SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea
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credeva comunque che, all’interno, il partito avesse forze e mezzi sufficienti per controllarla. Mentre ero da Scorza, sopraggiunse anche Grandi. Egli parlò della necessità di fare qualcosa per sollevare lo spirito nazionale e mi accennò ad un ordine del giorno che aveva adottato e sul quale, in principio, aveva raccolto l’adesione di parecchi camerati. Tra gli altri fece il nome di Federzoni». Le tesi di Grandi «Alle 17, in casa Bottai, Grandi mostro il suo scritto: era nella sostanza quello che poi fu presentato al Gran Consiglio, ma la forma era diversa. Grandi spiegò la sua iniziativa nei termini che in breve riassumo: la guerra non è sentita perché è diffusa in molte categorie la convinzione che è una guerra fascista. Bisogna smentire ciò, e non vi è che un sistema per raggiungere questo scopo: il Gran Consiglio deve invitare tutti alla collaborazione, a cominciare dal re che si mantiene, per ora, in uno stato di nebulosa vaghezza. La guerra si trasformerà da guerra di partito in guerra di nazione». Il memoriale Ciano prosegue così: «Ora, se la restituzione del comando militare al re, cosa d’altronde puramente formale perché la condotta della guerra da noi come negli altri Paesi sarebbe rimasta al Duce (è Churchill o Giorgio V il comandante supremo che conduce la guerra inglese?) fosse valsa a dare alle forze armate quella frustata d’energia e di impegno che il Paese invocava, mi sembrava che il fascismo di fronte a così alto scopo potesse fare questi sacrifici. Per questo diedi la mia adesione alla tesi di Grandi; mai, neppure da lontano egli ha detto, ed io ho pensato, che l’ordine del giorno potesse portare alla caduta del regime. Al contrario si tendeva ad un rafforzamento attraverso la immissione di quelle forze nazionali che volevano cooperare alla salvezza della Patria e che si sentivano estraniate da tale possibilità per ragioni di tessere e di anzianità. Un fascio veramente totalitario: dal re al più umile cittadino, ognuno al suo posto di combattimento, grandi o modeste tutte le proprie responsabilità. Se solo un momento avessi pensato alla possibilità di quanto poi invece è accaduto, non solo non avrei aderito, ma mi sarei opposto con ogni mia energia. Morire va bene, ma scavarmi la fossa con le mie mani non è mai stato nelle mie intenzioni. Ci lasciammo verso le 18 con l’intesa che il giorno dopo Grandi avrebbe nuovamente mostrato l’ordine del giorno nella sua forma definitiva. Il sabato alle ore 11 andai a Palazzo Chigi per vari affari e vidi Bastianini. Era d’umore nero per la recente riunione Hitler-Mussolini a Feltre e disse che la Germania non ci dava più aiuti efficaci. Non sapevo che anche Bastianini partecipasse alla seduta del Gran Consiglio: non avevo mai visto in tale assemblea il sottosegretario agli Esteri. Lui me lo disse. A Palazzo Chigi arrivò Alfieri, giunto da poche ore da Berlino. Parlammo un po’ della situazione; poi, lasciato Bastianini, mi accompagnò alla Camera dove avevo appuntamento con Grandi. L’ordine del giorno era stato completato. Grandi mi disse di essere riuscito ad ottenere l’adesione di dieci camerati. Alfieri, presane visione, aggiunse la sua. La conversazione con Grandi fu breve perché gli fu telefonato che era in atto un bombardamento di Bologna, ed egli cominciò nervosamente a cercare di prendere contatto con il Resto del Carlino e con la famiglia. Fino alle 17 non vidi nessun’altra persona di rilievo politico.
Seduta del Gran Consiglio. Arrivai alle 17 precise e Grandi mi disse che le adesioni erano salite a venti. La riunione ebbe inizio con il discorso del Duce; poi parlarono De Bono, De Vecchi e Grandi che presentò l’ordine del giorno con un lungo discorso. Poi presi la parola io. Me ne dette motivo una frase del Duce circa gli obblighi nostri verso la Germania. Premesso che io ritenevo indispensabile continuare la guerra fino in fondo, a qualsiasi costo, citai la minaccia di un personaggio inglese di non fare la minima discriminazione fra italiani e fascisti, per colpire tutta la Nazione e aggiunsi che se anche avessimo dovuto soccombere, vi è un futuro solamente per quei popoli che hanno “una dignità di vinti” (Gambetta) e che sanno cadere sullo scudo. Dissi degli obblighi della Germania verso di noi, concludendo che il Duce, per motivi che qui non ritengo dover ripetere, aveva il diritto di chiedere ai tedeschi aiuti in qualsiasi natura». Ciano respinge l’accusa di tradimento «Dopo di me parlò Farinacci e poi numerosi altri. Respinta da Grandi una proposta di rinvio della seduta, ebbe luogo una breve interruzione. Intanto aveva parlato già nuovamente Mussolini per dire che se il re avesse respinta l’offerta di comando (e ciò era possibile data la difficile situazione e il gravoso peso dell’offerta) il Gran Consiglio si sarebbe trovato in situazione imbarazzante: se l’avesse accettata, in situazione imbarazzante si sarebbe trovato il Duce. Ripresa la seduta, Grandi parlò nuovamente e, fra gli altri camerati, parlai anch’io per dire che il re aveva già ricevuto altre offerte dal Gran Consiglio nelle ore più felici del regime: la corona di Etiopia e quella di Albania. Non le aveva respinte. Non poteva, come allora si era associato alle fortune del fascismo, respingere adesso la proposta di condividere la responsabilità del momento. La votazione e l’epilogo della seduta sono noti. L’appello nominale fu richiesto – salvo errore – da Grandi. Rientrai a casa mia. Al mattino, con grande sorpresa, seppi dal prof. Ferreri, che veniva a curarmi l’orecchio, particolari precisi sulla seduta sulla quale avrebbe dovuto mantenersi il riserbo. Mi disse che Roma ne era piena. Ebbi modo di constatarlo più tardi all’ambasciata. Da qualcuno mi fu detto che Mussolini aveva ordinato l’arresto dei diciannove votanti l’ordine del giorno. Non lo credetti. Alle 17 tornai in ambasciata. Vennero a vedermi parecchie persone, tra gli altri Anfuso, Muti, Corrias, Casero. Attendevano di conoscere lo sviluppo della situazione. Si diceva che Mussolini sarebbe andato dal re, nel pomeriggio. Verso le 18 notai che il mio telefono, linea diretta, non funzionava. La cosa mi parve sospetta. Per avere notizie, alle 19-19.30 andai verso il centro: Partito e Camera. Di fronte al Partito c’era un movimento che non mi sembrò naturale. Alla Camera mi si disse che il presidente era nel suo appartamento. Salii con Anfuso e trovai Grandi con un cognato. Anche lui era privo di notizie. Mentre parlavamo con Grandi salì Muti che aveva riconosciuto la mia macchina in basso e disse: “Sapete che lo hanno arrestato?”. “Chi?”. “Mussolini. Lo ha fatto arrestare il re a Villa Savoia. Io sono passato da… (non ricordo la strada) mentre un generale dei carabinieri portava via Scorza. Me ne ha informato Freddi, che piangeva”. Rimanemmo sorpresi dalla notizia. Io dissi: “Che guaio! È il crollo di tutto. Adesso ci ammanettano anche noi”. E mi preoccupai della famiglia che era a Livorno. Cercai di telefonare al generale dell’Arma, ma non lo trovai. Lo stesso fu con Ambrosio […]. Anfuso mi propose di andare a pranzo in casa sua, in attesa di vedere come si sarebbero messe le cose».
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Seduta del Gran Consiglio. Arrivai alle 17 precise e Grandi mi disse che le adesioni erano<br />
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Germania. Premesso che io ritenevo indispensabile continuare la guerra fino in fondo, a<br />
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Germania verso di noi, concludendo che il Duce, per motivi che qui non ritengo dover<br />
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Ciano respinge l’accusa di tradimento<br />
«Dopo di me parlò Farinacci e poi numerosi altri. Respinta da Grandi una proposta di<br />
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nuovamente Mussolini per dire che se il re avesse respinta l’offerta di comando (e ciò<br />
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imbarazzante si sarebbe trovato il Duce.<br />
Ripresa la seduta, Grandi parlò nuovamente e, fra gli altri camerati, parlai anch’io per<br />
dire che il re aveva già ricevuto altre offerte dal Gran Consiglio nelle ore più felici del<br />
regime: la corona di Etiopia e quella di Albania. Non le aveva respinte. Non poteva,<br />
come allora si era associato alle fortune del fascismo, respingere adesso la proposta di<br />
condividere la responsabilità del momento. La votazione e l’epilogo della seduta sono<br />
noti. L’appello nominale fu richiesto – salvo errore – da Grandi.<br />
Rientrai a casa mia. Al mattino, con grande sorpresa, seppi dal prof. Ferreri, che veniva<br />
a curarmi l’orecchio, particolari precisi sulla seduta sulla quale avrebbe dovuto<br />
mantenersi il riserbo. Mi disse che Roma ne era piena. Ebbi modo di constatarlo più<br />
tardi all’ambasciata. Da qualcuno mi fu detto che Mussolini aveva ordinato l’arresto dei<br />
diciannove votanti l’ordine del giorno. Non lo credetti.<br />
Alle 17 tornai in ambasciata. Vennero a vedermi parecchie persone, tra gli altri Anfuso,<br />
Muti, Corrias, Casero. Attendevano di conoscere lo sviluppo della situazione. Si diceva<br />
che Mussolini sarebbe andato dal re, nel pomeriggio.<br />
Verso le 18 notai che il mio telefono, linea diretta, non funzionava. La cosa mi parve<br />
sospetta. Per avere notizie, alle 19-19.30 andai verso il centro: Partito e Camera. Di<br />
fronte al Partito c’era un movimento che non mi sembrò naturale. Alla Camera mi si<br />
disse che il presidente era nel suo appartamento. Salii con Anfuso e trovai Grandi con<br />
un cognato. Anche lui era privo di notizie. Mentre parlavamo con Grandi salì Muti che<br />
aveva riconosciuto la mia macchina in basso e disse: “Sapete che lo hanno arrestato?”.<br />
“Chi?”. “Mussolini. Lo ha fatto arrestare il re a Villa Savoia. Io sono passato da… (non<br />
ricordo la strada) mentre un generale dei carabinieri portava via Scorza. Me ne ha<br />
informato Freddi, che piangeva”.<br />
Rimanemmo sorpresi dalla notizia. Io dissi: “Che guaio! È il crollo di tutto. Adesso ci<br />
ammanettano anche noi”. E mi preoccupai della famiglia che era a Livorno. Cercai di<br />
telefonare al generale dell’Arma, ma non lo trovai. Lo stesso fu con Ambrosio […].<br />
Anfuso mi propose di andare a pranzo in casa sua, in attesa di vedere come si<br />
sarebbero messe le cose».