SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea
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I Castelli romani, le vicine montagne dell’Abruzzo, i boschi e le vallate che portano verso l’Umbria e la Toscana sono stati i primi luoghi di rifugio dei fuggiaschi di Roma. I partiti del CLN, le organizzazioni clandestine raccolgono e avviano le persone compromesse, forniscono documenti d’identità, indirizzi, parole d’ordine. Si parte con grandi speranze, le prime delusioni raffreddano gli entusiasmi ingiustificati, molti ritornano in città. La vita alla macchia è dura. Si cerca rifugio in capanne, grotte, tra i filari delle viti, si dorme su poca paglia, quando ce n’è; si cucina in latte di petrolio vuote; si attinge l’acqua in pozzi fangosi. Ma i più ardimentosi resistono, si organizzano, si sistemano: sorgono così le prime embrionali formazioni, le «bande». Nelle zone di Colfiorito, di Camerino, nell’alta valle del Nera, lungo le strade nazionali che da Macerata vanno a Foligno e ad Ascoli Piceno, sorgono i primi raggruppamenti di «sbandati» dell’Umbria e delle Marche. Ne prendono l’iniziativa operai di Terni, assieme ad un centinaio di prigionieri montenegrini fuggiti dalla Rocca di Spoleto. Da Foligno, parte un gruppo di giovani ufficiali e di operai comunisti ai quali si aggiungono altri prigionieri montenegrini del campo di Colfiorito. A Macerata e in altre città e paesi della regione si hanno iniziative analoghe. In Toscana, gli «sbandati» si raccolgono inizialmente sulle pendici del Monte Amiata, del Pratomagno e nel Chianti. La Maremma e le montagne pistoiesi ospitano pure soldati e civili fuggiaschi. I più arditi cercano rifugio nella stessa città di Firenze, vi si organizzano sotto la direzione dei partiti antifascisti, alimentano subito un’intensa attività di diffusione di stampa illegale che, sotto la direzione dei comunisti, si trasformerà presto in decisa azione sabotatrice e gappista. Ma è nel nord che la fuga verso la montagna raggiunge un insieme più vasto e presenta tratti di più decisa coscienza e volontà antifasciste. Le vallate degli Appennini e delle Alpi che salgono a raggiera dai popolosi centri della Pianura Padana offrono sicure promesse di rifugio e di solidarietà. Da Rimini, da Cesena, da Forlì i primi gruppi di giovani e di anziani salgono verso le alte valli dell’Appennino emiliano. Pieve di Rivoschio è la base del primo e decisivo nucleo di «sbandati» e diviene poi il campo per i contatti e le prime scaramucce con il nemico. Nella zona che comprende la vallata del Santerno e le colline marginali tra Imola e Casalfiumese, riparano alcuni nuclei della «Guardia nazionale», costituitasi durante le giornate dell’armistizio. Vanno a raccogliere e a nascondere le armi abbandonate dall’Esercito. Fatti analoghi si hanno nell’Appennino bolognese, modenese, reggiano, mentre nelle città gruppi di animosi intessono attorno ai CLN i primi elementi di un’organizzazione militare. Da Parma, da Piacenza, i volonterosi salgono verso Bardi, verso Bedonia, verso Ottone, s’incontrano con altri che salgono dalle vallate apuane e liguri. Tra questi animosi corre voce che fra quelle rocce e quei picchi si sta costituendo niente di meno che «un esercito per liberare l’Italia». Vi accorrono a portare il proprio braccio e il proprio entusiasmo. Si installano in casolari abbandonati, appollaiati su dossi che si ritengono inaccessibili. Arrivano prigionieri alleati. Non ci si capisce, ma si fraternizza lo stesso. Si aspetta, non si sa bene che cosa. Arrivano i delegati del CLN e dei partiti. Si avanzano richieste, si ricevono promesse; intanto i contadini del luogo provvedono ai bisogni più urgenti: chi la pentola, chi la scodella, chi un cucchiaio, una coperta, della paglia; poi, farina, patate… Arrivano intanto degli organizzatori, dei graduati, qualche ufficiale. Si fissano le responsabilità, si distribuiscono i compiti, si organizza la vita, si incomincia anche a pensare alla difesa: in una parola si gettano le basi delle prime unità partigiane. È quello che avviene nelle Alpi lombarde, nelle vallate del Bresciano, del Bergamasco, sulle sponde del lago di Como, del lago Maggiore: San Martino, le Grigne, Pian del Tivano sono i
punti di maggiore attrazione, dove affluiscono i residui della «Guardia nazionale» che era stata costituita, nei giorni dell’armistizio, per difendere, insieme all’Esercito contro i tedeschi, la nostra libertà e indipendenza nazionale. In Piemonte, la Val d’Ossola, la Val Sesia, le valli del Biellese pullulano di soldati e di civili sbandati. Un Comitato valsesiano di resistenza organizza l’afflusso e la sistemazione di questi uomini. Moscatelli si rifugia sull’Alpe Piana di Cervarolo con i suoi primi 22 seguaci, quasi tutti di Varallo. Il capitano Beltrami accetta con entusiasmo il comando che gli offrono 12 ragazzi rifugiati sopra Quarna, presso il lago d’Orta. Nei Santuari del Biellese si sono rifugiati ufficiali e soldati che aspettano; ma giovani montanari e operai tessili salgono dalle vallate con più precisi propositi di lotta. In tutta la cerchia di valli, che, da quella d’Aosta a quella del Po, circondano Torino, vi è uguale fermento di uomini e di propositi. «Da Cuneo partì per la montagna Galimberti insieme ad alcuni suoi compagni del movimento “Giustizia e Libertà”. In Val di Po e presso Borgo S. Dalmazzo, “Barbatu” e Barale, comunisti, costituirono i primi nuclei e in Val Josina, Dunchi, maestro, antifascista degli ufficiali alpini, condusse la sua banda. Accanto a questi e confortati dal loro esempio si formarono altri piccoli centri». Sull’Appennino ligure e piemontese, in Val Pesio, lungo le vallate del Tanaro e della Bormida, nell’Acquese e nel Novese confluiscono gli «sbandati» delle regioni circostanti. Anche le Langhe ospitano le prime bande e in Val Cerrina, nel Monferrato, appare quello che è forse il primo foglio di agitazione partigiana. Ma, evidentemente, questo imponente movimento verso la montagna alimentato soprattutto dagli operai e dai lavoratori di Torino e di tutti i centri piemontesi e, in particolare, dai soldati della 4ª Armata che, dalla Francia, rientra in patria e che, per l’ignavia dei suoi comandanti, si sbanda – non può lasciare indifferenti i tedeschi. Subito dopo l’armistizio, il Piemonte conosce, per primo, le feroci rappresaglie tedesche. Già il 18 settembre le SS, per vendicare alcuni commilitoni caduti prigionieri qualche giorno avanti, compiono quello che nella storia dolorosa d’Italia sarà ricordato come il «massacro di Boves». La cittadina piemontese fu messa a ferro e a fuoco, 57 innocenti tra la popolazione civile trovarono morte orribile, quattrocentodiciassette case furono date alle fiamme, il parroco don Bernardi venne bruciato vivo e un altro sacerdote, don Ghibaudo, mitragliato e poi pugnalato mentre arrecava soccorso ai feriti. Fu, quella, l’introduzione all’attività sanguinosa e proditoria che le SS avrebbero poi svolto in Italia fino agli ultimi giorni del loro dominio. Avvenimenti come quello di Boves operavano sull’animo dei fuggiaschi come un’iniezione di rabbia e un chiarimento degli obbiettivi da porsi. Tuttavia, la lotta che qua e là cominciava ad accendersi era ancora lotta per la salvezza personale; ci si difendeva per conservare un posto sicuro, al riparo dalle razzie e dalle incursioni: e qualche volta si effettuava qualche colpo di mano per procurarsi armi e quindi rendere più impenetrabile il rifugio. Solo nel Veneto, fin dai primi giorni, nelle regioni che confinavano coi territori controllati dai partigiani sloveni, la resistenza ebbe un carattere attivo e offensivo: e se ne capisce facilmente il perché. Nulla di particolare da segnalare sulla situazione che si crea dopo l’armistizio nella zona di Schio e nei boschi del Grappa dove compaiono i primi gruppi di «sbandati». Anche nel Trentino e nella Carnia, come altrove, i giovani si danno alla macchia soprattutto per sottrarsi al reclutamento forzato. Ma nelle zone ad immediato contatto con le formazioni slovene si verificò subito, fin dall’8 settembre, un fortissimo afflusso di operai e di contadini verso la montagna. la vicinanza dei battaglioni di partigiani
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stata costituita, nei giorni dell’armistizio, per difendere, insieme all’Esercito contro i<br />
tedeschi, la nostra libertà e indipendenza nazionale.<br />
In Piemonte, la Val d’Ossola, la Val Sesia, le valli del Biellese pullulano di soldati e di civili<br />
sbandati. Un Comitato valsesiano di resistenza organizza l’afflusso e la sistemazione di<br />
questi uomini. Moscatelli si rifugia sull’Alpe Piana di Cervarolo con i suoi primi 22 seguaci,<br />
quasi tutti di Varallo. Il capitano Beltrami accetta con entusiasmo il comando che gli<br />
offrono 12 ragazzi rifugiati sopra Quarna, presso il lago d’Orta. Nei Santuari del Biellese si<br />
sono rifugiati ufficiali e soldati che aspettano; ma giovani montanari e operai tessili<br />
salgono dalle vallate con più precisi propositi di lotta. In tutta la cerchia di valli, che, da<br />
quella d’Aosta a quella del Po, circondano Torino, vi è uguale fermento di uomini e di<br />
propositi.<br />
«Da Cuneo partì per la montagna Galimberti insieme ad alcuni suoi compagni del<br />
movimento “Giustizia e Libertà”. In Val di Po e presso Borgo S. Dalmazzo, “Barbatu” e<br />
Barale, comunisti, costituirono i primi nuclei e in Val Josina, Dunchi, maestro, antifascista<br />
degli ufficiali alpini, condusse la sua banda. Accanto a questi e confortati dal loro esempio<br />
si formarono altri piccoli centri».<br />
Sull’Appennino ligure e piemontese, in Val Pesio, lungo le vallate del Tanaro e della<br />
Bormida, nell’Acquese e nel Novese confluiscono gli «sbandati» delle regioni circostanti.<br />
Anche le Langhe ospitano le prime bande e in Val Cerrina, nel Monferrato, appare quello<br />
che è forse il primo foglio di agitazione partigiana.<br />
Ma, evidentemente, questo imponente movimento verso la montagna alimentato<br />
soprattutto dagli operai e dai lavoratori di Torino e di tutti i centri piemontesi e, in<br />
particolare, dai soldati della 4ª Armata che, dalla Francia, rientra in patria e che, per<br />
l’ignavia dei suoi comandanti, si sbanda – non può lasciare indifferenti i tedeschi. Subito<br />
dopo l’armistizio, il Piemonte conosce, per primo, le feroci rappresaglie tedesche. Già il 18<br />
settembre le SS, per vendicare alcuni commilitoni caduti prigionieri qualche giorno avanti,<br />
compiono quello che nella storia dolorosa d’Italia sarà ricordato come il «massacro di<br />
Boves». La cittadina piemontese fu messa a ferro e a fuoco, 57 innocenti tra la<br />
popolazione civile trovarono morte orribile, quattrocentodiciassette case furono date alle<br />
fiamme, il parroco don Bernardi venne bruciato vivo e un altro sacerdote, don Ghibaudo,<br />
mitragliato e poi pugnalato mentre arrecava soccorso ai feriti. Fu, quella, l’introduzione<br />
all’attività sanguinosa e proditoria che le SS avrebbero poi svolto in Italia fino agli ultimi<br />
giorni del loro dominio.<br />
Avvenimenti come quello di Boves operavano sull’animo dei fuggiaschi come un’iniezione<br />
di rabbia e un chiarimento degli obbiettivi da porsi. Tuttavia, la lotta che qua e là<br />
cominciava ad accendersi era ancora lotta per la salvezza personale; ci si difendeva per<br />
conservare un posto sicuro, al riparo dalle razzie e dalle incursioni: e qualche volta si<br />
effettuava qualche colpo di mano per procurarsi armi e quindi rendere più impenetrabile il<br />
rifugio.<br />
Solo nel Veneto, fin dai primi giorni, nelle regioni che confinavano coi territori controllati<br />
dai partigiani sloveni, la resistenza ebbe un carattere attivo e offensivo: e se ne capisce<br />
facilmente il perché. Nulla di particolare da segnalare sulla situazione che si crea dopo<br />
l’armistizio nella zona di Schio e nei boschi del Grappa dove compaiono i primi gruppi di<br />
«sbandati». Anche nel Trentino e nella Carnia, come altrove, i giovani si danno alla<br />
macchia soprattutto per sottrarsi al reclutamento forzato. Ma nelle zone ad immediato<br />
contatto con le formazioni slovene si verificò subito, fin dall’8 settembre, un fortissimo<br />
afflusso di operai e di contadini verso la montagna. la vicinanza dei battaglioni di partigiani