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SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea

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armi, munizioni. In tutte le cronache del periodo ribellistico si ritrovano le faticose<br />

corvées, i trasporti rischiosi: carri riempiti di segatura, coperti di fascine, di fieno; e<br />

dentro armi, munizioni. Prendere armi, sotterrare armi. Dappertutto: nei boschi, nelle<br />

baite, nelle tombe dei piccoli cimiteri, e di notte, che i montanari non vedano. Prendere<br />

farina, lardo; prendere benzina, sale. Scambiare sale con olio oppure olio con munizioni.<br />

Capire che per portare al fuoco una squadra ribelle occorrono dieci, venti ribelli che da<br />

parte loro facciano la guardia, taglino la legna, portino i pesi. E non è facile, bisogna<br />

imparare tutto: come si barda e come si carica uno dei «muli di Badoglio», i muli<br />

abbandonati dal Regio Esercito; come si cuoce il pane, come si fabbrica un letto con<br />

tronchi di pino e sacchi di paglia o di foglie, come si cura la scabbia, come si sopportano<br />

i pidocchi. Bisogna imparare a sparare e a tenere le armi in sicurezza: ogni tanto a<br />

qualcuno parte un colpo, tutti pallidi se è andata bene. Bisogna anche imparare il<br />

linguaggio della povera gente, capire la sua psicologia contorta: i montanari taciturni, le<br />

bestie da soma; i montanari mitomani, i folli: ce n’è con occhi lucidi in casolari isolati,<br />

che fanno discorsi allucinati; e gli altri che continuano a tagliare fieno e segala, a<br />

portare legna, eppure a loro modo hanno scelto, sono già per il ribellismo, esercito<br />

stracciato.<br />

Portare armi, nascondere munizioni, preparare magazzini, andare alle veglie, nelle<br />

stalle. Qualcuno si annoia. Gli ex prigionieri di altre nazioni che si sono uniti alle bande<br />

spesso non capiscono: scendono con i ribelli in pianura, di notte, credendo di andare a<br />

sparare sui tedeschi. sui fascisti, poi arrivano ad un ammasso, in un salumificio: «No<br />

John, non sparare, questo è un amico». Loro guardano delusi: «Ah, è questa la guerra<br />

partigiana degli italiani?». Ci vorranno i primi combattimenti per mettere tutto in chiaro.<br />

[…]<br />

C’è chi è contrario alla montagna: dice che in montagna si perde tempo, che è meglio<br />

organizzarsi in pianura, dove sta il nemico. Si discute, anche con rabbia, ma sono i fatti<br />

a decidere: vince la montagna. I gruppi di pianura non resistono, arrivano di rado al<br />

combattimento; nell’estate del 1944 si capirà che hanno una loro funzione, importante,<br />

però è la montagna la culla del partigianato, per molte ragioni. Intanto la montagna<br />

significa resistenza a viso aperto, clamorosa, dichiarata: come piace ad un ribellismo<br />

che teme di non avere tempo, che vuole testimoniare fuori da ogni equivoco. Anche<br />

l’antifascismo militante, cervello politico della ribellione, sta per il raggruppamento in<br />

montagna, avendo capito che la banda, le veglie attorno ai fuochi, le ore di guardia, la<br />

convivenza, facilitano l’informazione e la discussione. E poi la montagna è chiarificazione<br />

politica: fuori dall’intrico degli interessi cittadini, lontano dalle pressioni della famiglia,<br />

dell’ambiente, i motivi politici del ribellismo appaiono più chiari. Lo dice bene Livia<br />

Bianco: «I motivi politici, le ragioni storiche, non hanno bisogno di essere insegnati. Essi<br />

sono nell’aria, sono, confusamente, nella realtà stessa che circonda il partigiano;<br />

bisogna solo farli “precipitare”, fissarli in una formula chiara». C’è anche una ragione<br />

militare: in montagna il comandante ha gli uomini sotto gli occhi, di continuo, può<br />

conoscerli più intimamente, scegliere a ragion veduta, addestrarli. La montagna è<br />

relativamente sicura, casa e madre del ribelle. Si dura di più in montagna, i nervi si<br />

logorano di meno: la pianura, almeno agli inizi, è troppo rischiosa. C’è anche una<br />

semplificazione egoistica: la montagna come un taglio netto dal paese reale, dalla<br />

vischiosità dei suoi mille problemi irrisolti, dagli attendisti, dai fascisti, dai pavidi, dalle<br />

moltitudini che i bisogni quotidiani piegano alla prudenza quotidiana. Sì, c’è anche una<br />

sorta di egoismo eroico nel ribellismo del 1943: la minoranza che va avanti da sola,<br />

senza preoccuparsi del resto del Paese con cui troverà la ricucitura solo nel novembredicembre,<br />

grazie al movimento operaio e agli scioperi.

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