeni, Il quinto passo è l’addio<br />

Sergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri<br />

Giulio Angioni, L’oro di Fraus<br />

Antonio Cossu, Il riscatto<br />

Bachisio Zizi, Greggi d’ira<br />

Ernst Jünger, Terra sarda<br />

Salvatore Niffoi, Il viaggio degli inganni (2 a edizione)<br />

Luciano Marrocu, Fáulas (2 a edizione)<br />

Gianluca Floris, I maestri cantori<br />

D.H. Lawrence, Mare e <strong>Sardegna</strong><br />

Salvatore Niffoi, Il postino di Piracherfa<br />

Flavio Soriga, Diavoli di Nuraiò<br />

Giorgio Todde, Lo stato delle anime<br />

Francesco Masala, Il parroco di Arasolè<br />

Maria Giacobbe, <strong>Gli</strong> <strong>arcipelaghi</strong> (ristampa)<br />

Salvatore Niffoi, Cristolu<br />

Giulio Angioni, Millant’anni


Luciano Marrocu, Debrà Libanòs<br />

Giorgio Todde, La matta bestialità<br />

Sergio Atzeni, Racconti con colonna sonora e altri «in giallo»<br />

Marcello Fois, Materiali<br />

Maria Giacobbe, Diario di una maestrina<br />

Francesco Abate, Il cattivo cronista<br />

Narrativa<br />

Salvatore Cambosu, Lo sposo pentito<br />

Marcello Fois, Nulla (2 a edizione)<br />

Francesco Cucca, Muni rosa del Suf<br />

Paolo Maccioni, Insonnie newyorkesi<br />

Bachisio Zizi, Lettere da Orune<br />

Maria Giacobbe, Maschere e angeli nudi: ritratto d’un’infanzia<br />

Giulio Angioni, Il gioco del mondo<br />

Aldo Tanchis, Pesi leggeri<br />

Maria Giacobbe, Scenari d’esilio. Quindici parabole<br />

Poesia<br />

Giovanni Dettori, Amarante<br />

Sergio Atzeni, Due colori esistono al mondo. Il verde è il secondo<br />

Gigi Dessì, Il disegno<br />

Roberto Concu Serra, Esercizi di salvezza<br />

Serge Pey, Nierika o le memorie del quinto sole<br />

Saggistica<br />

Bruno Rombi, Salvatore Cambosu, cantore solitario<br />

Giancarlo Porcu, La parola ritrovata. Poetica e linguaggio in Pascale<br />

Dessanai<br />

FuoriCollana<br />

Salvatore Cambosu, I racconti

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