SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea

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20.05.2013 Views

Le azioni della Resistenza all’Aquila Il Sud non è da meno del Nord nella stupire tedeschi e Alleati. Se i primi cullavano l’immagine lieta di un popolo indolente e remissivo, devono ricredersi a loro spese. Se i secondi si basavano sui rapporti dei loro generali circa il comportamento di certe divisioni nei combattimenti in Libia, sono costretti a rivedere il giudizio. Il primo esempio viene dall’Aquila, capoluogo degli Abruzzi. È zona di reclutamento alpino, di gente dura. L’Aquila ha data il nome ad un battaglione del 9° Reggimento alpini, di quella Divisione Julia che si è fatta massacrare senza cedere in Albania e in Russia. Ora lo stesso nome viene dato alle prime due bande partigiane della zona, una sulle pendici del Gran Sasso, l’altra sulle alture che dominano la strada per Roma. Un po’ di armi i ribelli le ottengono dalla caserma degli allievi ufficiali, altre gliele procura un carabiniere. All’inizio sono in trentasei; poi si aggiungono una quindicina di ex prigionieri inglesi. Verso il 20 settembre le due bande decidono di installarsi nella zona di Colle Brincioni. Il 23 settembre il comando tedesco, preoccupato di avere un focolaio di resistenza proprio alle spalle del dispositivo di difesa che poi prenderà il nome di «Linea Gustav», ordina di eliminare i ribelli. L’incarico è affidato ad un reparto di paracadutisti già addestrato alla lotta antipartigiana. Il combattimento dura alcune ore, un inglese rimane ucciso, tre o quattro italiani feriti. I superstiti si sganciano, purtroppo nove non ce la fanno e vengono catturati. Sono tutti ragazzi sotto i vent’anni. I tedeschi li costringono a scavarsi la fossa e poi li fucilano. Siamo sempre in Abruzzo. A 30 chilometri da Teramo si forma una delle più grosse bande partigiane di quei primi momenti della Resistenza, 1200 uomini; sono quasi tutti giovani del luogo, più 300 soldati sbandati e un centinaia di ex prigionieri di guerra. Bravi comandanti ce ne sono: il tenente colonnello Guido Taraschi, il maggiore Luigi Bologna, il capitano dei carabinieri Ettore Bianco, il capitano Gelasio Adamoli (diventerà, dopo la guerra, senatore e sindaco comunista di Genova), il capitano Carlo Canger. Fra i civili, Armando Ammazzalorso e i fratelli Rodomonte. Da Teramo parte una richiesta del console della Milizia Aristide Castiglione: «Bosco Martese è pieno di partigiani! Dovete intervenire». I tedeschi non se lo fanno dire due volte. La mattina del 25 settembre 1943 un battaglione di truppe d’assalto motorizzate cattura il maggiore Bologna e due ragazzi, Giovanni Cordone e Berardo Bacchetta, li caricano sulla camionetta di testa e li usano come ostaggi. Lungo la strada per Bosco Martese i tedeschi attaccano il mulino De Jacobis, dove c’è un avamposto partigiano di nove uomini; due vengono uccisi in combattimento, sette fatti prigionieri. La colonna prosegue ma quando arriva al bosco viene presa d’infilata dal tiro incrociato delle mitragliatrici partigiane, molto ben piazzate, con criteri dettati dall’esperienza militare dei comandanti. I due ragazzi-ostaggio rimangano feriti, il maggiore Bologna riesce miracolosamente a fuggire. La colonna tedesca riporta perdite pesanti: 57 morti e, quello che è più grave, il comandante maggiore Hartmann, che si è spinto imprudentemente troppo avanti, viene fatto prigioniero. Il comando nazista è furibondo, ritira il battaglione d’assalto e lo sostituisce con un battaglione di Alpenjäger. Frattanto i tedeschi fucilano i sette giovani partigiani catturati al mulino De Jacobis. La notizia, per i misteriosi canali della solidarietà popolare, arriva al comando partigiano di Bosco Martese; la rappresaglia è immediata, il maggiore Hartmann viene passato per le armi. I nazisti hanno trovato pane per i loro denti. A questo punto le cose vanno tanto bene per i partigiani che Ammazzalorso è intenzionato a non muoversi da Bosco Martese e ad aspettare un nuovo attacco, sicuro

di dare una seconda lezione al nemico. Sta per compiere un grave errore, quello commesso da altri coraggiosi ma sprovveduti comandanti partigiani, in altre località d’Italia: affrontare in campo aperto un avversario che dispone di mezzi infinitamente superiori. La guerriglia esige anche la capacità di rinunciare a strafare: è quello che un ex prigioniero croato, il maggiore Matiassevic, cerca di spiegare ad Ammazzalorso. Finalmente il cap partigiano si convince e la banda si disperde, divisa in piccoli e agili reparti nelle montagne impervie del gruppo del Gran Sasso. La battaglia di Bosco Martese è durata sola 48 ore ma rappresenta il primo caso esemplare di regole tattiche partigiane applicate bene. Gli scontri sul Colle San Marco Subito dopo l’armistizio, in questa zona a cavallo del confine tra Marche e Abruzzo si sono affollate molte centinaia di sbandati. Con il passare del tempo, sono rimasti solo quelli decisi a combattere, non più di 300 uomini, abbastanza bene armati. Il nucleo è grosso e potrebbe dare filo da torcere ai tedeschi; purtroppo viene adottata la tattica dell’immobilismo, come è avvenuto, per esempio, nella fortezza di San Martino, al Nord. Sul Colle San Marco nasce un campo fortificato, con trincee, apprestamenti campali, postazioni di armi automatiche. Tutto proprio come si legge nei manuali. Ma che senso ha questa ridotta isolata come un fortino nel deserto? È solo il valore dei combattenti che trasformerà un errore in una dura lezione per i tedeschi, pagata peraltro dai partigiani con gravi perdite. Il 2 ottobre, di buon mattino, i nazisti sferrano l’attacco. Va detto che anche i loro comandanti non sono dei geni: a Colle San Marco riportano una vittoria di Pirro perché sul terreno restano i cadaveri di 85 tedeschi, fra i quali ben 7 ufficiali. Ad un centinaio di uomini ammontano le perdite partigiane: solo 25 i caduti e 4 i feriti, ma purtroppo ci sono 60 prigionieri sui quali incombe la minaccia della fucilazione (che sarà poi attuata). L’episodio è coronato da un particolare disgustoso: i fascisti di Ascoli Piceno offrono agli ufficiali tedeschi una cena in una trattoria di Folignano per celebrare il successo. Il comandante partigiano di Colle San Marco è un ufficiale di complemento degli alpini, Spartaco Perini, figlio di un comunista. È stato un animatore formidabile in quelle prime 24 ore di battaglia. Commette però l’errore di non approfittare della notte e del fatto che il nemico sta leccandosi le ferite, per sottrarsi al secondo inevitabile scontro. Che avviene, puntualmente, l’indomani. Questa volta i tedeschi hanno messo in campo mortai e pezzi d’artiglieria. Nel dramma di Colle San Marco s’inserisce un altro dramma, individuale. Ha raggiunto i partigiani il figlio sedicenne di un console della Milizia fascista. Perini non sa se è una spia o un vero volontario; decide di metterlo alla prova, in fondo è un ragazzo e non è colpa sua se il padre è fascista. Senonché al ragazzo viene un febbrone da cavallo e Spartaco Perini non se la sente di gettarlo nella mischia: lo fa accompagnare in una baita isolata, dove c’è una branda sulla quale il ragazzo si butta. Di lì a qualche ora passa una pattuglia tedesca, trova il ragazzo febbricitante a letto. Su una sedia c’è la sua camicia, una camicia militare di quelle che in quei giorni centinaia di migliaia di italiani indossano, anche se non sono militari né partigiani. Ma tanto basta: una scarica di mitra fulmina il ragazzo. È il 3 ottobre 1943. La fanteria tedesca, fortemente appoggiata dal fuoco dell’artiglieria, avanza. Si arriva al corpo a corpo fra gli attaccanti e i difensori. Serafino Celleni, di 20 anni, servente di mitragliatrice, esaurite le munizioni dell’arma si avventa contro i

di dare una seconda lezione al nemico. Sta per compiere un grave errore, quello<br />

commesso da altri coraggiosi ma sprovveduti comandanti partigiani, in altre località<br />

d’Italia: affrontare in campo aperto un avversario che dispone di mezzi infinitamente<br />

superiori. La guerriglia esige anche la capacità di rinunciare a strafare: è quello che un<br />

ex prigioniero croato, il maggiore Matiassevic, cerca di spiegare ad Ammazzalorso.<br />

Finalmente il cap partigiano si convince e la banda si disperde, divisa in piccoli e agili<br />

reparti nelle montagne impervie del gruppo del Gran Sasso. La battaglia di Bosco<br />

Martese è durata sola 48 ore ma rappresenta il primo caso esemplare di regole tattiche<br />

partigiane applicate bene.<br />

Gli scontri sul Colle San Marco<br />

Subito dopo l’armistizio, in questa zona a cavallo del confine tra Marche e Abruzzo si<br />

sono affollate molte centinaia di sbandati. Con il passare del tempo, sono rimasti solo<br />

quelli decisi a combattere, non più di 300 uomini, abbastanza bene armati. Il nucleo è<br />

grosso e potrebbe dare filo da torcere ai tedeschi; purtroppo viene adottata la tattica<br />

dell’immobilismo, come è avvenuto, per esempio, nella fortezza di San Martino, al Nord.<br />

Sul Colle San Marco nasce un campo fortificato, con trincee, apprestamenti campali,<br />

postazioni di armi automatiche. Tutto proprio come si legge nei manuali. Ma che senso<br />

ha questa ridotta isolata come un fortino nel deserto? È solo il valore dei combattenti<br />

che trasformerà un errore in una dura lezione per i tedeschi, pagata peraltro dai<br />

partigiani con gravi perdite.<br />

Il 2 ottobre, di buon mattino, i nazisti sferrano l’attacco. Va detto che anche i loro<br />

comandanti non sono dei geni: a Colle San Marco riportano una vittoria di Pirro perché<br />

sul terreno restano i cadaveri di 85 tedeschi, fra i quali ben 7 ufficiali. Ad un centinaio di<br />

uomini ammontano le perdite partigiane: solo 25 i caduti e 4 i feriti, ma purtroppo ci<br />

sono 60 prigionieri sui quali incombe la minaccia della fucilazione (che sarà poi attuata).<br />

L’episodio è coronato da un particolare disgustoso: i fascisti di Ascoli Piceno offrono agli<br />

ufficiali tedeschi una cena in una trattoria di Folignano per celebrare il successo.<br />

Il comandante partigiano di Colle San Marco è un ufficiale di complemento degli alpini,<br />

Spartaco Perini, figlio di un comunista. È stato un animatore formidabile in quelle prime<br />

24 ore di battaglia. Commette però l’errore di non approfittare della notte e del fatto<br />

che il nemico sta leccandosi le ferite, per sottrarsi al secondo inevitabile scontro. Che<br />

avviene, puntualmente, l’indomani. Questa volta i tedeschi hanno messo in campo<br />

mortai e pezzi d’artiglieria.<br />

Nel dramma di Colle San Marco s’inserisce un altro dramma, individuale. Ha raggiunto i<br />

partigiani il figlio sedicenne di un console della Milizia fascista. Perini non sa se è una<br />

spia o un vero volontario; decide di metterlo alla prova, in fondo è un ragazzo e non è<br />

colpa sua se il padre è fascista. Senonché al ragazzo viene un febbrone da cavallo e<br />

Spartaco Perini non se la sente di gettarlo nella mischia: lo fa accompagnare in una<br />

baita isolata, dove c’è una branda sulla quale il ragazzo si butta. Di lì a qualche ora<br />

passa una pattuglia tedesca, trova il ragazzo febbricitante a letto. Su una sedia c’è la<br />

sua camicia, una camicia militare di quelle che in quei giorni centinaia di migliaia di<br />

italiani indossano, anche se non sono militari né partigiani. Ma tanto basta: una scarica<br />

di mitra fulmina il ragazzo.<br />

È il 3 ottobre 1943. La fanteria tedesca, fortemente appoggiata dal fuoco dell’artiglieria,<br />

avanza. Si arriva al corpo a corpo fra gli attaccanti e i difensori. Serafino Celleni, di 20<br />

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