SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea
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Mussolini è più un sorvegliato che un protetto. Persino i medici gli vengono scelti da Hitler, che gli manda infatti due aiutanti del suo amatissimo dottor Morell (il vero archiatra della Cancelleria), il capitano dottor Zachariae e il fisioterapista Horn; allo staff sanitario si aggrega, tollerato a malapena dai due tedeschi, un medico italiano, il dottor Baldini, suggerito dal professor Frugoni. La corte del duce Mentre i ministeri della RSI si sparpagliano in mezza Italia settentrionale, a Gargnano brulica una specie di penosa corte rinascimentale formata, oltre che da donna Rachele, dai figli, dai nipoti e dalle loro famiglie, da una pletora di persone che rivendicano vincoli di parentela col duce. Se c’è da credere a Giovanni Dolfin, raggiungono il numero pazzesco di 2400. Saranno forse un po’ meno, ma lo stesso tanti da far arrabbiare i tedeschi, che li allontanano. In un rapporto al suo superiore ammiraglio Burckner, il colonnello Jandl scrive: «Sono un’intera tribù di parenti, alcuni molto alla lontana». Attorno alla figura smagrita e allucinata di Mussolini si riformano le Camarille di un tempo. A Gargnano vi sono due segreterie del duce: una, quella vera, diretta dal prefetto Giovanni Dolfin, l’altra diretta da Vittorio Mussolini. Il nipote Vito, figlio di Arnaldo, è «segretario aggiunto». Il giudizio dei tedeschi è durissimo su tutti tranne che su Rachele, definita da Jandl «donna ammirevole che odia il nepotismo». Però anche lei ha il suo protetto: è Buffarini Guidi, ministro dell’interno. A qualche chilometro di distanza, poi, ha preso alloggio l’amante del duce, Claretta Petacci, L’hanno sistemata a Gardone i tedeschi, malvolentieri, perché (è sempre il colonnello Jandl che scrive) «è causa di molta sfiducia». Accanto a Claretta compare il fratello, Marcello. Esploderanno in seguito penose scenate fra donna Rachele e la giovane amante del marito, davanti agli occhi disgustati dei soldati tedeschi di guardia. La situazione in Italia è talmente caotica che i tedeschi – grandi organizzatori – stentano a mettere ordine persino nelle loro stesse strutture. E ciò accadrà per tutta la durata dell’occupazione. Naturalmente, l’aspetto militare è prevalente; la leggendaria – ma già in declino – figura del maresciallo Rommel resta poco sulla scena. Prima della fine del 1943 il comandante supremo in Italia è il maresciallo Albert Kesselring. Il comandante delle truppe tedesche nell’Alta Italia è il generale Toussaint. Fiduciario di Hitler e di Himmler per i problemi della sicurezza è il generale delle SS Karl Wolff. Plenipotenziario per i problemi politici e i rapporti con Mussolini, l’ambasciatore Rudolph Rahn. Questi tre uomini – Kesselring, Wolff, Rahn – sono i veri padroni dell’Italia e della repubblichetta di Mussolini. Di Kesselring si è già parlato: malgrado la condanna a morte inflittagli dopo la guerra a Venezia (commutata nell’ergastolo, mai scontato), Kesselring non rientra propriamente nella tipologia del criminale di guerra. È un soldato preoccupato solo di far bene il suo mestiere. E lo fa, infatti, benissimo. Ma questo bavarese non ha un briciolo d’umanità: personalmente non impartisce ordini assassini, ma se qualche suo ufficiale compie delle stragi (esempio, Raeder a Marzabotto) né le impedisce né le punisce. Il suo disprezzo per l’Italia e gli italiani è sovrano: egli semplicemente li ignora. Wolff è un perfetto prodotto del nazismo. Tutta la sua carriera si svolge nella lugubre uniforme delle SS. Non ha particolare cultura né un bagaglio di esperienze professionali. Non è nemmeno un bravo poliziotto, come lo sono invece alcuni suoi subordinati quali il generale della SD Harster e il capitano Saewecke. È, soprattutto, un furbo. Uno che capisce dove tira il vento, al punto da riuscire a farsi ricevere dal Papa e, negli ultimi
mesi del conflitto, da organizzare la resa tedesca in Italia riuscendo a non far trapelare nulla, nemmeno all’occhiuto suo nemico di Berlino, Kaltenbrunner. Wolff venderà senza battere ciglio Mussolini e la sua repubblica agli americani. Con umorismo macabro e forse involontario, in uno degli ultimi incontri col duce, quando già le trattative segrete con Dulles per la resa sono a buon punto, parla di «heroischer Untergang», eroico tramonto. Mussolini lo guarda con occhi più sbarrati che mai e non capisce. Il terzo della trojka nazista è Rudolph Rahn, dottore in filosofia, «missus dominicus» del ministro degli Esteri Ribbentrop dovunque ci siano situazioni scabrose. È stato in Siria, poi in Francia, ora è in Italia con la qualifica di plenipotenziario. All’«Auswärtiges Amt», il Ministero degli esteri tedesco, non lo amano. I diplomatici tedeschi – nonostante il regime – sono ancora degli snob. Chiamano Rahn «der Proletnazi», il nazista proletario, per le sue modeste origini. Svevo di nascita, in fondo è il meno peggio che potesse capitare alla sconquassata repubblica mussoliniana. Rahn, al contrario dei suoi colleghi militari e non, non odia l’Italia. È un uomo che ha qualche scrupolo e agisce con una certa finezza. Soprattutto non è uno stupido. Anfuso gli attribuisce la tendenza a voler «pastorizzare» l’Italia, camuffando la mano d’acciaio nel guanto di velluto. Su una cosa il vertice nazista in Italia è perfettamente d’accordo: il paese va spremuto fino all’ultima goccia, per tutto quello che può dare in potenziale umano, soprattutto in materiali e prodotti. Al reclutamento della forza-lavoro ci pensa l’inviato di Fritz Sauckel, il Generalarbeitsführer Kretschmann che rastrella uomini per l’organizzazione Todt. Alla rapina in grande stile ci pensa il generale Hans Leyers, che ha precise disposizioni dal suo capo, Albert Speer, ministro degli Armamenti. È incredibile quanto possa dare un paese che pure sembra stremato da tre anni di guerra. Partono per la Germania non solo le 120 tonnellate di oro della Banca d’Italia, non solo le armi fabbricate negli stabilimenti bresciani, non solo interi impianti industriali smantellati, ma anche prede inconsuete: per esempio, l’intero Istituto Geografico Militare di Firenze, con le sue attrezzature e i suoi 200 dipendenti, vagoni di cravatte e di scope di saggina; e persino 8 tonnellate di pipe, 32 di bottoni, 328 di erbe mediche! La RUK (Rüstung und Kriegsproduktion, armamenti e produzione bellica) ha idee molto elastiche su ciò che s’intende per materiale bellico. Il podestà di Gargnan o Intanto la RSI tenta di darsi una fisionomia, una funzione, una ragion d’essere. Sforzo disperato; non c’è italiano, fascisti compresi, che non veda la realtà: chi comanda sono i tedeschi e solo loro. Il risorto fascismo serve – e male – per i bassi compiti. Un giorno persino Mussolini, in uno dei frequenti momenti di sconforto, si lascia sfuggire questa frase: «Sono stufo di fare il podestà di Gargnano». Il più penoso di questi conati della repubblica mussoliniana è il congresso di Verona. Del quale però non si può parlare senza prima avere parlato dei due personaggi più eminenti dei seicento giorni di Salò: Farinacci e Pavolini. Entrambi hanno preceduto il duce in Germania; dopo la caduta del regime, i tedeschi li hanno sottratti a Badoglio portandoli in Germania con un trimotore Heinkel che per molti giorni ha fatto la spola tra Roma e Monaco di Baviera. Non è che i tedeschi siano felici di importare quel genere di personaggi, però pensano che potranno venire buoni, non si sa mai.
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Mussolini è più un sorvegliato che un protetto. Persino i medici gli vengono scelti da<br />
Hitler, che gli manda infatti due aiutanti del suo amatissimo dottor Morell (il vero<br />
archiatra della Cancelleria), il capitano dottor Zachariae e il fisioterapista Horn; allo staff<br />
sanitario si aggrega, tollerato a malapena dai due tedeschi, un medico italiano, il dottor<br />
Baldini, suggerito dal professor Frugoni.<br />
La corte del duce<br />
Mentre i ministeri della RSI si sparpagliano in mezza Italia settentrionale, a Gargnano<br />
brulica una specie di penosa corte rinascimentale formata, oltre che da donna Rachele,<br />
dai figli, dai nipoti e dalle loro famiglie, da una pletora di persone che rivendicano<br />
vincoli di parentela col duce. Se c’è da credere a Giovanni Dolfin, raggiungono il numero<br />
pazzesco di 2400. Saranno forse un po’ meno, ma lo stesso tanti da far arrabbiare i<br />
tedeschi, che li allontanano. In un rapporto al suo superiore ammiraglio Burckner, il<br />
colonnello Jandl scrive: «Sono un’intera tribù di parenti, alcuni molto alla lontana».<br />
Attorno alla figura smagrita e allucinata di Mussolini si riformano le Camarille di un<br />
tempo. A Gargnano vi sono due segreterie del duce: una, quella vera, diretta dal<br />
prefetto Giovanni Dolfin, l’altra diretta da Vittorio Mussolini. Il nipote Vito, figlio di<br />
Arnaldo, è «segretario aggiunto». Il giudizio dei tedeschi è durissimo su tutti tranne che<br />
su Rachele, definita da Jandl «donna ammirevole che odia il nepotismo». Però anche lei<br />
ha il suo protetto: è Buffarini Guidi, ministro dell’interno. A qualche chilometro di<br />
distanza, poi, ha preso alloggio l’amante del duce, Claretta Petacci, L’hanno sistemata a<br />
Gardone i tedeschi, malvolentieri, perché (è sempre il colonnello Jandl che scrive) «è<br />
causa di molta sfiducia». Accanto a Claretta compare il fratello, Marcello. Esploderanno<br />
in seguito penose scenate fra donna Rachele e la giovane amante del marito, davanti<br />
agli occhi disgustati dei soldati tedeschi di guardia.<br />
La situazione in Italia è talmente caotica che i tedeschi – grandi organizzatori – stentano<br />
a mettere ordine persino nelle loro stesse strutture. E ciò accadrà per tutta la durata<br />
dell’occupazione. Naturalmente, l’aspetto militare è prevalente; la leggendaria – ma già<br />
in declino – figura del maresciallo Rommel resta poco sulla scena. Prima della fine del<br />
1943 il comandante supremo in Italia è il maresciallo Albert Kesselring. Il comandante<br />
delle truppe tedesche nell’Alta Italia è il generale Toussaint. Fiduciario di Hitler e di<br />
Himmler per i problemi della sicurezza è il generale delle SS Karl Wolff. Plenipotenziario<br />
per i problemi politici e i rapporti con Mussolini, l’ambasciatore Rudolph Rahn. Questi tre<br />
uomini – Kesselring, Wolff, Rahn – sono i veri padroni dell’Italia e della repubblichetta di<br />
Mussolini. Di Kesselring si è già parlato: malgrado la condanna a morte inflittagli dopo la<br />
guerra a Venezia (commutata nell’ergastolo, mai scontato), Kesselring non rientra<br />
propriamente nella tipologia del criminale di guerra. È un soldato preoccupato solo di far<br />
bene il suo mestiere. E lo fa, infatti, benissimo. Ma questo bavarese non ha un briciolo<br />
d’umanità: personalmente non impartisce ordini assassini, ma se qualche suo ufficiale<br />
compie delle stragi (esempio, Raeder a Marzabotto) né le impedisce né le punisce. Il<br />
suo disprezzo per l’Italia e gli italiani è sovrano: egli semplicemente li ignora.<br />
Wolff è un perfetto prodotto del nazismo. Tutta la sua carriera si svolge nella lugubre<br />
uniforme delle SS. Non ha particolare cultura né un bagaglio di esperienze professionali.<br />
Non è nemmeno un bravo poliziotto, come lo sono invece alcuni suoi subordinati quali il<br />
generale della SD Harster e il capitano Saewecke. È, soprattutto, un furbo. Uno che<br />
capisce dove tira il vento, al punto da riuscire a farsi ricevere dal Papa e, negli ultimi