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SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea

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dia la sua arma” mi disse il comandante del posto. Consegnai la rivoltella. Mi pare fosse<br />

il 6 maggio 1945. Da allora non sono più stato libero».<br />

«Non pensa di raccontare le sue esperienze?».<br />

«Di una cosa sono sicuro: non scriverò le mie memorie».<br />

«Che cosa l’ha spinto verso questa decisione?».<br />

«Certe letture, certi memoriali come quelli dell’ambasciatore Rahn, o del dottor<br />

Dollmann. Dollmann è uno che dice sempre quello che l’ascoltatore si aspetta di sentirsi<br />

dire. Bravissimo. “Ma come fai?”, gli chiedevo».<br />

«Allora, in quel tempo, in quegli anni, lei sentiva, lei sapeva di essere odiato?».<br />

«Sì, ma non dalla folla. Come persona non ero noto. Ero un avversario, e più volte<br />

hanno attentato alla mia vita. Io ho smontato un ordigno destinato a farmi saltare, l’ho<br />

disinnescato, perché conosco la tecnica. Una sera, dopo una dura giornata di lavoro,<br />

ero libero; mi cambio, metto i pantaloni lunghi, mi preparo a uscire, avevo combinato,<br />

mi pare, una cena con gli amici. Salgo in macchina, corro lungo il Muro Torto, e quando<br />

giro verso via Veneto, mi accorgo che davanti all’albergo Flora c’è uno sbarramento.<br />

Scendo, chiedo che cosa è accaduto. Mi dicono che sono esplose due bombe, e che ce<br />

n’è ancora una su una finestra. Ci sono degli ufficiali, ma nessuno si muove. In quel<br />

momento mi sono detto: Kappler, vinci quella paura che hai dentro, se no ti vergognerai<br />

di te stesso, fallo per te. Sento un brivido nella schiena, poi sudo, ma mi controllo.<br />

Faccio puntare un riflettore sul davanzale, prendo un binocolo, osservò, vedo che c’è<br />

una miccia, ma è spenta. Vado avanti, prendo quell’arnese sotto il braccio, e salgo<br />

all’appartamento del generale Maeltzer, che era un fifone. “Guardi che cosa ho trovato”.<br />

“Ma Kappler, è matto, che cosa fa? Lo porti via subito”».<br />

«Qual era il suo stato d’animo, allora?».<br />

«La gente, le dicevo, sapeva chi doveva colpire, e io sapevo chi dovevo eliminare.<br />

Kesselring, al momento dello sbarco alleato, era stato chiaro: “Lei”, mi avvertì,<br />

“risponde con la sua testa di ciò che accadrà alle spalle dei combattenti di Anzio e di<br />

Nettuno”. Io non provavo nessun odio per il generale Fenulli o per il colonnello<br />

Montezemolo; io pensavo che gli avversari di una certa importanza bisognava renderli<br />

innocui. Il rancore è scoppiato quando il mio nome è diventato sinonimo delle Fosse<br />

Ardeatine, ma questa identificazione non e giustificata: non lo dice nemmeno la<br />

sentenza. Si legge nei giornali: “Il responsabile delle Ardeatine”, ed è una falsificazione<br />

della realtà, anzi, anche della cosiddetta verità processuale. La strage delle Ardeatine<br />

non l’ho voluta io, non l’ho decisa io. Il generale Fantini e gli altri giudici dovevano<br />

condannarmi e hanno la mia comprensione, ma ogni volta che mi sento attribuire la<br />

colpa di quel fatto, provo un senso di ripugnanza».<br />

«Si sente vittima dell’ingiustizia?».<br />

«No, altrimenti non sarei così sereno come sono, mi creda».<br />

«Lei prega mai?».<br />

«Io prego, e non solo in chiesa, e non sono superstizioso. Molti anzi fa mi sono fatto<br />

battezzare, un ufficiale che era qui è stato il mio padrino, fu una decisione maturata in<br />

cinque anni».<br />

«Fu lei, signor Kappler, che preparò l’arresto di Ciano?».<br />

«Io ho organizzato la fuga di Ciano, con un trucchetto poliziesco. Da Berlino chiedevano<br />

di aiutarlo, di farlo scappare. Senise, il capo della polizia italiana, seppe che era fuggito<br />

quando il conte era già in volo verso la Germania. Creammo artificiosamente un ingorgo<br />

stradale con quattro macchine, un camion era pronto in un cortile di via Margutta. Ciano<br />

scese da casa sul marciapiede, si fece della confusione, lo facemmo salire sull’autocarro<br />

che lo portò subito a Ciampino».

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