SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea

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20.05.2013 Views

senso, dal punto di vista di Hitler, una scelta sicuramente felice. Dotato di forte fascino personale, capace di un approccio diplomatico, in contrasto con lo stile degli altri SS a cominciare dai vertici, Himmler e Kaltenbrunner, Wolff sarà uno dei personaggi più ambigui dell’occupazione tedesca. Nella scelta del suo migliore «alleato» italiano Wolff punta su Buffarini Guidi e ne sostiene la nomina a ministro degli Interni. Il gerarca fascista gli dà maggiori garanzie di altri. Soprattutto lo vede come contraltare delle varie «bande» di estremisti sanguinari, confluiti a Salò, che detesta. Di queste apprezzerà soltanto quella del principe Borghese, la Decima MAS, che rappresenterà per lui un «valido, coraggioso alleato nella lotta antipartigiana». «Ho sempre considerato Mussolini il maestro di Hitler» Quando Buffarini Guidi cade in disgrazia agli occhi di Mussolini, pare per una meschina bega in cui è coinvolta Claretta Petacci, Wolff rompe anche i rapporti con il duce (rapporti che d’altronde sono tenuti egregiamente dal suo amico Rudolph Rahn) pur senza venire meno alla sua stima per il capo della repubblica d Salò. Dirà dopo la guerra, parlando della destituzione di Buffarini Guidi nel febbraio del 1945: «Arrivai alla rottura (con il duce) con mio grande dispiacere, perché io ho sempre ammirato Mussolini e l’ho sempre considerato il maestro di Hitler». Wolff, dopo la guerra, ha spesso vantato alcuni suoi «meriti», sostenendo di avere indotto Hitler a ritirare l’ordine segreto che prevedeva l’arresto di Pio XII e di una serie di dignitari del Vaticano durante l’occupazione di Roma. In più il Führer voleva che fossero sequestrate le maggiori opere del patrimonio artistico italiano e Wolff sostiene di avere fatto fallire anche questo piano nazista. Nel 1944 dilagano scioperi nelle fabbriche di Torino e di Milano. Dal quartier generale di Hitler l’ordine è di prendere a cannonate gli scioperanti e di deportarne un terzo in Germania. Anche in questa occasione Wolff sostiene di avere evitato il peggio. Ma a parte la recita postuma, per la verità abile e insinuante, di salvatore dell’Italia, Wolff si distingue per la capacità di mantenere rapporti con tutti, nell’Italia occupata, senza mai tradire, formalmente, la spietatezza del compito repressivo che gli è stato affidato. Interventi moderati certo ne fa, approfittando anche del fatto che, come comandante superiore delle SS in Italia, è temuto dagli altri tedeschi, militari compresi. E si direbbe che fa di tutto per potersi presentare nel dopoguerra con un volto diverso da quello degli altri responsabili nazisti, proprio lui che è preposto essenzialmente a compiti di polizia. I suoi rapporti con gli uomini della Chiesa furono frequenti, specie con il cardinale Schuster. Da Pio XII fu ricevuto il 10 maggio del 1944 in Vaticano. Quanto alle stragi che segnarono l’occupazione tedesca e la presenza dei reparti SS in Italia Wolff cercò sempre di dimostrare la sua estraneità. Quando le sorti della guerra erano ormai segnate, lo SS Obergruppenführer stabilì contatti con Allen Dulles, responsabile dei servizi segreti americani, e riuscì anche qui a dimostrare di essere tra i nazisti uno dei più «ragionevoli», I rapporti si stabilirono all’insegna, indubbiamente, del rischio. Wolff, andando oltre le consegne, trattò coadiuvato dall’ambasciatore Rahn i prodromi della resa dei tedeschi in Italia, quando un’iniziativa del genere era ancora considerata dagli ultimi brandelli del Terzo Reich «alto tradimento». Ma anche qui rischiò pensando al futuro, a quel cliché che si sarebbe fatto nel dopoguerra, al momento della resa dei conti. E il futuro avrebbe dimostrato che era un buon giocatore. Neppure i partigiani, che lo catturarono a Cernobbio nel 1945, pensarono che Wolff fosse passibile, come in quei momenti avveniva per tanti altri personaggi, di giustizia sommaria.

Giuseppe Bottai, il gerarca «che sognava la libertà» Gianfranco Romanello Dei contumaci al processo di Verona, Giuseppe Bottai è forse il più illustre. Enfant prodige, l’«uomo migliore», la «mente migliore», ma anche «la Cassandra» del regime; il «fascista critico», «il più fascista dei fascisti», l’«eretico prudente», il gerarca «che sognava la libertà»; il «cavaliere di un fascino impossibile» e, scomodando Winston Churchill, «un enigma avvolto in un mistero». Sono, alla rinfusa, solo alcune definizioni che storici e giornalisti hanno dato di Giuseppe Bottai. La contraddizione vi domina sovrana. Come può essere «eretico» il fascista «più fascista», cioè il più ortodosso? E come può un fascista «sognare la libertà»? Diffidate, lettori, degli uomini per i quali tutte le definizioni sono buone. Ciò significa quasi sempre che nella loro vita hanno predicato in un modo e razzolato in un altro, lasciando di sé un ricordo aperto a tutte le interpretazioni. Uno di costoro fu senz’altro Giuseppe Bottai, fascista della prima ora, squadrista e manganellatore, quindi revisionista e timido dissidente. Gli occhi «magnetici» di Mussolini trafiggono i suoi per la prima volta nel «covo» di via Paolo da Cannobio, a Milano. L’incontro ha qualcosa di fatale: «La mia vita fu decisa, con quella di tutta una generazione». Possibile? Che il capo del fascismo ci venga presentato come un ipnotizzatore da baraccone, passi: dei suoi tanti travestimenti, è quello in cui appare più credibile. Ma il giovanotto venuto da Roma per conoscerlo non era uno sprovveduto. Aveva studiato e fatto la guerra. Era un intellettuale nutrito di buone letture: liceo al Tasso, laurea in legge, amicizie tra i futuristi (allora di gran moda) e in cuore la speranza d’iscrivere il proprio nome nel firmamento della letteratura. A certe volgari seduzioni avrebbe dovuto saper resistere. Poeta crepuscolare Invece no. Tutt’altro. Il giovanotto ha ventitré anni – è nato a Roma il 13 novembre 1895 da un vinaio di Monsummano e dalla figlia di un mastro d’ascia spezzino – e una gran voglia di farsi largo nella vita. È già un poeta, più crepuscolare che futurista. Potrebbe fare l’avvocato, il professore, il filosofo. E perché non il giornalista, l’uomo politico, l’ideologo della «rivoluzione» fascista? Sì, questa può essere una scorciatoia, Nell’estate del 1919 l’ex-ufficialetto degli arditi s’iscrive al fascio della capitale. Il poeta che sognava «un paese all’antica» e, guarda caso, «senza la lega operaia» si trasforma in un somministratore di olio di ricino. La sua carriera politica è fulminea. Redattore del Popolo d’Italia, collaboratore (poi anche direttore) di Roma futurista e di altri giornali dal frasario pittoresco in cui si ragiona poco e s’inveisce molto, nel 1921 Bottai è già eletto deputato. Peccato che non abbia l’età per entrare in parlamento: se ne riparlerà nelle elezioni del 1924. Bottai antemarcia, intanto, è estremista e repubblicano. Dopo il 28 ottobre, con un tempismo che va sottolineato, abbandona le irrequiete avanguardie per l’ortodossia del fascismo mussoliniano. Diventa, come ha scritto Francesco Malgeri (e questa è forse la definizione più appropriata), «un intellettuale al servizio del fascismo». Nel giugno 1923 fonda la rivista Critica fascista, che sarà per vent’anni il portavoce delle sue battaglie politiche più significative: sul revisionismo fascista, sulle corporazioni, sulla cultura, sui giovani. Piero Gobetti lo attacca ferocemente: «Non è lecito, tra persone intelligenti, credere sul serio che quelle di Bottai e di Rocca sono idee: sono detriti e spazzature di vecchie ideologie

Giuseppe Bottai, il gerarca «che sognava la libertà»<br />

Gianfranco Romanello<br />

Dei contumaci al processo di Verona, Giuseppe Bottai è forse il più illustre. Enfant<br />

prodige, l’«uomo migliore», la «mente migliore», ma anche «la Cassandra» del regime;<br />

il «fascista critico», «il più fascista dei fascisti», l’«eretico prudente», il gerarca «che<br />

sognava la libertà»; il «cavaliere di un fascino impossibile» e, scomodando Winston<br />

Churchill, «un enigma avvolto in un mistero». Sono, alla rinfusa, solo alcune definizioni<br />

che storici e giornalisti hanno dato di Giuseppe Bottai. La contraddizione vi domina<br />

sovrana. Come può essere «eretico» il fascista «più fascista», cioè il più ortodosso? E<br />

come può un fascista «sognare la libertà»?<br />

Diffidate, lettori, degli uomini per i quali tutte le definizioni sono buone. Ciò significa<br />

quasi sempre che nella loro vita hanno predicato in un modo e razzolato in un altro,<br />

lasciando di sé un ricordo aperto a tutte le interpretazioni. Uno di costoro fu senz’altro<br />

Giuseppe Bottai, fascista della prima ora, squadrista e manganellatore, quindi<br />

revisionista e timido dissidente.<br />

Gli occhi «magnetici» di Mussolini trafiggono i suoi per la prima volta nel «covo» di via<br />

Paolo da Cannobio, a Milano. L’incontro ha qualcosa di fatale: «La mia vita fu decisa,<br />

con quella di tutta una generazione». Possibile? Che il capo del fascismo ci venga<br />

presentato come un ipnotizzatore da baraccone, passi: dei suoi tanti travestimenti, è<br />

quello in cui appare più credibile. Ma il giovanotto venuto da Roma per conoscerlo non<br />

era uno sprovveduto. Aveva studiato e fatto la guerra. Era un intellettuale nutrito di<br />

buone letture: liceo al Tasso, laurea in legge, amicizie tra i futuristi (allora di gran<br />

moda) e in cuore la speranza d’iscrivere il proprio nome nel firmamento della<br />

letteratura. A certe volgari seduzioni avrebbe dovuto saper resistere.<br />

Poeta crepuscolare<br />

Invece no. Tutt’altro. Il giovanotto ha ventitré anni – è nato a Roma il 13 novembre<br />

1895 da un vinaio di Monsummano e dalla figlia di un mastro d’ascia spezzino – e una<br />

gran voglia di farsi largo nella vita. È già un poeta, più crepuscolare che futurista.<br />

Potrebbe fare l’avvocato, il professore, il filosofo. E perché non il giornalista, l’uomo<br />

politico, l’ideologo della «rivoluzione» fascista? Sì, questa può essere una scorciatoia,<br />

Nell’estate del 1919 l’ex-ufficialetto degli arditi s’iscrive al fascio della capitale. Il poeta<br />

che sognava «un paese all’antica» e, guarda caso, «senza la lega operaia» si trasforma<br />

in un somministratore di olio di ricino.<br />

La sua carriera politica è fulminea. Redattore del Popolo d’Italia, collaboratore (poi<br />

anche direttore) di Roma futurista e di altri giornali dal frasario pittoresco in cui si<br />

ragiona poco e s’inveisce molto, nel 1921 Bottai è già eletto deputato. Peccato che non<br />

abbia l’età per entrare in parlamento: se ne riparlerà nelle elezioni del 1924. Bottai<br />

antemarcia, intanto, è estremista e repubblicano. Dopo il 28 ottobre, con un tempismo<br />

che va sottolineato, abbandona le irrequiete avanguardie per l’ortodossia del fascismo<br />

mussoliniano.<br />

Diventa, come ha scritto Francesco Malgeri (e questa è forse la definizione più<br />

appropriata), «un intellettuale al servizio del fascismo». Nel giugno 1923 fonda la rivista<br />

Critica fascista, che sarà per vent’anni il portavoce delle sue battaglie politiche più<br />

significative: sul revisionismo fascista, sulle corporazioni, sulla cultura, sui giovani. Piero<br />

Gobetti lo attacca ferocemente: «Non è lecito, tra persone intelligenti, credere sul serio<br />

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