SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea

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20.05.2013 Views

sloveni aveva fatto sì che la popolazione acquistasse dimestichezza con essi e fiducia nella loro azione. Già diversi elementi italiani erano entrati nelle loro file. La semplice esistenza di esse significava per i nuovi volontari sapere dove dirigersi ed essere sicuri di orientarsi verso una forza vitale e organizzata. Così dalle città e dalle campagne di Monfalcone, Ronchi, Gorizia, Cormons, migliaia di giovani raggiunsero i reparti sloveni, dove i responsabili, generalmente, si affrettarono ad inquadrarli e armarli alla meglio. Già il 12 settembre esisteva una «Brigata proletaria», forte di circa 900 uomini. All’alba del 13 questa brigata si porta a Gorizia, occupa la stazione e altri centri vitali e blocca le vie di accesso. Un reggimento di alpini che presidia la città non dà che scarso aiuto all’azione partigiana. Ma il pomeriggio i tedeschi attaccano con carri armati e artiglieria. Il combattimento dura per tre ore e mezzo: poi i nostri sono sopraffatti. Verso sera, i tedeschi passano a finire i feriti che sono sul terreno. Combattimenti simili avvenivano a Merna e altrove: complessivamente in circa 15 altre località. L’inseguimento tedesco e il fuoco delle artiglierie verso le montagne proseguono per tre giorni. E il 22 settembre il comunicato tedesco di guerra contiene un passaggio nuovo e inatteso per la maggior parte degli italiani: «Nella zona orientale del Veneto, nell’Italia e nella Slovenia, ribelli sloveni, insieme con gruppi comunisti italiani e bande irregolari delle legioni croate, hanno tentato di impadronirsi del potere sfruttando il tradimento di Badoglio. Truppe germaniche, appoggiate da unità fasciste e da volontari, hanno occupato le principali località ed i centri di comunicazione ed attaccano i ribelli datisi al furto e al saccheggio». Nonostante la calunnia finale, questo comunicato contiene l’annuncio, dato dal nemico stesso, che anche gli italiani hanno iniziato la guerra partigiana, la guerra di liberazione nazionale. I «banditi» di Cuneo La cittadina piemontese assiste allo sfascio dell’Esercito e alla nascita delle prime bande partigiane Dante Livio Bianco, avvocato, nato nel 1909 e scomparso nel 1953 in una sciagura alpinistica, costituì la prima pattuglia della Resistenza piemontese e nel 1945 successe a Tancredi «Duccio» Galimberti, eroe nazionale, nel comando delle formazioni di «Giustizia e Libertà». Qui , in Guerra partigiana (Einaudi, Torino 1954), Dante Livio Bianco rievoca i giorni cruciali del settembre 1943 quando lui ed altri esponenti cuneesi decisero di salire in montagna. Il 9 settembre 1943, Cuneo presentava un aspetto di estrema animazione. Vi concorreva non solo l’atteggiamento della popolazione che, data l’eccezionalità dell’avvenimento, era tutta fuori, per le strade, avida di notizie e come presa da oscuri presagi, ma anche, e soprattutto, l’intenso e continuo movimento di autocolonne della 4ª Armata, che arrivavano dalla Francia e riempivano di truppe la città. Già fin dalla mattina, per quanto ancora nulla di preciso si sapesse sulle intenzioni e sulle iniziative dei tedeschi, la nota psicologica dominante era stata quella del disorientamento e della preoccupazione: e questa sensazione andava sempre più confermandosi. C’era per aria un senso di disagio, di incertezza e di timore. La situazione appariva confusa, e man mano che l’afflusso dei militari procedeva, il disordine aumentava. Era abbastanza chiaro, oramai, che non si trattava d’un ordinato ripiegamento, di movimenti predisposti e controllati e diretti, in vista di un qualche organizzato allineamento difensivo. In realtà, i

comandi non avevano alcuna idea sul da farsi, e non facevano niente di concreto: si lasciavano andare, e s’abbandonavano anch’essi alla corrente, con una passività ed una rassegnazione impressionanti. Venuto il momento della prova suprema, giunta l’ora delle grandi decisioni, in cui, con o senza ordini superiori, bisogna essere pronti a battersi e, semmai, a morire, tutto l’imponente e perfetto apparato militare si inceppava. Nessuno sapeva cosa doveva fare, nessuno dava ordini e provvedeva perché potessero venire eseguiti, nessuno si dimostrava capace di prendere in mano la situazione: ogni cosa andava alla deriva. Non una iniziativa, non uno scatto di energia, non un atto di coraggio: tutta la risolutezza e la fermezza che anche a Cuneo, nel periodo badogliesco, le autorità militari avevano profusa nel servizio di ordine pubblico, applicando rigidamente la bestiale circolare Roatta, sino a sparare su inermi civili (bambini compresi), adesso era scomparsa. Restava ancora una maschera di albagia e di sufficienza militaresca, di tenuta esteriore: ma dietro già si poteva scorgere, realtà paurosa, il vuoto e l’inconsistenza morale. Ciononostante, ci si illudeva ancora, da parte degli antifascisti, che si potesse organizzare una resistenza. Le valli e la frontiera erano sempre presidiate dalla GAF (Guardia alla Frontiera), in città vi era un battaglione del 2° Alpini, correva voce che reparti della Divisione alpina Pusteria, in ripiegamento dal Nizzardo, agli ordini del generale De Castiglioni, si erano attestati dalle parti di Tenda, decisi a resistere ad oltranza. Perciò, non si pensava tanto ad organizzare un movimento partigiano, quanto piuttosto a galvanizzare e tenere in piedi i reparti dell’esercito, e con questi combattere. Dove più febbrilmente ed appassionatamente, seppure non senza ingenuità, si formulavano piani e programmi per una immediata azione concreta, e si cercava di concludere qualche iniziativa pratica, era nello studio di Duccio Galimberti. In quello stesso studio dal cui balcone, il 26 luglio, Galimberti, in un memorabile discorso, aveva proclamato la necessità della guerra immediata alla Germania nazista (per il che non gli erano mancate le noie da parte della zelante polizia badogliesca), ora la lotta armata, la guerra si presentava come una realtà imminente, come un dovere da compiere: e così la sentivano tutti i militanti del Partito d’Azione che là continuavano a darsi convegno, insieme con un gruppo di ufficiali del 2° Alpini, in prevalenza pure essi aderenti al Partito d’Azione, coi quali già da tempo Galimberti aveva stabilito dei contatti e preso degli accordi. Nel pomeriggio del 9 settembre, Galimberti, con un compagno, si presentava al generale comandante la zona di Cuneo, e gli chiedeva formalmente, a nome suo e di tutti i compagni di partito, l’arruolamento volontario negli alpini. La sera stessa, spiegava, i volontari avrebbero potuto entrare in caserma e «vestirsi», e l’indomani mattina raggiungere i reparti della Pusteria sul Col di Tenda. Ma la proposta venne subito respinta, e potremmo anche dire che non fu nemmeno presa sul serio dal generale, in quel momento occupatissimo ad interrogare in tedesco – tutto compiaciuto per questa pubblica dimostrazione di abilità – due carristi germanici, che erano stati fermati mentre transitavano con un carro armato, diretti ad Albenga, e coi quali il generale, preoccupato, non sapeva che pesci pigliare. Un’altra proposta (non più presentata, naturalmente, al comandante la zona) fu quella avanzata, in una discussione fra giovani ufficiali, da un tenente del 2° Alpini, che doveva poi diventare, specialmente nell’autunno e nell’inverno, una delle figure più popolari del partigianato cuneese. Secondo questo tenente, non bisognava fidarsi dei comandanti superiori: se si voleva concludere qualcosa di buono, era necessario prima toglierli di mezzo. Egli pertanto proponeva di uccidere senz’altro il colonnello comandante il reggimento, ed eventualmente quegli altri ufficiali superiori che avessero voluto far causa

comandi non avevano alcuna idea sul da farsi, e non facevano niente di concreto: si<br />

lasciavano andare, e s’abbandonavano anch’essi alla corrente, con una passività ed una<br />

rassegnazione impressionanti.<br />

Venuto il momento della prova suprema, giunta l’ora delle grandi decisioni, in cui, con o<br />

senza ordini superiori, bisogna essere pronti a battersi e, semmai, a morire, tutto<br />

l’imponente e perfetto apparato militare si inceppava. Nessuno sapeva cosa doveva fare,<br />

nessuno dava ordini e provvedeva perché potessero venire eseguiti, nessuno si dimostrava<br />

capace di prendere in mano la situazione: ogni cosa andava alla deriva. Non una iniziativa,<br />

non uno scatto di energia, non un atto di coraggio: tutta la risolutezza e la fermezza che<br />

anche a Cuneo, nel periodo badogliesco, le autorità militari avevano profusa nel servizio di<br />

ordine pubblico, applicando rigidamente la bestiale circolare Roatta, sino a sparare su<br />

inermi civili (bambini compresi), adesso era scomparsa. Restava ancora una maschera di<br />

albagia e di sufficienza militaresca, di tenuta esteriore: ma dietro già si poteva scorgere,<br />

realtà paurosa, il vuoto e l’inconsistenza morale.<br />

Ciononostante, ci si illudeva ancora, da parte degli antifascisti, che si potesse organizzare<br />

una resistenza. Le valli e la frontiera erano sempre presidiate dalla GAF (Guardia alla<br />

Frontiera), in città vi era un battaglione del 2° Alpini, correva voce che reparti della<br />

Divisione alpina Pusteria, in ripiegamento dal Nizzardo, agli ordini del generale De<br />

Castiglioni, si erano attestati dalle parti di Tenda, decisi a resistere ad oltranza. Perciò, non<br />

si pensava tanto ad organizzare un movimento partigiano, quanto piuttosto a galvanizzare<br />

e tenere in piedi i reparti dell’esercito, e con questi combattere.<br />

Dove più febbrilmente ed appassionatamente, seppure non senza ingenuità, si<br />

formulavano piani e programmi per una immediata azione concreta, e si cercava di<br />

concludere qualche iniziativa pratica, era nello studio di Duccio Galimberti. In quello stesso<br />

studio dal cui balcone, il 26 luglio, Galimberti, in un memorabile discorso, aveva<br />

proclamato la necessità della guerra immediata alla Germania nazista (per il che non gli<br />

erano mancate le noie da parte della zelante polizia badogliesca), ora la lotta armata, la<br />

guerra si presentava come una realtà imminente, come un dovere da compiere: e così la<br />

sentivano tutti i militanti del Partito d’Azione che là continuavano a darsi convegno,<br />

insieme con un gruppo di ufficiali del 2° Alpini, in prevalenza pure essi aderenti al Partito<br />

d’Azione, coi quali già da tempo Galimberti aveva stabilito dei contatti e preso degli<br />

accordi.<br />

Nel pomeriggio del 9 settembre, Galimberti, con un compagno, si presentava al generale<br />

comandante la zona di Cuneo, e gli chiedeva formalmente, a nome suo e di tutti i<br />

compagni di partito, l’arruolamento volontario negli alpini. La sera stessa, spiegava, i<br />

volontari avrebbero potuto entrare in caserma e «vestirsi», e l’indomani mattina<br />

raggiungere i reparti della Pusteria sul Col di Tenda. Ma la proposta venne subito respinta,<br />

e potremmo anche dire che non fu nemmeno presa sul serio dal generale, in quel<br />

momento occupatissimo ad interrogare in tedesco – tutto compiaciuto per questa pubblica<br />

dimostrazione di abilità – due carristi germanici, che erano stati fermati mentre<br />

transitavano con un carro armato, diretti ad Albenga, e coi quali il generale, preoccupato,<br />

non sapeva che pesci pigliare.<br />

Un’altra proposta (non più presentata, naturalmente, al comandante la zona) fu quella<br />

avanzata, in una discussione fra giovani ufficiali, da un tenente del 2° Alpini, che doveva<br />

poi diventare, specialmente nell’autunno e nell’inverno, una delle figure più popolari del<br />

partigianato cuneese. Secondo questo tenente, non bisognava fidarsi dei comandanti<br />

superiori: se si voleva concludere qualcosa di buono, era necessario prima toglierli di<br />

mezzo. Egli pertanto proponeva di uccidere senz’altro il colonnello comandante il<br />

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