UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI PAVIA - Giurisprudenza - Università ...

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20.05.2013 Views

criteri per risolvere il problema del rapporto tra contratto collettivo e contratto individuale: nel nostro caso, invece, la questione è ben diversa, concernendo il rapporto tra due contratti pur sempre collettivi, benché stipulati a diverso livello (nazionale e aziendale). L’orientamento si è formato negli anni ‘60 quando i contratti aziendali erano stipulati dalle commissioni interne, forme di rappresentanza di tutti i lavoratori nell’azienda, elette da tutti i lavoratori, iscritti o non iscritti al sindacato. Gli accordi interconfederali disciplinavano la costituzione ed il funzionamento delle commissioni interne, escludendone però proprio la competenza contrattuale (v. accordi interconfederali dell’ 8 maggio 1953 e 18 aprile 1966). La combinazione di questi due fattori (da un lato, le commissioni interne non erano considerate organismi “sindacali” in senso proprio; dall’altro, gli accordi che le istituivano ne escludevano la competenza contrattuale) ha fatto sì che la giurisprudenza negasse la qualificazione di contratto collettivo agli accordi stipulati dalle commissioni interne, ritenendoli una somma di contratti individuali o qualificandoli come “stipulazioni plurisoggettive”. Considerando i contratti stipulati dalle commissioni interne come una somma di contratti individuali, la giurisprudenza poteva applicare l’art. 2077 c.c., arrivando a sostenere che il contratto aziendale stipulato dalle commissioni interne non potesse derogare in peius al contratto collettivo nazionale. Non appena però la giurisprudenza si rese conto – in concomitanza con l’avvento delle RSA – che il contratto aziendale era anch’esso – al pari di quello nazionale – un contratto collettivo (sia pure di ambito di applicazione più limitato, riguardando solo i lavoratori di una determinata impresa), il ricorso all’art. 2077 c.c. si rivelò impraticabile. Si andò pertanto alla ricerca di altri criteri. 94

In un primo tempo, la giurisprudenza ha utilizzato il criterio gerarchico, istituendo una sorta di gerarchia nei rapporti tra i contratti collettivi. L’utilizzazione del criterio gerarchico ha, tuttavia, condotto la giurisprudenza della Corte di cassazione ad adottare nello stesso anno, il 1978, due decisioni completamente opposte. In una prima decisione, la Corte ritenne il contratto nazionale prevalente su quello aziendale (Cass. 18 gennaio 1978, n. 233); nella seconda decisione, ritenne che il contratto aziendale dovesse prevalere su quello nazionale (Cass. 18 aprile 1978, n. 2018). La prima sentenza affermò l’esistenza di un mandato discendente, dal livello superiore della associazione sindacale al livello inferiore, con conseguente prevalenza del contratto nazionale. Nella seconda sentenza la Corte ricostruì invece i rapporti all’interno dell’associazione sindacale in chiave di mandato ascendente, affermando che la contrattazione nazionale si svolgerebbe in forza di un mandato conferito dalle strutture di livello inferiore; mandato, questo, che dovrebbe intendersi revocato per effetto della stipulazione, a livello decentrato, di un contratto collettivo di contenuto difforme rispetto a quello nazionale. L’essere la giurisprudenza giunta a conclusioni opposte utilizzando il criterio gerarchico è chiaro indice della sua inconsistenza. Così si spiega che i giudici abbiano dovuto ricercare altri e più persuasivi criteri, finendo per attingere, come si vedrà, agli stessi criteri che generalmente si utilizzano per risolvere le antinomie tra le norme di legge. In primo luogo il criterio temporale; in secondo luogo, il criterio di specialità. Secondo un’impostazione, nella selezione della disciplina contrattuale collettiva applicabile ad un rapporto di lavoro deve prevalere la fonte posteriore, a nulla rilevando il giudizio circa il suo maggiore o minore 95 Il criterio gerarchico Il criterio della posteriorità nel tempo

criteri per risolvere il problema del rapporto tra contratto collettivo e<br />

contratto individuale: nel nostro caso, invece, la questione è ben diversa,<br />

concernendo il rapporto tra due contratti pur sempre collettivi, benché<br />

stipulati a diverso livello (nazionale e aziendale).<br />

L’orientamento si è formato negli anni ‘60 quando i contratti aziendali<br />

erano stipulati dalle commissioni interne, forme di rappresentanza di tutti i<br />

lavoratori nell’azienda, elette da tutti i lavoratori, iscritti o non iscritti al<br />

sindacato. Gli accordi interconfederali disciplinavano la costituzione ed il<br />

funzionamento delle commissioni interne, escludendone però proprio la<br />

competenza contrattuale (v. accordi interconfederali dell’ 8 maggio 1953 e<br />

18 aprile 1966). La combinazione di questi due fattori (da un lato, le<br />

commissioni interne non erano considerate organismi “sindacali” in senso<br />

proprio; dall’altro, gli accordi che le istituivano ne escludevano la<br />

competenza contrattuale) ha fatto sì che la giurisprudenza negasse la<br />

qualificazione di contratto collettivo agli accordi stipulati dalle<br />

commissioni interne, ritenendoli una somma di contratti individuali o<br />

qualificandoli come “stipulazioni plurisoggettive”.<br />

Considerando i contratti stipulati dalle commissioni interne come una<br />

somma di contratti individuali, la giurisprudenza poteva applicare l’art.<br />

2077 c.c., arrivando a sostenere che il contratto aziendale stipulato dalle<br />

commissioni interne non potesse derogare in peius al contratto collettivo<br />

nazionale.<br />

Non appena però la giurisprudenza si rese conto – in concomitanza con<br />

l’avvento delle RSA – che il contratto aziendale era anch’esso – al pari di<br />

quello nazionale – un contratto collettivo (sia pure di ambito di<br />

applicazione più limitato, riguardando solo i lavoratori di una determinata<br />

impresa), il ricorso all’art. 2077 c.c. si rivelò impraticabile.<br />

Si andò pertanto alla ricerca di altri criteri.<br />

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