LA VERA STORIA DEL BATTAGLIONE SAN MARCO - Giacomo Bezzi
LA VERA STORIA DEL BATTAGLIONE SAN MARCO - Giacomo Bezzi
LA VERA STORIA DEL BATTAGLIONE SAN MARCO - Giacomo Bezzi
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Frontespizio<br />
(i testi partono da pag. 2)<br />
GIACOMO BEZZI<br />
l e g é r e *<br />
vere storie personaggi negativi<br />
della provincia italiana<br />
*Il Battaglione San Marco e Cirillino Troppeùrve<br />
* John-Clarence Bianchi, detto l’ameriàno<br />
* La Premiata Tessitura Cecchi Mario & Figli<br />
* L’Organizzazione Viaggi Traverso Giambattista<br />
*La Tip-Tap Italia di Colòn (Panamà)<br />
*Angelo Burlando: dagli Appennini alle Ande (via Geddah)<br />
* legéra: sostantivo femminile singolare della lingua genovese<br />
che significa gaglioffo o, più eufemisticamente, persona<br />
non del tutto affidabile<br />
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<strong>LA</strong> <strong>VERA</strong> <strong>STORIA</strong> <strong>DEL</strong> <strong>BATTAGLIONE</strong> <strong>SAN</strong><br />
<strong>MARCO</strong> E DI CIRILLINO TROPPEURVE<br />
**************************************************************<br />
no dei più famosi inni anarchici fu “Figli dell’officina”, quello che<br />
termina con “....un mondo di fratelli di pace e di lavor!”, e figli<br />
dell’officina furono davvero i quattro cugini Riglioni che un loro<br />
parente per parte di donne ribattezzò il Battaglione San Marco. Non<br />
tanto perché evocassero quegli strani soldati in grigioverde come la fanteria del Regio<br />
Esercito ma col solino azzurro dei marinai sulle spalle ed il basco alla marò, ed il cui<br />
inno gli ricordava i concerti della banda della Marina Militare dei pomeriggi<br />
domenicali della sua Spezia; ma perché due di loro abitavano nel rione San Marco di<br />
Lucca e gli altri due in San Marco di Pisa.<br />
Ora, mentre il primo San Marco è uno dei rioni più signorili della città, tutto<br />
palazzine abitate da notai, dentisti, concessionari d’auto e gente facoltosa del genere,<br />
il secondo San Marco è tutto di terratetti modesti con orti rachitici e case dei<br />
ferrovieri, in cui risiede, per di più, un proletariato che solo oggi si è evoluto a suon<br />
di telefoni cellulari e play-stations.<br />
I quattro cugini Riglioni avevano l’abitudine di arrivare tutti insieme<br />
appassionatamente in delegazione a casa di questo parente, per chiedere novità sul<br />
sistema previdenziale, dal momento che lui era un funzionario dell’INPS e la sapeva<br />
lunga in materia: di qui l’epiteto affibbiato loro dal previdenziere.<br />
2
Nel San Marco di Lucca abitavano fino a qualche anno fa Lucio e Arrigo Riglioni:<br />
uno ingegnere e l’altro direttore di banca. Erano figli di Libertario Riglioni che, nel<br />
ventuno, appena assunto dalle Ferrovie, picchiò a sangue il capostazione di Lucca<br />
solo perché era dell’Azione Cattolica. Non ci furono denunce perché un buon parroco<br />
disse al capostazione che la miglior vendetta è il perdono, ma la cosa venne<br />
all’orecchio dei Carabinieri e ci scappò un bel verbale ed il licenziamento in tronco<br />
del focoso Libertario, divenuto nel frattempo una delle prime cellule importanti del<br />
neonato Partito Comunista d’Italia di Bordiga e Gramsci.<br />
Libertario, guardato con sospetto da tutti, aprì, alla faccia del regime,un negozio dei<br />
olii e saponi e fece anche dei soldi: tanti da riuscire a far studiare i figli all’università.<br />
Pur non occupandosi più ufficialmente di politica, non gli fu difficile, ai tempi della<br />
guerra d’Abissinia, quando tutta l’Italia gridava alalà e cantava Faccetta Nera, entrare<br />
in contatto con l’Intelligence Service inglese perché a quell’epoca l’Ovra aveva solo<br />
il compito di spiare quelli che raccontavano barzellette su Mussolini. Poi, la seconda<br />
guerra mondiale e, all’arrivo degli americani con al seguito tutto il Cln della città, fu<br />
semplice a Libertario Riglioni ottenere il patentino di perseguitato politico e<br />
riscuotere una bella pisola di quattrini dalle FFSS come arretrati di ventitré anni di<br />
stipendio non goduto. Non poté goderseli, perché un malaccio di cacciò nella tomba<br />
ancor prima della disfatta del PCI del 18 Aprile 1948.<br />
Dei suoi due figli laureati, l’ingegnere si arricchì costruendo condominii anonimi a<br />
Viareggio, sposò una lucchese quattrinaia con tenute in Brasile e dovette abbandonare<br />
3
en presto la professione perché era divenuto totalmente sordo e non era un<br />
Beethowen.<br />
Suo fratello Arrigo, invece, avrebbe voluto fare l’insegnante di ragioneria, ma si<br />
adattò a far domande a destra e a manca. Una di queste fu accettata dalla Comit, che<br />
lo assunse come impiegato d’ordine.<br />
Data l’aria che tirava negli anni cinquanta in quella città tutta diccì, fu per lui una<br />
fortuna saper destreggiarsi fra fanfaniani, andreottiani e basisti; quando, poi, si<br />
aggiunsero al coro il dorotei ed i morotei, i pontieri di Taviani ed i forzanovisti di<br />
Donat-Cattin, il gioco fu talmente semplice che ci scappò la nomina a direttore di<br />
filiale, con conseguente ricco stipendio di sedici tra mensilità e prebende varie.<br />
Arrigo sposò una professoressa di scienze e praticò il rito delle ferie alternando una<br />
quindicina di giorni a Lido di Camaiore fra pratesi tessutai e santacrocesi pellai, ad<br />
un’altra quindicina di giorni alla Doganaccia, fra verduraie e salumai della Piazza<br />
delle Vettovaglie di Pisa.<br />
Fratello minore di Libertario Riglioni era Giordanobruno, che non si occupò mai di<br />
politica dalla paura di perdere il posto di fuochista delle FFSS. Anzi, durante il<br />
ventennio concordatario, cambiò il nome in un più semplice Bruno. Sposò una<br />
casalinga brava cuoca, e si rese popolare in San Marco come raccoglitore di funghi e<br />
di lumache. Fece il fuochista fino a che esistettero le locomotive da manovra, e poi<br />
morì senza godersi la pensione.<br />
Ebbe due figli che non seguirono le sorti dei cugini, perché erano duri come il<br />
macigno: si e no, fecero le scuole dell’obbligo ed oltrettutto senza profitto.<br />
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Il maggiore, Velio, fece anche lui il ferroviere - personale viaggiante - e sbatté la<br />
porta in faccia ad amici e parenti quando si seppe che qualcuno aveva detto che lui,<br />
nelle FFSS, non c’era entrato per concorso, ma per un colpo di fortuna. Infatti,<br />
cominciò come facchino in una cooperativa di carico e scarico che fu sciolta<br />
all’arrivo della legge sugli erga omnes, ed i cui dipendenti furono assunti dalle FFSS<br />
come manovali. Il lavoro da facchino glielo aveva trovato un suo lontano parente da<br />
parte di madre, preso da compassione per quel povero giovane che rischiava di<br />
divenire uno dei tanti disoccupati cronici dell’epoca.<br />
Il secondo figlio, Rodolfo, aveva trovato chissaccome un posto da saldatore nello<br />
stabilimentino della Piaggio a Ponrtammare, dove si assemblava l’Ape e dove, come<br />
inizio, si procurò, con la fiamma ossidrica, un’ustione che gli fruttò settimane di<br />
mutua.<br />
Dato che era un bel ragazzo, il parente dell’INPS una volta gli chiese perché non<br />
aveva scelto la carriera del fotomodello; ebbe però una risposta sibillina. Ed<br />
altrettanto sibillina (“Sono mestieri periolòsi”) la ebbe quando gli chiese perché non<br />
faceva la guardia notturna od il carabiniere. data la dichiarata pesantezza del mestiere<br />
di saldatore.<br />
Anzi, dato che erano in argomento, il parente previdenziere si sentì chiedere se aveva<br />
conoscenze nella direzione della Piaggio per un’eventuale spintarella.<br />
Il parente INPS non ebbe il coraggio di dire di no: dal suo ufficio parlò del ragazzo in<br />
termini benevoli col capo del personale della Piaggio, che fece di tutto per trasferire il<br />
Rodolfo Riglioni a Pontedera, che nel frattempo stava raddoppiando gli stabilimenti.<br />
5
Mal ne incolse al parente INPS, perché, dopo due o tre mesi , il raccomandato di ferro<br />
fu sbattuto fuori della Piaggio come una ramazza per manifesto scarso rendimento.<br />
Infatti, il Riglioni era stato, sì, spedito alla catena di montaggio della Vespa, ma era<br />
stato garantito al capopersonale che, se il suo cocco ci sapeva fare, presto sarebbe<br />
stato passato di categoria e, poi, chissà: avrebbe potuto divenire anche un capetto.<br />
Invece il Riglioni si fece subito venire una peritonite con conseguenti lunghe<br />
settimane di convalescenza, cure e, soprattutto, riposo, che aggravarono la sua<br />
situazione di ritardatario cronico.<br />
Si giustificò del licenziamento in tronco con fidanzata, parentado, cugini laureati ed il<br />
parente INPS, col dire che alla Piaggio di Pontedera si respirava un’aria mefitica fatta<br />
di controlli e di spiate, e lui si era ribellato: fu creduto.<br />
Nonostante questo precedente, però, riuscì a trovare - forse col metodo usato qualche<br />
anno prima da suo fratello - un posticino da autista nell’azienda municipalizzata dei<br />
trasporti cittadini, ove ti licenziano solo se spacchi la faccia ad un dirigente.<br />
E, allora, dopo un annetto di guida degli autobus urbani, un’ernia del disco lo mise<br />
kappaò.<br />
Operazioni chirurgiche, degenze, convalescenze infinite e riabilitazioni nelle<br />
principali stazioni termali della penisola, che convinsero l’azienda a considerarlo<br />
inabile alla guida: per compassione, fu spedito in officina ove si distinse per le sue<br />
movenze da bradipo, tanto che i suoi colleghi lo soprannominarono sarcasticamente<br />
Motorino.<br />
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Rimase in officina fino al prepensionamento che avvenne in età talmente giovanile<br />
da permettergli di dedicarsi, finalmente!, alla sua unica vera passione: la pesca<br />
sportiva.<br />
Ora sì che poteva alzarsi da letto all’alba: ma non per andare all’odiato lavoro, ma per<br />
andare coi gambali fino alla coscia nelle gelide acque del Serchio e in quelle<br />
vorticose della Lima per la pesca con la canna, o fra i marosi del Tirreno in burrasca<br />
per la pesca al rezzaglio.<br />
Postumi della peritonite e dell’ernia del disco? Neanche a parlarne: come i sogni<br />
sognati all’ombra di un cielo blu, rimasero ricordi del tempo bello che non c’è più.<br />
Durante le battute di pesca al rezzaglio, conobbe del pescatori livornesi dai quali<br />
apprese le locuzioni boiadé! e borda!, con le quali modernizzò un po’ il suo<br />
linguaggio. Infatti, avendo sempre vissuto fino alla pubertà attaccato alle gonnelle<br />
della madre che era una popolana, diceva, ad esempio. la diabete che proprio italiano<br />
moderno non è.<br />
La fidanzata e poi moglie di Rodolfo Riglioni era una commessa di drogheria, figlia<br />
di un bracciante inurbato. Si chiamava Morena, che di per sé è un nome campagnolo,<br />
aveva fatto si e no le elementari ma le piacevano tanto i soldi e l’oreficeria. Però,<br />
avrebbe voluto riscattarsi in una maniera o nell’altra, ma non certo andando alle<br />
scuole serali che le sarebbero state proibite dal Riglioni Rodolfo geloso come un<br />
Otello. Avrebbe potuto imparare qualcosa qua e là: ed il qua e là poteva essere il<br />
parente INPS al quale chiese di andar con loro ad una gita a San Gimignano, città che<br />
aveva sempre sentito nominare ma che non aveva mai visto neanche in cartolina:<br />
7
questo invito fu fatto perché lei sapeva che il previdenziere e sua moglie erano una<br />
coppia colta dalla quale avrebbero potuto imparare parecchio.<br />
Il parente INPS si diede da fare spiegando la bellezza soave della cappella di Santa<br />
Fina del Ghirlandaio e quella della Piazza della Cisterna, tutta a sghimbescio ma<br />
piccolo capolavoro dell’urbanistica rinascimentale. Al ritorno, il parente chiese al<br />
Riglioni se gli era piaciuta la piazza ed ebbe come tutta risposta che sì, poteva essere<br />
anche bella, ma che c’erano troppe cornacchie.<br />
Stessa risposta intelligente fu data dopo una gitarella in Garfagnana, subregione<br />
oggetto di culto da parte di tutta la borghesia della città: “Forse saranno bei posti, ma<br />
ci sono troppe ùrve.”<br />
E si beccò anche il soprannome di Cirillino Troppeùrve.<br />
Il parente previdenziere era sposato con una bella e simpatica impiegata dell’Autorità<br />
Portuale di Livorno che morì improvvisamente divorata da un cancro e lasciandolo<br />
talmente sconvolto da fargli decidere di chiudere tutto e traslocare nella sua Spezia,<br />
ove aveva lasciato qualche amico e qualche parente.<br />
Un giorno, nel trigesimo della morte della signora, i quattro cugini del Battaglione<br />
San Marco al completo, guidati dalla Morena, si fecero avanti per vedere se per caso<br />
avesse lasciato dell’oro e per sapere se, nell’intrico della legittima, c’era da raspare<br />
qualche milioncino a testa. Trovarono il portone chiuso ed un cartello di vendesi con<br />
la sola indicazione di un numero telefonico che iniziava con lo zerounoottosette.<br />
<strong>LA</strong> <strong>VERA</strong> <strong>STORIA</strong> DI JOHN-C<strong>LA</strong>RENCE<br />
BIANCHI, DETTO L’AMERI-ANO<br />
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on ricordo esattamente l’anno, ma doveva essere o il ‘90 o il ’91.<br />
Eravamo verso la fine di Aprile, quando Marialuisa mi disse che il 1°<br />
Maggio suo figlio non sarebbe stato a casa per due o tre giorni.<br />
Avrebbe approfittato della festa di laurea di un suo compagno di corso<br />
di Pontedera per andare a riassettare la casa di Terricciola.<br />
Avremmo avuto così la possibilità di passare due notti assieme, cosa che non<br />
accadeva quasi mai.<br />
Eravamo ambedue vedovi, e quindi liberi, ma avevamo avuto ambedue delle eredità<br />
piuttosto ingombranti.<br />
Lei aveva ereditato una villa con parco-giardino all’inizio di Pontasserchio ed un<br />
figlio ingegnere appena laureato che aveva ancora studio in casa e non se ne muoveva<br />
mai all’infuori di ogni martedì sera, quando andava in palestra all’ora che io tornavo<br />
a casa mia.<br />
Io, d’altro canto, avevo avuto in eredità un bell’appartamento di sei vani in un bello<br />
stabile dell’estrema periferia della città, verso Barbaricina, ed una suocera vecchia,<br />
piena di acciacchi e per nulla autosufficiente.<br />
Vivevo da solo con lei, ma ogni mattina veniva una donna a far le faccende di casa ed<br />
a cambiarle i pannoloni, mentre io andavo alla posta ed al supermercato a comprare<br />
qualcosa da mettere sotto i denti. Al pomeriggio, altra donna per altro cambio di<br />
pannoloni, che mi dava la possibilità di passare tre o quattro ore con Marialuisa, con<br />
la quale filavo ormai da un paio d’anni.<br />
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Avremmo potuto sposarci, e ne avevamo addirittura parlato col suo parroco:<br />
avremmo potuto vivere serenamente, se i nostri due casi non si fossero accavallati.<br />
Infatti, non c’era quasi mai l’occasione di goderci un po’ di intimità, e dovevamo<br />
ragioneristicamente programmare anche le cose più ovvie nella vita di coppia.<br />
Mi diedi, dunque, da fare per trovare chi passasse due notti ad assistere mia suocera,<br />
ed ebbi la fortuna di trovare alla prima telefonata Manola, che è una zitella che si<br />
adegua a fare assistenza a malati ed anziani. E’ brava e di miti pretese: patteggiam-<br />
mo un centocinquatamila, e la sera del 30 Aprile, ci lasciammo con tanto di “Mi saluti<br />
tanto la signora Marialuisa” da parte di lei e le solite raccomandazioni da parte mia.<br />
Arrivai alla Villa Buontalenti con l’ultima corsa per Pontasserchio, facemmo una<br />
bella cenetta, e ci concedemmo uno spumantino per festeggiare l’avvenimento. Poi, la<br />
correzione di una prospettiva in un olio appena abbozzato e un po’ di televisione,<br />
quindi ci prendemmo quelle libertà che avevamo desiderato per tanti giorni e che<br />
sanzionavano il proseguo del nostro amore tenero quanto appassionato. Per due notti<br />
non furono solo dolci baci e languide carezze.<br />
La mattina dopo, passò davanti alla Villa Buontalenti la banda comunale che suonava<br />
l’Inno dei Lavoratori ed il giorno dopo, il 2 Maggio, andammo a Viareggio per la<br />
vernice di una collettiva alla quale partecipava anche lei con un olio ispirato alle<br />
campagne intorno alla sua proprietà.<br />
Discorsi, coppe, medaglie e le presentazioni di rito: una signora di Pistoia che dipinge<br />
fiori, una di Altopascio detta la pittrice dei gatti, un pittore di Massa che si chiama<br />
Potenza e che dipinge su carta di riso, due o tre livornesi che producono marine con<br />
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contorno di scogliere del Romito, una combriccola di pittrici di Scandicci tutte<br />
rigorosamente figurative, una decina di viareggini - molti, perché giocavano in casa -<br />
ed un pittore americano: l’unico non figurativo perché aveva presentato due opere<br />
tipo op-art di vent’anni prima.<br />
Disse a tutti di essere californiano, di abitare ad Oratoio dove la periferia confina con<br />
la pianura di Coltano, bruciata dal sole d’estate e dalla brina d’inverno, e di chiamarsi<br />
John-Clarence Bianchi.<br />
Per noi due, passò anche l’estate: tra Pontasserchio, qualche bagno a Tirrenia e la<br />
casa di Terricciola.<br />
Quest’ultimo soggiorno fu per me l’occasione per farle fare un accordo con la<br />
Proloco di Casciana, della quale conoscevo il presidente, per una personale nella<br />
saletta del Circolo dei Forestieri. Personale che fu fatta a fine estate, con discreto<br />
successo: tre olii venduti per un totale di unminioneduecentomila che servirono a<br />
coprire spese varie ed a regalarci una gita a Vienna con una comitiva delle Acli.<br />
A me, però, le cose stavano andando di male in peggio, perché mia suocera si era<br />
aggravata entrando a capofitto nell’Altzeimer con deliri e demenza senile galop-<br />
pante. Mi fu necessario ricoverarla in una casa di riposo degna di tale nome, e mi<br />
presi l’impegno di andare a trovarla ogni tre o quattro giorni, senza peraltro essere<br />
mai riconosciuto. Morì due anni dopo, quando avevo già preso la decisione di<br />
sbarazzarmi di quel grande appartamento che non serviva più a nessuno.<br />
Per Marialuisa, invece, tutto era al punto di partenza col figlio che continuava a<br />
disegnare mattina e sera curvo sul tecnigrafo.<br />
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A metà Ottobre, quelli di Viareggio ci invitarono ad un viaggio a Rimini , dove ci<br />
sarebbe stata un’altra collettiva ai primi di Novembre nel quadro di uno scambio<br />
culturale versilio-romagnolo..<br />
Ci andammo e, fra i gitanti, trovammo John-Clarence Bianchi sbulinato come non<br />
mai, coi capelli lunghi e untuosi e la dentatura poco in sesto.<br />
Si aggregò a noi per tutto il periodo della gita, e, poi, e si fece rivedere un pomerig-<br />
gio alla Villa Buontalenti con sotto il braccio un volume grosso così di poesie scritte<br />
in inglese con traduzione a fronte in italiano.<br />
Era un po’ meglio in arnese, anche se forse aveva bisogno di un bagno.<br />
Disse che le poesie, due o trecento, erano opera sua perché, dopo aver lavorato anni<br />
ed anni al Camp Darby di Tombolo, poteva permettersi di vivere di rendita e fare<br />
l’artista: il poeta ed il pittore come aveva sognato da ragazzo.<br />
Ci propose di venire alla Villa Buontalenti due volte alla settimana, e noi non avem-<br />
mo il coraggio di dirgli di no, anche se ci meravigliava una certa aria di mistero della<br />
quale si compiaceva circondarsi.<br />
Azzardai che fosse una spia o qualcosa del genere: non tanto spionaggio militare<br />
perché in Italia c’è poco da spiare, quanto roba tipo spionaggio industriale o politico.<br />
Sennò, che ci andava a fare un giorno sì ed uno no a Firenze al consolato americano:<br />
a riferire i pettegolezzi del giorno?<br />
Il fatto, poi, che conoscesse tecniche mediche orientali e ricette della cucina indo-<br />
cinese mi fece azzardare, invece, che era uno che aveva fatto il Vietnam e che ne era<br />
uscito con la mente in disordine.<br />
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Californiano di dove? Di San Francisco: un po’ troppo vago, se nulla sapeva dei leoni<br />
marini del 39° molo e che sono un’attrattiva mondiale.<br />
E i suoi di dov’erano? Dei dintorni di Chiavari: altrettanto vago, perché non sapeva<br />
che proprio in California il chiavarese Giannini aveva fondato per gli emigranti<br />
italiani la Bank of America, sbarcata qui da noi come Banca d’America e d’Italia.<br />
E perché era andato a sbattere ad Oratorio, una periferia sottoproletaria? Nessuna<br />
risposta.<br />
L’andazzo delle visite poetico-pittoriche durò tutto l’inverno e tutta la primavera<br />
successiva fino a che, intorno alla metà di Giugno, John-Clarence Bianchi proclamò:<br />
“Vado in America a sistemare alcune cosette”.<br />
Proprio in quel periodo le mie cugine di Genova mi telefonarono invitando me e<br />
Marialuisa ad andare là il giorno di San Giambattista a vedere la benedizione del<br />
mare e la processione coi cristi su per Via San Lorenzo.<br />
La cosa non fu possibile causa figlio ingegnere, ma io a Genova ci andai lo stesso da<br />
solo fra dolci baci, languide carezze d’addio e buonanotte telefonica. Avrei potuto<br />
tornare dopo il 29, e cioè dopo aver visto anche i fo^ghi di San Pietro alla Foce, ma<br />
preferii tornare il 27.<br />
E chi trovai nella Villa Buontalenti?<br />
Lui, John-Clarence Bianchi detto l’Ameriàno. Pensai subito che non era andato in<br />
America per mancanza dei dollari per il biglietto; e ciò mentre stava pontificando,<br />
davanti a Marialuisa estasiata, sulle meraviglie della omoepatia. Era tutto sbarbato e<br />
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con i capelli in ordine e puliti, perché doveva essere appena passato dal barbiere, e<br />
faceva il cascamorto con Marialuisa senza alcun ritegno.<br />
Quando fu andato via, dissi di tutto a Marialuisa, che sbottò: “Ho vissuto vent’anni<br />
fra gelosie e scenate: ti ci metti anche tu, ora?”<br />
Risposi: “So che tuo marito è morto psicopatico e io non voglio fare la stessa fine:<br />
tieniti il tuo americano e, se mi vuoi ancora bene, fatti viva con una telefonata.”<br />
La telefonata non arrivò: né quel giorno né mai.<br />
Due o tre anni dopo, a Firenze conobbi uno di Prato che organizza mostre di pittura e<br />
che mi disse di aver fatto l’interprete a Camp Darby per una decina d’anni. “Bianchi?<br />
Non era certo un impiegato. Forse un fattorino di quelli che vanno alla posta pagare le<br />
multe dei militari che hanno l’acceleratore facile. E, poi, oggi un po’ d’inglese lo<br />
bestemmiano tutti: anche i tranvieri di Firenze”.<br />
Gennaro Pasquinucci, poeta e massaggiatore di Oratoio mi disse: “Bianchi? Era mi’ -<br />
ompagno di scuola da bimbi. Ameriàno? E’ uno scansafatìe che non ha mai lavorato e<br />
che sta chiuso in casa giorno e notte a scrivere a mezzo mondo di essere un poeta<br />
californiano di origini italiane”.<br />
Giuseppe Potenza, il pittore massese conosciuto quel famoso 2 Maggio a Viareggio<br />
di tanti anni prima mi raccontò questa: “Bianchi l’americano e la sua bella erano con<br />
me l’altra domenica a San Casciano Valdipesa ad un’ex-tempore, ed hanno piantato<br />
un casino alla giuria perché non li aveva premiati”.<br />
Questo testo ha partecipato al Premio Firenze 2005<br />
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<strong>LA</strong> <strong>VERA</strong> <strong>STORIA</strong> <strong>DEL</strong><strong>LA</strong> PREMIATA<br />
TESSITURA CECCHI MARIO & FIGLI<br />
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n suo cliente di Càscina che aveva la confezione Torre Pendente<br />
Fashion e che si serviva da lui fin dai primi anni, una volta gli chiese:<br />
“Mi dia un poìno, lei che si chiama Cecchi. Un è mia parente di quello<br />
che orreva insieme a Bresci a tempi di Coppi e Bartali? Me ne riordo<br />
bene, anche se sono passati tant’anni.”<br />
Gli rispose: “No, non siamo parenti, anche se anch’io mi ricordo abastanza bene di<br />
quei tempi. Purtropo molti sono morti a cominciare da Bini. Gli hano fato un<br />
monumento a Bagnolo. E’ sopravisuto Alfredo Martini che è ancora sulla brecia e si<br />
fa vedere sempre in televisione.”<br />
Quella sua loquela senza doppie, quando arrivò da queste parti aveva fatto credere<br />
che Cecchi Mario fosse un veneto: ma molti si erano ricreduti e sospettarono che<br />
fosse un sardo. Altri dicevano che era un bergamasco perché lo avevano sentito<br />
parlare un dialetto duro, quasi gutturale.<br />
Liquidato il cliente di Càscina che aveva fatto un bell’ordine, arrivò una telefonata da<br />
una delle sue sorelle che gli chiedeva cosa avesse comprato per il compleanno della<br />
moglie.<br />
Fra le altre cose, le disse: “A iò còmpr una pelìza per quest’invèrn prché a d’era<br />
armàsa senza dòp l furto al ristorante. Ma mò al tòc pnsàr ai fioli perché prima o po' a<br />
m toc far i argàli anche a lòr. Ai compr-rò un oriòl d’òr pr-ùn e bell’e finita.”<br />
In effetti, chi aveva sentito parlare così il Cecchi Mario non ci capiva granché sulle<br />
sua origini: ma la spiegazione è tutta qui..<br />
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Il Cecchi Mario era figlio di Cecchi Lindoro detto il fiorentino, un daziere che aveva<br />
vissuto gli anni più brutti della guerra in una casa d’affitto in Via Santa Maria.<br />
Quindi, il Cecchi Mario e le sue due sorelle avevano passato infanzia ed adolescenza<br />
in Piaza Drént: fra il bar dell’Archinto o quello di Melcher.<br />
Poi, andato in pensione, Cecchi Lindoro aveva voluto tornare al paese della Piana ed<br />
aveva spedito il figlio maschio a studiare a Prato, al Buzzi.<br />
Lì il ragazzino aveva preso il diploma di perito tessile ed era stato subito assunto da<br />
una rifinizione; poi era passato ad una filatura e ad un’altra rifinizione. Il lavoro non<br />
mancava: si facevano più ore degli orologi, ma si guadagnava bene e non si guardava<br />
tanto per il sottile.<br />
Sotto ogni casa i telai facevano cic-ciac giorno e notte: un po’ come nel Legnanese<br />
ove dicono che i telai dicessero ai loro padroni, ad ogni cic-ciac: cink-franc, cink-<br />
franc. E li facevano arricchire.<br />
Ad un giovanotto bello quanto rozzo come Cecchi Mario non mancavano gli<br />
ammiccamenti delle ragazze e, dato che sul lavoro ci sapeva fare e s’era già fatto un<br />
nome, non mancavano neanche gli ammiccamenti delle banche. Perché allora non<br />
mettersi in proprio ?<br />
Qualche soldo glielo aveva lasciato in eredità la madre che aveva venduto per tutta la<br />
vita porta a porta ricami fiorentini alle mogli dei medici e degli avvocati; qualche<br />
altro soldo glielo avrebbero prestato le sorelle che, nel frattempo, si erano distinte<br />
come affariste, comprando campetti di periferia per rivenderli ad industriali con la<br />
voglia della villa in campagna.<br />
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E, allora, proprio su uno di questi campetti nacque, favorita dalle provvidenze delle<br />
leggi sulle aree depresse del Centro Nord, la Premiata Tessitura Cecchi Mario &<br />
Figli.<br />
Prima un capannone; poi, dopo una sopraelevazione, anche l’abitazione del titolare e<br />
della sua bella ed invidiata famiglia.<br />
La moglie, per prima: un trottolino alto un soldo di cacio che l'aveva fatto innamorare<br />
alla prima occhiata. Era la figlia di un cantiniere che qualche lira ce l’aveva anche lui:<br />
non ci pensò due volte a far arrivare un architetto di Firenze per il completamento<br />
dell’appartamento e del suo arredamento.<br />
I soldi c’erano: perché non spenderli in qualcosa che rimanesse nell’eternità?<br />
Prima di tutto, uno scalone di mogano massello per collegare il pianoterra dei telai al<br />
primo piano dell’abitazione. Poi, il pavimento della zona giorno di marmo rosa del<br />
Portogallo ed il rivestimento delle pareti del bagno in onice del Pakistan, con cornici<br />
in Portoro.<br />
La sala da pranzo fu fatta arredare in stile veneziano e la cucina in stile rustico, con<br />
sedie e panca in castagno massello. Alle pareti della sala da pranzo l’architetto<br />
fiorentino volle quattro postmacchiaioli: un Natali, un Corcos, un Romiti ed un Ulvi<br />
Liegi. Furono tutti comprati da Farsetti e pagati senza tanti indugi con un assegno a<br />
firma Cecchi Mario.<br />
La camera degli sposi, però, fu arredata in maniera piuttosto francescana dal<br />
momento che il minimalismo era ancora in mente Dei: letto e comò tutti in olivo e<br />
noce, specchio molato alla brianzola.<br />
18
Le altre camere da letto: una, quella della ragazza, tutta rosa e l’altra, quella del<br />
ragazzo, tutta celeste.<br />
I bimbi: li chiamavano ancora così anche se veleggiavano verso i trent’anni.<br />
Il figlio, biondastro e paffuto, aveva una grande propensione per la ragioneria: per<br />
questo fu spedito a Milano alla Bocconi, perché avrebbe potuto divenire, nel breve<br />
arco di pochi anni, un dirigente di successo: forse di una multinazionale dei detersivi.<br />
Donne poche e quelle poche tutte danarose e oche; una, però, era riuscita a laurearsi<br />
in lettere ed avrebbe voluto sganciarsi con lui dall’ambiente del tessutai. Non fu<br />
accettata dalla di lui madre ed i motivi non si sono mai chiariti.<br />
La figlia, bruna e col corpo da gazzella, oziava fra un incarico di hostess alla Fortezza<br />
da Basso e un ballo alla Villa dell’Ombrellino: non disdegnava, però, qualche<br />
incursione al Don Carlos di Chiesina Uzzanese dove aveva incontrato quello che<br />
doveva divenire suo marito. Era un giovane alto e secco, comproprietario di<br />
un’officina per pneumatici, ma ricco tanto da aver comprato insieme al fratello una<br />
cascina sulle colline ed averla trasformata in un castello con fontane e giardino<br />
all’italiana.<br />
Nozze sontuose con trecento commensali al pranzo nella villa Rospigliosi, regali<br />
anche belli. Durata del matrimonio anni tre, perché, secondo la di lei madre, non era il<br />
caso che un gommaio continuasse a vivere da gommaio con la figlia di un industriale<br />
premiato.<br />
Una volta una delle due sorelle affariste disse a Cecchi Mario: “A i siré un afarét a<br />
Capalbio. A i è una vileta c’a s po' compràr con dò bagaròn.”<br />
19
“A Capalbio in mèz a tuta quela zenta importante? Ma iè lontàn. E, po', chi ai và?.”<br />
Detto fatto, la villetta di Capalbio fu comprata tambur battente e pronti contanti, e la<br />
famiglia Cecchi vi si trasferì durante la chiusura estiva. Dato, poi, che poco lontano<br />
c’era un imbarcadero, fu anche comprato un motoscafo per la pesca d’altura con tanto<br />
di bandiera panamense.<br />
Per le ferie invernali (o vacanze di Natale), la scelta era caduta da parecchi anni su St-<br />
Moritz ove la famiglia si trasferiva in albergo: tre stelle per non dar nell’occhio.<br />
Erano gli anni della mania dell’esportazione di capitali, quando intere autocolonne di<br />
milanesi, bresciani, genovesi e torinesi si dirigevano ogni sabato verso Lugano: fu<br />
allora che qualche maligno aveva azzardato che la scelta svizzera per le vacanze di<br />
Natale della famiglia Cecchi significasse qualche piccolo trasferimento di capitali in<br />
qualche piccola banca ospitale.<br />
Ma c’era chi lo fece anni dopo, e se ne vedranno le modalità in seguito.<br />
L’avessero fatto, la signora Cecchi sarebbe andata in brodo di giuggiole, ma tutto finì<br />
in chiacchiere, non se ne parlò più e si continuò a sciare sulle nevi dei vip.<br />
Dunque, due settimane a Capalbio con vista di Achille Occhetto e due settimane a St-<br />
Moritz con vista di Gianni Agnelli.<br />
Per il resto dell’anno, tolta qualche battuta di caccia domenicale in una tenuta di<br />
proprietà di un vecchio parente, niente divertimenti: tutto continuava a svolgersi tra il<br />
piano di sopra e quello di sotto fra lo sferragliare dei telai ed il fumo della rosticciana.<br />
Ma era l’unica maniera per continuare a far soldi; tanti soldi.<br />
20
Fisicamente, lui era quel si suol dire un bell’uomo: alto ed atletico, tendeva al pingue<br />
per cui un anno aveva perfino tentato la strada dei centri Mességué, soggiornando a<br />
Tirrenia per quindici giorni bevendo tisane.<br />
Professionalmente, era un genio perché aveva saputo creare quasi dal nulla un piccolo<br />
impero; obbediente al detto che nelle botti piccole c’è il vino buono, non aveva<br />
voluto scostarsi dall’artigianato, nel senso che non aveva mai voluto avere più di<br />
dieci dipendenti. Se lo avesse superato, la sua ditta sarebbe passata dalla qualifica di<br />
artigiana a quella di industriale, con conseguenze fiscali facilmente immaginabili.. E<br />
a lui bastava farsi dare dell’industriale da chi queste cose non le sapeva, perché<br />
industriale di rischio era nato e voleva continuare a restarlo.<br />
Quanto alla dizione Premiata Tessitura etc., un po’ di vero c’è, perché un anno<br />
parteciparono tutti insieme appassionatamente, domestiche filippine in testa, a Prato<br />
Expo con stand proprio alla Fortezza da Basso e la ditta ricevette un premio per un<br />
tessuto tartan che era stato ordinato da una ditta scozzese e che era partito di qua con<br />
già le scritte Made in Scotland nella cimasa.<br />
La Premiata Tessitura Cecchi Mario & Figli si avvaleva della collaborazione di<br />
cinque agenti plurimandatari: uno in Inghilterra, uno in Francia, uno in Germania,<br />
uno a Milano ed uno a Napoli.<br />
Dall’agente inglese era partito l’ordine del tartan scozzese, da quello francese<br />
arrivavano piccoli ordini per tessuti un po’ d’avanguardia che alcune confezioni<br />
ordinavano per le loro presenze ai saloni del tessile di Parigi, dal tedesco qualcosa per<br />
confezioni sportive, dal milanese molto lavoro grosso per genere soprabiti da<br />
21
signora, da quello napoletano ordini ancor più grossi per confezioni sparse in tutto il<br />
Meridione, isole comprese.<br />
Il personale interno, invece, era di una decina tra operai ed operaie - che lavoravano<br />
su due turni: spesso su tre quando c’era da darci dentro - e di due impiegate, una delle<br />
quali era una cugina del Cecchi da parte di moglie e come lei pratese. Era carina,<br />
bionda e nubile; viveva in simbiosi con la ditta, occupandosi, oltreché della<br />
contabiltià generale e di quella del personale, anche dei due marmocchi del Cecchi<br />
che stravedevano per quella che chiamavano zia finché erano piccoli: poi<br />
cominciarono a snobbarla per non far la figura dei mammoni nei confronti degli amici<br />
e dei compagni di scuola.<br />
Una volta venne a trovare il Cecchi Mario, dato che era di passaggio da queste parti<br />
diretto a Firenze, un suo amico d’infanzia e fu l’occasione per rinfrescare quel<br />
dialetto che nessuno capiva all’infuori delle due famose sorelle. Parlando di cose più<br />
o meno amene, venne fuori anche la storia dei vari nomi di famiglia:<br />
“Mé a m ciàm Mario prché Mario s ciamàv Cavaradossi dla Tosca; le mé sorède s<br />
ciàmn una Violeta come quela dla Traviata, e d’altra Amina come quela dl’Elisir<br />
d’Amore. Ma abiàm anche di cusìn chi s ciàm Manrico com Il Trovatore, Rodolfo<br />
com quél dla Bohème, e, al fìn Ernani. Il mè babo s ciamàv Lindoro e a d’è inutile<br />
dir prché. Anche al sò paés, chi è questi chì, ai sò tempi la lirica a d’andév per la<br />
magiore e anch chì ai ér un teàtr d’opera dov ai cantò adritura Beniamino Gigli. Ozi<br />
non pù, e pr vedér un’opera al toc andar al Comunal d Firenze e far dle coe pri bigiéti.<br />
22
Ma mé t’sa cos’a fai? A telèfon al mé agent de Milàn e a m fai comprar di bigeti pr la<br />
Scala: po’ a saltiàn sul Mercedes mé e le mé mòia e in poghe ore a siàn a Milàn e<br />
andian in cufia a Firenze a a tuta la sò boria. Presempi, d’ùltma volta a sian andati a<br />
vdér Don Carlo con la regia d Zefirelli: ai cantàv Saul Ramey che mo’ i n cant pù<br />
prché i s’è artiràt ed a i è n’zir la fola ch’i drvré aver l’aidiesse.”<br />
Fu proprio l’agente di Milano, però, a metterlo nei guai: gli trovò in cliente niente<br />
male nel varesotto che pagava pronti contanti. Era un confezionista di soprabiti e<br />
cappotti per signora e forniva nientemeno che La Rinascente e Coin con diversi<br />
marchi.<br />
La ditta si chiamava Le Tre Valli Varesine Confezioni ed il titolare era una donna che<br />
si chiamava Danila Cappelli.<br />
Gli ordini della Tre Valli Varesine piovevano a dirotto, e la Premiata Tessitura<br />
Cecchi Mario & Figli si trovò a lavorare quasi esclusivamente per lei; ma c’era anche<br />
il vecchio lavoro che doveva pur essere tirato avanti.<br />
Qui si innestò la figura di un ex-operaio del Cecchi che aveva fatto dei soldi<br />
vendendo alcuni terreni edificabili avuti in eredità e giocando forte alle corse al trotto<br />
di Montecatini. Si chiamava Gori Moreno e divenne socio della Premiata Tessitura<br />
con compiti di sorvegliare il lavoro acquisito in tanti anni. Il Cecchi seguiva, quindi,<br />
solo il lavoro della Tre Valli Varesine Confezioni che aveva cominciato a pagare un<br />
po’ più a rilento del solito.<br />
Sennonché un brutto giorno il Gori fece man bassa nella cassa della Premiata<br />
Tessitura, telefonò alla Danila delle Tre Valli Varesine e, insieme alla moglie, si<br />
23
infagottò di milioni infilando banconote su banconote nelle mutande e nei calzini;<br />
poi, ambedue presero a Santa Maria Novella una treno per Milano. Da qui<br />
proseguirono per Como, dove, alla stazione di San Giovanni, li attendeva la Danila<br />
con la quale presero il filobus per Pontechiasso e, parlando ad alta voce, dissero<br />
davanti al doganiere svizzero che c’era da vedere quell’affare del Gerovital che si<br />
vendeva solo qui ed alla farmacia del Vaticano che, però, aveva in difetto di essere un<br />
po’ troppo fuorimano. Passaggio indisturbati della frontiera, e corsa al primo<br />
sportello della Banca del Gottardo che si affacciava sulla strada.<br />
Versare i milioni distratti alla Premiata Tessitura Cecchi Mario & Figli su un conto<br />
cifrato fu un gioco da ragazzi, come pure il non farsi neanche passar per il capo l’idea<br />
di tornare in ditta.<br />
Denunce ai carabinieri, visite della finanza, vacanze a Capalbio annullate,<br />
esaurimenti nervosi e minacce di divorzio da parte della moglie del Cecchi Mario.<br />
Nel frattempo, le cose con la Tre Valli Varesine stavano andando a rotoli perché<br />
anche la Danila si era dimessa, dopo aver svuotato la cassa della sua ditta ed aver<br />
ceduto tutto il portafoglio clienti - Rinascente compresa - ad un filibustiere<br />
napoletano cui non rimase altro da fare che chiedere il fallimento della Tre Valli<br />
Varesine Confezioni.<br />
Al Cecchi Mario rimasero un pugno di mosche: socio scappato con la cassa, cliente<br />
prioritario fallito: che fare?<br />
24
Dopo un consulto con le sorelle affariste, fu decisa la chiusura e la liquidazione della<br />
Premiata Tessitura etc., la messa in pensione del titolare e la ricerca di un lavoro<br />
qualunque ai figli.<br />
Bocconi alle ortiche, bene o male il maschio si sistemò da un commercialista di<br />
Capalle e si mise a far 740.<br />
La figlia che aveva lasciato quel po’po’ di partito del gommaio, era senza arte né<br />
parte e fu dura trovarle qualcosa di decente da fare.<br />
La villetta di Capalbio fu venduta, le domestiche filippine furono licenziate come tutti<br />
gli operai e le due impiegate della ditta, gioielli ed altro oro accumulato durante tanti<br />
anni di godipopolo furono portati al Monte di Pietà: ma i soldi non bastavano mai a<br />
tappare i buchi che stavano divenendo voragini.<br />
Una mattina Cecchi Mario fu trovato morto, incastrato nelle lamiere della Mercedes<br />
che era finita contro un palo della luce all’Osmannoro. I carabinieri stanno ancor oggi<br />
chiedendosi se si fosse trattato di un incidente o di un suicidio.<br />
Nota: Cecchi Mario, uomo rozzo ed affascinante, parla in dialetto carrarino.<br />
Per gli amanti della filologia: carrarino è il dialetto, e carrarese è l’abitante<br />
della città di Carrara.<br />
25
<strong>LA</strong> <strong>VERA</strong> <strong>STORIA</strong> <strong>DEL</strong>L’ORGANIZZAZIONE<br />
VIAGGI TRAVERSO GIAMBATTISTA<br />
******************************************************************<br />
nota per il lettore: questa racconto è scritto parzialmente in lingua genovese, ma, dal<br />
momento che il mio vecchio programma di scrittura non ha né dieresi né cediglie, ho<br />
dovuto usare un fai da te:<br />
u^ si legge come la u francese di élu (eletto)<br />
o^ “ “ “ “ oeu “ “ oeuil (occhio)<br />
x “ “ “ “ j “ “ je (io)<br />
z “ “ “ “ esse dolce dell’italiano uso<br />
26
********************************************************************<br />
erso mezzogiorno di un sabato di Ottobre, quando l’estate pareva non<br />
finire mai, stavo per chiudere la settimana spedendo una<br />
comunicazione di servizio alla nostra di Torino per via di una bottegaia<br />
che non accettava il porto assegnato. Nel piazzale polveroso il cane<br />
ringhiava attorno all’autista ed al fattorino che stavano bestemmiando come turchi<br />
per via di un cartone di Tide che doveva essere andato in disguido chissà dove,<br />
quando varcò il cancello un tipo alto, vestito di marron e con in testa un cappello alla<br />
tirolese come di quelli che si vedono solo nei negozi di souvenirs dal Trentino in su.<br />
Chiese di me e si presentò, con accento fortemente genovese, come Traverso<br />
Giambattista titolare della omonima agenzia di viaggi in fase di apertura in Piazza<br />
Marconi.<br />
Mi disse: “So che lei è uno dei pochi genovesi che abitano da queste parti: un altro è<br />
un ragioniere di un’azienda di marmi ed un altro un barbiere di Fòssola. Preferirei<br />
parlarle in genovese, perché cuscì se capimmu mégiu.”<br />
Non gli dissi di no, incuriosito. Il tipo era abbastanza allampanato, aveva gli occhi<br />
chiari ed un po’ spiritati ed i denti in disordine; fumava sigarette Virginia perché<br />
aveva imparato a gustare questo tipo di tabacco dagli inglesi. Aveva parcheggiato<br />
davanti al mio magazzino una Bianchina panoramica luccicante di cromature con la<br />
quale, mi disse poi, andava spesso a Spezia all’Upim a far acquisti di cancelleria<br />
perché qui i cartolai sono ladri.<br />
27
“Cumme scià vedde, me ciammu Traverso e niatri Traverso semmu i ciù nu^merusi<br />
de tu^tta Zena secundu a Teti: poi, végnan i Parodi, i Boero, i Pedemonte, i Vassallo<br />
eccetera.. Mì sun de Via Vallechiara vixìn a-a Zecca, scia se ricorda a zona? e<br />
vuscià?”<br />
Gli spiegai che avevo abitato con la mia famiglia per parecchi anni a Marassi prima di<br />
trasferirmi da queste parti a seguito di alcune disgrazie famigliari legate al<br />
dopoguerra.<br />
A sentir parlar di quei tempi bui, Traverso Giambattista ebbe un sussulto e disse: “Mì<br />
su du vintiduì e ho fètu a campagna de Libbia cui Giovani Fascisti ed ho fètu a<br />
battaggia de Bir el Gobi. Poi, i ingleixi n’àn piggiòu tu^tti e n’han spedìu in Kenia:<br />
ma mì nun ho collaboròu e me sun fètu un annu da prixuné in ciù^ finna au<br />
quarantesette. Ho imparòu l’ingléize e per questu che sùn in tu mundu di viagi. Me<br />
papà u l’é un di ciù^ grandi importatuì da Darsena e i mè frèe sun i ciù^ grandi<br />
cuncessiunài de macchine Innocenti e lambrette perché han un salùn in Via Carlo<br />
Rolando a Sampédenn-a.<br />
E vuscià? ghe piaxéiva vegnì a travaggià da mi e levàse da questi bru^tti posti pìn da<br />
gente ordenaia e che magara a nu paga, cumme du restu, tu^tti da queste parti?”<br />
Gli dissi di no, perché, anche se il luogo del mio lavoro era tutt’altro che bello, mi<br />
trovavo abbastanza bene e mi accontentavo di quello la mia direzione di Milano mi<br />
dava puntualmente.<br />
28
“Allùa, scià vegnià da mì fra un pà de setteman-e quande faiému l’avertu^a uffisiale<br />
de quelle che a se ciamià Organizzazione Viaggi Traverso Giambattista. Ghe mandiò<br />
u bigiettu u^ffisiale, cuscì scia purrià ése di nostri pe tu^tta a cerimonia.”<br />
L’invito effettivamente arrivò: cartoncino Bristol e marchio della OVTGB.<br />
Aveva un che di massonico perché la sigla OVTGB, cioè Organizzazione etc., era<br />
iscritta in un triangolo composto da sci, remi ed alpenstock stilizzati.<br />
Alla cerimonia ci andai davvero, e cercai di essere il più presentabile possibile, con<br />
tanto di giacca e cravatta.<br />
Ci fu la benedizione del parroco, il discorso del presidente della proloco, la lettura dei<br />
telegrammi del prefetto, del questore, dell’intendente di finanza e dell’assessore<br />
comunale all’annona. Tutti auspicanti anni di felice successo all’Organizzazione<br />
Viaggi etc.<br />
C’erano i titolari di due pensioni e dell’albergo di seconda, alcuni autisti della Lazzi,<br />
tre gestori di campeggi delle pinete, il capostazione e due spedizionieri, tutti a<br />
rappresentare le categorie che stavano per essere coinvolte nel piano quinquennale<br />
della OVTGB.<br />
Erano presenti anche - come scrissero i corrispondenti dei giornali locali di provincia<br />
- alcuni rappresentanti del bel mondo genovese, e cioè:<br />
* un dentista-divo, scuola Galliera, che aveva avuto l’incarico di sistemare la bocca di<br />
TGB,<br />
* un grande agente della Borsa Valori di Genova, scuola Pastorino, addetto al<br />
patrimonio mobiliare di TGB, nonché<br />
29
* un grande fiscalista, scuola Uckmar, che provvedeva al patrimonio immobiliare di<br />
TGB<br />
C’era anche un agente di viaggi di Pisa, addetto al ricevimento dei turisti che<br />
sarebbero arrivati all’aereoporto Galileo Galilei convogliativi dalla OVTGB, e che<br />
aveva portato in omaggio una torta co-bìscheri ed un fiasco di San Torpé.<br />
C’era, poi, una combriccola di livornesi, tutti impiegati di diverse agenzie marittime,<br />
che si erano sdebitati con una confezione di tre bottiglie di rumme, necessario per fare<br />
il ponce nella stagione fredda che prima o poi sarebbe arrivata.<br />
Erano venuti a far numero anche il ragioniere dell’azienda di marmi ed il barbiere di<br />
Fòssola .<br />
Ma, soprattutto, c’era la sacra famiglia unita al gran completo:<br />
* la moglie, maestra elementare spedita dal Provveditorato in un lontano paesino<br />
della Lunigiana, ma prossima all’avvicinamento su sollecitazione degli onorevoli<br />
Taviani, Pertini e D’Alema senior,<br />
* le figlie, tutt’e due bionde e, a dire del figlio di un camionista che le aveva avute<br />
compagne di scuola, schifiltose quanto oche,<br />
* il padre, il grande importatore che dava del tu ai più grandi produttori spagnoli e<br />
portoghesi di tonno e sardine sottolio: un ometto alto così e con in testa una lobbia<br />
blu,<br />
* i due fratelli della grande concessionaria di Via Carlo Rolando, arrivati con una<br />
Mercedes lunga e nera anziché su una Mini della Innocenti.<br />
30
Mentre moglie e figlie vestivano tailleurs che sapevano un po’ di Standa di Via Venti,<br />
lui sfoggiava una giacca blu con lo scudetto del Genoa cucito dalla parte del cuore,<br />
perché era genoano dai tempi di Verdeal.<br />
Il rinfresco che seguì la benedizione dei locali era stato fornito da una pasticceria di<br />
Sarzana, perché quelle di qui sono in mano a dei ladri.<br />
Al levar dei calici del brindisi finale, TGB - come riportarono i giornali il giorno<br />
dopo - espose al pubblico ed all’inclita il suo programma quinquennale, degno di un<br />
Suslov in salsa di noci.<br />
Grossomodo era questo:<br />
* intervento immediato a Roma per la demolizione della stazione ferroviaria, indegna<br />
di una città civile, ove avrebbero dovuto scalare i turisti provenienti dal Nord Europa,<br />
reclutati dalla rete europea di agenzie corrispondenti della OVTGB;<br />
* sua immediata ricostruzione su progetto di un giovane architetto genovese, cui era<br />
stata demandata anche la<br />
* progettazione della stazione marittima di Livorno, porto di attracco delle navi che<br />
avrebbero dovuto imbarcare per crociere da sogno tutti gli industriali e le persone<br />
facoltose in genere di tutta l’Italia, isole comprese; tutta gente fino ad allora frustrata<br />
dalle vacanze con moglie e suocera al seguito a Viareggio od al massimo all’Abetone;<br />
* stazione FFSS e stazione marittima erano state progettate da quell’architetto che,<br />
vituperato in patria, stava lavorando a Parigi per un centro culturale nella zona del<br />
Beaubourg; non lontano cioè da quelle Halles dove TGB, tutte le volte che andava a<br />
31
Parigi, andava a degustare la soupe-aux-oignons e dove una volta incontrò il<br />
commissario Maigret;<br />
* la OVTGB aveva anche un occhio al sociale ed aveva stipulato delle convenzioni<br />
coi sindacati per dei soggiorni per operai ed impiegati Per loro sarebbero state<br />
attivate delle autolinee granturismo della Lazzi con destinazioni le conche di<br />
Courmayeur e di Cortina d’Ampezzo, finora viste dai suddetti operai ed impiegati<br />
solamente al cinema;<br />
* per loro sarebbero stati chiamati a cantare al Politeama Luciano Tajoli, Giuseppe Di<br />
Stefano, Nilla Pizzi ed Achille Togliani. Purtroppo, erano inavvicinabili i cachets di<br />
Maria Callas e di Totò, mentre erano in corso trattative con Renata Tebaldi e Claudio<br />
Villa;<br />
* sarebbe stata scatenata una strenua lotta contro ogni abusivismo, e, come esempio,<br />
sarebbe stato denunciato al Questore - ovviamente amico personale di TGB - un<br />
bellimbusto locale che, sapendo il tedesco, faceva per hobby l’interprete nell’albergo<br />
di seconda. Questo perché la OVTGB aveva personale altamente qualificato e<br />
specializzato all’uopo assunto alla Spezia, e regolarmente a libro paga con tanto di<br />
marchette.<br />
* stesse denunce sarebbero state fatte all’Ufficio d’Igiene contro tutti quei cuochi e<br />
quelle cuoche che erano la vergogna della ristorazione locale. Ne avrebbero passate<br />
delle belle anche per i loro datori di lavoro che spesso li pagavano al nero.<br />
Questo po’po’ di proclama lasciò piuttosto perplesso l’uditorio, ma fu rilanciato con<br />
titoloni dalle cronache locali del Tirreno e della Nazione. Anche il corrispondente<br />
32
dell’Ansa lanciò un dispaccio che crepitò su tutte le telescriventi d’Italia, che fu<br />
ripreso dalle pagine economiche di alcuni quotidiani nazionali.<br />
Per due o tre volte feci, alla sera dopo aver chiuso ufficio e magazzino, delle capatine<br />
alla OVTGB che nel frattempo aveva messo su insegne al neon, per vedere che cosa<br />
stesse succedendo. L’ultima volta TGB mi mise sotto il naso una carta intestata che<br />
recitava in rosso: OVTGB -Pink Marble from Portugal dpt.<br />
“ Mè papà cu l’é amigu d’u^n grande industriale portughéize u m’a fètu avéi<br />
l’esclu^siva pe l’Italia e a Fransa du sò marmu ro^sa, che vendiému a péisu d’òu e<br />
guagniemu un mu^ggiu de palanche”<br />
Gli augurai ogni bene, mettendolo però in guardia da certi ganci che prosperano in<br />
ogni angolo di segheria e dietro ad ogni pastello di lastre.<br />
Due o tre mesi dopo, un ispettore della Gondrand mi propose di trasferirmi a Genova;<br />
in cambio mi avrebbe passato di categoria e fatto guadagnare bene, tra stipendio e<br />
straordinari, come vicecapufficio sviluppo e contenzioso di quella filiale.<br />
Il trasferimento fu fatto, ma mi trovai scaraventato in un ambiente che non era più il<br />
mio.<br />
Faceva sempre freddo e nevicava quasi tutti i giorni; Genova era tutta un pantano per<br />
gli scavi della Sopraelevata e, sul lavoro, l’ambiente era da legione straniera. L’unica<br />
soddisfazione era fare più ore degli orologi e cercar di mettere da parte più soldi<br />
possibile.<br />
E, allora, pensioncine squallide, trattorie da due lire e qualche film di seconda visio-<br />
ne a Sampierdarena.<br />
33
Feci però una scoperta interessante: una volta che mi avevano spedito in Darsena a<br />
riscuotere una fattura oggetto di mille contestazioni, incontrai sotto la neve il padre di<br />
TGB con la solita lobbia blu. Non mi riconobbe, ma il nostro fattorino siciliano<br />
addetto alle prese ed alle consegne di aringhe, stoccafissi, baccalà e tonno in scatola,<br />
mi disse: “Tutti lo conoscono. Macché importatore! E’ solamente un bagarino da due<br />
soldi che viene qui tutti i giorni ad elemosinare qualche senseria. Ma dicono che sia<br />
pieno di palanche”<br />
Un’altra volta che ero in ferie a casa mia - niente villeggiature per i motivi di cui<br />
sopra - il corrispondente della Nazione mi diede un passaggio sulla sua Vespa fino al<br />
mare. Passammo davanti alla OVTGB e trovammo appiccicato sulla serranda un<br />
cartello di chiuso per lutto.<br />
Chiedemmo al bar accanto. “E’ morto: un brutto male. Gli impiegati ora sono tutti in<br />
mezzo a una strada perché non ci sono neanche i soldi per le liquidazioni.”<br />
Un pomeriggio che ero a Sampierdarena da uno che vende dischi ma che sà anche<br />
dove il diavolo teneva la coda nella delegazione, gli chiesi perché la concessionaria di<br />
Via Carlo Rolando era chiusa.<br />
“Tu^tti a Marasci. Appropriazione indebita, truffa e bancarotta fraudolenta. Ma pe<br />
furtu^n-a a Zena gh’emmu de megiu. Scià stagghe a sentì questa cansunetta. Se ne<br />
parlià ancùn tra u^n-a sinquanténn-a d’anni”<br />
Mise sù un 45 giri e la voce un po’ belante di Gino Paoli attaccò<br />
Sapore di sale, sapore di mare<br />
che hai sulla pelle, che hai sulle labbra .<br />
34
<strong>LA</strong> <strong>VERA</strong> <strong>STORIA</strong> <strong>DEL</strong><strong>LA</strong> TIP TAP ITALIA DI<br />
COLO’N (PANAMA)<br />
*************** ****************************************************<br />
C<br />
onobbi Nicola Cambiaso detto Chichì, play-boy di Rapallo, al neonato<br />
Centro Regionale Ligure per il Commercio con l’Estero nella sua<br />
vecchia sede di Piazza Banchi, ex Borsa Merci. Mi era stato presentato<br />
dal direttore di quella istituzione, che mi aveva anche detto che<br />
Cambiaso avrebbe avuto bisogno di me per una piccola campagna-stampa a favore di<br />
una sua iniziativa di promozione del prodotto italiano in Centramerica.<br />
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Cambiaso era un giovane leone di antica schiatta della Genova borghese e quattrinaia,<br />
e, fisicamente, era quello che si suol dire un fusto, con un fisico da pallanotista che la<br />
diceva lunga sul fatto che non aveva dovuto star chino interi anni su libri di latino e<br />
greco.<br />
In breve mi raccontò che aveva raggranellato diversi milioni vendendo degli appar-<br />
tamenti ereditati, insieme alla sorella sposata ad un principe romano sempre in<br />
bolletta; degli appartamenti – due a Genova in Albaro, uno a Milano in Via Gesù, tre<br />
quattro a Rapallo più una villa a Sestri Levante - che erano stati acquistati dal di loro<br />
padre in tempo di guerra da delle famiglie di nobili che stavano irrimediabilmente<br />
andando in rovina.<br />
Il padre, a quanto capii, era stato un affarista: un ingegnere navale che non aveva mai<br />
esercitato la nobile professione, preferendole a Milano il gioco di borsa e quello dei<br />
cavalli. Aveva guadagnato in una decina d’anni, tra la guerra d’Abissinia e la seconda<br />
guerra mondiale, tanti di quei milioni da permettersi tutti gli investimenti immobiliari<br />
di cui sopra e di fare già allora un paio di crociere alle Hawaii in mezzo a texani obesi<br />
ed arricchiti, prima di calar nella tomba senza neanche aver il tempo di fare<br />
testamento.<br />
Con la metà dei milioni ricavati dalle vendite, Nicola Cambiaso si era permesso di<br />
fare il play-boy fra tutta quella Milano da bere che considerava i fratelli Berlusconi<br />
della Edilnord due reliquati di sacrestia.<br />
Per tenere tale genere di vita e conquistare notte per notte battaglioni di oche sempre<br />
pronte a concedersi per una corsetta con l’acceleratore al massimo, occorrevano auto<br />
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che si chiamano Ferrari, Lamborgini, Maserati, Aston-Martin,, Austin, Matra e<br />
Porsche.<br />
Nicola Cambiaso le aveva avute tutte: niente Rolls-Royce, però.<br />
Ora marciava su una più modesta Alfa 175 blù che gli dava qualché di prefettizio.<br />
Aveva, a suo dire, messo la testa a partito ed aveva addirittura aperto a Cernusco sul<br />
Naviglio una fabbrichetta di camiceria da uomo di ottima qualità e prezzo, che aveva<br />
chiamato Tip Tap in ricordo di un concorso di quel ballo vinto negli anni sessanta.<br />
La camiceria Tip Tap era situata accanto allo stabilimento di proprietà del padre di un<br />
altro play-boy che si era prefisso di scucire alla ditta paterna un milione al giorno:<br />
trecentosesantacinque milioni all’anno da spendere in automobili sportive (le bèstie),<br />
donne e bagordi vari. Lo stabilimento faceva parte delle migliaia di stabilimenti<br />
anonimi della periferia milanese, e produceva parti di rispetto per la Candy di Monza.<br />
La domenica tutti i play-boys della combriccola tiravano fuori dalle autorimesse i<br />
fuoristrada per incursione nel greto dello Scrivia. Di moda le prime Toyota per i più<br />
danarosi; sennò, vecchie jeeps della seconda guerra mondiale. Snobbate le Campa-<br />
gnole della Fiat.<br />
Quelli delle Toyota facevano poi la spola fra Portofino e Forte dei Marmi, mentre<br />
quelli delle Jeeps si dovevano accontentare di Alassio dove però ci sono gli snob, c’è<br />
la Cicci, la Meri ed il Bob.<br />
Per commercializzare le camicie Tip Tap, Nicola Cambiaso aveva anche fatto il giro<br />
del mondo in aereo, durante il quale aveva conosciuto l’ambasciatore italiano in<br />
Panamà. Era di antica schiatta nobile genovese, forse amico di suo padre dai tempi<br />
37
delle goliardate tipo Indianopolis coi carretti coi cuscinetti a sfere giù per Via<br />
Assarotti.<br />
L’incontro col nobile diplomatico fu fatale perché l’ambasciatore contagiò a<br />
Cambiaso la mania dell’esportazione italiana in quella lontana repubblica della quale<br />
si sapeva solo che esportata a sua volta in Italia immatricolazioni esentasse per panfili<br />
e relative bandiere di comodo.<br />
Ma cosa esportare dall’Italia in Panama? Certo non camicie Tip Tap perché il<br />
mercato era già stato saturato da quelli di Taiwan, già lì da una decina d’anni.<br />
Ma sì!<br />
Esportare un’idea che sarebbe stata ben vista in Italia da tutto l’Ice al completo e<br />
fortemente spinta dal governo panamegno che si sarebbe fatto in quattro nei confronti<br />
delle banche locali che avevano fino ad allora appoggiato solo produttori di banane e<br />
di caffè.<br />
Stava infatti sorgendo a Colòn, sulle rive del Mar Caraibico, di fronte a Cristobal ed<br />
all’imboccatura del Canale, una zona franca nella quale ogni nazione avrebbe avuto il<br />
suo magazzino e le sue sale campionarie.<br />
La Francia aveva già una sala campioni per la sua profumeria, la Gran Bretagna<br />
quella per i suoi whiskies, i suoi biscotti e la Mini, la Germania per le sue birre ed il<br />
Maggiolino, la Svezia per i suoi acciai speciali e la Norvegia per i suoi stoccafissi,<br />
baccalà e aringhe. E chi più ne ha, più ne metta.<br />
E l’Italia?<br />
38
Nicola Cambiaso ci aveva provato, ma la FIAT aveva detto no, perché le sue auto<br />
sarebbero state paragonate a scatole di sardine al confronto con gli incrociatori USA<br />
del personale del Canale.<br />
La Piaggio idem, perché Vespa ed Ape non avrebbero sopportato i noli marittimi<br />
Mediterraneo-Caribe.<br />
Motta ed Alemagna, picche perché in Centramerica i loro prodotti sarebbe stati<br />
considerati solo pittoreschi e niente più dai soloni del marketing.<br />
E allora ?<br />
Allora puntare sulla piccola industria, irraggiungibile dati i suoi milioni di aziende da<br />
contattare, ma facilmente avvicinabile con una efficace campagna stampa sulle riviste<br />
tecniche e specializzate.<br />
Io potevo essere l’elemento che Nicola Cambiaso stava cercando, dato che avevo un<br />
indirizzario piuttosto robusto che spaziava in tutti i settori produttivi italiani.<br />
Ci mettemmo d’accordo su una piccola cifra a titolo di rimborso-spese di cancelleria<br />
e francobolli e di un’altra come onorario per la stesura del comunicato e, soprattutto,<br />
per lo sfruttamento del mio indirizzario.<br />
“L’Italia potrà avere un proprio salone per l’esposizione delle sue migliori produ-<br />
zioni nell’area “caraibica e centramericana, per il tramite dell’iniziativa Tip Tap<br />
Italia. E’ il salone che sta nascendo nella zona franca di Colòn (Panama), etc, etc,<br />
etc,.” Seguivano, a chiosa, l’indirizzo milanese della Tip Tap, quello di Rapallo di<br />
Cambiaso con tanto di numeri di telefono ed indicazione di segreterie telefoniche<br />
varie.<br />
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Il comunicato fu ripreso da quasi centocinquanta riviste settoriali, e spesso con<br />
discreto rilievo: cosa dimostrata dai ritagli che mi pervennero per due o tre mesi di<br />
fila dall’Eco della Stampa.<br />
Le risposte non tardarono ad arrivare, e per tutto l’anno le telefonate e le lettere con<br />
richieste di informazioni continuarono ad arrivare sia a Milano che a Rapallo.<br />
Avevano telefonato e scritto mezza Brianza che aveva letto Il Mobile, tutte le coste<br />
italiane che avevano letto Nautica, il Chianti e le Langhe che avevano letto Civiltà<br />
del Bere, Carrara e la Versilia che avevano letto Il Marmista Moderno e, poi, tutta<br />
Carpi che aveva letto Il Maglierista e tutta Sassuolo che aveva letto Il Piastrellista.<br />
Tutte le richieste venivano attentamente vagliate da Cambiaso, che un giorno mi<br />
telefonò trionfante per dirmi che aveva trovato il primo espositore che gli aveva<br />
addirittura proposto di entrare in società con lui. .<br />
Era tale Doriano Prioreschi, titolare di un maglificio di un certo nome con sede in un<br />
paese della provincia di Pistoia e che faceva la spola con la Svizzera con la scusa di<br />
piazzare partite di maglie.<br />
Facile da capire il perché: molti personaggi facoltosi si affidavano a lui dato che in<br />
quegli anni i sequestri di persona ad opera di bande di calabresi e di sardi erano<br />
all’ordine del giorno e le Brigate Rosse aggiungevano barbarie di barbarie coi loro<br />
omicidi a sangue freddo.<br />
Il maglierista pistoiese, insomma, faceva il corriere della valuta, mestiere che<br />
rendevano molto di più di quello dichiarato. Inoltre, dal momento che faceva anche il<br />
procuratore di calciatori e che molte operazioni di compravendita di giocatori esteri<br />
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avvenivano con l’aiuto degli gnomi di Zurigo, quelle gite erano considerate dalla<br />
Guardia di Finanza quasi lecite.<br />
A detta di Cambiaso, quando Prioreschi seppe che la costruzione del salone Tip Tap<br />
stava per terminare e che una banca stava per intervenire concedendo un finan-<br />
ziamento di parecchie migliaia di dollari per le rifiniture, si precipitò ad offrire una<br />
sua partecipazione al capitale sotto forma di lettera di credito irrevocabile. Non solo,<br />
ma si mise - sempre a detta di Cambiaso - in azione per essere il primo espositore<br />
italiano: un primo contingente di maglieria da esporre e tenere in conto vendita, del<br />
valore di altrettante migliaia di dollari USA.<br />
Obiettai che all’Equatore o giù di lì la maglieria forse non andava per via del caldo,<br />
ma mi fu opposta tutta una tiritera antropologica sul cambiamento della società<br />
panamegna: non più una massa di negri analfabeti che parlano lo spagnolo, ma una<br />
classe media nascente bramosa di scopiazzare le usanze e le mode europee.<br />
A Prioreschi seguirono tanti altri personaggi come il milanese Carugati disposto a<br />
creare in Tip Tap un angolo di Ferrari e Maserati che chissà di chi erano.<br />
O chi, come il Gori di Sesto Fiorentino che inviò un container zeppo di soprammo-<br />
bili di ceramica gabbati come vero stile italiano malgrado fossero il massimo del<br />
cattivo gusto: il tutto per una manciata di migliaia di dollari a titolo di aumento di<br />
capitale.<br />
Insomma, la Tip Tap stava così divenendo il salvadanaio di gente con la quale io non<br />
volevo neanche sentir parlare.<br />
41
E, dopo Prioreschi, Caruugati e Gori, anche un ingegnere comasco più pratico di<br />
legislazione societaria che di calcoli del cemento armato.<br />
Poi, il proprietario di una segheria di marmi di Massa, che inviò il solito container:<br />
ma questa volta pieno di cocciame di Bianco di Carrara imballato in vecchia cassette<br />
da frutta, tanto per restare nell’ottica dell’estetica del prodotto, mentre Cambiaso<br />
continuava imperterrito a macinare decine di ore di volo sulla rotta Milano-Miami-<br />
Panama City, ed a dirigere l’orchestra dei suoi sempre più numerosi soci.<br />
Il salone italiano fu finalmente inaugurato ufficialmente alla presenza<br />
dell’ambasciatore italiano – che non era già più il nobile genovese ma un burocrate<br />
ciociaro – del ministro dell’economia della Repubblica di Panamà, e con la<br />
benedizione del nunzio apostolico. Seguì un rinfresco a base di pizza e panettone,<br />
annaffiati da Asti Spumante.<br />
Così, almeno, riferirono i giornali locali con foto e titoloni in spagnolo ridondante;<br />
Cambiaso me ne inviò alcune fotocopie.<br />
Da quel momento, persi le tracce di Cambiaso, perché risultava che l’ufficio di<br />
Milano era stato chiuso come la fabbrichetta di camicie Tip Tap.<br />
Al numero di telefono di Rapallo era subentrata la segreteria telefonica di una non<br />
meglio identificata Pensione Sole e Mare.<br />
Dei vari Prioreschi, Carugati, Gori e compagnia bella, poi, non avevo nessuna<br />
coordinata valida.<br />
Solo parecchi anni dopo un impiegato della Camera di Commercio di Pistoia cono-<br />
sciuto per caso mi disse che il maglificio del Prioreschi era chiuso da parecchio<br />
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tempo e che il suo edificio, ridotto ad un rudere, era frequentato solo da drogati. Ed<br />
il titolare? Scappato all’estero – senza però precisarmi dove - lasciando a Pistoia una<br />
famiglia a pezzi.<br />
Non ci volle molto a capire che la stessa cosa era capitata a Gori, all’ingegnere<br />
comasco, al marmista massese e a tutti gli altri che, forse, avevano formato una<br />
pittoresca colonia italiana affacciata sul mare del Caribe, che si aggiungeva ad alcuni<br />
mafiosi siciliani di stanza a Miami che frequentavano la repubblica di Panama per<br />
questioni legate al fisco americano.<br />
Quanto a Carugati, fu arrestato a Milano, in Corso Sempione, all’ingresso degli studi<br />
della RAI dove andava ogni giovedì ad assistere alle registrazioni del Riaschatutto.<br />
Infatti, aveva conosciuto in altri tempi Mike Buongiorno che lo invitava sempre alle<br />
sue trasmissioni. Gli facevano compagnia altri elementi come lui: ma quel giorno<br />
Carugati la fece proprio grossa. Si fece trovare dalla Guardia di Finanza con la sua<br />
Lamborghini piena di Picasso falsi. Scattò anche l’arresto per immissione in com-<br />
mercio di prodotti artefatti ed evasione fiscale, alle quali si aggiunse quella per<br />
contrabbando di valuta, a causa dei suoi precedenti con la Tip Tap di Colòn.<br />
Dopo molti anni, in Piazza della Meridiana, mi sentii chiamare da Cambiaso<br />
Era notevolmente cambiato e leggermente bolso. Non fumava più una Marlboro<br />
dietro all’altra perché aveva avuto un infarto, e mi disse di far l’antiquario poco<br />
lontano.<br />
43
<strong>LA</strong> <strong>VERA</strong> <strong>STORIA</strong> DI ANGELO BUR<strong>LA</strong>NDO:<br />
DAGLI APPENNINI ALLE ANDE (VIA<br />
GEDDAH)<br />
Q<br />
uello stand al Bibe della Fiera di Genova doveva essere il canto del cigno<br />
della delegazione ligure dell’ESAPI, dal momento che, dall’anno<br />
seguente, l’ente non sarebbe più esistito. Dopo l’entrata in vigore delle<br />
regioni a statuto ordinario, il governo dell’epoca aveva, infatti, soppresso<br />
quel vecchio ente romano nato ai tempi dell’economia corporativa, per farne<br />
confluire scopi statutari e personale negli assessorati regionali alle attività produttive.<br />
Raschiando il barile e coi pochi fondi rimasti per la promozione dell’artigianato<br />
ligure, la delegazione di Genova dell’ESAPI aveva pensato di non dar più retta ai<br />
soliti piagnistei dei filigranisti di Campoligure e dei ceramisti di Albisola, quanto di<br />
44
allargare l’orizzonte della promozione a quelle produzioni liguri dell’enogastronomia<br />
che rischiavano di scomparire del tutto sotto l’infuriare del consumismo.<br />
Era il tempo che a Genova quasi tutti i forni di torte e farinata erano stati chiusi, e<br />
così pure le tripperie che erano ilo vanto di ogni rione, perché ormai la gente si era<br />
convinta sulla bontà sopraffina delle cose buone dal mondo. Il bianchino con lo<br />
schizzo di amaro era ormai un reperto archeologico, come prima o poi lo sarebbero<br />
stata la fu^gassa con tutte le sue varianti (cue çiòule, cua sarvia, cue ulive néigre), i<br />
corzetti cu-u tuccu de funzi, e i maccaruìn de Natale in tu broddu de galìn-a..<br />
E, allora, dati i più che ottimi rapporti che intercorrevano con la presidenza e la<br />
segreteria generale della Fiera di Genova, fu pensato dall’ESAPI ligure di allestire un<br />
bello stand di prodotti alimentari liguri nell’ambito del Bibe che, a quell’epoca, era il<br />
salone italiano di punta nel campo del buon bere.<br />
Una vera parata di produttori vinicoli piemontesi e toscani ai quali si aggiungeva ogni<br />
anno qualche decina di produttori meridionali che facevano parte di una grande<br />
collettiva organizzata dalla Cassa del Mezzogiorno, ed altrettanti importatori geno-<br />
vesi e milanesi di liquori e spumanti. I primi, decisamente sconosciuti al di là dei loro<br />
ambiti locali; i secondi, mandatari di marche ultranote e sempre sulla cresta dell’onda<br />
della pubblicità.<br />
Lo stand dell’ESAPI ligure, dunque, presentava amaretti del Sassello, baci di Alassio<br />
e sorrisi di Chiavari, panduçi delle migliori pasticcerie di Genova, conserve di olive<br />
nere che a Sanremo avevano battezzato caviale dei poveri, e, per restare nel tema del<br />
Bibe, amari, digestivi, assaggi di Rossese di Dolceacqua e di Pigato di Finale e<br />
45
perfino alcune rare bottiglie di Corochinato: tutte produzioni rigorosamente artigiane,<br />
come voleva lo statuto dell’ESAPI che era l’Ente per lo sviluppo dell’artigianato e<br />
della piccola industria.<br />
Lo stand era stato allestito fisicamente con materiale fieristico in dotazione alla sede<br />
centrale di Roma, che aveva a sua volta inviato in missione a Genova due suoi<br />
impiegati sfaticati, incapaci perfino di piantare qualche chiodo e di avvitare qualche<br />
lampadina. Tutto sotto l’attenta direzione del direttore della delegazione ligure, il<br />
dottor Frola, coadiuvato dalla sua segretaria e da qualche volontario nelle persone di<br />
alcuni titolari di negozi di pasta fresca e di torte e farinate.<br />
Il giorno dell’inaugurazione era stato presente anche il Direttore generale dell’ESAPI<br />
che era venuto appositamente in missione da Roma e che si era fatto alloggiare al<br />
Cenobio dei Dogi di Camogli.<br />
Io ero allora un collaboratore esterno dell’ESAPI ed avevo il compito – neanche tanto<br />
ben retribuito – di emanare qualche comunicato-stampa sull’attività della delegazione<br />
ligure e, in occasione di quel Bibe, tenere in contatti con i giornalisti specializzati che<br />
solitamente fanno quattro scalini alla volta nel salire verso i saloni in cui si parla di<br />
sbafare.<br />
Facevo la spola tra lo stand dell’ESAPI e la sala-stampa della Fiera e riuscivo spesso<br />
ad avvicinare personaggi di tutto rispetto e portarli al nostro stand: vennero a trovarci<br />
Vincenzo Buonassisi, Luigi Veronelli, Giorgio Bubba, quasi tutta la redazione di<br />
BarGiornale e quella di Civiltà del Bere. E, poi, anche Al Bano, a Genova per<br />
promuovere i suoi vini di Cellino San Marco, e Nils Liedholm anche lui a Genova per<br />
46
quelli della sua fattoria delle Langhe. Fecero una capatina anche Ave Ninchi e<br />
Gualtiero Marchesi<br />
Nel fare il giro degli altri stands, incappai in quello di una distilleria di Serravalle<br />
Scrivia che produceva grappa, amari e sciroppi, e mi accolse uno che si definì il suo<br />
export-manager: si chiamava Angelo Burlando.<br />
“……E non mi chieda anche lei se sono di quelli della farmacia di Via Venti: me lo<br />
“chiedono tutti. No: con quelli della farmacia ho solo un rapporto di parentela piut-<br />
“tosto vago perché siamo cugini si e no di terzo o quarto grado e non ci sentiamo<br />
“neppure per gli auguri di Natale.”<br />
Vestiva elegante-sportivo con una giacca che denotava una buona marca, portava gli<br />
occhiali da vista con la montatura tipo Ray Ban e viaggiava su una Lamborghini che<br />
beveva come una spugna perché vecchia sì, ma non tanto da essere considerata<br />
un’auto storica.<br />
Mi disse anche che, malgrado fosse di antica famiglia genovese, abitava in affitto ad<br />
Arquata Scrivia per essere il più vicino possibile al posto di lavoro, e che la<br />
Lamborghini veniva usata solo di quando in quando per andare a Milano o venire a<br />
Genova, oppure per recarsi all’ultim’ora a qualche aeroporto per volare all’estero a<br />
trattare partite di bottiglie di grappa, di caramelle o di uova di Pasqua.<br />
Capii che Burlando non aveva con la distilleria un vero e proprio rapporto di dipen-<br />
denza, ma che ne era il consulente per l’estero dato che parlava correntemente l’in-<br />
glese. Il suo essere libero dal non timbrare tutte le mattine il cartellino, gli dava la<br />
possibilità di lavorare per promozioni all’estero anche per conto di tre altre fabbri-<br />
47
chette della Vallescrivia: una di caramelle resasi famosa nei primi anni del secondo<br />
dopoguerra per aver inventato le figurine dei calciatori, un’altra di cioccolatini molto<br />
buoni ma anche molto cari, ed una terza che produceva uova di Pasqua di cioccolato.<br />
Avrebbe fatto entrare volentieri le sue quattro ditte nel giro dell’ESAPI, anche se,<br />
territorialmente, esse appartenevano tutte quante alla provincia di Alessandria.<br />
Il dottor Frola non disse di no, anche perché la delegazione ESAPI di Torino non<br />
aveva mai brillato di iperattività e perché, in fin dei conti, la Vallescrivia era stata,<br />
fino al Congresso di Vienna, territorio della Repubblica di Genova.<br />
La conoscenza dell’inglese di Burlando fu messa alla prova dal dottor Frola che<br />
aveva vissuto un certo numero di anni negli USA e che sentenziò che, sì, Burlando<br />
parlava correntemente l’inglese, ma che usava delle espressioni non proprio da<br />
annunciatore della BBC.<br />
Qualche anno dopo, un suo amico d’infanzia in vena di pettegolezzi mi disse che<br />
Burlando aveva davvero vissuto qualche anno a Londra, ai tempi in cui era uno dei<br />
tanti figli di papà della Genova con le palanche. Infatti, suo padre era un ricco<br />
affarista, azionista dei Silos Genova che staccò cedole ogni fine anno sociale fino a<br />
che non fu divorato dal tarlo del gioco. Tra una gita a Sanremo ed una a Campione<br />
d’Italia era riuscìto a dilapidare tutto quanto faceva parte del patrimonio famigliare ed<br />
andò dritto verso il suicidio.<br />
Appartamento di Via Corsica ipotecato, arredamento hollywoodiano con una tela del<br />
Piola venduto per due lire, madre mandata ad abitare in affitto a Varazze, ed anche<br />
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lui, il Burlando Angelo, in affitto nel bel mezzo dell’Appennino Ligure, ad Arquata<br />
Scrivia, dove, quando non è estate, nevica o fa un freddo becco.<br />
IL dottor Frola presentò a Burlando alcune aziende dolciarie artigiane che avrebbero<br />
potuto aver bisogno di lui, ed un fabbricante di finestre di alluminio di San Gottardo<br />
che stava facendo i primi passi sul mercato libico non ancora chiuso agli italiani dai<br />
decreti di Gheddafi.<br />
Il fabbricante di finestre si chiamava Pellecchia ed era di chiare origini ciociare.<br />
Come tanti altri immigrati degli anni ’50-60, si era fatto una posizione lavorando<br />
come un negro giorno e notte, festività comprese, e questo suo passato di indefesso<br />
lavoratore gli aveva dato, sì, una sicurezza economica e una certa fama raggranellata<br />
con qualche annuncio pubblicitario sul Secolo XIX, ma gli aveva lasciato un senso di<br />
colpa per non avere avuto il tempo di farsi quel che si suol dire un’istruzione.<br />
E, per affrontare il mercato libico, aveva bisogno di un alter ego che gli desse una<br />
mano: e l’alter ego lo trovò in Burlando.<br />
Pellecchia aveva iniziato un rapporto epistolare con un commerciante tripolino che<br />
bestemmiava un po’ di italiano e che era molto interessato alle sue finestre: e, come<br />
tutti i mercanti di lingua araba, non si accontentava di forniture per l’edilizia, ma i<br />
suoi orizzonti spaziavano in tutti i campi dello scibile umano.<br />
Quindi, se Burlando fosse andato con Pellecchia a Tripoli, avrebbe trovato pane per i<br />
suoi denti ed avrebbe potuto affibbiare al tripolino tutta una gamma di dolciumi che<br />
neanche se lo sarebbe immaginato.<br />
49
E così fu, perché, di ritorno dal viaggio a Tripoli con Pellecchia, Burlando tornò con<br />
un ordine di un container di uova di Pasqua, uno di sciroppi ed una massa enorme di<br />
richieste di offerte campionate che andavano dai detersivi agli indumenti di buona<br />
qualità ma di basso costo.<br />
Si venne a sapere che le uova di Pasqua, in un paese maomettano, venivano vendute<br />
come regalo di fidanzamento o qualcosa del genere.<br />
Passata l’euforia dei primi giorni, cominciarono ad arrivare a Burlando le prime disil-<br />
lusioni: gli sciroppi e le uova di Pasqua dovevano portare indicazioni in arabo e<br />
nessuno in Vallescrivia aveva la più pallida idea di chi potesse tradurre le etichette.<br />
Telefonò a me chiedendomi se per caso conoscessi qualcuno che sapesse l’arabo, e<br />
gli risposi che l’unica persona da me conosciuta che sapesse leggere i caratteri arabi<br />
era un ragazzo iraniano che vive tuttora a Pisa e che dava da intendere di essere uno<br />
studente per continuare a godere delle borse di studio del governo dello Scià.<br />
Ma un conto è sapere il persiano ed un’altra sapere l’arabo. I caratteri sono sempre gli<br />
stessi, ma c’è la differenza che passa tra l’italiano ed il croato.<br />
Seppi, in seguito, che la traduzione fu possibile per il tramite dell’Ambasciata di<br />
Libia a Roma che aveva un traduttore accreditato presso il Tribunale: la tariffa per la<br />
traduzione fu giudicata esosa, ma gli assistiti di Burlando per una volta fecero buon<br />
viso a cattiva sorte, malgrado fossero tutti quanti dei personaggi da commedie di<br />
Gilberto Govi. Fu anche trovato uno spedizioniere che si accollò l’incarico di<br />
provvedere alla spedizione di un paio di containers-frigo con le uova e gli sciroppi,<br />
50
prima che il caldo dell’estate genovese irrancidisse tutti gli sciroppi e facesse<br />
liquefare le uova di Pasqua.<br />
Quanto ai detersivi, Burlando approfittò del fatto di conoscere un geometra della<br />
Mira Lanza e salì le scale del palazzo di Piccapietra per chiedere se potevano inviare<br />
per aereo un fustino di campione al tripolino: gli fu detto di no, perché loro erano una<br />
ditta seria che non si avvaleva di procacciatori d’affari e, menchemeno, mandava un<br />
suo fattorino fino a Sestri solo per spedire un fustino di Ava. Che se lo comprasse<br />
Burlando al più vicino negozio e che se lo spedisse lui, se tanto ci teneva.<br />
Tutto questo costò a Burlando intere notti passate alla telescrivente dell’ufficio di un<br />
altro suo amico commerciante di ferraccio, dal momento che lui non solo non aveva<br />
un ufficio tutto suo e dotato dell’ingombrante macchinario, ma soprattutto perché le<br />
connessioni Italia-Libia via telex erano a quell’epoca a dir poco precarie per le con-<br />
tinue cadute delle linee nelle ore diurne.<br />
Ma, siccome l’appetito viene mangiando, Burlando approfittò dell’occasione di aver<br />
incontrato ad un convegno della CCIAA il delegato dell’ICE in Arabia Saudita, per<br />
fare quel salto di qualità che attendeva da sempre.<br />
E partì alla volta di Geddah con un bel mazzo di incarichi, perché alle ditte della<br />
Vallescrivia se ne erano aggiunte almeno altre cinque o sei, e tutte più o meno dello<br />
stesso settore.<br />
Gli indirizzi da sfruttare erano una decina, ed erano stati forniti dal-l’uomo ICE;<br />
erano tutti di mercanti sauditi che trattavano, come il libico, tutto quanto era trattabile<br />
e che avevano di fronte ai portoni dei loro uffici, code infinite di offerenti. Dai giap-<br />
51
ponesi coi loro aggeggi elettronici ai francesi con i loro profumi, dagli inglesi coi loro<br />
biscotti ai norvegesi coi loro stoccafissi. Di italiani non se ne era mai presentato uno,<br />
per cui l’arrivo di Burlando fu accolto con un misto di curiosità e di diffidenza, per-<br />
ché nessuno conosceva né l’Italia né la potenzialità dell’industria dolciaria italiana.<br />
Molti però sapevano dalle loro televisioni satellitari quasi tutto su mafia e brigate<br />
rosse.<br />
Ci scappò, comunque, qualche ordine di uova di Pasqua e di sciroppi che servirono a<br />
coprire le spese di vitto e alloggio, che già a quell’epoca erano pazzesche.<br />
Burlando si era, infatti, accollato in proprio il soggiorno a Geddah perché nessuno dei<br />
suoi assistiti, tutti uomini del manimàn, aveva giudicato opportuno dare un contributo<br />
alle spese.<br />
Gli unici alberghi di Geddah, poi, erano da quattro o cinque stelle con aria<br />
condizionata dato il caldo impossibile; per di più erano frequentati da americani ed<br />
altri personaggi dalle multinazionali che viaggiavano spesati e non badavano ai<br />
centesimi di dollaro. Fu così che, un paio di settimane di soggiorno in simili luoghi<br />
assommate alle spese per gli aerei, furono per Burlando un conto da pagare che lo<br />
mise kappaò.<br />
Ciononostante, al ritorno in Valle Scrivia si gettò a capofitto nel lavoro per evadere<br />
gli ordini e riscuotere le commissioni: altre nottate di telex, altre liti con spedizionieri.<br />
altri chiodi piantati presso amici, conoscenti e parenti. A me non chiese mai nulla<br />
perché sapeva che ero un miscio.<br />
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Da quanto venni a sapere da uno spedizioniere, gli ordini furono tutti evasi e le<br />
commissioni tutte riscosse.<br />
Fu dissequestrata la Lamborghini, fu tacitato il padrone di casa di Arquata che<br />
minacciava sfratto per morosità, furono tappati dieci o venti buchi e rimasero a<br />
Burlando anche i soldi per agganciare una pretty-woman con la quale farsi vedere al<br />
Margherita.<br />
Ma l’occasione migliore gliela offrì un armatore che era stato il suo compagno di<br />
banco all’Arecco e che aveva da poco iniziato una linea di ro-ro Genova-Geddah.<br />
Gli offrì l’alloggio ed il vitto presso una specie di foresteria che aveva affittato nei<br />
dintorni del porto ed ove alloggiava i suoi marittimi in occasione dei cambi d’equi-<br />
paggio. Lì Burlando poteva avere assicurato quasi gratis mangiare, bere, dormire,<br />
lavatura e stiratura, per poter continuare i suoi traffici con i mercanti sauditi.<br />
Quell’armatore lo conobbi di persona qualche mese dopo al Salone Nautico, ove<br />
stava trattando un 4.70, ma di Burlando persi le tracce.<br />
Un pomeriggio di due o tre ani fa, rividi per caso l’armatore a Firenze, al bar della<br />
stazione di Santa Maria Novella, ove lui stava attendendo un Intercity per Bologna ed<br />
io stavo prendendo un caffè sulla via della Fortezza da Basso.<br />
“E Burlando?”<br />
“Mah! Forse è in Cile.”<br />
Mi raccontò in due parole secche che Burlando era riuscito ad arruffianarsi un prin-<br />
cipe saudita che aveva aperto un ufficio di importazione di acque minerali italiane;<br />
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per farla breve, Burlando gli faceva da interprete col suo inglese ed anche un po’ da<br />
confidente.<br />
La loro amicizia era però finita presto con l’immissione di Burlando nel libro nero – o<br />
black-list che dir si voglia - di tutte le compagnie aeree che scalano Geddah.<br />
Come fosse stato un israeliano.<br />
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