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SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea

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positivo sul buon senso e sulla probità del vecchio maresciallo. Ma tant’è, la rivoluzione<br />

deve mangiare i suoi figli. De Bono affronta la sventura con molta classe e coraggio.<br />

Nella cella degli Scalzi, a Verona, accoglie il suo avvocato difensore indossando un<br />

correttissimo abito grigio, con camicia immacolata e cravatta perfettamente annodata e<br />

chiede scusa di ricevere il legale «nell’unica stanza che ha a disposizione». Lo dice serio<br />

serio, senz’ombra di ironia: il senso dell’umorismo non è il suo forte. Al processo si<br />

difende con calma e con calma accetta la sentenza. A monsignor Chiot, che gli ha dato i<br />

conforti religiosi, dice: «Conto e riconto le ore alle soglie dell’Eterno come il pezzente<br />

conta i baiocchi per vedere se gli bastano per comprarsi il pane». Quando viene il<br />

momento di salire sul furgone che trasporta i condannati al poligono del ponte Catena,<br />

De Bono ha un soprassalto e con voce ferma grida: «Fucilato alla schiena no! Il piombo<br />

nel petto!». Non sarà accontentato nemmeno in questo. Mussolini, poco prima che<br />

arrestassero a Cassano il maresciallo, gli aveva promesso salva la vita. Non fece nulla<br />

per mantenere la promessa. Così, fra le molte altre cose, ebbe sulla coscienza – come<br />

capo della fantomatica RSI – la prima esecuzione capitale, dall’unità d’Italia, di un uomo<br />

di 77 anni. Un paio di mesi dopo, il 20 marzo, dirà a Renzo Montagna, che aveva fatto<br />

parte del tribunale di Verona e aveva fatto disperati quanto inutili tentativi per salvare<br />

De Bono: «La condanna di De Bono è una vera infamia e mi sorprende che Vecchini,<br />

uomo di legge, se ne sia reso complice. De Bono era un soldato valoroso e leale e non<br />

potevano essergli negate le attenuanti. Era anche vecchio e la sua fucilazione ha<br />

prodotto nel paese una penosa impressione». Tardo epitaffio per un uomo la cui vera<br />

colpa storica era di avere creduto fino all’ultimo in lui, Mussolini.<br />

Franco Fucci<br />

Wolff, un uomo dal «pugno di ferro nel guanto di velluto»<br />

«Io vedevo nei partigiani italiani dei patrioti ma certo non era un’opinione che potessi<br />

esprimere ad alta voce. D’altra parte, se io fossi nato italiano sarei stato anch’io un<br />

partigiano». Chi, trent’anni dopo il tragico 1943, ha fatto questa dichiarazione in<br />

un’intervista ad un quotidiano italiano è l’ex generale Karl Wolff, comandante delle SS in<br />

Italia dal 9 settembre del 1943 alla fine del conflitto. È un cliché che Wolff ha<br />

presentato per anni parlando della sua «missione» in Italia: quello di un soldato<br />

animato da sentimenti cavallereschi che soltanto la durezza degli eventi e la necessità di<br />

dovere in qualche modo soddisfare a «ordini superiori» hanno costretto a prendere<br />

spesso drastiche decisioni.<br />

È un cliché che di fatto gli è valso l’impunità dopo la guerra, pur essendo stato<br />

condannato nel 1963 a quindici anni di carcere.<br />

Karl Wolff, nato nel 1900, non ha storia fino a quando compare nel 1942, come ufficiale<br />

delle SS a Varsavia, dove ha sicuramente a che fare con il prelevamento dal ghetto di<br />

300.000 ebrei eliminati nei campi di sterminio. Il processo e la condanna del 1963 sono<br />

in relazione a questo fatto. Ma egli riuscirà a far prendere per buona la tesi secondo cui<br />

ignorava quale terribile sorte aspettasse gli ebrei deportati.<br />

Un ammiratore di Borghese<br />

Comunque Hitler deve apprezzare la sua «abile» condotta a Varsavia, perché lo vuole<br />

con sé, come ufficiale di collegamento tra il quartier generale del Führer e le SS. Il 9<br />

settembre del 1943 lo destina all’Italia, dove occorre governare dando l’impressione che<br />

anche il nuovo regime fascista repubblicano conti. Occorre per i servizi interni di polizia<br />

un uomo dal classico «pugno di ferro nel guanto di velluto». Karl Wolff è in questo

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