SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea

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20.05.2013 Views

alle Fosse Ardeatine, fa tutto: recluta partigiani, coordina bande, ma soprattutto impianta un servizio d’informazioni di prim’ordine, conscio del fatto che, se il movimento partigiano interpreta giustamente la volontà di riscatto di un intero popolo, per gli Alleati – che in Italia combattono una guerra, non una guerriglia – un buon lavoro di «intelligence» è l’apporto più apprezzato. La pluralità politica della Resistenza Questo è dunque il panorama delle prime settimane della Resistenza, naturalmente un po’ confuso, in cui emerge l’improvvisazione, talvolta la sventatezza temeraria ed eroica, la mancanza di coordinamento, l’ingenuità. Salvadori fa notare che, di tutti i paesi invasi dalle forze di Hitler, solo in Italia si è passati immediatamente dalla occupazione alla Resistenza; decisione che altrove è stata più lenta. E aggiunge che, insieme con quella jugoslava, la resistenza italiana fu la meglio organizzata e anche la più unita, malgrado le critiche a posteriori che qualcuno (compreso l’ottimo partigiano Fermo Solari) ha fatto alla «armonia discutibile» di essa, malgrado l’insorgere pressoché inevitabile di attriti nel corso della lotta. La politicizzazione delle unità partigiane, nei tempi successivi, sarà un fenomeno naturale, considerato che nella lotta armata si trasferiscono le coloriture politiche proprie di una collettività che riscopre la democrazia e la pluralità ideologica. Tranne quelle che riuscirono a restare ostinatamente autonome, le formazioni partigiane assumeranno, nel seguito del tempo, denominazioni che le identificano secondo la loro coloritura politica: «giellisti» i ribelli organizzati dal Partito d’azione, «garibaldini» quelli organizzati dai comunisti, «brigate del popolo» le unità ad ispirazione cattolico-democristiana, «Mazzini» quelle repubblicane, «Matteotti» quelle socialiste. Nella realtà, nessuno chiede agli uomini che le compongono adesione alla bandiera politica di cui ogni brigata si fregia; la maggior parte dei garibaldini non sono comunisti, nelle «brigate del popolo» non tutti sono cattolici, non ci sono tessere del P.d’A. nelle tasche della più parte dei «giellisti», e così via. L’unità della Resistenza si realizza così anche nell’interno delle unità partigiane, sebbene non possa essere sottaciuto l’evidente tentativo delle forze politiche di accumulare un credito di meriti resistenziale da gettare poi sul tavolo della competizione politica. Alla vigilia dell’inverno 1943-44 il movimento partigiano ha preso una fisionomia che si può dire definitiva per quanto riguarda la colorazione politica: nel centro Italia due terzi delle forze in montagna sono «gestiti» dai politici: per un terzo restano di carattere rigorosamente militare, apolitico; nel Nord Italia invece la proporzione è di tre quarti a uno; quanto alle unità partigiane in città, si può dire che per metà sono controllate dal PCI e per metà dalle altre forze politiche. Secondo Max Salvadori, già ai primi del 1944 e fino alla liberazione, l’affiliazione delle bande poteva essere così suddivisa: 35-40% «Garibaldi»; 35-40% brigate «GL», del Popolo, «Matteotti» e «Mazzini» sommate insieme; 15-20% autonomi e militari. Altri due storici (Giorgio Bocca e Roberto Battaglia) sono d’accordo nel tracciare una grande suddivisione tra le élites che sono protagoniste della fondazione della Resistenza: comunisti e borghesi. Sembra però una diagnosi piuttosto ovvia, visto che «tertium non datur». Quali altre élites esistevano, in Italia? Inoltre si potrebbe osservare che il confronto è improprio: quasi tutti i comunisti «fondatori» della Resistenza appartenevano alla borghesia, pochissimi erano quelli di estrazione operaia. In realtà, la fase iniziale della Resistenza è dovuta ad un impulso che non conosce differenze

di classi sociali, anzi le comprende tutte. Le bande che si formano all’indomani dell’armistizio riuniscono anche contadini e montanari; a meno che non si voglia escluderli dal merito di una scelta giusta ma tanto difficile, anch’essi fanno parte delle élites. Se per élites si intendono invece coloro che assunsero il comando, allora il giudizio è esatto perché capi delle bande furono tutti o comunisti o borghesi. Ma ci sembra una interpretazione restrittiva e iniqua del concetto di élite applicato a quei primi gruppi di «ribelli». L’altra scelta: il neofascismo Dopo l’8 settembre, per coloro che avevano preso la via della montagna, il nemico era l’esercito nazista: non solo perché il capovolgimento di fronte dell’Italia era chiaro, ma anche perché bisognava difendersi dalle spoliazioni metodiche dei tedeschi e soprattutto dall’internamento in Germania. Però l’illusione di avere a che fare con un solo nemico durò pochi giorni, in qualche caso poche ore: i fascisti tornavano alla ribalta. Alle 10.30 del 9 settembre, a Bologna, Franz Pagliani e Goffredo Coppola riaprono gli uffici della federazione fascista. Il giorno 10 a Trieste Idreno Uttimperghe caccia Silvio Benco dalla direzione del Piccolo e si insedia nel palazzo della federazione del PNF. A Verona due «neri» molto noti riaprono la sede del partito il giorno 11: sono Asvero Gravelli e Piero Cosmin, quest’ultimo un ex ufficiale della marina mercantile, già agente dell’OVRA. La federazione di Padova riprende a funzionare il 12. Suppergiù negli stessi giorni i fascisti escono dalle catacombe in quasi tutte le città dell’Italia controllata dalla Wehrmacht. Il 12 settembre a Padova si forma un triumvirato neofascista; a Roma ricompaiono due vecchi arnesi dello squadrismo, Bardi e Pollastrini; a Firenze si ricostituisce la 92ª Legione della MVSN; a Como si autonomina federale Carlo Porta e provocatoriamente fa sfilare i primi manipoli che prendono a schiaffi i passanti; a Cuneo un certo Dino Ronza, grigio «travet» della burocrazia, diventa uomo di punta del risorto fascismo; a Siena un medico timido e con spesse lenti da miope si mette alla testa del neofascismo: è Giovanni Brugi, professore di anatomia. È una curiosa mescolanza di personaggi, dunque: dal vecchio squadrista carico di rancori, emarginato anche dal fascismo nel periodo d’oro e ora pronto alla vendetta, al riformato di leva che forse vede la grande occasione per vestire quei panni d’eroe che la deficienza toracica gli aveva inibito; dal principe amante del «beau geste», come Junio Valerio Borghese che nel ventennio non era mai stato fascista di punta, all’ex comunista Nicola Bombacci e all’ex socialista Carlo Silvestri le cui contorte personalità avrebbero meritato l’attenzione dello psicoanalista. E così via. «Il primo neofascismo», scrive Bocca, «come la prima Resistenza, ha una motivazione soggettiva, risponde per la maggioranza alle scelte della ragione individuale o del cuore. Ma per alcuni è un richiamo istintivo, nella fazione neofascista si specchia, si riconosce quell’anima italiana che protesta in modo autolesionista e che testimonia con disperazione». E che di autolesionismo si tratti non c’è dubbio: alla fine del 1943 chiunque abbia un grammo di cervello non può non essere convinto almeno di due cose: che il fascismo è morto il 25 luglio e che la Germania ha già perso la guerra. Persino Mussolini ne è convinto. All’ammiraglio Maugeri, che il 7 agosto lo portava da Ponza alla Maddalena, Mussolini aveva detto: «Io sono politicamente defunto… il mio sistema è disfatto, la mia caduta definitiva».

alle Fosse Ardeatine, fa tutto: recluta partigiani, coordina bande, ma soprattutto impianta<br />

un servizio d’informazioni di prim’ordine, conscio del fatto che, se il movimento partigiano<br />

interpreta giustamente la volontà di riscatto di un intero popolo, per gli Alleati – che in<br />

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Questo è dunque il panorama delle prime settimane della Resistenza, naturalmente un po’<br />

confuso, in cui emerge l’improvvisazione, talvolta la sventatezza temeraria ed eroica, la<br />

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Salvadori fa notare che, di tutti i paesi invasi dalle forze di Hitler, solo in Italia si è passati<br />

immediatamente dalla occupazione alla Resistenza; decisione che altrove è stata più lenta.<br />

E aggiunge che, insieme con quella jugoslava, la resistenza italiana fu la meglio<br />

organizzata e anche la più unita, malgrado le critiche a posteriori che qualcuno (compreso<br />

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La politicizzazione delle unità partigiane, nei tempi successivi, sarà un fenomeno naturale,<br />

considerato che nella lotta armata si trasferiscono le coloriture politiche proprie di una<br />

collettività che riscopre la democrazia e la pluralità ideologica. Tranne quelle che riuscirono<br />

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ribelli organizzati dal Partito d’azione, «garibaldini» quelli organizzati dai comunisti,<br />

«brigate del popolo» le unità ad ispirazione cattolico-democristiana, «Mazzini» quelle<br />

repubblicane, «Matteotti» quelle socialiste.<br />

Nella realtà, nessuno chiede agli uomini che le compongono adesione alla bandiera politica<br />

di cui ogni brigata si fregia; la maggior parte dei garibaldini non sono comunisti, nelle<br />

«brigate del popolo» non tutti sono cattolici, non ci sono tessere del P.d’A. nelle tasche<br />

della più parte dei «giellisti», e così via. L’unità della Resistenza si realizza così anche<br />

nell’interno delle unità partigiane, sebbene non possa essere sottaciuto l’evidente tentativo<br />

delle forze politiche di accumulare un credito di meriti resistenziale da gettare poi sul<br />

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Alla vigilia dell’inverno 1943-44 il movimento partigiano ha preso una fisionomia che si può<br />

dire definitiva per quanto riguarda la colorazione politica: nel centro Italia due terzi delle<br />

forze in montagna sono «gestiti» dai politici: per un terzo restano di carattere<br />

rigorosamente militare, apolitico; nel Nord Italia invece la proporzione è di tre quarti a<br />

uno; quanto alle unità partigiane in città, si può dire che per metà sono controllate dal PCI<br />

e per metà dalle altre forze politiche. Secondo Max Salvadori, già ai primi del 1944 e fino<br />

alla liberazione, l’affiliazione delle bande poteva essere così suddivisa: 35-40%<br />

«Garibaldi»; 35-40% brigate «GL», del Popolo, «Matteotti» e «Mazzini» sommate insieme;<br />

15-20% autonomi e militari. Altri due storici (Giorgio Bocca e Roberto Battaglia) sono<br />

d’accordo nel tracciare una grande suddivisione tra le élites che sono protagoniste della<br />

fondazione della Resistenza: comunisti e borghesi. Sembra però una diagnosi piuttosto<br />

ovvia, visto che «tertium non datur». Quali altre élites esistevano, in Italia? Inoltre si<br />

potrebbe osservare che il confronto è improprio: quasi tutti i comunisti «fondatori» della<br />

Resistenza appartenevano alla borghesia, pochissimi erano quelli di estrazione operaia. In<br />

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