SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea

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20.05.2013 Views

coscienza politica nella generazione plasmata dal regime; molti anziani, di quelli che già erano stati impegnati politicamente prima dell’avvento di Mussolini. Il ruolo degli Alpini Come dice Max Salvadori (uomo di cultura italo-inglese, antifascista di vecchia data, professore universitario, ma anche negli anni di cui si parla tenente colonnello del britannico Special Operations Executive, il SOE), «per comprendere quello che avvenne in centinaia di località durante le prime settimane che seguirono l’armistizio, in cui vennero gettate le basi del movimento partigiano, basta citare alcuni esempi». Piemonte, Lombardia, Liguria, Veneto sono il naturale habitat in cui proliferano le bande; in misura minore, il Centro-Sud. Anche questo fenomeno ha le sue ragioni; l’esistenza di grosse unità del disciolto Regio Esercito nel Settentrione, la tradizione risorgimentale di lotta antitedesca nel Lombardo-Veneto, la convinzione che la liberazione del Centro-Sud da parte degli anglo-americani è questione di giorni o al massimo di settimane. E poi al Nord ci sono gli alpini. «Gli alpini», è sempre Salvadori che parla, «costituiscono un capitolo a parte… essi avevano costituito subito dopo l’armistizio nuclei di bande. Reparti della divisione “Tridentina” si erano scontrati il 9 settembre con i tedeschi che cercavano di farli prigionieri; fra quelli che sfuggirono alla cattura vi erano ufficiali e soldati che, invece di starsene a casa, andarono sui monti. Lo stesso fecero alpini di altri reggimenti». Per queste truppe di montagna, forse le migliori di cui disponesse l’esercito italiano nonostante la mediocrità dell’armamento e dell’equipaggiamento, il tipo di lotta che si preannunciava era quello più congeniale; in mezzo alle «sue» montagne, conosciute in ogni anfratto, nelle valli dove la solidarietà della popolazione è sicura perché il partigiano è in famiglia (vent’anni dopo vi sarà la teorizzazione del partigiano «pesce nell’acqua»), l’alpino è perfettamente a suo agio. Non solo, ma per la prima volta da quando è scoppiata la guerra, sente di combattere per una causa tanto elementare quanto giusta: pro aris et focis. Non importa se il comando è assunto da un militare o da un «politico», da un ufficiale di un’altra arma o da un reduce della Spagna repubblicana: il grosso della truppa è formato – almeno in questa prima fase, perché poi le file saranno ingrossate dai giovani di ogni provenienza – da ex appartenenti ai reggimenti alpini. Le bande piemontesi e lombardo-venete In Piemonte il maggiore degli alpini Enrico Martini Mauri forma una grossa banda che agisce nel Monferrato e nelle Langhe: si tratta di «autonomi», come poi sempre saranno definiti, in quanto non hanno né avranno colorazione politica. Così pure la banda costituita da un capitano di complemento di artiglieria, l’architetto Filippo Beltrami, in Val Strona, manterrà caratteri di autonomia politica, per quanto in contatto collaborativo con i comunisti. In Val d’Ossola due giovani fratelli, entrambi ufficiali effettivi, Alfredo e Antonio Di Dio, creano una banda che, dopo la loro morte, prenderà grosse dimensioni e si intitolerà al loro nome. Altri «autonomi» in Val Toce, sotto il comando di un sottotenente dei granatieri appena sfornato dall’Accademia di Modena, Eugenio Cefis, e di un sottotenente di artiglieria alpina, Giovanni Marcora.

Nella Valle d’Aosta è un ex sergente maggiore della Scuola militare di Alpinismo, Celestino Perron detto «Tito», che raccoglie attorno a sé un gruppo di partigiani. A pochi chilometri da Torino, in Val Susa e in Val Chisone – nomi di gloriosi battaglioni alpini, cari al cuore di quelle genti – nascono altre bande. Alla Madonna del Colletto (a pochi chilometri da un paese che entrerà nel martirologio della Resistenza: Boves) salgono Livio Bianco e Duccio Galimberti, uomini del partito d’azione; e quella sarà una banda «Giustizia e Libertà». Nell’alta Valle del Po danno vita ad una formazione partigiana un ufficiale di cavalleria, Pompeo Colajanni, «Barbato», un antifascista appena uscito di galera, Gian Carlo Pajetta, e Antonio Giolitti, nipote dell’«uomo di Dronero»; tutti e tre si ritroveranno poi nel partito comunista. In Valsesia Vincenzo Moscatelli detto «Cino» mette insieme i primi partigiani di un gruppo destinato a svilupparsi in ben 4 divisioni. Nel Biellese un giovane comunista, Francesco Moranino, organizza un primo distaccamento Garibaldi. In Lombardia il tenente colonnello dei bersaglieri Carlo Croce si rinserra con un paio di centinaia di uomini nelle vecchie fortificazioni di monte San Martino, nel Varesotto, formando una banda romanticamente battezzata «Cinque Giornate». È una decisione coraggiosa ma anche militarmente sprovveduta. La concezione meramente difensiva è esattamente l’opposto dei canoni della guerriglia, che prevede estrema mobilità, grazie alla quale infliggere colpi improvvisi all’avversario e compensare l’inferiorità (infatti l’episodio di San Martino si concluderà tragicamente). Al Pizzo d’Erna, sotto il Resegone, nel Lecchese, si riuniscono molti operai, della zona e milanesi, e molti ex prigionieri alleati ben decisi a combattere; anche sulle Grigne si rifugiano alcune decine di partigiani. A nord di Erba, sui monti che sovrastano Bellagio, vi sono piccoli gruppi di armati, uno dei quali probabilmente è il primo che si sia formato in tutta la provincia di Como; lo comanda un giovane tenente degli alpini che ha con sé un altro giovane, destinato al martirio: Giancarlo Puecher. In Valtellina, terra di garibaldini e di alpini, Angelo Ponti addirittura apre gli arruolamenti per un battaglione di volontari; decisione un po’ ingenua che richiama l’attenzione dei fascisti e dei tedeschi; tuttavia è un seme che porterà frutti e la Valtellina darà anch’essa il suo contributo alla lotta di liberazione. Nel Bresciano, primi di tutti sono gli operai delle industrie belliche della Val Trompia a salire le pendici del monte Guglielmo, dove formano una banda. Poco dopo, per l’azione decisa di un generale degli alpini già noto come antifascista, Luigi Masini «Fiore» (che dopo la guerra sarà deputato socialista), nascono le «Fiamme Verdi»; inutile specificarne l’estrazione, così chiaramente denunciata dal nome: sono tutti alpini, soldati, sottufficiali e soldati delle valli bresciane e bergamasche: «Fiamme Verdi» infatti saranno la maggioranza delle bande di quella zona, e altre formeranno una divisione partigiana in Friuli, la «Osoppo». Nel Veneto nasce subito una brigata «Pisacane», nelle Prealpi bellunesi. Attivissimi in questa zona sono gli uomini del Partito d’azione, che formano bande «gielliste» come quella battezzata «Italia Libera», sul Grappa; quella formata da Antonio Giuriolo in Carnia; quelle raccolte da Fermo Solari, Alberto Cosattini e Carlo Comessatti a Faedis, Attinis e Nimis. Poi ci sono i garibaldini di Giacinto Calligaris. Nel Centro-Sud, per le ragioni già esposte, non si ha una pari proliferazione di bande, anche se molti sono coloro che prendono la via della montagna: ma sono più numerosi quelli che vogliono semplicemente sottrarsi alla cattura che quelli che vogliono combattere. Solo più tardi la Toscana darà un imponente contributo alla lotta; nei primi tempi c’è una banda comandata dal tenente Melis in Umbria, un gruppo sulle pendici del Gran Sasso, un altro gruppo sulla Majella alla testa del quale è l’avvocato Ettore Troilo; e infine a Roma nasce il Centro Militare, imperniato sulla straordinaria personalità del colonnello di Stato Maggiore Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo. Questo coraggioso ufficiale, che morirà

coscienza politica nella generazione plasmata dal regime; molti anziani, di quelli che già<br />

erano stati impegnati politicamente prima dell’avvento di Mussolini.<br />

Il ruolo degli Alpini<br />

Come dice Max Salvadori (uomo di cultura italo-inglese, antifascista di vecchia data,<br />

professore universitario, ma anche negli anni di cui si parla tenente colonnello del<br />

britannico Special Operations Executive, il SOE), «per comprendere quello che avvenne in<br />

centinaia di località durante le prime settimane che seguirono l’armistizio, in cui vennero<br />

gettate le basi del movimento partigiano, basta citare alcuni esempi». Piemonte,<br />

Lombardia, Liguria, Veneto sono il naturale habitat in cui proliferano le bande; in misura<br />

minore, il Centro-Sud. Anche questo fenomeno ha le sue ragioni; l’esistenza di grosse<br />

unità del disciolto Regio Esercito nel Settentrione, la tradizione risorgimentale di lotta<br />

antitedesca nel Lombardo-Veneto, la convinzione che la liberazione del Centro-Sud da<br />

parte degli anglo-americani è questione di giorni o al massimo di settimane. E poi al Nord<br />

ci sono gli alpini.<br />

«Gli alpini», è sempre Salvadori che parla, «costituiscono un capitolo a parte… essi<br />

avevano costituito subito dopo l’armistizio nuclei di bande. Reparti della divisione<br />

“Tridentina” si erano scontrati il 9 settembre con i tedeschi che cercavano di farli<br />

prigionieri; fra quelli che sfuggirono alla cattura vi erano ufficiali e soldati che, invece di<br />

starsene a casa, andarono sui monti. Lo stesso fecero alpini di altri reggimenti». Per<br />

queste truppe di montagna, forse le migliori di cui disponesse l’esercito italiano nonostante<br />

la mediocrità dell’armamento e dell’equipaggiamento, il tipo di lotta che si preannunciava<br />

era quello più congeniale; in mezzo alle «sue» montagne, conosciute in ogni anfratto,<br />

nelle valli dove la solidarietà della popolazione è sicura perché il partigiano è in famiglia<br />

(vent’anni dopo vi sarà la teorizzazione del partigiano «pesce nell’acqua»), l’alpino è<br />

perfettamente a suo agio. Non solo, ma per la prima volta da quando è scoppiata la<br />

guerra, sente di combattere per una causa tanto elementare quanto giusta: pro aris et<br />

focis. Non importa se il comando è assunto da un militare o da un «politico», da un<br />

ufficiale di un’altra arma o da un reduce della Spagna repubblicana: il grosso della truppa<br />

è formato – almeno in questa prima fase, perché poi le file saranno ingrossate dai giovani<br />

di ogni provenienza – da ex appartenenti ai reggimenti alpini.<br />

Le bande piemontesi e lombardo-venete<br />

In Piemonte il maggiore degli alpini Enrico Martini Mauri forma una grossa banda che<br />

agisce nel Monferrato e nelle Langhe: si tratta di «autonomi», come poi sempre saranno<br />

definiti, in quanto non hanno né avranno colorazione politica. Così pure la banda costituita<br />

da un capitano di complemento di artiglieria, l’architetto Filippo Beltrami, in Val Strona,<br />

manterrà caratteri di autonomia politica, per quanto in contatto collaborativo con i<br />

comunisti. In Val d’Ossola due giovani fratelli, entrambi ufficiali effettivi, Alfredo e Antonio<br />

Di Dio, creano una banda che, dopo la loro morte, prenderà grosse dimensioni e si<br />

intitolerà al loro nome. Altri «autonomi» in Val Toce, sotto il comando di un sottotenente<br />

dei granatieri appena sfornato dall’Accademia di Modena, Eugenio Cefis, e di un<br />

sottotenente di artiglieria alpina, Giovanni Marcora.

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