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SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea

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«Gradisca, la prego, questo vermut italiano», diceva, e io pensavo a fialette di cianuro<br />

rotte coi denti nel buio di una cella, o sull’auto nera della Gestapo, alla sorte di qualche<br />

camerata del maresciallo, e di altri morti senza storia, tanti morti, ma nel racconto del<br />

maresciallo non c’era né passione né dolore, quei morti erano solo il risultato di errori<br />

strategici, di valutazioni politiche sbagliate, egli si sentiva ancora e sempre maresciallo,<br />

maresciallo fino all’ultimo giorno.<br />

Mi parve prigioniero di se stesso, di un sogno angoscioso di cui non aveva saputo<br />

liberarsi: chiacchierava insistentemente di elmetti di acciaio, elmi col chiedo, elmi con la<br />

svastica, ne parlava con orgoglio, con fierezza. Di quegli elmi se ne vedono ancora,<br />

arrugginiti, nei nostri cimiterini di campagna, messi sopra le croci che ricordano, fra i<br />

morti del paese, certi poveri Hans, o certi poveri Rudolf, venuti a morire in Italia agli<br />

ordini del Führer e del maresciallo Kesselring.<br />

Mi mostrò il suo libro di memorie, c’era una frase sottolineata da un segno di lapis: «La<br />

mia vita è stata ricca, perché piena di preoccupazioni, di lavoro, di responsabilità. Essa è<br />

terminata in un calvario». Non era l’incubo degli sbagli compiuti che lo affliggeva, ma il<br />

senso del prestigio ferito. «In carcere», mi disse, «dovetti incollare sacchetti di carta.<br />

Ero molto bravo, del resto. Pensi: un maresciallo tedesco».<br />

Se ne è andato. Lo hanno vestito con l’alta uniforme, fra le mani il bastone di comando,<br />

il segno della sua gerarchia. Ricordo una sua frase: «Posso affermare di avere sempre<br />

voluto il bene nella mia vita: solo chi non ha mai errato potrà giudicare se io sia sempre<br />

riuscito a conseguirlo». Lo seguivano gli ultimi camerati, i superstiti di un mondo<br />

perduto. Forse nella morte ha ritrovato se stesso, l’immagine di sé che preferiva. «Con<br />

la morte», ha scritto un poeta della sua gente, «tutte le fiamme di collera si spengono».<br />

Tace il rancore, ma il suo nome, affidato all’infinita pietà di Dio, significherà per sempre<br />

un tempo disperato e crudele.<br />

Enzo Biagi<br />

Albert Kesselring, il «soldato di ferro»<br />

Albert Kesselring (nato a Markstedt in Franconia nel 1885, e morto a Bad Nauheim<br />

vicino a Francoforte sul Meno nel 1960) è uno dei pochissimi ufficiali generali tedeschi –<br />

fra gli altri Keitel, Jodl e Warlimont – ad avere assolto senza interruzione incarichi di<br />

altissima responsabilità durante l’intero periodo bellico, tra il 1939 e il 1945.<br />

Artigliere di formazione prende parte alla Prima Guerra Mondiale sul fronte russo già nei<br />

ranghi degli Stati Maggiori, sia divisionali che di corpi d’armata. Subito dopo l’armistizio<br />

è in Baviera, a Norimberga, dove non si lascia smobilitare e collabora alla formazione di<br />

reparti di volontari della cosiddetta «Reichswehr nera».<br />

Entrato nelle file della Reichswehr regolare come comandante di batteria (vi resterà dal<br />

1919 al 1922) viene quindi assegnato al ministero della Guerra come capo del Terzo<br />

Ufficio, addetto cioè alle operazioni. Maggiore nel 1925, tenente colonnello nel 1930,<br />

comanda un gruppo di artiglieria a Dresda dal 1931 al 1933.<br />

A questo punto, la grande svolta che segnerà tutta la sua vita. Hitler ha appena<br />

conquistato il potere, il riarmo sta per assumere carattere pressante e pubblico,<br />

nascono i carri armati, i sommergibili, si riprende l’addestramento della truppa, il<br />

Grande Stato Maggiore e la Scuola di Guerra riacquistano il loro nome e il loro status. E<br />

nasce anche l’aviazione, inutilmente vietata fino allora dal diktat di Versailles. Il grande<br />

artefice è Göring, il tronfio, bonaccione, crudele e attivissimo decorato della Croix pour<br />

le Mérite, l’ultimo comandante della gloriosa squadriglia Richthofen.

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