SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea

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20.05.2013 Views

Il Tribunale si ritira, gli imputati vengono spinti di nuovo nella saletta. Marinelli è adagiato su un divano mentre Pareschi e Gottardi, inebetiti, piangono. Entra correndo l’avvocato Marosu e Ciano, eccitatissimo nella confusione generale, lo affronta: «Ma che cosa accade, avvocato? Ci vogliono ammazzare subito, qui in aula?». Cianetti, che abbracciando il difensore ripete: «È un miracolo, è un miracolo», viene portato via e sparisce dalla storia (liberato dagli americani nell’aprile 1945, se ne andrà in Mozambico e per parecchio tempo sarà creduto morto). Le domande di grazia sono firmate verso le 18, agli Scalzi. Ciano, in un primo tempo, tergiversa: «Dovrei dare questa soddisfazione a Mussolini? Mai. Piuttosto preferisco morire mille volte». Poi finisce per farlo anche per non danneggiare gli altri. Nelle venti ore fra la sentenza e la fucilazione le domande di grazia di Ciano e dei suoi compagni di sventura passano attraverso parecchie mani, senza giungere mai a Mussolini, essendo già stato stabilito precedentemente di respingerle. Secondo i giuristi l’inoltro delle suppliche deve essere fatto dall’autorità militare più elevata della regione veneta ma il generale Piatti Dal Pozzo, chiamato da Padova, dichiara con fermezza la propria incompetenza. Anche il ministro della Giustizia, Pisenti, raggiunto alle 23 da Pavolini, Fortunato e Cersosimo che sono assieme al capo della polizia, Tamburini, oppone un diniego. Il Tribunale Speciale – dice – è una iniziativa del partito, non del suo ministero: se riceverà le suppliche le invierà a Mussolini. «Ricordatevi», conclude, «che mai, in Italia, si è eseguita una condanna a monte contro un uomo dell’età di De Bono». Pavolini e gli altri, allora, corrono a Brescia nella notte, per chiedere consiglio a Buffarini Guidi, il quale naturalmente ha la risposta pronta: se la questione riguarda il partito – come sostiene Pisenti – e se l’inoltro delle domande spetta alla più alta autorità militare locale, allora il solo competente è il console Italo Vianini. Convocato in prefettura a Verona alle 3 del mattino, anche Vianini rifiuta. Non risulta che Mussolini si sia preoccupato delle domande di grazia o abbia almeno chiesto se erano state presentate. La morte di Ciano, in effetti, costituisce lo strumento adatto a bloccare in modo definitivo la revisione storica del 25 luglio. Nella notte – mentre in Germania il capo della Gestapo, Kaltenbrunner, informa Hitler che «le sentenze di morte saranno eseguite mediante fucilazione alle 9 circa di domattina» – Mussolini riceve una lettera della figlia Edda che gli dice crudamente che, se entro tre giorni il marito non verrà liberato, farà pubblicare i Diari negli Stati Uniti, e conclude: «… Ho aspettato fino all’ultimo sperando che tu avessi un po’ d’onestà e un po’ d’umanità, ma siccome vedo che tu non fai niente saprò anch’io colpire». Forse Mussolini riflette su questa missiva perché alle 5 del mattino sveglia con una telefonata il generale Wolff, capo delle SS in Italia, per chiedergli ingenuamente se «una mancata esecuzione della condanna potrebbe nuocermi nella considerazione del Führer». «Sì, e molto», risponde l’altro, insonnolito. I condannati trascorrono la loro ultima notte in un alternarsi di speranze e di sconforti. Si confessano tutti da monsignor Giuseppe Chiot, cappellano degli Scalzi. Ciano è il più avvilito. Non ha mai potuto incontrare, dal 19 ottobre, la moglie e i figli e sa che ormai, malgrado i coraggiosi sforzi di Edda, nulla lo salverà. Disperato pensa al suicidio e verso le 2, col pretesto di voler dormire, si ritira nella propria cella e ingoia una pillola che da qualche giorno custodisce nel fondo di un taschino del panciotto. Crede che sia veleno, se lo è fatto dare da Frau Beetz, profondamente affezionata a lui, ma la donna, dopo averne parlato con don Chiot, gli ha consegnato un innocuo sonnifero.

«Giustizia è fatta» Quando Ciano si riprende dal torpore in cui l’ha gettato il farmaco, l’orologio a pendolo del carcere batte sei colpi. «È già l’ora?», chiede De Bono. Ma il tempo trascorre senza novità: suonano le 7, poi le 8, infine le 8.30. Il direttore degli Scalzi, dottor Olas, sale alle celle e parla con Gottardi e Pareschi, abbattutissimi: «Le esecuzioni avvengono all’alba, di solito, ma ormai è giorno», dice. «Si può sperare… ». Tutti pensano alle domande di grazia. «Se tra un quarto d’ora non ci avranno portati via andremo a dormire», decide De Bono. «Alle 9 non si fucila più nessuno». E Ciano sorride: «Pensare che volevo uccidermi… ». Alle 9 in punto il campanello alla porta del carcere squilla ripetutamente. I condannati hanno un sussulto. Entrano due ufficiali tedeschi, subito seguiti da un trafelato funzionario del tribunale che passa di cella in cella per annunciare a Ciano e ai suoi compagni che «le domande di grazia sono state respinte». In una confusione indescrivibile di ordini e contrordini, i prigionieri vengono portati al poligono di tiro del forte San Procolo, fuori Porta Catena, dov’è già schierato il plotone di esecuzione, trenta fascisti comandati dallo squadrista Nino Furlotti. Ciano è il primo a scendere, sveltamente, dal camion: è agitato ed esce in una imprecazione contro Mussolini. «Vigliacco», esclama. «Farà una fine peggiore della mia… ». Ma si riprende e, ringraziando don Chiot, dice: «Muoio senza rancore per nessuno. Dica ai miei figli che bisogna amare». Marinelli è semisvenuto: è necessario sorreggerlo fino al fossato. Tutti i condannati rifiutano la benda sugli occhi. I militi li spingono avanti facendoli sedere a cavalcioni di cinque sedie, con le mani legate alla meglio alle spalliere, rivolgendo così la schiena al plotone d’esecuzione che era distante una dozzina di metri. Cosmin ordina di leggere la sentenza e a questo punto Gottardi si alza, scioglie le mani dal legaccio e, voltandosi col braccio destro alzato, grida: «Viva il Duce, viva l’Italia». Anche De Bono grida «Viva l’Italia», ma rimanendo seduto. Marinelli, la testa piegata sulle braccia, tace. Ciano si volta più volte a guardare indietro e, un istante dopo, ad un gesto di Furlotti, parte la scarica. Sono le 9.20 dell’11 gennaio 1944. I cinque giustiziati cadono a terra: Marinelli in avanti, Ciano e Gottardi all’indietro, Pareschi e De Bono si rovesciano su un fianco. Solo per quattro la morte è stata istantanea: Ciano rantola e il capitano medico Carretto chiama Furlotti per il colpo di grazia. Si odono due rivoltellate. Poi – ricorderà don Chiot – «un silenzio vuoto come quello del nulla, e d’improvviso la voce di uno stolto: “Giustizia è fatta”». Tre ore dopo, a Gargnano, Mussolini apre il Consiglio dei Ministri dicendo: «Giustizia è fatta».

«Giustizia è fatta»<br />

Quando Ciano si riprende dal torpore in cui l’ha gettato il farmaco, l’orologio a pendolo<br />

del carcere batte sei colpi. «È già l’ora?», chiede De Bono. Ma il tempo trascorre senza<br />

novità: suonano le 7, poi le 8, infine le 8.30. Il direttore degli Scalzi, dottor Olas, sale<br />

alle celle e parla con Gottardi e Pareschi, abbattutissimi: «Le esecuzioni avvengono<br />

all’alba, di solito, ma ormai è giorno», dice. «Si può sperare… ». Tutti pensano alle<br />

domande di grazia. «Se tra un quarto d’ora non ci avranno portati via andremo a<br />

dormire», decide De Bono. «Alle 9 non si fucila più nessuno». E Ciano sorride: «Pensare<br />

che volevo uccidermi… ».<br />

Alle 9 in punto il campanello alla porta del carcere squilla ripetutamente. I condannati<br />

hanno un sussulto. Entrano due ufficiali tedeschi, subito seguiti da un trafelato<br />

funzionario del tribunale che passa di cella in cella per annunciare a Ciano e ai suoi<br />

compagni che «le domande di grazia sono state respinte». In una confusione<br />

indescrivibile di ordini e contrordini, i prigionieri vengono portati al poligono di tiro del<br />

forte San Procolo, fuori Porta Catena, dov’è già schierato il plotone di esecuzione, trenta<br />

fascisti comandati dallo squadrista Nino Furlotti.<br />

Ciano è il primo a scendere, sveltamente, dal camion: è agitato ed esce in una<br />

imprecazione contro Mussolini. «Vigliacco», esclama. «Farà una fine peggiore della<br />

mia… ». Ma si riprende e, ringraziando don Chiot, dice: «Muoio senza rancore per<br />

nessuno. Dica ai miei figli che bisogna amare». Marinelli è semisvenuto: è necessario<br />

sorreggerlo fino al fossato.<br />

Tutti i condannati rifiutano la benda sugli occhi. I militi li spingono avanti facendoli<br />

sedere a cavalcioni di cinque sedie, con le mani legate alla meglio alle spalliere,<br />

rivolgendo così la schiena al plotone d’esecuzione che era distante una dozzina di metri.<br />

Cosmin ordina di leggere la sentenza e a questo punto Gottardi si alza, scioglie le mani<br />

dal legaccio e, voltandosi col braccio destro alzato, grida: «Viva il Duce, viva l’Italia».<br />

Anche De Bono grida «Viva l’Italia», ma rimanendo seduto. Marinelli, la testa piegata<br />

sulle braccia, tace. Ciano si volta più volte a guardare indietro e, un istante dopo, ad un<br />

gesto di Furlotti, parte la scarica.<br />

Sono le 9.20 dell’11 gennaio 1944. I cinque giustiziati cadono a terra: Marinelli in<br />

avanti, Ciano e Gottardi all’indietro, Pareschi e De Bono si rovesciano su un fianco. Solo<br />

per quattro la morte è stata istantanea: Ciano rantola e il capitano medico Carretto<br />

chiama Furlotti per il colpo di grazia. Si odono due rivoltellate. Poi – ricorderà don Chiot<br />

– «un silenzio vuoto come quello del nulla, e d’improvviso la voce di uno stolto:<br />

“Giustizia è fatta”». Tre ore dopo, a Gargnano, Mussolini apre il Consiglio dei Ministri<br />

dicendo: «Giustizia è fatta».

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