SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea

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20.05.2013 Views

Rapporto Hufnagel Cosi, tranne Mussolini, sul territorio della nuova repubblica fascista (due terzi dell’Italia, ventotto milioni di abitanti) non vi è alcuna autorità riconosciuta; i tedeschi, a parole «fedeli camerati e alleati», nella pratica esercitano un assoluto e ferreo controllo su ogni aspetto della vita politica e amministrativa nominando perfino i prefetti (come a Torino) o istituendo, nelle singole province, un funzionario superiore dell’amministrazione militare germanica quale controfigura del prefetto italiano (rapporto Hufnagel, 20 febbraio 1944). Il governo di Mussolini non ha potere anche perché è privo di adesioni concrete e di uomini di rilievo. Gli iscritti al Partito Fascista Repubblicano sono pochissimi (circa 250.000) e non si sa bene da dove provengano, ideologicamente, che cosa cioè li abbia mossi, che cosa si attendano dal futuro. Gli intellettuali di Salò Fra gli aderenti al Partito Fascista Repubblicano c’è un solo nome veramente noto della cultura, il filosofo Giovanni Gentile, e uno altrettanto noto della casta militare, il maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani. Sessantottenne, nativo di Castelvetrano (Trapani), liberale di destra, ministro della Pubblica Istruzione nel primo governo Mussolini e poi senatore del regno, Gentile – il filosofo dell’«atto puro» e l’autore di una fondamentale riforma della scuola – ha dato il suo appoggio alla repubblica di Salò con un pubblico discorso a Roma: «La resurrezione di Mussolini», ha detto, «era necessaria come ogni evento che rientra nella logica della storia». In cambio, il duce lo nominerà presidente dell’Accademia d’Italia. Graziani, invece, cerca nella RSI la sua «revanche» sull’odiato Badoglio dal quale è stato diviso per anni da gelosia personale. Nato a Filettino di Frosinone, sessantunenne, e comandante di truppe coloniali in Libia e in Somalia, ex viceré d’Etiopia ed ex capo di Stato Maggiore dell’esercito, il maresciallo Graziani accetta – per il vero dopo parecchie esitazioni – la carica di ministro delle Forze Armate e afferma in un discorso tenuto al teatro Adriano di Roma, il 1° ottobre 1943, che «solo per la via della fedeltà ai patti già conclusi in piena e cosciente responsabilità di chi li concluse e poi per tragica follia da altri traditi, solo per questa via ci sarà dato di cancellare l’onta e di ridare al popolo italiano il prestigio, la fede e l’onore». Questi due sono i maggiori nomi della RSI. Li seguono, a distanza, il pittore Ardengo Soffici, il futurista Filippo Tommaso Marinetti (ma che morirà di li a poco, a Bellagio, fra l’indifferenza generale), l’accademico d’Italia Giotto Dainelli, più conosciuto come geografo che come uomo politico, una piccola corte di intellettuali (lo storico Edmondo Cione, o scrittore Marco Ramperti, i giornalisti Luigi Barzini senior, Ugo Ojetti, Concetto Pettinato, Ermanno Amicucci) e di politici (l’ex comunista Nicola Bombacci, il «socialista» Carlo Silvestri). I diplomatici sono totalmente assenti. Il governo è formato, soprattutto, da vecchi fascisti. Nell’annuncio del 24 settembre si dice che «in attesa della Costituente che sarà prossimamente convocata per stabilire gli ordinamenti del nuovo stato fascista repubblicano, il duce, ha nominato i seguenti ministri e sottosegretari» riservandosi il Ministero degli esteri: Guido Buffarini Guidi all’interno; Antonio Tringali-Casanova alla Giustizia; Domenico Pellegrini-Giampietro alle Finanze; Rodolfo Graziani alla Difesa nazionale; Silvio Gay all’Economia corporativa; Edoardo Moroni all’Agricoltura; Carlo Alberto Biggini all’Educazione nazionale; Giuseppe Peverelli alle Comunicazioni (ma Peverelli non si presenterà e verrà sostituito con Franco Liverani); Fernando Mezzasoma alla Cultura Popolare. Pochi i sottosegretari: il conte Serafino Mazzolini agli Esteri; la medaglia d’oro Francesco Maria Barracu alla

presidenza del Consiglio dei Ministri; l’ammiraglio di squadra Antonio Legnani alla Marina; il colonnello Carlo Botto all’Aeronautica. Mancando Roma come capitale, alcuni ministeri sono sparsi lungo le sponde del Garda fra Salò (Esteri e Cultura Popolare), Maderno (Interno e direzione del partito), Desenzano (Forze Armate) e Bogliaco (presidenza del Consiglio dei Ministri). Altri sono a Vicenza, Treviso, Padova, San Pellegrino, Brescia, Verona, Cremona, Venezia. Poveri e miseri ministeri, messi su di fretta e in preda al disordine. Mussolini è invece alloggiato a villa Feltrinelli, a due chilometri da Gargnano: questo palazzetto ottocentesco, di media grandezza, con una facciata di marmo rosa e circondato da un piccolo parco in riva al lago, gli serve contemporaneamente da ufficio e da abitazione. I suoi «guardiani» non sono distanti: Rahn è a Fasano, Wolff a Gardone. La villa Feltrinelli è guardata a vista da un distaccamento della Leibstandarte «Adolf Hitler», reparto speciale di SS, che ha montato un cannone antiaereo sul tetto di un edificio vicino. Presta servizio di guardia anche la milizia fascista ma tutte le comunicazioni di Mussolini sono strettamente controllate dai tedeschi – e debitamente registrate su disco – e anche le sue telefonate personali debbono passare attraverso un centralino da campo germanico. E ci sono anche i nuovi fascisti, arrivati alla RSI dall’estremismo inconsulto, giovani imbevuti della propaganda di un ventennio, teppisti di vecchia data reclutati fra il «lumpenproletariat» o nelle galere (a Roma e a Torino vengono arruolati nella Repubblica Sociale i corrigendi di Porta Portese e della «Generala») e che formeranno quanto prima il nerbo delle compagnie di ventura e di tortura (i Bardi, i Pollastrini, i Carità, i Koch, i Colombo, gli Spiotta). Oppure gente che ha vissuto ai margini del fascismo fino all’8 settembre e adesso è carica di rancori e di invidie, personaggi violenti come gli uomini del federale di Como, Porta, che bastonano a sangue i passanti che non alzano il braccio nel saluto romano al loro passaggio. Questi sono i nuovi fascisti che faranno la storia di Salò; sono i militi in maglione nero accollato, berretto alla paracadutista, gladio al posto delle stellette e mitra in mano che a Savona, agli operai in sciopero al grido di «Pane, pane!», ritorcono con una torva minaccia: «Avrete del piombo, non del pane». Giuseppe Mayda Junio Valerio Borghese, comandante della Decima MAS Quando l’8 settembre arriva a La Spezia la notizia dell’armistizio, il principe Junio Valerio Borghese, capitano di vascello, comandante di una unità speciale della Marina, la «Decima Flottiglia MAS», consulta il suo comandante diretto, il principe Ajmone di Savoia. Questi gli dice all’incirca che «essendo ovviamente monarchico» seguirà il destino del re. Quanto agli uomini alle sue dipendenze, egli lascia che scelgano «secondo coscienza». E la coscienza suggerisce al principe Borghese di continuare a stare a fianco dei tedeschi, ma con una sua autonomia, anche nei confronti di un futuro regime fascista. Così cambia, la sera di quel drammatico 8 settembre, una carriera che fino a quel momento è stata militare e per la quale Borghese ha guadagnato a giusto titolo encomi e decorazioni. Nato nel 1906 da una delle più antiche famiglie della nobiltà romana (con un papa tra gli antenati, Paolo V) Junio Valerio Borghese sceglie giovanissimo la carriera in marina. È uscito in tempo dall’Accademia di Livorno per partecipare sul sommergibile Tricheco alla guerra d’Etiopia, nel 1935-36. Poi, sempre su sommergibili, ha preso parte alla guerra di Spagna.

presidenza del Consiglio dei Ministri; l’ammiraglio di squadra Antonio Legnani alla<br />

Marina; il colonnello Carlo Botto all’Aeronautica.<br />

Mancando Roma come capitale, alcuni ministeri sono sparsi lungo le sponde del Garda<br />

fra Salò (Esteri e Cultura Popolare), Maderno (Interno e direzione del partito),<br />

Desenzano (Forze Armate) e Bogliaco (presidenza del Consiglio dei Ministri). Altri sono a<br />

Vicenza, Treviso, Padova, San Pellegrino, Brescia, Verona, Cremona, Venezia. Poveri e<br />

miseri ministeri, messi su di fretta e in preda al disordine.<br />

Mussolini è invece alloggiato a villa Feltrinelli, a due chilometri da Gargnano: questo<br />

palazzetto ottocentesco, di media grandezza, con una facciata di marmo rosa e<br />

circondato da un piccolo parco in riva al lago, gli serve contemporaneamente da ufficio<br />

e da abitazione. I suoi «guardiani» non sono distanti: Rahn è a Fasano, Wolff a<br />

Gardone. La villa Feltrinelli è guardata a vista da un distaccamento della Leibstandarte<br />

«Adolf Hitler», reparto speciale di SS, che ha montato un cannone antiaereo sul tetto di<br />

un edificio vicino. Presta servizio di guardia anche la milizia fascista ma tutte le<br />

comunicazioni di Mussolini sono strettamente controllate dai tedeschi – e debitamente<br />

registrate su disco – e anche le sue telefonate personali debbono passare attraverso un<br />

centralino da campo germanico.<br />

E ci sono anche i nuovi fascisti, arrivati alla RSI dall’estremismo inconsulto, giovani<br />

imbevuti della propaganda di un ventennio, teppisti di vecchia data reclutati fra il<br />

«lumpenproletariat» o nelle galere (a Roma e a Torino vengono arruolati nella<br />

Repubblica Sociale i corrigendi di Porta Portese e della «Generala») e che formeranno<br />

quanto prima il nerbo delle compagnie di ventura e di tortura (i Bardi, i Pollastrini, i<br />

Carità, i Koch, i Colombo, gli Spiotta). Oppure gente che ha vissuto ai margini del<br />

fascismo fino all’8 settembre e adesso è carica di rancori e di invidie, personaggi violenti<br />

come gli uomini del federale di Como, Porta, che bastonano a sangue i passanti che non<br />

alzano il braccio nel saluto romano al loro passaggio.<br />

Questi sono i nuovi fascisti che faranno la storia di Salò; sono i militi in maglione nero<br />

accollato, berretto alla paracadutista, gladio al posto delle stellette e mitra in mano che<br />

a Savona, agli operai in sciopero al grido di «Pane, pane!», ritorcono con una torva<br />

minaccia: «Avrete del piombo, non del pane».<br />

Giuseppe Mayda<br />

Junio Valerio Borghese, comandante della Decima MAS<br />

Quando l’8 settembre arriva a La Spezia la notizia dell’armistizio, il principe Junio Valerio<br />

Borghese, capitano di vascello, comandante di una unità speciale della Marina, la<br />

«Decima Flottiglia MAS», consulta il suo comandante diretto, il principe Ajmone di<br />

Savoia. Questi gli dice all’incirca che «essendo ovviamente monarchico» seguirà il<br />

destino del re. Quanto agli uomini alle sue dipendenze, egli lascia che scelgano<br />

«secondo coscienza». E la coscienza suggerisce al principe Borghese di continuare a<br />

stare a fianco dei tedeschi, ma con una sua autonomia, anche nei confronti di un futuro<br />

regime fascista.<br />

Così cambia, la sera di quel drammatico 8 settembre, una carriera che fino a quel<br />

momento è stata militare e per la quale Borghese ha guadagnato a giusto titolo encomi<br />

e decorazioni. Nato nel 1906 da una delle più antiche famiglie della nobiltà romana (con<br />

un papa tra gli antenati, Paolo V) Junio Valerio Borghese sceglie giovanissimo la carriera<br />

in marina. È uscito in tempo dall’Accademia di Livorno per partecipare sul sommergibile<br />

Tricheco alla guerra d’Etiopia, nel 1935-36. Poi, sempre su sommergibili, ha preso parte<br />

alla guerra di Spagna.

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