SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea
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Il duce era stato liberato dai paracadutisti del generale Student alle 14 del 12 settembre, sul Gran Sasso. La sera stessa – era una domenica – uno Heinkel lo aveva trasportato dall’aeroporto di Pratica di Mare a Vienna. Nella notte Mussolini riceve la prima telefonata da Hitler. L’indomani – lunedì 13 settembre – il duce (le cui fattezze stanche e rassegnate ci sono state tramandate dagli obiettivi impietosi delle «Propaganda Staffeln» naziste) viene trasportato a Monaco di Baviera. All’Hôtel Vierjahreszeiten già dal giorno 11 sono alloggiati la moglie Rachele e i figli più piccoli. Ancora un trasferimento, nella villa Hirschberg, messa a disposizione del duce con il trasparente scopo di sorvegliarlo da vicino, come avverrà – poi – nella villa Feltrinelli di Gargnano. Martedì 14 Mussolini si toglierà la voglia di volare, quand’anche ne avesse avuta: dopo il decollo mozzafiato dal Gran Sasso, dopo il lungo volo notturno fino a Vienna e quello più breve a Monaco. adesso la meta è lontana: Rastenburg, nella Prussia orientale, dove c’è la «tana del lupo», ossia il quartier generale di Hitler. Si svolge un mortificante colloquio col Führer che ostenta amicizia ma ha il tono del padrone e non lesina rimproveri; poi alle 19 di quello stesso giorno Mussolini ha il primo incontro con i fedelissimi. Sono cinque fra quelli che, nella confusione delle ore seguite all’arresto del duce, sono riusciti a mettersi sotto la protezione dei tedeschi che li hanno trasferiti in volo in Germania. Fino al giorno prima dell’incontro di Rastenburg, hanno alloggiato in un grande albergo di Monaco. Sono tutte mezze tacche del fascismo pre-25 luglio, tranne Roberto Farinacci: i faziosi toscani Alessandro Pavolini e Renato Ricci, i mangia ebrei Giovanni Preziosi e Telesio Interlandi, gli scialbi Attilio Teruzzi e Raffaele Riccardi, il pacioso cineasta Vittorio, figlio primogenito dei duce. I «cavalli di razza» del fascismo se li è divorati la notte del Gran Consiglio. I «fedelissimi» scalpitano dalla voglia di tornare in Italia (ma i tedeschi sono assai restii a dare il permesso) per fare un governo fascista; Mussolini è molto meno entusiasta. Per quanto stanco e provato, il duce non ha perso l’intuito politico; si rende conto di essere un burattino nelle mani di Hitler; figurarsi cosa sarà il governo che quel pugno di scalmanati ha in animo di mettere in piedi. E poi, dopo l’esperienza drammatica dell’ultima seduta del Gran Consiglio, Mussolini non si fida più; l’hanno informato che la maggior parte dei fascisti, in Italia, non ha intenzione di uscire allo scoperto. Anzi, pare che qualcuno – come Ezio Garibaldi e Leandro Arpinati – si stia schierando dall’altra parte della barricata. Comunque, nel pomeriggio del 15 settembre, Mussolini ha un altro colloquio con Hitler e forse l’oratoria torrenziale del Führer, anziché annoiarlo mortalmente come al solito, questa volta gli dà la carica. Fatto sta che la sera stessa la radio diffonde un breve annuncio: «Benito Mussolini ha ripreso oggi la direzione del fascismo in Italia». Segue la nomina di Pavoiini a segretario del ricostituito partito fascista – repubblicano, anzi, come poi lo soprannominerà con fortuna Umberto Calosso da Radio Londra, «repubblichino» – e la nomina di Renato Ricci a comandante della Milizia. La decisione di formare un governo fascista a Roma non è stata raggiunta facilmente: i militari tedeschi sono nettamente contrari, preferirebbero la soluzione del controllo diretto della Wehrmacht sull’Italia occupata; il Führer ha ceduto alle pressioni di Mussolini che a sua volta ha ceduto – a malincuore, come si è detto – a quelle dei «fedelissimi». Il 17 settembre il duce torna a Monaco. Il giorno successivo finalmente Pavolini ottiene il permesso dai tedeschi di rientrare a Roma. Ma non è solo: gli è accanto l’ambasciatore Rudolf Rahn, da quel momento occhio vigile di Hitler su quella repubblica fascista che si annuncia come una sicura fonte di guai piuttosto che una sicura alleata.
L’Italia settentrionale è in mano ai tedeschi Il Führer non ha la minima fiducia nel nuovo fascismo e i fatti gli daranno ragione: perciò, oltre alla nomina di Rahn (10 settembre) come suo plenipotenziario politico, si affretta a convalidare la nomina propostagli da Himmler: quella di Karl Wolff, generale delle SS, a capo della polizia nell’Italia occupata. Da questo momento, in Italia, vi saranno tre proconsoii nazisti: Rahn, Wolff e il maresciallo Kesselring. Il primo si sistema provvisoriamente nell’ambasciata tedesca a Roma. il secondo all’Hôtel San Lorenzo di Verona. il terzo si appresta a spostare il suo quartier generale da Frascati a Recoaro, nel Veneto: conferma del fatto che i tedeschi già nella seconda metà di settembre prevedevano l’arretramento a nord. Inoltre Hitler istituisce i «Gau» del Voralpenland (Alto Adige) e dell’Adriatische Künstenland (Litorale Adriatico) che diventano così – volente o no Mussolini – parte integrante del Terzo Reich. Il 20 e il 21 settembre il duce è ancora a Monaco, assediato dalle due più emerite suocere del neofascismo: Roberto Farinacci e Giovanni Preziosi. Mussolini li ha in antipatia ma non può cacciarli fuori dai piedi, come vorrebbe, perché sono protetti dai tedeschi. Farinacci rovescia torrenti di accuse contro tutti gli altri fascisti e non risparmia rimproveri a Mussolini; Preziosi, prete spretato, lo perseguita con il suo antisemitismo ossessivo. Intanto a Roma Pavolini si è insediato a Palazzo Wedekind e per quattro giorni si agita forsennatamente per formare un governo. L’impresa si annuncia tutt’altro che facile; tranne qualche assetato di vendetta e di potere, in genere gli interpellati declinano l’invito. Tra questi ci sono il padre del futurismo, F.T. Marinetti, e l’ultimo segretario del PNF, Scorza. Di tutti i diplomatici, solamente Filippo Anfuso si è dichiarato disponibile; allora Pavolini ha la bella pensata di convocare uno sconosciuto console della Milizia, certo Giuriati (da non confondere con Giovanni Giuriati, ex segretario del Partito Nazionale Fascista), mandandolo a prelevare da una pattuglia di SS. Il Giuriati, con notevole coraggio, rifiuta. Meno coraggioso, il conte Serafino Mazzolini, funzionario del ministero, accetta con riluttanza di fare da sottosegretario a Mussolini, che sarà il titolare degli Esteri. Occorre poi un militare, che cerchi di raccattare i cocci delle forze armate per farne una specie di nuovo esercito. I tedeschi non sono d’accordo sull’idea in sé, ma comunque l’unico capo che gradiscono è il fedelissimo (a loro) maresciallo Cavallero. Peccato che sia morto, per un colpo di pistola, il 13 settembre, nel giardino della villa di Frascati dov’era il quartier generale di Kesselring. Rimane il maresciallo Graziani. L’Oberkommando der Wehrmacht lo considera per quello che è: un trombone inetto; tale peraltro è anche l’opinione degli ambienti militari italiani che al maresciallo concedono una unica attenuante: il morso di un serpente velenoso in Eritrea, che forse ha lasciato tracce indelebili nel suo sistema nervoso. Eppure è proprio su Rodolfo Graziani che punta Pavolini, per la buona ragione che è l’unico sulla piazza il cui nome può, in qualche modo, fare da contraltare a Badoglio. Inopinatamente Graziani respinge l’offerta. Ma il «missus dominicus» di Pavolini, Francesco Barracu, medaglia d’oro, trova il tasto giusto per convincere il riluttante maresciallo. Gli dice chiaro e tondo: «Se Vostra Eccellenza rifiuta, si dirà che ha avuto paura». Probabilmente è la pura verità: in Africa settentrionale Graziani ha dato vergognose prove di codardia. La «frustata» di Barracu lo induce a dire di sì. Scrive lo storico Deakin: «Graziani accettò la sfida. Il tempo passava veloce. Rahn aveva già comunicato ai ministri italiani designati che l’annuncio pubblico del nuovo governo sarebbe, stato trasmesso a mezzogiorno (del 23 settembre). Erano le 11.30. Graziani trovò Rahn e il comandante delle SS, Wolff, che lo aspettavano. Rahn gli disse […] che se con il suo prestigio non era
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sul Gran Sasso. La sera stessa – era una domenica – uno Heinkel lo aveva trasportato<br />
dall’aeroporto di Pratica di Mare a Vienna. Nella notte Mussolini riceve la prima telefonata<br />
da Hitler. L’indomani – lunedì 13 settembre – il duce (le cui fattezze stanche e rassegnate<br />
ci sono state tramandate dagli obiettivi impietosi delle «Propaganda Staffeln» naziste)<br />
viene trasportato a Monaco di Baviera. All’Hôtel Vierjahreszeiten già dal giorno 11 sono<br />
alloggiati la moglie Rachele e i figli più piccoli. Ancora un trasferimento, nella villa<br />
Hirschberg, messa a disposizione del duce con il trasparente scopo di sorvegliarlo da<br />
vicino, come avverrà – poi – nella villa Feltrinelli di Gargnano. Martedì 14 Mussolini si<br />
toglierà la voglia di volare, quand’anche ne avesse avuta: dopo il decollo mozzafiato dal<br />
Gran Sasso, dopo il lungo volo notturno fino a Vienna e quello più breve a Monaco. adesso<br />
la meta è lontana: Rastenburg, nella Prussia orientale, dove c’è la «tana del lupo», ossia il<br />
quartier generale di Hitler. Si svolge un mortificante colloquio col Führer che ostenta<br />
amicizia ma ha il tono del padrone e non lesina rimproveri; poi alle 19 di quello stesso<br />
giorno Mussolini ha il primo incontro con i fedelissimi.<br />
Sono cinque fra quelli che, nella confusione delle ore seguite all’arresto del duce, sono<br />
riusciti a mettersi sotto la protezione dei tedeschi che li hanno trasferiti in volo in<br />
Germania. Fino al giorno prima dell’incontro di Rastenburg, hanno alloggiato in un grande<br />
albergo di Monaco. Sono tutte mezze tacche del fascismo pre-25 luglio, tranne Roberto<br />
Farinacci: i faziosi toscani Alessandro Pavolini e Renato Ricci, i mangia ebrei Giovanni<br />
Preziosi e Telesio Interlandi, gli scialbi Attilio Teruzzi e Raffaele Riccardi, il pacioso cineasta<br />
Vittorio, figlio primogenito dei duce. I «cavalli di razza» del fascismo se li è divorati la<br />
notte del Gran Consiglio. I «fedelissimi» scalpitano dalla voglia di tornare in Italia (ma i<br />
tedeschi sono assai restii a dare il permesso) per fare un governo fascista; Mussolini è<br />
molto meno entusiasta.<br />
Per quanto stanco e provato, il duce non ha perso l’intuito politico; si rende conto di<br />
essere un burattino nelle mani di Hitler; figurarsi cosa sarà il governo che quel pugno di<br />
scalmanati ha in animo di mettere in piedi. E poi, dopo l’esperienza drammatica dell’ultima<br />
seduta del Gran Consiglio, Mussolini non si fida più; l’hanno informato che la maggior<br />
parte dei fascisti, in Italia, non ha intenzione di uscire allo scoperto. Anzi, pare che<br />
qualcuno – come Ezio Garibaldi e Leandro Arpinati – si stia schierando dall’altra parte della<br />
barricata. Comunque, nel pomeriggio del 15 settembre, Mussolini ha un altro colloquio con<br />
Hitler e forse l’oratoria torrenziale del Führer, anziché annoiarlo mortalmente come al<br />
solito, questa volta gli dà la carica. Fatto sta che la sera stessa la radio diffonde un breve<br />
annuncio: «Benito Mussolini ha ripreso oggi la direzione del fascismo in Italia». Segue la<br />
nomina di Pavoiini a segretario del ricostituito partito fascista – repubblicano, anzi, come<br />
poi lo soprannominerà con fortuna Umberto Calosso da Radio Londra, «repubblichino» – e<br />
la nomina di Renato Ricci a comandante della Milizia.<br />
La decisione di formare un governo fascista a Roma non è stata raggiunta facilmente: i<br />
militari tedeschi sono nettamente contrari, preferirebbero la soluzione del controllo diretto<br />
della Wehrmacht sull’Italia occupata; il Führer ha ceduto alle pressioni di Mussolini che a<br />
sua volta ha ceduto – a malincuore, come si è detto – a quelle dei «fedelissimi». Il 17<br />
settembre il duce torna a Monaco. Il giorno successivo finalmente Pavolini ottiene il<br />
permesso dai tedeschi di rientrare a Roma. Ma non è solo: gli è accanto l’ambasciatore<br />
Rudolf Rahn, da quel momento occhio vigile di Hitler su quella repubblica fascista che si<br />
annuncia come una sicura fonte di guai piuttosto che una sicura alleata.