Logica modale e mondi possibili - Swif
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Linee di Ricerca<br />
Massimo Mugnai<br />
LOGICA MODALE E MONDI POSSIBILI<br />
Versione 1.0 - 2006<br />
Linee<br />
di<br />
Ricerca<br />
SWIF - Sito Web Italiano per la Filosofia<br />
Rivista elettronica di filosofia - Registrazione n. ISSN 1126-4780
Linee di Ricerca – SWIF<br />
Coordinamento Editoriale: Gian Maria Greco<br />
Supervisione Tecnica: Fabrizio Martina<br />
Supervisione: Luciano Floridi<br />
Redazione: Eva Franchino, Federica Scali.<br />
AUTORE<br />
Massimo Mugnai [ m.mugnai@sns.it]. Professore ordinario di Storia della <strong>Logica</strong> alla Scuola Normale dal 2002,<br />
si è laureato in Filosofia all’Università di Firenze. E’ stato borsista DAAD presso il Leibniz Archiv di Hannover e<br />
ricercatore presso il “Lessico intellettuale europeo per i secoli XVII e XVIII” del CNR (Roma). E’ stato inoltre<br />
borsista della Fondazione Alexander von Humboldt (ha lavorato presso la Leibniz-Forschungsstelle di Münster,<br />
contribuendo anche all’edizione critica delle opere di Leibniz) ed ha lavorato in un gruppo di ricerca sulle controversie<br />
filosofiche presso l’Institute for Advanced Studies di Gerusalemme, di cui è fellow. E’ membro della Leibniz<br />
Gesellschaft di Hannover, dell’editorial Board di “History and Philosophy of Logic”, del Comitato scientifico di<br />
“Studia Leibnitiana”, del Comitato scientifico della “Rivista di storia della filosofia” e del comitato scientifico della<br />
“Leibniz Review”. Ha insegnato nelle università di Bari e di Firenze. I suoi interessi di ricerca riguardano la filosofia<br />
di Leibniz, la storia della logica, logica e metafisica. Tra le sue pubblicazioni più significative si ricordano: Leibniz’s<br />
Theory of Relations, Stuttgart, Steiner Verlag, 1993; Introduzione alla filosofia di Leibniz, Milano, Einaudi, 2001;<br />
Traduzione e cura (con E. Pasini) degli Scritti filosofici di G. W. Leibniz presso la Casa editrice UTET (3 volumi),<br />
Torino, 2000.<br />
LdR è un e-book, inteso come numero speciale della rivista SWIF. È edito da Luciano Floridi con il coordinamento editoriale<br />
di Gian Maria Greco e la supervisione tecnica di Fabrizio Martina.<br />
LdR - Linee di Ricerca è il servizio di Bibliotec@SWIF finalizzato all’aggiornamento filosofico. LdR è un e-book in progress,<br />
in cui ciascun testo è un capitolo autonomo. In esso l'autore o l'autrice, presupponendo solo un minimo di conoscenze di base,<br />
fornisce una visione panoramica e critica dei temi principali, dei problemi più importanti, delle teorie più significative e degli<br />
autori più influenti, nell'ambito di una specifica area di ricerca della filosofia contemporanea attualmente in discussione e di<br />
notevole importanza. Il fine è quello di fornire al pubblico italiano un'idea generale su quali sono gli argomenti di ricerca di maggior<br />
interesse nei vari settori della filosofia contemporanea oggi, con uno stile non-storico, accessibile ad un pubblico di filosofi non<br />
esperti nello specifico settore ma interessati ad essere aggiornati.<br />
Tutti i testi di Linee di Ricerca sono di proprietà dei rispettivi autori. È consentita la copia per uso esclusivamente personale.<br />
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bibliografico. Per ogni ulteriore uso del materiale presente nel sito, è fatto divieto l'utilizzo senza il permesso del/degli autore/i.<br />
Per quanto non incluso nel testo qui sopra, si rimanda alle più estese norme sui diritti d’autore presenti sul sito Bibliotec@SIWF,<br />
www.swif.it/biblioteca/info_copy.php.<br />
Per citare un testo di Linee di Ricerca si consiglia di utilizzare la seguente notazione:<br />
AUTORE, Titolo, in L. Floridi (a cura di), Linee di Ricerca, SWIF, 2006, ISSN 1126-4780, p. X, www.swif.it/biblioteca/lr.
PREMESSA<br />
SWIF – LINEE DI RICERCA<br />
LOGICA MODALE E MONDI POSSIBILI<br />
MASSIMO MUGNAI<br />
Versione 1.0<br />
Durante l’antichità e il medioevo e poi ancora fino all’Ottocento, la logica è sempre<br />
stata considerata, nella cultura occidentale, una disciplina riconducibile all’ambito<br />
della filosofia. Nella seconda metà dell’Ottocento, le opere di George Boole (1815-<br />
1864) (The Mathematical Analysis of Logic [1847]) e di Gottlob Frege (1848-1825)<br />
(Begriffsschrift [Ideografia: 1879]), avviano un processo di profonda trasformazione<br />
della logica in una prospettiva che, in pieno Seicento, era stata prefigurata da<br />
Leibniz. Con le opere di Boole e Frege, la logica non solo prende a svilupparsi<br />
ricorrendo a un linguaggio e a strumenti desunti dalla matematica, ma<br />
progressivamente, a partire dai primi anni del Novecento, si propone essa stessa<br />
strumento per l’indagine matematica. La “matematizzazione” della logica induce a<br />
guardare ai rapporti tra logica e filosofia con rinnovato ottimismo: l’indagine<br />
filosofica può finalmente dotarsi di uno strumento rigoroso, dal quale è auspicabile<br />
attendersi la soluzione di antichi problemi. In anni più recenti, lo straordinario<br />
sviluppo della logica matematica e il conseguente, alto grado di specializzazione che<br />
ne ha investito tutti gli aspetti, hanno reso più complesso il rapporto tra logica e<br />
filosofia. Molte delle originarie speranze hanno subito un ridimensionamento:<br />
nondimeno, una buona conoscenza di base della logica continua a esser considerata,<br />
M. Mugnai, <strong>Logica</strong> e Mondi <strong>possibili</strong>, in L. Floridi (a cura di), Linee di Ricerca, SWIF, 2003-6, pp. 673-711.<br />
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L. Floridi (a cura di), Linee di Ricerca, SWIF, 2003-6<br />
dalla maggior parte dei filosofi contemporanei, un requisito essenziale per svolgere<br />
seriamente l’attività filosofica. Conoscere la logica permette di dar forma rigorosa<br />
alle argomentazioni, consente di evitare fallacie e, in generale, mette a disposizione<br />
un potente strumento di analisi concettuale. La logica, tuttavia, non ha nei confronti<br />
della filosofia un rapporto, per così dire, puramente propedeutico. Un ampio settore<br />
della logica, caratterizzato ormai col nome di logica filosofica, si applica<br />
all’indagine di tematiche filosofiche più o meno tradizionali. Tra queste figurano: la<br />
ricerca concernente i vari significati dei concetti di necessità e <strong>possibili</strong>tà; il<br />
tentativo di caratterizzare logiche della conoscenza; la ricerca di leggi generali<br />
capaci di dar conto del nostro discorso riguardo al realizzarsi di mutamenti o di<br />
alternative; la costruzione di una logica che tratti con concetti “imprecisi”;<br />
l’indagine volta a individuare logiche temporali, ecc. È bene tener presente, tuttavia,<br />
che il carattere “filosofico” della logica filosofica non consiste nell’uso di strumenti<br />
diversi da quelli della logica matematica “non filosofica”.<br />
Un forte legame con la tradizione logica, a partire almeno da Aristotele, ce<br />
l’hanno le cosiddette logiche modali, delle quali verranno illustrati in quel che segue<br />
la genesi e alcuni caratteri fondamentali.<br />
1. LOGICA MODALE: SIGNIFICATO DELL'ESPRESSIONE. ANTECEDENTI STORICI<br />
Con buona approssimazione, possiamo caratterizzare la logica <strong>modale</strong> come quella<br />
branca della logica che studia il comportamento di enunciati nei quali sono coinvolte<br />
le espressioni: possibile, impossibile, necessario, contingente e altre ad esse affini.<br />
La qualificazione espressa dal termine “<strong>modale</strong>” deriva dalla tradizione della logica<br />
scolastica, secondo la quale le espressioni appena richiamate designavano “modi<br />
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d'essere” o di “presentarsi” degli enunciati ai quali si riferiscono (oppure, come<br />
vedremo, modi d'essere delle proprietà che venivano attribuite a un soggetto). I<br />
logici scolastici riconoscevano che le modalità degli enunciati sono molteplici.<br />
“Sapere”, per esempio, riferito a un enunciato (“sapere che p” – dove “p” è un<br />
enunciato qualsiasi) era pensato anch'esso come un “modo d'essere” o una proprietà<br />
dell'enunciato in questione (“esser saputo”, in tal caso). Un chiaro riconoscimento<br />
della pluralità dei modi delle proposizioni si trova nella Summa logicae di Ockham:<br />
Modale è quella proposizione nella quale viene posto il<br />
modo [...] E bisogna sapere che, sebbene tutti i filosofi<br />
siano pressoché concordi sul fatto che soltanto quattro<br />
modi - vale a dire ‘necessario’, ‘impossibile’,<br />
‘contingente’ e ‘possibile’ - rendono <strong>modale</strong> una<br />
proposizione [...] - parlando in senso più generale, si<br />
può dire che i modi che rendono modali le proposizioni<br />
sono più di questi quattro.<br />
[...][I]nfatti, come una proposizione è necessaria,<br />
un’altra impossibile, un'altra possibile, un’altra ancora<br />
contingente, così una proposizione è vera, un’altra<br />
falsa, un’altra conosciuta, un’altra ignota, un’altra<br />
proferita, un’altra scritta, un’altra ancora concepita,<br />
un’altra creduta, un’altra opinata, un’altra dubitata, e<br />
così via. Perciò, come viene detta <strong>modale</strong> la<br />
proposizione nella quale è posto il modo ‘possibile’ o<br />
‘necessario’ oppure ‘contingente’ o ‘impossibile’,<br />
oppure un avverbio corrispondente a uno di questi<br />
modi, è altrettanto ragionevole che si possa dire<br />
<strong>modale</strong> una proposizione nella quale vien posto<br />
qualcuno dei modi predetti 1 .<br />
In questo brano l'ammissione dell'esistenza di molteplici modalità si accompagna<br />
all'implicito riconoscimento del carattere esemplare delle quattro modalità costituite<br />
da possibile, necessario, contingente e impossibile. In maniera analoga, nell'ambito<br />
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della logica contemporanea, sebbene venga riconosciuta l'esistenza di differenti<br />
tipologie di modalità, quelle definite da <strong>possibili</strong>tà e necessità mantengono sulle<br />
altre una sorta di posizione preminente: sono considerate, in certo senso, le modalità<br />
per antonomasia.<br />
Attualmente, tra i vari tipi di modalità si usano distinguere: modalità<br />
assertorie (le modalità di enunciati che si limitano a descrivere o asserire un mero<br />
stato di cose); modalità aletiche (si tratta di quelle modalità che specificano il modo<br />
di esser vero di un enunciato, vale a dire se è necessariamente, possibilmente o<br />
contingentemente vero); modalità deontiche (relative a ciò che è obbligatorio,<br />
vietato o permesso); modalità epistemiche (come sapere); modalità doxastiche<br />
(come credere). Si parla anche di modalità temporali, in relazione allo sviluppo di<br />
logiche che trattano di enunciati la cui verità è legata al tempo; e di logiche<br />
dinamiche, legate all’esecuzione di programmi in ambito informatico. La<br />
preminenza delle modalità aletiche si spiega col fatto che la cosiddetta semantica a<br />
<strong>mondi</strong> <strong>possibili</strong> ha consentito - a partire all'incirca dagli anni cinquanta - una<br />
trattazione di queste modalità che si applica con successo anche al caso di altri tipi di<br />
modalità.<br />
Sebbene la logica <strong>modale</strong> abbia avuto ampio sviluppo in epoca medievale e,<br />
soprattutto, tardo-medievale, un interesse verso di essa è documentato già nelle<br />
opere logiche di Aristotele. Negli Analitici primi vengono introdotte come segue le<br />
inferenze sillogistiche con premesse che includono modalità:<br />
1 Guillelmi de Ockham, Opera philosophica et theologica. Opera philosophica I, Summa logicae,<br />
New York, St. Bonaventure, 1974, pp. 242-43.<br />
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Poiché sono differenti tra loro l’appartenere,<br />
l’appartenere di necessità e altro ancora l’esser<br />
possibile appartenere (molte cose infatti appartengono,<br />
non però di necessità, mentre altre né appartengono di<br />
necessità…né appartengono affatto, ma è possibile che<br />
appartengano), è chiaro che diverso sarà il sillogismo<br />
in ciascuno di questi casi ... [An Pr. I, 8, 29b 29]<br />
Negli stessi Analitici primi, Aristotele dedica ampio spazio all'analisi dei sillogismi<br />
modali, elaborando una complessa teoria che, sotto molti aspetti, costituirà uno dei<br />
punti di riferimento per le speculazioni modali in epoca scolastica e oltre.<br />
Nel capitolo IX del De interpretatione Aristotele affronta questioni relative<br />
alla contingenza o necessità di certi enunciati; e le analisi contenute in questo<br />
capitolo alimenteranno discussioni e controversie che saranno alla base delle dispute<br />
scolastiche sui futuri contingenti.<br />
In termini piuttosto schematici, la problematica dei futuri contingenti può<br />
esser presentata nel modo seguente. Dato che, secondo la teologia cristiana, Dio è<br />
onnisciente, prevede gli eventi futuri del mondo da lui stesso creato: Dio sa, per<br />
esempio, che Adamo mangerà il frutto proibito. Sotto tale ipotesi, però, com'è<br />
possibile affermare che il fatto di mangiare il frutto da parte di Adamo è contingente,<br />
se condizione per considerare contingente un evento è che, pur verificandosi,<br />
avrebbe potuto non verificarsi? Detto altrimenti: come si concilia la prescienza di<br />
Dio, il quale vede che Adamo agirà in un certo modo, con l'affermazione che Adamo<br />
potrebbe agire nel modo contrario? Non è difficile rendersi conto che, sul piano<br />
teologico, si ha a che fare con una problematica delicata, che investe non soltanto<br />
questioni relative alla concezione delle modalità, ma anche questioni riguardanti la<br />
libertà dell’agire. Le discussioni scolastiche su questo argomento, e su altri di natura<br />
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analoga, determinarono approfondite analisi delle modalità che, unendosi alle<br />
trattazioni della logica <strong>modale</strong> contenute nei manuali o nelle “dispense” destinate<br />
all'insegnamento della logica, dettero corpo a un dottrina assai raffinata e complessa<br />
- tanto da giustificare il detto “De modalibus non gustabit asinus (Un asino non<br />
potrà accostarsi allo studio delle modalità)”.<br />
Il lungo brano che segue - tratto da un opuscolo attribuito a Tommaso<br />
d'Aquino - può esser considerato esemplare per la capacità di esprimere alcune<br />
acquisizioni centrali della logica <strong>modale</strong> medievale.<br />
Poiché la proposizione <strong>modale</strong> è chiamata così dal<br />
modo, per sapere cosa sia una proposizione <strong>modale</strong><br />
bisogna sapere innanzitutto cosa sia il modo. Ora, il<br />
modo è una determinazione che accompagna una cosa,<br />
e lo si ha quando un nome aggettivo viene aggiunto a<br />
un sostantivo, così da determinarlo, come quando si<br />
dice: “uomo è bianco”; oppure come quando viene<br />
aggiunto un avverbio che determina il verbo, come<br />
quando si dice: “uomo corre bene”. Bisogna anche<br />
sapere che il modo è triplice: ora infatti determina il<br />
soggetto della proposizione, come in “uomo bianco<br />
corre”; ora determina il predicato, come in: “Socrate è<br />
uomo bianco”, oppure “Socrate corre velocemente”;<br />
ora determina la composizione stessa del predicato col<br />
soggetto, come quando si dice: “che Socrate corra è<br />
impossibile", ed è da questo solo modo che la<br />
proposizione è detta <strong>modale</strong>. Le altre proposizioni,<br />
invero, che non sono modali, sono dette de inesse. I<br />
modi che determinano la composizione sono sei, vale a<br />
dire: vero, falso, necessario, impossibile, possibile,<br />
contingente. Tuttavia il vero e il falso non aggiungono<br />
niente ai significati delle proposizioni de inesse. Infatti<br />
viene significato lo stesso quando si dice: “Socrate non<br />
corre” e “Socrate corre è falso”; oppure: “Socrate<br />
corre” e “Socrate corre è vero”. Ciò però non accade<br />
con gli altri quattro modi, poiché non viene significato<br />
lo stesso, quando si dice “Socrate corre” e “Socrate<br />
corre è possibile”. Pertanto, lasciati da parte il vero e il<br />
falso, consideriamo gli altri quattro [modi].<br />
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Dal momento che il predicato determina il soggetto<br />
e non viceversa, affinché una proposizione sia <strong>modale</strong><br />
è necessario che i quattro modi predetti vengano<br />
predicati e che il verbo che implica la composizione sia<br />
posto in luogo di soggetto: la qual cosa si verifica se al<br />
posto del verbo indicativo della proposizione si pone<br />
l'infinito e al posto del nominativo l'accusativo, e si<br />
chiama il tutto dictum della proposizione. Così il<br />
dictum di questa proposizione: “Socrates currit<br />
[Socrate corre]” è “Socratem currere [che Socrate<br />
corre]”.<br />
[...] Delle modali, alcune sono de dicto, altre de re.<br />
La <strong>modale</strong> de dicto è quella nella quale tutto il dictum<br />
funge da soggetto e il modo viene predicato, come in<br />
“Socratem currere est possibile [che Socrate corra è<br />
possibile]”. La <strong>modale</strong> de re è quella nella quale il<br />
modo si interpone al dictum, come in “Socrate è<br />
possibile che corra”. [...] Bisogna anche sapere che una<br />
proposizione <strong>modale</strong> è detta affermativa o negativa, a<br />
seconda dell'affermazione o negazione del modo e non<br />
del dictum. Per cui, questa: “Socratem non currere est<br />
possibile [che Socrate non corra è possibile]” è<br />
affermativa. Mentre questa: “Socratem currere non est<br />
possibile [che Socrate corra non è possibile]” è<br />
negativa. Bisogna anche notare il fatto che il<br />
necessario ha somiglianza col segno universale<br />
affermativo [“Tutti”, “Ogni”], poiché ciò che è<br />
necessario è sempre; l'impossibile ha somiglianza col<br />
segno universale negativo [“Nessuno”], poiché ciò che<br />
è impossibile non è mai. Il contingente, invero, e il<br />
possibile hanno somiglianza col segno particolare<br />
[“Qualche”], poiché ciò che è contingente e possibile,<br />
talvolta è e talvolta non è [...] [Pseudo-Tommaso, De<br />
propositionibus modalibus [Sulle proposizioni modali],<br />
sec. XIII circa] 2 .<br />
In questo brano è messa in luce in primo luogo la differenza tra enunciati<br />
assertori, o de inesse, ed enunciati modali; quindi viene introdotta la distinzione,<br />
canonica in epoca medievale, tra modalità de dicto e modalità de re. Secondo tale<br />
distinzione, un enunciato <strong>modale</strong> è de dicto se il modo che lo qualifica si riferisce al<br />
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dictum intero - vale a dire se “agisce” su tutto l'enunciato al quale viene riferito; è<br />
invece de re se specifica il modo nel quale il predicato inerisce al (o si predica del)<br />
soggetto. Così “Necessariamente (Socrate è saggio)” è de dicto, in quanto afferma<br />
che l'enunciato “Socrate è saggio” è necessario o necessariamente vero; mentre<br />
“Socrate è necessariamente saggio”, oppure “Socrate è saggio necessariamente”<br />
sono de re, in quanto asseriscono che una “cosa” (res in latino: Socrate nel nostro<br />
esempio) ha una certa proprietà necessariamente (asseriscono, cioè, che l'esser<br />
saggio è una qualità necessaria di Socrate). Com'è evidente, il modo in cui è<br />
presentata la distinzione scolastica de dicto/de re presuppone che la struttura<br />
fondamentale di ogni enunciato sia nella forma “soggetto-copula-predicato"; e la<br />
discussione se il modo debba riferirsi alla copula o al predicato continuerà a lungo in<br />
ambito scolastico e tardo-scolastico, fino a tutto il secolo XVII, in particolare tra i<br />
logici di cultura tedesca. La distinzione de dicto/de re si è mantenuta nella logica<br />
<strong>modale</strong> contemporanea con lo stesso significato, sebbene venga applicata in maniera<br />
diversa a causa del fatto che la struttura di base dell’enunciato non è più concepita<br />
nei termini di soggetto, copula e predicato 3 .<br />
2 Thomae Aquinatis, Reportationes, in Sancti Thomae Aquinatis Opera Omnia, (Indicis Thomistici<br />
Supplementum), frommann-ho1zboog, Stuttgart, 1980, pp. 579-80.<br />
3 Da Frege in poi, l’analisi logica dell’enunciato, ai fini della costruzione di un efficace linguaggio<br />
artificiale, viene svolta sulla base della distinzione tra funzione e argomento, non più nei termini di<br />
soggetto, copula e predicato. Con un’inversione della concezione tradizionale, la copula viene, per<br />
così dire, assorbita entro il predicato. Mentre nella tradizione i verbi venivano “scomposti” in copula<br />
e participio (“Socrate corre” diventava: “Socrate è corrente”), con l’analisi fregeana è come se<br />
ciascun predicato fosse ricondotto a un verbo. Così, nel linguaggio logico artificiale post-fregeano,<br />
l’enunciato “Socrate è saggio” diventa: “P(s)” – con “P” = esser saggio e “s” = Socrate<br />
(analogamente a f(x), con “f” designante una funzione e “x” un suo argomento). La scomparsa della<br />
copula rende difficile un’immediata trascrizione della distinzione scolastica de dicto - de re<br />
all’interno degli attuali linguaggi formalizzati. In termini contemporanei, un criterio grossolano ma<br />
efficace per stabilire se un enunciato <strong>modale</strong> è de dicto è quello di vedere se l’operatore <strong>modale</strong><br />
precede i quantificatori; è de re, invece, se tra di esso e la formula cui si riferisce non è interposto<br />
alcun quantificatore. Rispetto alla tradizione scolastica, a essere rilevante non è più il rapporto tra<br />
espressione <strong>modale</strong> da un lato, e soggetto, copula e predicato dall’altro. Così, formule come “ (Pa)”,<br />
∀x (Px), ∀x◊(Qx) sono de re; mentre formule come ∀x(Px), ◊∀x ∃y(Qxy) sono de dicto.<br />
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Un'altra importante precisazione che compare nel brano che stiamo<br />
considerando concerne i rapporti tra negazione ed espressioni modali: l'autore<br />
osserva che, per “p” enunciato qualsiasi, la negazione di “possibile p” è “non<br />
possibile p” e non “possibile non-p”. Lo stesso vale, ovviamente, per le altre<br />
modalità. Infine, si ha una precisazione che appare assai significativa, soprattutto se<br />
la si considera tenendo presenti gli sviluppi a noi più vicini della logica <strong>modale</strong>:<br />
l'autore coglie una somiglianza [similitudo] tra il necessario e il “segno” di quantità<br />
universale “Tutti” (“Ogni”), da un lato, e il possibile e il segno di quantità<br />
particolare “Alcuni” (“Qualche”), dall'altro. La somiglianza si fonda sul fatto che se<br />
un enunciato è necessario, allora è vero in tutte le circostanze; mentre se è possibile,<br />
allora è vero in qualche circostanza. Per l'esattezza, nel brano che stiamo<br />
esaminando, si dice che “il necessario è sempre”, mentre l'impossibile non è “mai” e<br />
il possibile (col contingente) “talvolta è e talvolta non è”: il necessario sembra<br />
concernere in questo caso tutti i tempi (tutti gli istanti temporali), l'impossibile<br />
nessun tempo (nessun istante); il possibile e il contingente qualche tempo (qualche<br />
istante o periodo di tempo), senza che venga fatto esplicito riferimento al concetto di<br />
“circostanza”. Ciò non toglie che sia comunque notevole l'intuizione dell’esistenza<br />
di un nesso che lega tra loro i quantificatori “Tutti” (“Ogni”) e “Alcuni” (“Qualche”)<br />
con le espressioni modali, rispettivamente, necessario e possibile.<br />
Con la fine del medioevo e la reazione degli umanisti contro i logici<br />
“barbari” della scolastica, l'interesse per la logica <strong>modale</strong>, nei secoli XV e XVI si<br />
affievolisce. Sebbene la manualistica logica continui a conoscere un certo sviluppo,<br />
lo studio delle modalità decade nettamente, rispetto agli standard raggiunti nei secoli<br />
precedenti. Nel secolo XVII si assiste a un certo fervore di studi intorno alla logica<br />
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<strong>modale</strong>, soprattutto in Germania e nei paesi nei quali si è affermata la Riforma<br />
protestante. La cultura di osservanza cattolica - principalmente in Spagna e<br />
Portogallo - continua a produrre una manualistica logica di buon livello, nella quale<br />
sovente sono affrontate questioni di logica <strong>modale</strong>. Nel secolo XVIII, con<br />
l'impoverirsi della trattatistica logica, si assiste a un pressoché definitivo<br />
accantonamento della logica <strong>modale</strong>. Tra le varie cause che contribuiscono a questo<br />
risultato figurano anche gli espliciti inviti, rivolti dai gesuiti agli insegnanti, a non<br />
soffermarsi sulle modalità per evitare di turbare le coscienze con i problemi<br />
riguardanti la predestinazione e la prescienza divina.<br />
La rinascita della logica e il sorgere della forma matematica di logica, a<br />
partire dalla seconda metà del secolo XIX, con le opere di G. Boole [1847] e G.<br />
Frege [1879] non furono accompagnate da una ripresa di interesse per la logica<br />
<strong>modale</strong>. Sebbene il logico e matematico Bernard Bolzano (1781-1848) tratti<br />
esplicitamente questioni di logica <strong>modale</strong> nella sua monumentale Dottrina della<br />
scienza, è soltanto con i contributi di Hugh McColl (1837-1909) che le modalità<br />
ricompaiono in un ambito centrale della logica. McColl, pur muovendosi nell'ambito<br />
della tradizione dell'algebra della logica, solleva il problema dell'interpretazione del<br />
condizionale “se ..., allora ...". Per illustrare questo punto e, soprattutto, per<br />
preparare adeguatamente dal punto di vista storico l'effettiva ripresa della logica<br />
<strong>modale</strong> nel Novecento, sarà opportuno fare una breve parentesi, tornando alle origini<br />
della speculazione logica occidentale.<br />
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2. CONDIZIONALE FILONIANO E CONDIZIONALE STRETTO<br />
Nell'antichità, accanto alla scuola logica fondata da Aristotele si era affermato<br />
l'insegnamento della cosiddetta scuola “megarico-stoica”. Mentre la logica<br />
aristotelica si fondava prevalentemente sull'analisi dell'inferenza sillogistica e<br />
poneva perciò al centro dei propri interessi il rapporto tra termini (oggi diremmo:<br />
“classi” o insiemi di oggetti), gli stoici erano interessati soprattutto ai nessi reciproci<br />
tra enunciati o proposizioni. In maniera un po' sommaria, ma sostanzialmente fedele,<br />
si può rappresentare il ragionamento sillogistico come un'inferenza che, date tre<br />
classi di oggetti A, B e C, sulla base della conoscenza dei rapporti che intercorrono,<br />
rispettivamente, tra A e C da un lato e tra B e C dall’altro, cerca di determinare la<br />
natura dei rapporti che sussistono tra A e B. Questo schema generale risulta evidente<br />
nel sillogismo di prima figura: “Tutti gli uomini sono mortali; Tutti i Greci sono<br />
uomini; dunque, Tutti i Greci sono mortali” (si ponga “uomini” = “C”, “Greci” =<br />
“A”, “mortali” = “B”).<br />
I megarico-stoici, invece, in quanto hanno maggiore interesse per l'analisi dei<br />
rapporti tra enunciati, rivolgono la propria attenzione al comportamento delle<br />
espressioni linguistiche che legano tra loro, o connettono, gli enunciati stessi. In<br />
conseguenza di ciò, definiranno le regole che governano gli usi logici di espressioni<br />
come (i corrispondenti in greco delle espressioni italiane) “e”, “o”, “se ..., allora ...”,<br />
ecc. Un tipico esempio di argomento (non sillogistico nel senso aristotelico) studiato<br />
dagli stoici è: “Se è giorno, c'è luce; è giorno; dunque c'è luce”, che corrisponde allo<br />
schema (per “p” e “q” enunciati qualsiasi): “Se p, allora q; p; dunque q”. Ora, è<br />
proprio relativamente all'interpretazione del "comportamento" logico del connettivo<br />
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“se..., allora ...” che, nell'ambito della scuola megarico-stoica, si ebbero divergenze<br />
che si fissarono in tre posizioni distinte. Filone di Megara, secondo quanto riporta<br />
Sesto Empirico, aveva proposto le seguenti condizioni di verità per il condizionale:<br />
Filone diceva che la connessione [il condizionale] è<br />
vera quando non accade che cominci col vero e finisca<br />
col falso. Secondo lui ci sono perciò tre modi per<br />
ottenere una connessione vera e uno solo per ottenerne<br />
una falsa. E' vera infatti se comincia col vero e finisce<br />
col vero, come per esempio: “se è giorno, c'è luce”; se<br />
comincia col falso e finisce col falso, come, per<br />
esempio: “se la terra vola, la terra ha le ali”;<br />
analogamente per quella che comincia col falso e<br />
finisce col vero, come, per esempio, “se la terra vola,<br />
la terra esiste”. E' falsa soltanto quando, cominciando<br />
col vero, finisce col falso, come ad esempio: “se è<br />
giorno, allora è notte”. 4<br />
Alle posizioni di Filone si contrapposero quelle di Diodoro Crono e di Crisippo.<br />
Anche se la critica testuale non ha ancora raggiunto sufficiente chiarezza su questo<br />
punto, sembra che Diodoro legasse la verità del condizionale al tempo:<br />
probabilmente riteneva vero un condizionale della forma “Se p, allora q” se, per ogni<br />
istante temporale t, non si dava il caso che p fosse vero a t e q falso a t. Secondo<br />
Crisippo, invece, un condizionale è falso se sussiste un rapporto di incompatibilità<br />
tra antecedente e conseguente. È ancora Sesto a illustrare la concezione di Crisippo:<br />
È vera una connessione nella quale l'opposto del<br />
conseguente è incompatibile con l'antecedente, come<br />
ad esempio: “se è giorno, c'è luce”. Essa è vera perché<br />
“non c'è luce”, opposto del conseguente, è<br />
incompatibile con “è giorno”. 5<br />
4 Il testo è tratto da I. M. Bochenski, La logica formale, vol. I, Dai presocratici a Leibniz, Einaudi,<br />
1972, p. 159<br />
5 Ivi, p. 161.<br />
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Massimo Mugnai – <strong>Logica</strong> e Mondi <strong>possibili</strong><br />
Secondo l'impostazione filoniana, un condizionale della forma "se p, allora q” (per p<br />
e q enunciati qualsiasi) risulta falso soltanto se l'antecedente (“p”, nel nostro<br />
esempio) è vero e il conseguente (“q”) falso. Perché un condizionale sia vero ci si<br />
limita a richiedere che non si verifichi questa situazione. Diodoro e Crisippo, invece,<br />
chiedono che siano soddisfatte condizioni ulteriori: Diodoro in rapporto al tempo e<br />
Crisippo riguardo alla compatibilità tra antecedente e conseguente. Quasi certamente<br />
a sollevare l'ostilità nei confronti del condizionale filoniano era il fatto che per la sua<br />
verità non si richiede altro rapporto tra antecedente e conseguente, se non quello<br />
determinato dai valori di verità. Così, secondo Filone, un condizionale del tipo “se è<br />
notte, allora 2 + 2 = 4” risulterebbe vero anche se fosse giorno, dal momento che ha<br />
il conseguente vero.<br />
Con ogni probabilità, Crisippo aveva cercato di dare condizioni di verità per<br />
il condizionale che rispecchiassero più da vicino quelle dell'uso “comune”, che<br />
presuppone quasi sempre un nesso di tipo semantico tra antecedente e conseguente.<br />
L'incompatibilità tra antecedente e opposto del conseguente della quale parla<br />
Crisippo va intesa nel senso che un condizionale è falso se è impossibile che<br />
l'antecedente sia vero e il conseguente falso.<br />
Con la fine dell'antichità e l'affermarsi di uno stile eclettico in filosofia,<br />
tendente a mescolare tra loro le varie posizioni filosofiche, diventa sempre meno<br />
chiaro il confine tra logica di impianto aristotelico e logica di ispirazione megarico-<br />
stoica. Già i manuali di logica del primo o del secondo secolo dopo Cristo<br />
presentano una dottrina ibrida: il più delle volte innestano elementi stoici su una<br />
base prevalentemente sillogistico-aristotelica. Nel passaggio dall'antichità al<br />
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medioevo, si perde così il senso della distinzione tra i differenti tipi di condizionale:<br />
addirittura, il condizionale viene pressoché identificato col cosiddetto sillogismo<br />
ipotetico - il sillogismo aristotelico espresso in forma condizionale. Sarà Boezio<br />
(470 - 525 d. C.), proprio col De syllogismis hypotheticis, a tramandare nella cultura<br />
logica scolastica una quantità considerevole di concetti e spunti tratti dall'ormai<br />
estinta tradizione megarico-stoica.<br />
Durante il medioevo, la logica conosce una progressiva fioritura, che la<br />
porterà a sviluppi straordinari, per certi versi affini a quelli che avrà nel secolo XIX.<br />
Sembra però che i logici medievali debbano riscoprire da soli gran parte della<br />
dottrina logica elaborata nell'antichità, della quale si era perduta quasi<br />
completamente ogni traccia. Nonostante si applichino allo studio dei connettivi<br />
logici (chiamati sincategoremi [syncathegoremata]), non giungono tuttavia a<br />
recuperare con chiarezza e, soprattutto, consapevolezza, il significato della<br />
distinzione tra i vari tipi di condizionale. Il condizionale di tipo “crisippeo” sembra<br />
prevalere negli usi e nelle teorizzazioni dei principali autori scolastici. Difficile è<br />
trovare istanze di condizionale filoniano. Questa difficoltà è aggravata dal fatto che,<br />
in esposizioni informali - prive cioè del riferimento a un apparato simbolico rigoroso<br />
- il linguaggio ordinario si presta ad ambiguità. Così, quando un autore medievale<br />
scrive che un condizionale è vero quando “è impossibile che l'antecedente sia vero e<br />
il conseguente falso”, è difficile stabilire se la locuzione “è impossibile” debba<br />
intendersi come un semplice “se non si dà (di fatto) il caso che...”, oppure se sia<br />
veramente l'espressione di una modalità.<br />
Le stesse difficoltà di determinare in maniera non equivoca la natura del<br />
condizionale si incontrano presso la maggioranza dei logici che operano nel periodo<br />
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Massimo Mugnai – <strong>Logica</strong> e Mondi <strong>possibili</strong><br />
che va, all'incirca, dalla fine del medioevo alla seconda metà del secolo XIX. In<br />
molti autori il condizionale viene usato senza che ne venga specificato in modo<br />
chiaro il significato e, in ogni caso, senza che si abbia la percezione chiara delle<br />
differenti interpretazioni messe a fuoco dagli stoici. Sotto questo riguardo, perciò, è<br />
del tutto eccezionale la consapevolezza storica di Charles Sanders Peirce (1839-<br />
1914), il quale afferma:<br />
Filone sosteneva che la proposizione "se lampeggia,<br />
allora tuonerà” è vera se non lampeggia o se tuonerà,<br />
mentre è falsa se lampeggia e non tuona. Diodoro non<br />
era d'accordo: o gli storici dell'antichità non hanno<br />
compreso Diodoro o lui stesso si spiegava male. In<br />
realtà, nessuno è stato in grado di formulare<br />
chiaramente la sua concezione, nonostante siano stati<br />
in molti a provarci. La maggior parte dei logici<br />
migliori sono stati seguaci di Filone, mentre i più<br />
scadenti hanno seguito Diodoro. Per quel che mi<br />
concerne, io sono un seguace di Filone, anche se penso<br />
che non sia mai stata resa giustizia a Diodoro.<br />
[…] è completamente irrilevante quel che<br />
accade nel linguaggio ordinario. L'idea medesima di<br />
logica formale comporta che siano costruite certe<br />
forme canoniche di espressione, i cui significati<br />
vengono governati da regole inesorabili [...] Tali forme<br />
canoniche devono esser definite senza alcun riguardo<br />
all'uso […] 6 .<br />
Pur essendo consapevole del fatto che nell'antichità venivano attribuiti differenti<br />
significati al condizionale, Peirce dichiara di non riuscire a comprendere il<br />
condizionale diodoreo, e si schiera a favore, nell'ambito della “logica formale”, del<br />
condizionale filoniano. Interessanti sono le motivazioni di questa scelta: lo studio<br />
6<br />
C. S. Peirce, Reasoning and the Logic of Things, Harvard University Press, Harvard, 1992, pp. 125 -<br />
26.<br />
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scientifico della logica non deve uniformarsi agli usi del linguaggio ordinario. Peirce<br />
ritiene che il condizionale filoniano sia, per certi versi, quello che meglio si adatta<br />
alle esigenze dell'algebra della logica come era stata pensata da Boole.<br />
Tuttavia, si deve proprio a un logico appartenente al filone algebrico la<br />
riscoperta e la valorizzazione, alla fine dell'Ottocento, di un condizionale non<br />
filoniano (analogo a quello di Crisippo). Nel 1880, Hugh McColl (1837-1909)<br />
presenta sulla rivista “Mind” un calcolo logico, nel quale definisce un condizionale<br />
facendo riferimento a nozioni modali; e nel Symbolic Logic del 1903 introduce un<br />
condizionale “p ⇒ q” che:<br />
1) non può esser definito mediante il semplice ricorso ai soli valori di verità; e<br />
2) equivale, da un punto di vista logico, a “è impossibile (p e non-q)”.<br />
È con Clarence Irving Lewis (1883-1964) che si ha l'effettiva ripresa della<br />
logica <strong>modale</strong> ai primi del Novecento. In un celebre articolo comparso su “Mind”<br />
nel 1912, Lewis contesta la centralità del condizionale filoniano, o “materiale”<br />
(com'era - ed è ancora oggi - chiamato), e propone di elaborare un calcolo logico che<br />
si fonda sull'implicazione stretta. Lewis chiama “implicazione stretta” il<br />
condizionale che risulta vero quando è impossibile che l'antecedente sia vero e il<br />
conseguente falso: sotto questo riguardo, il condizionale filoniano, o materiale, non<br />
stabilisce un nesso stretto tra antecedente e conseguente, dal momento che, per la<br />
sua verità si richiede semplicemente che di fatto non si dia il caso che l'antecedente<br />
sia vero e il conseguente falso. Naturalmente, “impossibile” o “non possibile” sono<br />
espressioni modali; e dire di qualcosa che non è possibile (è impossibile) che non si<br />
verifichi, equivale a sostenere che si verifica necessariamente: il condizionale stretto<br />
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Massimo Mugnai – <strong>Logica</strong> e Mondi <strong>possibili</strong><br />
equivale dunque ad asserire la necessità del condizionale - cioè che il condizionale<br />
in questione è necessariamente vero.<br />
Lewis non si limita a sostenere la superiorità del condizionale stretto rispetto<br />
a quello materiale, ma - in opere successive al saggio menzionato - costruisce anche<br />
una serie di calcoli modali, alcuni dei quali rimarranno in seguito "canonici". Nel<br />
capitolo VI del volume intitolato Symbolic Logic (1932), scritto in collaborazione<br />
con Cooper H. Langford, Lewis assume come primitivo l’operatore di <strong>possibili</strong>tà e<br />
sviluppa due sistemi assiomatici che chiama, rispettivamente, “S1” e “S2”; in<br />
appendice al volume accenna quindi ad altri sistemi: S3, S4, S5. I nomi di questi<br />
sistemi rimarranno inalterati fino ad oggi nella letteratura sulla logica <strong>modale</strong>. I<br />
calcoli di Lewis privilegiano una concezione non-filoniana del condizionale e<br />
vengono concepiti dal loro autore in alternativa ai calcoli dei sistemi formali non<br />
modali come quello dei Principia Mathematica di Whitehead e Russell (1910-13, in<br />
3 volumi).<br />
Nel 1918, il logico polacco Jan Lukasiewicz, in un saggio che diverrà<br />
celebre, in quanto getta le basi per la costruzione di logiche a infiniti valori, propone<br />
di uscire dalle strettoie del determinismo (che ritiene affligga la logica di origine<br />
aristotelica), introducendo, oltre ai due valori vero (= 1) e falso (= 0), anche un terzo<br />
valore di verità (= 1/2). Lukasiewicz caratterizza come "possibile" tale valore di<br />
verità, ma poi, nel sistema logico corrispondente (che esprime appunto la <strong>possibili</strong>tà<br />
mediante 1/2), considera valida l'inferenza da “possibile p e possibile q” a “possibile<br />
(p e q)”: un passaggio questo difficilmente accettabile secondo le più comuni<br />
accezioni di possibile (da “è possibile che Socrate sia in piedi e è possibile che<br />
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L. Floridi (a cura di), Linee di Ricerca, SWIF, 2003-6<br />
Socrate sia seduto” non è legittimo inferire “è possibile che Socrate sia in piedi e che<br />
Socrate sia seduto” – cioè che Socrate sia seduto e in piedi simultaneamente).<br />
Nel 1930 un importante contributo allo sviluppo della logica <strong>modale</strong> in una<br />
prospettiva vicina a quella di Lewis viene dato dal lavoro di Oskar Becker (1889-<br />
1964), seguito poi da altri saggi dello stesso autore nel 1951 e nel 1952.<br />
In un breve saggio pubblicato nel 1933: Eine Interpretation des<br />
intuitionistischen Aussagenkalküls [Una interpretazione del calcolo enunciativo<br />
intuizionistico], Kurt Gödel mostra come i sistemi di logica <strong>modale</strong> scoperti da<br />
Lewis possano essere generati estendendo con opportuni assiomi modali una base<br />
del calcolo enunciativo standard (come quello presente nei Principia di Russell e<br />
Whitehead).<br />
Nel 1951 Georg H. von Wright pubblica An Essay on Modal Logic (ed.<br />
North Holland, Amsterdam) e un lavoro dedicato alla logica deontica (Deontic<br />
Logic, in "Mind", 60, pp. 1-15), nei quali la logica <strong>modale</strong> è concepita come base<br />
per indagare una pluralità di modi o atteggiamenti conoscitivi, quali il credere, il<br />
conoscere, ma anche l'essere obbligato, l'assumere come norma, ecc.<br />
I calcoli di Lewis, e poi gli altri che ad essi seguirono, ponevano però il<br />
problema di trovare una semantica che fosse in grado di render conto delle differenti<br />
concezioni modali che stavano alla loro base. In ciascun sistema <strong>modale</strong>, poste certe<br />
formule iniziali (assiomi) venivano dedotte mediante regole una serie di<br />
conseguenze o teoremi caratteristici di quel sistema: a fronte di tale sviluppo<br />
sintattico, quel che mancava era un correlato semantico adeguato, un'interpretazione<br />
plausibile dei teoremi ottenuti e delle differenze tra i vari sistemi.<br />
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3. MONDI POSSIBILI<br />
Massimo Mugnai – <strong>Logica</strong> e Mondi <strong>possibili</strong><br />
La storia che porta all'elaborazione di una semantica per la logica <strong>modale</strong> è<br />
abbastanza recente: risale all'incirca alla fine degli anni Cinquanta. Una delle idee<br />
fondamentali sulle quali tale semantica si basa si spinge tuttavia ancora più indietro<br />
nel tempo, almeno fino a Leibniz. Si tratta dell'idea di mondo possibile. Vediamo di<br />
richiamarne per sommi capi l'evoluzione.<br />
Che quello che chiamiamo “mondo attuale”, vale a dire il complesso insieme<br />
di oggetti e situazioni nel quale ci troviamo a vivere, avrebbe potuto essere diverso,<br />
è un'ovvia riflessione che già i filosofi antichi avevano fatto. Tuttavia è soltanto con<br />
l'affermarsi dell'idea di un Dio creatore che si fa strada la concezione di una pluralità<br />
di “<strong>mondi</strong> <strong>possibili</strong>” tra i quali Dio sceglie quello da chiamare all'esistenza. I Padri<br />
della Chiesa, prima ancora dei pensatori medievali, paragonano Dio a un saggio<br />
architetto che, per creare il mondo, esamina una serie di modelli ideali dei <strong>possibili</strong><br />
candidati tra i quali far cadere la propria scelta. I <strong>mondi</strong> che non verranno creati<br />
saranno <strong>possibili</strong> non attuati. I filosofi medievali affronteranno una serie di sottili<br />
questioni riguardo ai <strong>mondi</strong> <strong>possibili</strong>: quale sia la loro natura ontologica - se cioè<br />
esistano (in un qualche senso di “esistere”) nella mente divina; fino a che punto<br />
ammettano leggi di natura completamente diverse da quelle che regolano il nostro<br />
mondo, ecc. Naturalmente, l'idea di “mondo possibile” che è implicita in questa<br />
tradizione presuppone che i <strong>mondi</strong> non attuati dei quali si parla siano, più o meno,<br />
variazioni del “macroscopico ammasso di oggetti” che ci circonda e del quale<br />
facciamo parte. Per tutto il periodo post-medievale e fino alla seconda metà del<br />
Seicento, il riferimento ai “<strong>mondi</strong> <strong>possibili</strong>” continua a trovare la propria sede<br />
naturale nelle discussioni di teologia. Durante il secolo XVII un rinnovato interesse<br />
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L. Floridi (a cura di), Linee di Ricerca, SWIF, 2003-6<br />
per questo tema si registra nella cultura teologico-filosofica spagnola; è con Leibniz<br />
tuttavia, che viene affrontato in una luce nuova.<br />
Leibniz ritiene che, se si vuol preservare la libertà divina in relazione alla<br />
scelta di creare il mondo attuale, è indispensabile riconoscere che Dio ha scelto sulla<br />
base non di un solo modello, ma di una molteplicità - addirittura un numero infinito<br />
- di modelli di mondo. Ciascun modello di mondo, specificato nei minimi dettagli, è<br />
un “mondo possibile”. L'insieme dei <strong>mondi</strong> <strong>possibili</strong> dà luogo a quello che Leibniz<br />
chiama il paese dei <strong>possibili</strong>, vale a dire a uno spazio logico “situato” nella mente di<br />
Dio. L'aspetto innovativo della concezione leibniziana consiste nel collegare<br />
esplicitamente la valutazione degli enunciati modali alla metafisica dei <strong>mondi</strong><br />
<strong>possibili</strong>.<br />
Secondo una consolidata tradizione, risalirebbe a Leibniz la definizione di<br />
enunciato necessariamente vero come quell'enunciato che è vero in tutti i <strong>mondi</strong><br />
<strong>possibili</strong>. È stato osservato, tuttavia, che in nessuno scritto leibniziano si troverebbe<br />
tale definizione esattamente negli stessi termini. Questa osservazione è corretta,<br />
perlomeno se consideriamo i testi leibniziani finora editi. Bisogna riconoscere però,<br />
da un lato, che l'accettazione di siffatta definizione segue direttamente dalle<br />
assunzioni teorico-dottrinali del pensiero di Leibniz; dall'altro, che almeno in un<br />
testo Leibniz asserisce che la classe delle verità eterne (necessarie) coincide con la<br />
classe degli enunciati che rimarrebbero veri anche se Dio avesse creato il mondo in<br />
maniera diversa. Il che sembra soltanto un modo alternativo di dire che le verità<br />
necessarie sono enunciati veri di ogni mondo possibile. Resta da sottolineare che<br />
Leibniz non riesce a fare un uso coerente delle proprie intuizioni riguardo alle<br />
modalità. Se può esser considerato il padre della moderna semantica a <strong>mondi</strong><br />
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Massimo Mugnai – <strong>Logica</strong> e Mondi <strong>possibili</strong><br />
<strong>possibili</strong>, lo è fondamentalmente per avere avuto l'idea di esprimere le modalità<br />
usando la quantificazione su un dominio di <strong>mondi</strong> <strong>possibili</strong>.<br />
Quest'idea viene ripresa nel 1947 da Rudolf Carnap (1891-1970) in Meaning<br />
and Necessity 7 . In questo stesso periodo tale idea viene arricchita dall'introduzione<br />
di una “relazione di accessibilità” tra <strong>mondi</strong> che - già prefigurata in alcuni lavori di<br />
Alfred Tarski (1902-1983) (composti in collaborazione, rispettivamente, con J. C.<br />
Mc Kinsey e B. Jonsson) - viene sviluppata da Arthur N. Prior (1914-1969) in<br />
rapporto alle logiche temporali e articolata infine, con diversi gradi di chiarezza, da<br />
Stig Kanger, Jaakko Hintikka e Saul Kripke. E’ ormai consuetudine attribuire<br />
proprio al filosofo e logico americano S. Kripke il merito di aver dato compimento<br />
alla “semantica a <strong>mondi</strong> <strong>possibili</strong>” (o, appunto, “semantica kripkeana”) con<br />
l’elaborazione esplicita della nozione di “relazione di accessibilità” tra <strong>mondi</strong>.<br />
4. CALCOLO DEGLI ENUNCIATI E CALCOLO DEI PREDICATI. SINTASSI E SEMANTICA.<br />
Di solito si distinguono due momenti nella costruzione di un sistema formale: un<br />
momento sintattico e un momento semantico.<br />
Il momento sintattico si incentra essenzialmente nella specificazione di un<br />
apparato simbolico e di regole per manipolare i simboli, senza porre il problema<br />
della loro interpretazione. L’approccio assiomatico allo studio di un certo tipo di<br />
sistema logico presuppone, in primo luogo, che venga individuato un alfabeto sul<br />
7 In realtà Carnap parla di "descrizioni di stato" (state-descriptions) e afferma che «the statedescriptions<br />
represent Leibniz' possible worlds or Wittgenstein's possible state of affairs» (R. Carnap,<br />
Meaning and Necessity. A Study in Semantics and Modal Logic, University of Chicago Press,<br />
Chicago and London, 1947, p. 9. Per la definizione di state-description, cfr. ibidem). La connessione<br />
tra <strong>mondi</strong> <strong>possibili</strong> e descrizioni di stato è resa esplicita nei termini seguenti (p. 10 della stessa<br />
edizione): «Since our state-descriptions represent the possible worlds, this means that a sentence is<br />
logically true if it holds in all state-descriptions».<br />
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L. Floridi (a cura di), Linee di Ricerca, SWIF, 2003-6<br />
quale si costruisce un linguaggio, fornendo opportune regole di formazione delle<br />
espressioni. Tali regole dicono quali successioni di simboli debbano essere accettate<br />
come espressioni ben formate e quali no. Vengono quindi specificati:<br />
a) un insieme di formule del linguaggio che sono dette assiomi (talvolta date nella<br />
forma di schemi di assiomi 8 );<br />
b) un insieme di regole che consentono di operare trasformazioni sugli assiomi e<br />
sulle espressioni ben formate ottenute dagli assiomi.<br />
Gli assiomi stessi e le espressioni ben formate che si ottengono dagli assiomi per<br />
applicazione delle regole, sono detti teoremi. Nella considerazione sintattica, la<br />
nozione di “esser teorema” nel senso di “derivare dagli assiomi in base alle regole di<br />
inferenza” svolge un ruolo predominante.<br />
Il momento semantico, invece, coinvolge il significato dei simboli descrittivi<br />
(e quindi delle espressioni) del sistema formale e la nozione di verità: dato il<br />
linguaggio del sistema, si conferisce un significato alle espressioni ammesse, per cui<br />
diventa sensato stabilire se quel che viene affermato da siffatte espressioni è vero o<br />
no.<br />
Oltre alla distinzione appena richiamata tra sintassi e semantica, un’altra<br />
distinzione che si usa fare è quella tra calcolo enunciativo e calcolo dei predicati.<br />
Nel calcolo enunciativo viene affrontato lo studio dei rapporti di connessione<br />
logica tra enunciati qualsiasi: vengono specificate regole per la costruzione di<br />
enunciati complessi a partire da enunciati semplici, e le lettere enunciative che<br />
denotano gli enunciati semplici, o “atomici”, designano tali enunciati senza che sia<br />
8 Uno schema di assiomi è un’espressione che rappresenta un numero infinito di assiomi; per<br />
esempio, la formula α→(β→α) è uno schema di cui p→(q→q), (p & q)→((r → s) → (p & q)) sono<br />
istanze particolari.<br />
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Massimo Mugnai – <strong>Logica</strong> e Mondi <strong>possibili</strong><br />
possibile ricostruire le differenze anche strutturali che, per esempio, sussistono tra<br />
enunciati come “piove”, “Tutti gli uomini sono mortali”, “Socrate è un filosofo”,<br />
ecc.<br />
Il calcolo dei predicati, invece, si interessa, per così dire, della “grana fine”<br />
degli enunciati. Mentre infatti nel calcolo enunciativo un’asserzione del tipo: “Se<br />
tutti gli uomini sono mortali e tutti i Greci sono uomini, allora tutti i Greci sono<br />
mortali” viene semplicemente ricondotta alla forma: “((p & q) → r)”, nel calcolo<br />
predicativo si cerca di rendere il carattere specifico delle singole asserzioni<br />
componenti e di dar conto della loro diversità, mettendo a punto un trattamento<br />
rigoroso della quantificazione. Di conseguenza, sia il linguaggio sia la<br />
strumentazione logica del calcolo predicativo risulteranno più ricchi e complessi di<br />
quelli del calcolo degli enunciati.<br />
Momento sintattico e momento semantico fanno parte tanto del calcolo<br />
enunciativo quanto del calcolo predicativo.<br />
Nel caso del calcolo enunciativo il momento semantico consiste nello<br />
specificare il significato dei simboli che denotano i vari enunciati e, a questo<br />
riguardo, si assume che l’unica informazione rilevante concerna il loro esser veri o<br />
falsi. Naturalmente “2 + 2 = 4” e “Tutti gli uomini sono mammiferi” sono due<br />
enunciati con differente “contenuto semantico”; abbiamo visto però che il calcolo<br />
enunciativo non si spinge in profondità nell’analisi, e quindi nella differenziazione,<br />
degli enunciati. Quel che conta è il loro valore di verità. Così si assume, in certo<br />
senso, che allo stesso modo in cui Socrate è il significato del nome “Socrate”, il vero<br />
sia il significato di “2 + 2 = 4” e di “Tutti gli uomini sono mortali”. Si ha a che fare,<br />
in tale circostanza, con una semantica “povera”, ridotta ai minimi termini.<br />
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L. Floridi (a cura di), Linee di Ricerca, SWIF, 2003-6<br />
Nel caso del calcolo predicativo, il momento semantico prevede una<br />
procedura più complessa. Poiché, come si è detto, in esso si cerca di specificare<br />
com’è fatto ogni singolo enunciato, si ha un apparato simbolico più ricco di quello<br />
del calcolo enunciativo: si hanno simboli per designare individui, simboli per<br />
predicati, per funtori e per esprimere la generalità (“Per ogni…”; “Esiste…”).<br />
L’attribuzione di un significato ai simboli descrittivi del linguaggio comporta che<br />
ciascun simbolo descrittivo venga interpretato su un insieme non vuoto di “oggetti”,<br />
che costituiscono le “cose” intorno alle quali verte il discorso.<br />
Sebbene il calcolo enunciativo abbia minor potere espressivo rispetto al<br />
calcolo dei predicati, questo “difetto” è compensato dal fatto che ad esso è<br />
applicabile un metodo effettivo per determinare se una qualsiasi formula è una<br />
formula valida o no (un teorema o no). Una maniera per attuare tale metodo è quella<br />
di far ricorso all’uso delle cosiddette “tavole di verità”.<br />
5. POSSIBILE, NECESSARIO E I CONNETTIVI VERO-FUNZIONALI<br />
Le tavole di verità forniscono un metodo per definire il significato dei connettivi<br />
logici (di espressioni cioè come “non”, “e”, “o”, “se…allora…”, ecc.). Le tavole di<br />
verità, infatti, descrivendo il comportamento dei connettivi, ci informano riguardo a<br />
come debbano essere intesi. Poiché in questo modo il significato dei connettivi è<br />
determinato dall’uso logico che di essi viene fatto, si è soliti parlare di “significato<br />
come uso”. Si consideri, per esempio, il connettivo “non”; se usiamo il simbolo “¬”<br />
per rappresentarlo, e indichiamo con “p” un enunciato qualsiasi, possiamo<br />
descriverne il comportamento mediante la seguente tavola:<br />
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Massimo Mugnai – <strong>Logica</strong> e Mondi <strong>possibili</strong><br />
p ¬ p<br />
0 1<br />
1 0<br />
La tavola mostra che, se un dato enunciato p è vero, qualora gli venga preposta la<br />
particella “non” diventa falso e che, viceversa, “non-p” diventa vero se p è falso. La<br />
verità o falsità dell’enunciato composto “¬ p” dipende dalla verità o falsità<br />
dell’enunciato componente p. Il non è un connettivo unario, in quanto si applica a<br />
un solo enunciato alla volta, ma lo stesso metodo può essere applicato agli altri<br />
connettivi binari corrispondenti a e, o, se…allora…ecc. La tavola di verità della e<br />
(resa col simbolo “&”), per esempio, è la seguente:<br />
p q p & q<br />
1 1 1<br />
1 0 0<br />
0 1 0<br />
0 0 0<br />
Anche in questo caso, la verità dell’enunciato complesso dipende dalla verità o<br />
falsità degli enunciati componenti. Lo stesso meccanismo si può applicare ai restanti<br />
connettivi. Vediamo ancora quella del condizionale filoniano o materiale (“se…,<br />
allora…” lo rappresentiamo col segno “→”; per cui lo schema di enunciato<br />
condizionale “se p, allora q”, lo rappresenteremo con “p → q”):<br />
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p q p → q<br />
1 1 1<br />
1 0 0<br />
0 1 1<br />
0 0 1<br />
Quando si valuta un condizionale non vogliamo che nel passaggio dall’antecedente<br />
al conseguente si abbia una “diminuzione” nel valore di verità; perciò accettiamo i<br />
casi in cui si passa dal vero al vero o dal falso al vero o dal falso al falso, mentre<br />
rifiutiamo quello che ci fa inferire il falso dal vero.<br />
I connettivi il cui comportamento può essere determinato in questo modo,<br />
vale a dire semplicemente tenendo conto delle condizioni di verità degli enunciati ai<br />
quali si applicano, vengon detti “verofunzionali”. Non verofunzionali sono invece<br />
gli operatori modali come necessario, possibile, impossibile, ecc.: per determinarne<br />
il comportamento, cioè, non è sufficiente considerare le condizioni di verità degli<br />
enunciati ai quali si applicano. Poniamo infatti che, al solito, “p” designi un<br />
enunciato qualsiasi, e che “◊” e “ ” significhino, rispettivamente, “possibile” e<br />
“necessario”; affrontiamo quindi il problema di come costruire una tavola di verità<br />
per “possibile p” e “necessario p”:<br />
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Massimo Mugnai – <strong>Logica</strong> e Mondi <strong>possibili</strong><br />
p ◊ p<br />
1 1<br />
0 ?<br />
p p<br />
1 ?<br />
0 0<br />
Se “p” è vero, allora è certamente possibile (è possibile che sia vero: si rammenti il<br />
detto degli scolastici «ab esse ad posse valet consequentia (è valido il passaggio<br />
dall’essere al possibile)»). Se invece “p” è falso, cosa inferire riguardo al suo essere<br />
possibilmente vero? Dal fatto che è falso che vi sia oggi un unico vaccino efficace<br />
contro ogni forma di tumore non segue che tale vaccino sia impossibile. Se quindi<br />
“p” è falso, da ciò non possiamo concludere che anche “◊ p” lo sia. Possiamo<br />
concludere allora che “◊ p” è vero? Anche in questo caso l’informazione circa la<br />
falsità di “p” non ci è di aiuto: se un enunciato “p” risulta falso del nostro mondo,<br />
non è detto che, sotto certe condizioni, non sia possibile che sia vero; ma non è<br />
neppur detto che non sia impossibile (nell’esempio precedente, l’esistenza di un<br />
vaccino per ogni tipo di tumore potrebbe essere impossibile). Un discorso analogo<br />
ma, per così dire, inverso rispetto a quanto accade col possibile, accade col<br />
necessario. Se “p” è falso, certamente non può essere un enunciato necessario, dal<br />
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L. Floridi (a cura di), Linee di Ricerca, SWIF, 2003-6<br />
momento che un enunciato necessariamente vero è vero in ogni circostanza; ma se<br />
“p” è vero, non è detto lo sia necessariamente (dal fatto che adesso il mio gatto<br />
muove la coda non è legittimo inferire che l’enunciato “il mio gatto muove la coda”<br />
sia necessariamente vero). Certamente, se sappiamo per certo che un determinato<br />
enunciato è necessario, allora sappiamo anche che è vero, ma il viceversa non vale.<br />
Le tavole di verità dunque non bastano, da sole, a valutare gli enunciati<br />
modali: occorre ricorrere a un metodo più complesso. Con buona approssimazione<br />
possiamo pensare siffatto metodo come ottenuto sfruttando tre elementi:<br />
1) l’analogia tra operatori modali (necessario e possibile) e quantificatori (“per ogni<br />
x” e “esiste almeno un x”);<br />
2) il riferimento a un insieme di “oggetti” detti <strong>mondi</strong> <strong>possibili</strong>;<br />
3) la relazione di accessibilità tra <strong>mondi</strong>.<br />
Abbiamo visto sopra che già i logici scolastici si erano accorti dell’esistenza di<br />
un’affinità tra operatori modali e quelli che all’epoca erano chiamati “segni di<br />
quantità” (in italiano: “Tutti/Ogni”, “Alcuni/Qualche”). Lo Pseudo-Tommaso, come<br />
si ricorderà, aveva assimilato il possibile al “vero in qualche istante” e il necessario<br />
al “vero in ogni istante”. Leibniz, in seguito, farà il passo di considerare il necessario<br />
come il “vero in ogni mondo possibile”. In un certo senso possiamo pensare al<br />
ricorso ai <strong>mondi</strong> <strong>possibili</strong> come a una strategia che consente di ricondurre il<br />
trattamento di concetti sfuggenti come quelli di necessario e possibile, all’ambito<br />
più familiare della logica quantificata. Così, “è possibile p” e “è necessario p”<br />
vengono interpretati, rispettivamente, come: “esiste un mondo w tale che a tale<br />
mondo p è vero” e “per ogni mondo w, a tale mondo p è vero”. La relazione di<br />
accessibilità ci permette infine di determinare le condizioni sotto le quali da un dato<br />
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Massimo Mugnai – <strong>Logica</strong> e Mondi <strong>possibili</strong><br />
mondo si possono avere informazioni riguardo a quel che si verifica in un altro. Il<br />
fatto rilevante è che, mediante la relazione di accessibilità, si è in grado di<br />
specificare opportuni assetti tra <strong>mondi</strong> che forniscono differenti modelli per i vari<br />
sistemi modali.<br />
Per avere un’idea di cosa si intenda con tale relazione, si pensi, per esempio,<br />
che ciascuno di noi può immaginare un individuo del tutto identico a se stesso che<br />
vive in una situazione (in un mondo) differente da quella nella quale egli attualmente<br />
si trova. È plausibile ritenere che questo alter ego non abbia alcuna consapevolezza<br />
della situazione nella quale si trova colui che fa l’atto di immaginare. Si tratta di un<br />
caso in cui la relazione di accessibilità da un mondo all’altro è asimmetrica: noi<br />
concepiamo il mondo col nostro alter ego, ma il nostro alter ego non ha idea del<br />
mondo nel quale noi ci troviamo. Oppure si pensi a un’innovazione tecnologica che<br />
non può realizzarsi nel nostro mondo, in quanto mancano in esso certe risorse<br />
materiali (poniamo una struttura atomica della materia completamente diversa dalla<br />
nostra). Dal nostro mondo w1, nel quale quell’innovazione non è realizzabile,<br />
possiamo pensare a un mondo w2 con struttura della materia differente dal nostro: da<br />
quel mondo sarebbe senz’altro concepibile una situazione – un mondo w3 - nel quale<br />
l’innovazione viene realizzata. Così, dal nostro mondo w1 abbiamo accesso al<br />
mondo w3, nel quale viene realizzata l’innovazione, “passando” attraverso il mondo<br />
w2: abbiamo a che fare, in tal caso, con una relazione di accessibilità transitiva.<br />
Al fine di dare un correlato intuitivo alla relazione di accessibilità, si è soliti<br />
chiamare in causa l’atto di vedere: un mondo ha accesso a un altro se dal primo si<br />
“vede” quel che si verifica nel secondo. Quindi se, per esempio, da un mondo wi si<br />
“vede” quel che accade in un mondo wk e se da wk si vede wi, tra i due <strong>mondi</strong><br />
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L. Floridi (a cura di), Linee di Ricerca, SWIF, 2003-6<br />
sussiste una relazione di accessibilità simmetrica. Sia la nozione di “esser<br />
concepibile” sia quella di “vedere” sono nozioni ausiliarie, da impiegare per dare<br />
un’idea di come funziona la relazione binaria (che vale cioè tra due <strong>mondi</strong>) di<br />
accessibilità. Il punto importante è che tale relazione gode di proprietà quali, per<br />
esempio, quelle appena menzionate della simmetria e della transitività, che possono<br />
essere specificate in modo matematicamente rigoroso.<br />
Riassumendo, gli strumenti di cui disponiamo, da un punto di vista<br />
strettamente logico, per analizzare gli enunciati modali sono i seguenti:<br />
a) un opportuno linguaggio formale L, nel quale siano stati definiti in modo<br />
rigoroso: un alfabeto di riferimento; cos’è una formula ben formata; quali sono i<br />
connettivi logici impiegati; quali sono le regole ammesse per passare da una o<br />
più formule a un’altra, ecc.;<br />
b) un insieme non vuoto W i cui membri vengono chiamati <strong>mondi</strong> <strong>possibili</strong>;<br />
c) una relazione binaria R su W (detta di accessibilità);<br />
d) una funzione v, chiamata valutazione su , che associa a ciascuna coppia<br />
costituita da una formula enunciativa pi di L e da un elemento wi di W, un<br />
elemento nell’insieme {0, 1} (0 e 1 è naturale pensarli come equivalenti,<br />
rispettivamente, al falso e al vero). Detto altrimenti: la funzione v determina se<br />
una data formula enunciativa pi di L è vera o falsa sul mondo wi.<br />
6. MODELLI E TELAI. ALCUNI ESEMPI NOTEVOLI<br />
La tripla ordinata costituisce il modello M; la coppia può esser<br />
chiamata “telaio” – termine italiano corrispondente all’espressione inglese frame; di<br />
M si dice che “è basato” sul telaio .<br />
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Massimo Mugnai – <strong>Logica</strong> e Mondi <strong>possibili</strong><br />
Gli strumenti sommariamente richiamati permettono di definire, per qualsiasi<br />
formula enunciativa pi di L, la relazione di vero rispetto al mondo wi nel modello M.<br />
Questa relazione viene utilizzata a sua volta per determinare in modo naturale cosa<br />
significa che una formula enunciativa pi è necessariamente vera: pi risulta<br />
necessariamente vera rispetto a un mondo wi in un modello M basato sul telaio<br />
se e soltanto se pi è vera in ogni mondo wk che appartiene a M e tale che sta<br />
con wi nella relazione R.<br />
Senza entrare in ulteriori dettagli tecnici, che sarebbe inopportuno affrontare<br />
in questa sede, converrà mettere in rilievo alcuni aspetti filosoficamente rilevanti<br />
della trattazione fin qui svolta. In primo luogo emerge l’idea di una sorta di<br />
relativizzazione del concetto di necessario (e quindi di possibile: fin dall’antichità è<br />
noto infatti che necessario e possibile sono inter-definibili (“necessario p” equivale<br />
a “non possibile non-p”; “possibile p” equivale a “non necessario non-p”)). Sebbene<br />
l’intuizione fondamentale rimanga quella di considerare necessariamente vero un<br />
enunciato che è vero in tutti i <strong>mondi</strong> <strong>possibili</strong>, il concetto di “vero in tutti i <strong>mondi</strong><br />
<strong>possibili</strong>” viene limitato dalla relazione di accessibilità: un dato enunciato p è<br />
necessario se è vero in tutti i <strong>mondi</strong> <strong>possibili</strong> accessibili a un dato mondo (il mondo<br />
dal quale p risulta appunto necessariamente vero).<br />
Per dare un’idea di come funzioni il meccanismo della necessità condizionata<br />
dalla relazione di accessibilità, vediamo alcuni esempi. A tale scopo adotteremo un<br />
modo di argomentazione “semi-formale”, ricorrendo ai simboli introdotti sopra: “ ”<br />
per necessario e “◊” per possibile. In primo luogo bisogna tener presente che, se si<br />
vuol preservare un senso alla logica <strong>modale</strong>, tra i teoremi dei vari sistemi modali<br />
non deve figurare il seguente enunciato:<br />
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(*) p → p, ossia: “se p è vero, allora p è necessariamente vero”.<br />
L’accettazione di questo principio porterebbe infatti a equiparare vero e<br />
necessariamente vero, dando luogo a quello che viene chiamato “collasso delle<br />
modalità”. Bisogna stare attenti perciò a non confondere (*) con il seguente<br />
enunciato che invece è un teorema caratteristico del sistema <strong>modale</strong> solitamente<br />
contraddistinto con la lettera T:<br />
(1) p → p: se p è necessario, allora p è vero.<br />
(1) è un teorema – e quindi risulta valido, vale a dire sempre vero – in ogni modello<br />
M basato su un telaio in cui R è una relazione riflessiva – tale cioè che per<br />
qualsiasi mondo wi appartenente a M vale: wiR wi . Una maniera per rendersi conto<br />
di ciò è la seguente. (1) ha la forma di un condizionale; ora, un condizionale è vero<br />
se vale uno dei due casi:<br />
a) l’antecedente è falso oppure<br />
b) il conseguente è vero.<br />
Supponiamo che “ p” sia falso a un qualunque mondo wi nel modello M: dal<br />
momento che ciò verifica il caso (a), è ovvio che (1) risulterà vero a wi. Supponiamo<br />
invece che “ p” sia vero al mondo wi nel modello M: per definizione di enunciato<br />
necessario, ciò significa che “p” è vero in tutti i <strong>mondi</strong> accessibili a wi ; ma poiché R<br />
è una relazione riflessiva (wi è accessibile a se stesso), ciò implica che p è vero a wi ,<br />
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Massimo Mugnai – <strong>Logica</strong> e Mondi <strong>possibili</strong><br />
dunque (1) è vero a wi. In ogni caso segue perciò che (1) è sempre vero in un<br />
qualunque mondo wi del modello.<br />
Possiamo aumentare le proprietà della relazione di accessibilità e<br />
considerare, oltre alla proprietà riflessiva, anche la proprietà transitiva: dati tre<br />
<strong>mondi</strong> wi, wk, wj, se wi R wk e wkRwj , allora wiRwj. In questa situazione, un enunciato<br />
che risulta valido è<br />
(2) p → p: se un enunciato p è necessario, allora è necessario che sia<br />
necessario.<br />
Supponiamo di avere, al solito, un modello M basato su un telaio in cui R è<br />
riflessiva e transitiva. Facciamo l’ipotesi che (2) sia falso: in tal caso (per la tavola di<br />
verità del condizionale), l’antecedente “ p” deve esser vero e il conseguente “ p”<br />
falso. Poniamo che “ p” sia vero a un mondo qualsiasi wi e che “ p” sia falso a<br />
wi: da questa supposizione segue che in W deve esistere un mondo wk, che si<br />
relaziona a wi secondo R, in cui “ p” è falso. Se però “ p” è falso a wk, ciò<br />
significa che deve esistere un mondo wj accessibile a wk nel quale “p” è falso (per la<br />
definizione di enunciato necessario: poiché un enunciato necessario è vero in tutti i<br />
<strong>mondi</strong> accessibili a un dato mondo, se è falso che un enunciato è necessario, tale<br />
enunciato deve essere falso a un mondo accessibile a quel mondo). Dunque “ p” è<br />
vero a wi, mentre “p” è falso a wj: la relazione di accessibilità tra wi, wk e wj è però<br />
transitiva e ciò significa che wj è accessibile da wi, il che a sua volta significa che si<br />
ottiene una contraddizione (perché sia vero a wi che p è necessario, bisogna che p sia<br />
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vero in tutti i <strong>mondi</strong> accessibili da wi; ma wj è uno di tali <strong>mondi</strong> e in esso p è falso:<br />
ciò contraddice l’assunzione che “ p” sia vero a wi). Siccome la transitività è un<br />
requisito necessario perché sia vero (2), è evidente che in modelli basati su telai in<br />
cui la transitività non vale viene anche meno (2). Il sistema logico <strong>modale</strong> di cui (2)<br />
è l’assioma caratteristico è solitamente chiamato “S4”.<br />
Oltre alle proprietà riflessiva e transitiva, dotiamo adesso la relazione di<br />
accessibilità anche della simmetria: otteniamo un modello M fondato su un telaio<br />
, in cui R si comporta così:<br />
a) per qualunque wi appartenente a W, vale wiRwi;<br />
b) per wi e wk qualsiasi, appartenenti a W, se wiRwk allora wkRwi;<br />
c) per wi ,wk e wj qualsiasi, appartenenti a W, se wiRwk e wkRwj allora wiRwj.<br />
Nel modello basato su questo telaio, risulta valido il principio:<br />
(3) ◊ p → ◊ p.<br />
Non è difficile argomentare a favore della validità di (3) lungo le linee dei<br />
ragionamenti che si sono svolti finora per i princìpi (1) e (2). Affinché “◊ p” risulti<br />
vero a un dato mondo wi bisogna che p sia vero a un mondo wk accessibile a wi; e<br />
siccome wk vede se stesso (proprietà riflessiva di R), anche a wk è vero “◊p”; inoltre,<br />
wi medesimo vede che “◊p” è vero a wi. (sempre per la riflessività). D’altra parte, un<br />
qualunque altro mondo wj correlato a wk vede che “p” è vero a wk (per la simmetria):<br />
dunque “◊p” è vero anche a wj. Per la proprietà transitiva di cui gode R, però, wi<br />
vede quel che accade a wj e qui “◊p” è vero. Dunque, poiché in tutti i <strong>mondi</strong><br />
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Massimo Mugnai – <strong>Logica</strong> e Mondi <strong>possibili</strong><br />
accessibili da wi “◊p” è vero, vale (per definizione di enunciato necessario) che a wi<br />
“ ◊ p”. Si noti che a wj “p” potrebbe essere falso: in tal caso, per la riflessività, ciò<br />
porterebbe ad affermare che a wj è vero sia “◊p” sia “◊¬p”. Questa situazione<br />
sarebbe tuttavia del tutto compatibile con la conclusione per cui vale “ ◊p”: come si<br />
è osservato sopra, non bisogna confondere “◊¬p” con “¬◊p”. A essere in conflitto<br />
con “ ◊p” è “¬◊p”, non “◊¬p”. Di solito (3) viene indicato come caratteristico del<br />
sistema logico <strong>modale</strong> S5.<br />
Quelli menzionati finora sono soltanto alcuni tra i sistemi modali più noti e<br />
studiati nell’ambito della logica <strong>modale</strong> enunciativa. Naturalmente è possibile<br />
sviluppare anche la dimensione predicativa della logica <strong>modale</strong>, introducendo nel<br />
linguaggio di riferimento variabili individuali (x, y, z…) e quantificatori (i simboli<br />
“∃” (“esiste”) e “∀” (“per ogni”)). La moderna teoria della quantificazione richiede<br />
tuttavia che venga fissato un dominio di oggetti su cui variano, appunto, le variabili.<br />
Per dare un significato a espressioni del tipo “esiste un x tale che gode della<br />
proprietà P” oppure “tutti gli y hanno la proprietà Q”, è opportuno sapere qual è<br />
l’insieme di oggetti x o di oggetti y di cui si sta parlando. Nel caso di una semantica<br />
a <strong>mondi</strong> <strong>possibili</strong> sembra naturale che il passaggio alla teoria della quantificazione<br />
(alla logica predicativa) avvenga associando a ciascun mondo un certo dominio di<br />
oggetti. Tale associazione, tuttavia, solleva problemi filosofici non indifferenti. Si<br />
può pensare, per esempio, che i nostri ragionamenti sul possibile coinvolgano<br />
comunque gli individui appartenenti al nostro mondo – che in altri <strong>mondi</strong> avranno<br />
proprietà differenti da quelle di cui godono nel nostro – senza però tirare in ballo<br />
individui <strong>possibili</strong>, in aggiunta, per così dire, a quelli del nostro mondo. Oppure si<br />
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può assumere che esistano individui <strong>possibili</strong>, che costituiscono di volta in volta il<br />
dominio di oggetti che caratterizza un determinato mondo. Non tutti però sono<br />
disposti ad accettare un siffatto dominio di individui <strong>possibili</strong>. Un problema che<br />
infatti si pone immediatamente, se si accetta un’ontologia di individui <strong>possibili</strong>, è<br />
come identificarli, e quindi distinguerli gli uni dagli altri.<br />
La logica <strong>modale</strong> quantificata dà luogo a numerosi problemi filosofici, che<br />
coinvolgono questioni di ontologia (cos’è propriamente un individuo e come lo si<br />
identifica; cosa significa che un medesimo individuo è in due <strong>mondi</strong> diversi; come<br />
“è fatto” un mondo possibile, ecc.) e di “metafisica” nel senso della tradizione<br />
analitica anglo-sassone. Si tratta per lo più di problemi che, all’interno di un<br />
apparato tecnico completamente nuovo rispetto a quello della tradizione (che si<br />
basava essenzialmente sulla logica aristotelico-scolastica) si ricollegano ad<br />
argomenti classici della filosofia occidentale.<br />
[<br />
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BIBLIOGRAFIA<br />
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